UNIVERSITA, IL MIUR PENSA AL RESTYLING - I RETTORI: CONCORSI DA RIVEDERE - PROFESSORI SENZA- CATTEDRA - SONO LE ULTIME BATTUTE DI UNA STORIA INGLORIOSA - CAGLIARI: IL GOVERNO VUOLE AFFOSSARE L’UNIVERSITÀ - I DOCENTI DELL' UNIVERSITÀ: LEZIONE CONTRO I TAGLI - COGITO ERGO PUBBLICO - IL MITO DELLA SCUOLA ELEMENTARE - MASTER L’ORA DEL RIORDINO - CALDIERA: LE BORSE DI STUDIO CON PIÙ CHANCE - UNA ROAD MAP TRA SCIENZA E FEDE - «SCIENCE»: LA PAURA È DI DESTRA CHI MANTIENE LA CALMA VOTA A SINISTRA - AI DOTTORANDI AUMENTI CONGELATI - INVESTIMENTI HI-TECH, ITALIA OFF-LIMITS ORMAI SIAMO AL 25°POSTO - I FONDI A PIOGGIA E LA BUONA RICERCA - NELL'ITALIA DEGLI SPRECHI I MORTI PRENDONO. LA PENSIONE - ======================================================= IL PREMIER: PRIVATIZZARE GLI OSPEDALI - LE PAGELLE ALL'ECM: INFERMIERI ENTUSIASTI, MEDICI FREDDI - EVOLUZIONE: IL NULLA CHE UNISCE - ROTELLI: SANITÀ, TAGLIARE GLI SPRECHI NON LE PRESTAZIONI - UN FESTIVAL PER CELEBRARE I 30 ANNI DEL SSN - EUROPA CON I CAPELLI BIANCHI MENO ABITANTI, 1 SU 3 OVER 65 - UN FONDO PER MEDICINE A BASSO COSTO - GLI ANIMALI GAY - L’ALCOLISMO È SCRITTO NEI GENI - CELIACHIA, LA SVOLTA DA UN SALERNITANO EMIGRATO NEGLI USA - LO PSICOLOGO A SCUOLA? ASSENTE - ======================================================= ________________________________________________________________________ Italia Oggi 26 set. ’08 UNIVERSITÀ', IL MIUR PENSA AL RESTYLING Lettera della Gelmini alla Crui e al Cun Governance di ateneo, reclutamento docenti, ma anche valutazione e diritto allo studio. È un'azione a tutto tondo quella su cui vuole mettere mano il ministro dell'istruzione, università e ricerca Mariastella Gelmini che, in una lettera inviata alla Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) e al Consiglio universitario nazionale (Cun), _ ha annunciato di voler procedere «nelle prossime settimane all'adozione di un piano programmatico che preveda le linee guida di riforma dell'università e della ricerca». Alla vigilia del nuovo anno accademico, quindi, il ministro sembra essersi ricordato anche dell'università e della ricerca definiti come «infrastrutture strategiche del paese», e chiede una mano ai suoi due organi consultivi invitandoli fin d'ora a iniziare riflessioni che saranno poi oggetto di una riforma complessa di sistema. Ed è proprio su questi temi che si è soffermata l'attenzione dell'assemblea della Crui di ieri che però, prima di tutto, è tornata sul problema dei tagli imposti dalla legge finanziaria. Perché se per il 2009la situazione potrebbe essere ancora sostenibile, per gli anni successivi e «in assenza di provvedimenti adeguati, ai ret tori non resterà che trarre le uniche conseguenze possibili e coerenti con le loro responsabilità di fronte ai rispettivi atenei e al paese». Una minaccia che si potrebbe tradurre in dimissioni in massa, blocco della didattica, ricorsi alla magistratura o altri provvedimenti. II tempo a disposizione, si legge ancora nel documento del Crui, è brevissimo e in questo modo gli atenei «non saranno in grado di chiudere in pareggio i propri bilanci, facendo fronte ai loro impegni didattici, scientifici e di servizio, già a partire dal 2010». Insomma i rettori chiedono 'al «governo e al parlamento in quale misura formazione e ricerca siano considerate strategiche per lo sviluppo e nello stesso tempo tracciano una rotta sulle maggiori criticità e urgenze». Prima fra tutte la governance degli atenei attualmente vincolata da una normativa superata e che, per i magnifici, va conseguentemente rivista in funzione di un coerente e rinnovato modello istituzionale, riconsiderando in tale prospettiva il complesso delle funzioni decisionali e la competizione dei vari organi. Tra le priorità la Crui individua, poi, le modalità di reclutamento della docenza ponendo fine «all'assurda situazione che vede una legge in vigore non applicata e riattivata invece una normativa già abrogata e sulla quale sono state già espresse forti riserve». Da rivedere poi il dottorato di ricerca nella prospettiva di un innalzamento degli standard richiesti per l'accreditamento delle relative scuole e il diritto allo studio rivedendo i criteri e le risorse assegnate insieme a un'adeguata offerta dei servizi. Infine l'annoso tema della valutazione di cui, per la Crui; è necessario riprenderne al più presto l’iter per misurare con omogeneità e trasparenza i risultati prodotti dai singoli atenei anche in vista di una conseguente attribuzione delle risorse. DI BENEDETTA P PACELLI ________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 set. ’08 I RETTORI: CONCORSI DA RIVEDERE Alessia Tripodi ROMA Gli atenei soffocati dai tagli potrebbero non riuscire più a pagare gli stipendi del personale. E in assenza di adeguati interventi, nel 2oio il sistema andrà al collasso e i rettori non potranno che «trarre le uniche conseguenze possibili e coerenti con le loro responsabilità di fronte alle rispettive università e al Paese». Puntuale all'appuntamento con la Finanziaria arriva il grido d'allarme della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane), che ieri ha approvato una mozione per denunciare lo stato di difficoltà e proporre al ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, una serie di interventi per «affrontare le maggiori criticità». Nuovo modello di reclutamento dei docenti, riforma della governance, attivazione di un efficace sistema nazionale di valutazione, revisione delle carriere dei prof con verifiche dell'attività svolta: sono solo alcune delle priorità indicate dai rettori nella mozione, nella quale si sollecita anche una revisione del dottorato di ricerca e del modello di attribuzione delle risorse alle università. Interventi che però, secondo la Crui, non sono realizzabili nel quadro descritto dalla manovra triennale approvata prima dell'estate e dalla Finanziaria appena presentata; che «per il 2010 - dice la mozione - prevede una diminuzione del Fondo di finanziamento ordinario addirittura di 700 milioni, cioè più del 10% dell'attuale Fondo, e tagli drastici alle università non statali». Una situazione «che renderà impossibile anche solo pagare le retribuzioni del personale», aggiungono i rettori, avvertendo che «il tempo a disposizione» per salvare il sistema «è brevissimo» e che «già dal 2oio gli atenei non saranno in grado di chiudere in pareggio i propri bilanci, facendo fronte ai loro impegni didattici, scientifici e di servizio». In vista del piano programmatico sull'università annunciato da Gelmini, la Crui ribadisce comunque il proprio «incondizionato impegno a operare per la riqualificazione dell'università» e si augura che il tavolo di consultazione attivato nei mesi scorsi presso il ministero «possa essere rapidamente chiamato a sviluppare proposte in vista di esiti rapidi ed efficaci». Ma, al momento, la questione più urgente resta la revisione della Finanziaria, che - per i rettori - deve garantire «la copertura degli incrementi retributivi automatici del personale», la «revisione della misura e della modalità del blocco sul turn over» e la «restituzione progressiva al sistema universitario delle risorse che verrebbero ricavate dai tagli previsti». «Abbiamo un anno di tempo e se c'è volontà da parte del Governo e del Parlamento possiamo fare un lavoro positivo» ha dichiarato il presidente della Crui, Enrico Decleva, sottolineando che «è necessario, tra l'altro, rivedere il sistema del diritto allo studio, ormai arretrato sul piano dei criteri e delle risorse» e che «il tema più delicato dal punto di vista normativo è quello della revisione dello stato giuridico dei docenti». Proprio riguardo ai professori, la mozione Crui propone uno schema di reclutamento articolato in due tempi: una prima fase di abilitazione scientifica dei candidati a livello nazionale e una seconda fase a livello locale. Questo modello andrà esteso; secondo i rettori, anche ai ricercatori, per i quali andrà definita un'ulteriore figura a tempo determinato «non aggiuntiva ma sostitutiva delle attuali posizioni post doc». IL PROGETTO ' Professori e ricercatori dovrebbero superare una prova di abilitazione nazionale e una selezione locale ________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 set. ’08 PROFESSORI SENZA- CATTEDRA Promozioni. Nel 2008 l’88% dei bandi è riservato ai passaggi di carriera dei docenti In crisi. Proposte «generose» anche dagli atenei in condizioni più critiche Le università potranno coprire solo l’8% dei posti messi a concorso Gianni Trovati «Il candidato presenta una preparazione scientifica di elevata qualità e con un buon livello di originalità», spiega lo stile burocratico delle valutazioni nei concorsi universitari. «Ma la cattedra può scordarsela» aggiunge, con il linguaggio più brutale dei numeri, la realtà dell'università italiana. Che all'appuntamento con il blocco del turn-over introdotto dalla manovra d'estate arriva obesa di vincitori di concorsi, in cerca di un posto che l'accademia non può offrire. I numeri, appunto, non ammettono repliche, e spiegano che fanno prossimo le università potranno sostituire solo il 2o% del personale che va in pensione. In pratica, vista la massa di concorsi effettuati dagli ateneine12oo7enellaprimasessione del aoo8, solo 8 posti ogni 100 si tradurranno in una cattedra reale: senza contare il sistema della doppia idoneità, cioè la possibilità dì creare due vincitori per ogni posto da professore bandito, che se seguita diffusamente (com'è accaduto fino ad ora) abbasserà le già risicate chanche dì tradurre in carriera la vittoria già ottenuta sul campo. «In queste condizioni- conferma Enrico Decleva, presidente della Conferenza dei rettori - non si sa come i concorsi possano dare luogo a una presa di servizio». Alla base del problema c'è la tagliola del blocco del turn over, arrivata con la manovra di fine giugno, che ha ridotto a un quinto le possibilità per gli atenei di aprire le porte a nuovi ingressi. Ma i conti dell'Accademia navigano in acque agitate ormai da tempo, anche se i ripetuti allarmi sulla sostenibilità dei bilanci non sembrano aver attenuato la bulimia concorsuale: tra il 2007 e la prima metà del 2008 sono stati messi in palio 5.204 posti. L'anno prossimo, stimando gli esodi in base alle uscite 2007 (aumentate del 25% per il progressivo esaurimento dei "fuori-ruolo", che ora si è ridotto a due anni), le università potranno offrire poco meno di 400 posti. L'8% di quelli banditi, e la percentuale si dimezza al 4% guardando solo al panorama degli atenei non statali. L'ondata dei concorsi si è prodotta anche in atenei coni conti già in forte emergenza, come accade ad esempio a Cassino e L'Aquila. Entrambi gli atenei viaggiano hanno già oggi spese di personale intorno alla soglia massima del 9ooro sul fondo ordinario, ma hanno creato una quarantina di nuovi posti "fantasma" a testa. Ci sono poi casi di piccoli atenei, come Enna, che in un anno é mezzo ha messo a bando 74 posti, senza nessuno spazio per accoglierli. Nella massa dei posti promessi dai concorsi, 3.327 sono nuovi ingressi di ricercatore (quasi tutti nelle sessioni del 2007, anche grazie agli incentivi disposti dall'allora ministro Fabio Mussi) e 1.877 promozioni ad associato o ordinario: queste ultime rappresentano l’88% dei bandi 2008; valgono come nuove assunzioni e la loro prevalenza rischia di chiudere a lungo l'accesso di ricercatori. Una parte marginale di questi concorsi si è già trasformata in un posto, sfuggendo in extremis alla stretta del Dl 112, ma all'appello manca ancora tutta la seconda sessione 2008, che si svilupperà nei prossimi mesi (e promette di essere meno pletorica delle precedenti, anche per il tramonto della possibilità di creare i doppi idonei). «La razionalità - spiega Decleva - avrebbe imposto di bandire i concorsi solo dopo la riforma del sistema, invece siamo andati avanti per troppo tempo con una riforma inapplicabile». Ora la riforma dei concorsi torna sul tavolo, e per il presidente della Crui è l'occasione per ridiscutere tutto: «Si può determinare un largo accordo su un sistema in due fasi: a valutazione nazionale della qualità scientifica, che garantisce maggiore trasparenza, e una selezione locale in base alle scelte autonome degli atenei. In questo quadro, che riguarda anche la strategia sugli ordinamenti 'accademici, occorre però recuperare le risorse tagliate, altrimenti il sistema si blocca e qualsiasi riforma è lettera morta». Anche l’Università, insomma, si accoda a quanti chiedono di rivedere i termini della manovra d'estate, finora difesi a spada tratta dal ministero dell'Economia. Nell'attesa, comunque, ogni ateneo deve prepararsi agli effetti dell'ingorgo di aspiranti a cattedre che non ci sono. In qualche caso, come Cagliari, Parma, Trieste o Pisa, il numero dei concorsi in rapporto alle uscite si è tenuto basso; e il problema appare più contenuto. Ma in più di 40 atenei statali, e in tutte le non statali, il rapporto fra posti disponibili e vincitori di concorso è sotto il 10% e promette scintille. Senza contare che la «regola del 20%» abbraccia tutti, compresi i tecnici e gli amministrativi, che vedono circa 2mila pensionamenti all'anno e rappresentano quasi il 30% delle spese per il personale, con picchi intorno al 45% allo Iusm dì Roma, alla Seconda università di Napoli e a Palermo. Con la stessa regola per tutti, ciò che si toglie ai docenti va ai tecnici, e viceversa, e in molti atenei un braccio di ferro fra le due categorie appare più che probabile. ________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 set. ’08 SONO LE ULTIME BATTUTE DI UNA STORIA INGLORIOSA Destinato al tramonto un sistema fondato sul differimento dei costi che non ha aperto spazi per i giovani di Alessandro Schiesaro Le dinamiche del reclutamento e della progressione di carriera dei docenti universitari vivono da tempo in una situazione complessa, segnata da due riforme, entrambe a diverso titolo radicali, che risalgono al decennio scorso. Fino agli inizi degli anni 90 l'organico delle singole università, e del sistema universitario del suo complesso, era determinato ed allocato centralmente, settore disciplinare per settore disciplinare e fascia per fascia. I concorsi per associato ed ordinario erano indetti dal ministero a scadenze irregolari e comunque diradate (4 0 5 anni), e le dinamiche di costo risultavano ragionevolmente prevedibili, oltre che controllate da Roma. Con la riforma del sistema di finanziamento degli atenei varata nel 1993, un corollario essenziale dell'autonomia, la dotazione di personale venne attribuita direttamente alle università, che all'interno di una cîfra complessiva di finanziamento ordinario annuale garantito dal ministero potevano allocare le risorse come meglio credevano, anche trasferendole tra capitoli di spesa diversi. Nel 1998, poi, la riforma dei concorsi decretò la fine delle infrequenti tornate nazionali, sostituite da concorsi banditi direttamente dai singoli atenei, a seconda delle disponibilità di bilancio, in più sessioni annuali. Ma la novità principale della riforma era rappresentata dal meccanismo dell'idoneità multipla,,per qualche anno tripla, poi doppia, infine (brevemente) singola: a conclusione di ogni concorso, infatti, la commissione non individuava un vincitore, ma appunto degli idonei, che potevano essere chiamati da qualunque università e non solo da quella che aveva bandito il posto. Poiché in oltre il 95% dei casi risultava incluso tra gli idonei un docente interno all'ateneo, che veniva poi chiamato nel ruolo superiore senza cambiare sede, si era di fatto venuto a creare un meccanismo non per reclutare docenti, ma per promuoverli: operazione del tutto legittima, é infatti prevista pacificamente in altri sistemi universitari, ma possibile in Italia solo attraverso un contorto utilizzo dello strumento concorsuale. I due fenomeni appena descritti, l’autonomizzazione dei bilanci da un lato e i nuovi concorsi "multipli" dall'altro, hanno comportato un'alterazione radicale del complesso del corpo docente, che nel periodo 1998-2006 è cresciuto in cifra assoluta di circa il 26%, con picchi oltre il 30% in settori come le scienze giuridiche é sociali e si è soprattutto rafforzato nella fascia degli ordinari, il cui numero è cresciuto di oltre il 40%, fino a costituire un terzo dei 6zrnila docenti universitari. Assistiamo oggi dunque alle ultime battute di una storia nel complesso ingloriosa che si è avviata dieci anni fa. Rapidamente screditati, i concorsi normati dalla legge Berlinguer sono stati aboliti dalla legge Moratti del 2006, ma riesumati per una sola volta, anzi due, nel 20o8, e non sarà più possibile bandirli dopo il 30 novembre. Non saranno rimpianti, o almeno non dovrebbero esserlo. Il meccanismo dell'idoneità multipla ha spesso comportato la deresponsabilizzazione delle commissioni, che invece di dover scegliere un vincitore si limitavano a indicare una rosa di papabili; operazione in cui é assai più difficile impedire che vengano dichiarati idonei anche candidati di dubbio valore. E la possibilità di chiamata anche da parte di università che non avevano bandito alcun posto ha fatto sì che migliaia di cattedre di I e II fascia siano state assegnate senza mai venir messe a bando. I numeri relativi ai concorsi appena avviati accentuano un quadro già di per sé preoccupante. Anche prima della riduzione del turn-ovér decretata dalla manovra estiva l'assegnazione di 3.700 idoneità era indice di un ottimismo eccessivo nella capacità degli atenei di assorbire i nuovi costi; costi differiti, poiché i docenti promossi incidono seriamente sui bilanci solo tre anni dopo la nomina, ma certi e facilmente quantificabili, poiché ogni avanzamento di fascia comporta a regime un aumento della retribuzione di circa il 30%. Ma stupisce anche che a fronte di numeri a quattro cifre per concorsi da associato e ordinario siano solo 200 i posti di ricercatore messi a bando finora. Si dirà che i concorsi di I é II fascia erano stati bloccati per due anni, perché la Legge Moratti non era mai stata dotata dei necessari regolamenti attuativi; eppure la sproporzione fra le due cifre non lascia tranquilli sulla reale determinazione a ringiovanire il corpo docente e ad aprire spazi per i giovani studiosi. __________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 set. ’08 CAGLIARI: IL GOVERNO VUOLE AFFOSSARE L’UNIVERSITÀ» Docenti e studenti denunciano insieme i tagli nei finanziamenti Stato di agitazione Inaugurazione dell’anno accademico: proteste CAGLIARI. Prima la scuola, adesso l’università. I sindacati non fanno sconti al governo Berlusconi. La nuova rivolta è scoppiata in rettorato, con accuse secche, arrivate da ogni fronte: i docenti hanno denunciato il taglio drastico dei finanziamenti per la ricerca e i centri di eccellenza, i dipendenti amministrativi hanno gridato che “è stato superato il limite di sopravvivenza”, gli studenti hanno ribadito che “le strategie del governo puntano sempre più a trasformare l’università in un lusso per i ricchi”. Proclamato la stato di agitazione, la prossima inaugurazione dell’anno accademico si annuncia carica di polemiche e accuse. Una su tutte: «Vogliono affossare l’università». Tutti schierati contro il governo: stato di agitazione per dire no ai tagli e a una scuola per soli ricchi Nasce un comitato per far conoscere i risultati dell’ateneo CAGLIARI. Stato di agitazione proclamato contro i tagli all’Università dall’assemblea del personale del Rettorato per fare il punto sulle strategie da intraprendere di fronte alle politica universitaria del Governo nazionale. Nell’aula magna della facoltà di Scienze della formazione strapiena di docenti, studenti e personale tecnico amministrativo, e alla presenza del rettore, si è discusso a partire dai dati che evidenziano come l’università italiana occupi le posizioni più basse delle classifiche internazionali sugli investimenti nella ricerca. Gli interventi hanno sottolineato l’anomalia italiana rispetto a tutti i paesi industrializzati. Le politiche del Governo non fanno altro che peggiorare una situazione già ai limiti della sopravvivenza infatti la legge 133 approvata il 6 agosto scorso (che recepisce il decreto Tremonti e interviene con drastici tagli ai fondi ordinari, il blocco del turn over e degli aumenti stipendiali) è mossa da una pura logica di taglio della spesa pubblica e non introduce alcun elemento di riforma, nessun investimento per l’eccellenza e non rappresenta un progetto di rilancio del sistema superiore e di ricerca in una fase di concorrenza globale nei settori strategici della ricerca e in una fase di emergenza di un mercato globale dell’insegnamento superiore. Nella politica governativa l’università e la scuola non sono strumenti strategici di costruzione di capitale umano e sociale, ma mero problema di spesa. Se è indiscutibilmente vero che l’università ha bisogno di incentivare la qualità della ricerca, la produttività didattica e l’impegno delle persone, è impossibile non constatare che questi tagli non sono volti a premiare la qualità e le buone pratiche, come a incentivare la produttività ma colpiscono in modo indiscriminato tutte le università, tutte le facoltà, tutto il personale. Peraltro, si nota nell’assemblea, l’applicazione dei tagli così consistenti al fondo di finanziamento devoluto dallo Stato alle università, comporterà nel giro di poco tempo una riduzione dei servizi e un aumento esponenziale del costo degli stessi a carico delle famiglie: un drastico aumento delle tasse universitarie diventa ineludibile e all’orizzonte riappare la prospettiva di una università di élite riservata ai ceti agiati. Difendere l’università e la scuola pubbliche significa difendere il senso delle più fondamentali conquiste sociali a base della costituzione repubblicana e democratica. L’assemblea del personale docente e non docente dell’università di Cagliari ha invitato i presidi a organizzare con gli studenti una giornata di informazione e protesta in concomitanza con l’inaugurazione dell’anno accademico e ha chiesto ai docenti di dedicare parte delle lezioni introduttive all’analisi delle conseguenze dei tagli sulla ricerca e l’insegnamento. Inoltre l’assemblea ha chiesto al corpo docente, come già preannunciato nei documenti approvati da numerose facoltà nel luglio scorso, di rinunciare agli incarichi didattici eccedenti il carico di lavoro obbligatorio. __________________________________________________________ Corriere della Sera 23 set. ’08 I DOCENTI DELL' UNIVERSITÀ: LEZIONE CONTRO I TAGLI Università, lezioni dei docenti contro i tagli alla ricerca Il movimento è partito da Milano. Già in agosto. Ma i primi a dare il via alle agitazioni - e a inaugurare ufficialmente l' autunno caldo dell' università - sono stati gli atenei di Torino. Ieri, con il blocco della prima ora nelle facoltà di Lettere e Giurisprudenza per dire no ai tagli alla ricerca. E per annunciare ai ragazzi «la fine della formazione accademica». Un' ora di informativa, «la prima di una lunga serie di iniziative - annunciano i docenti - per sensibilizzare l' opinione pubblica». E Milano non è da meno: lo sciopero della prima ora si farà anche qui. Il primo ottobre. SEGUE DA PAGINA 1 Niente lezione la prima ora. Ma un «momento di riflessione, tra docenti e studenti, sul destino del sistema universitario italiano». Così stabilisce la mozione approvata lo scorso giovedì da un gruppo di professori di Bicocca, Politecnico, Statale, Accademia di Brera e Conservatorio. Giorno prescelto: il primo di ottobre, anche se in molte facoltà i corsi sono già cominciati. Il testo approvato dall' assemblea: «Esprimiamo la più viva preoccupazione per le conseguenze del Dl 112/08, convertito in legge 133, che decurta i finanziamenti agli atenei del 20 per cento, impone il blocco delle assunzioni, anche dei giovani ricercatori, nonostante nei prossimi anni siano previsti pensionamenti massicci». Da qui la decisione: «Invitiamo i Senati accademici delle università milanesi a un pronunciamento chiaro». E infine: «Indiciamo per il primo ottobre una giornata di informazione. Invitiamo docenti, presidi e presidenti di corso di laurea a dedicare la prima ora di lezione a un incontro informativo sulle misure contenute del Dl 112». Guerra ai tagli. Con una (prima) forma di protesta poco chiassosa. Anche se il rettore della Bicocca, Marcello Fontanesi, è scettico su certe forme di lotta. «Io - dice ironico - cercherei di non torturare i ragazzi: lo studente che si interessa a quello che sta succedendo sa già di che si tratta, mentre gli altri non hanno nessuna voglia di sentire per un' ora come sta andando a finire l' università italiana». Poi però diventa serio: «Non è così che si risolve la situazione. Ma cercando alleanze nel mondo politico per far capire a tutti che questa legge è sbagliata. Noi ci stiamo provando». Annachiara SacchiBicocca Studenti fuori dall' università ________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 set. ’08 COGITO ERGO PUBBLICO In pochi anni internet ha cambiato le regole. Fornendo nuovi strumenti di giudizio e dibattito DI ROBERTO BATTISTON La ricerca è una attività che coinvolge un grande numero di persone, nuove investimenti importanti e tocca notevoli impatti economici. È quindi sempre più importante valutare il risultato dei risultati ottenuti a fronte delle risorse investite, specie nel caso di finanziamenti pubblici. A pensarci bene non vi è nulla di più semplice della valutazione della ricerca. La ricerca è per sua natura sottoposta alla valutazione critica della comunità scientifica di riferimento. I risultati, nella forma di articoli, libri o altri tipi dì comunicazione scritta, per essere credibili devono passare al vaglio di giudici anonimi (referees) che esprimono una valutazione di merito e ne approvano o meno la pubblicazione su riviste che sono molto conosciute (alto impact Factor). Anche quando questo meccanismo non si può applicare, le citazioni di una pubblicazione da parte di altri ricercatori rappresentano una misura dell'interesse del risultato ottenuto. Più la posta in gioco è alta (promozione, assunzione, finanziamento pluriennale...) più il processo di valutazione assume importanza. In questo meccanismo c'è un implicito riconoscimento del fatto che la scienza sia inevitabilmente autoreferenziale ma che ciò sia accettabile purché ciò avvenga al livello più alto possibile, tipicamente quello internazionale. La terzietà dei valutatori e lo standard internazionale, limita efficacemente gli effetti negativi dell'autoreferenzialità. In Italia tutto questo viene accettato poco e male. Esistono comunità che regolarmente accettano di vedere i propri lavori scientifici valutati in modo rigoroso da referees internazionali prima della pubblicazione e che quindi sono maggiormente pronte a farsi valutare, ma altre che non ne vogliono sapere. In generale la tendenza è di farsi valutare da commissioni composte da referenti nazionali, se possibile non protetti dall'anonimato. Questo ingenera un doppio effetto negativo: in primo luogo la corsa a fare inserire un proprio rappresentante nelle commissioni di valutazione, in secondo luogo la tendenza a sminuire il valore del processo di valutazione in quanto implicitamente sottoposto all’influenza di gruppi di pressione, di volta in volta diversi ma riconoscibili. Le cose però stanno cambiando anche grazie alla rete che, solo da pochi anni, ha iniziato a fornire potenti ed economici strumenti di valutazione dell'attività di ricerca scientifica. Nel 2,004 è stato lanciato Google 3cholar,un motore di ricerca che indirizza, con l'accordo degli editori, l'intero testo degli articoli scientifici di un vasto numero di pubblicazioni e discipline. Anche se altre iniziative analoghe lo hanno seguito, come ad esempio Windows Live Academic Search della Microsoft> oggi Google Scholar è forse il motore di ricerca che in modo più sistematico copre le risorse del web- Google 5cholar non fornisce la lista completa degli articoli pubblicati da parte di un singolo ricercatore, copre una azione che può oscillare tra il 40% e il 70%. Inoltre non rende disponibile la lista delle riviste indicizzate e la frequenza degli aggiornamenti. Ma è gratuito e beneficia del marchio di qualità legato agli algoritmi di Google. Inoltre, siccome applica gli stessi criteri per tutti, permette per lo meno dei confronti significativi all'interno dello stesso settore scientifico. £ben noto che il numero degli articoli pubblicati non è sufficiente a valutare un ricercatore. Esiste chi pubblica molti articoli su riviste sconosciute, o, viceversa, che pubblicano molti articoli anche su riviste di buon livello ma solo in quanto membri di grandi collaborazioni internazionali formate da centinaia, talvolta da migliaia di autori. Per questo motivo è necessario ricorrere a parametri legati al numero di citazioni generate dai lavori pubblicati. Già il valore di una rivista, l'impact factor, è un parametro legato direttamente al numero di citazioni ottenute dalla rivista: L’IF misura il numero medio di citazioni ottenute in un dato anno dagli. articoli pubblicati nei due anni precedenti sulla stessa rivista. Negli ultimi anni sono state studiate analoghe quantità biblometriche che hanno però come obbiettivo la valutatone individuale. Nel 2005, j. E. Hirsh ha proposto l'indice H, che combina la quantità degli articoli pubblicati con la loro qualità, determinando il numero N tra gli articoli pubblicati che hanno almeno N citazioni ciascuno. Questa variabile risulta essere particolarmente insensibile rispetto a tipiche distorsioni nella valutazione puramente quantitativa, ad esempio dovute alla durata della carriera oppure alla partecipazione a collaborazioni che producano articoli con moltissimi co-autori. Una variazione dell'indice H, l'indice H individuale, introdotto nel 2006 da Batista, Campiteli, Kinoudù e Martinez, divide il numero H per il numero medio degli autori, correggendo ulteriormente per gli effetti dovuti a un numero elevato di co-autori. Nel 2006 è apparso in rete Publish of Perish (PoP) un programma free-ware sviluppato da Anne-Wil Haizing, Professore in management internazionale dell'Univezsity of Melbourne, Australia (www.harzing.com). Basato su Google Scholar, questo programma fornisce in pochi secondi le principali variabili bibliometriche in tutti i principali campi di ricerca, dal management alle scienze sociali, passando perle scienze "dure". L'avvento di strumenti come PoP e il loro utilizzo sistematico sta iniziando a farsi notare all'interno del secretivo mondo accademico italiano, ben nota, purtroppo, per le valutazioni da corridoio, i concorsi dall'esito predeterminato e i giudizi inappellabili dei baroni di turno. In pochi minuti è possibile creare la graduatoria di merito di tutto un dipartimento universitario togliendosi la soddisfazione di capire, sulla base di fattori perfettibili ma oggettivi, come si viene valutati dalla comunità di riferimento. Come minimo potrete includere il fattore H nel vostro curriculum o confrontarlo con quello dei commissari del vostro prossimo concorso. Ma questo può interessare anche chi si occupa professionalmente della valutazione della ricerca pubblica. A costo zero e in tempi trascurabili chiunque può ottenere risultati molto più precisi del Civr o dell'Anvur, i faraonici comitati. ministeriali per la valutazione della ricerca messi in piedi dal Miur nell'ultimo decennio. Provare per credere, usare PoP è un esercizio che riserva molte sorprese. Di quelle di cui abbiamo bisogno per rimettere il merito al posto giusto, in particolare nel contesto della ricerca pubblica. roberto. battiston(gl pg.infix.it __________________________________________________________ La Stampa 25 set. ’08 IL MITO DELLA SCUOLA ELEMENTARE LUCA RICOLFI Ci sono, nelle politiche governative in materia di istruzione, parecchie cose che mi lasciano perplesso. Ad esempio la mancanza di una diagnosi convincente dei mali della nostra scuola e della nostra università. Il vuoto di iniziative forti per aumentare il numero di asili nido, specialmente nel Mezzogiorno (uno dei cosiddetti obiettivi di Lisbona: portare la copertura al 33% entro il 2010, contro l’11% attuale). Soprattutto non mi piace per niente il fatto che all’Università (dove lavoro) i tagli della manovra finanziaria 2009-2011 siano uguali per tutti gli Atenei, quando da anni - grazie ad una serie di ottime ricerche - si sa con precisione quali sono gli atenei che spendono (relativamente) bene i loro fondi e quali li dilapidano in una corsa senza senso all’aumento del personale e agli avanzamenti di carriera. E tuttavia, nonostante queste riserve, stento a capire l’incredibile pioggia di critiche, insulti, manifestazioni, sceneggiate, lezioni di pedagogia (e talora di democrazia) che sono state riversate sul neo-ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini non appena ha cominciato a occuparsi di scuola, e in particolare di quella elementare (per una rassegna consiglio di vistare il sito del Partito democratico e quello della Cgil-scuola, ora ridenominata Flc). Il mio stupore nasce da due ragioni distinte. La prima è che, andando a controllare le cifre (DL 112, art. 64, comma 6), si scopre che la maggior parte dei numeri spaventa-famiglie che sono stati agitati sono semplicemente falsi. Non è vero che il bilancio della scuola subirà tagli per 8 miliardi: il taglio del prossimo anno sarà inferiore a 0,5 miliardi (1% del budget), i tagli netti previsti per il triennio 2009-2011 sono pari a 3,6 miliardi spalmati su tre anni. Non è vero che saranno licenziati 87 mila insegnanti: la riduzione del numero di cattedre avverrà limitando le nuove assunzioni, la cifra di 87 mila insegnati in meno si raggiungerà nel 2012 e include nel calcolo le riduzioni già pianificate da Prodi (circa 20 mila unità, a suo tempo giudicate insufficienti nel Quaderno bianco sulla scuola pubblicato giusto un anno fa dal precedente governo). Non è vero che, nelle scuole elementari, sparirà il tempo pieno e tutti i bambini dovranno tornare a casa alle 12,30: l’introduzione del maestro unico, con conseguente soppressione delle ore di compresenza, libererà un numero di ore più che sufficiente ad aumentare le ore di tempo pieno eventualmente richieste dalle famiglie. Né si vede su quali basi l’opposizione agiti lo spettro di una riduzione degli insegnanti di sostegno, o della chiusura delle scuole di montagna (nessuna norma della Finanziaria lo prevede, e il ministro ha esplicitamente escluso tale eventualità). Ma c’è un secondo motivo per cui mi è incomprensibile lo tsunami anti-Gelmini di queste settimane: i critici danno per scontato che la scuola elementare così com’è vada bene, e che l’introduzione del maestro unico sia una scelta didatticamente sbagliata. Può darsi, ma non ne sarei così sicuro, e vorrei spiegare perché. Se la scuola elementare italiana fosse così ben congegnata come ripetono i suoi paladini, forse non osserveremmo quotidianamente quel che invece osserviamo. E cioè che sia nelle scuole medie sia (incredibilmente) all’università tantissimi ragazzi, oltre a fare errori di grammatica e ortografia con cui un tempo nessuno avrebbe preso la licenza elementare, non sanno organizzare un discorso né a voce né per iscritto, non sono in grado di progettare una tesi o una tesina, non conoscono il significato esatto delle parole, fanno sistematicamente errori logici, non sanno spiegare un concetto né costruire un’argomentazione, insomma non capiscono e non riescono a farsi capire se non in situazioni ultra-semplici (in una parola sono «ignoranti», secondo la bella definizione del libro di Floris uscito in questi giorni: La fabbrica degli ignoranti, Rizzoli). In breve i ragazzi spesso sono debolissimi proprio nell’organizzazione del pensiero e nella padronanza del linguaggio, ossia precisamente in ciò che avrebbero dovuto acquisire nei cinque anni di scuola elementare. Il sospetto è che la scuola elementare di oggi, pur essendo perfetta come luogo di socializzazione e di ricreazione, sia ben poco capace di trasmettere conoscenze e formare capacità, ivi compresa la capacità di concentrarsi, di ordinare le idee, di autovalutarsi, di mettere impegno in attività non immediatamente gratificanti. A questa osservazione si potrebbe obiettare, e certamente qualcuno obietterà, che sia i test nazionali (Invalsi) sia i test internazionali (Pirls, Timss, Pisa) ci restituiscono un’immagine ben più ottimistica della scuola elementare italiana. Ma questo è vero solo in parte. I test internazionali condotti sui bambini in quarta elementare danno risultati opposti a seconda degli ambiti considerati (l’Italia è ai primi posti nei test di lettura, ma precipita agli ultimi sia in quelli di matematica sia in quelli di scienze). Quanto ai test nazionali essi indicano che il declino dei livelli di apprendimento fra i 7 e i 16 anni è costante e inizia già nelle elementari (in quarta i bambini vanno sensibilmente peggio che in seconda). Forse la cattiva fama della scuola media inferiore e dei suoi insegnanti è in parte immeritata: è vero, i risultati dei ragazzi delle medie sono pessimi, ma forse lo sono proprio perché la scuola elementare - con la sua impostazione ludica - non li prepara alle prove che dovranno affrontare quando entreranno in un mondo vero, meno protetto, in cui ci sono anche frustrazioni e si deve essere capaci di studiare da soli (cosa che molti bambini non imparano mai a fare: un effetto perverso del tempo pieno?). Conclusione? Nessuna, solo una preghiera: anziché fare dello spirito sul grembiulino e del terrorismo sul tempo pieno, proviamo a riflettere seriamente - ossia senza preconcetti ideologici - sui vizi e le virtù della nostra scuola elementare. ________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 set. ’08 MASTER L’ORA DEL RIORDINO Ripensamento. Le università hanno tagliato I parametri. In molti casi sono stati presi le proposte meno valide e con pochi iscritti a riferimento gli standard delle lauree ' Quest'anno gli atenei attivano 300 corsi in meno rispetto al 2007 Eleonora Della Ratta Cristiano Dell'Oste Una bella sforbiciata. Dopo sette anni di crescita ininterrotta, diminuisce il numero dei master attivati dalle università italiane: nel aoo8-o9 saranno 2.003, il 12,7% in meno rispetto a un anno fa. Il segnale è forte, e indica che gli atenei hanno iniziato a sfrondare la propria offerta didattica, tagliando rami secchi e master dì scarso peso. «Siamo di fronte a un dato positivo. Questa è la risposta di un'università che, dopo i primi anni di sperimentazione selvaggia, ha riflettuto ed è stata capace di fare selezione», afferma Andrea Cammelli, presidente di AlmaLaurea, il consorzio che con le sue indagini annuali ha puntato il dito sulla scarsa efficacia media di troppi master sul mercato del lavoro. Sulla stessa lunghezza d'onda Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale (Cun): «È un calo fisiologico, la domanda da parte degli iscritti non riusciva a tenere in piedi la gran quantità di titoli proposti negli anni passati». Il Dm So9/i999 assegna piena autonomia agli atenei nell'attivazione dei corsi (si veda la scheda in basso), ma ora sono in molti ú sottolineare l'urgenza dell'adozione di standard. «Occorre un'analisi di qualità. La valutazione dei corsi, che comincia a farsi strada nelle università, deve contagiare anche la formazione postlaurea», osserva Caxrimelli di AlmaLaurea. E Lenzi del Cun aggiunge: «Se venissero applicati gli stessi parametri qualitativi previsti per i corsi di laurea, come noi auspichiamo, ci sarebbe un'ulteriore riduzione del 30% dei master». I dati di quest'anno, comunque, dimostrano che molti atenei - pur in assenza di una cornice regolamentare - hanno fatto ricorso all’autodisciplina. «Rispetto a qualche anno fa le facoltà sono più consapevoli dell'importanza dell'interfaccia con le aziende», spiega Guido Masetti; prorettore alla formazione dell'Università di Bologna. «Inoltre- aggiunge -negli ultimi quattro anni abbiamo ridotto del 30% la nostra offerta di master, attivando solo quelli che hanno un numero minimo di iscritti e un riscontro positivo nel mondo del lavoro». Un limite (12 studenti per corso) è stato adottato anche dall'Università Ca' Foscari di Venezia, che ha accorpato numerosi master di primo e secondo livello. E anche l'Università Roma Tre, che ha "chiuso" una ventina di corsi, si è data le proprie regole. «Abbiamo applicato la revisione dell'ordinamento previsto per i corsi di laurea anche ai master - dice il prorettore Mario Morganti- e approveremo un regolamento didattico che fissa parametri più severi per l'organizzazione dei percorsi, privilegiando l'interesse da parte di enti esterni, il livello di risorse disponibili e la qualità del corpo docente». Inoltre, alla fine di ogni anno accademico, il consiglio del master dovrà presentare una relazione formale che sarà sottoposta al vaglio del nucleo di valutazione universitario, così da lasciare in piedi solo i titoli più validi. Qualità, per i master, vuol dire anche efficacia sul mercato del lavoro. E questo è un aspetto su cui si è concentrata, tra le altre, la Seconda università di Napoli. «Abbiamo privilegiato i corsi che hanno un placement maggiore - commenta Mario Mustilli, prorettore di Economia-. Inoltre, abbìamo capito che troppi corsi non consentono agli studenti di fare scelte consapevoli e svaluta no l'offerta formativa». __________________________________________________________ Corriere della Sera 26 set. ’08 CALDIERA: LE BORSE DI STUDIO CON PIÙ CHANCE L' INTERVISTA PARLA GIUSEPPE CALDIERA, DIRETTORE GENERALE DELLA FONDAZIONE CUOA I finanziamenti migliori? «Quelli in tandem tra atenei e imprese» Gli assegni erogati dalle aziende sono spesso finalizzati all' assunzione dopo gli studi All' estero ci sono molte più aziende che sponsorizzano la frequenza gratuita ai corsi Un trampolino di lancio prestigioso per entrare nel mondo del lavoro? Può esserlo quello di una borsa di studio "mirata". Come quelle che vengono erogate da fondazioni che hanno deciso di lavorare insieme alle aziende e alle università scommettendo su candidati di un determinato profilo, e offrendo loro la possibilità di frequentare un particolare tipo di master. «Si tratta di una soluzione che funziona al meglio quando c' è una specifica corrispondenza tra chi la eroga e chi la riceve», spiega Giuseppe Caldiera, direttore generale della Fondazione Cuoa, centro di studi economici che svolge attività di ricerca, insegnamento e diffusione della cultura imprenditoriale e manageriale. Come sfruttare in modo più efficace questa opportunità? «Innanzitutto è importante che non venga vista come un semplice aiuto finanziario, ma deve essere finalizzata a un progetto che favorisca una reciproca conoscenza tra chi la fornisce e chi la utilizza. Nella nostra esperienza sono le aziende che più di tutti ricorrono a questo mezzo, avendo la possibilità di valutare il candidato e di offrirgli un percorso di stage in azienda». Quali i settori, le professioni per le quali le borse sono più gettonate e aiutano maggiormente? «Ritengo che oggi siano utili soprattutto le borse che finanziano i corsi di general management e i master in business administration. Sicuramente infatti sono molto richieste figure professionali nel settore del retail (marketing e distribuzione) e della finanza (sia bancaria sia aziendale), per cui sono utili questi tipi di master. E' possibile contemporaneamente proseguire nell' attività lavorativa? «Per chi sta già lavorando e non vuole dedicare un anno sabbatico alla propria formazione, la nostra fondazione propone per esempio i master part time». Un confronto Italia/estero: siamo allo stesso livello o cosa ci manca? «All' estero ci sono molte più aziende che sponsorizzano, o direttamente o con contributi alle business school, la frequenza gratuita di giovani talenti ai vari corsi di specializzazione. In Italia manca sia una sensibilità e cultura sia una legislazione adeguata per questo tipo di erogazioni». E come viene agevolato l' ingresso nel lavoro? «In base alla nostra esperienza tutti i partecipanti ai master full time hanno buone possibilità per l' ingresso nel mondo del lavoro, grazie al collegamento del Cuoa al sistema delle imprese e a una specifica e strutturata attività di placement. I beneficiari di borse di studio hanno una motivazione in più da parte dell' azienda che ha finanziato la borsa e che spesso la finalizza a una futura assunzione alla fine del corso». Irene Consigliere I punti In aula Secondo Giuseppe Caldiera sono utili soprattutto le borse che finanziano i corsi di general management e i master in business administration In ufficio Sono molto richieste figure professionali nel settore del retail (marketing e distribuzione) e della finanza (sia bancaria sia aziendale) Consigliere Irene ________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 set. ’08 UNA ROAD MAP TRA SCIENZA E FEDE CHIESA e FILOSOFIA DIALOGO SUL PROGRESSO L'incontro tra il partito religioso e la ragione naturale é la base per la nascita della società post-secolare: indipendente, autonoma e aperta alla dialettica. Anticipiamo le pagine conclusive del libro La variabile Dio. In cosa credono gli scienziati? di Riccardo Chiaberge, che propone un confronto tra Arno Penzias, premio Nobel perla Fisica per la scoperta della radiazione cosmica di fondo, e George Coyne, ex direttore della Specola vaticana di Riccardo thiaberge Dopo gli entusiasmi conciliari per la modernità e il progresso scientifico, la Chiesa tende ad arroccarsi sulle difensive. Ma in quello che può apparire un arretramento del mondo religioso di fronte all'assalto della scienza, qualcuno legge, alla rovescia, una rivincita dell'Assoluto e del Sacro su una scienza che nonostante i suoi successi, su molti fronti appare in fase di impasse o di aperta crisi, o comunque incapace di suscitare grandi speranze. Le innegabili conquiste della medicina, della genetica e delle biotecnologie, l'allungamento della vita media, i prodigi dell’informatica e delle telecomunicazioni non bastano a dissipare un senso complessivo di frustrazione, che contrasta col trionfalismo spettacolare della Big Science. Perfino un filosofo dichiaratamente ateo come Jiirgen Habermas, autorevole esponente del pensiero critico francofortese, ha avviato una riflessione originale intorno a questi temi, dialogando in pubblico o a distanza col suo compatriota joseph Ratzinger. Habermas auspica un nuovo patto per le società «post-secolari»: «Il partito religioso deve riconoscere l'autorità della ragione "naturale", vale a dire i fallibili risultati delle scienze istituzionali nonché i principi universalistici dell'egualitarismo giuridico e morale. Per converso, la ragione secolare non deve impancarsi a giudice delle verità religiose». Un processo di «apprendimento complementare» e reciproco, che non può che arricchire la dialettica democratica. Dalla sponda cattolica risponde padre Marc Leclerc, epistemologo dell’Università Gregoriana di Roma: «Si può credere nel disegno provvidenziale di Dio nella creazione, senza farne una "teoria scientifica" concorrente ad un'altra: il piano di interpretazione è decisamente diverso. Questo però presuppone, reciprocamente, che nessuna teoria scientifica si voglia ergere a spiegazione ultima della realtà, ciò che ne farebbe o una pseudo-metafisica, o una pseudo-religione - in ogni caso, il contrario della scienza». Ma che succede quando la tecnologia invade campi eticamente sensibili e controversi come la riproduzione umana e la vita nel suo stadio nascente? La laicità e neutralità dello Stato - è di nuovo Habermas a parlare non può significare esclusione delle chiese e dei gruppi religiosi dal discorso pubblico. Purché il processo decisionale nelle sedi parlamentari o governative resti chiaramente separato «dai flussi informali della comunicazione politica e della formazione delle opinioni», In altre parole: il papa e i vescovi hanno tutti i diritti di dire la loro in materia, per esempio, di fecondazione assistita o di ricerca sugli embrioni e di condurre campagne in difesa di determinati principi. Nessuno può censurarli o imbavagliarli. Poi però devono essere le istituzioni rappresentative a decidere a maggioranza, tenendo anche conto della sensibilità dei credenti, ma senza ridursi passivamente a braccio secolare della Chiesa. Troppo spesso> invece, soprattutto in Italia, i parlamentari cattolici sembrano più inclini a compiacere i vescovi che a fare gli interessi dei propri elettori. Questo disarmo bilaterale richiede un atteggiamento di grande apertura da entrambe le parti. Purtroppo non se ne vedono ancora i segni, come ha dimostrato l'incidente della mancata visita di papa Benedetto XVI alla Sapienza, che ha portato allo scoperto, in misura eguale, nel mondo politico e accademico e nei mass media, i peggiori istinti clericali e anticlericali. Uno dei presupposti essenziali del dialogo è condividere il senso del limite, di quell'incompletezza di cui parla a più riprese Arno Penzias in questo libro. La regola socratica e popperiana dell’«io so di non sapere». «Dal momento della loro separazione - ha scritto Arthur Koestler ne I sonnambuli - né la fede né la scienza sono in grado di soddisfare la fame intellettuale dell'uomo... La scienza post galileiana ha avuto la pretesa di sostituirsi, o di succedere legittimamente alla religione; quindi, non riuscendo a fornire le risposte fondamentali, ha provocato non solo frustrazione intellettuale, ma carestia spirituale». Il progresso scientifico non è lineare e ininterrotto, come spesso si tende a raffigurarlo: una lenta e faticosa salita del genere umano dall'infanzia magica e mitologica alla fredda e razionale maturità. «La filosofia della natura - continua Koestler - ha avuto un'evoluzione a balzi inframmezzati da false piste, da vicoli ciechi, da retromarce, da periodi di cecità e da crisi di amnesia. Le grandi scoperte che hanno segnato il suo corso furono a volte i ritrovamenti inaspettati di cacciatori in cerca di tutt'altra selvaggina». Per queste ragioni la ricerca deve essere libera da condizionamenti religiosi o ideologici. Ma per le stesse ragioni non può né deve essere mitizzata o trasformata, a sua volta, in ideologia. Se per Dawkins tra i due campi avversi del «razionalismo» e della «superstizione» non ci può essere altro che uno stato di guerra permanente, e gli scienziati fautori deh'appeasement somigliano al Chamberlain del 1938, pronto alla resa davanti a Hitler, questo libro racconta una storia diversa_ Non ci sono nuovi Hitlez, né tra gli uomini e donne di scienza né tra quelli di fede. Il conflitto non è inevitabile. lú il simbolico patto firmato a Tucson indica una road map di libertà e di tolleranza. La via verso un nuovo umanesimo. Riccardo Chiaberge, «La variabile Dio. In cosa credono gli scienziati?», Longanesi, pagg.194, €14,60 ________________________________________________________________________ L’Unità 21 set. ’08 «SCIENCE», LA PAURA È DI DESTRA CHI MANTIENE LA CALMA VOTA A SINISTRA di Cristiana Pulcinelli / Roma Vuole la pena di morte, più soldi da spendere per la difesa militare, una politica dura contro l'immigrazione, la preghiera nella scuola. Il conservatore forse non lo sa, ma le sue posizioni politiche probabilmente sono dovute al fatto che ha paura. Ha più paura di altri, Sicuramente ha più paura di chi difende una politica che favorisce aiuti ai paesi poveri, controllo sulle armi, difesa dell'aborto e dei diritti degli immigrati. Una nuova ricerca pubblicata sulla rivista scientifica americana «Science» ribalta un'idea finora generalmente accettata, ovvero che le convinzioni politiche di una persona derivino dalle sue esperienze. Per i ricercatori dell'università del Nebraska e dell'Illinois (Stati Uniti) che hanno condotto la ricerca, invece, potrebbe essere la biologia a guidare la nostra mano quando indichiamo le preferenze nella cabina elettorale. In particolare, il modo in cui le persone percepiscono e rispondono alle minacce potrebbe condizionare le loro idee. Come sono arrivati a questa conclusione? La prima cosa che gli scienziati hanno fatto è stata quella di fare delle interviste telefoniche agli abitanti di Lincoln, una città del Nebraska. Le domande riguardavano le loro convinzioni politiche e le posizioni sui temi più scottanti, come appunto la pena di morte o l'immigrazione. Sulla base di questo test, sono state scelte 46 persone tra quelle con le convinzioni politiche più forti, sia tra i conservatori che tra i progressisti. Dopo due mesi, queste persone sono state invitate in laboratorio e qui sono state sottoposte a due test per misurare le loro risposte fisiologiche ad alcuni stimoli. Nel primo test alle 46 persone sono state mostrate immagini spaventose (una ferita aperta piena di larve, un uomo terrorizzato con la faccia insanguinata e un ragno che cammina sul viso di una persona) all'interno di una sequenza di immagini neutre. Si è quindi misurata la conduttività elettrica della pelle delle persone sottoposte al test. È stato dimostrato infatti che la conduttività elettrica della pelle è una spia dell'attivazione del sistema nervoso simpatico che lavora di più quando siamo sottoposti a una forte emozione. In parole povere, più l'emozione è forte, più la nostra pelle diventa umida e quindi conduce elettricità. Ebbene, il risultata dell'esperimento dice che le persane con una conduttività elettrica della pelle più alta (ovvero con una reazione emotiva più forte di frante alle immagini) sono quelle che difendono idee conservatrici. Mentre tra quelli che hanno idee progressiste sono più frequenti quelli che mantengono la calma. La scoperta è stata confermata dal secondo test. Ai 46 cittadini di Lincoln è stato fatto ascoltare un suono intermittente molta fastidioso e nello stesso tempo si è misurata la quantità di battiti delle loro palpebre. Battere spessa le palpebre è correlato a stati di paura. Anche in questa caso, le persone che vogliono prima di tutto difendere l'ordine sociale sono quelle che mostrano più timore. «L'ideologia non dipende solo da questo - ha sottolineato Jahn Hidding, una dei firmatari dell'articolo - e non si può dire che tutti i conservatori siano spaventati, ma se uno è spaventato è più facile che sia conservatore». I ricercatori sostengono che il loro studio può far capire perché è difficile far cambiare opinione politica a qualcuno. Tuttavia, dicono, non si possono trarre conclusioni sulle cause di questo fenomeno. Sono le risposte fisiologiche alle minacce che determinano certe preferenze politiche, o invece chi ha maturato alcune convinzioni politiche è portato a rispondere in un certo modo alle minacce esterne? Forse, concludono i ricercatori, nessuna delle due cose è vera. Forse, la paura eccessiva e le convinzioni conservatrici derivano entrambe da una stessa fonte. Che, almeno per ora, rimane ignota. Secondo uno studio è la biologia a guidare le nostre convinzioni ________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 set. ’08 I FONDI A PIOGGIA E LA BUONA RICERCA PARADOSSI ITALIANI DA CORREGGERE C’è un paradosso che sintetizzala situazione della ricerca in Italia: il Paese spende meno della media europea per favorire l'innovazione tecnologica (0,56% del Pil contro lo 0,65% della Ue-27), ma riesce comunque a ottenere risultati apprezzabili. La mappatura del territorio nazionale sulla produzione di brevetti curata da Carlo Trigilia e Francesco Ramella, presentata ieri ad Artimino in provincia di Prato, rivela uno scenario interessante: meccanica e alta tecnologia trainano l'innovazione italiana (28n-ila brevetti registrati nel periodo z995-zoo4) e le regioni del Centra Nord si piazzano ai vertici della classifica europea, grazie proprio al sistema distrettuale tradizionale (nella meccanica) e ai grandi poli metropolitani (nell'alta tecnologia). I sistemi locali, dunque, si dimostrano forti. Ma la ricerca rivela anche come l'Italia, in questo campo, sia leader nella spesa per finanziare singoli progetti: 14% del totale contro il g% della media europea. I soldi vengano distribuiti a pioggia. E questo non è un paradosso, ma solo uno sbaglio. Possibilmente da correggere in fretta. Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. ________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 set. ’08 AI DOTTORANDI AUMENTI CONGELATI In molti atenei nessun adeguamento ROMA Troppi,giovani attendono ancora l'aumento delle borse di dottorato. E il Consiglio universitario nazionale chiede l'intervento del ministero. Solo nove atenei - Bologna, Brescia, Chieti D'Annunzio, Genova, Milano Bicocca, Padova, Parma, Perugia; Torino - hanno assegnato ai dottorandi di ricerca gli incrementi e gli arretrati previsti dalla finanziaria del aoo8, mentre alla Statale di Milano, a Siena e a Udine sono stati pagati solamente gli aumenti senza gli arretrati. Nelle altre università, invece, i fondi giacciono inutilizzati. La denuncia arriva dall'Adi, l'associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca italiani, che minaccia azioni collettive nei confronti delle università se entro il 1 ottobre non arriveranno gli adeguamenti stabiliti dal decreto firmato a giugno dal ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini. L'incremento dei contributi al dottorato è previsto dalla Finanziaria per il aoo8 firmato che ha stanziato 40 milioni di curo per portare –dal 1 gennaio -l’importo di quasi 20mila borse dagli attuali 80o euro a 1.040 euro mensili. Alla fine di luglio gli atenei hanno ricevuto granparte dei finanziamenti previsti e l'ultima tranche «verrà assegnata nelle prossime settimane, dopo che il ministero avrà ricevuto dalle università gli aggiornamenti sul numero totale dei dottorandi» ha spiegato Giuseppe Valditara, An, il promotore della misura in Finanziaria. Intanto, la questione è giunta sul tavolo del Cun, il Consiglio universitario nazionale, che il 10 settembre ha approvato - su richiesta del rappresentante dell'Adi, Francesco Mauriello - una mozione per chiedere al ministro Gelmini di verificare «l'applicazione in tutti gli atenei della legge di revisione degli importi minimi, con particolare attenzione alla situazione: dei dottorandi titolari di borse di studio non Miur o cofinanziate e 'al conferimento degli importi arretrati da gennaio 2008». Intanto, sul web i dottorandi hanno organizzato un forum per monitorare la situazione nelle diverse sedi universitarie. «Il decreto è giunto quasi in contemporanea con il taglio di circa 500 milioni di euro del fondo di finanziamento ordinario e questo crea ovviamente non pochi problemi -sottolinea Gìovanni Ricco, segretario dell'Adi - ma le due cose sono distinte e le università non possono usare i soldi dell'aumento delle borse per coprire altre spese, né tanto meno negare l'aumento o gli arretrati». Al. Tr. ________________________________________________________________________ Repubblica 22 set. ’08 INVESTIMENTI HI-TECH, ITALIA OFF-LIMITS ORMAI SIAMO AL 25°POSTO IN CLASSIFICA L'Economist stila le graduatorie dei paesi dove le condizioni sono più favorevoli: penalizzati dalla poca ricerca, dalla pirateria, dalla mancanza di cultura informatica VALERIO MACCARI Competitività in calo, pochi investimenti nellaricercae nello sviluppo diffusione della pirateria informatica, carenza di personale qualificato. E' poco confortante la radiografia dell’information technology italiana tracciata dall'Economist Intelligence Unit. Nella classifica mondiale di competitività IT per quest'anno l'Italia è al 25° posto, in calo di due posizioni, superata da Spagna e Estonia. L'Italia è l'unica delle grandi economie a non rientrare nelle prime 20 posizioni. Il settore It da noi contribuisce per meno della media del 5% del pil dei paesi più sviluppati. A guidare la classifica sono gli Stati Uniti, e il nostro paese è agli ultime posti anche in Europa: peggio di noi, tra i paesi europei presi in esame dalla ricerca, solo il Portogallo (al ventisettesimo posto), e la Grecia (trentatreesima). La classifica si basa su un indice di competitività messo a punto dall'Eiu per conto della Business Software Alliance, l'organizzazione che raggruppa i più grandi player dell’Information Technology, tra cui Apple, Microsoft e Adobe, e che si occupa di promozione della cultura informatica e lotta alla pirateria. L'indice prende in considerazione 6 fattori: cultura dell'innovazione, infrastrutture tecnologiche, disponibilità di personale qualificato, quadro normativo sulla proprietà intellettuale, competitività del sistema paese e leadership governativa. Per l'Italia il valore dell'indice è di 45,6 su 100. Ben lontano dal 74,6 degli Stati Uniti e inferiore anche alla media Ue (48,4). Commenta Luca Marinetti, presidente della BSA italiana: «L'Italia non figura fra le venti nazioni più avanzate in nessuna delle sei aree». A pesare sull'IT italiano, spiegano i ricercatori, sono la scarsa competitività e trasparenza dell'intero sistema paese: «Malgrado le riforme introdotte nei primi anni '90 abbiano ridotto i rischi operativi per le imprese -bacchetta l’Economist - si tratta di misure non strutturali e diluite nel tempo, che non hanno risolto le debolezze del sistema, come l'efficacia governativa, il funzionamento del mercato del lavoro, l'incertezza legale e normativa e la mancanza di competitività». Gli investimenti nella ricerca e lo sviluppo, poi, "sono bassi, ed è necessario incrementarli". Secondo i dati citati dall'Eiu, il settore privato investe 147 dollari ogni cento persone. Un valore al di sotto di quello riportato in altri paesi europei. La Svezia spende 948 dollari ogni cento abitanti. Gli investimenti governativi sono addirittura inferiori. «Le spese governative nella ricerca ammontano circa a 55 dollari per ogni 100 abitanti. Un valore simile a quello di paesi come la Slovenia, la Repubblica Ceca e la Spagna». Male anche il livello delle infrastrutture informatiche: con 37 computer e 18 connessioni a banda larga ogni 100 abitanti, l'Italia è sotto la media europea. Lo stesso .vale per la penetrazione di Internet, che interessa il 54% della popolazione. Meglio fanno le imprese: il 91 % si è da tempo convertito al l'uso di Internet per i servizi bancari e finanziari e il95% possiede un sito per comunicare online con il pubblico. Ma il problema è nella scarsa fiducia che gli italiani ripongono nelle tecnologie. Un atteggiamento che si riscontra soprattutto nei confronti dell'e-commerce, sottolinea l’Economist. "Il valore totale delle vendite online nel 2006 è stato di 5,33 miliardi di euro: l’ 1 % del valore del commercio "tradizionale" nello stesso periodo". La mancanza di una cultura tecnologica si riflette nella carenza cronica di personale qualificato che le aziende dell’IT si trovano ad affrontare. «Nonostante il settore occupi 700milapersone -spiega l'Economist -solo 155mila studenti optano per una facoltà scientifica. Un numero basso, data la dimensione della popolazione». Altra nota dolente, lo scarso rispetto del diritto d'autore: «I tassi di pirateria e contraffazione italiani sono tra i più alti dell'Europa occidentale, e il paese stesso è uno dei maggiori esportatori di merci contraffatte». Per combattere il fenomeno, spiega Marinelli, è necessaria la creazione di «un solido ambiente normativo per la tutela dei diritti legati alla proprietà intellettuale, sistemi efficaci per la gestione dell’e-commerce e la lotta alla criminalità informatica». ________________________________________________________________________ Il Giornale 23 set. ’08 NELL'ITALIA DEGLI SPRECHI I MORTI PRENDONO. LA PENSIONE Mariateresa Conti da Milano Venghino, signori venghino. È di scena il festival dello spreco: strumenti diagnostici delle Asl a mezzo servizio, a tutto vantaggio, dell'allungamento delle attese dei poveri malati; enti locali che spendono e spandono, tanto se per una spesa non c'è la copertura si fa un bel debito fuori bilancio e pazienza se poi i conti si chiudono in rosso; non si salvano neanche i poliziotti, che dimenticano di pagare le utenze degli alloggi di servizio, a tutto svantaggio del Ministero dell'Interno da cui dipendono. Ma la vera perla sono i defunti stipendiati: già, perché in un'Italia in cui i vivi faticano a essere retribuiti loro, i morti, continuano a prendere la pensione visto che l’Inpdap non si cura di controllare attraverso l'anagrafe chi è passato al mondo dei più. È un quadro desolante quello che viene fuori dalla relazione annuale dell'Ispettorato generale di finanza della Ragioneria generale dello Stato. Circa metà - dei controlli effettuati nel 2007 : tra enti locali, aziende pubbliche, strutture sanitarie, scuole e università sono sfociati in una denuncia alla Corte dei conti; in sette casi i rilievi sono stati girati alla Guardia di finanza e in quattro casi; addirittura, gli atti sono finiti alle procure. Nel dettaglio, sono stati eseguiti 514 , controlli nelle amministrazioni, passati al setaccio 731 bilanci di previsione, 598 delibere di variazioni di bilancio, 790 consuntivi, 798 delibere di cda di enti pubblici e 7.246 verbali di collegi sindacali. Inoltre, sono state controllate le cifre accantonate dal ministeri per ridurre la spesa «Campioni» di sprechi, alla fine, sono risultati Unità sanitarie locali, Enti locali e Protezione civile. Tra i settori più critici, la sanità. Gli ispettori hanno segnalato la «sottoutilizzazione dei macchinari diagnostici» e l'assoluta assenza di controllo sulle prescrizioni dei medici di famiglia. Altro neo, il sistema pensionistico. Per l’lnpdap la principale fonte di informazione sugli eventuali decessi sono i familiari dei defunti; non l'anagrafe comunale. Col risultato pratico di una miriade di pensioni erogate in maniera indebita. C'è poi il capitolo delle assunzioni indiscriminate. Che non risparmia nessuno. Da record gli enti locali, specie per l’«eccessiva attribuzione di posizioni organizzative apicali», alias i dirigenti. Ma il vizietto coinvolge anche le università, dove abbonda il ricorso a consulenze esterne «non sempre giustificato sotto il profilo della loro necessità e opportunità». Nella scuola, invece, sono stati riscontrati indebiti affidamenti di particolari funzioni a docenti e personale amministrativo, con relativa illegittima erogazione di emolumenti». Dalla scuola alle forze dell'ordine, che dimenticano di pagare luce, gas, canone Rai e riscaldamento degli alloggi di servizio temporaneamente concessi in uso. E poi due settori caldissimi, il Consorzio per l'emergenza rifiuti e Protezione civile, bocciati senza appello per troppe spese senza conseguimento di' risultati consistenti. ======================================================= __________________________________________________________ Il giornale di Sardegna 27 set. ’08 IL PREMIER: PRIVATIZZARE GLI OSPEDALI Nel mirino del Cavaliere le spese di Sardegna e Sicilia. Soru replica stizzito: «Si sbaglia di grosso» Passa per la privatizzazione degli ospedali pubblici la ricetta del premier Silvio Berlusconi per contenere le spese del “carrozzone” della sanità italiana. L'annuncio è arrivato da Todi dove il presidente del Consiglio ha partecipato a un incontro organizzato dai Liberali popolari di Carlo Giovanardi. «Rispetto al Veneto e alla Lombardia, in Sicilia e in Sardegna le spese sanitarie sono del 40 più alte. La soluzione è il federalismo fiscale e anche la privatizzazione di molti ospedali pubblici», ha affermato il premier che ha inoltre difeso il federalismo sostenendo che «è una riforma in cui la maggioranza conta» e grazie alla quale «si potranno abbassare le imposte ». Le affermazioni del Cavaliere hanno mandato su tutte le furie il governatore della Sardegna Renato Soru che a breve giro di posta ha replicato: «Berlusconi citando la Sardegna sbaglia di grosso perché l’Isola spende per la sanità esattamente quanto stabilito dal fondo sanitario nazionale». Il presidente sardo ricorda al premier che «al quarto anno di questa legislatura regionale siamo rientrati nelle cifre stabilite dai piani di spesa fissati nella conferenza Stato-Regioni. E la circostanza è stata riconosciuta dallo stesso ministero dell’Economia». ? __________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 set. ’08 LE PAGELLE ALL'ECM: INFERMIERI ENTUSIASTI, MEDICI FREDDI opinioni dei destinatari della formazione continua Promossa a pieni voti solo in area nursing - Organizzazione del lavoro: scarso l'impatto dei corsi - Sì alle Asl provider, Fad bocciata Non è di sicuro un "corsificio che distribuisce bollini" come nel più comune degli stereotipi. Ma l'Ecm, che per oltre la metà del personale del Ssn si è dimostrata una vera opportunità formativa - più per gli infermieri che per i medici non troppo soddisfatti -, va rivista soprattutto per un aspetto a dir poco cruciale: il suo scarso o limitato impatto che ha avuto finora sull'organizzazione del lavoro nella struttura in cui, finito il corso, si torna a indossare il camice bianco. Per il resto l'educazione continua in medicina incassa una promozione, anche se un po' stentata, sulla capacità di soddisfare le necessità di aggiornamento e su quella di migliorare le competenze. Mentre tra le cosiddette «modalità formative» la Fad - la formazione a distanza - attira critiche e scetticismo (soprattutto tra i medici). Voti, giudizi e pagelle sul pianeta Ecm e dintorni sono contenute nella voluminosa ricerca «le opinioni dei professionisti della Sanità sulla formazione continua», coordinata dall'Agenzia sanitaria dell'Emilia Romagna e commissionata dal ministero della Salute. Uno studio, appena pubblicato nella sua versione definitiva (alcune anticipazioni su «Il Sole-24 Ore Sanità» n. 20/2007) che si compone, tra l'altro, di due importanti indagini: una su base «campionaria», effettuata in 14 strutture di 11 Regioni a cui hanno risposto quasi 3.300 operatori e un sondaggio «volontario» on line (tra siti web di assessorati e di Asl) a cui hanno partecipato quasi 10.800 persone. L'Agenzia dell'Emilia Romagna ha anche lavorato, sempre su mandato del ministero, a una proposta operativa per creare un Osservatorio nazionale sulla qualità dell'Ecm. L'Ecm, per oltre la metà è un'opportunità. Nell'indagine «volontaria» il 47,5% sostiene di avere avuto maggiori opportunità di formazione con l'introduzione dell'Ecm. Percentuale che arriva al 56,8% nell'indagine campionaria. Per gli altri poco è cambiato se non addirittura peggiorato (il 10% nell'indagine volontaria on line e il 7,8% in quella campionaria). Va segnalato però che conta l'appartenenza professionale: i più entusiasti sono, infatti, gli infermieri (il 60% per lo studio campionario e il 56,6% per quello volontario hanno parlato di maggiori opportunità formative), più freddi invece i medici (solo il 44,6% e il 39,8% delle due indagini promuove l'Ecm) che in buona parte non vedono grandi differenze rispetto al passato. I risultati delle indagini mostrano poi, complessivamente, un atteggiamento positivo per quanto riguarda la soddisfazione dei bisogni formativi e soprattutto per il miglioramento delle competenze che si è verificato. Più fredde sono le considerazioni, in particolare nell'indagine volontaria, sugli effetti per lo sviluppo dell'organizzazione del lavoro: «Dai dati raccolti emerge - avverte l'indagine dell'Asr dell'Emilia Romagna - come questo sia effettivamente un punto critico». Infine il ruolo dell'Asl come provider di formazione non sembra in dubbio. Anzi, in entrambe le indagini oltre l'80% dei rispondenti ha dichiarato che le aziende dovrebbero investire più risorse nell'organizzazione diretta della formazione. E infatti pur restituendo un giudizio sostanzialmente positivo, c'è una significativa percentuale di operatori (30,5% nell'indagine campionaria e 38,9% nella volontaria) che ritiene che la propria azienda o ente di appartenenza non sia stato «sufficientemente in grado continua lo studio - di rilevare al proprio interno in modo efficace i bisogni di formazione e, con percentuali analoghe, neppure di tradurre le indicazioni della programmazione sanitaria in obiettivi formativi». Modalità formative sotto la lente. Giudizio «sostanzialmente positivo» per tutte le modalità formative, tranne che per la formazione a distanza che ha registrato il maggiore scetticismo da parte dei professionisti (in particolare nell'indagine campionaria). Convegni e seminari, a cui la letteratura scientifica attribuisce una bassa efficacia formativa in termini di modifica della pratica assistenziale sono comunque percepiti come occasioni utili per l'apprendimento. La variabile che maggiormente influenza l'orientamento degli operatori continua a essere, anche qui, l'appartenenza professionale: la lettura di articoli scientifici è stata valorizzata soprattutto dai medici, che probabilmente hanno maggiore consuetudine. Gli infermieri hanno dato giudizi migliori all'affiancamento e agli stage e soprattutto alla partecipazione a gruppi di miglioramento, pratiche largamente utilizzate nella professione infermieristica. Più sorprendente è forse la maggiore fiducia che gli infermieri hanno attribuito alla formazione a distanza in entrambe le indagini, rispetto a tutte le altre professioni che esprimono in media punteggi più bassi. Marzio Bartoloni __________________________________________________________ Corriere della Sera 26 set. ’08 EVOLUZIONE: IL NULLA CHE UNISCE Disegno intelligente ed Evoluzione sono entrambi figli del divenire e del caso Dio e Darwin Democrito e Aristotele spiegarono il divenire attraverso il caso, una potenza «che si produce da se stessa» muovendosi dal non-essere La creazione e la tecnica Su «Kos» Gli sviluppi della biologia hanno sottoposto la teoria dell' evoluzione a critiche profonde, ma ne tengono tuttora fermi i capisaldi: il carattere casuale della produzione del patrimonio genetico e la selezione naturale. In un passo molto noto de Il caso e la necessità, Jacques Monod scrive che «soltanto il caso è all' origine di ogni novità, di ogni creazione nella biosfera. Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice del prodigioso edificio dell' evoluzione». Monod si rifà esplicitamente al concetto democriteo di caso: la biologia percepisce il proprio legame con la filosofia greca, ma di esso non coglie ancora la forza - che in quanto segue intendo richiamare. D' altra parte la biologia sfrutta oggi a fondo il concetto di «programma», desunto dalla teoria dell' informazione: nei cromosomi di un embrione esiste un «piano», un «programma» appunto. «La vita segue un programma», che è «l' insieme delle potenzialità incorporate nella sostanza dei geni» (Salvador Luria). E, anche qui, il concetto biologico di «programma» è strettamente legato a quello aristotelico di «potenza». Tale concetto aristotelico di «potenza» guida l' intera civiltà occidentale - quindi anche l' intero sviluppo del sapere scientifico. Non è una stranezza che Werner Heisenberg abbia affermato che le «onde di probabilità» che producono i fenomeni «possono essere interpretate come una formulazione quantitativa del concetto aristotelico di dýnamis, di possibilità, chiamato anche, più tardi, col nome latino di potentia». L' «onda di probabilità» ha però molto da insegnare al modo in cui la biologia intende il concetto di «programma». Ha da insegnare che la scienza deve lasciarsi alle spalle ogni «necessità» e che la biologia non può concepire il patrimonio genetico come qualcosa che, «uscito dall' ambito del puro caso entra in quello della necessità, delle più inesorabili determinazioni», come sostiene Monod. «Caso» traduce la parola greca autòmaton che, alla lettera, significa «(ciò) che tende, si muove e si produce da sé». È la parola usata da Democrito - ma anche da Aristotele. Se si guarda ciò che sta attorno all' autòmaton, non si trova nulla che spieghi perché esso tenda, si muova, si produca. Cioè si trova il nulla. Muovendosi e producendosi «da sé stesso», si muove e si produce a partire dal proprio non essere. Ma quando la filosofia parla dell' «essere» e del «non essere» li pensa primariamente in relazione al divenire del mondo. Si tratta di comprendere che il caso non è una forma particolare e più o meno diffusa di divenire, ma che, dato il modo in cui l' Occidente intende il divenire, il divenire, in quanto tale, è caso: dunque è caso anche quando, come appunto avviene nella tradizione occidentale, si intende che il divenire sia guidato dalla Mente o dalla Provvidenza divina e creato da essa; ed è caso anche quando si presenta con quelle altissime forme di regolarità che sono state via via messe in luce dall' uomo comune e dalla scienza. Per Aristotele l' embrione è «in potenza» un uomo, ossia è il «programma» seguito dalla vita umana che si sviluppa. L' embrione diventa uomo, nel senso che realizza il proprio programma (il proprio Dna, dice oggi la genetica). Ma, prima dell' esistenza (cioè dell' «essere») dell' uomo, tale realizzazione non esisteva, cioè «non era», era nulla. E la biologia si esprime appunto, continuamente, con affermazioni come questa (di Jacob): che l' evoluzione ha prodotto «fenomeni che prima sulla terra non esistevano». Affermare che l' embrione è «in potenza» uomo significa dunque affermare che, nell' embrione, l' uomo realizzato non è, è nulla: si pensa, certamente, che esista già il programma di un certo individuo umano, ma non la realizzazione di tale individuo. Il programma, che è già esistente, è cioè unito al non essere (al nulla) della propria realizzazione. In relazione al programma, tale realizzazione non è casuale: il programma ne è la «spiegazione» e l' anticipazione. Ma in quanto la realizzazione è nulla quando ancora non esiste l' uomo realizzato, ne viene che questa sua nullità non può essere una «spiegazione» o un' anticipazione del futuro: è un nulla di spiegazione e di anticipazione. Ciò significa che, proprio perché si produce a partire dal proprio nulla, la realizzazione del programma è un «prodursi da sé», un autòmaton: è caso. Non può quindi essere che aleatorio, casuale, il modo stesso in cui il programma guida l' evoluzione degli individui e delle specie. Se ancora si vuole parlare di «guida», il rapporto tra programma e sua realizzazione (o tra «genotipo» e «fenotipo») può avere soltanto un carattere «probabilistico» (come l' «onda di probabilità» di Heisenberg). Ma lo stesso accade nel rapporto tra il «Programma» divino e le sue creature, che, per quanto anticipate e spiegate dal «Programma», secondo la teologia cristiana sono da esso create ex nihilo sui et subiecti: «Dal loro esser (state) nulla e dalla nullità della materia (subiecti) di cui son fatte». Nonostante abbiano alle spalle addirittura il Programma divino, le cose del mondo, in quanto create ex nihilo, sono caso, esistono casualmente. Il caso prevale sulla Provvidenza, che nella storia dell' Occidente intende, invece, essere spiegazione e anticipazione assoluta delle creature, mantenendo tuttavia, contraddittoriamente, la loro nullità originaria, ossia il loro essere originariamente un nulla che non può in alcun modo spiegare e anticipare la loro realizzazione. La stessa creazione divina del mondo è casuale, nonostante l' intenzione più ferma di vedere in essa la negazione più radicale della casualità. Il creazionismo e le forme più intransigenti di evoluzionismo si trovano dunque sullo stesso piano: sono grandi variazioni dello stesso Tema, il Tema del divenire, inteso come evoluzione dalla potenza all' atto che la realizza, e pertanto come evoluzione dal non essere all' essere. Se si è capaci di scendere nel sottosuolo della filosofia (ossia dell' anima) del nostro tempo, si scorge il legame essenziale che unisce l' evoluzione (il divenire) e il caso. Il divenire è caso; e nessuna necessità può caratterizzare i programmi informatici, biologici, metafisici, teologici perché se essa esistesse spiegherebbe e anticiperebbe tutto il futuro e, quindi, lo dissolverebbe perché dissolverebbe il nulla di ciò che ancora non è: dissolverebbe il divenire e l' evolversi di cui tale necessità vorrebbe essere la spiegazione e l' anticipazione: dissolverebbe quel divenire che, per gli stessi amici dei programmi mondani o divini, è l' evidenza suprema. Quel sottosuolo scorge, pertanto, che l' evoluzione non può nemmeno avere uno scopo necessario. Proprio perché il nulla originario delle cose non spiega e non anticipa il loro futuro, e la loro realizzazione è «libertà assoluta», l' evoluzione è «cieca», non può avere alcuna direzione se non quella che di fatto, casualmente, si produce e che di fatto è osservabile. Qualora avesse uno scopo inevitabile, quest' ultimo sarebbe daccapo il programma che dissolve il nulla del futuro e il divenire del mondo. Se la «direzione» dei fenomeni biologici è un semplice fatto constatabile (e non una «necessità»: il divenire del mondo «non ha senso»), rimangono tuttavia gli scopi dell' uomo (il senso che egli dà alle cose): rimane la sua lotta per la sopravvivenza, che ripropone e prolunga, nella dimensione cosciente, la cosiddetta «selezione naturale», secondo un tipo di «evoluzione» in cui va di fatto prevalendo, sugli altri scopi della civiltà occidentale e planetaria, la volontà dell' apparato scientifico-tecnologico di incrementare all' infinito la capacità di realizzare scopi. Va dunque prevalendo la selezione artificiale che si propone di guidare - secondo le leggi statistico-probabilistiche della scienza - la stessa «selezione naturale». Per quanto paradossale possa apparire, la «teoria dell' evoluzione», e in generale del divenire, è il farsi massimamente coerente da parte della teoria della creazione divina del mondo; è la variazione più coerente al Tema del divenire. Ma è questo Tema a non venire mai e in alcun modo discusso nel suo significato più profondo. Esso porta ormai sulle proprie spalle l' intera storia della Terra. Non è già questo il motivo sufficiente perché finalmente ci si fermi, ci si volti e lo si guardi in faccia (e lo si scuota per vedere fino a che punto non si lascia sradicare)? * * * Su «Kos» La creazione e la tecnica Oggi è in libreria il numero 9 di «Kos», bimestrale del San Raffaele diretto da Luigi Maria Verzé. È dedicato a «l' Evoluzione». Ospita, tra gli altri, articoli dello stesso Verzé, di Edoardo Boncinelli, di Luigi Luca Cavalli-Sforza e di Emanuele Severino, che all' Università Vita-Salute del San Raffaele è professore di ontologia fondamentale. Dal saggio di Severino intitolato «Il caso, il divino, la tecnica: variazioni dello stesso tema», diamo qui un estratto riveduto dall' autore stesso. Severino Emanuele __________________________________________________________ Corriere della Sera 23 set. ’08 ROTELLI: SANITÀ, TAGLIARE GLI SPRECHI NON LE PRESTAZIONI» Rotelli: sistema meno costoso rispetto ai Paesi Ue ma con spese inutili per 16 miliardi Preso ad esempio il sistema sanitario lombardo: 15 miliardi di spesa, 9 milioni di abitanti «e nessun disavanzo» Un sistema ospedaliero di eccellenza, un rapporto qualità-costi che incuriosisce gli americani (tanto da riuscire a trascinarli in Italia, destinazione San Donato), e una ricetta: «Per risanare la spesa sanitaria pubblica non è necessario tagliare le prestazioni. Bisogna decapitare gli sprechi». Lo dice serenamente Giuseppe Rotelli, presidente del gruppo ospedaliero San Donato (il più grande in Italia). Nessun pessimismo. E una convinzione: «La spesa sanitaria in Italia, non è assolutamente eccessiva». Quattro calcoli: 103 miliardi per far funzionare la macchina della sanità, 16 di sprechi. Rotelli analizza il dato: «La nostra spesa è una delle più basse in Europa». E per avere migliori risultati basterebbe seguire l' esempio virtuoso della Regione Lombardia, 15 miliardi di spesa, 9 milioni di abitanti «e nessun disavanzo». Un sistema che funziona. Ecco perché circa trenta specialisti statunitensi (della New York University) hanno deciso di partecipare alla tre giorni di corso organizzato dal Policlinico San Donato (da oggi fino a giovedì) per studiare le ultime frontiere della cardiochirurgia e, contemporaneamente, confrontare il sistema sanitario dei due Paesi. «Questa iniziativa - racconta Gabriele Pelissero, direttore scientifico del Policlinico San Donato - è fondamentale per la qualità del sistema sanitario. Solo con uno stretto legame tra ricerca e formazione è possibile migliorare l' attività clinica». Lezioni milanesi. Per americani. In pochi l' avrebbero detto, qualche anno fa. «Per la prima volta - continua Rotelli - i medici di una delle più importanti università del mondo vengono in Italia per seguire un corso (che dà ai partecipanti 18 crediti ciascuno), per confrontarsi con noi e capire l' eccellenza di un metodo». Un esempio: in Usa si spende il 15 per cento del Pil per la sanità, in Italia l' 8 per cento. Con una differenza decisiva: da noi si assistono tutti i sessanta milioni di abitanti - «extracomunitari compresi», dice Rotelli - mentre Oltreoceano «non si riescono a curare tutti gli americani: ne restano fuori 30-40 milioni». Ultimo smacco agli States: i Drg (le tariffe che stabiliscono i rimborsi) italiani e del Policlinico San Donato sono mediamente inferiori rispetto a quelli americani. Non di poco: dal cinquanta fino al cento per cento. Meglio prendere appunti. Annachiara Sacchi15I miliardi di spesa annuali per il sistema sanitario lombardoImprenditore Giuseppe Rotelli Sacchi Annachiara __________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 set. ’08 UN FESTIVAL PER CELEBRARE I 30 ANNI DEL SSN L'APPUNTAMENTO DI VIAREGGIO DEL 26-28 SETTEMBRE valore della salute IGNAZIO MARINO * Quest'anno si festeggiano i trent'anni dalla nascita del Servizio sanitario nazionale, una riforma fondamentale per il nostro paese che, nel 1978, ha dato concretezza a un diritto, quello alla salute, che era già stato riconosciuto dalla Costituzione. Assieme alla legge Basaglia e alla 194, approvate quello stesso anno, quella sull'istituzione del Ssn ha rappresentato il risultato di un percorso iniziato da lontano che ha permesso un reale sviluppo del nostro sistema di welfare. Questi progressi hanno avuto un impatto molto importante sulla società anche perché inseriti nel più vasto e ambizioso progetto di migliorare la qualità di vita dei cittadini a livello generale. Ma va riconosciuto che in trent'anni è cambiato il mondo, e senz'altro è cambiata la medicina e l'organizzazione del lavoro negli ospedali e per questo oggi si sente la necessità di riflessioni approfondite e confronti su che cosa significhi la salute oggi, un concetto in constante evoluzione. Si parla spesso di salute in tutte le politiche, ovvero dell'importanza di tenere in considerazione l'impatto che ogni nostra azione può avere sulla salute delle persone, dalla pianificazione di grandi opere dalle autostrade agli aeroporti, ai piani regolatori delle città, alle scelte in materia di energia, gli insediamenti industriali, alle produzioni agricole, alla legittimità o meno di messaggi commerciali come quelli che inducono a non fumare tabacco o bere alcol, e via di seguito. La salute, dunque, concepita come una situazione ideale cui tendere, una condizione che dipende in parte dai singoli individui, da fattori genetici e da abitudini di vita, ma anche dall'adozione di politiche pubbliche che favoriscano il benessere della società nel suo complesso. In questo senso, si può affermare che lo stato generale di salute di un paese va di pari passo con il suo sviluppo economico, sociale e culturale. Ciò non significa che i Paesi ricchi siano anche i più sani, pensiamo per esempio agli Stati Uniti, la nazione più ricca del pianeta dove l'obesità e il diabete e persino l'assenza di cure mediche (con quasi 50 milioni di cittadini privi di assistenza sanitaria) costituiscono vere e proprie piaghe sociali difficilissime da contrastare. Un fenomeno visibile anche nei paesi emergenti, come India o Cina, dove alcune malattie prima inesistenti oggi sono in pericoloso aumento proprio per colpa dell'adozione di stili di vita e di regimi alimentari dannosi per la salute e tipici delle società industrializzate. E dove si calcola che i cittadini privi di assistenza sanitaria siano centinaia di milioni. Salute dunque non come sinonimo di ricchezza ma come capacità di trovare un equilibrio tra il miglioramento delle condizioni di vita delle persone e i limiti per uno sviluppo sostenibile. Non dimentichiamo anche un altro aspetto e cioè che la salute è, e diventerà, uno dei grandi business del XXI secolo attorno a cui gravitano enormi somme di denaro. Solo in Italia parliamo di cento miliardi di euro investiti dallo Stato ogni anno per finanziare la Sanità pubblica, a cui si deve aggiungere il fatturato della Sanità privata. Verosimilmente, la medicina non può rimanere esclusa dalle strategie economiche dei grandi gruppi industriali o assicurativi, che operano talvolta seguendo unicamente logiche di profitto, ed è proprio per questo che servono regole e sistemi di controllo. Personalmente non trovo scandaloso né errato il fatto che la Sanità possa essere considerata come un settore di investimento da parte del mondo imprenditoriale, ma vi sono condizioni imprescindibili: che sia garantita la qualità dei servizi, che ognuno rispetti il proprio compito e il proprio ruolo e che i medici non vengano influenzati o addirittura sottomessi agli interessi dettati dall'industria. Entrare, anche nel nostro paese, in una logica di collaborazione e di sinergia tra settore pubblico e privato, è certamente una strategia sensata e lungimirante per affrontare i necessari sforzi di modernizzazione, strutturale, tecnologica e organizzativa. Fermo restando che il punto fermo deve rimanere quello di un'assistenza sanitaria gratuita, universalistica e improntata al principio della solidarietà. Anche per questo non si possono considerare le questioni economiche della Sanità come problemi contabili, come costi da tagliare, posti letto da ridurre, assunzioni da bloccare e via di seguito. In Sanità, se si vuole risparmiare sul lungo periodo garantendo i servizi, servono investimenti e l'unico modo davvero efficace per risparmiare in medicina è avere meno ammalati e meno persone da curare. Partendo da queste considerazioni e riflessioni appena accennate, è nata l'idea di organizzare il Festival della Salute, che si svolgerà a Viareggio dal 26 al 28 settembre. Sarà una manifestazione aperta a tutti, a chi si interessa ai temi della salute per motivi professionali o di studio ma anche a coloro che vogliono semplicemente conoscere più da vicino una materia che, in un modo o nell'altro, riguarda tutti. Il programma del Festival si articolerà su quattro linee direttrici, il benessere della persona, del pianeta, del servizio sanitario e i temi di grande attualità. Si alterneranno dibattiti politici, tra cui un confronto sul federalismo sanitario che chiuderà il la manifestazione versiliese, ma si è voluto dedicare spazio ai temi che, in modo complementare, contribuiscono a creare l'idea di salute da come rendere più vivibili le nostre città, al ruolo delle medicine non convenzionali, dalla ricerca di benessere nella terza età, ai cambiamenti climatici, dalla prevenzione alla ricerca scientifica, dalla cooperazione internazionale al coinvolgimento diretto dei cittadini nelle scelte politiche per la salute. * Presidente Comitato scientifico Festival della Salute __________________________________________________________ Corriere della Sera 21 set. ’08 EUROPA CON I CAPELLI BIANCHI MENO ABITANTI, 1 SU 3 OVER 65 Un solo lavoratore per ogni pensionato L’ orologio accelera e l’Europa cerca lo sprint per correre (ai ripari). Eurostat, l’ufficio statistico europeo, in un rapporto di fine agosto delinea il profilo di un continente schiacciato dal peso degli anni e inseguito dal tic-tac di una bomba a orologeria. Ecco le ultime proiezioni sul futuro demografico dell’Ue. L’inverno demografico L’analisi si concentra sui ventisette Stati attualmente membri dell’Unione europea per seguirne una verosimile curva evolutiva dal 2008 al 2060. In assenza di adeguate contromisure, a partire dal 2015, tra appena sette anni, il numero delle morti supererà quello delle nascite e l’Europa sarà gradualmente risucchiata nel tunnel dell’inverno demografico. Anche se fino al 2035 la popolazione continuerà a crescere, passando da 495 a 521 milioni di persone, a partire da quell’anno la curva imboccherà la traiettoria discendente per arrivare a poco più di 505 milioni nel 2060. Ancora più drastico il calo prospettato dall’Istituto di Berlino per la Popolazione e lo Sviluppo che, in linea con l’ultimo Rapporto di monitoraggio dell’Osservatorio europeo su Demografia e società, vede i cittadini dell’Europa a Ventisette ridursi, già nel 2050, ad appena 472 milioni ogni generazione andrà restringendosi di un quarto rispetto alla precedente. «Vale la pena ricordare — spiega Giampaolo Lanzieri, senior statistician e capo della sezione Demografia, censimenti e proiezioni di Eurostat — che si tratta di proiezioni, non previsioni, quindi scenari plausibili che possono realizzarsi in presenza di determinate condizioni e che sono stati elaborati a partire da un’ipotesi di convergenza delle tre variabili fecondità- mortalità-migrazione». Restano differenze significative tra i vari Paesi con una ideale linea di demarcazione che separa la «vecchia Europa», cuore storico del continente con baricentro a ovest, dalla «nuova», rampante ma ancora fragile, a Est. Nel 2060 gli Stati maggiormente popolati saranno, nell’ordine, Gran Bretagna (con 77 milioni di persone), Francia (72 milioni), Germania (71), Italia (59) e Spagna (52). Ma in proporzione a beneficiare dei maggiori incrementi demografici saranno Cipro, Irlanda, Lussemburgo, la stessa Gran Bretagna, Svezia; mentre la popolazione calerà principalmente a Nord-Est, in Bulgaria, Lettonia, Lituania, Romania e Polonia. La scalata degli over 65 Stretta tra calo delle nascite e progressivo innalzamento dell’età media, l’Europa vedrà gli over 65, che oggi costituiscono il 17,1 per cento della popolazione complessiva, scalare la piramide demografica e assestarsi a quota 30 per cento nel 2060, mentre nello stesso periodo gli over 80 saliranno dall’attuale 4,4 al 12,1 per cento. Questo significa che nel 2060 per ogni over 65 ci sarà solo una persona in età lavorativa, mentre oggi il rapporto è di uno a quattro. In Italia oggi il rapporto è del 30,5%, nel 2060 sarà del 59,3%.Le ondate migratorie Tra le variabili fondamentali per ipotizzare gli sviluppi demografici del continente l’invecchiamento costituisce un dato ormai incontrovertibile, più sfuggenti e difficili da prevedere risultano invece i futuri movimenti migratori. Secondo le proiezioni Eurostat, realizzate alla luce delle attuali normative in materia di regolarizzazione, a partire dal 2015, l’anno del «sorpasso» delle morti sulle nascite, l’immigrazione resterà il solo fattore di crescita demografica ma già dal 2035, ed è questo il dato più preoccupante, non svolgerà più questa positiva funzione di bilanciamento. Se da un lato, come rivela il Rapporto di monitoraggio dell’osservatorio europeo, il tasso di fecondità delle immigrate di seconda generazione tende a contrarsi rispetto alle madri quando non ad armonizzarsi con la media del Paese ospitante, dall’altro gli analisti concordano sulla necessità di ripensare il flusso migratorio come un fenomeno strutturale da promuovere. Germania e Gb: i casi Clamoroso il caso della Germania, che dalla riunificazione del 1990 è stata il Paese più popoloso d’Europa e dove nel 2007 le nascite hanno toccato il livello più basso dal 1945: 680 mila, persino meno delle 700 mila registrate nell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale; particolarmente grave la situazione nei Länder orientali, svuotati da una massiccia emigrazione, soprattutto femmi- L’analisi Eurostat e Istituto di Berlino hanno realizzato le proiezioni demografiche dei 27 Stati Ue per il 2035 e il 2060 La classifica La Gran Bretagna diventerà lo Stato più popolato con 77 milioni di persone. Dietro Francia, Germania e Italia nile. Questo malgrado gli sforzi della cristiano- democratica ministra della Famiglia, Ursula von der Leyen, madre di sette bambini e determinata promotrice dell’Elterngeld, una vera e propria «retribuzione », fino a un massimo di 1.800 euro al mese, per il genitore in congedo parentale: durata della copertura, dodici mesi se resta a casa solo un membro della coppia, q u a t t o r d i c i s e mamma e papà si dividono il periodo. In agosto l’ufficio statistico tedesco ha annunciato una prima timida ripresa del tasso di natalità (+1,37%) ma la strada è ancora lunga. Il grande sorpasso è stato quello della Gran Bretagna, che entro il 2050 supererà la Germania e nel 2060 anche la Francia. La forza del Regno sta nel mix vincente di alto tasso di natalità (1,8/9 figli per coppia) e apertura all’immigrazione. Intanto l’Unione europea cerca contromisure. La portavoce della Commissione Amelia Torres ha indicato le priorità per vincere la partita demografica: stabilizzazione finanziaria, crescita dell’occupazione, riforme struttura teria pensionistica. Maria Serena Natale ________________________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 set. ’08 UN FONDO PER MEDICINE A BASSO COSTO Le case farmaceutiche guadagnerebbero in proporzione alle vite salvate di Peter Singer * Oggi il 90% delle spese si concentra su malattie responsabili solo del 10% dei decessi e delle disabilità a livello mondiale L'INIZIATIVA Servirebbero 4 miliardi di euro all'anno per garantire alle aziende del settore incentivi tali da spingerle a brevettare farmaci per i Paesi poveri In un mondo ideale, la quantità di denaro che spendiamo in ricerche per prevenire o curare una malattia sarebbe proporzionale alla gravità della stessa e al numero di persone che ne sono affette. Nel mondo reale, il 90% del denaro speso per la ricerca medica si concentra su condizioni responsabili appena del 10% dei decessi e delle disabilità provocate complessivamente dalle malattie a livello mondiale. In altre parole, sui morbi che provocano i nove decimi di quello che l'Organizzazione mondiale della sanità definisce "il fardello mondiale delle malattie" si concentra appena un decimo degli sforzi globali della ricerca medica. La conseguenza è che ogni anno muoiono milioni di persone per malattie ignorate dalla ricerca medica, mentre le compagnie farmaceutiche spendono miliardi e miliardi per elaborare cure per la disfunzione erettile e la calvizie. Ma è troppo facile dare la colpa alle compagnie farmaceutiche. Queste aziende possono giustificare lo sviluppo di nuovi farmaci solo prevedendo di rientrare dei costi attraverso le vendite. Se si concentrano su malattie che colpiscono gli individui benestanti o le popolazioni che vivono in Paesi dotati di servizi sanitari nazionali, avranno la possibilità di brevettare qualsiasi nuovo farmaco che scoprono. Per i 20 anni di durata del brevetto, avranno il monopolio della vendita del farmaco e potranno imporre un prezzo elevato. Se le compagnie farmaceutiche concentrassero i loro sforzi su malattie che colpiscono solo soggetti non in grado di pagare prezzi elevati per i farmaci, non potrebbero aspettarsi di coprire i costi sostenuti per la ricerca, e ancor meno di realizzare profitti. Anche se i loro consigli di amministrazione volessero concentrarsi su quelle malattie che mietono più vittime, fattuale sistema di incentivi finanziari farebbe sì che i loro azionisti li rimuoverebbero dall'incarico, oppure che le loro società si ritroverebbero ben presto fuori dal, mercato. Non sarebbero di aiuto a nessuno. Il problema sta nel sistema, non negli individui che all'interno di quel sistema effettuano le proprie scelte. In un incontro a Oslo in agosto, la Incentives for Global Health, un'organizzazione senza scopo di lucro diretta da Aidan Hollis, professore di economia all'Università di Calgary, e Thomas Pogge, professore di filosofia e affari internazionali a Yale, ha lanciato una nuova, radicale proposta per modificare il sistema degli incentivi utilizzati per ricompensare lo sviluppo di nuovi farmaci da parte di grandi aziende del settore privato. La proposta è che i governi contribuiscano a creare un "Fondo di impatto sanitario" da usare per ripagare le compagnie farmaceutiche in proporzione al contribuito offerto dai loro prodotti alla riduzione del "fardello mondiale delle malattie". Questo Fondo non sostituirebbe le leggi esistenti in materia di brevetti, ma offrirebbe un'alternativa ad esse. Le compagnie farmaceutiche potrebbero continuare a brevettare e vendere i loro prodotti come fanno adesso. Oppure potrebbero registrare un nuovo farmaco presso il Fondo, che fisserebbe un prezzo basso, basato sul costo di fabbricazione della medicina. Invece di guadagnare vendendo i farmaci a prezzi alti, l'azienda riceverebbe una quota di tutti i pagamenti fatti dal Fondo nei dieci anni successivi. L'entità di questa quota sarebbe calcolata valutando il ruolo svolto dal farmaco nella riduzione dei livelli di mortalità e disabilità. Il bello di questo progetto è che fornisce una base economica al concetto che tutte le vite umane hanno lo stesso valore. Registrando i loro prodotti presso il Fondo, le aziende guadagnerebbero, salvando la vita ai più poveri tra gli abitanti dell'Africa, le stesse cifre che guadagnano salvando la vita dei cittadini benestanti di nazioni ricche. Gli obiettivi potenzialmente più lucrativi diventerebbero quelle malattie che uccidono il maggior numero di persone, perché è in quel campo che un farmaco rivoluzionario produrrebbe il maggior impatto in termini di salute mondiale. Inoltre, le aziende avrebbero un incentivo a produrre e distribuire medicine al prezzo più basso possibile, perché solo se i poveri fossero in grado di comprarle si riuscirebbe a salvare il maggior numero possibile di vite umane. Un'azienda potrebbe scegliere di consentire la fabbricazione di copie generiche del proprio farmaco nei Paesi in via di sviluppo, perché in questo modo si potrebbe estenderne l'utilizzo e salvare altre vite, e il Fondo di impatto sanitario compenserebbe l’azienda che ha brevettato quel farmaco. Hollis e Pogge calcolano che il Fondo avrebbe bisogno di circa 6 miliardi di dollari (4 miliardi di euro) all'anno per garantire alle compagnie farmaceutiche incentivi sufficienti a brevettare prodotti mirati a curare le malattie dei poveri. Per raggiungere questa cifra, basterebbe che quei Paesi che rappresentano un terzo dell'economia globale - cioè le nazioni europee, oppure gli Stati Uniti e un paio di piccole nazioni ricche - versassero lo 0,03% del proprio Prodotto interno lordo, tre centesimi ogni cento dollari che guadagnano. Non è una somma trascurabile, ma non è impossibile da raggiungere, tanto più se si considera che anche le nazioni ricche avrebbero il proprio tornaconto, grazie all'abbassamento del presso dei farmaci e a una ricerca medica concentrata sulla lotta alle malattie invece che sull'ottimizzazione dei profitti. * Professore di bioetica a Princeton Copyright: Project Syndicate,2008 (Traduzione di Fabio Galimberti) ________________________________________________________________________ Libero 25 set. ’08 GLI ANIMALI GAY Leoni, bisonti, pinguini, giraffe, oche grigie Sesso "omo" per scelta o per convenienza MARINELLA MERONI C'era una volta, anzi, c'è ancora. L'incompetenza. Ma anche la superstizione, la poca voglia di conoscere, capire e rispettare veramente gli animali. Oggi sappiamo qualcosa in più del loro comportamento e dei loro sentimenti, ma fino a qualche anno fa era impensabile supporre che potesse esistere l'omosessualità nel regno animale (ancora tabù nell'uomo). II comportamento gay tra gli animali venne notato per la prima volta dal filosofo greco Aristotele, che lo osservò tra le iene circa 2.300 anni fa. Per secoli gli scienziati hanno fatto finta che l'omosessualità animale non esistesse. PREGIUDIZI E RICERCA «Non se ne sono occupati per paura di essere considerati gay, o per pregiudizi omofobici», osserva Bruce Bagemihl, biologo e ricercatore della British Columbia University. Solo da quando, il 1° agosto 1995, la 24esima Conferenza etologica internazionale ha solennemente dichiarato l'omosessualità animale un legittimo campo di ricerca, le cose hanno iniziato a cambiare, e sono state avviate ricerche sul campo. IL PRIMATO DEI BISONTI Qualche studioso ha ipotizzato che l'inversione sessuale derivi da una patologia causata dalla convivenza forzata di alcuni esemplari dello stesso sesso, spesso rinchiusi in piccoli spazi, come accade negli zoo o negli allevamenti, o forse da un difetto di ìmprinting. Ebbene oggi, grazie allo studio di qualche scrupoloso ricercatore, si è scoperto che non è solo questo, ma che in natura esistono le "coppie gay". Certo, sapere che il primato gay spetta ai bisonti del Nord america ci lascia sorpresi, ma i re della prateria non sono i soli a mostrare comportamenti sessuali sganciati dal bisogno di procreare. L'elenco si arricchisce sempre di più: trichechi, scimpanzé, vari tipi di insetti, balene, elefanti, giraffe, leoni, pecore, bovini. Per non parlare degli animali ermafroditi, quelli cioè che nell'arco della loro vita possono svolgere la funzione sessuale del maschio o della femmina a seconda delle circostanze. Secondo Konrad Lorenz, noto etologo austriaco e Premio Nobel nel 1973 per i suoi studi nel campo del comportamento animale, l'espressione della sessualità dipende da due fattori: uno riguarda i comportamenti sociali e l'altro la scelta del partner. GERARCHIE E TATTICHE Nel primo caso, come avviene ad esempio in alcune specie di scimmie, l'omosessualità serve per stabilire gerarchie, per rinsaldare l'unione del gruppo e per comunicare affetto e appartenenza. Oppure, come si è notato tra i leoni, l'omosessualità è una tattica messa in atto per non essere attaccati dall'avversario: in pratica il giovane maschio, avvicinato da un adulto, recita la parte della femmina per bloccare l'aggressività dell'altro. Il secondo fattore, dicevamo, è quello relativo alla scelta del partner. Curiosa, a questo proposito, la recente scoperta di Peter Bockman, curatore della mostra del Museo di storia naturale di Oslo: durante le stagioni degli amori i maschi di trichechi si accoppiano con le femmine per procreare, mentre il resto dell'anno si trastullano con esemplari più giovani dello stesso sesso. Un po' come avveniva nelle civiltà classiche greca e romana. LA FEDELTÀ Tutto questo non significa, comunque, che la fedeltà di coppia gay non esista. Ne sono un esempio le oche grigie, capaci di stabilire legami che durano per tutta la vita. Non solo. Si può parlare di nozze d'oro anche per i pinguini e i gabbiani argentati. E ci sono poi tipi di legami che si possono definire estremi, come quello di alcuni esemplari maschi di cigni neri che arrivano ad impossessarsi delle uova altrui e a covarle a turno. Anche cani e gatti non scherzano. Insomma, ce n'è davvero per tutti i gusti. Ritaglio EFFUSIONI "OMOSEX" Anche tra le giraffe ci sono esemplari maschi che si accoppiano fra di loro. l'omosessualità in questa specie arriva fino al 50% __________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 set. ’08 L’ALCOLISMO È SCRITTO NEI GENI Convegno. Secondo la ricerca di uno psichiatra americano il Dna può svelare in anticipo il rischio di dipendenza Quadruplicati in 4 anni i pazienti, anche giovani, in cura Ricerca su 2000 californiani. Ma nell’Isola resiste la tradizione del bicchiere in compagnia, che si moltiplica e diventa bottiglia e poi prende le forme pericolose della dipendenza. Marco, alcolista per trent’anni, teneva le mignon di cognac nel cassetto della scrivania («avevo bisogno d’alcol dalla mattina presto»), e prima di iniziare a lavorare, dava un bel sorso. E ha cominciato a bere, bere veramente, quando ne aveva quindici, di anni. Altri tempi? Sì: adesso si inizia ancora prima, da bambini. Dieci, undici al massimo. Nelle piazze di Cagliari come nei bar dei paesi del centro Sardegna. Questione di genetica? È quello che sostiene Marc Schuckit, uno psichiatra di passaporto americano ma con modi da gentleman inglese, professore dell’Università di San Diego (California), dove insegna una materia «complessa e difficile». Ovvero: come i geni del nostro Dna possono svelare in anticipo il rischio di dipendere dalla bottiglia. Perché se uno diventa alcolista, i colpevoli sono noti: «Per il 60 per cento è genetica, per il 40 è il condizionamento dell’ambiente». Tradotto: se si tocca il fondo con un dito e si spaccano famiglie, o si arriva al punto di Marco («guidavo ubriaco, ho fatto un incidente che mi sogno ancora la notte») non è scritto negli astri ma nelle nostre cellule. Non solo: «Tanto dipende dalla gente che ci circonda, dal tipo di famiglia e dalla percezione negativa o positiva che possiamo avere dell’alcol». In Sardegna l’alcolismo tocca da vicino il 10 per cento della popolazione e il Serd (Servizio regionale per le dipendenze) è intasato di richieste. Nel 2003 i pazienti in cura erano 50, nel 2007 sono diventati quasi un esercito: 406. Un aumento legato all’organizzazione (sono stati accorpati i centri di Cagliari e Senorbì) ma anche all’aumento di una dipendenza che ora, dopo anni di ghettizzazione nei ceti medio-bassi, ha clienti in abbondanza anche tra laureati, professionisti e insospettabili. Schuckit (che ieri ha parlato in una conferenza all’auditorium della Banca Cis, organizzato dall’assessorato regionale alla sanità) ha scoperto che i forzati del bicchiere diventano tali anche per una questione genetica: «Alcuni geni aumentano i rischi: si ha una sorta di predisposizione a diventare alcolisti. È come per l’infarto: non si ha la sicurezza che i soggetti a rischio abbiano un attacco di cuore, ma è più facile che vengano colpite queste persone». E la possibilità che la dipendenza dall’alcol vada a braccetto con le malattie mentali è alta. «L’abuso è spesso alla base dei ricoveri nei reparti di psichiatria», ha ricordato Gianluigi Gessa, intervenuto insieme a Roberta Agabio (del centro studi abuso alcolico) alla conferenza del Cis. Secondo la ricerca del professore americano, che ha studiato oltre 450 famiglie del suo Stato (quasi 2.000 persone), l’influenza della famiglia è determinante nel formare i bevitori del futuro. «Dipende da come viene affrontato il problema-alcol. Chi è abituato a bere, non lo vede come un male». E in questo la California non è molto diversa dalla nostra Isola: la tradizione del bicchiere in compagnia, che si moltiplica e diventa bottiglia e poi prende le forme della dipendenza. Perché, sostiene Schuckit, alcolisti si nasce. E in Sardegna è più facile diventarlo. MICHELE RUFFI __________________________________________________________ Corriere della Sera 22 set. ’08 CELIACHIA, LA SVOLTA DA UN SALERNITANO EMIGRATO NEGLI USA ROMA - «Macché professore. Sono figlio di un ferramenta e me ne vanto. Ho fatto la fame. E me ne vanto. Per sbarcare il lunario ho svolto quattro lavori insieme. E me ne vanto. E ora che sono, almeno dicono, il numero uno degli Stati Uniti nel campo della celiachia, per me non è cambiato niente. Figlio di ferramenta resto, cara mia». Personaggio fuori dall' ordinario, Alessio Fasano, 52 anni, da Salerno, felicemente unito a una psicologa americana, capo di una bella famiglia allargata e, soprattutto, del centro dell' università di Baltimora dove coordina ricerche all' avanguardia nel settore delle malattie autoimmuni. Eccolo qui, di passaggio in Italia per il congresso internazionale organizzato a Genova dall' associazione italiana celiachia. Dove, tra l' altro, sono stati annunciati i promettenti risultati della pillola capace di sventare gli attacchi del glutine all' intestino. Se esistesse l' associazione dei cervelli fuggiti dall' Italia, questo scienziato semplice, simpatico, geniale in tutto (anche nella scelta di camicie dal colore insolito), sarebbe di certo il loro presidente. «Sono andato a Baltimora nel ' 93, professore associato all' università del Maryland non per ambizione, né per soldi, né perché rifiutato dal mio Paese, l' Italia, che si regge sul sistema dei figli di papà. E figuriamoci chi se lo filava il figlio di un ferramenta. Volevo, assolutamente volevo, aiutare i pazienti con malattie autoimmuni. Ho deciso di fare il medico perché ho visto mia sorella Annamaria soffrire dolori atroci per l' artrite reumatoide. Aveva 12 anni quando cominciò la tortura, è morta 6 mesi fa. Credo che con la pillola anti-celiachia abbiamo aperto la strada alla cura di molte altre malattie autoimmuni». E' stata dura, durissima trasferirsi a Baltimora con due figli piccoli, da ragazzo-padre, un nuovo lavoro da impostare, la diffidenza e l' invidia dei colleghi americani, l' ostilità della comunità scientifica che negava l' esistenza della celiachia in Usa. Ma Alessio non aveva scelta, dopo tutte le mortificazioni, i calci, i no prego lei resti indietro che prima dobbiamo sistemare il figlio di e il nipote di: «Non mi sono mai arreso - racconta -. Fin dall' inizio sapevo che sarebbe stato il prezzo da pagare. Per mantenere la prima famiglia ho lavorato saltando le notti. A fine mese contavo i centesimi. Guadagnavo 1 milione e 300 mila al mese contro i 100 mila dollari all' anno che avrei preso a Baltimora. E c' è chi mi ha dato del codardo perché ho lasciato l' Italia, cara mia». Tifoso della Salernitana, prima in serie B, ex pallanuotista, convinto della superiorità degli italiani, tutto ingegno e fantasia, Fasano è fiero di essere un esempio: «Siamo i migliori talenti del mondo e abbiamo le peggiori risorse per la ricerca. Non auguro a nessuno di subire quello che è toccato a me, cara mia». De Bac Margherita __________________________________________________________ Corriere della Sera 21 set. ’08 LO PSICOLOGO A SCUOLA? ASSENTE Solo consulenze episodiche e brevi. Due scuole su tre chiedono aiuto allo psicologo ma da noi i soli interventi possibili sono brevi e non continuativi Fanalino di coda in Europa: siamo l' unico Paese che non ha un servizio di psicologia scolastica strutturato. All' estero è invece prevista la presenza continuativa di uno specialista a fianco degli insegnanti; persino in Germania dove gli psicologi scolastici sono pochi la loro presenza è continuativa (vedi tabella). Eppure, nell' ultimo triennio due scuole italiane su tre hanno richiesto l' intervento di uno psicologo, aiuto che ha potuto essere solo episodico. Questa la fotografia che emerge dai dati raccolti dal Consiglio nazionale dell' Ordine degli psicologi (Cnop). L' indagine, svolta in collaborazione con gli Istituti regionali per la ricerca educativa, ha coinvolto 1.511 psicologi e 1.921 scuole pubbliche di ogni ordine e grado in tutta Italia. L' intervento dell' esperto riguarda soprattutto gli alunni che non s' impegnano nello studio, o che hanno comportamenti aggressivi e violenti in classe. «In alcune Regioni - sottolinea Giuseppe Luigi Palma, presidente del Cnop - 15 studenti su cento non completano nemmeno il percorso dell' obbligo. E il 41% di alunni delle scuole elementari dice di subire atti di prepotenza nelle aule». La consulenza dello psicologo è richiesta anche per l' orientamento scolastico e professionale dei ragazzi, per corsi rivolti ai genitori, per offrire supporto agli insegnanti (vedi box). Sottolinea uno degli autori della ricerca, Carlo Trombetta, docente di psicologia dell' educazione alla Lumsa (Libera Università SS. Maria Assunta) di Roma: «La scuola oggi deve fare i conti con le tante trasformazioni in atto sia al suo interno sia nella società. E chiede aiuto allo psicologo che dovrebbe avere competenze che spaziano dai processi di apprendimento all' orientamento, dall' organizzazione scolastica alla consulenza individuale e di gruppo. Competenze difficili da trovare nella stessa persona, motivo in più per pensare a un servizio strutturato, affidato a una équipe di esperti e non a un singolo». Inoltre, riprende Palma: «Visto che oggi lo psicologo interviene in seguito a richieste specifiche, lavora "a progetto", può operare per periodi molto limitati, di solito meno di tre mesi. Noi invece chiediamo una legge quadro nazionale che istituisca servizi di psicologia scolastica continuativi; spetterebbe poi alle Regioni programmare e finanziare i servizi a livello territoriale, in base alle necessità delle diverse scuole». Faiella Maria Giovanna