GELMINI: ATENEI, NIENTE SOLDI - QUEL CHE RESTA DELL'UNIVERSITÀ - DI IORIO: LA FINE DELL’UNIVERSITÀ - ANCHE LE UNIVERSITÀ INVECCHIANO - ATENEI, L'ITALIA FUORI DAI PRIMI 100 - GOSMINO: DA DESTRA PENSO ALLA QUALITÀ - SORPRESA, NEI LICEI AMERICANI È DI MODA STUDIARE LATINO - I TREDICENNI? PIÙ BRAVI AL SUD IL «GIALLO» DEI TEST DELLE MEDIE - MEDICINA, UN NOBEL CONTRO L'AIDS - MA Il NOBEL PREMIA ANCORAI MIGLIORI? - NELLE UNIVERSITÀ NON C'È SOLO NEPOTISMO - AMSICORA NON ERA PUNICO: ERA SARDO - PA: BOCCIATI I SITI INTERNET - SIENA, 145 MILIONI DI DEBITI È ALLARME ALL'UNIVERSITÀ - CHE FATICA (E QUANTE SPESE) PER I TEST D'INGRESSO ALL'UNIVERSITÀ - SIENA, 145 MILIONI DI DEBITI È ALLARME ALL'UNIVERSITÀ - SE IL DENARO INFLUISCE SUI GENI - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, LOTTA APERTA AI MALATI IMMAGINARI - IL CERVELLO FORMATO INTERNET - ======================================================= VERONESI: IL PATTO CON I PAZIENTI - SANITÀ, L'ITALIA BATTE GLI STATI UNITI - IL PREMIER: PRIVATIZZO GLI OSPEDALI, ANZI NO - I PICCOLI CHIMICI DELLA SANITÀ SARDA - I MEDICI DEI FARAONI "PIONIERI DELLA NEUROCHIRURGIA - UN ACCORDO STRALCIO PER FAR RIFIATARE I MEDICI - SANITA: RIFORMA IN TEMPI BREVI RIORGANIZZANDO IL TERRITORIO - DOTTORE MI FIDO DI TE - IL SAN GIOVANNI DI DIO COMPIE 150 ANNI - SUMAI: UNA SFIDA CRUCIALE PER GLI SPECIALISTI AMBULATORIALI - SONO TRENTA MILIONI GLI EUROPEI COLPITI DA 6MILA PATOLOGIE RARE - 130 MILA TOSSICODIPENDENTI NON RICEVONO ASSISTENZA - SCLEROSI MULTIPLA: TRENTA MOLECOLE PER CURE MIGLIORI - LE MALATTIE RESPIRATORIE COSTANO 100 MILIARDI - ORA LA VITA SI PUÒ LIOFILIZZARE - RENE, TRAPIANTO DA CADAVERE - PROTETTE DAI GLOBULI ROSSI - PROSTATA, UNA SPIA CONTRO IL CANCRO - UN NASO ELETTRONICO PER LA DIAGNOSTICA - MEDICI IN DIFESA, «ANTIDOTO» FIDUCIA - ======================================================= _______________________________________________________________ ItaliaOggi 11 ott. ’08 GELMINI: ATENEI, NIENTE SOLDI OK ALLE RIFORME. MA A COSTO ZERO Il ministro dell'università Gelmini ha incontrato i rettori DI BENEDETTA PACELLI Niente soldi per le casse già disastrate degli atenei italiani. Quindi, meglio non contare su alcun euro in più. Ma il mondo accademico può stare tranquillo: le riforme si faranno, solo che saranno a costo zero per lo stato. Nel bel mezzo di autunno caldo per la scuola e l'università italiana, fatto di proteste e manifestazioni, il ministro Mariastella Gelmini tira fuori il suo piano nel cassetto per riordinare, senza un euro in più, il sistema accademico e fa un appello ad alcuni rettori incontrati non in via ufficiale, a non contare su soldi aggiuntivi. Che chissà, se si riusciranno a contenere i focolai di protesta che stanno dilagando in tutti gli atenei italiani magari, prima o poi potranno anche arrivare. Insomma il ministro chiede una mano ai rettori per avviare e portare a compimento le riforme, anche grazie al tavolo Cun, Crui, Cnsu (solo annunciato ma mai convocato). La Gelmini dichiara anche la disponibilità a fare il tentativo di rastrellare, per il futuro, qualche risorsa in più, a patto che i magnifici mettano fine alle proteste. Che, nel frattempo si stanno spargendo a macchia d'olio in tutti gli atenei e continueranno fino all'inaugurazione dell'anno accademico che in molti vogliono bloccare. Assemblee di fuoco da Pisa a Roma, da Firenze a Torino, ma anche Siena, Brescia, Genova per decidere blocchi, cortei, manifestazioni. E le mobilitazioni, come ha fatto sapere l'Unione degli universitari, proseguiranno per tutto l'autunno «se il ministro e il governo non decideranno di ritirare i provvedimenti che stanno cancellando l'università pubblica». Ma nel frattempo gli organi consultivi del ministero (Crui e Cun) sono al lavoro per indicare alla Gelmini, come chiesto in una lettera da lei stessa inviata, le principali linee guida per una riforma dell'università condivisa. Dopo la Crui quindi è la volta del Consiglio universitario nazionale mettere nero su bianco le proposte. Che partono da una semplice considerazione: il sistema universitario nazionale è fondamentalmente pubblico. Dopo quindi una risposta indiretta alla possibilità contenuta nella legge 133/08 di trasformare le università in fondazioni di diritto privato, il Cun indica «assolutamente prioritaria» la riforma del governo del sistema nel suo complesso e la governance delle singole istituzioni universitarie. Secondo l'organo presieduto da Andrea Lenzi, poi, la costruzione «di adeguati e credibili» meccanismi di valutazione dei risultati è una condizione necessaria per introdurre meccanismi premiali di ripartizione delle risorse. C'è poi il nodo concorsi. Per il Cun è necessario un meccanismo stabile e un reclutamento con un'idoneità nazionale fondata sul merito e selezioni locali. Infine la questione della progressione di carriera che non va confusa, con il reclutamento iniziale e il problema delle sostenibilità finanziaria assicurata consolidando la spesa corrente mediante azioni di riequilibrio e prevedendo stanziamenti premiali. ________________________________________________________ L’Unità 9 ott. ’08 QUEL CHE RESTA DELL'UNIVERSITÀ ALDO GIANNULI Le notizie sono da bollettino di guerra: il Rettore della Statale di Milano dice che, a seguito dei tagli, non sa se già dal 2010 sarà costretto a bloccare il pagamento degli stipendi, quello di Siena dichiara che non sa come fare già dal 1° gennaio, e così via. Inoltre nel giro di sei anni andranno in pensione circa il 50% degli attuali ordinari ed associati; questa legge finanziaria prevede che, sino al 2012, solo un quinto di essi possano essere sostituiti con nuovi concorsi e, dal 2013 uno su due. Ovviamente, si apriranno vuoti paurosi nella didattica che saranno colmati o con il lavoro gratuito dei ricercatori (magari promossi "professori aggregati", con lo stesso stipendio di oggi, per obbligarli a farlo a costo zero o con contratti a tempo. Forse siamo maligni (d'altra parte, "qualcuno" ci ha insegnato che "a pensar male si fa peccato, però si indovina") ma ci viene il dubbio che questa cura da cavallo abbia poco a che fare con reali esigenze di bilancio e punti invece ad una rapida e generalizzata privatizzazione dell'Università. Già la manovra finanziaria di luglio ha fatto balenare l'ipotesi che le università possano trasformarsi in fondazioni di diritto privato, con una semplice delibera del senato accademico. Allora facciamo una ipotesi: le università, una dopo l'altra, si trovano in condizioni di non poter far fronte alle spese e decidono per questo di trasformarsi in fondazioni, per acquisire soci privati, con due esiti: alcune li trovano e, in breve, diventano appendici di qualche gruppo finanziario, altre non li trovano e, semplicemente, falliscono (come ogni impresa privata) ed i loro beni vanno all'incanto, acquistati per due soldi, da gruppi finanziari che ci fanno la loro università. Ovviamente, università privatizzate non avrebbero alcun interesse a bandire concorsi, ma procederebbero con contratti da precari, e non avrebbero alcun interessa a mantenere facoltà "improduttive": ci sarà un futuro per Lettere, Scienze Naturali, Scienze della Comunicazione? E al posto dl Lingue non basterà una scuola per traduttori e interpreti? Qui non si tratta di qualche taglio alta spesa pubblica, ma del tentativo di cambiare natura al sistema universitario italiano con un colpo di mano. Beninteso, l'attuale ordinamento è indifendibile: l'offerta didattica fa pietà, i profili professionali sono assolutamente fuori mercato, la selezione del corpo docente è clientelare e scandalosa, la ricerca sopravvive in poche isole. Ma non sarebbe una gran soluzione quella di passare dalla padella baronale alla brace padronale. Occorre pensare ad una forma radicalmente nuova di università alternativa tanto a quella esistente quanto a quella che ci propongono Tremonti e la Gelmini. Possiamo provare a discuterne? _____________________________________________________ Il Centro 9 ott. ’08 DI IORIO: LA FINE DELL’UNIVERSITÀ Non c'è dubbio che il sistema formativo nazionale sia in quesiti giorni al centro del dibattito pubblico, in forza delle riforme che il governo sta attuando a colpi di decreti legge e di richieste di fiducia. Come spesso accade nel nostro Paese, il dibattito, scavalcando la sua naturale sede di discussione politica vale al dire il Parlamento, si trasferisce nella società, dove non può che assumere le lume e i metodi propri della protesta sociale. Sta avvenendo così per la scuola, con maggiore clamore in considerazione del grande numero di persone interessate in termini di insegnanti, di famiglie e di studenti. Sta avvedendo così anche per l'Università, forse con minore clamore mediatic9, ma con uguale preoccupazione e partecipazione di tutte le componenti accademiche. La conversione in legge (n. 133/08) del decreto legge 112/08 ha posto sul sistema universitario pubblico un'ipoteca pesantissima che di fatto prelude alla sua ormai prossima fine. Un'ipoteca che assume le forme perverse della limitazione al 20% del turn-over per gli anni 2009-2011 e al 50% per l'anno 2012 del personale docente e tecnico-amministrativo; degli ulteriori tagli al finanziamento ordinario che viene ridotto di circa il 25% in termini reali entro il 2011 della possibilità di trasformazione degli atenei in Fondazioni private; del taglio delle retribuzioni del personale. Difficilmente l'Università italiana, in quanto sistema pubblico e diffuso su tutto il territorio nazionale, riuscirà a sopravvivere gravata da una tale ipoteca. Basti solo considerare a ciò che succederà agli anelli più deboli del sistema: il taglio dei finanziamenti comporterà l'aumento delle tasse per gli studenti; la riduzione del turn-over impedirà a tanti giovani meritevoli la possibilità di accedere alla carriera universitaria. Ma per evitare tecnicismi accademici e tentare, invece, una lettura più generale di quanto sta avvenendo nel nostro Paese mi sembra di poter affermáre che le riforme imposte dal governo corrispondano al principio liberista di spostare il finanziamento del sistema formativo dal contribuente all'utente, nell'assunzione che quest'ultimo, pagando direttamente le «rette agli atenei», sia nelle condizioni di esigere un servizio adeguato e ciò di per sé garantisca una riforma compiuta di tutto il sistema, favorendo la concorrenza tra le Università e selezionando pochi atenei eccellenti. Che questa assunzione sia in realtà una presunzione, è dimostrato in modo eclatante da quanto sta avvenendo proprio in questi giorni in tutto il mondo, con il fallimento epocale di un modo di interpretare il settore che meglio dovrebbe corrispondere a logiche liberiste, vale a dire il mercato finanziario. Ed è paradossale che gli stessi che oggi reclamano una maggiore competitività tra le Università, individuandone i finanziatori nei soli «menti», siano gli stessi che richiedono l'intervento dello Stato - vale a dire dei contribuenti - per limitare i fallimenti dei sistemi liberisti che stanno portando a picco le economie mondiali. Come si può pensare che ciò che ha non ha funzionato con il denaro, possa funzionare con la formazione e la cultura, che sono quanto di più difficilmente oggettivabile e quantificabile secondo logiche «monetariste»? Un dato è certo. Dopo il sistema formativo, il prossimo obiettivo sarà la sanità, che verrà sottoposta ad una riforma «liberista» che ha già dimostrato tutti i suoi limiti sanitari ed economici in altri Paesi. Così mentre negli Stati Uniti Barak Obama imposta la sua campagna elettorale su questi temi e lo stesso presidente Bush, per non dire di Tremonti, fulminati sulla via di Damasco della crisi finanziaria mondiale, si convertono ad uno «statalismo» di ritorno, in Italia i pregiudizi ideologici che hanno già fallito in contesti molto diversi dal nostro, vengono agitati come la panacea di tutti i mali della nostra Università. Decretandone invece la fine, quantomeno di quella pubblica. * Rettore Università dell'Aquila _________________________________________________________ L’Unione Sarda 9 ott. ’08 ANCHE LE UNIVERSITÀ INVECCHIANO rinnovamento cercasi di Paolo Pani* Dopo il "ventennio" di pace sindacale e accademica, l'Ateneo di Cagliari avrà, nel 2009, un nuovo Rettore. Per l'Università non è dei periodi migliori, sembra che abbia chiuso i suoi recinti (forse non è più il caso di parlare di "Cattedrale"), impermeabile a qualsiasi forma di rinnovamento e di confronto. Sono i modi con cui l'Università interpreta la sua autonomia. Il nuovo Rettore dovrà tenerne conto. Diventano pregiudiziali le modalità con cui sarà eletto: è il primo argomento d'affrontare per le prossime elezioni. Dal punto di vista legislativo non ci sono novità, a livello nazionale o, tanto meno, a livello locale (Senato accademico): il Rettore sarà eletto secondo i vecchi criteri se non intervengono cambiamenti dell'ultimo momento. Sono modalità elettorali del tutto peculiari al nostro sistema universitario, ma è bene sottolineare come non trovino riscontro in altri Paesi occidentali, in Europa e negli Usa. Si può ricordarle: l'elettorato passivo è molto ampio, la docenza (professori ordinari e associati, ricercatori), quote significative delle rappresentanze del personale tecnico-amministrativo (con espliciti riferimenti al sindacato) e degli studenti (il riferimento è alle associazioni politiche studentesche). In linea di principio sarebbero criteri molto democratici (è quanto rivendicato da molti docenti), ma rimane, forte, il dubbio sul piano dell'efficienza organizzativa, accademica (della docenza e della ricerca) e amministrativa. I gradi di libertà e l'autonomia programmatica dei candidati sono, infatti, molto precari. Essi devono tener conto di un vasto elettorato con interessi particolari spesso contrastanti; inoltre, le candidature sono fortemente associate alle alleanze accademiche (di Facoltà), dove più che i programmi contano la consistenza del proprio bacino elettorale e il carattere dei rispettivi interessi. A questo punto è forse utile il richiamo a un'immagine virtuale: è come se il Presidente e/o l'amministratore delegato di un'azienda fossero eletti da un corpo elettorale consistente dei propri dipendenti e del management . I cattivi risultati, prevedibili, sono evidenti nel nostro sistema universitario nazionale: Atenei che si ritorcono su se stessi, invecchiano, sono poco competitivi (in termini di idee e di modelli culturali) e scarsamente produttivi (produzione non si esprime solamente in termine di beni materiali), sono, inoltre, evidenti gli eccessi di "familismo", anagrafico e accademico, propri dei sistemi sociali chiusi. È il prezzo amicale degli ammiccamenti che si è pagato per la pace universitaria, nella ricerca e mantenimento di un proprio consenso elettorale. Difficile, ma non impossibile, rompere quel circolo vizioso: se si credesse il contrario per l'Università sarebbe crisi irreversibile, eutanasia. È inevitabile, però, un atto preliminare, il rinnovamento del senso elitario della funzione universitaria, associato al merito e all'assunzione di responsabilità istituzionale, soprattutto nella figura del Rettore. Il senso di élite non contraddice un processo democratico, anzi lo rafforza strutturalmente, soprattutto quando riferito ad alte cariche istituzionali, e il Rettore è tale. Il senso elitario dovrebbe essere recuperato, innanzi tutto, nei meccanismi procedurali dell'elezione del Rettore e in un ragionevole ma consistente ridimensionamento dello stesso corpo elettorale. In questo senso si avvertono cauti segnali. Alcuni docenti dell'Ateneo cagliaritano hanno formato un largo comitato, dove possano confluire le candidature per essere adeguatamente valutate, oltre la roulette elettorale. Altri si sono appellati a un comitato di saggi. Sono iniziative positive, ma non sufficienti, è necessario che vengano coinvolte, nella stessa direzione, con iniziative statutarie, le stesse istituzioni, in primo luogo il Senato accademico. Un breve e ultimo commento sul senso elitario: non devono essere nascosti i pericoli, quelli del gattopardismo di una vecchia classe accademica. Una deriva autoritaria può essere contrastata, con regole certe, dall'autonomia e dalla costante vigilanza delle istituzioni d'Ateneo (Consiglio d'amministrazione, Senato accademico, Facoltà). Sono gli strumenti di una democrazia matura, dei pesi e contrappesi. È inseguimento dell'araba fenice? Può essere, ma forse l'araba fenice esiste, lo imporrebbero un auspicabile senso di responsabilità delle istituzioni universitarie, la loro stessa credibilità e sopravvivenza. *Università di Cagliari _________________________________________________________ Corriere della Sera 10 ott. ’08 ATENEI, L'ITALIA FUORI DAI PRIMI 100 Il «Times» apre il caso Bologna L'università migliore del Paese è al posto numero 192, dopo Bombay e la Corea La classifica Pasquino: all'estero non pubblichiamo. Flamigni: esclusi da tutto La Sapienza di Roma e la Bocconi di Milano sono fuori dalla classifica dei primi duecento BOLOGNA — La Dotta o la Rotta? Mamma mia come invecchi male, Alma Mater. Sull'orlo della retrocessione, peggio dei rossoblù del pallone. Con quest'università che una volta pensare il mondo faceva e ora, dicono, fa pensare solo il peggio. Lontanissima da Harvard e da Oxford: si sapeva. Lontana dall'Europa della ricerca: da anni. Adesso, scivolata pure dopo Hong Kong, Mosca, Bombay, i cinesi... «Che cos'è successo all'università di Bologna?», titolava ieri il Times, editoriale di pagina 2, pubblicando l'annuale classifica delle 200 capitali del sapere, ignorando la Bocconi di Milano, depennando La Sapienza di Roma e annunciando con raccapriccio come il più antico ateneo del mondo, l'unico italiano rimasto in graduatoria, «un tempo rinomata sede di grandi umanisti e scienziati», stia ormai al posto 192 (al 78 in Europa) per qualità della ricerca, per tasso d'occupazione dei laureati e per profilo internazionale, insomma per tutto quel nutrimento che in mille anni la Grassa Mater ha sempre dato. Mille e non più mille: che cos'è successo, bolognesi? «Che il Times parla a nuora perché suocera intenda — risponde il rettore, Pier Ugo Calzolari —. Il problema non siamo noi, che nel 2010 avremo problemi a fare perfino il bilancio ma nella classifica, comunque, ci stiamo. Il problema è l'Italia che non investe abbastanza in ricerca ed è destinata a venire scavalcata dal-l'Asia ». Il politologo Gianfranco Pasquino, che insegna a Bologna dal 1969, riconosce che «qualcosa sta succedendo a quest'università, a questa città e a questo Paese che invecchiano», ma non prende per oro colato un Times che da Londra boccia noi e intanto mette in classifica 29 inglesi: «Mi stupisce molto che fra i primi 200 non ci sia la Bocconi...». La decadenza è un fatto, però: «Molti docenti bolognesi sono autorevoli — dice Pasquino —, ma hanno una certa età, pubblicano poco all'estero, mentre in un mondo globalizzato vanno avanti i coreani o cinesi che studiano in America e poi tornano a casa, continuano a scambiare informazioni in comunità dove l'unica lingua è l'inglese». Non è più aria di glossatori e pandettisti, basta campare sui busti di Copernico e Borromeo, Carducci e Pascoli: l'Alma Mater è in calo d'iscritti, ci sono facoltà (Veterinaria) che quest'anno perdono il 35% delle matricole. Nemmeno il celebre Dams di Umberto Eco attrae più. Dice Alessandro Bergonzoni, ex studente, oggi attore: «Le pagelle non contano. L'unica facoltà che m'interessa è quella mentale: prima che nelle istituzioni, la decadenza la vedo nelle persone. Bologna o Napoli, l'università o la monnezza, a mancare è l'anima, l'amore per il conoscere. Assenza d'immaginazione: a Bologna vivi bene, ma quest'assenza la vedi, e non solo in università». «Se ci consideriamo è un conto, se ci confrontiamo è un altro — dice il professor Carlo Flamigni, pioniere della fecondazione in vitro —: Bologna è pur sempre eccellente, in Italia. Ma il punto è l'Italia. Quant'è stupido un Paese che non investe nella ricerca e si condanna a star fuori da tutto? Bologna, chiaro, soffre i mali nazionali. Prenda come seleziona i ricercatori: sarà anche bello che il figlio del primario voglia fare il primario, ma forse ci vorrebbe una regola che glielo vieti. E poi qual è il posto dove un ricercatore, prima di ricercare, deve chiedere il permesso al sacerdote o alla casa farmaceutica? E chi ha un Cnr come il nostro che fa la Il rettore politica degli accattoni, dà quattro soldi a chiunque per non scontentare nessuno, un clientelismo che non serve a niente? All'Università di Bologna comandano due grandi famiglie: i massoni e l'Opus Dei. Senza di loro non hai soldi, collaboratori, nulla: sono qui dal 1960 e non sono mai stato inserito in una commissione di Medicina, dove gestiscono il potere vero e danno le borse di studio. I giovani hanno capito e infatti, se vanno all'estero, non tornano. Fanno bene. Là, ragionano coi migliori cervelli. Qui, trovano i laboratori coi topi. E non resta loro che adagiarsi ». Calma Mater, troppo calma. Racconta Pasquino d'avere due incarichi, sotto le Torri, e uno è al Bologna Center della John Hopkins University: «Fra i due istituti ci sono 200 metri. Due mondi. Gli americani, se non va il power point, in tre minuti mi mandano un tecnico a sistemare. Da noi, stamattina facevo lezione e non funzionava il microfono. Naturalmente non è venuto nessuno. Ho detto agli studenti: non tossite troppo, se no là in fondo non sentono niente...». «Il giornale parla a nuora perché suocera intenda Il problema è nazionale» Il genetista «Qual è il posto dove un ricercatore deve chiedere il permesso al sacerdote?» Francesco Battistini _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 ott. ’08 GOSMINO: DA DESTRA PENSO ALLA QUALITÀ Il preside Gosmino: migliorare i livelli d’insegnamento di Pier Giorgio Pinna SASSARI. Si chiama Rodolfo. E certo come quel Valentino mito del cinema coltiva sanguigne passioni. «La prima è per una scuola di qualità che dia un servizio ottimale agli studenti e alle loro famiglie», spiega accalorandosi. Ma Rodolfo Gosmino, 64 anni, genovese di nascita e sardo da sempre, preside negli istituti dell’isola da decenni, sembra avere pochi altri tratti in comune con l’idolo del set. Lo descrivono a tinte fosche: un duro che vede i sindacati come il fumo negli occhi. Tuttavia molti allievi e tanti docenti lo difendono. Nel suo curriculum non mancano polemiche aspre. Persino una causa giudiziaria complicata: lo vede opposto a una professoressa che l’accusa di non averle garantito il diritto ad assistere la figlia malata. Lui di quest’ultimo punto preferisce non parlare fuori dalle aule del tribunale, in ciò fedele alla figura del divo italiano del «muto» approdato a Hollywood ma costretto dai tempi a esprimersi per iscritto. Più in generale, però, ribatte con fermezza: «Io non ce l’ho con nessuno: a volte, sono le organizzazioni che rappresentano i dipendenti ad avercela con me». Laurea a Genova dopo il diploma nell’istituto sassarese La Marmora, Gosmino nei primi anni di carriera ha insegnato «matematica finanziaria attuariale ed economica», come tiene a precisare specificando nel dettaglio la materia. Successivamente è stato preside incaricato a Tempio e Ozieri, poi nei tecnici per geometri e per ragionieri a Sassari. Sempre nel capoluogo, da tre anni, dirige l’Alberghiero: 1200 iscritti, decine d’insegnanti, convitto maschile per 42 allievi, tre classi serali per lavoratori, laboratori di cucina, sala, bar, informatica. L’istituto è il più blasonato dei nove “professionali” sardi con le stesse caratteristiche: in marzo festeggerà il mezzo secolo di vita nella nuova sede dalle tecnologie ipermoderne nel quartiere di Santa Maria di Pisa. - Tagli, riforme, proteste: professor Gosmino, perché la scuola è così malridotta anche in Sardegna? «Prima di rispondere, credo sia doverosa una premessa: un discorso che mi sembra fondamentale per affrontare l’intera questione». - Qual è? «Dalle indagini PISA 2006 sui livelli di insegnamento l’Italia si conferma in coda alle graduatorie per la preparazione degli studenti e il rendimento dei docenti. Io stesso ho ereditato un istituto che sotto questo profilo non faceva eccezione: siamo risultati ultimi in qualsiasi classificazione, ho persino fatto affiggere i risultati nelle bacheche». - E allora? «Bene: ogni tipo d’istituto, in relazione alla sua specificità, deve garantire le migliori prestazioni. Io credo in una scuola di qualità, capace di competere sul piano internazionale. Il resto non m’interessa». - Neppure le riduzioni delle cattedre nell’isola? «Guardi, a mio avviso la faccenda è chiara: discende dalla premessa appena fatta. Per me il problema dell’occupazione nel settore è un problema che non esiste proprio. La mia sola preoccupazione è che la scuola proponga il meglio delle competenze in ambito europeo e mondiale. Se la scuola riesce a raggiungere questo risultato, l’occupazione è un dato conseguenziale». - Dal ministero non è però che arrivino incoraggiamenti verso una scuola diversa nella sostanza: i provvedimenti hanno più un sapore ragionieristico, come fatti da chi si occupa semplicemente di far quadrare i conti. «In ogni caso, io domando a tutti di fare un esperimento. Si provi a chiedere a qualsiasi diplomato che voti darebbe ai suoi docenti e quanti ne boccerebbe. I risultati balzerebbero agli occhi: si salverebbero in pochi. Non a caso uno dei miei cinque figli, con sacrificio, oggi fa l’università a Montreal, in Canada». - Lei che farebbe per invertire la rotta? «I nostri alunni in genere hanno grandi capacità. Troppo spesso si trovano però di fronte docenti autoreferenziali che neppure completano il programma, pur dichiarando di averlo terminato». - E allora? «Non pensiamo ai tagli. Pensiamo alla preparazione dei professori. Facciamo come in Francia: ci sono ispettori che ogni tre anni fanno sopralluoghi a sorpresa per verificare che cosa realmente viene insegnato e come». - Accertamenti, riscontri, controlli: e il merito? «Se i risultati del lavoro sono positivi, le retribuzioni devono crescere». - Ma in un’Italia e in una Sardegna condizionata da gruppi di pressione, poteri forti, arbitrii, omissioni, clientelismi, nepotismi e altri «ismi» che alla fine sconfinano in comportamenti paramafiosi, tutto ciò non appare utopistico senza che sia accompagnato da cambiamenti in profondità? «Personalmente credo nel merito: delle competenze, non delle conoscenze. Ma, a parte le battute, non vedo una strada diversa. Guardiamo all’esempio inglese. Il dirigente di un istituto lo è per tutti i livelli di apprendimento: dalla scuola per l’infanzia all’anno che precede il diploma. È lui che nomina i professori e li riconferma, è lui che è chiamato a rispondere dei successi e delle perdite, anche finanziarie». - Un sistema diverso per un Paese diverso. «Ma che dà buoni frutti, al contrario di quanto succede da noi. E del resto che alternativa c’è? Noi abbiamo davanti un paziente grave. Per curarlo vogliamo ricorrere ai medici migliori o pensare a quanti posti devono essere assegnati all’ospedale dov’è ricoverato?». - Insomma: le piante organiche non fanno per lei. «Non la porrei in questi termini. Io però faccio il preside, non il sindacalista». - Si è trovata un’intesa per Alitalia: possibile che non si riesca a raggiungere un accordo per far cessare i conflitti nella scuola? «Nel corso della prima trattativa Air France e Lufthansa si sono dette disponibili a patto di non avere a che fare con le organizzazioni sindacali». - Ma qualcuno si deve pur assumere la responsabilità di rappresentare i lavoratori: è previsto nella Costituzione. «E allora i sindacati si occupino dei contratti, non dell’organizzazione. Lei è convinto che facciano gli interessi degli alunni?». - E lei? «La competenza della formazione ricade sul parlamento. I sindacati tutelino i lavoratori, non interferiscano su queste scelte. E lo dico da ex dirigente del Sism-Cisl e dell’associazione dei presidi». - Non le sembra di essere un tantino drastico? Prendiamo il caso dei precari. Il sistema Siss è di fatto abolito. In tutta Italia ci vorranno vent’anni per immettere i 240mila già in graduatoria. Se lo lasci dire, la sola strada è garantire controlli di efficienza-rendimento e migliorare il servizio». - Un discorso che vale anche per i corsi destinati ai lavoratori? «Negli anni ’70 ho dato la mia disponibilità a tenerli quando altri li rifiutavano. Credo che in questo caso si debbano introdurre strumenti di protezione». - E per quanto riguarda i docenti di sostegno? «Per assicurare un’assistenza più adeguata bisognerebbe trovare soluzioni differenti. Magari coinvolgendo diversi ministeri. Come si fa in altri Paesi. Con una personalizzazione delle cure da destinare agli allievi portatori di handicap». - In Sardegna il calo demografico crea classi sovraffollate nelle aree urbane e microscuole nelle zone interne spopolate: che fare? «Se c’è la disponibilità dei locali e la partecipazione motivata degli alunni, non esiste differenza tra classi di 25 o di 30 alunni». - Eppure, i professori ritengono che quando in aula ci sono troppi studenti sia impossibile seguirli tutti bene. «Da bambino ho avuto come maestre suore che sapevano bene come gestire classi di 60 alunni. Ma lo ripeto: parliamo di ragazzi disciplinati, fatti interessare e motivati». - A proposito: qual è la sua opinione sul ritorno all’insegnante unico alle elementari? «Ci sono stati buoni risultati con il metodo basato sul modulo, altrettanto buoni con il maestro unico. E naturalmente è accaduto anche il contrario. In questi casi il livello degli insegnanti conta più del sistema». - Che cosa pensa della riforma Gelmini per il prossimo anno scolastico? «Non va bene parlare solo di bilanci e occupazione. Finché il governo non deciderà di verificare il livello di preparazione degli studenti migliorandolo attraverso un rendimento ottimale dei docenti il vero problema non sarà affrontato in termini corretti. In Germania sono retrocessi di qualche casella nei dati Pisa rispetto alla Francia e in quattro mesi hanno varato provvedimenti per rafforzare la didattica. Da noi non bastano gli anni e nel frattempo si pensa ad altro». - Se è per questo si ventila pure la diminuzione delle ore di lezione. «Ogni analisi va fatta sulla qualità, non sulla quantità. In Sardegna e in altre aree meridionali ci potrebbero essere decine di talenti matematici e nessuno li scoprirebbe mai. È un caso che in Italia nessuno s’iscriva più nelle facoltà di matematica e fisica? No, in realtà queste materie non sono insegnate come dovrebbero». - Che cosa pensa del ripristino del grembiule in aula? «Qualsiasi scelta si faccia, non lo ritengo un problema importante». - E del voto in condotta? «Esiste già, ma non viene applicato come in passato. D’altronde un fatto è sicuro: la litigiosità del Paese nasce dalla litigiosità dei cittadini che crescono all’interno delle classi». - Magari c’è però qualche contributo esterno: criminalità, scontri sociali, cattivi maestri in certi programmi tv. Non crede? «Perfetto, è così. Ma il Giappone ha il doppio della nostra popolazione, soltanto 1500 magistrati e le carceri semivuote. Noi abbiamo oltre 13mila giudici vittime del sistema, penitenziari che scoppiano e cause che non finiscono mai. È una coincidenza il fatto che gli studenti nipponici si puliscano l’aula, rigovernino se mangiano in mensa, siano abituati sin da piccolissimi all’autodisciplina?». - Dal 2009 con una sola insufficienza si potrà essere bocciati alle elementari e alle medie: che ne pensa? «Farei come in Francia: succede se a fine anno si ha non un 5 ma almeno un 4 in materie fondamentali come lettere e matematica». - Non le sembra un po’ eccessivo? «No, lo fanno i francesi, non vedo perché non dovrebbe valere per noi: avere una grave insufficienza in lettere o matematica equivale a incontrare difficoltà in altre materie». - Non crede che la troppa burocrazia uccida le possibilità di conoscenza? «Molte procedure sono sbagliate, non a favore degli allievi. Andrebbero semplificate, snellite. Ma questa non è una scusa per consentire al sindacato di metter mano alla gestione della scuola». - In definitiva, questa del sindacato appare un tantino come una sua ossessione: lei, professor Gosmino, sul piano politico come si definirebbe? «Proveniente dalla sinistra socialista, oggi mi colloco nel centrodestra e sono stato anche candidato per Fi e Mpa. Mi considero una persona libera di pensiero con basi logiche, matematiche, economiche e giuridiche con alto senso dello Stato: ho speso una vita per i miei studenti». - Un uomo controcorrente? «Non direi». - Appunto. _________________________________________________________ Repubblica 8 ott. ’08 SORPRESA, NEI LICEI AMERICANI È DI MODA STUDIARE LATINO In dieci anni aumentato del 30% il numero di chi supera l'esame ROMA Sarà responsabile la crisi economica e dei valori o semplicemente è tutta colpa dei film dai grandi incassi, dal "Gladiatore" a "Troy" fino alle formule magiche di "Harry Potter", ma il paese più moderno e più avanzato del mondo torna all´antico e sui banchi di scuola sceglie di studiare il rigore, il passato ovvero il latino. Nelle scuole di New York ma anche in Nuovo Messico e Alaska, sempre più studenti si applicano alla lingua di Cicerone. Si cimentano con i futuri e i participi, abituati ad un idioma sintetico e globale guardano indietro e scelgono di declinare rosa, rosae. Un articolo del New York Times illustra una tendenza che forse è qualcosa di più di un episodio e qualcosa di diverso da una moda scolastica, è una ventata di classicismo che si diffonde nelle aule dove gli studenti navigano su Internet e comunicano con sms e chat. Crescono infatti i corsi di latino, fa proseliti la cultura dei "padri europei", un mondo non più noioso, obsoleto o snob, ma per i ragazzi semplicemente cool. Le cifre sono sufficienti a far parlare di un fenomeno e a spingere ad indagare: negli ultimi due anni sono stati più di 134 mila gli studenti americani che si sono presentati all´Esame nazionale di latino, erano stati 124 mila del 2003 e i 101 mila del 1998. Gli studenti che superano l´Advanced Placement Test sono raddoppiati in dieci anni, più di 8 mila nel 2007. Non solo corsi di studio ma anche scuole come la Brooklyn latin school, sorta nel 2006, dove il preside Jason Griffiths spiega solennemente che il latino è «la lingua delle persone di successo». Non ci sono però solo i libri per studenti secchioni ma anche spettacoli per nuovi fans come quello che mette su il liceo di Scarsdale, nello stato di New York, che organizza ogni anno un banchetto per le Idi di marzo dove bisogna presentarsi vestiti con la toga. Gli studenti invece di inorridire sono aumentati del 14 per cento. È così che dopo il francese e lo spagnolo la lingua di Cicerone potrebbe raggiungere il tedesco nella classifica delle più studiate lasciando indietro il cinese, troppo lontano e oscuro anche se emergente. «Non mi stupisce questo interesse, mi stupisce che arrivi adesso», dice in Italia Filippo Tarantino, preside e protagonista di una rete europea di scuole e insegnanti che promuove la cultura classica e i valori umanisti, si chiama Ewhum ed è attiva in nove paesi, dalla Spagna alla Romania. «Gian Battista Vico diceva che quando una nazione vuole nobilitarsi deve cercare le radici. Le nazioni più avanzate hanno capito che se vogliono radicarsi, devono andare al passato. Dal latino c´è molto da imparare, la sua logica è la cosa più istruttiva che ci sia, ma tutta la storia è ancora ricca d´insegnamenti: gli antichi romani sono riusciti a costruire un impero grandissimo e far parlare tanti popoli lo stesso linguaggio». «Futuro latino» recitava un convegno recente che proponeva uno sguardo al passato per affrontare i rischi e le incognite della globalizzazione. «Credo che questo interesse si possa leggere anche come un antidoto alla modernità e ai suoi eccessi», spiega Michele Cortellazzo, docente di linguistica. «In Italia siamo ancora dentro ad un discorso di distacco e abbandono ma i paesi più avanzati possono volgersi al passato senza complessi». Il latino ha confini chiusi, «monolitici, è una lingua ancora governabile», nel mondo che cambia la lingua dei Cesari può essere anche rassicurante. _________________________________________________________ Corriere della Sera 7 ott. ’08 I TREDICENNI? PIÙ BRAVI AL SUD IL «GIALLO» DEI TEST DELLE MEDIE ROMA — I tredicenni del Sud sono più bravi in matematica e italiano dei coetanei del Centro e del Nord. Sono i risultati di un campione di 240 scuole che il 17 giugno hanno sostenuto, insieme a tutte le altre, il test Invalsi abbinato all'esame di terza media. Il risultato è piuttosto sorprendente perché contraddice quello del test Ocse Pisa che vede le scuole del Nord piazzarsi nella parte alta della graduatoria internazionale, a differenza degli istituti del Sud e delle Isole. L'Invalsi non dà una spiegazione. Non una ufficiale. Nei corridoi dell'Istituto, però, nessuno si stupisce più di tanto. La valutazione fa paura ai nostri professori al punto da indurli, sospettano i ricercatori che hanno esaminato i risultati dei test, a fornire «qualche aiutino» agli alunni. Altro insegnamento che si ricava della prima prova oggettiva nazionale nella storia della nostra scuola: impossibile aspettarsi risultati attendibili se invece di affidarsi a controllori esterni si lasciano gestire le prove oggettive ai professori che, sbagliando, li temono più di ogni altra cosa. Vediamo i risultati. Nei test riguardanti la grammatica i tredicenni del Sud battono i coetanei del Nord e del Centro col 70,9 delle risposte esatte contro il 63,2 e il 63,7 per cento. Stesso piazzamento nei test di matematica: i ragazzi del Sud superano quelli del Nord e del Centro con il 50,2 per cento di risposte esatte contro il 48,8 e il 50,3 per cento. Nel campione di 96 scuole (su un totale di 240) del Sud, ce ne sono venti dove tutti i ragazzi hanno risposto in modo corretto almeno al 40 per cento dei test di italiano e matematica. Nel Nord ne troviamo solo tre. Un altro aspetto che per gli esperti dell'Invalsi non si spiega se non con una concentrazione di scuole eccellenti nel Meridione. Un passo indietro. Lo scorso giugno, per la prima volta, circa 600 mila ragazzi di terza media hanno dovuto affrontare una prova scritta in più a base di quiz e domande a risposta aperta, confezionata dall'Invalsi, abbastanza simile al test Ocse Pisa. Scopo della prova valutare cosa hanno appreso in italiano e in matematica gli studenti che concludono il primo ciclo di istruzione. Un test importante per conoscere la qualità dell'attività didattica e per aiutare gli insegnanti a migliorare il proprio lavoro. Nulla di cui avere timore. I risultati di un gruppo di scuole campione avrebbero dovuto essere pronti a luglio. Passa agosto senza che della prova Invalsi si sappia nulla. Il mistero avvolge i test anche nel mese di settembre. A questo punto un'associazione di docenti di Bologna, l'Adi, comincia a porsi delle domande, lasciando trapelare l'ipotesi di un «taroccamento » delle prove Invalsi. La prima cosa che non convince i prof sono i tempi. Perché quasi quattro mesi per conoscere i risultati di un esame di stato? Cosa c'è dietro? L'associazione ha posto la domanda nel suo sito due settimane fa. La risposta dall'Invalsi è arrivata solo ieri, con numeri e percentuali che sollevano qualche dubbio sull'efficacia dei test oggettivi made in Italy. Che al Nord i voti siano più bassi che al Sud non è una novità. Succede, ad esempio, con i 100 e i 100 e lode della maturità. Ma in questo caso si tratta di valutazioni di singole commissioni di esame. Diverso è il caso di una prova di stato che deve dare un'immagine reale della nostra scuola. I nostri docenti non tollerano la valutazione? Secondo un ex ricercatore dell'Adi, tornato a fare il preside, se non si trova il modo di convincere i prof che le prove non sono un'arma rivolta contro di loro non resta che rivolgersi a valutatori esterni. «Per avere risultati attendibili — spiega Raimondo Bolletta — il test va somministrato non a tutta la popolazione scolastica ma ad un campione scientifico controllato dall'esterno. Prove somministrate localmente e corrette localmente non possono che fornire dati inaffidabili». Giulio Benedetti _________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 ott. ’08 MEDICINA, UN NOBEL CONTRO L'AIDS SCIENZA L'ACCADEMIA DI STOCCOLMA di Francesca Cerati Il Nobel della medicina 2008 assegnato ieri dal comitato del Karolinska Institute di Stoccolma ha premiato la scoperta di due virus letali: l'Hiv, responsabile dell'Aids e l'Hpv, o Papilloma virus, alcune varianti del quale sono all'origine del tumore del collo dell'utero. Ma è anche un riconoscimento alla ricerca che ha radici nel Vecchio Continente, se non addirittura a quella controcorrente, e in un certo senso, un po' datata. I tre virologi europei, infatti, non hanno in comune solo il fatto di aver dedicato una vita alla lotta ai virus, ma anche di essere riusciti a portare avanti una ricerca di nicchia. Sono il tedesco Harald zur Hausen, scopritore del legame tra papilloma virus e cancro e i francesi Luc Montagnier e Françoise Barré-Sinoussi, padre e madre dell'Hiv. «Entro tre o quattro anni, se i finanziamenti saranno costanti - dice Montagnier - arriveremo alla scoperta di un vaccino terapeutico per la cura dell'Aids». Nell'epoca della genetica, della proteomica e della metabolomica, un Nobel alla virologia suona quasi nostalgico o per dirla con le parole dello stesso Montagnier «meglio tardi che mai». O forse sta a significare che l'infettivologia è una branca medica ancora attuale, che porta alla messa a punto di test e farmaci utili alla salute. « Oggettivamente la scoperta del virus dell'Aids passerà nella storia della medicina come una tappa fondamentale - risponde Mauro Moroni, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Ospedale Sacco di Milano, anche lui un pioniere nella ricerca sull'Aids -, ma il premio alla virologia è un riconoscimento a una branca della medicina che oggi è di grandissima attualità: Sars, influenza aviaria, nuove malattie virali legate ai flussi migratori, alla globalizzazione e ai salti di specie». Moroni si ricorda bene quel 4 febbraio del 1983, anno della scoperta dell'Hiv. «Le cronache dicono che la Sinoussi è uscita dal laboratorio gridando: "L'ho visto, l'ho visto!". È stata per tutti una grande emozione». E in pochi anni si è individuata la causa di una malattia devastante. «Questo intervallo di tempo oggi sembra eccessivamente lungo (il virus della Sars è stato individuato in pochi mesi, ndr), ma per quel periodo è stato un risultato straordinario, anche perché era la prima volta in cui le tecniche di microscopia elettronica e della biologia molecolare acceleravano una scoperta scientifica». Questo ha permesso ad altri ricercatori di clonare il virus, di sequenziarlo, di arrivare al test per individuare i sieropositivi, rendendo sicure le trasfusioni. «Va sottolineato - dice Moroni - che la scoperta dell'Hiv è giunta da ricercatori che si occupavano di una famiglia di virus che in quel momento non aveva alcun interesse per l'uomo, i cosiddetti retrovirus, che colpivano solo gli animali. Questo è significativo, perché quando si hanno poche risorse e si concentrano sulle emergenze, si limita il campo d'azione. E invece bisogna investire guardando lontano». E, infatti, sono arrivati gli antiretrovirali, che hanno trasformato l'Aids da malattia mortale a cronica, facendo forse tramontare il sogno di un vaccino. «La ricerca in questo campo ha incontrato grandi difficoltà - continua Moroni -. Ricordo che proprio Robert Gallo (lo scienziato americano che per anni ha conteso ai francesi la paternità della scoperta del virus, ndr) ha detto che nell'arco di 5 anni avremmo avuto il vaccino. Era il 1985. Oggi assistiamo a una certa disaffezione e a una riduzione degli investimenti in questa direzione. Ma non verso i farmaci. Una strada seguita dallo stesso Montagnier: «Le mie ricerche puntano a individuare trattamenti complementari per eradicare l'infezione». Si studia, di fatto, un vaccino terapeutico e non preventivo. Diverso l'epilogo della scoperta di zur Hausen, il primo a sostenere il legame tra Hpv e cancro del collo dell'utero, scontrandosi con la comunità scientifica, e il primo a isolarlo alla fine degli anni 70. Ma in questo caso i vaccini ci sono. «L'Hpv è un virus stabile, che non muta a differenza dell'Hiv, in più è un virus che evoca una risposta protettiva e non immune come quello dell'Aids», spiega Moroni, che nel 1988 organizzò a Milano il primo convegno dell'Anlaids facendolo inaugurare a Montagnier e chiudere da Gallo. «Sono due grandi ricercatori-manager con una spiccata curiosità scientifica - dice Moroni - capaci di attrarre ricercatori e finanziamenti». Già, ma il Nobel è andato a Montagnier. «Mi auguro che questo non riaccenda la polemica. Anche se formalmente è stato assegnato al team francese, mi piacerebbe che fosse esteso a tutti quelli che hanno trasformato una malattia gravata da un tasso di mortalità del 100% in un problema di salute gestibile». __________________________________________________________ Panorama 16 ott. ’08 MA Il NOBEL PREMIA ANCORAI MIGLIORI? Polemiche il riconoscimento per la medicina al francese Luc Montagnier e per la fisica ai giapponesi solleva dubbi e perplessità sul criteri con cui viene ormai assegnato. dl GIANNA MILANO e LUCA SCIORTINO E’ trascorso oltre 1 secolo da quando Alfred Nobel, l'inventore della dinamite, con un lascito diede vita al premio. Ma da allora sembrano cambiati i criteri con cui viene attribuito. Lo dimostrano le polemiche dopo il Nobel per la medicina a Luc Montagnier e quello per la fisica assegnato ai giapponesi Yoichiro Nambu, Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa dimenticando il fisico Nicola Cabibbo. II premio non dovrebbe andare a chi apre una nuova strada che cambia prospettive e ricadute della ricerca? Se lo chiedono alcuni degli scienziati interpellati da Panorama. Carlo Bernardini, fisico nucleare che alla Sapienza di Roma ha lo studio di fianco a Cabibbo, dice: «Impossibile non accorgersi dell'importanza del suo contributo: la decisione è inspiegabile». Chiunque apra un manuale di fisica si accorge di un parametro, indicato con la lettera greca theta seguita da un'altra lettera in pedice, la c. L'intero simbolo indica «l’angolo di Cabibbo» (da cui la lettera c), uno dei parametri più citati nella fisica delle particelle elementari. «Nel 1963 Cabibbo spiegò fenomeni fondamentali della microfisica, ipotizzando che nell'interazione di tipo debole avvenisse un mescolamento fra due tipi di quark» aggiunge Bernardini. «Sette anni dopo i giapponesi non fecero altro che estendere l'idea ai quark già scoperti». Come ricorda Bernardini, Cabibbo si aggiunge a un elenco di italiani che avrebbero meritato il premio: Bruno Rossi, pioniere nelle ricerche sui raggi cosmici; Bruno Pontecorvo, che intuì la possibilità della conversione di un neutrino in altri tipi di neutrini; il gruppo Conversi Pancini Piccioni, che distinse il «mesone di Yukava» dal «mesone mu»; Beppo Occhialini, che confermò l'esistenza del positrone. Nessuno ha avuto il Nobel ma, come disse Enrico Fermi, rutti resero possibile la nascita della fisica delle particelle elementari. «Indubbio che ci siano persone di valore tra i Nobel, ma spesso il premio riflette qualcosa che va oltre la rilevanza del lavoro svolto. Scilla decisione influiscono molti altri fattori» racconta Bruno Coppi, professore di fisica dei plasmi al Mit di Boston. «Negli Stati Uniti il premio non è preso così sul serio come in Europa. Scienziati del calibro di Bruno Rossi hanno chiesto di non essere segnalati per il Nobel» Non meno perplessi ha lasciato il Nobel per la medicina assegnato fra gli altri a Alontagnier (insieme con Francoise Barré Sinoiusi) per la scoperta del virus hiv (una sentenza negativa per Roben Gallo che glielo aveva conteso). «Non ci credo» ha esclamato Lucia Lopalco del San Raffaele. Perché a loro due sì e no a J.C. Chermann che ebbe un ruolo non minore nell'isolare l’hiv? Basta verificare i suoi primi lavori su PubVied. Per Silvia Garagna, biologa all'Università di Pavia, il premio a Montagnier e Barré-Sinoussi rilancia la ricerca sull'aids e l'emergenza nei paesi poveri. «Si riconosce il merito della scoperta del virus e la messa a punto dei farmaci» commenta Lucio Luzzatto, noto oncologo. «È apprezzabile che non sia stato dimenticato il gran lavoro di Barré-Sinomsi». _________________________________________________________ Repubblica 7 ott. ’08 NELLE UNIVERSITÀ NON C'È SOLO NEPOTISMO PIERO MARIETTI CARO Direttore, e caro Tito Boeri che ci avete fatto omaggio dello scritto “L’Ateneo al voto tra i parenti” dalla prima pagina del giornale di venerdì 3 ottobre scorso. Vi scrivo non “a nome”, perché non ho investiture da vantare, ma con il pensiero alle migliaia di docenti universitari che scrivono i loro lavori in inglese, mettono gli autori in ordine alfabetico, pubblicano le monografie per sottoporle all’attenzione e alla critica dei colleghi, tengono in piedi teatro e cinema, le belle arti, scavano e trovano. Poi svolgono con passione e affetto per gli studenti le loro lezioni durante le quali espongono quanto di meglio si incontri allo stato attuale delle conoscenze in merito grazie al loro continuo aggiornamento dovuto alla ricerca scientifica praticata con interesse e passione. In poche parole, cari amici: col pensiero ai tanti che fanno onestamente il lavoro per il quale sono pagati. A questi aggiungo anche quelli del personale tecnico, amministrativo e bibliotecario (TAB) delle università che assistono i predetti docenti e con loro collaborano in una simbiosi senza la quale ogni esperimento di laboratorio, ogni ricerca bibliografica, ogni ordine di acquisto o missione diventerebbe un’impresa. Si può dire: c’è come al solito del buono e del cattivo, non è una grande scoperta. Non è questo il punto di contrasto con Boeri. Do infatti per buone tutte le percentuali di parentaggio che egli espone, anche quelle più incredibili e che sembrano riguardare una realtà delimitata nell’Università tal dei tali o quell’Università specifica. Il vero dissenso con Boeri nasce dal fatto che egli considera con particolare severità questa situazione universitaria, senza inserirla nel contesto di una mentalità nazionale che nella sua maggioranza, a quanto è dato di capire dalla diffusione della pratica che Boeri stigmatizza, considera da veri uomini di mondo il sistemare parenti e amici in posti sicuri. È il “familismo amorale” più volte condannato sul suo giornale. A questa logica si rifanno, ad esempio, molte delle Università che sono sorte nel Paese in varie località non particolarmente note per garantire un retroterra culturale adeguato alla formazione superiore, ma importanti per il bacino elettorale di qualcuno. Molte delle ristrettezze economiche di cui soffre l’Università italiana derivano dai finanziamenti che devono essere erogati a queste Università “periferiche” (e fermiamoci qui col giudizio su di loro). Boeri quindi dice cose vere quanto al fiorire del nepotismo, posto che egli sia d’accordo con me nel fare salve le verifiche di capacità del nepote oltre a quelle di buon gusto o opportunità del patriarca. Voglio estendere l’accusa anche al personale TAB delle Università partecipe dell’andazzo nazionale con episodi di intere saghe di impiegati. Ma due cose mi restano oscure. Non capisco perché Boeri (e tanti altri) sia così reattivo solo con gli universitari e specialmente coi docenti. Egli e gli altri trascurano l’esistenza di un binomio Angela sulla divulgazione TV, una Violante Placido sul set insieme a un Alessandro Gassman, una Berlinguer alla Rai, una Pivetti in commedia, una Cossutta in Parlamento e potrei seguitare con esempi per i quali una presentazione o una richiesta da un potente sono biglietti da visita che aprono porte. Né Boeri si interessa di quali capacità abbiano dimostrato i giovani Elkann, Colaninno e Marcegaglia prima di essere nominati a posti di assoluta responsabilità, con ricadute possibili non solo sul loro patrimonio privato, ma anche, come abbiamo sperimentato, sulla tasca degli italiani. La seconda è nel pensiero del collega Boeri: egli è convinto, forse perché anche lui (come me) si aspetta da un docente universitario un grado di moralità più alto della media, che possa esistere l’isola tomasmooriana “Università” che non risente dell’amoralità generale del resto del mondo. E così Tito Boeri, professore in un’università privata che tende all’isola, dove si può pagare una tassa media almeno 10 volte quella della Sapienza e 15 volte quella del Poli di Bari, si prende il disturbo di intervenire nel bel mezzo di un’elezione importante come quella del Rettore di un’università pubblica con uno scritto dalla prima pagina di un giornale nazionale, astraendosi dal contesto e mettendo tutti gli altri in un gran calderone maleodorante, citando solo quello che rafforza la sua tesi, fidando nel suo amico Roberto Perotti. Se da un professore universitario ci si aspetta una moralità più elevata della media nazionale, dallo stesso, ancorché non impiegato dello Stato, io mi aspetto una serietà maggiore nell’illustrare una data ricerca. Invito quindi il collega Boeri a trovare esempi di parentaggio sfacciato nelle facoltà italiane di Fisica, Chimica, Matematica, Ingegneria, Scienze Naturali, Statistica, Filosofia, Lettere né credo che la pratica sia così generalizzata nelle facoltà nelle quali il richiamo a ripercorrere la vita professionale del padre è forte per un figlio. Il che, in prima istanza, si verifica in tutte le famiglie verso la licenza liceale dei ragazzi. Chieda, dalla prima pagina del giornale nazionale, di fare un’indagine brunettiana sui precari sfruttati negli studi professionali, ci dica cosa pensa dell’ex dl112 che ha tagliato alla Sapienza, università pubblica che non può alzare le tasse degli studenti oltre il limite imposto dalla legge, 400 milioni di euro in tre anni, solleciti il gentile ministro a dire qualcosa sul futuro di un’università che si sente sempre più umiliata da politiche di vero disprezzo istituzionale. Del resto, il potere politico è anche potere di controllo: lo si metta in essere così da sanzionare quei comportamenti che lo meritano senza sollazzarsi con la semplice affermazione che il vincitore di un concorso è sempre noto in anticipo. Se a volte ciò è indice di pastette, spesso è il notorio della comunità degli studiosi che conosce bene chi vale e chi no tra i partecipanti. Un altro fatto importante trascura Tito Boeri: che le più feroci critiche al sistema universitario sono venute da professori universitari. Ricordo le recenti di Gian Luigi Beccaria, Maurizio Ferraris, Luciano Caglioti e altri che non mi sovvengono ora. Un grazie però a Boeri va dato: da tempo, caro Direttore, non compariva un articolo sull’università in prima pagina. Speriamo che la sua fatica valga ad aprire un dibattito chiarificatore delle colpe, dei rimedi e anche delle speranze dei molti onesti. Grato della sua ospitalità e attenzione, le invio i miei più cordiali saluti. (L’autore è Pro-Rettore dell’Università la Sapienza) Caro Marietti, come da lei suggerito, alcuni miei colleghi hanno studiato i casi di omonimia in tutte le facoltà. Medicina è il caso più estremo. L’ho citato per questo. Il libro di Perotti abbonda di altri esempi di nepotismo, alcuni dei quali richiamati nel mio articolo. Ma non troverà di che consolarsi. Difficile trovare in giro casi più eclatanti di quello di Luigi Frati. E, in ogni caso, il fatto che il malcostume sia diffuso non è una buona ragione per non denunciarlo. Lei aveva con questa sua lunga lettera una grande opportunità per distinguersi dal “calderone maleodorante” in cui mi accusa di averla gettata. Bastava una riga, una sola riga, di dissociazione dal suo Rettore. Non è mai troppo tardi per farlo. Tito Boeri _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 6 ott. ’08 AMSICORA NON ERA PUNICO: ERA SARDO Era sardo il capo della rivolta contro i romani MASSIMO PITTAU Su noi linguisti incombe in maniera permanente il grave pericolo di farci condizionare, nelle nostre scelte interpretative ed etimologiche, dalle lingue che effettivamente conosciamo. Per la Sardegna è un caso esemplare quello del canonico Giovanni Spano, che, all’apice della sua lunga carriera di benemerito studioso, pubblicò il suo «Vocabolario sardo geografico, patronimico ed etimologico» (Cagliari 1875), nel quale si dette da fare per spiegare con la lingua fenicia moltissimi toponimi sardi, la massima parte dei quali sono invece di sicura origine latina. Il linguista tedesco Max Leopold Wagner ha adoperato il vocabolo «feniciomania» per bollare alla radice il tentativo fallimentare messo in atto dallo Spano. Sennonché, proprio per la spiegazione di due antichi antroponimi sardi lo stesso Wagner è caduto nel medesimo errore della «feniciomania». Egli infatti, con una molto fugace notazione, ha attribuito al semitista Paul Schröder la spiegazione «fenicia» del nome dei due famosi protagonisti della rivolta dei Sardi contro i Romani all’epoca della II guerra punica, Hampsicora e Hosto. Invece lo Schröder, nella sua ormai vecchia opera «Die phönizische Sprache» (Halle 1869, pagg. 172, 87), non ha citato per nulla il sardo Hampsicora, ma ha spiegato il nome di donna che compare nel «Poenulus» di Plauto, Ampsigura, come «ancilla hospitis». Sorvolando pure su questo notevole qui pro quo del Wagner, alla spiegazione che lo Schröder ha presentato dell’antroponimo Ampsigura io muovo le seguenti obiezioni: 1) lo Schröder ha chiamato in causa l’ebraico amt «serva», con la finale /t/, mentre l’antroponimo implica come sua prima parte il gruppo amp-, con la finale /p/; 2) l’antroponimo di Plauto Ampsigura è un hapax legomenon («citato una sola volta»), per cui non è per nulla sicura la sua forma grafica che noi adesso conosciamo, tanto più che nei vari codici del testo plautino compare anche come Amsigura e Ampsagura; 3) è molto probabile che il nome della donna cartaginese Ampsigura sia una delle tante creazioni di nomi dei suoi personaggi effettuate, come è noto, dallo stesso Plauto. D’altra parte Ettore Paratore, traduttore e commentatore anche del «Poenulus» di Plauto, parlando degli antroponimi, che ricorrono assieme, femm. Ampsigura e masch. Iahon, sia pure senza darne un’adeguata spiegazione linguistica, commenta: «In fondo sono due nomi di origine greca: il primo potrebbe esser reso con “focaccia tonda”, il secondo, sia pure dubitativamente, con “abitante della Ionia”». Del nome di Hampsicora si è in seguito interessato lo storico Ettore Pais, nella sua «Storia della Sardegna e della Corsica durante il dominio romano». Egli, parlando del condottiero dei Sardi ribelli a Roma, ha scritto: «Sebbene nato in Sardegna, era in fondo un Punio; lo fa sospettare lo stesso suo nome». «Il nome di Hampsicora od Hampsagoras (Silio Italico, XII 345) ricorda quello di Ampsaga noto fiume della Numidia». Sennonché anche al Pais io obietto in primo luogo che la connessione fra l’antroponimo Hampsicora/Hampsagoras col nome del fiume Ampsaga è molto problematica in termini fonetici, in secondo luogo che questo fiume era nella Numidia, presso Cirta, l’odierna Costantina, che dista da Cartagine più di 300 chilometri; ragion per cui è molto più ovvio ritenere che Ampsaga fosse un idronimo numido, cioè berbero, che non fenicio-punico o cartaginese. Per queste due pesanti difficoltà di carattere linguistico, è del tutto illegittimo dedurre - come ha fatto il Pais - che il nome Hampsicora fosse fenicio-punico o cartaginese. In linea di fatto è avvenuto che da questa sua inconsistente e illegittima connessione linguistica il Pais abbia dedotto conseguenze troppo grandi e vistose di carattere storico generale: dunque secondo lui Hampsicora non era un Sardo, ma era propriamente un Cartaginese, inoltre la rivolta contro i Romani dai lui capeggiata non era rivolta dei Sardi, ma era rivolta dei Sardo-Punici ed infine la città di Cornus su cui egli comandava non era sarda, bensì era «sardo- punica». Tutto al contrario di recente io ho fatto osservare che nel testo di Livio (XXIII 40) che narra abbastanza a lungo la storia della rivolta di Hampsicora e dei Sardi non c’è assolutamente nulla che faccia intendere che Hampsicora fosse un «Punio» e che Cornus fosse una città «sardo-punica». Purtroppo però è avvenuto che questa interpretazione data dal Pais del nome e della figura di Hampsicora e della rivolta da lui capeggiata sia entrata tale e quale in tutta la successiva storiografia sulla Sardegna dell’età romana. Ho già detto che invece il Paratore ha seguito la direzione geografica orientale ed ha spiegato l’antroponimo femminile Ampsigura di Plauto in base alla lingua greca. Anche io preferisco seguire questa direzione orientale e a tal fine chiamo in causa gli antroponimi di tre famosi filosofi, Anassagora, Protagora e Pitagora (Anaxagóras di Clazomene, Protagóras di Abdera e Pythagóras di Samo), antroponimi la cui struttura linguistica è chiaramente molto simile a quella del nostro Hampsicora/Hampsagoras. L’etimologia dei tre citati antroponimi è molto controversa e pertanto non entro nel merito per non allungare troppo. Per parte mia mi limito ad osservare che la città di Abdera, patria di Protagora, era sulla riva settentrionale del Mar Egeo e Clazomene e l’isola di Samo, patrie di Anassagora e Pitagora, erano nella Ionia nell’Asia Minore, a ridosso della Lidia, terra di origine sia dei Sardi Nuragici sia degli Etruschi. Addirittura sappiamo che Pitagora veniva tramandato come «tirreno» e in greco Tyrrhenói significava «costruttori di torri», proprio come lo erano i Sardi Nuragici. Pertanto sui tre antroponimi a me sembra legittimo affermare come certo almeno questo fatto: che tutti e tre erano propriamente di origine egeo-anatolica. Inoltre c’è da osservare e sottolineare che la connessione fra l’antroponimo sardo Hampsicora/Hampsagoras con quelli egeo-anatolici Anaxagóras, Protagóras e Pythagóras è chiaramente molto più stretta di quanto non lo sia con l’idronimo numidico Hampsaga e con l’ipotetico punico Ampsigura. A ciò si deve aggiungere una notizia che mi ha ricordato l’amico Attilio Mastino: secondo Silio Italico (XII 344) Hampsicora si vantava di essere di origine Iliaca o Troiana, cioè - commento io - pure lui di origine egeo-anatolica. La mia conclusione ultima è questa: ha un molto elevato grado di probabilità il fatto che l’antroponomo sardo Hampsicora/Hampsagoras avesse un’origine egeo-anatolica, in pieno accordo con la tesi dell’origine orientale dei Sardi Nuragici dalla Lidia nell’Asia Minore, dalla cui capitale Sardis è derivato sia il nome stesso dei Sardi sia quello della loro patria Sardó/Sardinia. Dunque la figura di Hampsicora ed anche la rivolta contro i Romani che egli ha capeggiato vanno reinterpretate in termini storiografici. __________________________________________________________ ItaliaOggi 8 ott. ’08 PA: BOCCIATI I SITI INTERNET Il Rapporto dell'università di Urbino DI Caxi.o Russo Dal confronto con i portali istituzionali europei l'Italia esce ancora debole. Il responso è del Rapporto elaborato dall'università di Urbino, illustrato agli Stati generali della comunicazione pubblica, che si concludono oggi a Bologna. «Il nostro monitoraggio», spiega Francesco Pira, coordinatore della ricerca, «rileva scarsa interattività, difficoltà di navigazione, notizie non sempre reperibili con la facilità necessaria». Maglie nere, sempre secondo i ricercatori, vanno al sito dedicato al commercio estero del ministero dello sviluppo economico, «fuori dai parametri di accessibilità e con una struttura caotica e inefficiente», a quello del ministero della giustizia, «che manca di un progetto grafico e di una buona organizzazione interna», oltre che di una «distinzione tra cittadino e professionista», e infine il portale del ministero delle pari opportunità, «che sembra essere un cantiere aperto con contenuti scontati e un interfaccia inadeguata». Meritano gli Oscar, invece, il sito del senato, «che ha introdotto i dossier, la banca dati delle commissioni e il sito mobile», quello della polizia di stato, dei carabinieri e del governo, «semplice e chiaro». La comunicazione pubblica ha fatto in Italia passi avanti ma il calo delle risorse, anche in seguito all'attuale crisi finanziaria, potrebbe fermare questo miglioramento. «Gli stati generali», dice Gerardo Mombelli, presidente dell'associazione Comunicazione pubblica, «nascono dalla volontà di identificare i cambiamenti, le differenze del rapporto tra l’amministrazione e i cittadini. Le parole chiave devono essere democrazia e partecipazione. Purtroppo nella comunicazione c'è un divario enorme tra gli impegni assunti dalle legge e l'attuazione». __________________________________________________________ L’Unità 10 ott. ’08 SIENA, 145 MILIONI DI DEBITI È ALLARME ALL'UNIVERSITÀ Palazzo Chigi Zondadari s'affaccia su Piazza del Campa. Particolare che a Siena ha la sua importanza. Sotto corre il Palio. Due volte l'anno il2luglio e il 16 agosto. Nel Palazzo, voluto (1726) dal cardinale Antonio Felice Zandadari (stava a Roma ma da senese tornava a casa ogni volta che poteva) l’Università degli studi di Siena ha affittato 602 metri quadrati. Tre appartamenti al costo di circa 150mila l'anno (iva compresa). Che, come riporta il verbale della decisiva riunione del cda, servono per poter ospitare una cinquantina di persone di prestigio al Palio. Il contratto è scaduto quest'anno. Rinnovarlo sarà un po' problematico. Siena ha un buco di almeno 145 milioni. segue a pagina 10 IL buco dell'Università di Siena ammonta a 110 milioni, e poi c'è 1o scoperta da 35 milioni sul conto corrente. Ieri, per garantire gli stipendi a tutti i dipendenti almeno fino a dicembre, il cda ha dovuto fare una variazione di bilancio. La crisi dell'Università è stata uno choc per tutta la città. Ma è soprattutto un punta interrogativo sul futuro di uno degli atenei più antichi d'Italia (ha 768 anni) e che, fra le università medie (quelle sotto i 20mila studenti), è risultato al primo posto nella classifica elaborata dal Censis. Anche perché a su Siena, come sulle altre università italiane, si sta abbattendo la riforma targata Tremonti - Gelmini: meno soldi e meno personale, Il rettore della Chiocciola Silvano Focardi, ordinario di Ecologia (ha guidato numerose spedizioni in Antartide), capitano della contrada della Chiocciola, è rettore (dopo un'elezione vinta al ballottaggio) da un paio d'anni. Ha preso il posto di Piero Tosi che si era dimesso dopo che la magistratura lo aveva sospeso dall'incarico per un'inchiesta su un concorso da ricercatore. Tosi ha governato a Siena per 12 anni lasciando in eredità un debito di più di 30 milioni. Fra il 2004 e il2005 si erano scordati di pagare i contributi dei dipendenti all'Inpdap. Da qui l'intesa comprensiva di multa e interessi (ravvedimento oneroso) con l'istituto previdenziale. Tutto a posto? No. Nel 2006 e 2007, rettore Focardi, l'Università non paga di nuovo l’Inpdap e neppure l’Irap. Milioni da trovare Il conto a oggi è di 90 milioni da dare all’Inpap e 20 per l’Irap (110 milioni che nel consuntivo 2007 comparivano addirittura come "residui passivi"), A cui poi vanno aggiunti i debiti con 1e banche e can 1a Cassa Depositi e Prestiti. Eppure a giugno il bilancio ufficiale era in pareggio. Salvo accorgersi, poi, che la cassa era vuota. E così (siamo a fine settembre) scoppia lo scandalo. Studenti e sindacati (anche ieri in piazza) chiedono a Focardi di dimettersi. Il rettore che due anni prima si era presentato come il "risanatore" va in procura. Non denuncia nessuno, lascia un promemoria. E nomina una commissione d'inchiesta interna. Che ieri al cda ha ufficializzato i primi numeri. Ma per andare a fondo servirà una società di revisione esterna. Già all'inizio del suo mandato Focardi incaricò una società esterna e poi fu nominato un gruppo di esperti interno all'università guidati da Andrea Monorchio (già ragioniere generale dello Stato). Di entrambe si sono perse le tracce. Dipendenti e gli studenti non si fidano più. Temano che il buco sia assai più profonda. A fianco dei debiti infatti nei bilanci sarebbero stati iscritti anche dei crediti non sono mai entrati. E che forse non entreranno mai, perché non più esigibili. Ma che tuttavia sono già stati spesi. «Non è pensabile che la stabilità della nostra Università possa essere messa in dubbio» fa sapere il sindaco (Pd) Maurizio Cenni che a Facardi ha chiesto piena trasparenza. E ieri a fine del Cda il rettore ha ribadito di voler portare Siena «fuori da questo periodo buio», ma promette anche cambiamenti «gestionalv> struturali. il peso della Gelmini Siena infatti deve i conti (al ribasso) anche con le nuove misure del governo Berlusconi. I tagli al fondo di finanziamento ordinario, il blocco quasi totale del turn over (una assunzione ogni 5 che vanno in pensione), la stop alla regolarizzazione già previste dei precari e la possibilità di trasformare le università pubbliche in fondazioni private possono essere misure letali per Siena, 0o spettro della fondazione O meglio per un'università pubblica a Siena. «È un fatto - spiega Marco Iacoboni della Flc-Cgil - che Focardi prima ha firmato un accordo con noi dove si dicevano alcune cose come il no alle fondazioni. Poi ha tolta la sua firma». Siena cavia per sperimentare la riforma Tremonti-Gelmini? Lo stop del turnover (112 posti in meno fino al 2014) ad esempio a Siena è già stato deciso. Porterà a un risparmio di gestione e quindi, come prevede la nuova normativa (e come temono i sindacati), alla possibilità di dare servizi in gestione esterna. C'è un buco da coprire, un fatto eccezionale su cui intervenire. E la Lega ha già chiesto al ministero di inviare propri ispettori. Lo strumento che ha il governo per aggirare l'autonomia universitaria, Un'inchiesta e poi il commissariamento. E infine l'università pubblica che diventa fondazione. Un ottimo affare per eventuali privati perché l'Ateneo ha sì dei debiti, ma anche un ingente patrimonio immobiliare. E mentre il Pd, col deputato Franco Ceccuzzi, si è subito detto contrario a qualsiasi commissario, c'è chi ha notato come il rettore sia da poco entrato in ottimi rapporti con Magna Charta, 1a Fondazione presieduta dal senatore Pdl Gaetano Quagliariel10, e che fra i primi attestati di solidarietà ha incassata quelli di Forza Italia e di una lista civica vicina al centrodestra. __________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 ott. ’08 CHE FATICA (E QUANTE SPESE) PER I TEST D'INGRESSO ALL'UNIVERSITÀ Ma è impraticabile il ritorno al caos dell'accesso libero Ho sperimentato indirettamente i test d'ingresso ad alcune facoltà dell'Università di Cagliari, perché vi hanno preso parte mia figlia ed una mia nipote. Nutro dubbi e perplessità sulla reale efficacia e serietà di questa cosiddetta "selezione". Prima di tutto, per partecipare occorreva versare 20 euro, che sono diventati 80 e 100, perché le ragazze hanno tentato l'ingresso in diverse facoltà. Il test per Scienze della Formazione primaria era fissato per il 10 settembre: oltre mille i candidati, convocati per le 10, ma le prove sono cominciate alle 12. Lo stesso giorno c'era il test per Servizio sociale: candidati convocati per le 15,30; la prova ha inizio alle 17. Gli aspiranti sono stati lasciati fuori dall'aula sotto un sole cocente. Era forse un pre-selezione di resistenza? Per entrambi questi test, a risposta multipla, si potevano annerire o meno le caselline delle risposte, per cui alcune rimanevano in bianco. Questo su di un foglio con su scritto nome e cognome del candidato! Quest'anno non doveva essere valutato il voto di diploma. Direttiva non applicata a Scienze Politiche per il test di Servizio sociale, dove sono stati attribuiti da 0 a 20 punti per il voto di diploma. È stata una svista? Un approccio più serio e più rispettoso c'è stato il 18 e il 19 settembre per i test di ingresso a Scienze dell'educazione ed a Scienze della comunicazione. Mia figlia e mia nipote hanno passato la selezione. Ma sono convinta che una vera selezione si potrebbe fare solo durante gli anni di corso all'Università, verificando costantemente il livello di apprendimento e di conoscenze acquisite, la volontà e la costanza nello studio. Non si può tagliare fuori un ragazzo all'inizio, o costringerlo ad iscriversi in una facoltà sgradita dove i test d'ingresso siano meno selettivi. UN GENITORE DELUSO – CAGLIARI La selezione a suon di test non è uno strumento perfetto, ma credo che sia meglio dell'accesso libero se le strutture non sono adeguate. Un numero ristretto di studenti può essere dignitosamente accolto nelle aule e nei laboratori, dove trova (o dovrebbe trovare) docenti che possono seguire adeguatamente la preparazione di ciascuno. Le verifiche stringenti che lei auspica sono impraticabili quando un professore ha centinaia di allievi, che magari non frequentano perché non trovano posto e si presentano agli esami come completi sconosciuti. Più che sui test d'ingresso - che sono la regola nei migliori atenei del mondo - credo che dovremmo concentrarci sulla qualità della formazione che i nostri figli possono aspettarsi dalle Università sarde. DANIELA PINNA __________________________________________________________ Avvenire 10 ott. ’08 RISCALDAMENTO GLOBALE SCIENZIATI INDIPENDENTI CONTRO IL CATASTROFISMO Di GIANNi FOCHI I rapporti dell'Ipcc e la vulgata di Al Gore non superano il vaglio di un'Ong di ricercatori Alcuni hanno nella scienza una fiducia solo parziale: spesso preferiscono le panzane degli oroscopi e dei ciarlatani. Se poi si viene a sapere che nello stesso mondo scientifico le opinioni sono discordi, la sfiducia cresce. Ma le verità scientifiche valgono fino a prova contraria, e le convinzioni correnti possono essere superate da studi e dati di fatto nuovi. Alle volte occorre molto tempo perché si rivelino giuste le idee pionieristiche di una minoranza. Ebbene: un caso sta montando ora, dopo anni in cui chi sul riscaldamento globale osava andar contro corrente era disprezzato o semplicemente ignorato. Il quadro fornito dall'Ipcc (Comitato intergovernativo per il cambiamento del clima) è tuttora presentato come indiscutibile: il pianeta si sta riscaldando per colpa dell'uomo, e bisogna correre ai ripari, per quanto pesanti siano i sacrifici economici che il Protocollo di Kyoto tenta d'imporre. Invece, e non da ora, ci sono nel mondo vari scienziati, compresi alcuni molto autorevoli, che quel quadro lo mettono in discussione: anzi, proprio sotto accusa. Adesso un gruppo internazionale di venticinque studiosi riunitisi spontaneamente (si chiama N- Ipcc, sigla di Comitato internazionale non governativo per il cambiamento del clima) ha prodotto un lungo rapporto poi riassunto in un opuscolo, che ora è stato tradotto in italiano (La Natura, non l'attività dell'uomo, governa il clima, Edizioni 21mo Secolo, pagine 400, euro 10,00; tel. 02-38000534). Se ne può ricavare una fiducia più matura nella scienza, che prima o poi riesce a correggere errori nati nel suo stesso seno, magari per influenze d'ordine esterno, come in questo caso. Già, perché nell'Ipcc non sono presenti soltanto scienziati, ma vengono prepotentemente rappresentati interessi diversi, legati alla politica. Per dirne una, i corposi rapporti ufficiali (l'ultimo, il quarto, è del 2007) non contengono certe affermazioni categoriche presenti invece nei riassunti dati in pasto all'opinione pubblica. Quello del terzo rapporto (2001), per parlare d'una «dimostrazione nuova e più solida» del riscaldamento globale provocato dall'uomo, faceva particolarmente leva sul famoso grafico «a mazza da hockey», secondo il quale la temperatura seguiva di pari passo l'aumento di concentrazione del biossido di carbonio (o anidride carbonica) nell'atmosfera. Nell'opuscolo degli scienziati dissidenti (N-Ipcc) la consistenza scientifica di quel grafico viene smontata; del resto gli stessi membri dell'Ipcc l'hanno poi curiosamente trascurato. Nella realtà, la temperatura non ha seguito l'aumento del gas serra (il biossido di carbonio appunto), prodotto dall'uso dei combustibili fossili o da altre fonti. In certi casi è successo il contrario: e dunque può la causa del clima che cambia esser davvero quella, anziché soprattutto la variabilità periodica del sole? Secondo l'ormai classica ironia di Robert Koch, Nobel della medicina nel 1905 per le ricerche sulla tubercolosi, la causa puo’ seguire l'effetto solo quando un medico cammina dietro alla bara al funerale d'un suo paziente. Ancora: il livello dei mari non ha accelerato la sua crescita, che è diciotto centimetri al secolo dall'ultimo massimo glaciale. Entro certi limiti, inoltre, la crescita del biossido di carbonio e della temperatura potrebbero avere globalmente effetti benefici sull'agricoltura, sulla forestazione, sulla salute umana e sull'economia. Di contro, le lacrime e sangue che sarebbero necessarie per applicare davvero il Protocollo di Kyoto, ridurrebbero di soli due centesimi di grado la temperatura prevista dai modelli dell'Ipcc per il 2050. Dobbiamo augurarci che il Consiglio europeo mediti su tutto questo prima del 15 di questo mese, quando su richiesta del nostro ministro Andrea Ronchi dovrà valutare i costi diretti e indiretti che penalizzerebbero l'industria italiana, già in difficoltà. _________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 ott. ’08 SE IL DENARO INFLUISCE SUI GENI sulle malattie trascurati i fattori ambientali di Ezio Laconi* L'interessante convegno sulle basi genetiche dell'alcoolismo svoltosi recentemente a Cagliari con il patrocinio della Regione ha offerto spunti sui quali è utile riflettere. La vita sulla terra si fonda sulla diversità genetica tra gli individui di una specie. La diversità genetica è tra noi, ed è una condizione necessaria alla vita, con un profondo significato biologico, prima ancora che filosofico o, per alcuni, religioso. È la condizione normale all'interno di una qualunque specie, soprattutto quella umana. In questo senso è corretto dire che non esiste un set di geni che sia in assoluto perfetto, o anche migliore di un altro; la "perfezione", in biologia, sta solo nell'assortimento tra individui diversi. Popolazioni costituite da individui tutti uguali tra di loro avrebbero un alto rischio di estinguersi. Ad esempio, i figli di genitori consanguinei (geneticamente correlati) hanno un sistema immunitario che può essere meno attrezzato per combattere le infezioni, con maggiori rischi per la salute. La diversità genetica tra individui si esprime a vari livelli: tra gli altri, contribuisce alle differenze comportamentali, può condizionare i gusti alimentari, e si traduce anche in una maggiore o minore suscettibilità allo sviluppo di specifiche malattie. Ci riferiamo in particolare alle malattie complesse o multifattoriali, che derivano cioè dal concorso di un insieme di fattori di rischio. Vista in questa cornice, la cosiddetta predisposizione genetica di alcuni individui allo sviluppo di queste patologie complesse (aterosclerosi, cancro, lo stesso alcoolismo) non è quindi un fatto accidentale che possiamo correggere o eliminare, ma è anch'essa inerente alla nostra biologia, così come la conosciamo. È inevitabile (direi biologicamente necessario) che alcuni individui siano più predisposti di altri a sviluppare una determinata malattia, e magari lo siano meno a svilupparne un'altra. Né si tratta in genere di differenze nette tra individui: spesso abbiamo a che fare con un continuum di rischio, da quello alto, a quello medio, a quello basso, passando per tutte le gradazioni intermedie. Per cui diventa difficile, se non impossibile, distinguere tra chi è a rischio e chi non lo è. Ed è anche importante sottolineare che non esistono individui a rischio nullo per queste patologie complesse. Cosa significa tutto questo da un punto di vista pratico? Soprattutto due cose. La prima: poiché i fattori di rischio genetico sono un dato di fatto su cui non possiamo intervenire, è più opportuno concentrarsi, in tema di prevenzione, sulle componenti ambientali e sulle abitudini di vita per diminuire l'incidenza delle malattie. Il ruolo dei fattori esterni è di gran lunga preponderante: ad esempio, oltre il 90 per cento dei tumori è dovuto a esposizioni ambientali, molte delle quali note da tempo. Si tratta solo di applicare queste conoscenze. Un esempio di fattore esterno, in questo caso ad effetto protettivo, può essere Sant'Efisio, che, come riportava L'Unione Sarda del 26 settembre scorso, ha aiutato un alcoolista a uscire dal tunnel della dipendenza. Con rispetto parlando, è lecito dubitare che Sant'Efisio avrebbe potuto esercitare questo effetto se l'alcoolismo dipendesse soprattutto dai geni. Seconda considerazione: poiché non è facile, e quindi neppure molto utile (e tanto meno opportuno!) catalogare gli individui in base al rischio genetico per molte malattie, è corretto che le strategie preventive vengano rivolte a tutta la popolazione, evitando di diffondere il messaggio che per alcuni esse sono meno importanti che per altri. In questo senso le indagini di predisposizione genetica al rischio associato al fumo sono di dubbia utilità e non fanno altro che distrarre dal problema di base: fumare aumenta le probabilità di tumore, per tutti. Ci sarebbe da chiedersi come mai molta enfasi venga data, anche sulla stampa, agli studi sui geni che, a ragione o a torto, vengono sempre più spesso legati alla genesi di malattie complesse. Le ragioni sono molteplici. Anche gli scienziati appaiono spesso tentati dalle sirene della semplificazione, per cui il gene diventa la soluzione del problema. Ma una spiegazione più plausibile è quella offerta dalla classica storiella dell'ubriaco che cerca qualcosa sotto un lampione, di notte. Quando qualcuno passa e gli chiede cosa cerchi, risponde di aver perso le chiavi di casa; ma non sotto il lampione, bensì in un altro angolo buio della strada "Ma allora perché le cerchi qui?", chiede il passante; "Perché qui c'è luce e posso vedere", è la risposta dell'ubriaco. La "luce" può essere tante cose: le sirene della semplificazione, ma il più delle volte sono i soldi. *Università di Cagliari _________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 ott. ’08 PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, LOTTA APERTA AI MALATI IMMAGINARI Le nuove regole promulgate dal Governo per ridurre le assenze dei dipendenti statali e degli enti locali Il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha introdotto numerose innovazioni sul fronte della normativa che regola la malattia per i dipendenti statali oltre che per quelli degli uffici pubblici in genere. Il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha introdotto una nuova normativa con il chiaro intento di scoraggiare l'assenteismo nel settore del pubblico impiego. Gli interessati superano i 4 milioni di dipendenti appartenenti ai vari comparti tra i quali quello della scuola, degli enti locali (Comuni, Province, Regioni), delle forze armate, degli enti previdenziali. La nuova normativa è stata riscritta nel Decreto legislativo 112 del 25 giugno 2008, convertito in Legge 133 del 6 agosto 2008, pubblicata sul supplemento ordinario della Gazzetta ufficiale numero 195 del 21 agosto scorso. Le nuove norme decorrono dal 26 giugno. Questi i principali punti del nuovo testo legislativo. ASSENZE PER MALATTIA L'assenza, anche per un solo giorno, deve essere giustificata esclusivamente con la presentazione di un certificato medico rilasciato da una struttura sanitaria pubblica. Sono ammessi, comunque, anche gli attestati rilasciati dal medico di famiglia che, però, deve essere convenzionato con la Asl. L'ACCERTAMENTO DELL'INVALIDITÀ L'amministrazione di appartenenza è tenuta a predisporre la visita fiscale nei confronti del dipendente assente anche se l'assenza è limitata ad un solo giorno. FASCE DI REPERIBILITÀ Tutti i dipendenti pubblici (esclusi, quindi, i dipendenti di datori di lavoro privato) in caso di malattia sono tenuti ad osservare fasce di reperibilità decisamente più gravose rispetto a quelle attuate nel campo del settore privato: dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 20 di tutti i giorni compresi i non lavorativi ed i festivi, anziché dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19. DISINCENTIVI ECONOMICI Per i periodi di assenza per malattia di qualsiasi durata, nei primi 10 giorni viene garantito, e quindi corrisposto, esclusivamente il trattamento economico fondamentale con esclusione di ogni indennità o emolumento che abbiano un carattere fisso e continuativo. Uniche eccezioni sono previste per le assenze dovute a infortunio sul lavoro, per causa di servizio, per un ricovero ospedaliero o in day hospital e per le assenze gravi che richiedano terapie salva vita. Sono escluse, quindi, durante i 10 giorni di malattia le indennità di comparto, i compensi per turni e orari notturni e l'incentivazione per il conseguimento di determinati obiettivi. LA DURATA DELLA MALATTIA Le nuove norme si applicano non solo per il primo periodo di malattia del dipendente pubblico (ossia colui che si ammala per la prima volta in un anno), ma si ripetono anche, con gli stessi criteri, per tutte le altre assenze dello stesso genere che avvengono nel corso dei dodici mesi indipendentemente dalla durata. In pratica, un dipendente pubblico che si assenta una prima volta per 15 giorni, una seconda volta per 7 giorni e una terza per un solo giorno nell'arco dell'intero anno perderà il diritto al pagamento delle varie indennità, con la sola eccezione del primo periodo durante il quale per soli 5 giorni, eccedenti i 10 previsti, gli verrà corrisposta l'intera retribuzione comprensiva di tutte le varie voci aggiuntive. LE ESCLUSIONI Fra le assenze dal servizio dei dipendenti pubblici per malattia, sono escluse e, quindi, non concorrono all'abbattimento delle indennità, le assenze per maternità, compresa l'astensione anticipata, il congedo per paternità, le assenze per lutto, quelle dovute alla convocazione in Tribunale per citazioni e testimonianze, le assenze per l'assolvimento delle mansioni di giudice popolare, per congedi parentali e quelle per i soli portatori di handicap e per i permessi previsti dalla Legge 104. Assenze, è caos sulle indennità Con l'emanazione del Decreto legislativo 112 e la successiva conversione nella Legge 133 del 6 agosto scorso, la normativa, nel suo complesso, è incompleta. Almeno a detta degli istituti appartenenti ai vari comparti della pubblica amministrazione: non solo non è stato ancora possibile recepire le varie differenziazioni rispetto al passato in materia di accertamento delle assenze per malattia, ma, addirittura, non si è ancora provveduto a trattenere ai dipendenti, sulle retribuzioni loro spettanti, le varie indennità escluse dalla nuova legge. I TAGLI Nel caso di assenze per malattia eccedenti i 10 giorni, la nuova legge prevede che per i primi 10 giorni il dipendente deve soggiacere al pagamento della sola retribuzione di base con esclusione delle varie voci aggiuntive, anche se corrisposte con regolarità unitamente alla retribuzione. Una circolare del Dipartimento della Funzione pubblica precisa che le norme anti assenteismo vengono applicate in modo diversificato a seconda dell'area di appartenenza. Così, ad esempio, i dipendenti statali appartenenti alla cosiddetta area I (nella quale sono compresi, tra l'altro, il personale militare delle forze pubbliche) non dovrebbero essere soggetti all'abbattimento, in caso di malattia, dell'importo collegato alle varie indennità che continuerebbero ad essere corrisposte insieme allo stipendio tabellare, alla tredicesima e agli assegni ad personam. ENTI LOCALI In questo comparto, che comprende, tra l'altro i dipendenti di Comuni, Province e Regioni la parte fissa della retribuzione non è riportata né sul contratto né sulla busta paga. Per cui, l'intera voce confluisce nel calderone del trattamento "accessorio" destinato ad essere escluso dal pagamento per i primi 10 giorni di assenza. Oltre ai casi riportati, esistono, tuttora, nel nuovo testo di legge, numerose dimenticanze che non consentono alle amministrazioni interessate di poter effettuare, in caso di malattia, le trattenute in tempo reale. Si attendono poi chiarimenti anche per la scuola e gli enti previdenziali. __________________________________________________________ Repubblica 11 ott. ’08 IL CERVELLO FORMATO INTERNET Chi usa il web salta da una parte all'altra e naviga in orizzontale fra titoli e riassunti ALESSANDRA RETICO Guerra e pace, il cervello non lo segue più. Tutta quella lunghezza e tutta quella storia dentro: fosse uno spot, con qual che link che porti a un blog, Tolstoj si leggerebbe. Siamo diventati così: lettori con una testa formattata dal web. Uno studio dell'University College di Londra indica che leggere e pensare non è più come una volta: chi usa internet ormai salta da una parte all'altra, naviga in orizzontale tra titoli e riassunti, la sua tensione e il suo scopo non sono l’epica e il racconto, l'analisi e il profondo, ma la rapidità. Cervelli - Google, che procedono a chiavi di ricerca, frammenti, sintesi c fretta. La nostra testa come una tastiera, spingi un bottone ed ecco la soluzione, ma una volta disconnessi rimane zero memoria, pensiero schiacciato su off. Colpa di internet, per quel suo mo do di procedere per schegge e rapidi rimandi, per via di tutto il mondo all'istante senza durata nel gesto di un clic. Oppure no, il web è un amplificatore cognitivo, sviluppa capacità magari assopite, salta e varia l'intelligenza come mai prima di adesso. La domanda è aperta, gli esperti sono divisi, gli eventuali effetti delle nuove tecnologie sulla neurologia sono difficili da calcolare adesso, troppo presto. Is Google making us stupid? (Google ci sta rendendo stupidi?) si è chiesto qualche mese fa il tecnologo Nicholas Carr, in un dibattutissimo articola uscito su The Atlantic, la rivista dell'élite progressista americana. Garr, tutt'altro che un luddista, confessava alcune defaillances mentali («non riesco a leggere come prima – da sub delle parole - mi distraggo»), chiedendosi: non è che la civiltà del web sta condizionando negativamente i nostri meccanismi mentali? È certo che non facciamo più come prima, una cosa per volta, il multitasking è la nostra professione, un sms mentre si naviga mentre si ascolta l’iPod mentre si parla. Difficile leggere, selezionare, concentrarsi, ricordare. La rete un medium universale, che scompiglia i meccanismi più arcaici e ancora sconosciuti del cervello. Marshall McLuhan negli anni sessanta diceva che i media non stanno li come addormentati strumenti, ma formano il processo del pensiero. Figuriamoci allora che cosa può ottenere internet rispetto a un libro che si sfoglia pagina dopo pagina: il cervello si adatta a cogliere l'informazione così come è distribuita,in una corrente pulviscolare di frettolose particelle. Comportamento o qualcosa di più radicale, persino un diverso senso dell'io? Sostiene Maryanne Wolf, psicologa dello sviluppo dell'Università di Tufts e autrice di Prouste il calamaro: La storia e la scienza del cervello lettore, che «siamo come leggiamo». Il cervello s itesse,insomma, sulla pronuncia mentale delle parole. James Olds, docente di neuroscienza del Krasnow Institute for Advanced Study dell'Università GeorgeMason, spiega che persino la mente adulta è molto plastica. I neuroni normalmente rompono le vecchie connessioni e ne formano di nuove. Secondo Olds, «il cervello ha la capacità di riprogrammarsi al volo, cambiando il modo di funzionare». Per il futurologo RaSnnond Kurzweil, tutto di guadagnato: «Internet amplifica la nostra memoria», accelera l'hard disk biologico che era il cervello solo qualche decennio fa. Un organo contemplativo, per carità, con tutte quelle pause senza neanche un pop up. ======================================================= _________________________________________________________ Corriere della Sera 7 ott. ’08 VERONESI: IL PATTO CON I PAZIENTI L'oncologo propone una legge sul testamento biologico e lancia 10 diritti etici Veronesi ai malati: i medici devono ubbidirvi Mario Pappagallo MILANO - «I medici facciano un passo indietro, i pazienti uno avanti». Umberto Veronesi (foto) nel 1973 è stato il fondatore del primo comitato etico in Italia, all'Istituto nazionale dei tumori di Milano, e ora, dopo 35 anni, si rende conto che occorre rilanciare il motto di quel primo comitato: «Tutto è concesso all'uso della scienza per l'uomo, tutto è negato all'uso dell'uomo per la scienza». Due le azioni: il Veronesi senatore ha presentano il primo ottobre un disegno di legge sul consenso informato e le dichiarazioni anticipate di volontà, il Veronesi medico fissa un suo decalogo dei diritti del malato. Lo presenterà il 13 ottobre al Circolo della Stampa di Milano e l'invierà a tutti i comitati etici italiani. Il «patto» con i malati prevede: cure scientificamente valide e sollecite, diritto a una seconda opinione e alla privacy, diritto a conoscere la verità sulla malattia e a essere informato sulle terapie, diritto a rifiutare le cure e ad esprimere le proprie volontà anticipate, diritto a non soffrire, diritto al rispetto, alla dignità. «Mi sono basato - spiega l'oncologo milanese - sui principi fondanti della bioetica che sono l'autonomia e la beneficenza». Che cosa significa? «Che ognuno ha il diritto di autodeterminarsi nella malattia così come ce l'ha in salute. È il principio di autonomia: spetta al malato decidere che cosa è bene per lui. Questo è il pilastro su cui si basa anche il secondo principio: la beneficenza. Significa che l'atto medico deve essere a puro vantaggio del malato». Ma non è tautologico? «Sembra, ma non lo è. La bioetica, per esempio, non ammette che un atto medico sia fatto in nome della ricerca scientifica. Ci si deve concentrare su quel malato in quel momento e non ci deve essere la preoccupazione di ciò che sarà in futuro, perché nessun malato mai deve pagare il prezzo della ricerca». Nel 1970 Von Potter, nel suo Bioethics: a bridge to the future, sostiene che l'etica deve ispirarsi alla biologia dell'uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell'esistenza umana... «Esatto - continua Veronesi -. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l'introduzione della vita artificiale, cioè quando (a metà del secolo scorso) sono state introdotte nei reparti di rianimazione macchine in grado di mantenere l'ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche a funzioni cerebrali cessate. Nasce così l'incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia». E allora che cosa dovrebbe accadere oggi? «Per la bioetica è importante il rispetto delle leggi naturali. Per esempio Eluana, in base alla natura, sarebbe morta 16 anni fa. La vita artificiale è un'infrazione alle leggi naturali. Oltre che alla volontà del paziente, se espressa». Eluana non ha lasciato una volontà anticipata scritta? «Se ci fosse stata però andava rispettata. Se una persona può decidere in salute e coscienza di rifiutarsi di mangiare o di bere, nessuno può costringerlo con la forza a farlo. E questo per la legge e per il codice deontologico dei medici. Per questo ho presentato un disegno di legge sul testamento biologico. Per questo lancio i 10 diritti del malato e invito medici e cittadini a farli propri». Il decalogo Il 13 ottobre Umberto Veronesi presenterà un nuovo libro sul testamento biologico e lancerà i suoi 10 diritti del malato. Eccoli 1 Diritto a cure scientificamente valide 2 Diritto a cure sollecite 3 Diritto a una seconda opinione 4 Diritto alla privacy 5 Diritto a conoscere la verità sulla malattia 6 Diritto ad essere informato sulle terapie 7 Diritto a rifiutare le cure 8 Diritto ad esprimere le proprie volontà anticipate 9 Diritto a non soffrire 10 Diritto al rispetto e alla dignità _________________________________________________________ Repubblica 5 ott. ’08 SANITÀ, L'ITALIA BATTE GLI STATI UNITI La New York University: sistema più efficiente e con minori costi Per un by-pass coronarico da noi si spendono 24 mila euro, negli Usa 42 mila dollari MILANO - Mettete a confronto due studi. Il primo a cura del Langone Medical Center della New York University riguarda i costi del sistema sanitario americano. Il secondo, stilato dagli esperti del Gruppo Ospedaliero San Donato, il maggiore d'Italia, controllato da Giuseppe Rotelli, è centrato sui costi della Sanità del Bel Paese e in particolare della Lombardia. Ebbene, le conclusioni dei due gruppi di esperti, raggiunte la settimana scorsa a Milano, durante una tre giorni dedicata al «Confronto dei Sistemi Sanitari e dei trattamenti cardiovascolari» non lasciano dubbi: il sistema italiano è più efficiente è costa meno. I dati di sintesi dei due studi sono chiari. Negli Usa se ne va in spese sanitarie il 15% del Pil mentre in Italia, sommando i costi della sanità pubblica (6,8%) quella privata ci si ferma all'8%. Ma non basta. Perché negli Stati Uniti, pur spendendo un sacco di soldi in farmaci e cure ospedaliere, il 16% degli abitanti non ha alcun tipo di copertura sanitaria. Questo vuol dire che in caso di malattia oltre 40 milioni di americani si trovano in guai seri. Se dai dati macroeconomici scendiamo ai costi del sistema la musica non cambia. Prendiamo la cardiochirurgia, visto che al Policlinico San Donato sono sbarcati una trentina di cardiochirurghi americani della New York University Post Graduate Medical School proprio per studiare il sistema italiano: non solo la tecnica chirurgica per il rimodellamento del ventricolo sinistro messa a punto dal professor Lorenzo Menicanti. Ma anche i sistemi per contenere i costi di gestione. Ebbene, un by-pass coronarico con angioplastica costa in Lombardia 24.721 dollari (cambio al 19 settembre). Questo vuol dire che il sistema sanitario regionale paga questa cifra agli ospedali in cui si esegue l'operazione in questione. Negli Stati Uniti, invece, lo stesso bypass viene a costare a Medicare, fondo pubblico federale per gli over 65 e i disabili, 42,266 dollari se viene effettuato in un ospedale di base. Se invece il paziente è operato in una struttura giudicata di alto livello da Medicare la cifra balza a 58.584 dollari. Insomma, gli States sono più cari per una percentuale compresa fra il 71% e il 137%. Senza contare che per le assicurazioni private il conto è ancora più salato. Lo stesso discorso è valido per altre operazioni di cardiochirurgia. Ad esempio gli interventi su patologie e il rimodellamento del ventricolo sinistro costano 23.209 dollari in Lombardia. Mentre negli Stati Uniti Medicare ne deve spendere 49.367 (+113%) rivolgendosi soltanto alle strutture top. Quanto a Giuseppe Rotelli (presente con i suoi ospedali in Lombardia ed Emilia) coglie al volo i risultati dello studio della New York University per sottolineare che «la spesa sanitaria italiana è una delle più basse d'Europa. Dopo di noi ci sono soltanto Regno Unito e Portogallo nell'Europa dei 15». Quindi aggiunge, lanciando una implicita stoccata al Sud (ma anche alle regioni meno virtuose del Nord): «Nonostante la spesa non sia eccessiva tuttavia c'è una spesa non giustificata di 16 miliardi». Il ragionamento indirizzato al governo è netto: «Prendendo le 4 regioni migliori per qualità di servizio, efficienza, contenimento dei costi e spesa procapite e confrontandole con le altre regioni italiane emerge una spesa non giustificata di 16 miliardi: se bisogna tagliare facciamolo lì». Foto: Giuseppe Rotelli Foto: LO STUDIO USA E' stato condotto dal Langone Medical Center della New York University Foto: LO STUDIO ITALIANO È stato stilato a cura del Gruppo Ospedaliero San Donato Italia Oggi 7 ott. ’08 La Cassazione sul consenso informato Medici, paletti alla responsabilità La Cassazione ridimensiona il valore del consenso informato quando si parla di responsabilità penale del medico. La colpa del sanitario, infatti, non può ravvisarsi nel solo fatto che questo non ha informato il paziente circa i rischi della terapia, a meno che la mancanza del consenso informato non abbia determinato l'impossibilità di conoscere delle allergie o altre situazioni che hanno interagito negativamente con il trattamento.È quanto affermato dalla Suprema corte che, con la sentenza n. 37077 del 30 settembre 2008, pur confermando la responsabilità di un camice bianco che aveva somministrato a una bambina un farmaco che le aveva provocato gravi effetti collaterali, ha corretto sul punto la decisione dei giudici di merito. Infatti la responsabilità della dottoressa è stata confermata soltanto perché questa aveva raddoppiato la dose del farmaco senza sottoporre la bambina a una seconda visita. La decisione passerà alla storia nei testi di responsabilità medica per le osservazioni fatte sulla portata del consenso informato: «Ebbene», ecco il nodo della questione, «pur se l'attività medico-chirurgica per essere legittima presuppone il consenso informato del paziente è da escludere che dall'intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido possa farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie ovvero, in caso di morte, di omicidio preterintenzionale».In altre parole, scrive ancora la Cassazione, «non è possibile ipotizzare la mancanza del consenso informato quale elemento di colpa perché l'obbligo di acquisire il consenso informato non integra una regola cautelare la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza».Non è ancora tutto. All'inizio delle motivazioni la quarta sezione penale dedica una premessa nella quale sottolinea che il paziente dev'essere sempre sottoposto a terapia o a trattamento sanitario previo consenso. Ciò anche in fase terminale. L'affermazione ribadita dal Collegio di legittimità riguarda i pazienti ancora coscienti che possono liberamente rifiutare le cure. Poco c'entra con il caso Englaro o altri nei quali la persona non è più in grado di affermare se vuole o meno sottoporsi agli interventi. _________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 ott. ’08 IL PREMIER: PRIVATIZZO GLI OSPEDALI, ANZI NO La soluzione contro l'eccessiva spesa sanitaria di alcune Regioni consiste, oltre che nel federalismo fiscale, «nella privatizzazione di molti ospedali pubblici». Queste parole, pronunciate dal premier Silvio Berlusconi al convegno dei Popolari-liberali di Todi hanno suscitato un vespaio di polemiche nelle file dell'opposizione, tra i sindacati di categoria e persino in qualche esponente della maggioranza come Calderoli. Tanto che è stato necessario un intervento chiarificatore da parte del ministero del Welfare. «Nel programma di Governo - ha detto Ferruccio Fazio, sottosegretario alla Salute - c'è l'idea di attivare fondi strutturali per finanziare le opere di riqualificazione degli ospedali con il 50% di finanziamento a fondo perduto e il 50% di project financing. Potrebbero dunque crearsi delle situazioni in cui all'interno degli ospedali pubblici ci saranno delle unità gestite privatamente». Ma la privatizzazione di parti degli ospedali pubblici inefficienti è prevista anche ha sottolineato il ministro del Welfare Maurizio Sacconi rispondendo a un'interrogazione parlamentare - dall'articolo 20 della legge 67 del 1988 sulla finanza di progetto». «In termini molto pragmatici - ha aggiunto Sacconi - il Presidente del Consiglio si riferiva al fatto che è possibile privatizzare determinate attività, aumentando così la capacità del servizio per i cittadini. Quindi - ha concluso - non si tratta di scomodare rigidi pregiudizi ideologici, ma di guardare con senso pratico alle modalità per rendere più ampio un determinato servizio sanitario per gli italiani». _________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 ott. ’08 I PICCOLI CHIMICI DELLA SANITÀ SARDA professionalità in crisi di Franco Meloni È possibile che nel maggio dell'anno venturo i sardi decidano di dare il benservito a Soru e alla sua giunta, compreso quindi l'assessore Dirindin che per quasi 4 anni e mezzo ha governato le sorti della sanità sarda con risultati che i cittadini (ed elettori) considerano oramai piuttosto deludenti. Come piccoli chimici con la loro infantile fantasia, alle prese con provette misteriose e con liquidi colorati, si sono tuffati con alacrità in una serie di "riforme" il cui fine ultimo era quello di risparmiare a tutti i costi e a prescindere dalle conseguenze sui livelli qualitativi e quantitativi dei servizi. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti e non vale la pena di ripeterli per l'ennesima volta, qui si ricorda solamente il disastro nel settore dei trapianti d'organo che quest'anno accuseranno un calo non lontano dal 50 per cento, molto più elevato del pur negativo dato nazionale. E chiunque conosca la sanità sa che i trapianti sono uno degli indicatori più attendibili dello stato di salute del sistema: quando manca la fiducia dei cittadini negli ospedali crollano i consensi alle donazioni e quando manca il sense of mission dei dipendenti nelle loro aziende crolla il numero dei donatori utilizzati. Eppure gli uomini che se ne occupano sono gli stessi da tanti anni, se erano bravi prima è improbabile che siano diventati incapaci nel 2008: è evidente che i pessimi risultati sono la conseguenza del disagio dei dipendenti e della perdita di fiducia da parte della gente. Ma, in prospettiva, il problema più serio che incombe sul servizio sanitario sardo, al di là degli scadenti risultati assistenziali attuali, è la situazione ambientale di contrapposizione feroce tra persone e professionalità che rischiano di privare la nostra Isola di risorse importanti. In questi anni si è infatti assistito, per responsabilità piuttosto diffuse, a una resa dei conti di carattere fondamentalista che ha travolto tutti i "non allineati", che fossero di destra o di sinistra. La scelta di fare terra bruciata, anche a prescindere dalle competenze professionali dimostrate, il trattamento riservato ad alcuni dei precedenti direttori generali cacciati senza tanti complimenti, la selezione dei dirigenti amministrativi e sanitari a seconda della loro appartenenza ai circoli di potere imperanti, hanno provocato la rinuncia a moltissime professionalità di cui il servizio sanitario sardo aveva e ha assolutamente bisogno. Si vedano, per fare qualche esempio, i casi Aste, Calamida, Bolasco, Marras. È stato un grave errore: la nostra non è una collettività così ricca sotto il profilo culturale e professionale da potersi permettere due distinte classi dirigenti, una di centrodestra e una di centrosinistra, anzi in un settore delicato come quello della salute pubblica abbiamo assolutamente bisogno di tutti quelli che sono capaci. Ma ormai in Sardegna si sono radicati profondamente, anche in alcuni ambienti dell'opposizione solitamente equilibrati, un'irritazione e un desiderio di rivalsa talmente forti da rendere difficile ipotizzare, comunque vadano le elezioni, la ripresa del dialogo che può consentire l'utilizzo di tutte le professionalità disponibili. E, piaccia o non piaccia, il segno di questa contrapposizione è l'assessore Dirindin che è quasi la rappresentazione vivente di questa durezza della giunta, ma è soprattutto la maggiore interprete di una sorta di guerra santa promossa da dichiarazioni taglienti e inappellabili e corroborata da ispezioni teatrali e tempestose negli ospedali e nelle Asl allora governate dai manager nominati dalla giunta precedente, che ha causato la situazione di deterioramento culturale e professionale che oggi si vive nella realtà sanitaria sarda. Ora è ricorrente la notizia che il Governatore potrebbe rinunciare al suo fin qui sempre difeso assessore per fare posto a un esponente più politico e meno manicheo, cioè ammettere che la gestione sanitaria della sua giunta è stata negativa e che per le elezioni bisogna rimediare in qualche modo. Non sarebbe affatto una cattiva idea: meglio tardi che mai! Un periodo di decantazione gestito più serenamente da una figura meno rappresentativa di questi ultimi anni potrebbe servire a riappacificare gli animi e a preparare una situazione nella quale chiunque vinca le prossime Regionali possa utilizzare tutte le competenze disponibili senza gli steccati ideologici che hanno portato ai risultati di scadimento complessivo della qualità dell'assistenza che i sardi constatano tutti i giorni sulla loro pelle. __________________________________________________________ Libero 7 ott. ’08 I MEDICI DEI FARAONI "PIONIERI DELLA NEUROCHIRURGIA LUCABERNARDO" Se oggi, per curare i nostri cari, disponiamo di profonde conoscenze e tecnologie sofisticate lo dobbiamo a chi ha iniziato la storia della medicina. La conferma ci arriva dai reperti esposti alla mostra archeologica intitolata "Ui sunu" Grandi dottori dell'antico Egitto - malattie e cure nella terra dei faraoni, che sarà aperta fino al21 dicembre a Palazzo Sannazzaro di Casale Monferrato (www.ursunu.org). Le due archeologhe Sabina Malgora e Anna Pieri hanno curato la realizzazione della mostra, su promozione della locale Confraternita di Misericordia, che porta alla luce la profonda conoscenza degli antenati del mondo sulla medicina e chirurgia. Svela anche gli aspetti interiori relativi alla profonda umanità che la professione medica di allora quasi imponeva. Il termine che definisce il medico è infatti sunu e significa "colui che appartiene a chi è ammalato, colui che appartiene a chi soffre". Tutto ciò apre una importante finestra da cui si può osservare, indagare e, almeno in parte, comprendere la civiltà dell'Antico Egitto. Il progetto espositivo, curato dall'architetto Michelangelo Lupo e da Imerio Palumbo, si snoda tenendo conto di un preciso percorso storico-culturale, nel quale saranno esposti numerosi reperti, circa 150, provenienti da musei nazionali e internazionali. I reperti esposti forniscono una ampia documentazione che spazia in più campi comprendendo la filologia, l'architettura, la pittura; la papirologia, la scultura e, non ultima, l'antropologia. II neurochirurgo Antonio Pieri del Fatebenefratelli di Milano, uno dei consulenti scientifici della mostra, e uno dei massimi esperti di neuro endoscopia, disciplina principe della moderna neurochirurgia mini invasiva, ha esaminato la mummia di un bambino di 6 mesi affetto da spina bifida e il teschio di un adulto con due aperture craniche non traumatiche. La precisa localizzazione delle due craniotomie e la loro conformazione, commenta Pieri, ci fanno ricordare le moderne sedi di approccio alle patologie neurochirurgiche intracraniche come se queste fossero state eseguite da un neurochirurgo dell'epoca, svelando anche una grandissima capacità neuro diagnostica apparentemente impensabile per l'epoca. Tale possibile finezza neurochirurgica, continua Pieri, rappresenterebbe la perfetta antenata della odierna neurochirurgia mini invasiva che, principalmente con l'uso della neuro endoscopia, ha reso antiquate molte delle precedenti metodiche operatorie abbattendo il trauma chirurgico e regalando la guarigione ai pazienti affetti da insidiose patologie neurochirurgiche tra cui le più temibili sono l'idrocefalo congenito ed acquisito, l’idrocefalonormoteso, la sindrome di Chiari, le cisti aracnoidee, le cisti colloidi e le neoplasie intraventricolari. La mummia del piccolo di 6 mesi affetto da mielomeningocele con grave idrocefalo, dimostra la antica testimonianza di una patologia congenita neonatale, la cosiddetta spina bifida, che anche allora, come purtroppo ancora oggi, miete le sue vittime per cause strettamente malformative neurologiche complesse o per infezione. In quel piccolo di 6 mesi non fu eseguito alcun intervento. Viceversa, ai nostri tempi, tenendo presente che i casi più gravi sono già diagnosticati ecograficamente nei primi mesi di vita per cui molte gravidanze vengono volontariamente interrotte su decisione della coppia, l'evoluzione medica e neurochirurgica ci consentono di garantire una notevole possibilità di offrire una qualità di vita decente nella maggioranza di questi bambini. Questa mostra apre senz'altro una finestra importante e interessante su un aspetto della civiltà egizia forse non ancora molto noto al grande pubblico, ma che rivela sfumature inaspettate e vicinissime, seppure così lontane nel tempo, al nostro modo di sentire e di applicare la medicina. *Direttore Divisione Pediatria Ospedale Fatebenefratelli e Oftalmico di Milano _________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 ott. ’08 UN ACCORDO STRALCIO PER FAR RIFIATARE I MEDICI Alla vigilia del 63 congresso Fimmg il segretario nazionale Giacomo Milillo indica la possibile strada per sbloccare la convenzione Subito l'aumento del 4,85% per chiudere il primo biennio - Senza una risposta positiva delle Regioni sarà scontro Due appuntamenti cruciali in agenda: il 63 congresso nazionale della Fimmg, il suo sindacato, e la riunione del Comitato di settore dell'8 ottobre. Una sola missione: traghettare la medicina generale verso un futuro più solido. A pochi giorni dal congresso il segretario della Fimmg, Giacomo Milillo , prova a tratteggiare la strada per il rinnovo dell'Acn e il rilancio della categoria. Qual è la strada percorribile per sbloccare la partita della convenzione? È quella che abbiamo individuato da due anni a questa parte e che prevede una rapida chiusura dell'accordo del primo biennio limitandosi a scrivere poche pagine di novità e lasciando invariato il resto della convenzione, organizzata in modo tale da poterla modificare un pezzo per volta dopo la chiusura dell'accordo. In questo caso si simula una situazione di stralcio, che consente ai medici di incassare immediatamente quelle piccolissime risorse messe a disposizione. Ma solo a patto che nelle poche pagine che scriviamo siano piantati in modo irreversibile i paletti del futuro cambiamento. Quali sono queste priorità? I paletti indispensabili sono tre: accesso unico, nel senso che un medico deve entrare nella convenzione dopodiché può svolgere funzioni diverse che evolvono con il passare degli anni, senza questioni di compatibilità o incompatibilità; ristrutturazione del compenso, che si traduce non solo nella distinzione dei rimborsi spesa dall'onorario, ma anche nella cancellazione della concorrenza sulla singola scelta; superamento del discorso delle forme associative, con le aggregazioni funzionali che danno alla maggior parte dei medici la possibilità di non essere più solisti. E vogliamo distinguere queste aggregazioni funzionali dai modelli erogativi che ciascuna Regione poi organizzerà insieme ai medici. Non pensa che assegnando alle Regioni la facoltà di scegliere la "ricetta" organizzativa si accentui l'eterogeneità territoriale già esistente? La differenziazione dei modelli erogativi mi spaventa molto meno della differenziazione dei compiti della medicina generale, nel senso che una delle caratteristiche della medicina generale è proprio la flessibilità e l'adattabilità al contesto in cui viene erogata. Noi però chiediamo la formalizzazione delle aggregazioni funzionali proprio per evitare che la declinazione dei modelli erogativi stravolga l'essenza della medicina generale, l'accessibilità del cittadino a questo servizio. Lo scorso anno il Comitato di settore mise nero su bianco le vostre proposte con l'atto di indirizzo solo dopo uno sciopero della categoria. Anche questa volta servirà una protesta forte? Il Comitato di settore dovrà darci una risposta dopo la riunione dell'8 ottobre. Se la risposta sarà negativa nella sede del congresso ci sarà un'intersindacale, si dichiarerà immediatamente lo stato di agitazione e si programmeranno subito azioni di lotta. Noi speriamo, però, che questo non sia necessario. Contiamo su una risposta positiva. Quanto la partita della convenzione e del rilancio della medicina generale si gioca ancora al tavolo delle Regioni e quanto chiama invece in causa il Governo? A breve scadenza la partita si gioca soprattutto con le Regioni perché il Governo, insediandosi, ha fatto quanto necessario per far partire le trattative. I 184 milioni di euro, inseriti nella manovra estiva dal ministro Sacconi, sono stati la risposta alle Regioni che chiedevano 125 milioni di euro più una differenza che è riservata alla ricetta on line, ma che comunque aumenta la disponibilità economica in modo da poter affrontare la negoziazione con le Regioni. E il cambiamento da chi dipende? Il cambiamento dipende anche dal Governo, ma soprattutto dall'indispensabile chiarimento tra Esecutivo e Regioni. Siamo vicini al Patto per la Salute e nel patto sicuramente ci saranno dei finanziamenti, almeno auspico che sia così. Certo sarà cruciale come saranno vincolati. In questo momento, quindi, la funzione del Governo è importante perché tutte le volte che noi chiediamo qualcosa le Regioni ci rispondono che non ci sono risorse e che queste dipendono dall'Esecutivo. Ed è chiaro che così facendo, nel medio e lungo periodo, rimandano la responsabilità al Governo che diventa per noi un interlocutore fondamentale. Quali risorse sono necessarie per ridare dignità alla medicina generale? Un rilancio dell'assistenza primaria, non solo della medicina generale, richiede grosso modo un paio di miliardi di euro di investimenti. È chiaro che nessuno immagina che in questo momento, con le banche che falliscono, questi due miliardi possano essere trovati in contanti e in breve termine. Lei ha detto che senza investimenti certi la medicina generale rischia il tracollo... Intanto bisogna dire che per investimenti certi non ci si riferisce solo all'aspetto finanziario, ma anche alle regole. È quindi assolutamente necessario che si investa in formazione, magari a parità di spesa ma in modo intelligente, reingegnerizzando gli aspetti formativi della medicina generale. Che si investa in organizzazione, anche utilizzando diversamente le risorse già disponibili. Poi è chiaro che servono finanziamenti freschi per l'assistenza primaria e ciò si può realizzare attraverso i patti per la salute vincolando una parte di queste risorse progressivamente maggiore allo sviluppo dell'assistenza primaria. Eventuali nuove risorse potrebbero essere individuate anche al di fuori della convenzione? Proprio così, le Regioni devono mandare in campo sicuramente dei fondi, ma non necessariamente nella convenzione, perché nel calcolo che noi abbiamo fatto, in quei due miliardi di euro di cui le dicevo, non c'è la convenzione per la medicina generale. Ci sono nuovi posti di lavoro per operatori che servono all'assistenza territoriale. Parlo di 10-20mila segretarie, di assistenti socio-sanitari, di infermieri, di tecnologie informatiche. Il tema delle risorse è dunque decisamente articolato. Io, però, non credo che manchino nel medio termine, anche perché i provvedimenti legislativi che sono stati presi da questo Governo portano e stanno portando a una riduzione di posti letto e strutture ospedaliere marginali. I fondi quindi nel medio periodo si possono trovare. Diversamente non collasserà solo la medicina generale, ma la tutela della salute dei cittadini. Tra i nodi c'è quello del carico fiscale. Su quali voci bisogna intervenire per alleggerire i Mmg? Sono tre le voci che ci interessano. La prima è l'Irap, che riteniamo ingiustificata per quanto riguarda i redditi della medicina generale convenzionata. L'altra sono gli studi di settore che stimano per la categoria redditi presunti superiori a quelli effettivi. Il terzo tassello è la deducibilità dei fattori di produzione, in particolare dell'auto che è stata penalizzata negli ultimi tempi. Infine c'è l'imponibilità dell'Iva sui rimborsi tra medici di famiglia che si procurano insieme i fattori di produzione e che in questo momento aumenta del 20% il costo di alcuni dei fattori. Voi chiedete che sia ben distinta la parte del compenso relativa all'onorario da quella destinata a finanziare questi costi. Che significa? Si pensa essenzialmente a un diverso regime di negoziazione tra le due voci, perché l'aggiornamento dei compensi dei dipendenti pubblici, e noi facciamo ancora parte del comparto nonostante non siamo dipendenti, è agganciata all'inflazione programmata. Che determina una riduzione della capacità di acquisto dei compensi e questo vale sia per noi che per gli altri lavoratori. Ma le nostre voci di spesa, cioè i costi che noi sosteniamo per poter esercitare la professione in regime convenzionale, aumentano non solo oltre l'inflazione ufficiale, ma addirittura corrono di più dell'inflazione reale. Quindi se il nostro compenso resta indistinto, e viene aggiornato con l'inflazione programmata, al suo interno esplodono delle inflazioni e noi ci rimettiamo due volte. Berlusconi ha parlato recentemente di privatizzazione degli ospedali pubblici. Che ne pensa? Non credo che la privatizzazione sia una bacchetta magica per la Sanità. Conosco realtà pubbliche con ottimi standard manageriali e situazioni private decadenti. Credo dunque che il problema vero non sia tanto se gli ospedali siano pubblici o privati, ma come viene governata la Sanità. Non crede che assecondando questa direzione ci sia il rischio di scaricare sul territorio una nuova domanda di assistenza che magari avrà difficoltà ad accedere agli ospedali privatizzati? Il rischio, secondo me, è semmai che sia più facile avere accesso agli ospedali perché questo si è verificato in Lombardia dove l'accreditamento ha avuto uno sviluppo più rapido e il privato ha una dimensione più grossa. Casomai, dunque, mi preoccupa il fatto che la gente acceda facilmente al secondo livello e che si determini un assorbimento delle risorse a quel livello a scapito della medicina generale. Io, però, ho scelto di non intervenire nella querelle seguita alle dichiarazioni di Berlusconi, perché non mi piacciono le polemiche sterili come questa. Celestina Dominelli Non servono paludi ma un riordino lungimirante dell'assistenza primaria Inutile girarci intorno: la medicina di famiglia s'è impantanata. Succede, quando le riforme sono molto annunciate e poco praticate. Quando i sindacati promuovono a parole il nuovo e nei fatti il vecchio. Quando la parte pubblica si innamora senza convinzione di sigle e di modelli. Un anno fa eravamo più o meno allo stesso punto di oggi. Con una proposta Sisac di rinnovo della convenzione che rivela il chiodo fisso delle Regioni: rendere obbligatorio il lavoro di gruppo, ancorandone la forma alla programmazione locale, e l'informatizzazione. E con la replica dei medici, adesso ufficializzata in un documento comune (l'unica novità di questi mesi): prima i soldi, poi si discute. Un tiramolla meramente contrattuale che mal si attaglia a quell'area assistenziale candidata al ruolo di "secondo pilastro del Ssn" (parole dell'ex ministro Livia Turco). Un pantano, appunto, che rischia di vanificare anni di progetti e fiumi di aspettative. Congelando una situazione che più a macchia di leopardo non si può: una penisola generalista fatta di Utap, Ncp, Ucp, case della salute, équipe, medicine di gruppo e di rete, che si affiancano a centinaia di camici bianchi ancora isolatissimi, per i quali computer e segretarie sono miraggi. Il nodo è qui, e in fondo è politico: come dev'essere il medico di famiglia del futuro? Perché - vale la pena ricordarlo - non si può avere tutto, la botte piena e la moglie ubriaca. È impossibile per la parte pubblica pretendere di ottenere a costo zero gruppi di medici di base perfettamente collegati, organizzati in poliambulatori efficienti, super- informatizzati e filtri eccellenti per i pronto soccorso. È altrettanto assurdo per i camici bianchi pensare di scucire incentivi su incentivi, carriera e privilegi senza accettare di modificare l'organizzazione del proprio lavoro. Senza acconsentire a una maggiore disponibilità, in primis sull'orario di apertura degli studi. Diciamocelo francamente: secondo le peggiori previsioni, tantissimi ospedali sono stati chiusi e continueranno a chiudere (288 in dieci anni), ma quasi da nessuna parte il territorio è stato presidiato in modo adeguato per supplire. Insomma, se il primo pilastro è stato messo a dieta il secondo non s'è irrobustito affatto. E a rimetterci è ancora una volta il cittadino. Ovvero: noi tutti, sempre più vecchi e sempre più malati cronici. Che continuiamo a pagare tasse e ticket per sostenere un Ssn universale e gratuito, di cui i medici di base dovrebbero essere i gatekeeper. Per questo abbiamo diritto a un progetto serio e lungimirante di riforma dell'assistenza territoriale, a dottori opportunamente formati e aggiornati per affrontare le sfide di una domanda di salute profondamente cambiata. Non meritiamo paludi. (M.Per.) _________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 ott. ’08 SANITA: RIFORMA IN TEMPI BREVI RIORGANIZZANDO IL TERRITORIO INTERVISTA AL SOTTOSEGRETARIO AL WELFARE FRANCESCA MARTINI Associazionismo e ospedali di comunità per razionalizzare le cure La nuova cultura prevede specialità universitarie e alta tecnologia «La medicina di famiglia funziona in maniera direttamente proporzionale alla riduzione degli accessi al pronto soccorso: più cure primarie debbono avere risultati concreti». Francesca Martini , sottosegretario al Welfare con delega per i settori delle cure primarie, non ha dubbi sul rilancio del settore che, spiega, deve passare attraverso alcuni punti fermi: formazione di livello universitario, potenziamento delle forme di lavoro di gruppo, continuità assistenziale realizzata anche grazie a ospedali di comunità per garantire la fase post acuzie e riconvertire quelle piccole strutture ospedaliere oggi obsolete. Un riordino del settore a tutto campo. Ma i tempi sono brevi? La convenzione è il primo punto di riferimento per creare un'alleanza con la categoria. E su questo stiamo battendo e abbiamo battuto molto anche dimostrando nei fatti, con i finanziamenti extra dedicati a questo settore, l'impegno e l'attenzione del Governo alla medicina del territorio. Le competenze organizzative e di governo spettano alle Regioni, ma noi vorremmo disegnare la cornice in cui queste potranno muoversi e comunque svolgere e garantire il ruolo di verifica sui diritti dei pazienti che vanno ovunque tutelati. Tempi brevissimi, quindi, con un dialogo già aperto con le Regioni e la sperimentazione di nuovi modelli di assistenza che diano anche la possibilità di misurare concretamente i risultati. Con il riordino della medicina generale si cerca quindi una razionalizzazione delle cure? Sì, ma non solo dal punto di vista organizzativo come può essere lo sgravio dei codici bianchi e verdi dagli ospedali. Abbiamo infatti un quadro epidemiologico nel nostro Paese riferito a numerosi fattori in cui la medicina generale è essenziale. La longevità a esempio, a cui dobbiamo guardare con una programmazione seria rispetto a trend conclamati e che richiede cure primarie strutturate, flessibili, in grado di dialogare con i distretti e con l'ospedale e con gli altri servizi a disposizione del cittadino come l'assistenza domiciliare, ma anche i servizi socio-sanitari. Obiettivo? Un'assistenza migliore al paziente perché è ovvio che a casa si sta meglio. Ma anche l'alleggerimento delle strutture ospedaliere che vanno verso la riduzione dei posti letto per rispettare gli standard, ma anche per la maggiore attenzione che c'è all'appropriatezza dei ricoveri: va in ospedale chi ne ha davvero bisogno. La medicina di famiglia è pronta a tutto questo? La medicina di famiglia è a metà del guado. È consapevole che ci sono grandi sfide da raccogliere, ha voglia di crescere come mi fanno capire tutte le associazioni sindacali con le quali ho un dialogo continuo, abbiamo situazioni in Regioni italiane dove le cure primarie hanno realizzato sperimentazioni efficienti ed efficaci sulla riduzione degli accessi ospedalieri e di quelli impropri al pronto soccorso, ma ci sono anche zone in cui si tende a mantenere un modo vecchio di assistere il paziente sul territorio. E come crede si possano convincere i medici al cambiamento? Con la massima flessibilità: nelle aree urbane possiamo pensare a strutture in grado di abbassare la pressione dei codici bianchi e verdi sul pronto soccorso, ma nelle aree di montagna o a bassa intensità abitativa dovremo far sì che il medico possa continuare lavorare come ha sempre fatto, con dotazioni tecnologiche avanzatissime - il fascicolo sanitario elettronico è un esempio e un obiettivo - che lo mettano in contatto e consulto continuo con il secondo livello delle cure anche per decidere quando semmai mandare il suo paziente all'ospedale o ad altre strutture più complesse. Serve anche un cambio di cultura quindi? La medicina generale deve essere una vera e propria specializzazione universitaria: condivido la posizione espressa più volte dai medici in questo. E si deve realizzare un'Ecm sempre aggiornata anche per supportare il medico nella sua relazione con il Ssn. E per l'integrazione con l'ospedale? C'è una diversa maturazione della mentalità medica, dovuta senza dubbio al fatto che alcune Regioni hanno iniziato prima il percorso di implementazione di un sistema di rete delle cure primarie. C'è l'ospedale di comunità con cui si sono riconvertite strutture vetuste e inadeguate, fuori parametri, in modo che si abbiano posti letto extraospedalieri in cui il medico di famiglia collabora per la presa in carico "dolce" del paziente nelle fase post acuzie. Sono posti letto con assistenza infermieristica sulle 24 ore e il medico di famiglia inizia a "svezzare" il proprio assistito e a prepararlo per il rientro nella propria casa. E le altre figure sul territorio? Nelle cure primarie ci sono medici di medicina generale, ma anche pediatri di libera scelta e specialisti delle Asl: serve un loro forte raccordo con il distretto e l'associazionismo dovrebbe risolvere una buona parte anche delle problematiche della cronicità e della prevenzione. I medici devono anche educare il proprio paziente a stili di vita sani. Sì, i grandi progetti, ma anche molta praticità: il paziente va guardato in faccia, non si devono guardare solo gli esami per insegnare alla persona a vivere meglio. Paolo Del Bufalo _________________________________________________________ Corriere della Sera 5 ott. ’08 DOTTORE MI FIDO DI TE Che cosa pensano gli italiani dei medici di famiglia... e loro dei pazienti. La prima vera indagine parallela Il rapporto fiduciario non è solo di lunga durata, ma è diventato anche più maturo e interattivo Maria Giovanna Faiella Li visita con attenzione, li ascolta, cerca di soddisfare le loro attese. La maggioranza degli italiani, perciò, si fida del medico di famiglia. Lo confermano due nuove indagini, una realizzata su un campione di 780 medici dal Centro studi della Federazione italiana dei medici di famiglia (Fimmg), l'altra affidata ad un istituto di ricerca (SWG) che ha intervistato un campione di 1.900 cittadini. «Che i pazienti fossero soddisfatti del loro rapporto col medico di famiglia lo sapevamo già da precedenti indagini - afferma Stefano Zingoni, responsabile del Centro studi nazionale della Fimmg -. Questa nuova ricerca, però, va oltre, indagando la fiducia in tutte le sue manifestazioni dalla prospettiva di entrambi gli attori dell'assistenza territoriale». Ebbene, dai risultati emerge che il rapporto medico-paziente «è sempre più maturo e interattivo - continua Zingoni -. I pazienti fanno più domande, chiedono spiegazioni, vogliono essere coinvolti. E i medici dedicano loro più tempo». Di solito il rapporto fiduciario è di lunga durata e tutti gradiscono il "faccia a faccia", che non si perde nella burocrazia. Insomma, la stragrande maggioranza di noi assistiti sembra affidare senza incertezze la sua salute al medico di famiglia: ne segue le indicazioni, raramente cerca il parere di altri dottori, o si cura da solo. Anche se, nei casi più complessi, preferisce andare dallo specialista. «Nessun medico di famiglia pensa di esaurire tutte le necessità assistenziali, ma sicuramente le dipana, orientandole e vagliando le risposte chieste e ottenute» commenta Zingoni. In ogni caso, quando ha bisogno dello specialista o di indagini approfondite, il paziente non vuole essere lasciato solo dal medico di famiglia. E il dottore non si tira indietro: gli intervistati dichiarano che la metà dei medici di base fornisce informazioni su dove e come trovare gli specialisti e le strutture dove fare gli accertamenti; l'altra metà dei medici si attiva personalmente fornendo indicazioni specifiche o aiutando direttamente il paziente a contattare lo specialista e le strutture. «Per risolvere i propri problemi di salute i pazienti si affidano completamente al medico di famiglia: nei suoi confronti hanno aspettative elevate» afferma Francesca Moccia, coordinatrice nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva. Su oltre 24 mila segnalazioni giunte l'anno scorso al Tribunale del malato solo il 3% riguardava medici di famiglia. «I cittadini lamentano casi di scarsa disponibilità, d'irreperibilità anche negli orari di apertura dello studio, di visite troppo superficiali». Altre segnalazioni riguardano medici che "rispondono male", che non fanno visite a domicilio, che danno poche informazioni sull'esenzione dal ticket. «Ma al di là dei punti critici, che vanno migliorati - dice Moccia - il medico di famiglia rimane la porta d'ingresso all'assistenza sanitaria ed è giusto rafforzare il suo ruolo». Oggi il medico avverte il peso di doversi occupare in prima persona di pazienti che hanno sempre più problemi cronici, ma anche disagi economici e difficoltà nell'accesso agli altri servizi sanitari (vedi box). «Se il medico di famiglia riesce ancora a meritare la profonda fiducia degli assistiti è perché dà fondo a tutte le sue risorse umane e professionali - afferma Giacomo Milillo, segretario nazionale della Fimmg -. Alla fine, però, si sente solo e sotto pressione». Da qui la richiesta di riorganizzare la professione. «La maggioranza dei medici sarebbe favorevole a una rete assistenziale, che funzioni 24 ore su 24. Ne farebbero parte anche guardie mediche, pediatri, specialisti, infermieri e personale amministrativo - spiega Milillo -. Grazie al supporto di altre professionalità potremmo assicurare l'integrazione e la continuità delle cure. Inoltre, la dotazione di strumenti diagnostici, come ecografo, elettrocardiografo, spirometro, consentirebbe nei casi meno complicati di eseguire subito in ambulatorio le prime indagini e avere indicazioni diagnostiche più rapide, riducendo le attese dei cittadini». «Giusto mettersi in rete, ma i modelli possono essere tanti - afferma Moccia -. Al centro, però, va sempre messo il paziente». Non a caso, secondo l'indagine, 3 cittadini su 4 sono favorevoli alla rete assistenziale a patto di non perdere la "vicinanza" col proprio medico. Gli altri non vogliono cambiare, per timore di cadere nell'anonimato. _________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 ott. ’08 IL SAN GIOVANNI DI DIO COMPIE 150 ANNI L'11 ottobre del 1858 i primi pazienti trasferiti nell'ospedale progettato da Gaetano Cima Tra pochi mesi la Clinica Macciotta e l'Ostetricia al Policlinico Domani l'ospedale Civile compie 150 anni. I numeri del passato e quelli del presente L'ospedale San Giovanni di Dio compie 150 anni. Secondo il canonico Spano l'edificio progettato dall'architetto Gaetano Cima venne aperto agli ammalati nel 1858. Spulciando nell'archivio storico comunale salta fuori la data ufficiale: 11 ottobre 1858. Giorno in cui «I poveri infermi furono traslocati» dopo la benedizione della cappella e dei cameroni. E ora, dopo un secolo e mezzo di storia l'ospedale gestito da Università e Regione sta per essere trasferito. Entro la prossima primavera la Clinica Macciotta e Ostetricia e ginecologia verranno spostate al Policlinico di Monserrato, dove stanno per essere ultimati i lavori del polo Materno-infantile. LA STORIA La prima pietra del Civile fu posata il 4 novembre 1844 dal viceré De- Launay. Fu progettato dal Cima come ospedale (altri edifici destinati alle cure e ai ricoveri in precedenza erano caserme o conventi riadattati) per prendere il posto del vecchio nosocomio di Sant'Antonio, ospitato nell'omonima chiesa di via Manno, che venne successivamente chiuso. Secondo il canonico Spano i primi reparti furono occupati dai pazienti nel 1858. Ultimare l'edificio fu una questione lunga e complicata: allora come oggi raccogliere i finanziamenti era complicato. I NUMERI Un secolo e mezzo fa nelle corsie del San Giovanni di Dio erano ricoverati 60 ammalati. Nella stessa costruzione c'era anche il manicomio che ospitava 30 malati di mente. Il canonico Spano, oltre a elogiare la costruzione e l'assistenza ai pazienti, mette in evidenza l'organizzazione moderna della gestione. L'amministrazione dell'ospedale era affidata au una commissione formata da un presidente e sei componenti, un economo e un consiglio direttivo, che era incaricato della sorveglianza del servizio medico chirurgico. LA STRUTTURA ATTUALE L'ospedale Civile si è trasformato con il tempo in una gigantesca fabbrica della salute che muove circa 115 milioni di euro all'anno. I numeri di medici, infermieri e pazienti sono cresciuti in modo esponenziale. Attualmente i posti letto sono 422 (377 di degenza e 45 in day hospital) suddivisi in 25 strutture (16 i reparti di degenza). Un vero esercito il personale che ogni giorno presta la propria opera nella struttura: 1136 tra medici, infermieri, farmacisti e impiegati. IL FUTURO Nei programmi dell'Azienda mista (Regione e Università) c'è lo spostamento dei reparti del Civile al Policlinico. Neurologia ha già traslocato. «Entro aprile dell'anno prossimo contiamo di trasferire la clinica Macciotta, Ginecologia e ostetricia a Monserrato», afferma il direttore generale Ninni Murru. «Siamo in attesa di un ulteriore finanziamento per costruire un nuovo blocco. Il nostro scopo è di riunire le strutture universitarie, comprese quelle esterne al San Giovanni di Dio (Ortopedia e neurochirurgia ora al Marino, Urologia al Santissima Trinità, Centro trapianti, Genetica e Centro per la sclerosi multipla al Binaghi), in un unico centro. LA FABBRICA DEI BIMBI Il centro Materno infantile del Policlinico di Monserrato è costato circa 13 milioni di euro (70 per cento Università, 30 Regione). «Con il finanziamento è stata realizzata una struttura dove medici e infermieri forniranno non solo assistenza medica, ma effettueranno anche ricerca e formazione», afferma Murru. Ecco come sarà strutturato il nuovo edificio. «Al pian terreno sorgeranno gli ambulatori. Al secondo piano ci saranno il Puerperio, la Neonatologia e la Terapia intensiva neonatale. Al terzo verranno allestiti i reparti di endocrinologia e ostetricia, le sale travaglio e il day hospital. Al quarto piano ci saranno la Ginecologia e i laboratori». Le stanze (tutte con due letti) saranno dotate di tutti i comfort e, a richiesta, saranno a disposizione delle pazienti camere singole. ANDREA ARTIZZU _________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 ott. ’08 SUMAI: UNA SFIDA CRUCIALE PER GLI SPECIALISTI AMBULATORIALI Professionisti inclusi nella governance Occorre investire nella formazione La Sanità tutta sta finalmente concentrando forze ed energie su un nuovo disegno del territorio. I dati messi a disposizione in questi ultimi anni, le indagini sui bisogni dei cittadini, che evidenziano sempre più insoddisfazione e disagio, le realtà ingolfate degli ospedali sono i chiari sintomi di un malessere diffuso che sta attraversando l'intera Nazione. Il nostro sindacato, forte di una presenza capillare sul territorio, si è fatto negli anni portavoce di questo malessere. I nostri iscritti sono specialisti che lavorano presso le Asl, nei Sert, nei consultori, nei piccoli e nei grandi centri e la richiesta che da loro ci è sempre giunta forte è stata quella di attenzione. Attenzione prima di tutto alle esigenze dei cittadini, in particolare agli anziani, che rappresentano ormai una consistente parte della popolazione. L'invecchiamento, che è da vedere come un grande raggiungimento sociale dei nostri tempi, porta con sé una serie di patologie croniche che richiedono assistenza costante ed è questo che deve essere fornito. Ridefinire il territorio significa appunto garantire la presenza di servizi socio-sanitari vicini ai luoghi di vita dei cittadini. Offrire un sistema sanitario che sia accessibile, semplice e rapido, e che renda il percorso della malattia, nella fase acuta e durante tutto il suo decorso, il meno disagevole possibile, e che si faccia carico dei bisogni legati all'avanzare della cronicità. Mettere a disposizione figure professionali che siano il riferimento del paziente, facilmente reperibili e dotate di tutti i supporti diagnostici e terapeutici. Per attuare questo processo è necessario agire su più fronti. Il primo passo è introdurre dei meccanismi che garantiscano la partecipazione dei professionisti alle attività di programmazione, siano esse distrettuali, aziendali o regionali, e alla governance clinica. Per governance clinica intendo l'interazione di più e diverse figure professionali che collaborano in una struttura dinamica, il cui obiettivo è produrre cambiamenti efficaci per migliorare la qualità dell'assistenza. La formazione, strumento di miglioramento della professione e dei servizi, è uno dei mezzi attraverso i quali si può giungere a ciò. Ritengo che solo attraverso il miglioramento delle competenze sia possibile garantire l'appropriatezza clinica dalla quale, a cascata, dipendono l'organizzazione dei servizi e la loro resa in termini costo- beneficio. Di pari passo alla formazione è indispensabile agire trasformando la medicina attuale, che definirei di attesa, in una medicina di iniziativa. Fino a oggi lo specialista ambulatoriale è stato visto come colui che fornisce una prestazione, ma questo modo di intendere deve necessariamente modificarsi e adattarsi alle nuove esigenze sanitarie. Quella che si propone è una nuova figura professionale, uno specialista territoriale, che venga incontro ai bisogni del paziente in via preventiva, gestendo nello specifico le patologie emergenti, oggi rappresentate da quelle croniche. Studi effettuati in vari Paesi europei hanno dimostrato come seguire costantemente un paziente cronico porti a una drastica riduzione del numero delle complicazioni, con un indiscutibile vantaggio per il paziente e per il servizio sanitario che ne beneficia in termini economici, in quanto si vanno ad abbattere i costi legati alla gestione di una complicanza. Si tratta cioè di intervenire sul territorio introducendo dei modelli organizzativi innovativi la cui realizzazione spetterà alle Regioni. Come ho scritto all'inizio di questa breve analisi le cose si stanno muovendo. In questi ultimi tempi si stanno verificando molti eventi che mi fanno ben sperare e che dimostrano come, attorno al bene comune della salute, si stia attivando una sinergia di forze, a partire dalla conferenza di Fiuggi, momento di lavoro comune tra Ordini, sindacati e società scientifiche fortemente voluto da Fnomceo, e che ha dato vita a un primo importante condiviso documento. Il ministero del Welfare più di una volta ha sottolineato come il potenziamento dei servizi territoriali sia una priorità del Governo e ha indicato una delle strade da percorrere che vede il pieno coinvolgimento dell'area convenzionale, medici di famiglia e specialisti ambulatoriali, da sempre prioritariamente impegnati in tali servizi. A tale scopo è stata costituita una commissione, presieduta dal sottosegretario Ferruccio Fazio, che ha allo studio il passaggio della gestione dei codici bianchi e verdi dagli ospedali alle strutture della medicina del territorio. Il banco di prova è dietro l'angolo: sono previsti, infatti, progetti pilota che partiranno sperimentalmente in alcune Regioni anche in funzione dello stato di salute economica di cui godono. Roberto Lala Segretario generale Sumai __________________________________________________________ il Giornale 11 ott. ’08 SONO TRENTA MILIONI GLI EUROPEI COLPITI DA 6MILA PATOLOGIE RARE In Europa sono circa 6.000 le malattie rare, colpiscono milioni di persone, parte delle quali in Italia. L'80% delle malattie rare, con casi che interessano il 3-4% delle nascite, ha un' origine genetica ed è dalla ricerca farmaceutica biotecnologica che possono arrivare ì maggiori contributi per la loro cura. L'altro 20% è conseguenza d'infezioni, batteriche o virali. o allergie, oppure è dovuto a cause degenerative o di origine autoimmune. Nel 75% dei casi ad essere colpiti sono i bambini. «I malati rari in Europa sono 30 milioni», ricorda Sergio Dompé, presidente di Farmindustria. «Una priorità di salute pubblica che richiede l'impegno comune di istituzioni, medici, associazioni dei ma-. lati, centri di ricerca e imprese del farmaco. 501o attraverso un network pubblico-privato esteso ed efficiente è infatti possibile diffondere la conoscenza delle malattie rare, accelerare la scoperta di nuove terapie, migliorare la diagnosi, la cura e l'assistenza. Grazie ai passi fatti in questa direzione, sono oggi oltre 300 i farmaci orfani in sviluppo: una crescita cui partecipa anche l'Italia con aziende leader in campo internazionale nelle Scienze della vita». Sono circa 180 le Associazioni Italiane che lavorano a fianco delle persone affette da malattie rare e fanno sentire la loro voce attraverso la Guida delle «Associazioni Italiane Malattie Rare», dedicata ai pazienti, ai loro familiari, ai medici, agli operatori. La pubblicazione è promossa da Orphanet Italia con la collaborazione di Farmindustria. __________________________________________________________ Repubblica Salute 10 ott. ’08 130 MILA TOSSICODIPENDENTI NON RICEVONO ASSISTENZA Aumenta il consumo in generale e il numero dei decessi, sale a 35 anni l'età media delle vittime e dei dipendenti in trattamento presso i Servizi per le tossicodipendenze (Sert) e {e comunità. Ma moltissimi non ricevono alcuna cura. Sono alcuni dati emersi dalla 'Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze' per Panno 2007, basata su indagini dell'Istituto di fisiologia clinica del Cnr. Complessivamente, nel 2007, circa 130 mila tossicodipendenti bisognosi di cura - su 320 mila utilizzatori problematici di droghe, in gran parte eroina e cocaina - non hanno ricevuto alcun tipo di assistenza, né presso i Servizi pubblici per le tossicodipendenze né presso le comunità di recupero. È uno dei dati più allarmanti emersi dall'indagine condotta dall'Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Ifc-Cnr) per la 'Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze' per l'anno 2007. Insieme con quelli sull'incremento nei consumi da parte della popolazione generale e della sempre maggior età delle vittime e dei soggetti in trattamento, tutti indici di una evidente 'cronicizzazione' del problema. "Si stima che nel 2007 i consumatori di sostanze psicoattive illegali con bisogno di cura siano stati poco meno di 320.000, di cui circa 205.000 consumatori di eroina e circa 154.000 di cocaina", osserva Sabrina Molinaro, dell'Ifc di Pisa, responsabile dell'indagine, "con un leggero decremento dei primi e un lieve incremento dei secondi". Nel 2007 - sempre secondo i dati del Ministero della Salute, analizzati dall'Ifc-Cnr - hanno ricevuto un trattamento presso i SerT 171.771 persone, 16.433 delle quali sono state inviate presso strutture socio riabilitative. II numero complessivo dei soggetti assistiti nelle comunità terapeutiche nello stesso periodo, è stato però di 18.357 persone. La quota restante, circa 130.000 persone, pur bisognosa di trattamento non è stata in carico presso alcun tipo di servizio o struttura nel corso del 2007. Si conferma la preponderanza tra gli utenti in carico ai SerT di coloro che fanno uso di eroina ed altri oppiacei, mentre seguono la cocaina, la cannabis e le amfetamine o gli allucinogeni. Quasi un terzo degli utenti è disoccupato e l'8% è senza fissa dimora; tali proporzioni risultano nettamente più elevate tra gli stranieri. II 64% dei soggetti riceve trattamenti farmacologici integrati con interventi di carattere psicosociale e/o riabilitativo e il 36% esclusivamente trattamenti psicosociali e/o riabilitativi. Per quanto attiene alle patologie infettive correlate alla droga, nel 2007 sono risultati positivi il 12% dei soggetti sottoposti ai test sierologici per HIV. Contemporaneamente si osserva un leggero decremento dei consumi fra gli studenti (fra i 15 ed i 19 anni, soprattutto tra i 15enni). II 51% degli studenti ritiene però "facile o piuttosto facile" reperire in breve tempo una qualsiasi sostanza psicoattiva illegale. È la discoteca il luogo maggiormente indicato dove reperire le sostanze, a seguire la casa dello spacciatore e la strada. Anche la scuola viene indicata dagli studenti come luogo di possibile approvvigionamento e spaccio. Eppure, nonostante il trend di aumento generale, dalle ricerche epidemiologiche eseguite dall'Ifc-Cnr emerge che la popolazione è consapevole dei rischi per la salute correlati ai consumi di sostanze psicoattive e con una forte opinione negativa sul loro uso. __________________________________________________________ Repubblica Salute 10 ott. ’08 SCLEROSI MULTIPLA: TRENTA MOLECOLE PER CURE MIGLIORI dall'inviato Maurizio Paganelli MONTREAL - 2,5 Milioni i malati di Sclerosi multipla nel mondo, - 57 mila in Italia, un caso ogni 1050 abitanti - 31-33 anni l'età di insorgenza più probabile, ma colpisce tra i 20 e i 40. - Incidenza doppia nelle donne Alle ricerca della medicina "perfetta". Di fronte alle difficoltà nel capire le cause scatenanti e nel prevenire o risolvere all'origine questa malattia autoimmune del Sistema nervoso centrale (colpisce la mielina che riveste le fibre nervose, formando le cosiddette "placche"), l'esercito di ricercatori e studiosi, oltre 3mila, riuniti in Canada al Congresso mondiale sulla malattia, percorre la strada del miglioramento dei trattamenti a misura di paziente". Nella pipeline della ricerca, anche a livelli avanzati, ci sono decine di molecole e alcune entreranno sul mercato farmaceutico tra il aoo9 e il 2010. Se un tempo la diagnosi di Sclerosi multipla era vissuta come una condanna a un’imminente immobilità, dagli anni Novanta si sono moltiplicate e affinate le opzioni terapeutiche, con miglioramenti e stabilizzazioni anche delle forme più aggressive (ma, in alcuni casi, dopo 7-20 anni resta la possibilità di finire sulla sedia a rotelle). La riparazione dei tessuti danneggiati resta il "goal" da raggiungere, ma la qualità della vita del paziente e il suo punto di vista s'impongono. La "medicina ideale' dovrebbe essere di facile utilizzo, da prendere per bocca, con riduzione di frequenza e numero di dosi, semplice da reperire, sicura nell'uso a lungo termine (tollerabilità), senza effetti indesiderati (come continui sintomi similinfluenzali, depressione etc.), maggiore efficacia, in grado di bloccare e invertire la progressione della malattia. Il quadro della ricerca lo ha tracciato, in un media briefing organizzato dalla farmaceutica Merck Serono, il francese Patrick Vermersch, capo dipartimento di Neurologia all'ateneo di Lille: sei molecole cori formulazione orale (tra cui la CLadnbina della Serono, con ampi risultati, Fingolimod della Novartis. Terifluvomide di Sanofi Aventis, Laquinimod di Teva), un generico biosimilare e un nuovo preparato iniettabile sono in fase 3; in trial clinico 2 vi sono altri 8 farmaci orali, 11 iniettabili e due biosilari: quattro nuovi farmaci orali sono in fase r. In tutto quasi una trentina di molecole che si aggiungono alle nuove formulazioni delle attuali opzioni terapeutiche, immunomodulatori o immunosoppressori che siano. « Le cellule T e B e i mediatori dell'infiammazione», sostiene il neurologo. «sono gli obiettivi ideali nelle nuove cure della Sclerosi multipla. Le terapie orali in sviluppo svuotano selettivamente, isolano o inibiscono la proliferazione dei linfociti, target primario in questa battaglia». «Stiamo andando verso una molteplicità e complessità delle terapie e dell'azione specifica di ogni farmaco», sottolinea il neurologo Luigi Grimaldi, del San Raffaele- Giglio di Cefalù, «terapie a misura di paziente, con un bisogno di accurati accertamenti per scegliere il miglior strumento da utilizzare per evitare il più possibile i non pochi effetti indesiderati. E ciò apre una questione: i centri italiani sono attrezzati a tale minuziosa analisi del paziente? La maggior parte prescrive l’interferone e basta. Servirà riorganizzare e riqualificare la rete». E il segnale di questa complessità sta nell'interrogativo base del congresso: neurodegenerazione o infiammazione, cosa viene prima? Il tedesco Wolfang Briick, dell'università di Gòttingen, ha portato elementi a conferma di segnali primari di neurodegenerazione e lesioni nel cervello (tracce su Risonanza magnetica); al contrario il canadese Wa-ne Moore, Università British Columbia, Vancouver, pone evidenze istopatologiche e studi molecolari che confermerebbero come la degenerazione dei neuroni sia conseguenza della infiammazione e demielizzazione. «I due fattori si intrecciano e riesce complicato distinguerli», ricorda Francesco Patti, Università di Catania, «ma I'infiammazione precede e va quindi bloccata con forza. In termini di terapia mi sto orientando verso l’uso di immunosoppressori seguiti da immunomodulatori. Con cure personalizzate». La centralità del malato è anche qui sottolineata da studi che prendono in esame l’insieme dei problemi cognitivi, emozionali e di qualità della vita (studio osservazionale Cogimus, dello stesso Patti). Fino ad arrivare alla "misura della felicità", indice determinante nella reazione alla malattia, proposta da uno studio israeliano dello psicogeriatra Yoram Barak, che introduce alla POP, Positive psychology. Sullo sfondo l'arrivo sul mercato degli interferoni generici, i biosimilarì, che, scaduti i brevetti, possono alleggerire i conti dei servizi sanitari nazionali. Con molta cautela da parte dei vari enti regolatori: l’interferone è un prodotto dì ingegneria genetica (tecnica Dna ricombinate) ed è formato da ben rGG aminoacidi. Uno studio indipendente del neurologo Vidor Rivera (Baylor College of Medicine, Houston, Usa) pone dubbi su efficacia, sicurezza e perfino stil risparmio dei biosimilari introdotti dal 2004 in Messico, Argentina e Corea. Un gruppo di studiosi, guidati da Rachel Farrell, delYlstituto di Neurologia di Londra, ha analizzato 4 diverse "copie" di interferone con risultati preoccupanti in termini di efficacia rispetto agli originali. Nel futuro, in sperimentazione, c'è anche il trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche, in casi particolari e Fon ne aggressive. __________________________________________________________ Repubblica Salute 10 ott. ’08 ORA LA VITA SI PUÒ LIOFILIZZARE di Arnaldo D'Amica Una nuova tecnica. semplice e economica, consente di sospendere la vita delle cellule animali. dl conservarle e di resuscitarle. E’ il frutto di un'ampia collaborazione internazionale tra il Roslin Institute and Roval School of Veterinar,- Snrdies di Edimburgo. l'Institute of Anunal Production di Praga, I'Institute of Animal Science di Bet Dacari (Israele) e l'università di Teramo. La dimostrazione finale della vitalità delle cellule (sono state usate quelle di pecora) una volta resuscitate è stata data dalla loro capacità di avviare la formazione di embrioni con la tecnica della donazione. Il lavoro scientifico è pubblicato su Plcs Onz. La nuova tecnica di conservazione è. in pratica. Il noto processo di liofilizzazione con cui si estrae tutta l'acqua da un materiale biologico. sospendendo così rutti i processi vitali. «Una scoperta fantastica. un grande successo». commenta Carlo Alberto Redi. direttore scientifico della Fondazione irccs policlinico San Matteo di Pavia e grande esperto di queste problematiche. «da anni che si cercavano alternative al congelamento delle cellule. ~ Le future applicazioni sono enormi». _________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 ott. ’08 LE MALATTIE RESPIRATORIE COSTANO 100 MILIARDI Cento miliardi di euro all'anno. Questo è il costo delle malattie respiratorie in Europa. Una cifra che corrisponde a 118 euro a persona e che è dovuta in primo luogo alla perdita di ore di lavoro (48,3 miliardi) e ai ricoveri in ospedale (17,8 miliardi). I costi diretti di queste patologie assorbono circa il 6 per cento del bilancio sanitario dell'Unione europea. A fare i conti è un'indagine nata dalla collaborazione tra l'Eurispes e la cattedra di Chirurgia toracica dell'Università Tor Vergata di Roma. La ricerca, che rappresenta l'avvio di un progetto, ha come scopo quello di indagare in maniera esaustiva le caratteristiche della diffusione delle patologie respiratorie, al fine di individuare le principali aree di criticità e proporre un modello articolato di intervento. Dalla ricerca emerge anche il prezzo pagato, in termini di vite umane, per le malattie dell'apparato respiratorio: in Italia, soltanto nel 2006, sono morte 35.427 persone, mentre sono stati 33.275 i decessi per tumori maligni di trachea, bronchi e polmoni, per un totale di 68.702 persone. Le patologie respiratorie sono oggi fra le principali cause di morbilità e mortalità a livello mondiale. Nel nostro Paese risultano essere al terzo posto, dopo i tumori e le malattie del sistema circolatorio. Il tasso di mortalità (per 10mila) per malattie respiratorie è 5,48, mentre quello per tumori maligni della trachea, bronchi e polmoni è 5,42. In Italia le malattie dei bronchi e dei polmoni affliggono circa 10 milioni di persone, oltre 8 milioni in forma cronica. L'incidenza di queste patologie aumenta esponenzialmente all'aumentare dell'età. Per quanto riguarda i tumori maligni di trachea, bronchi, polmoni, il tasso dei decessi risulta infatti estremamente basso nei giovani fino ai 34 anni, basso negli adulti dai 35 ai 59 anni, per poi subire un aumento esponenziale nella classe d'età che va dai 60 ai 79 anni e, in misura ancora maggiore, dagli 80 anni in su. Anche i decessi per malattie del sistema respiratorio presentano tassi inferiori in tutte le fasce di età inferiori ai 60 anni, ma salgono a 8,62 dai 60 ai 79 anni, per poi registrare un tasso ben più elevato tra gli over 80. __________________________________________________________ Repubblica Salute 10 ott. ’08 RENE, TRAPIANTO DA CADAVERE Dopo Stati Uniti, Spagna. Belgio. Francia, Olanda e Giappone anche in Italia sarà possibile prelevare reni anche dopo che si è fermato il cuore, aumentando di molto il numero di organi disponibili per il trapianto. la tecnica di espianto, che richiede una complessa ed efficace organizzazione, è stata applicata per la prima volta in Italia al San Matteo di Pavia. L'organo è stato trapiantato a un uomo di 57 anni, in dialisi da oltre tre anni. Nei giorni successivi sono stati effettuati già altri due trapianti. «Fino a ieri, spiega Paolo Geraci, responsabile del Centro di coordinamento donazioni e trapianti, «quando si fermava un cuore, in presenza di volontà di assenso da parte del soggetto, venivano prelevate cornee e tessuti, ma nessun organo. Oggi, grazie a un'organizzazione che vede tutte le componenti ospedaliere allertate, si possono recuperare anche alcuni organi poi attentamente valutati per l'idoneità al trapianto». Accertata la morte e verificata la volontà della persona, o la assenza di opposizione dei familiari, si attivano le procedure per ridurre al massimo gli effetti nocivi dell'ischemia sul delicato tessuto renale dovuta alla cessazione della circolazione del sangue al suo interno. Quando il cuore smette dì contrarsi il sangue si ferma all'interno delle arterie. L'ossigeno che contiene viene consumato rapidamente dal tessuto circostante e, mancando il flusso, non ne arriva più altro. «La tecnica chirurgica del prelievo e del trapianto è quella consolidata-, precisa Massimo Abelli del Centro trapianti di rene del San Matteo, An casi come questi è però necessario avere molta esperienza ed essere molto organizzati, perché prelievo e trapianto devono essere effettuati in tempi molto rapidi. Questo è stato possibile grazie allo sforzo organizzativo che ha messo in sintonia le varie unità operative-. -I primi interventi-, commenta il presidente del San Matteo, Alberto Guglielmo, -aprono finalmente la strada ad un'ulteriore modalità di prelievo di organi e aumentano le possibilità per chi è in attesa di trapianto. È l'inizio di un nuovo percorso di speranza». __________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 ott. ’08 PROTETTE DAI GLOBULI ROSSI Allo studio nuovi agenti di contrasto Ma invisibili Nascondere corpuscoli di dimensioni 100mila volte inferiori al diametro di un capello (nanoparticelle) dentro i globuli rossi del paziente, per evitare che il méccanismo di difesa tipico del fegato le catturi e le espella in pochi minuti come succede alle nanoparticelle magnetiche biocompatibili usate come agenti di contrasto nella risonanza magnetica. Succede perché vengono iniettate come particelle libere e perciò riconosciute come corpi estranei. Prolungare 1a loro permanenza nel sangue così da consentire di monitorare, attraverso gli strumenti di visualizzazione diagnostica, gli interventi cardiovascolari che durano ore è l'obiettivo, considerato finora una grande sfida, di un accordo di ricerca firmato dall'Università di Urbino con Philips researeh: L'accordo, della durata di due anni e mezzo circa, prevede che l'Università di Urbino studi l'integrazione di nazioparticelle magnetiche nei globuli rossi e le loro interazioni con il corpo umano, mentre Philips studierà le proprietà di questi agenti di contrasto per mezzo delle proprie apparecchiature mediche. Ciò che dovrebbe rendere più veloce la loro introduzione nell'imaging molecolare. A permettere il raggiungimento dell'obiettivo dovrebbe essere una nuova tecnologia che, consentendo di fondere, attraverso costrutti biomimetici, le proprietà di nanomateriali con quelle delle cellule viventi, fa sì che nanoparticelle magnetiche vengano catturate dai globuli rossi del paziente, dove rimangono protette per giorni, o anche settimane, dal meccanismo di espulsione. La tecnologia è stata brevettata dall'Università di Urbino, che l'ha messa a punto nell'ambito di un progetto quinquennale finanziato con circa otto milioni di euro dalla Comunità europea all'interno del VI Programma quadro, il Novel and improved nanomaterials, chemistries and apparatus fornano-Uiotechnology project; ormai giunto alla realizzazione degli obiettivi. Tra. quelli prioritari: sviluppare materiali e metodi indirizzati alla diagnostica molecolare. ROSANNA MAMELI __________________________________________________________ La Stampa 10 ott. ’08 PROSTATA, UNA SPIA CONTRO IL CANCRO Sarà l'urologo Giovanni Muto, primario all'ospedale San Giovanni Bosco di Torino e consulente dell'Istituto Superiore di Sanità, a coordinare lo studio italo- americano alla ricerca di un'alternativa al Psa, la proteina-spia del carcinoma della prostata. Torino capofila di quattro Istituti tumori del nostro Paese (Roma, Genova, Napoli e Milano), di due reparti ospedalieri (Torino e Pisa) e della George Mason University di Washington, partner Usa in questo importantissimo progetto di ricerca. Antigene specifico, il discusso Psa è un alleato prezioso e fondamentale del medico per individuare le recidive del tumore prostatico, ma non garantisce la certezza sufficiente nel caso di una prima diagnosi: ricercatori italiani - fra cui anche una biologa torinese - lavoreranno così braccio a braccio per tutta la durata del progetto con ricercatori statunitensi, «per individuare - spiega il professor Muto - una proteina fra le migliaia di proteine nel nostro organismo che sia maggiormente espressa quando si sviluppa un cancro alla prostata». Tra i pazienti che si sono già prestati e si presteranno allo studio ci sono anche donne, «che non avendo la prostata ci consentiranno di escludere quelle proteine prodotte anche dal loro organismo, e che non possono quindi essere considerate segnali inequivocabili di una malattia tipicamente maschile». L'annuncio dello studio arriva dal convegno dell'Associazione Urologi Italiani in programma da ieri a Taormina. «Una ricerca molto importante sotto due punti di vista - sottolinea Muto -: innanzitutto perché ci permetterà di avere un'alternativa diagnostica per questo tipo di tumore molto più certa di quella che ad oggi tutti gli urologi utilizzano. Ma anche perché, per la prima volta, chirurghi urologi, abituati a curare i malati, collaborano direttamente con chi invece sta in laboratorio». E' una grande speranza per tutti gli uomini, se si considera che - stando ai dati dell'Associazione italiana registro tumori - ogni anno si contano circa 42 mila nuovi casi di carcinoma della prostata: «L'Italia - è stato ricordato a Taormina - è al primo posto per incidenza del carcinoma prostatico, e tra i primi per mortalità». Tumore legato al fumo di sigaretta e all'inquinamento oltre che ad altri fattori di rischio, è la più frequente neoplasia dell'uomo. Quasi sempre privo di segnali d'allarme, colpisce circa 12 italiani su cento ed è una minaccia oggi di poco superiore al cancro del polmone. Tumore raro sotto i 50 anni (circa 21 casi per 100 mila abitanti), cresce dopo i 65 anni, superando le 800 diagnosi ogni 100 mila uomini. La fase iniziale dello studio durerà due anni, poi si analizzeranno le prime conclusioni della ricerca. «I pazienti - spiega ancora il professor Muto - verranno suddivisi in cinque categorie, 150 persone per ognuno dei centri coinvolti». Ci sarà anche chi ha già avuto una diagnosi di tumore: una scelta per valutare l'evoluzione e i mutamenti della proteina-spia anche nei vari stadi della malattia. www.lastampa.it/accossato __________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 ott. ’08 UN NASO ELETTRONICO PER LA DIAGNOSTICA Scopre sulla pelle il melanoma Ma non solo:.. DI FEDERICO CAPITONI Nonostante sia riconosciuto come il più evocativo, l'olfatto sembra aver sempre avuto - assieme al gusto, il ruolo di cenerentola dei cinque sensi. Le cose per molti si "sentono" con gli occhi, le orecchie e le mani. Invece il naso ha un compito importantissimo che va ben oltre quello di riconoscere buoni o cattivi odori: È quello di capire se in un oggetto qualcosa' non va, se è alterato o insano. Fin dalla metà degli anni 9o è stata fatta molta ricerca sul cosiddetto naso elettronico, un sistema olfattivo artificiale ché riproduce le caratteristiche del naso biologico umano. Dalle prime applicazioni in campo agro alimentate, si è recentemente passati a quelle mediche: «Tutti i corpi emettono un proprio odore, una propria chimica- spiega Arnaldo D'Amico, responsabile del Gruppo sensorie microsistemi dell'Università romana di Tor Vergata-e questa cambia se vi sono patologie». Quando $ corpo umano si ammala, muta il suo metabolismo e questo provoca un'alterazione dell'odore. «Dall'odore dell'alito ci muoviamo per indagare il cancro ai polmoni, da quello delle urine per il tumore alla prostata, da quello della pelle, per il melanoma». In quest'ultimo caso il funzionamento del naso elettronico è quasi intuitivo. Due piccole proboscidi collegate alla narice (formata da otto sensori al quarzo spalmati di porfirina); "ascoltano" rispettivamente la pelle sana e quella con il nevo. Attraverso tecniche avanzate di misurazione, si analizzano i valori: «Il naso è addestrato, tarato, sugli odori di un corpo sano. Più i risultati ricavati sono distanti, più è indice di qualche disfunzione o patologia». Si lavora dunque sulle differenze, il tratto comune tra pelle sana e melanoma non viene considerato. AL naso elettronico gli odori vanno insegnati, e discrimina il corpo sano da quello sospetto proprio quando avverte diversità tra ciò che ha imparato e ciò che sente. È d'altro canto vero che gli si possono insegnare tutti gli odori possibili, anche quelli che noi non percepiamo affatto. Cosicché è in grado di farci scoprire le emanazioni - degli organi invisibili attraverso ciò che è in superficie. C'è una corrispondenza topografica tra l'odore della pelle e l'organo chele è più d'appresso: «Se mettiamo il naso elettronico all'altezza del fegato, la pelle ci restituisce elementi particolari che l’essere umano non può notare». Un esempio interessante, dal punto di vista alimentare, è quello di aver constatato come gli aromi cambino in base agli ingredienti dell'alimento. Di uno yogurt alla ciliegia noi sentiremo sempre e solo il sapore e l'odore della ciliegia anche sé il naso rileva la differenza aromatica a seconda che si usi per esempio il latte scremato o quello intero. Si tratta di un naso affidabilissimo, sempre sotto controllo. «L'obiettivo-conclude D'Amico - è attualmente, oltre alla ovvia applicazione diagnostica, la miniaturizzazione di questo dispositivo. La portabilità é diffusione di massa di questo oggetto verrebbe incontro per esempio alle persone anziane alle prese con il diabete, o alle donne in periodo mestruale. Insomma aiuterebbe a osservare, a sentire il proprio corpo per poi recarsi dal medico coscientemente». Non è un caso che tra i sinonimi di"odore" ci sia la parola sospetto. IL naso elettronico non riconosce le malattie, bensì suggerisce che qualcosa non corrisponde a determinati parametri e che quindi è. consigliabile procedere con dettagliati accertamenti. _________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 ott. ’08 MEDICI IN DIFESA, «ANTIDOTO» FIDUCIA La "medicina difensiva" è il più grave "effetto collaterale" della pratica medica, occasionato dal fiorire di azioni giudiziarie e denunce nei confronti dei medici. L'incremento negli ultimi 10 anni, stando ai dati Ania, l'associazione della compagnie assicurative, sarebbe pari al 66%, con un monte cause annuale ormai vicino a 30mila. Incalzati dalla carta bollata e accerchiati da una pressione sociale e mediatica dai toni quasi persecutori, i camici bianchi hanno iniziato a opporre la propria reazione, praticando la professione "in difesa". In linea generale esercita "medicina difensiva" il sanitario che nell'approccio al paziente tende ad adottare una strategia professionale di eccezionale cautela, finalizzata a scongiurare l'eventualità di un procedimento giudiziario. Il che comporta un proliferare di prestazioni medico-diagnostiche superflue e ricoveri più o meno inutili, dettati più dal timore di strascichi giudiziari che da una reale necessità di cura. Non solo. In linea con quanto avviene negli Usa, si assiste anche nel nostro Paese a una tendenziale fuga dalle specializzazioni più a rischio, come anestesia e rianimazione, con ricadute sull'efficienza del sistema sanitario. Uno spaccato del problema è fornito dall'indagine «Medici in difesa, prima ricerca del fenomeno in Italia: numeri e conseguenze», curata da Mario Falconi, presidente dell'Ordine dei medici di Roma e da Aldo Piperno (università Federico II di Napoli). L'indagine ((si veda «Il Sole 24 Ore» del 25 settmbre) ha coinvolto circa 800 medici romani: a fronte di un drappello sempre più esiguo di medici che si sente al riparo dall'eventualità di azioni giudiziarie a proprio carico (il 6,7%), lievitano gli indicatori della professione "in difesa", con la richiesta di indagini specialistiche superflue (oltre il 75% dei camici bianchi ammette di averlo fatto almeno una volta), con la prescrizione di accertamenti diagnostici sostanzialmente inutili o eccessivi (il dato raggiunge l'89%), ovvero con ricoveri "prudenziali" (li ha disposti almeno una volta il 58% del campione). Il conto potrebbe essere salatissimo, tra i 12 e i 20 miliardi di euro. L'impatto socio-economico del fenomeno impone rimedi eccezionali. È necessario, anzitutto, ripristinare un corretto rapporto tra il cittadino e la medicina, valorizzando la relazione fiduciaria tra paziente e medico. In quest'ottica, mentre è innegabile l'esistenza di gravi e numerosi episodi di malasanità, occorre sottolineare che il nostro sistema sanitario (ed è l'Oms ad attestarlo), è tra i migliori e più avanzati al mondo. Sarebbe poi di grande aiuto un'azione di contenimento dell'offensiva giudiziaria nei confronti della categoria sanitaria. Un più rigoroso filtro delle denunce e l'adozione di misure più efficaci per scoraggiare l'esperimento delle cosiddette "frivolous lawsuit", ovvero delle azioni giudiziarie esplorative o prive di fondamento, riconsegnerebbe ai medici parte di quel coraggio di cui hanno bisogno per esercitare la professione. È infine senz'altro indifferibile l'attivazione di un sistema efficiente di monitoraggio e di risk management. Un apparato realmente funzionale di controllo del rischio clinico, non solo avrà ricadute positive sull'efficienza e affidabilità del servizio salute, ma attenuerà anche il clima di reciproca diffidenza tra medici e malati. di Andrea Ferrario 07/10/2008 Il Sole 24 Ore Pag. 35 NORME PROFESSIONISTI La proprietà intelletuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato