L’UNIVERSITÀ DISMESSA: QUELLO CHE PEROTTI NON DICE - IL LATO DEBOLE DELL'UNIVERSITÀ - PEROTTI: UNIVERSITÀ COSTOSA, INGIUSTA E CLIENTELARE - I RIFORMISTI DEL NO - GLI ATENEI DEGLI SPRECHI IN ITALIA 37 CORSI CON UN SOLO STUDENTE - È L’ORA DI ALZARSI, LE RAGIONI E LE FORME DELLA MOBILITAZIONE - SARDEGNA: STUDENTI NON BRILLANTI E ISCRIZIONI IN CALO AFFONDANO L'ISTRUZIONE - SE L'ITALIA ARRETRA TRA CONDOTTA E GREMBIULINI - ALLA SCUOLA DI PROTAGORA - QUEI DOCENTI NELLE TRINCEE: I VALORI DELLA CONOSCENZA - LANZETTA: L'UNIVERSITÀ L'UNICO MALATO CHE HO MOLLATO - UNIVERSITÀ OCCUPATE UN VERO BLUFF SONO TUTTI IN AULA PER LE LEZIONI - SCIENZIATI IN OSTAGGIO DEI BUROCRATI - I TAGLI SELVAGGI AFFOSSERANNO L’UNIVERSITÀ - L'UNIVERSITÀ NON PUÒ PIÙ SPRECARE SOLDI - UNIVERSITÀ: LA RIDUZIONE DEI FINANZIAMENTO - FONDI AGLI ATENEI: PER LA DIDATTICA DEDUZIONE AL 2% - CON LE NONNE TAGLIA-PRECARI IL MINISTRO NOM SAREBBE PROFESSORE - GIANNI VATTIMO CONTRO I RETORI DEL DIALOGO - IL PAPA: SCIENZIATI ARROGANTI, NON ELABORANO PRINCIPI ETICI - UNIVERSITARI, GUIDA ALL'AFFITTO SENZA SORPRESE - LENSTRA: SPIE, CARTE DI CREDITO E CIOCCOLATA - SFORZA: GENI E CULTURA CAMMINANO INSIEME - TUVIXEDDU: COSA PROTEGGE UN SITO PIÙ DI UN PALAZZO COSTRUITO SOPRA? - STUDENTI CINESI IN ITALIA: È BOOM - CORSA ALLO STOCCAGGIO DELLE INFORMAZIONI - UNA GRID CHE UNISCE IL MONDO - ======================================================= MEDICI ALL'AVANGUARDIA: RISCHIO CLINICO E INGLESE - SANITÀ AL RESTYLING NUOVE LAUREE PER INFERMIERI E TECNICI - FINANZIAMENTO RICERCA MEDICA, SI CAMBIA - MEDICINE, OGNI SARDO SPENDE 226 EURO - FARMACI, UNITI SI RISPARMIA - SANITA: ECCO L'AGENDA DELL'EUROPA - SDO 2007: PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI E GRAVIDANZE – RICOVERI 2007 IN CALO: -4,2% - BRACCIO DI FERRO TRA ENTI E ASL SUI COSTI DELLE VISITE FISCALI - COME SI "APPALTA" L'INFERMIERE - SARDEGNA: NUOVI LEA, SODDISFAZIONE DELL´ASSESSORE DIRINDIN - FAVISMO, SARDI TRADITI DA UN GENE - GRATIS O TICKET, I DIVERSI REGIMI DELLE REGIONI - MANI UNO SU 4 NON LE LAVA: L'IGIENE È UN OPTIONAL - TUMORI AL SENO OBIETTIVO MORTALITÀ ZERO GIÀ NEL 2020 - CAGLIARI: LA GOCCIA DI GHIACCIO CHE STOPPA I TUMORI - ======================================================= ______________________________________________________ il manifesto 16 ott. ’08 L’UNIVERSITÀ DISMESSA: QUELLO CHE PEROTTI NON DICE AL LIBERO MERCATO DEI CENTRI DI ECCELLENZA Benedetto Vecchi L’obiettivo, che fa capolino pagina dopo pagina, senza però mai essere dichiarato è la costruzione di una «università degli eccellenti», che prende il posto di quella, clientelare e sprecona, «di massa». E dunque, spazio al merito, alla concorrenza tra atenei per attrarre docenti e ricercatori di qualità, attraverso la liberalizzazione delle assunzioni. Oltre a questo, aumento delle tasse, prestito d'onore per gli studenti, valutazione della qualità delle ricerche svolte, possibilità per le università di trasformarsi in fondazioni per attirare finanziamenti privati. Questo ultimo aspetto prevede una gerarchia tra le università, che dovrebbe spaziare, dai centri d'eccellenza all'equivalente italiano del community college noti negli Stati Uniti per la bassa qualità dell'insegnamento e per essere il ripiego di chi non può permettersi, per soldi, un college degno di questo nome. Sono questi i temi trattati nel pamphlet di Roberto Perotti L'università truccata (Einaudi, pp. 118, costo 16), che non nasconde l'ambizione di presentarsi come una feroce critica dei «baroni» e, al tempo stesso, come una proposta organica di modernizzazione dell'università italiana all'insegna di una visitazione aziendalista della formazione, all'interno della quale la diffusione della cultura e della conoscenza sono equiparate alla produzione di una qualsiasi merce. Elemento, quest'ultimo, che ricorre nelle reiterate esemplificazioni dell'autore, quando invita a comparare i comportamenti di un consumatore di fronte alla scelta di quale automobile acquistare a quelli di uno studente che deve decidere a quale università scriversi. UN SISTEMA FEUDALE Non è la prima volta che Roberto Perotti affronta lo «stato di salute» dell'università italiana. Alcuni anni fa, assieme a Alberto Alesina e Francesco Giavazzì, aveva contribuito a stilare un Manifesto per l'università (Rizzoli editore); poi ha continuato a monitorare la formazione universitaria con contributi al sito Lavoce.info e con la newsletter sui concorsi elaborata dall'«Innocenzo Gasparini Institute for Economic Research» dell'Università Bocconi di Milano, polo universitario privato dove insegna dopo una docenza alla Columbia University di New York. È dunque un economista, a cui forse non dispiacerebbe la qualifica, resa nota da Giavazzi, di «liberista di sinistra». Ma non è questione di etichette, quanto di un ordine del discorso che nonostante gli insuccessi - la riforma dell'università di Letizia Moratti è state fatta in nome del libero mercato - e le critiche che ha incontrato continua a autoalimentarsi in nome di una superiorità del mercato che l'attuale crisi finanziaria sta mettendo a nudo come una ideologia poggiata oramai su una montagna di inesigibili titoli di borsa. C'è però nel volume di Perotti un punto forte. È quello in cui viene denunciato il potere dei baroni, che manipolano i concorsi al solo fine di mantenere inalterato il loro potere, al punto che la documentazione fornita dall'autore rappresenta il loro operato alla stessa stregua di un clan mafioso o di una lobby economica su base familiare. Ordinari e presidi che fanno vincere i concorsi a figli, figlie, mogli, fidanzate; oppure scambi di favore tra «clan universitari» al fine di consolidare la propria posizione e così partecipare al banchetto dei finanziamenti pubblici. Un repertorio di ordinario saccheggio che rendono i «baroni» il maggior centro di potere dell'università. E poco serve ricordare che la maggioranza dei ricercatori e dei docenti sono persone oneste. Il problema, semmai, è che il marchio di fabbrica impresso all'università è proprio quel sistema di potere che i baroni hanno sviluppato in questi decenni. I baroni, va da sé, sono stati sempre presenti nelle università italiana, condizionando l'accesso alla docenza e alla ricerca. Ma solo da pochi decenni il potere viene esercito non in nome di una «scuola di pensiero» che vuole diventare egemone, quanto per condizionare la redistribuzione del reddito e dei privilegi. Insomma, una casta come molte altre presenti in Italia, E che andrebbe smantellata, sostiene Perotti, attraverso l'abolizione dei concorsi con gli atenei che chiamano il docente che vuole e che contrattano individualmente il compenso. L'autore propone inoltre di introdurre anche in Italia il sistema dei peer review, cioè quel giudizio tra pari che consente la pubblicazione di articoli su prestigiose riviste internazionali. Con una omissione: la feroce critica al funzionamento delle peer reuiew maturata nell'accademia statunitense, laddove è stata individuata un'inflazione di mediocri articoli inviati per essere pubblicati e quindi fare «titolo», una scarsa attenzione nella loro valutazione, e il fatto che la peer review serve per consolidare il flusso di finanziamenti pubblici ai centri di ricerca seppur privati e, per gli atenei scientifici, di poter sfruttare la rendita di posizione per brevetti di nessun valore. Un sistema di questo tipo significherebbe per l'Italia una novità, perché introduce per la prima volta il principio della valutazione, ma significa solo innovare il dispositivo attraverso il quale i baroni divenuti «dotti» esercitano sempre lo stessa potere. La sanzione verrebbe dal mercato: se un ateneo è ritenuto un centro di eccellenza lo rimarrà, chi non lo è proverà a diventarlo, cercando di accaparrarsi a colpi di assegni con molti zeri le «migliori menti». Ma il potere di definire la qualità spetta sempre ai «dotti», senza nessuna possibilità di dissentire. MACERIE DA RIMUOVERE Il nodo da sciogliere per Perotti è come razionalizzare le risorse destinate all'università. Anche in questo caso, l'autore parte da un dato di fatto: l'università italiana sarà anche di massa, ma chi arriva alla laurea è spesso figlio o figlia di una famiglia «ricca». Che l’università italiana sia un'università di classe è indubbio, ma il tanto deprecato Sessantotto aveva introdotto un fattore che costituiva una vivente contraddizione: l'accesso al sapere e alla conoscenza come un diritti sociale per tutti. L'autore, che ama presentarsi come un uomo che si è fatto da solo, e vista la sua giovane età, dovrebbe forse tenere presente che le sue possibilità di andare all'università, spostarsi negli Stati Uniti sono dovute, oltre che ai suoi meriti, anche a quel principio del Sessantotto che affermava l'accesso al sapere come espressione di una piena cittadinanza. Ora Perotti sostiene che innalzando le tasse universitarie affluirebbero risorse che possono essere investite nel creare centri di eccellenza Così come l'uso delle fondazioni, come invoca anche la collega d'università, la bocconiana e ministro Mariastella Gelmini. Le famiglie saranno bramose di pagare tasse più onerose, così come sarebbero felici gli studenti di accedere al «prestito d'onore», cioè quei debiti che possono essere estinti una volta entrati nel mercato del lavoro. Bisognerebbe chiederlo a quel signore che negli Stati Uniti innalzava un cartello, nel quale affermava che si era indebitato fino al collo e che mai avrebbe potuto pagare il prestito d'onore CONTRATTO CON L'UNIVERSITÀ PER CONSEGUIRE LA LAUREA. Sotto il tallone dell'impresa L'ordine del discorso di Roberto Perotti ha due parole chiave per decifrarlo: mercato e imprese. Due realtà che godono di pessima salute. E che vanno a comporre quel puzzle con il quale si è cercato di immaginare l'università dopo la sua privatizzazione. I privati, però, non hanno quasi mai investito nell'università (quelle private esistenti funzionano come ogni altra imprese che vuol fare profitti, attraverso anche le congrue rette). II fatto vero è la dismissione in atto dell'università, attraverso la riduzione dei finanziamenti e il patto luciferino e bipartisan tra baroni e sistema politico per spartirsi una torta sempre più piccola. I centri d'eccellenza che sorgeranno sulle ceneri dell'università renderanno contente chi salirà sul carro della necessaria trasformazione del sapere in forza produttiva sottomessa alle imprese. All'ordine dei discorso di Perotti ne andrebbe contrapposto un altro. Quello sostiene che ogni uomo e donna possa partecipare alla produzione e alla trasmissione del sapere. Che i docenti non sono titolari di nessuna eccellenza, né titolari di un potere speciale perché «sanno», ma che sono uomini e donne che vogliono condividere ciò che hanno appreso e coltivato nella loro vita. E che il loro lavoro non sia sottoposto al regime del lavoro salariato. Che la formazione deve essere permanente. Che la logica del mercato inibisce l'innovazione, come dimostrano la decennale discussione statunitense sulla perdita di autonomia del sapere dall'imprese. Che l'università è un bene comune da difendere e che deve eccellere sempre. Perché un'università che risponde all'ordine del discorso sviluppato in questo saggio è un'università truccata, tanto quanto quella che l'autore vorrebbe criticare. Meritocrazia, prestito d'onore, deregulation nelle assunzioni, fondazioni per gli investimenti privati. La ricetta liberista per l'università letta attraverso le pratiche culturali di resistenza negli atenei ______________________________________________________ Europa 17 ott. ’08 IL LATO DEBOLE DELL'UNIVERSITÀ L'elite dei professori è forte, ma gli atenei italiani sono in profonda crisi GIUSEPPE TOGNON La politica universitaria da molto tempo non rappresenta più una priorità del sistema politico nazionale perché all'interno delle politiche pubbliche essa viene ricondotta a un principio di autoregolazione su cui intervenire solo in caso di emergenze, attraverso provvedimenti tampone. Di fatto, ciò contraddice il dettato costituzionale che, riconoscendo la piena autonomia degli atenei, recita che essa debba esercitarsi «nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». La rappresentazione dell'università è lasciata invece al ceto accademico che purtroppo ritiene, a torto, di essere in grado di esprimere una capacità autoregolativa che alla prova dei fatti si è rivelata illusoria, perché il nodo del problema non consiste nella ridefinizione dell'autonomia universitaria, ma nella relazione tra questa e il contesto economico e sociale da cui si trova a dipendere dal punto di vista finanziario e giuridico, cioè nell'interpretazione del «limite» previsto dalla Carta non come strumento di contenimento 0 di scambio corporativo, bensì come fattore di apertura al territorio, all'iniziativa privata, alla mobilità. intellettuale, alla promozione dei giovani. Il sistema universitario italiano è imponente. Conta più di SO università (senza contare le accademie, i conservatori e gli atenei cosiddetti «telematici», introdotti nel 2003) distribuite in circa 200 sedi; gli studenti iscritti sono più di 1.800.000, i ricercatori e i professori- di ruolo circa 60.000, quelli a contratto circa 20.000, a cui si deve aggiungere un numero indeterminato di figure precarie coinvolte nella didattica e nella ricerca; il personale amministrativo o tecnico, tra tempi indeterminati e tempi determinati; supera le 65.000 unità; il finanziamento complessivo delle università (pubblico e privato) supera i 6 miliardi di euro, di cui solo circa il 20% deriva dalle tasse e dai contributi degli studenti (Cnvsu, 2007). L’argomento che le università italiane siano troppe è debole e si scontra con la realtà di una pluralità di modelli in Europa, dove, ad esempio, la Francia opera con circa 30 università, mentre la Germania ne ha più di 200 e lo stesso la Gran Bretagna. Il problema non è dunque la numerosità, ma l’efficienza del sistema che si misura attraverso una pluralità di parametri. Il paradosso italiano di un'università importante ma impotente è reso più evidente dal fatto che i professori universi tari costituiscono ancora la spina dorsale delle elites culturali del paese perché in Italia la maggior parte delle elites si trova all'interno di istituzioni ben definite, potremmo dire protette, sul piano giuridico e con competenze specifiche certificate e riconosciute. Sono professori universi-cari più del 20%. delle elites culturali, contro il10% di manager, il5% di esponenti di partito e di uomini delle istituzioni, il 4,5% di giornalisti di carta stampata, radio e televisione, lo 0,5% dei magistrati, il 4% circa degli ecclesiastici e dei religiosi. L’elite universitaria è forte, ma l’università italiana è debole e in crisi. AL modello autarchico e gerarchico, ma collegiale nei suoi livelli apicali, descritto negli anni Settanta, si è contrapposto nel tempo un modello individualistico e preda torio tipico di gruppi garantiti dalla definizione giuridica e culturale molto precisa del proprio ambito di competenza, ma lasciati liberi, all’interno di questo ambito, di comportarsi in maniera antisociale. Nell'università italiana pare in questo modo essersi creata la condizione di stallo tipica di quelle società dove una classe dirigente reazionaria ha creduto di potersi confrontare alla pari con una base democratica poco disciplinata. L’errore di prospettiva è stato per la verità alimentato da una cultura politica consociativa che ha creduto di poter accompagnare la domanda sociale di conoscenza e di benessere senza preoccuparsi di dotare l’esercizio della democrazia universitaria di regole e contrappesi sufficientemente forti da consentire di contrastare derive plebiscitarie e arroccamenti clientelari. Nel 1975 un giovane Giovanni Sartori scriveva per un pubblico internazionale di specialisti che «in short, the italian university is territory for conquest. We should not be deluded into thinking that all of this can be cured by good reforms. But "bad" or-wrong reforms can only make things worse». La storia della politica scolastica e universitaria degli anni Settanta è una delle migliori testimonianze di cui in Italia disponiamo per riflettere anche sulla fragilità del rapporto tra ceto intellettuale e ceto politico. 'Essa mette a nudo, oltre che il fallimento degli utopisti, anche la lussuria. con cui la politica si impadronì della società e insieme l'innocenza con cui quest'ultima continuava ad affidarsi a un sapere accademico in grati parte superato. A fronte di un consistente allargamento del mercato dell'istruzione, una cultura politica tradizionale conservò la pretesa di essere sempre e comunque centrale, titolare esclusiva dell’amministrazione e legittimata a selezionare, di volta in volta, tra le innovazioni culturali quelle che riteneva essere più convenienti. I partiti politici, che già avvertivano l’urgenza del problema della loro legittimazione, non seppero contrastare la tendenza a trasformare la politica scolastica e universitaria in uno struento di mobilitazione di massa, idoneo per mantenere il controllo su una società lievitata, e rimasero tuttavia impigliati in maniera fatale nelle contraddizioni di cui erano portatori. Si praticava la scuola come si praticava la politica: all'interno degli istituti scolastici, negli atenei, tra gli studenti e gli insegnanti, prese piede un ravvicinato confronto più di piazza che di idee, che favorì in maniera evidente la nascita del movimentismo, il quale divenne, con tutte le sue degenerazioni, la più rilevante forma di partecipazione neocorporativa. "La. crisi dell’Università", illustrazione di Giancarlo Moriteldi SAGGIO IN USCITA Proposte per il rilancio II brano che pubblichiamo è tratto da La crisi del potere accademico in Italia, il volume curato da Giliberto Capano e da Giuseppe Tognon ed edito nella collana Arel-11 Mulino. II libro esplora le radici storiche e strutturali di questa crisi per poi avanzare proposte concrete per il governo delle università _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 ott. ’08 PEROTTI: UNIVERSITÀ COSTOSA, INGIUSTA E CLIENTELARE Troppe parentele tra i nuovi assunti e i “baroni”, troppe facoltà inutili, troppi corsi improbabili Benvenuti all’università italiana I nostri atenei nel ritratto al vetriolo del docente bocconiano Roberto Perotti La minestra è sempre la stessa: cambia il governo e i nuovi ministri decidono di fare meglio dei predecessori con l’ennesima riforma per “migliorare” scuola e università. E giù proteste, con gli atenei del Belpaese pronti a dar battaglia. In questo clima, da un paio di settimane è uscito un libro-inchiesta che fin dalla copertina - più che sulle scelte giuste o sbagliate dei politici, che spesso sono docenti universitari - rivolge l’attenzione sul vero cancro dell’università italiana: il clientelismo. Un cancro che per una certa classe politica e accademica può, al massimo, risultare un salutare raffreddore. Non è così per Roberto Perotti, 47 anni, economista, docente alla Bocconi di Milano con una cattedra a vita alla Columbia University di New York, che ne L’università truccata (Einaudi, 178 pagine; 16 euro) denuncia gli scandali del malcostume accademico. E propone una via d’uscita per restituire efficienza e dignità al sistema attraverso un’inchiesta dall’interno. Perotti è uno della casta (suo malgrado) che dichiara guerra alla casta. È convinto che l’università non si riformi né con una nuova ondata di regole, né con prescrizioni o controlli. E nemmeno con appelli al senso civico o alla magistratura. E come, allora? TUTTO IN FAMIGLIA L’università che dipinge è un’impresa di famiglia dove i consociati vincono i concorsi grazie a una capacità che soltanto le teorie cromosomiche di Mendel possono certificare: l’ereditarietà. In questo senso un capitolo a parte è dedicato alla facoltà di Economia dell’Università di Bari. Più che di pianta organica, è corretto parlare di albero genealogico perché «su 179 docenti, almeno 42 risultano avere un parente stretto nella stessa facoltà. Più tanti altri sparsi per l’ateneo», precisa l’autore con tanto di nomi e cognomi. Quindi aggiunge che tutti i concorsi sono stati regolari. Anche se emergono tre tipicità. 1) La mancanza di concorrenza: in 18 concorsi su 33 le idoneità disponibili risultano pari al numero dei candidati. 2) L’intreccio di commissari: «Io faccio da commissario a tuo figlio e tu lo fai al mio». 3) La velocità di carriera dei rampolli: tra i tanti casi, quello di un giovane che vince un concorso da associato a Cagliari, poi a Salerno, a Padova e a Napoli. Il tutto a 29 anni appena compiuti: formidabile. «Eppure tante altre università presentano casi simili o addirittura peggiori». I FALSI MITI Ma il nepotismo è davvero così diffuso? La risposta che solitamente arriva dal baronato è la stessa che dà la Chiesa quando si chiede conto dei preti pedofili: ammette il fenomeno ma chiarisce che si tratta di casi isolati. Nel caso specifico, di «episodi di esasperato localismo». Segue un dettagliato elenco delle università che, secondo Perotti, applicano le leggi di Mendel: La Sapienza di Roma (il più grande ateneo europeo), Tor Vergata di Roma e Firenze, l’Università di Modena e quella di Milano Bicocca. «Il problema è provare che il nepotismo si concretizza in attività penalmente rilevanti. E quando ci si riesce le conseguenze sono irrisorie». Tra gli altri falsi miti, il piagnisteo sulla mancanza di fondi. Perotti lo ritiene falso perché la pubblicazione dell’Ocse “Education at a Glance” per il 2004 registra una spesa annuale di 7.723 dollari per studente, poco più di quella di Corea, Slovacchia o Messico. Ma se si tiene conto che metà degli iscritti è fuori corso, risulta che la spesa italiana per studente «diventa di 16.027 dollari: la più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia». Fasullo anche quello del «nonostante tutto l’università italiana è all’avanguardia». Infatti per ridimensionare il sedicente genio italico, l’economista cita la classifica stilata dall’Università Jiao Tong di Shanghai: fra i primi 500 atenei del mondo, quelli italiani sono 20 e la prima (la Statale di Milano) è 136esima, dietro istituzioni quali l’Università delle Hawaii a Manoa. Il mito de «l’università gratuita è egalitaria»? Falso anche quello perché «gli atenei pubblici sono come un Robin Hood al contrario in cui le tasse di tutti, inclusi i meno abbienti, finanziano gli studi dei più ricchi che potrebbero tranquillamente pagare di tasca propria». ATENEI FANTASMA Bocciato il sistema delle lauree triennali («sono considerate di serie B»), un’altra conseguenza del 3+2 è stata la proliferazione dei corsi: tra il 2000 e il 2007 sono passati da 2.444 a 5.517, tra cui «Scienza dell’allevamento, dell’igiene e del benessere del cane e del gatto», sempre a Bari. Nel 1980 si contavano 40 atenei, 75 nel ’99. Oggi sono 95 ma se si sommano le sedi staccate si arriva a oltre 330. I comuni dove ha sede almeno un corso di laurea sono 226, «tra cui Tempio Pausania con 5 studenti immatricolati». Perché tutto questo? «Per la moltiplicazione dei centri di potere. E per l’attribuzione di un titolo accademico a individui che non hanno nulla a che vedere con la ricerca. Individui fortemente connessi con il potere politico». Seguono nomi e cognomi. LA SOLUZIONE «Premiare il merito» è la via d’uscita indicata. Cioè accettare che «un fisico di 25 anni che promette di vincere il Nobel venga pagato tre volte più del professore ordinario a fine carriera che non ha mai scritto una riga». Oltre alla differenziazione degli stipendi, come evitare che il rettore faccia assumere il nipote? «Creando un sistema in cui i soldi seguano la qualità», un sistema in cui gli atenei che promuovono i ricercatori preparati ed eliminano quelli incapaci vedono affluire più risorse. «In questo modo - spiega - il rettore starà molto attento prima di far assumere il nipote perché una scelta del genere gli si ritorcerà contro». Un pizzico d’imbarazzo arriva quando Perotti parla dell’università che gli dà il pane quotidiano: la Bocconi. Lo fa per citare un esempio di ateneo privato. Denuncia che l’ufficio relazioni esterne impiega un centinaio di persone per un bilancio di 13 milioni di euro. «Le risorse per innalzare il livello scientifico del corpo docente sono irrisorie rispetto a quelle spese per intrattenere giornalisti o per organizzare convegni di grande richiamo mediatico ma di basso contenuto scientifico». “L’università truccata” è dedicato a tutti quegli studenti che ogni anno iniziano l’università convinti di spaccare il mondo. E ogni anno si ritrovano ingannati e disillusi da un sistema ingiusto che trasforma giovani entusiasti in cittadini cinici. E in giro, ormai, ce ne sono fin troppi. EMILIANO FARINA _______________________________________________________________ Corriere della Sera 13 ott. ’08 I RIFORMISTI DEL NO Scuola, i riformisti del no Che cosa realmente sanno della scuola, della causa per cui protestavano, gli studenti che l' altro giorno hanno affollato le vie e le piazze d' Italia? Probabilmente solo che il potere, cattivo per definizione (figuriamoci poi se è di destra!), vuole fare dei «tagli», termine altrettanto sgradevole per definizione, e imporre regole limitatrici della precedente libertà (grembiule, valore del voto di condotta), dunque sgradevoli anch' esse. Sapevano, sanno solo questo, non per colpa loro ma perché ormai da tempo in Italia, nel dibattito tra maggioranza e minoranza, e di conseguenza nel discorso pubblico, la realtà, i dati, non riescono ad avere alcun peso, dal momento che su di essi sembra lecito dire tutto e il contrario di tutto. Nulla è vero e nulla è falso, contano solo le opinioni e i fatti meno di zero. Esemplare di questo disprezzo per la realtà continua a essere il dibattito sulla scuola. C' è un ministro, Mariastella Gelmini, che dice che la scuola italiana non funziona. Porta delle cifre: sul numero eccessivo d' insegnanti, sull' eccessiva percentuale assorbita dagli stipendi rispetto al bilancio complessivo, sui risultati modesti degli studenti, sulla discutibile organizzazione della scuola nel Mezzogiorno; evoca poi fenomeni sotto gli occhi di tutti: l' allentamento della disciplina, gli episodi di vero e proprio teppismo nelle aule scolastiche. E alla fine fa delle proposte. Discutibilissime naturalmente, ma la caratteristica singolare dell' Italia è che nessuno, e men che meno l' opposizione, men che meno il sindacato della scuola che pure si prepara a uno sciopero generale di protesta, sembra interessato a discutere di niente. Né dell' analisi né di possibili rimedi alternativi a quelli proposti. Cosa pensa ad esempio dei dati presentati dal ministro Gelmini il ministro ombra dell' istruzione del Pd, la senatrice Garavaglia? Sono veri? Sono falsi? E cosa indicano a suo giudizio? Che la scuola italiana funziona bene o che funziona male? E se è così, lei e il suo partito che cosa propongono? Non lo sappiamo, e bisogna ammettere che per delle forze politiche e sindacali che si richiamano con forza al riformismo si tratta di un atteggiamento non poco contraddittorio. Riformismo, infatti, dovrebbe significare prima di tutto la consapevolezza di che cosa va cambiato, e poi, di conseguenza, la capacità di indicare i cambiamenti del caso: le riforme appunto. Non significa dire solo no alle riforme altrui, e basta. Infatti, alla fine, dato il silenzio circa qualsiasi misura nel merito, l' unica proposta che rimane sul tappeto da parte del Partito democratico e del sindacato appare essere virtualmente solo quella di lasciare le cose come stanno. Naturalmente nessuno si prende la responsabilità di dirlo esplicitamente, ma ancor meno nessuno osa esprimere il minimo suggerimento concreto. In realtà, a proposito della scuola una proposta precisa è stata ed è avanzata di continuo dall' opposizione politico-sindacale. Alla scuola - ci viene detto - servono più soldi (nel discorso pubblico italiano, di qualsiasi cosa si tratti, servono sempre o «ben altro» o «più soldi»). Insomma, la colpa del malfunzionamento della scuola starebbe nelle poche risorse di cui essa dispone: ciò che almeno serve politicamente a rendere ancor più deplorevole la recente decisione del ministro del Tesoro di togliergliene delle altre. Peccato però che pure in questo caso, per dirla con le parole di uno studioso che non milita certo nel campo della destra, Carlo Trigilia, sul Sole-24 ore di martedì scorso, dall' opposizione «non è stata elaborata alcuna proposta di manovra finanziaria che spiegasse se e come era possibile coniugare rigore finanziario e scelte concrete diverse da quelle del governo». Dunque neppure sul come e dove trovare quei benedetti soldi l' opinione pubblica ha la minima indicazione su cui discutere, su cui fare confronti e alla fine farsi un' idea. Questo non tenere conto dei fatti, dei dati concreti, questo continuo scansare la realtà, finiscono così per diventare uno dei principali alimenti della diffusa ineducazione politica degli italiani. Nel caso della scuola contribuiscono a far credere a tanti, a tanti insegnanti, a tanti studenti, di vivere in un Paese governato da ministri sadici, nemici dell' istruzione, che chissà perché rifiutano di distribuire risorse che invece ci sono; contribuisce a far credere a tante scuole, a tante Università, che i problemi possono risolversi con la messa in scena spettrale - più o meno per il quarantesimo anno consecutivo! - dell' ennesimo corteo, dell' ennesima «okkupazione». Galli Della Loggia Ernesto ______________________________________________________ Il Giornale 16 ott. ’08 GLI ATENEI DEGLI SPRECHI IN ITALIA 37 CORSI CON UN SOLO STUDENTE - Siena pende il 104% dei finanziamenti statali in stipendi - L’università di Palermo ha più tecnici che professori 2.530 contro 2.103 - Nell’Anno accademico scorso 37 corsi avevano un solo studente iscrittto - Dal 2000 i corsi di laurea sono raddoppiati da 2.444 a 5.400 - Il 40% degli atenei impiega 9 euro su 10 per gli stipendi - 26.000 i nuovi docenti nominati dal 2000 al 2006 (300 Milioni) I rettori lamentano i tagli della riforma Gelmini ma non sono capaci di gestire i loro bilanci: 26 università hanno i conti in rosso *Per molti magnifici rettori la riforma del ministro Gelmini è arrivata con la stessa puntualità di un colore a cuori quando al tavolo verde si è rimasti con una sola fiche. Proprio quando il castello di carte - bilanci e rendiconti, tenuti insieme con la colla di artifici contabili - stava per crollare, ecco arrivare il magnifico nemico, un ministro antipatico su cui riversare le colpe del «futuro» dissesto economico Ma: perché se la riforma deve ancora entrare in vigore molti atenei hanno ora l'acqua alla gola? L'ultimo degli allarmi sulla crisi finanziaria del mondo accademica l'ha lanciato l'anno scorso la commissione tecnica per la Finanza pubblica nel Libro verde, della spesa pubblica: si illustrava che nel 2006 19 università (su 66 totali) riversavano oltre il 90% limite fissato per legge) dei finanziamenti statali in stipendi di docenti e dipendenti. Nel 2007 le cose sono peggiorate: gli atenei in rosso sono diventati 26, il 37% del totale. E oggi, aspettando i bilanci 2008, le prospettive non sono buone. Come fanno le università a finanziare la ricerca se spendono, come accade a Siena, il 104% dei fondi loro destinati esclusivamente in busta paga? «Semplicemente non la fanno» spiegava questa estate al Giornale Giulio Ballio, rettore del Politecnico di Milano, esempio virtuoso dove le buste paga sono contenute nel 66,2% dei fondi. Ma perché alcuni atenei hanno i pignoratori alle porte e altri hanno i bilanci in ordine? Visto che le regole sono le stesse per tuffi, «ie differenze - recitava l'inascoltato Libro verde – sono causate dai comportamenti particolari nell’ultimo decennio». Ovvero, da chi ha gestito troppo allegramente lì per- ' sonale, reiterando «processi accelerati di reclutamento e promozione», senza correlarli alla «qualità dell'ateneo». Tra il 2000 e il 2006 le università hanno bandito 13.232 posti per professori. Questi concorsi hanno creato 26.004 idonei. Magia? No> solo l’effetto del meccanismo di «idoneità multipla», introdotto una tantum nel '99 per superare un'emergenza ma poi tacitamente adottato come regola generale, col benestare di tutti; più professori equivalgono a più corsi, e più corsi più fondi e potere - (senza considerare la possibilità di piazzare mogli, figli, parenti e amici all'interno delle facoltà). Il professorificio è costato allo Stato qualcosa come 300 milioni di curo in 5 anni. Corollario dell'esplosione del numero dei professori, un parallelo aumento dei corsi di laurea (una volta fatti i docenti, bisogna trovargli un'occupazione). Le università, passate dalle 41 alla fme anni'90 alle 66 di oggi (e con le private e le telematiche si arriva a 94) hanno raddoppiato tra il 2000 e il 2006 i corsi di laurea, passati da 2.444 a 5.400. Con risultati, in alcuni casi, strepitosi: al primo gennaio del 2007 il corso di Scienze della mediazione linguistica a Forlì contava un sole iscritto; chissà con chi mediava. Forse con i soli in grado di capire il suo stato d'animo, gli altri 37 studenti titolari di facoltà ad personam sparsi per l'Italia: tra di loro anche uno studente di Scienze storiche a Bologna, uno di Ingegneria industriale a Rende (nel Cosentino] e uno di scienze e tecnologie farmaceutiche a Camerino (in provincia di Macerata). Ma il club dei corsi di laurea con più professori che studenti conta anche dieci corsi con due frequentatori, altri dieci con tre; quindici con quattro, otto con cinque e 23 con sei. Chi paga tutto questo? I vertici dell'università senese avevano le idee chiare: lo Stato. Peccato per loro che ci abbia pensato la, magistratura amministrativa, a far crollare la certezza che alla fine Roma paga sempre, bocciando il ricorso dell'ateneo, che aveva chiesto al ministero dell'Università 46 milioni di euro' per far fronte agli stipendi arretrati; buste paga che il rettorato elargisce in abbondanza,;visto che a Siena hanno addirittura più tecnici amministrativi che professori: 1,2 non docenti per ogni docente: In questo l'ateneo toscano è però in perfetta linea con le università siciliane tutte, dove le percentuali di personale che non sale in cattedra sono le più alte di tutta Italia: a Palermo ci sono 2.530 amministrativi a fronte di 2.103 professori, a Catania i tecnici superano i docenti di 232 unità, a Messina il numero di chi insegna si ferma a 1.403 e i tecnici arrivano invece a 1:742, a Enna il rapporto è di 77 a 29. Tanto per dire, a Milano il rapporto è fermo a 96 _______________________________________________________________ La Voce 15 ott. ’08 È L’ORA DI ALZARSI, LE RAGIONI E LE FORME DELLA MOBILITAZIONE monta a Cagliari e in tutti gli atenei, protesta durissima di Marco Pitzalis Sta montando ed estendendosi ogni giorno di più la protesta nell’Università di Cagliari e in tutta Italia. Cagliari, l’assemblea organizzata dal Coordinamento dei ricercatori il 24 settembre ha visto una partecipazione numerosa di docenti e ricercatori di tutte le facoltà. L’esito di tale assemblea è stato sorprendente per gli stessi organizzatori della protesta. Infatti, a grandissima maggioranza, un’aula magna ancora gremita ha votato per assumere le forme di lotta più decise. Questo giovedì sull’onda di quell’assemblea e su indicazione del consiglio di facoltà, si terrà un’assemblea dei docenti e degli studenti della facoltà di Scienze della Formazione. A livello di Ateneo e a livello nazionale la protesta lentamente monta. La protesta e le forme che sta prendendo pone dei problemi fondamentali che vanno affrontati con lucidità politica e serenità d’animo.Il Rettore rappresenta le nostre istanze? Innanzitutto, si pone il problema del ruolo di rappresentanza del Rettore. Questi aveva - già da luglio - ricevuto, dal Senato Accademico, il mandato di rappresentare le preoccupazioni degli universitari nelle sedi regionali e nazionali. In particolare, avrebbe dovuto coordinare l’azione con il Rettore dell’Università di Sassari, aprire un tavolo di confronto con la R.A.S. e portare le posizioni del Senato presso la CRUI. In realtà, il Rettore considera i discorsi prodotti dalle assemblee dei docenti e dei non docenti e in seno agli organismi universitari - quali il Senato e i Consigli delle Facoltà - come un puro flatus vocis, o per dirla in linguaggio mistrettiano “aria fritta”. È evidente che in una fase cruciale della storia dell’università, questo vuoto di rappresentanza politica richiede che sia riempito in maniera diretta attraverso una presa di parola collettiva e passando all’azione. Occorre far capire al Rettore che i suoi docenti e ricercatori non stanno facendo “aria fritta”. Costringere il Governo al dialogo In secondo luogo, si pone il problema del “dialogo” col governo. Con un governo che non dialoga affatto ma procede per colpi di mano. Per la prima volta nella storia della democrazia italiana non abbiamo parlamentari, poiché il sistema della “partitocrazia assoluta” - creato dalla legge elettorale Calderoli - priva i cittadini di una rappresentanza politica nazionale. I parlamentari sono ridotti a truppe cammellate al servizio delle segreterie di partito, a loro volta ridotte a puri comitati elettorali. Questi elementi mettono in luce l’esistenza di un vero e proprio vulnus costituzionale e della prassi democratica accresciuto dal ricorso continuo ai decreti legge che sanciscono definitivamente l’eclissi del sistema parlamentare. Questa stessa debolezza della rappresentanza parlamentare ci chiama all’azione e alla presa di parola diretta.Oggi, siamo chiamati a difendere l’università e la scuola pubblica (e iniziamo a mettere nell’agenda la Sanità) ma attraverso questa presa di parola siamo a chiamati a difendere il senso del patto repubblicano sancito dalla nostra Costituzione . E questo va fatto attraverso un sano scatto d’orgoglio. Le nostre responsabilità e quelle della politica In questi anni, sono stato tra quelli che ha criticato aspramente - nei corsi di laurea - il modo in cui i curricoli sono stati costruiti e gestiti. Ho denunciato le derive corporative che hanno prodotto i noti effetti perversi nell’applicazione delle riforme: in particolare la frammentazione degli insegnamenti. Però è giunto il momento di rivendicare i nostri meriti. E non sono pochi.Dobbiamo rivendicare il fatto che dal 1998 ad oggi, il corpo accademico, accusato, dagli anni ottanta del XIX secolo, di essere conservatore e resistente al cambiamento, ha sposato tutte le riforme in atto (nel bene e nel male) e le ha implementate. E tutto questo a “costo zero”. Ci siamo sobbarcati i cambiamenti di luna nella gestione dei ministeri e i diversi orientamenti delle maggioranze politiche al governo. Abbiamo per primi pagato il prezzo degli effetti perversi di quelle riforme. Effetti perversi in buona parte già contenuti nelle riforme stesse. La riforma del 3+2 dividendo in due i corsi di laurea ha strutturalmente e - ab origine - raddoppiato i corsi di laurea. In realtà, il cosiddetto raddoppio dei corsi di laurea non è stato affatto il risultato dell’azione irrazionale delle facoltà (e posso dimostrarlo con i dati). La responsabilità delle facoltà sta nella frammentazione dei curricoli. Ma qui la responsabilità politica è dell’amministrazione dello Stato che non ha posto un quadro di regole chiaro che incanalasse i processi. Le regole sono venute (i decreti Mussi), ma con dieci anni di ritardo. È colpa nostra? O di una classe politica inefficiente, ignorante, pressappochista? Questa precisazione è importante. Noi abbiamo subito le riforme. E con queste si è messo in moto un processo di delegittimazione culturale e morale dell’Università. Queste riforme hanno messo in crisi il ruolo dei docenti e dei ricercatori e la definizione dei suoi contenuti. Si è creato un clima di delegittimazione dell’istituzione universitaria che è puramente folle. Infatti, in ogni società moderna l’università svolge il ruolo di legittimazione delle elite nazionali. Si crea un pericoloso circolo vizioso che finisce per indebolire anche lo Stato. La gestione dei concorsi in ogni università avviene attraverso un processo di valutazione dei pari e di cooptazione nella comunità accademica. In Italia, ci sono moltissime storture alle quali la comunità scientifica ha difficoltà a porre rimedio. C’è da dire però che in nessun paese il processo di reclutamento e la stessa pura gestione del turn-over è strutturalmente così caratterizzata da modalità aleatorie non soltanto regolamentari ma anche sostanziali: riferite alla possibilità materiale di reclutare per lunghi periodi. Questo caos regolamentare e sostanziale dura dal 1968. Se assumiamo come principio primo la malvagità innata dell’Homo Academicus è chiaro che ciascuno di noi ha incorporato un’istintiva sfiducia nelle istituzioni e nella certezza del diritto e delle regole. Questo elemento crea ad ogni concorso un clima da “ultimo treno” che mina la saldezza morale del corpo accademico. Anche qui, i nostri difetti sono chiari, ma l’assenza di una classe politica seria ha fatto il resto. Riprendere la parola e passare all’azione Ora che abbiamo reso a Cesare tutte le sue responsabilità. E spero risollevato un po’ l’orgoglio accademico oramai incline all’autoflagellazione (paradossalmente soprattutto ad opera di alcuni miracolati del reclutamento accademico). Vorrei argomentare sulla necessità di passare ad una fase di azione diretta.Questa azione deve prendere due strade: la prima il coinvolgimento e la responsabilizzazione delle famiglie e degli studenti. Non solo attraverso l’impegno di ogni professore a spiegare la riforma ai ragazzi. Ma anche ponendo in maniera brutale il problema di chi deve sostenere i costi: il Consiglio di Amministrazione metta all’ordine del giorno la discussione su un eventuale aumento dei contributi studenteschi. Per quanto riguarda i professori ordinari, i professori associati e i professori ricercatori, questi devono mettere in atto gli impegni già presi nei consigli di facoltà di luglio: rinunciare agli incarichi non istituzionali (supplenze, affidamenti). La protesta deve essere massiccia e visibile. Ma occorre fare questo con intelligenza: non è necessario mettere in crisi i corsi di laurea. Né i ricercatori devono mettere a rischio il loro CV rinunciando a tutto. Occorre però dare un segnale politico. Forte. Molti corsi devono rimanere vacanti. Ma non dobbiamo bloccare tutto. Non per ora. Ma questo segnale va dato, al nostro Rettore, alle altre università, alle famiglie e agli studenti, e - last and least - al Governo. Se è vero che si tratta di una maratona, occorre incominciare a correre. È vero non si può partire per una maratona come se fossero i cento metri. Ma nemmeno si può pensare che fare una maratona sia correre solo gli ultimi cento metri. Occorre che il conflitto sia aperto subito. Che sia chiara la nostra determinazione. Perché questa dovrà manifestarsi con esplosiva durezza se il governo non apporterà i dovuti correttivi già nella prossima Legge finanziaria. Scuola e Università, rivolta generale Il Senato accademico di Cagliari: “Si rischia lo sfaldamento del sistema” di Daniela Paba Dalla scuola primaria all’Università, il governo Berlusconi, con i suoi ministri Gelmini, Brunetta e Tremonti, sta riuscendo nel difficile compito di compattare, in un coro unico di protesta e dissenso, il sistema dell’istruzione pubblica, dall’asilo all’alta formazione. Per la prima volta da molto anni, pezzi di società distinti come maestri e genitori, studenti, professori, presidi, ricercatori, docenti universitari, definitivi e precari, sentono di appartenere allo stesso ganglio vitale del paese, quello che costruisce il futuro delle giovani generazioni, condannato all’immediato declino se passeranno le riforme varate per decreto e trasformate in legge senza passare per il Parlamento. Le ultime notizie sulla mobilitazione dell’intera Università italiana, da Nord a Sud, dicono che “la protesta si sta allargando a macchia d’olio e presto si potrebbe arrivare alla paralisi degli atenei”. Infatti “A Firenze oltre all’occupazione c’è una mobilitazione permanente alla facoltà di Ingegneria e il blocco della didattica si estende anche alla facoltà di Scienze MFN. A Torino l’università minaccia di far saltare la cerimonia di apertura dell’anno accademico. A Parma la giornata di protesta con volantinaggio all’ingresso del Campus ha provocato il blocco circolazione sulla tangenziale. A Napoli Federico II sta per bloccare l’anno accademico e i ricercatori stanno prendendo in esame di richiedere il completo blocco della didattica a loro affidata. A Pisa l’università scende in piazza e la facoltà di Scienze MFN convoca un consiglio straordinario. A Palermo la facoltà di Ingegneria è in stato di agitazione con svolgimento di alcune lezioni nei luoghi pubblici della città e c’è l’ipotesi di blocco della didattica attraverso la rinuncia a incarichi di supplenza (per i ricercatori) e a carichi aggiuntivi (per i professori). A Roma La Sapienza, infine, docenti della facoltà di Scienze MFN e della facoltà di Psicologia1 stanno raccogliendo le firme per ritirare la disponibilità a ricoprire i corsi; quindi anche a Roma1 si prospetta un blocco della didattica a cui si aggiunge una massiccia mobilitazione studentesca con l’organizzazione di assemblee giornaliere in varie facoltà”. A Cagliari infine dopo l’annunciato blocco dei corsi di Scienze della formazione, la mobilitazione si è estesa agli studenti che affollano le assemblee, quelle convocate da CL come quelle della sinistra. Centinaia di ragazzi, dalle matricole ai laureandi, discutono per trovare punti di convergenza, strategie comuni, organizzare coordinamenti e manifestazioni pubbliche. Persino un organismo prudente come il Senato accademico ha firmato all’unanimità un documento durissimo e allarmato dove dichiara che “La recente normativa nazionale ha limitato la funzionalita’ di numerosi corsi dell’universita’ di Cagliari”. Nella lettera il Senato accademico esprime preoccupazione per “le ulteriori conseguenze che potrebbero prodursi in prospettiva in assenza di un deciso cambiamento di rotta”, sottolinea l’emergere di “un quadro allarmante che porterebbe, nel giro di pochi anni, ad un progressivo sfaldamento del sistema universitario nazionale basato sulle università pubbliche presenti in tutte le regioni del Paese” al quale “si sostituirebbe un sistema dualistico caratterizzato dall’emersione di pochi centri di eccellenza che potrebbero mantenere elevati livelli in campo didattico e scientifico solo grazie a finanziamenti pubblici straordinari o a finanziamenti privati”. Finanziamenti che sarebbero possibili in misura adeguata “soltanto là dove il tessuto economico e sociale sia in grado di supportare adeguatamente l’istituzione universitaria, condizionando, peraltro, l’autonomia costituzionalmente garantita”. Secondo il senato accademico "a livello didattico ciò produrrebbe la conseguenza inaccettabile che la formazione della classe dirigente del Paese non sarebbe più affidata a un sistema pubblico diffuso sul territorio ma soltanto ad alcuni centri di eccellenza la cui autonomia sarebbe progressivamente meno garantita. Le conseguenze irreversibili di questa scelta riguardano l’intera società italiana perciò l’assemblea dei presidi di tutte le facoltà cagliaritane, e affida al suo massimo rappresentante Pasquale Mistretta il compito di “diffondere il contenuto della delibera e di portarlo all’attenzione della Conferenza dei Rettori” per elaborare una strategia nazionale, in grado d’incidere, anche attraverso adeguate e rilevanti forma di protesta, sui processi politici e legislativi in atto, determinando un significativo mutamento di rotta, quantomeno in relazione a quei profili che appaiono oggi inaccettabili non soltanto per il futuro dell’Università, ma per il futuro del Paese che ha tra l’altro, sottoscritto impegni internazionali nei confronti dell’istruzione di alto livello e della ricerca”. E conclude auspicando un segnale forte da inviare anche al Governo e al Consiglio regionale perché, nel nome dello Statuto di autonomia, si attivino “al fine di evitare che il sistema Universitario sardo, e con esso l’intero sistema della ricerca scientifica e tecnologica della nostra isola, possa subire danni gravi che finirebbero per ripercuotersi, come appare evidente, sulle stesse prospettive di sviluppo economico e sociale della Sardegna”. _______________________________________________________________ Sardegna 14 ott. ’08 SARDEGNA: STUDENTI NON BRILLANTI E ISCRIZIONI IN CALO AFFONDANO L'ISTRUZIONE Presentati ieri i dati dell'Ufficio scolastico regionale Eleonora Bullegas re gione@epolis.sm Iscrizioni scolastiche sempre più in calo, studenti che non “brillano” in preparazione e numerosi istituti che, in confronto alla media nazionale, appaiono sottodimensiona ti. È un quadro sulla scuola sarda che scatena, inevitabilmente, interrogativi e preoccupazione quello che emerge dall'analisi “La scuola in Sardegna” condotta dall’Ufficio scolastico regionale, diretto da Armando Pietrella. Il documento è stato presentato ieri a Monserrato nell'istituto tecnico Besta. IN OTTO ANNI si è registrato un decremento di 35 mila 510iscrizioni. Nel 2000 gli studenti erano 255 mila 853, nell'attuale anno scolastico sono 220 mila 343. Fatti rapidamente due conti, risulta un taglio netto che sfiora il 13,87 per cento. In Sardegna le scuole sottodimensiona te sono 360. Le scuole primarie sono 187, quelle secondarie di primo grado 102 e quelle di secondo grado 71. A subire maggiormente un calo nelle iscrizioni sono prevalentemente gli istituti che si trovano nei centri più piccoli e nelle zone interne dell'i sola, ma anche i capoluoghi non sembrano essere immuni al problema. QUEL CHE PRE OC CU PA è però soprattutto lo scarso livello di preparazione scolastica di bambini e ragazzi. Se è vero che nel precedente anno scolastico (2007/2008) «circa l’11per cento degli iscritti nelle terze classi di scuola media - ha chiarito il direttore dell'ufficio scolastico regionale Pietrella - non ha conseguito il titolo finale» è altrettanto emblematico che «nello stesso anno i ragazzi che sono stati licenzia ti con il giudizio di sufficiente risultano essere il 41 per cento. Sono dati sintomatici di un particolare malessere - ha proseguito Pietrella - che certamente influisce sugli elevati tassi di insuccesso e di dispersione riscontr abili nella scuola secondaria di secondo grado». SE CO NDO IL DIRETTORE regionale una delle possibili soluzioni per limitare il problema potrebbe essere quella di aumentare gli istituti comprensivi. Sarebbe questo un modo per consentire agevolazioni sia sotto il profilo pedagogico che su quello educativo. In tanto ieri è stato anche evidenziato che nel Medio Campidano e in Oglias tra ci sono meno istituti scolastici rispetto alle altre province sarde. Per questa ragione chi desidera studiare spesso si rassegna a diventare pendolare. _______________________________________________________________ La Repubblica 14 ott. ’08 SE L'ITALIA ARRETRA TRA CONDOTTA E GREMBIULINI Un sistema di istruzione, un tempo tra i migliori d´Europa, declina tra velleità pedagogiche, tagli e riforme nostalgiche. Perché le scelte dell´attuale governo sono un ritorno al passato Le idee del ´68 contro l´autorità scolastica sono finite. I ministri si sono scelti un nemico che non c´è più L´educazione del prof di italiano che faceva imparare a memoria la Divina Commedia, tre terzine al giorno FRANCESCO MERLO Chiudete gli occhi e cercate di ricordare quell´idea di scuola che negava la scuola e che tutti insieme abbiamo faticato a seppellire. È contro quell´idea morta e pietrificata che i ministri Gelmini e Brunetta ferocemente combattono, e sono un caso di estremismo "di scuola" che "fa scuola": ultimi giapponesi di una lunga guerra ideologica consumata e finita. Sforzatevi di acchiappare le memorie che ancora fluttuano dense di slogan, di utopie, di scontri. I decreti delegati per esempio. Inventati per sottrarre il governo della scuola agli insegnanti repressivi che, ancora negli anni sessanta, punivano con la bacchetta sul palmo delle mani, essi realizzarono la più goffa delle semplicionerie pedagogiche, quella di voler trasformare genitori e studenti in direttori didattici. Provate a rievocare l´illusione che la scuola dovesse "liberare" gli istinti invece di educarli per esempio con l´imparare a memoria la Divina Commedia tre terzine al giorno domeniche comprese, 21 la settimana, 30 al mese al punto che al professore di Italiano bastava accennare «Ed el mi di» perché l´allievo, indicato a dito, continuasse: «Ed el mi disse: Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s´è dritto...». Oppure riportate in vita l´esame collettivo di Architettura che sostituiva l´"individuale" di Scienza delle costruzioni. Certo, c´erano professori arroganti e capricciosi, e ne ricordo uno di Filologia, con occhi sporgenti come uova sode, la cui collera bocciatrice, dinanzi allo studente che si impappinava, cominciava con una lieve agitazione dell´aria: «Uffa!». E poi: «Parli più svelto, per Dio. Uffa!». Ma forse fu più devastante la pretesa che la promozione, la laurea, la lode, e persino il Nobel sarebbe stato giusto darli a tutti o a nessuno. Quando ormai in tutta Europa sono state archiviate quelle corbellerie, a partire dalla convinzione che correggere gli errori di grammatica fosse di destra, ecco spuntare in Italia due estremisti di governo che di nuovo rimandano la scuola in piazza. E provocano spavaldamente il conflitto sociale e offendono i meridionali, i maestri, i professori tutti, rischiando seriamente di farci regredire e di far (ri)diventare la scuola proprio come la vogliono, con i vecchi manifesti, con l´utopia di formare senza deformare, di "scarcerare" la mente. Rischiamo insomma di rispondere con l´ideologia morta all´ideologia morta di questi "cattivi maestri". Eccoci infatti di nuovo con don Milani e la scuola di Barbiana, con i cortei e la rabbia che, negli studenti, è pronta a tutti gli azzardi e a tutte le avventure, perché scuola scholé significa tempo libero, "otium": il tempo appunto della libertà e dunque anche delle scorciatoie del pensiero di piazza, che è la scuola che insegna ai manifestanti a fare le cose contro le quali manifestano. Tutti sanno che basta una scintilla per incendiare la scuola. E infatti già si parla di "rivolta degli studenti". E gli eterni esperti di gioventù, grati alla Gelmini, lucidano ricordi senza denti e senza artigli. Vecchi instupiditi ripropongono l´ennesimo nuovo Sessanotto, rievocando superbe turbolenze e già celebrando, nelle prossime occupazioni dei nipoti, le proprie invincibili stanchezze. E´ anche questo il significato moderno della parola "scuola": l´eternità di una rivolta che riproduce sempre la stessa crisi, l´agonia di un´istituzione che gira in tondo e in perenne corteo, i furori impotenti dell´immensa fabbrica italiana delle lauree dequalificate. E che si tratti di reliquie di un mondo perduto lo si capisce dall´insensata accusa di guadagnare troppo che Brunetta ha sfrontatamente lanciato ai professori che meno guadagnano in Europa. Com´è possibile? Sono "proposte" queste? Attaccato come un ragno al filo della sua idea vuole entrare a tutti i costi in un paesaggio di cinquant´anni fa, quando pensavamo non schola sed vita di abbattere la memoria e le nozioni e magari perché avevamo fatto esperienza di vecchi insegnanti come il mio che sintetizzava così la letteratura italiana: «Duecento: religione; trecento: allegoria; quattrocento: imitazione; cinquecento: mondo fantastico; seicento: barocco; settecento, spaccalo in due: ragione e sentimento; ottocento: Manzoni». Eppure abbiamo tutti ritrovato, per dirne una, il diritto a punire lo scolaro, al punto che il laburista Tony Blair cadde forse nell´ecceso opposto estendendo le punizioni anche ai genitori che «fanno finta di non sapere e di non vedere». E nella Francia di dieci anni fa nacque il movimento in difesa del calcio nel sedere con il ministro socialista e migliaia di madri in piazza a Rouen per solidarizzare con la pedata che un prof esasperato aveva rifilato a uno studente. «Il castigo meritato è una fiaccola che illumina e un balsamo che risana» si insegnava una volta, prima dell´utopia di Bettelheim al quale noi genitori moderni dobbiamo tutte le teorie e le pratiche educative di tolleranza, sul modello (presunto) della famosa "scuola" di Chicago, spietatamente smontato nel 1998 da un feroce libro di testimonianze: «Avveniva nella scuola il contrario di quel che il maestro scriveva e predicava: violenze, abusi, plagi». Proprio come ai tempi del Manzoni che ricordava la sua scuola (cattolica) come «sozzo ovil». La verità è che mai la scuola è l´antimondo, ma è lo stesso mondo visto da un´altra prospettiva. E oggi che tutti lo abbiamo capito e dibattiamo, per esempio, sul grande recupero del Latino (Stati Uniti), o sull´obbligo di studiare Cinese (Inghilterra), o sui supercontratti agli insegnanti di eccellenza, ecco che una coppia di fanatici italiani si mette a raccontare il presente al passato creando un mondo strano di morti viventi, come quelle maschere di carnevale che diventano spaventose solo quando uomini veri le portano sul viso. E dunque attaccano la scuola come fosse la Comune di Parigi o la Moneda di Allende. E vedono in ogni insegnante un Gramsci straccione. Pensano che nelle aule si siano arroccati il potere sindacale e la sinistra. Hanno l´idea che il libro è di sinistra e che i processi formativi siano in mano alla sinistra. E sono, anche dentro il governo, i più estranei al mondo della scuola. Non hanno, per dire, la rispettosa familiarità che ha Bondi con la cultura che contesta, né la sensibilità o l´idea di Stato di Tremonti, e neppure il decoro formale del pur durissimo Sacconi, o quel passato di complicità con i libri del faziosissimo Cicchitto. Distanti e diversi, sono il gruppo di fuoco di quel vecchio rancore ideologico che si batte contro il morto e intanto uccide il vivo, vale a dire l´idea stessa di scuola che non è solo il bene primario di un nazione, ma è anche il tempio attorno al quale si organizza qualsiasi comunità: senza le madrasa, per esempio, l´Islam non esisterebbe; e anche Cristo faceva scuola ai suoi discepoli. La scuola è l´uscita dallo stato di egoismo sfrenato, è l´aprirsi al mondo per stare al mondo. Ma è anche il luogo dei primi fantasmi e delle prime violenze tra compagni che oggi hanno la forma spettacolare (tatuata nel corpo) del bullismo e ieri avevano la forma soffocata (incisa nell´anima) dei turbamenti del giovane Törless. Nei paesi primitivi, senza scuola non riuscivi né a cacciare né a difenderti dagli animali. In quelli moderni ci sono scuole di seduzione e di ballo, di cucina e di polizia, di scrittura e di portamento, di sesso e di castità... La scuola è "studium" che vuol dire amore, passione e dunque vita, ma ci sono anche scuole di morte contro le quali la scuola statale è l´ultimo presidio nelle zone di mafia. La scuola è l´anima di una comunità, il luogo di tutti gli interrogativi. Ma è anche quella mobilità sociale che tiene in piedi la democrazia, la possibilità cioè di dare scacco ad un destino e cambiare classe: meglio del gioco del lotto. E infatti sopportiamo tutti i sacrifici economici e siamo devoti della scuola «ad ogni costo»: "primum docere, deinde lucrari" è il pensiero di tutti. Tranne della Gelmini che, se si esclude il voto in condotta e il grembiulino, soltanto taglia, contabilizza, chiude e, insieme con l´agitatissimo Brunetta, umilia e caccia via. E mai nella scuola investe o reinveste: "primum lucrari". Anche questa è scuola: la scuola che insegna a fare a meno della scuola. _______________________________________________________________ La Repubblica 14 ott. ’08 ALLA SCUOLA DI PROTAGORA La lezione dell'antichità Protagora chiedeva a ogni studente diecimila dracme per un corso completo. Naturalmente si poteva trovare anche a meno. Pochi anni dopo, Isocrate chiederà solo mille dracme Com'era l'educazione ad Atene e Roma MAURIZIO BETTINI Siamo nel V secolo a. C., sulla scena ateniese sono comparsi da poco i cosiddetti sofisti. Si chiamano Protagora, Gorgia, Antifonte, Prodico, Ippia. Chi sono? Nientemeno che i primi professori dell´insegnamento superiore che la storia della nostra cultura possa registrare. I sofisti riuniscono intorno a sé i ragazzi che accorrono alle loro lezioni, o che vengono affidati loro dalle famiglie. Il corso dura dai tre ai quattro anni, e i professori/sofisti si fanno pagare bene. Protagora, abile "imprenditore" della cultura, chiedeva a ogni studente diecimila dracme per un corso completo. Considerando che a quel tempo un operaio qualificato guadagnava ad Atene una dracma al giorno, se ne deduce che, alla scuola di Protagora, il costo di un corso equivaleva a circa ventisette anni del lavoro di un operaio. Naturalmente si poteva trovare anche a meno. I sofisti offrivano anche, a quel che pare, "segmenti formativi" più brevi e a minor prezzo. Lezioni specifiche, in cui il professore si impegnava a trattare a fondo un soggetto per quaranta dracme a persona. Che cosa insegnavano i sofisti? Il loro progetto educativo era il seguente: formare cittadini capaci di amministrare bene gli affari propri e quelli dello Stato. Il loro insegnamento, dunque ha finalità essenzialmente pratiche. Non si tratta di formare degli uomini buoni e saggi, ovvero dei filosofi che pratichino la virtù, ma delle persone "efficaci", anche e soprattutto sul piano della parola e del discorso pubblico. Quello che importa non è trovare la verità, ma avere la capacità di persuadere un uditorio. I sofisti insegnano l´arte della persuasione, fondamentale nella politica e negli affari. Oggi, probabilmente, dedicherebbero la loro attenzione anche alla pubblicità. La cosa più interessante, comunque, è vedere il modo in cui questi sofisti insegnavano. Per attrarre studenti il sofista si dà molto tono. Pretende di essere onnisciente, infallibile. Platone racconta che, quando fa lezione, il sofista siede addirittura su un seggio più elevato di quelli su cui seggono i suoi uditori (ah, il fascino eterno della cattedra!), e può perfino indossare il grande mantello di porpora tipico del rapsodo: ossia il poeta tradizionale, che canta le gesta degli eroi sull´onda dei versi di Omero. Anche noi abbiamo conosciuto docenti la cui strategia didattica consisteva, principalmente, nel darsi importanza. Dalla parte degli studenti, poteva invece manifestarsi il fenomeno del rapimento giovanile per l´intellettuale affascinate, che crea attorno a sé un circolo di adepti o di prediletti. Di questo entusiasmo giovanile ci resta un quadro indimenticabile datoci da Platone nella scena iniziale del Protagora. Il giovane Ipparco è pieno di emozione per l´arrivo in città del celebre Protagora, un sofista straniero da cui ci si attendono lezioni straordinarie; mentre Socrate si fa un dovere di smontare l´ingenuo entusiasmo del ragazzo con una serie di argomentazioni razionali. Nella sua strategia didattica, come ben sappiamo, Socrate non ha mai fatto ricorso all´arte del darsi importanza. Forse per questo continua a essere considerato il modello ideale del maestro. Spostiamoci adesso a Roma. Svetonio, il biografo degli imperatori, ci racconta quanto segue: «Vespasiano fu il primo a stanziare una somma annua di centomila sesterzi, prelevata dalle casse dello Stato, da destinare all´insegnamento della retorica greca e latina». Anche se le cattedre istituite furono solo due, e riguardarono esclusivamente la città di Roma, si tratta di una novità importante. Con questa decisione di Vespasiano, nel I secolo d. C., lo Stato crea infatti delle cattedre di insegnamento a proprie spese. In altre parole, nasce l´istruzione superiore a carattere pubblico. A coprire il primo insegnamento di retorica latina fu il grande Quintiliano, un professore dal curriculum impeccabile. Risultato del suo insegnamento fu infatti quella Istituzione dell´oratore che ha costituito per secoli uno dei pilastri dell´educazione occidentale. Ci si può stupire del fatto che l´investimento statale di Vespasiano riguardasse solo la retorica, e non altre discipline a carattere più tecnico o scientifico. Il fatto è che per l´imperatore, così come per tutta la civiltà antica, istruzione superiore era sinonimo di formazione alla vita pubblica, un campo in cui la retorica esercitava un predominio indiscusso. La cosa interessante, comunque, è che Svetonio ci racconta anche un aneddoto che costituisce quasi una giustificazione emblematica del comportamento dell´imperatore. Pare dunque che un ingegnere (mechanicus) avesse proposto a Vespasiano il progetto di una macchina, tramite la quale si sarebbero potute trasportare enormi colonne con poca spesa e con il minimo sforzo. L´imperatore lo ricompensò, ma non volle realizzare il progetto: «Lasciami dar da mangiare al popolino!» fu la sua spiegazione. Che bisogno ci sarebbe stato di formare dei tecnici, sia pur capaci di costruire macchine meravigliose, quando c´era "il popolino" a disposizione? _______________________________________________________________ La Repubblica 14 ott. ’08 QUEI DOCENTI NELLE TRINCEE: I VALORI DELLA CONOSCENZA Gli insegnanti arrancano per ottenere un minimo di credibilità, schiacciati tra l´indigenza e il disprezzo, davanti a studenti che pensano ad altro Fenomenologia del corpo insegnante MARCO LODOLI Dopo anni e anni di riforme scolastiche fondate su incerti presupposti pedagogici, dopo Berlinguer, la Moratti, Fioroni e il progressivo smarrimento di insegnanti e allievi di fronte ai nuovi programmi e ai nuovi criteri di giudizio, alle Siss e ai moduli, alla metamorfosi costante degli esami di Stato e alla sistemazione dei precari, ecco che in un attimo tutto si semplifica: finalmente si è trovato il principio regolatore del marasma, era l´uovo di Colombo, ma ci voleva l´accoppiata vincente Tremonti-Gelmini per pervenire a tanta brutale chiarezza. La scuola sarà riorganizzata secondo i pochi soldi che restano. Certo, non è un discorso che si può fare apertamente, va mimetizzato dietro le frasche dei grembiulini e del voto in condotta, dietro il velo della nostalgia dei bei tempi che furono, ma la sostanza ormai è evidente. Il piatto piange, dunque si mandano a casa tante maestre, si riducono gli anni scolastici, si congelano i precari in un freezer mortale. Non basta ancora, dalla torre di comando, coi conti della spesa in mano, scende il ministro Brunetta per bacchettare gli insegnanti: per quello che fanno guadagnano benone, in fondo il corpo docente è fin troppo pingue e sotto sotto se la intende mollemente con le armate invisibili dei fannulloni. E ancora: si auspica lo sbarco nella scuola delle fondazioni, addirittura degli sponsor, denaro privato, fresco, produttivo, denaro che produrrà altro denaro, se tutto va bene, e viene quasi da immaginare i nostri bambini con il loro bravo grembiulino azzurro e il nome dell´azienda finanziatrice sulla schiena, come accade ai giocatori di calcio. Insomma, ci spiegano Tremonti e la Gelmini, lasciamo stare Rousseau, Steiner e la Montessori, non perdiamoci nella nebbia delle teorie, cancelliamo ogni patetico e rovinoso sessantottismo e andiamo al cuore del problema: la scuola è una ditta sull´orlo del collasso, e allora come nella più feroce tradizione neoliberista, subito forbici e tagli, poi si vedrà. Del resto già da qualche anno, con il varo solenne dell´autonomia scolastica, è difficile per un insegnante parlare dei problemi didattici con il suo dirigente scolastico. «Il preside è corso in banca a firmare carte», «Il preside sta rivedendo le entrate e le spese con la segretaria», «Il preside non sa dove sbattere la testa per pagare i supplenti». Il mondo dell´economia, reale o immaginaria, preme sempre più sulla scuola: gli stessi allievi da molto tempo sentono che in fondo Aristotele o la trigonometria non serviranno un granché, che la vita di oggi ruota attorno ad altri assi cartesiani, soldi e divertimento, soldi e successo, come un luna park eccitante al quale le biblioteche non possono insegnare un bel nulla. Il paradosso è proprio questo: il nuovo governo berlusconiano dichiara di voler restituire serietà e autorevolezza alla scuola, contro il lassismo di insegnanti lazzaroni, quando chiunque lavori in un´aula sa che lo sfacelo è figlio proprio della trasformazione antropologica elaborata dalle reti Mediaset, negli studi pubblicitari, nei centri commerciali, in una sottocultura biecamente edonista che ha illuso i più deboli e i più giovani privandoli persino di un senso di dignità e di una colonna vertebrale. Così gli insegnanti arrancano per ottenere un minimo di credibilità, schiacciati tra l´indigenza e il disprezzo, davanti a studenti che pensano ad altro, che neanche fingono più di credere ai valori della conoscenza e dell´apprendimento. Un esempio clamoroso è il film La classe, Palma d´oro a Cannes, incensato da tutta la critica. La figura dell´insegnante appare nella sua versione più desolata, il povero Bégaudeau, autore del libro e protagonista principale del film, è davvero uno sciagurato, quasi un inetto, che non ne fa una giusta neanche per sbaglio. Tutto l´anno scolastico perduto dietro una sola idea, far scrivere a ogni studente il suo autoritratto. Mai osa proporre ai ragazzi un brano di Shakespeare, una poesia di Baudelaire, qualcosa di alto e nobile che possa modificare le loro sensibilità: non crede più alla potenza dell´arte, del pensiero, della bellezza, si accontenta di aderire timorosamente alla vita degli studenti, di certificare l´esistente, lo status quo, la vita così com´è, ed è una brutta vita. Finirà a insultare due allieve e a farsi minacciare dal bullo della classe, poi espulso a forza dalla scuola. Un insuccesso totale, una catastrofe. La scuola rischia sempre più di diventare un mondo in cui la cultura conta poco o niente, dove imperano il presente, il disagio, i soldi sognati o tagliati. ______________________________________________________ Libero 18 ott. ’08 LANZETTA: L'UNIVERSITÀ L'UNICO MALATO CHE HO MOLLATO Il chirurgo del primo trapianto di mani al mondo: «Nepotismi, vecchi baroni spompati, carriere finte. Alla fine ha lasciato la cattedra per insegnare in Australia» ANDREASCAGLtA Allora, professor Lanzetta. Lei è chirurgo di fama mondiale, ed è stata anche professore universitario. Come giudicale proteste dei suoi colleghi e degli studenti? «Io sono completamente dalla parte del ministro Gelmini, e prima di lei ero con la Moratti. Ogni volta che un governo, legittimamente, vuole interferire con l'attuale sistema universitario, che si tratti di varare nuove norme per i concorsi, adeguarsi a quanto si fa in Europa o, come o tagliare i finanziamenti perché non si può sperare che lo Stato intervenga sempre, è la stessa storia manifestazioni, scioperi, insulti. Il sistema non accetta modifiche. È un atteggiamento di chiusura incomprensibile, di difesa incondizionata di uno status quo non più accettabile. La Gelmini è stata fin troppo morbida, avrebbe dovuto tagliare completamente i fondi agli atenei inutili, quelli di cui nessuno si accorgerebbe se non ci fossero. A vantaggio di quelle che cercano di dare un insegnamento a livello degli standard europei». Addirittura? «Guardo con sconcerto e tristezza alle occupazioni dei rettorati e alle agitazioni dei docenti. Io lavoro molto all'estero, e le assicuro che diamo un'immagine pessima del nostro sistema universitario. Ridicola e antistorica. Perché sono altre le cose di cui dovremmo preoccuparci». Vale a dire? «Ogni anno esce la classifica stilata dal Times Higher Education, che mette in fila le migliori università mondiali. La stessa cosa fa anche un'università cinese, la Shanghai Jiao Tong University, usando criteri diversi. Sono le due valutazioni più attendibili. Ebbene: secondo il THE la prima università italiana .è quella di Bologna, che si piazza al 192° posto. La Sapienza è al 205°; il Politecnico dì Milano al 291% l'Università di Padova al 296°. Poi basta, sono le uniche quattro nelle prime trecento. Tanto per restare in Europa, prima di noi ci sono nove università tedesche, sei svizzere, ventotto inglesi, quattro francesi, dieci olandesi, e poi gli spagnoli, i finlandesi, i belgi, i russi, gli irlandesi, austriaci, svedesi. Dopo di noi solo greci e portoghesi. Capito quali sono i veri problemi?». Dicono che l'università è in queste condizioni perché le risorse sono poche. E la Gelmini, tagliando i fondi, aggraverebbe la situazione. «È una scusa bella e buona, non sta più in piedi. Cosa vuol dire, che i soldi sono troppo pochi? È vero che i finanziamenti sono calati, ma è il modo di ragionare di questi habitué della protesta che è sbagliato: Per esempio: ma mi spiegate perché ai docenti italiani non viene imposto di reperire personalmente i finanziamenti per le proprie ricerche? E perché un professore universitario deve rimanere in carica a vita? Il suo lavoro andrebbe valutato e giudicato: se dopo tre - cinque anni non ha pubblicato su riviste autorevoli, non ha attirato studenti, non ha reperito fondi, magari insegna su testi superati, insomma se non ha dimostrato di meritare il posto, via, grazie e arrivederci. E se ne assume un altro più bravo». Non è una soluziane un po'drastica? «Così si fa all'estero. In Italia non si fa altro che lodare la meritocrazia, ma solo quando riguarda "gli altri". E poi, cominciamo a fare spazio ai giovani ricercatori di valore, lasciando a casa quei cattedratici oltre i 65 anni che non hanno più nulla da dare, che danno per scontato di essere al vertice della carriera e niente e nessuno li potrà mai mettere in discussione, e che a furia di trucchetti restano in cattedra fino a 72-73 anni, certe volte fino a 75. Vedrete che i giovani la stampa ad uso esclusivo del destinatario, non smetteranno di andare all'estero». Anche lei è stato professore. «Io? Io sono un caso emblematico. Credo di essere uno dei pochi che ha dato le dimissioni da professore associato, per protesta contro un sistema malato nel quale non potevo più riconoscermi. Concorsi truccati, carriere basate sul nulla, un gioco al ribasso che mortifica sempre più le potenzialità di tanti ricercatori che alla fine prendono altre strade. Insegnavo all'Università milanese della Bicocca, ho preferito andarmene. Ora sono Adjunct Professor all'università australiana di Canberra». E là la situazione è diversa? «È in tutto il mondo che è diversa. Ma le sembra logico che, a livello universitario, in quasi tutti i Paesi europei si facciano lezioni ed esami in inglese, mentre in Italia no? Per quello che ne so, soltanto la Bocconi ha un corso di economia in inglese. Mi spiega come fa un laureando in medicina a confrontarsi all'estero, se parla solo italiano, se non gli insegniamo a preparare una relazione o un articolo scientifico in inglese? Con chi si potrà confrontare una volta inserito nel mondo accademico internazionale? Siamo indietro, questa è la verità, e facciamo finta di niente. Però intanto buttiamo sempre la croce addosso al ministro di turno». Ma non salva proprio nulla della protesta di questi giorni? «Mah, vedo rivendicare uno stato di cose che non esiste al mondo. Lo Stato non dà soldi a sufficienza? Sono i professori e i rettori che devono cercarsi i finanziamenti all'estero, facendo leva sulle proprie eccellenze. Come succede negli Stati Uniti e in Inghilterra, che non per niente come sistemi universitari sono sempre all'avanguardia Altro che lamentarsi perché il ministro prospetta la possibilità di trasformare le università in fondazioni di diritto privato». Bisogna cambiare,dunque. «Certo che bisogna cambiare. Ma subito, però. Perché stiamo perdendo di vista laverà tragedia, e cioè che in quanto a credibilità del sistema, siamo precipitati agli ultimi posti nel mondo. Le nostre università non sono più riconosciute a livello internazionale. E questi occupano...». ______________________________________________________ Italia Oggi 18 ott. ’08 UNIVERSITÀ OCCUPATE UN VERO BLUFF SONO TUTTI IL1 AULA PER LE LEZIONI L'iniziativa è partita da , una rete di studenti universitari. Che, nei giorni della protesta anti-Gelmini, si sono resi conto di un fatto strano. I loro atenei, per esempio quelli di Milano, Torino, Roma e Bologna, dovevano risultare occupati, così come riportava la maggior parte della stampa, così come commentavano i politici e sbandieravano certi sindacati. Eppure ...eppure loro, a lezione, c'erano andati regolarmente. Non solo. Le aule delle lezioni erano piene, più o meno come sempre. Così come altri colleghi studenti si erano recati regolarmente nelle sale di lettura o nelle biblioteche per lo studio. A Milano, per esempio, il portone rimane chiuso fino alle 9.15. Alle 8.30 il corteo no Gelmini day parte davanti alla sede di Festa del perdono. Ma subito dopo centinaia di studenti, che non hanno aderito alla manifestazione di protesta e che sono li davanti dalle 8.30, entrano per seguire regolarmente i corsi. II personale in sciopero, qualche aula chiusa. Ma i professori che trovano le aule aperte entrano e tengono lezione. Si svolgono anche regolari sessioni di laurea. La didattica non si ferma e tantomeno lo vogliono gli studenti. Certo, c'erano molti presidi, c'era qualche manifestazione, c'erano slogan affissi nei corridoi e fuori le aule delle università per dire no ai tagli agli organici della scuola, al blocco delle assunzioni dei ricercatori precari. E poi contro il maestro unico, le classi differenziate per gli studenti stranieri nelle elementari che vorrebbe la Lega Nord... La protesta, trasversale a scuola e università ma anche alle generazioni (insieme, per la prima volta, professori, ricercatori, docenti e tecnici precari, studenti e genitori), c'è stata, ma non con la virulenza del passato. E così alcuni studenti, sparsi sul territorio, hanno deciso di prendere il telefonino o la macchina fotografica e di immortalare le giornate di ordinaria attività nelle università. Le foto, su iniziativa di alcuni di questi studenti sono pervenute nella redazione d ItaliaOggi, con l’invito a guardar( alla realtà anche nel giorno de «No Gelmini day», senza occhiali ideologici. Foto che dimostrano la presenza di un mondo accademico che continua a funzionare Quale miglior viatico per il ministro dell'istruzione e università, Maria Stella Gelmini, ne', percorso riformatore che ha da poco imboccato. E di cui metterà stabilmente un altro -paletto ne: prossimi giorni, quando il senato darà il via libera definitivo al di. segno di legge di conversione de: dl su scuola e università, sempre con l’ennesimo voto di fiducia. È il provvedimento, tra l'altro, su ritorno al maestro unico, contro il quale si sono concentrate le mobilitazioni della scuola d: questi giorni. II centrosinistra ha presentato in commissione istruzione ben 250 emendamenti. La maggioranza, Pdl e Lega, neanche uno. Il partito di Umberto Bossi che a Montecitorio ha scucito una mozione sulle classi ponte per gli immigrati, a Palazzo Ma dama dovrebbe accontentarsi d un ordine del giorno sul ritorno a voti a scuola al posto dei giudizi l'Invalsi predisporrà una grigli, di valutazione in base alla quale l’insegnante darà il voto. Ma non è escluso che il governo decida comunque di ricorrere al voto d fiducia, come già fatto alla camera. «Avendola già posto nell'altro ramo del parlamento», commenti il senatore della Lega, Mario Pittoni, «è probabile che la fiducia s ripeta anche al senato». Non tanto per blindare il provvedimento contro problemi interni alla maggioranza, ma per stringere tempi e consentire l’approvazione definitiva nel giro di una decina di giorni. Che l'ipotesi della fiducia circoli negli ambienti parlamentari è quanto rileva anche i senatore del Pd, Antonio Rusconi. Che però ne fornisce una diversa motivazione: «Ho l'impressione che il governo metterà la fiducia anche per evitare possibili dissensi all'interno della maggioranza su alcuni punti, come quello che riguarda i tagli agli insegnanti di inglese». II dl scade il 31 ottobre prossimo. E per il giorno prima, il30 di ottobre, Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda hanno indetto lo sciopero unitario della scuola. Se il provvedimento fosse convertito in legge nei giorni precedenti al 30, la protesta avverrebbe a cose già fatte. E senza nessun potere, dunque, di modificare i contenuti della riforma. Intanto la Gelmini ha messo giù una documentazione in cui spiega le ragioni degli interventi. E le bugie della protesta. La documentazione è stata illustrata proprio ai componenti di Pdl e Lega in commissione cultura di Palazzo Madama. «Educazione, merito, efficienza. La scuola cambia», è il titolo del fascicoletto. La Gelmini, nell'illustrazione, ha utilizzato una serie di slide. La prima, di attacco, recitava: «Da 40 anni la sinistra rovina la scuola», cavalcando un cavallo di battaglia sempre vincente del premier, Silvio Berlsuconi. La causa, spiega Gelmini, «è nella cultura del `68 che ha eliminato il merito e livellato tutto verso il basso. La scuola deve educare, così come gli ospedali devono curare». IL97% delle risorse, ha detto la Gelmini a beneficio dei senatori, servono a pagare gli stipendi e così «rimangono solo le briciole per merito, ricerca e formazione». L'Italia occupa il penultimo posto per numero di laureati, preceduta da Cile e Messico, ripeteva il ministro. Si spende di più con risultati inferiori agli altri paesi. Il capitolo dell'educazione, previsto dal dl su cui il senato è chiamato a esprimersi, comprende «Cittadinanza e Costituzione»: per integrare gli studenti stranieri, per l’educazione ambientale e stradale. E il ministro rinnova una garanzia: « tempo pieno alle elementari sarà aumentato del 50%» ridistribuendo i maestri non più impegnavi nella compresenza in classe. E voto in condotta «per combatter il fenomeno del bullismo. La terza slide del ministro lancia la volata al maestro unico: «Solo in Itali ci sono più maestri per alunno. Tutti i paesi d'Europa hanno il maestro unico». Peccato, ha commentato Francesco Scrima, segretario della Cisl ' . scuola, «che la nostra scuola primaria sia considerata però la migliore, proprio per come è strutturata». Chissa' se grazie ai tre insegnanti oppure per altre cause. La questione su cui ci si divi de e ci si dividera' ancora. _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 13 ott. ’08 SCIENZIATI IN OSTAGGIO DEI BUROCRATI La guerra dei Nobel e l'Università italiana di Gaetano Di Chiara Il premio Nobel è sicuramente il massimo riconoscimento pubblico per uno scienziato. È attribuito da una commissione di alto livello come l'Accademia delle Scienze svedese e l'affidabilità dei suoi giudizi è collaudata da una tradizione centenaria. Tuttavia quest'anno l'assegnazione dei Nobel per la Medicina e per la Fisica ha sollevato un vespaio di polemiche. Si contesta il fatto che il Nobel per la Medicina sia stato assegnato a Montagnier, che isolò il virus dell'Aids, ma non a Robert Gallo, che coltivò il virus e ne dimostrò la relazione con la malattia. Assieme a Montagnier l'Accademia svedese ha invece premiato la sua più stretta collaboratrice. Con questa scelta la commissione del Nobel si è attribuita un ruolo di giudice morale, punendo Gallo, colpevole di aver tentato di attribuirsi il merito della scoperta del virus isolato da Montagnier. Due scienziati, Gallo e Montaignier, espressione di due modi diversi di intendere la ricerca, competitivo fino alla pirateria scientifica l'americano, fiducioso nel potere di sublimazione della scienza l'europeo. L'attribuzione del Nobel per la Fisica ci tocca più da vicino. Infatti sono stati premiati due scienziati giapponesi ma non Nicola Cabibbo, fisico della Sapienza, cui si deve l'idea originaria della matrice di calcolo per la quale sono stati premiati i giapponesi. L'Accademia svedese non è nuova a queste scelte. Nel 2000 premiò Arvid Calsson per i suoi studi sulla dopamina ma lasciò fuori Ole Hornykiewicz, che dimostrò il ruolo della dopamina nel morbo di Parkinson e sperimentò per primo l' l-Dopa come terapia. Superata la delusione, rimane l'orgoglio di un primato nella fisica che l'Italia mantiene dai tempi di Galileo Galilei e che, attraverso Fermi e la scuola romana di via Panisperna, porta fino ai Rubbia, Cabibbo, Parisi e i fisici che coordinano gli esperimenti con il mega-accelleratore del Cern di Ginevra. Se scendiamo da queste altezze e guardiamo alla situazione della ricerca che si pratica nei laboratori delle nostre Università e dei centri di ricerca pubblici la situazione è ben diversa e in molti casi tragica. La colpa secondo alcuni è dei tagli di bilancio. Secondo noi è molto peggio, dato che i soldi ci sono ma vengono attribuiti secondo criteri clientelari oppure si perdono a causa delle cosidette lungaggini burocratiche dovute anche all'inefficienza degli uffici preposti a istruire le pratiche: difficoltà a preparare un bando, redigere un rendiconto, scrivere una relazione. Così succede che i fondi destinati alla ricerca non vengono spesi e progetti già approvati per centinaia di milioni di euro diventano obsoleti. Per il finanziamento statale della ricerca vale dunque quanto sostenuto da Roberto Perotti nel libro L'università truccata , e cioè che il problema non è la mancanza di fondi ma l'incapacità a spendere secondo criteri di efficienza e meritocrazia. Purtroppo, nell'ultimo bando nazionale (PRIN) i progetti di ricerca da finanziare sono stati selezionati sulla base della frequentazione dei corridoi ministeriali da parte dei coordinatori dei progetti, piuttosto che del merito. Questo è ciò che accade quando la gestione della selezione dei progetti di ricerca è delegata ai funzionari del Ministero. Si spera che il ministro riaquisti il controllo di questi meccanismi, togliendolo ai burocrati e affidandolo ai ricercatori. _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 13 ott. ’08 I TAGLI SELVAGGI AFFOSSERANNO L’UNIVERSITÀ Si è discusso poco nei media italiani di alcune recenti misure inserite nel Dl 112 del Governo che, a detta di molti, può infliggere un colpo mortale all’università pubblica italiana. Le riforme sono necessarie. Tuttavia, il DL 112 prevede unicamente un pesante taglio di fondi pubblici al settore e nessuna riforma. Alcuni numeri aiutano a capire perché l’università italiana in questo momento non abbia proprio bisogno di un taglio di risorse e di personale come quello prospettato. Un confronto con gli altri paesi industrializzati evidenzia come l’Italia sia il paese che dedica meno risorse pubbliche alla sua Università. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti spendono circa il doppio, mentre la Danimarca più di tre volte tanto. Se poi guardiamo alla percentuale di docenti universitari rispetto all’utenza potenziale, composta dalla popolazione in età universitaria si scopre che in Italia il corpo docente è fortemente inadeguato rispetto alle esigenze. E pochi sono i ricercatori: uno ogni 1000 abitanti, contro i circa 3 di Francia e Gran Bretagna ed i quasi otto della Finlandia (per i dati si veda www.insardegna.eu). Sappiamo tutti quanto il settore pubblico soffra, in quasi tutti i sui comparti, di un eccesso di personale rispetto agli altri paesi. Appare dunque ingiustificata la scelta di tagliare risorse pubbliche proprio ad uno dei rari comparti palesemente sottodimensionati e sotto-finanziati. Secondo alcuni vi sarebbe in realtà un elemento di riforma positiva del settore nella parte che incentiva la trasformazione delle Università pubbliche in Fondazioni con la presenza di capitali pubblico-privati. Buona idea la sostituzione dei soldi pubblici con quelli privati? Sicuramente ben vengano le facilitazioni all’entrata di capitali privati. Non la sostituzione dei fondi pubblici con i privati. Il pericolo per alcune Università, e per quelle sarde in particolare, è che la norma introduca una sorta di meccanismo di federalismo non solidale. Dati i divari di ricchezza e sviluppo regionali italiani, con ogni probabilità assisteremo ad una concentrazione crescente di fondi in mano alle Università presenti nelle regioni più ricche. Mancano invece del tutto gli incentivi a cambiare ed aumentare la produttività. Anzi. La proposta prevede un taglio generalizzato sia degli stipendi che dei fondi per la ricerca. I fannulloni (e chi nega che esistano anche qui?) non si accorgeranno neppure di questi provvedimenti: non facendo ricerca non percepiranno la riduzione di risorse ad essa dedicati e, potendosi dedicare ad attività extra universitarie più degli altri, integreranno facilmente il calo di stipendio. Tutto ciò invece umilia i ricercatori seri e danneggia le prospettive nel settore dei giovani ricercatori, incentivando ancor di più il fenomeno della “fuga dei cervelli” dall’Italia. * ricercatrice università di Cagliari _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 ott. ’08 L'UNIVERSITÀ NON PUÒ PIÙ SPRECARE SOLDI Tra tagli e riforme di Raimondo Cubeddu Da decenni, ogni autunno, il mondo della scuola entra in agitazione. Il fenomeno talora si associa alla presentazione di un progetto di riforma, talaltra è spontaneo. Il fatto è che l'educazione riveste un'importanza vitale in ogni sistema democratico, e perché la ricerca si associa al progresso economico. Questo nodo in Italia non è stato ancora risolto. Ogni progetto di riforma provoca agitazioni che lo snaturano e che talora inducono a ritirarlo. Nel frattempo varie agenzie internazionali hanno messo in luce come lo stato della nostra scuola e della nostra ricerca non sia buono. Soffermiamoci sull'università. Dai tempi della riforma Berlinguer, contestata anch'essa dagli studenti e dai docenti di sinistra, era chiaro che l'autonomia avrebbe comportato la possibilità di scegliere se investire risorse nella didattica, nella ricerca o nei servizi. Di fatto si diceva: noi governo soldi non ve ne potremo più dare molti, ma vi diamo possibilità di ottenerne favorendo l'ingresso e di privati e fondazioni, portando le tasse al livello dei paesi occidentali, e consentendovi di far fruttare didattica e ricerca. Si trattava quindi di una responsabilizzazione a cui gran parte del mondo accademico ha risposto in maniera sostanzialmente sbagliata sia aumentando le spese del personale con talora immotivate promozioni, sia aumentando il numero dei corsi (anche se frequentati da pochissimi studenti). Dopo alcuni anni si scopre così che le spese per il personale hanno raggiunto e talora superato il 90% dei bilanci, che molte università hanno accumulato centinaia di milioni di euro di debiti, che alcune di esse non hanno neanche pagato i contributi previdenziali per i propri dipendenti. Che per la ricerca non ci sono fondi. E così si arriva al dramma. La finanziaria impone tagli drastici e draconiani. Ma molti atenei non vogliono o non possono farlo e sostengono che ricerca e didattica, ovvero le riforme, non possono essere fatte a costo zero. Il tentativo è quello di scaricare sull'attuale governo le responsabilità della crisi. E' vero che la produzione di cultura è un bene pubblico che non ha ricadute immediate e i cui risultati, poiché si vedono nel tempo, vanno sostenuti dalla finanza pubblica; ma da qui a sostenere che il governo debba pagare il conto della megalomania di docenti ed atenei il passo è lungo. Tre riflessioni. La prima è che il mondo dell'università dovrebbe assumersi qualche responsabilità per quel che è successo e per l'opposizione ai progetti di riforma che proponevano di legare la qualità della didattica e della ricerca a un conto economico. Ciò vuol dire razionalizzare e valorizzare ciò che viene prodotto, ed è cosa diversa dall'accusare la Gelmini di voler 'privatizzare la scuola'. La seconda è che si dovrebbe iniziare a ragionare sulla possibilità di istituire università che si occupano di didattica ed università che si occupano di didattica e di ricerca. La terza è che fin dalla sua nascita, l'attuale governo ha sottovalutato il problema dell'università. E' vero che le emergenze son tante; ma arrivare oggi a dire che tra qualche mese sarà presentato un progetto di riforma organico, non è stato saggio. Può darsi che la presentazione delle linee guida della riforma avrebbe dato ugualmente luogo a proteste ed occupazioni, ma su una simile questione una qualche forma di discussione nelle sedi istituzionali non sarebbe stata inutile. ______________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 15 ott. ’08 UNIVERSITÀ: LA RIDUZIONE DEI FINANZIAMENTO II sistema formativo è in questi giorni al centro dei dibattito pubblico, in forza delle riforme che il governo sta attuando a colpi di decreti legge e di richieste di fiducia. La conversione in legge (n. 133/08) dei Decreto Legge 112/08 ha posto sul sistema universitario un'ipoteca pesantissima, con la limitazione al20% dei turnover per gli anni 2009-2011 e al 50% per l'anno 2012 dei personale; con i tagli al finanziamento che viene ridotto dei 25% entro il 2012; con la possibilità di trasformazione degli atenei in fondazioni private; con il taglio delle retribuzioni del personale. Difficilmente l'università, in quanto sistema pubblico e diffuso su tutto il territorio nazionale, riuscirà a sopravvivere gravata da una tale ipoteca. Ne risentiranno da subito gli anelli più deboli dei sistema: il taglio dei finanziamenti comporterà l'aumento delle tasse per gli studenti; la riduzione del turnover impedirà a tanti giovani meritevoli di accedere alla carriera universitaria, Le riforme imposte dal governo corrispondono al principio liberista di spostare il finanziamento dei sistema formativo dal contribuente all'utente, nell'assunzione che quest'ultimo, pagando - direttamente le «rette agli atenei», sia nelle condizioni di esigere un servizio adeguato e ciò di per sé garantisca una riforma compiuta di tutto il sistema, favorendo fa concorrenza e la selezione di pochi atenei eccellenti. Che questa assunzione sia in realtà una presunzione, è dimostrato in modo eclatante da quanto sta avvenendo in tutto il mondo, con il fallimento epocale di un modo di interpretare il settore che meglio dovrebbe corrispondere a logiche liberiste, vale a dire il mercato finanziario. Ed è paradossale che quelli che reclamano una maggiore competitività tra le università, individuandone i finanziatori nei soli «utenti», siano gli stessi che richiedono l'intervento dello Stato - vale a dire dei contribuenti - per limitare i fallimenti dei sistemi liberisti che stanno portando a picco le economie mondiali. Così i pregiudizi ideologici che hanno già fallito in altri contesti, vengono agitati come la panacea di tutti i mali della nostra università. Decretandone invece la fine, quantomeno di quella pubblica. Ferdinando di Orlo Rettore dell'Università degli Studi dell'Aquila ______________________________________________________ Il Sole24Ore 18 ott. ’08 FONDI AGLI ATENEI: PER LA DIDATTICA DEDUZIONE AL 2% Le donazioni dei soggetti Ires Marta Saccaro Le erogazioni liberali effettuate in favore delle università sono deducibili dal reddito d'impresa, nel limite del 2% di quest'ultimo, secondo quanto prevede la lettera a) del comma 2 dell'articolo 100 del Tuir. È quanto chiarisce l'agenzia delle Entrate nella risoluzione 386/E del 17 ottobre. Per l'applicabilità dell'agevolazione la disposizione del Tuir richiede la contemporanea presenza di due requisiti, riferiti al soggetto destinatario dell'erogazione. In particolare, quest'ultimo deve avere personalità giuridica; perseguire esclusivamente una o più finalità fra quelle, previste nella disposizione, di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria, culto e ricerca scientifica. Sono, quindi, escluse. sottolinea la risoluzione -finalità diverse da quelle espressamente elencate. Anzi le finalità, che caratterizzano i soggetti beneficiari, vanno «verificate in forza delle norme primarie e regolamentari del settore di competenza e in base alle previsioni recate dagli statuti o atti costitutivi dei medesimi beneficiari». L'Agenzia precisa che la disposizione privilegia l'aspetto finalistico dell'erogazione; delimitando i beneficiari delle contribuzioni in relazione alle finalità perseguite in via esclusiva. Ciò tuttavia non preclude che l'ente beneficiario possa porre in essere eventuali attività che si qualificano, sotto il profilo fiscale, come commerciali, sempre che si tratti di attività non particolarmente significative, svolte in diretta attuazione delle finalità indicate dalla medesima disposizione agevolativa e che non siano tali da assumere rilevanza autonoma, realizzando finalità ulteriori rispetto a quelle indicate dalla norma: Nel rispetto dei requisiti indicati, conclude l'Agenzia, le università possono quindi rientrare tra i soggetti beneficiari di questo tipo di erogazioni liberali. I chiarimenti contenuti nella risoluzione 386/E fanno esclusivo riferimento all'agevolazione disposta dalla lettera a) del comma 2 dell'articolo 100 de1 Tuir. In tema di agevolazioni per le contribuzioni alle università si può tuttavia fare riferimento anche ad altre disposizioni. Per esempio, si ricorda che con l'articolo 1, comma 353, della legge 266/2005, è stata disposta l'integrale deducibilità dal reddito dei fondi trasferiti per il finanziamento della ricerca, a titolo di contributo o liberalità, dalle società e dagli altri soggetti passivi Ires in favore, tra gli altri soggetti, di università, fondazioni universitarie (articolo 59, comma 3, legge 388/2000) e di istituzioni universitarie pubbliche. ______________________________________________________ La Repubblica 16 ott. ’08 CON LE NONNE TAGLIA-PRECARI IL MINISTRO NOM SAREBBE PROFESSORE ROMA —Con le norme "ammazza precari" il ministro Brunetta non sarebbe diventato professore». Lo ha denunciato nel suo intervento alla Camera il deputato dei Pd componente della commissione Cultura, Giovanni Bachelet, che aggiunge: «Brunetta dovrebbe sapere più di altri che fermare simultaneamente i concorsi e la stabilizzazione di molti ricercatori negli enti di ricerca sarebbe una catastrofe. D'altronde, proprio lui, è diventato professore associato con i concorsi dei 1981, quei concorsi anche detti "grande sanatoria", con i quali tutti quelli che a vario titolo erano precari nelle Università sono stati accettati come professori con un concorso riservato». «Quello che più critichiamo - prosegue Bachelet - è che il governo con la finanziaria blocca il turnover dell'Università ed impedisce nuovi concorsi e con l'emendamento l'ammazza precari" ferma le stabilizzazioni». ______________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 15 ott. ’08 GIANNI VATTIMO CONTRO I RETORI DEL DIALOGO Ex cathedra Il filosofo dà l'addio all'università con una lezione in cui riscopre il valore del conflitto DAL NOSTRO INVIATO TORINO- Va bene il Pensiero Debole, anzi meno male che c'è quello a contrastare il Pensiero Unico: ma «basta con la retorica del dialogo». Così il filosofo Gianni. Vattimo, ieri, nella lectio magistraiis con cui ha chiuso i suoi 4-4 aznu di insegnamento all'Università di Torino. Perché a forza di invocarlo tutti quanti, questo famoso «dialogo», lo stiamo facendo diventare un mito vuoto: il confronto vero richiede oggi più che mai di «schierarsi», a costo di implicare un «conflitto», E questa è l'unica via, insiste il filosofo se si vuole reagire al «dominio neutralizzante» dei Bush e del mercato, delle destre e delle panacee tecnologiche con cui si stronca qualsiasi obiezione. «Purtroppo anche il sistema universitario che oggi lascio - dice ai giornalisti - è assai peggiore di quello che trovai nel 'G4. Piatto e senza sbocchi. Al confronto non credo affatto che il Sessantotto sia stato la iattura che oggi si dice». É un discorso molto politico, quello di Vattimo, ma lui lo svolge con l'ironia del filosofo che è: «Un popolo senza filosofia è un popolo bue», sorride avviandosi verso l'Aula Magna. Ad applaudirlo c'è una folla di allievi, colleghi, amici, studenti. E quando prende il microfono va dritto al titolo della sua lezione: «ha verità e l'evento, dai dialogo al conflitto». Ma come: e l'ermeneutica? Non era forse l'ermeneutica di Parepson e Gadamer, Heidegger e Nietzsche, quella che ha permeato tutto il Novecento, la «filosofia del dialogo» per eccellenza? Altroché. Solo che «proprio la sua diffusione così estrema ha finito per diluirla», dice il filosofo. II dialogo ha senso se è confronto «fra criteri storici, non metafisici». E cita il «senso di fastidio che ogni richiamo al dialogo ci suscita oggi sempre più: penso alla politica italiana dove ci si rimprovera reciprocamente di non voler dialogare senza mai nominare la "cosa stessa", con effetti che sarebbero comici se non ne andasse del destino del Paese». Ma la preoccupazione non riguarda solo l'Italia. Perché quella stessa «insofferenza perla retorica dei dialogo» esprime in realtà, secondo l'inventore del Pensiero Debole, una «rivolta filosoficamente ben più rilevante» contro quel «pensiero unico che si identifica con il "Washington Consensus" al di fuori del quale non c'è che il terrorismo». Salvarsi dalla metafisica, que sto è il punto: «L'oggettivismo metafisico, oggi declinato come potere di scienza e tecnologia, non è altro che la forma più aggiornata del dominio di classi, gruppi, individui». È il famosa «potere degli esperti», sovrapposto alla «scomparsa delle differenze tra destra e sinistra», proprio mentre la cosiddetta «razionalità capitalistica, sempre più irrazionale, sta mostrando senza pudore la sua essenza puramente predatoria». Vattimo cita Heidegger e il SUO «tragico errore» di stare col nazismo nel '33: uguale e contrario a quel che fecero «Lukàcs e Bloch col comunismo di Stato - Scelte che oggi «non potremmo mai condividere», ma che rappresentarono comunque l'urgenza di uno «schierarsi», nella storia. «Oggi viviamo una "urgenza" simile, una minaccia incombente di perdita della libertà». Allora «la morsa era tra imperialismo, comunismo, nazismo. Oggi la minaccia sono le forze della globalizzazione, in cui il dominio si nasconde sotto la maschera della razionalità economica e della scienza-tecnica». Per questo l'urgenza oggi è «prendere partito». Per chi? «Per quelli che "progettano" di più perché "possiedono" di mena». Gli equivalenti del «vecchio proletariato marxiano», sorride Vattimo. Che da oggi lascia i corsi di laurea, in fin dei conti, ma non il suo ruolo di pensatore, autore, conferenziere: «C'è ancora un sacco di lavoro da fare, e non solo teorico». Paolo Foschini Scomparsa ogni differenza tra destra e sinistra. Tutto il potere agli esperti Nato a Torino nel 1936, il filosofo Gianni Vattimo, teorico del Pensiero Debole, ha chiuso ieri la sua lunga carriera universitaria Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. ______________________________________________________ Il Sole24Ore 17 ott. ’08 IL PAPA: SCIENZIATI ARROGANTI, NON ELABORANO PRINCIPI ETICI CONVEGNO SULL'ENCICLICA «FIQES E RATIO». «Sono spesso guidati dai facili guadagni» La Hack replica: non siamo ricchi ma precari «La scienza non è in grado di elaborare principi etici» e ha bisogno della tutela della fede e della teologia. Con parole che lasciano poco spazio alle interpretazioni, ieri Benedetto XVI ha denunciato quelli che per la Chiesa sono i pericoli dell’autosufficienza rivendicata da molti scienziati che, se svincolati dalla morale, possono finire per inseguire il «facile guadagno» o, peggio ancora, «l'arroganza di sostituirsi a Dio», con tutti i pericoli che ne conseguono per l'umanità. Un discorso molto chiaro quello pronunciato da Papa Ratzinger davanti ai partecipanti al convegno sui dieci anni della «Fides e Ratio», l'enciclica in cui Giovanni Paolo II descrisse la fede e la ragione come le due ali dello spirito umano. Ancora prima, nell'ottobre del 1992, Wojtyla aveva chiuso definitivamente il caso Galileo Galilei (inquisito dalla Chiesa per la sua teoria eliocentrica), auspicando che mai più nel futuro potessero verificarsi incomprensioni di quella portata tra scienza e religione. Ieri Ratzinger ha voluto chiarire,riprendendo un aspetto già affrontato nella sua enciclica "Spe Salvi", che una totale autonomia della scienza rischia di essere pericolosa per la stessa umanità. Incapace di delinearsi una morale, la scienza - ha spiegato - «può solo accogliere i principi etici e riconoscerli come necessari per debellare le sue eventuali patologie». In questo contesto, ha aggiunto, «la filosofia e la teologia diventano degli aiuti indispensabili con cui occorre confrontarsi per evitare che la scienza proceda da sola in un sentiero tortuoso e non privo di rischi». Alla tesi del Papa replica l'astrofisica Margherita Hack: gli scienziati non pensano che ad arricchirsi? Forse il Papa non si ricorda dei precari». Poi aggiunge: «Gli scienziati sono persone come tutte le altre e perciò ci sono quelli che fanno il loro lavoro con passione e altri che pensano al guadagno. Ma questo accade in tutte le categorie di persone». Benedetto XVI ieri, in occasione della visita dei vescovi dell'Ecuador, ha toccato poi altri temi sensibili. La Chiesa, ha detto il Papa in un messaggio che può anche essere letto nella declinazione "italiana", «non fa politica, ma ha il dovere di intervenire». IL Papa ha in sostanza rivendicato la missione della Chiesa cattolica, che ha il dovere di intervenire su questioni che riguardano la dignità della persona, dalla sacralità del matrimonio alla difesa della vita. Sebbene l’attività della Chiesa «non possa confondersi con fattività politica», essa «offre all'insieme della comunità umana il suo contributo». ______________________________________________________ Il Sole24Ore 13 ott. ’08 UNIVERSITARI, GUIDA ALL'AFFITTO SENZA SORPRESE Sono due le forme contrattuali specifiche - Previsti vantaggi fiscali per entrambe le parti PAGINA ACURA DI Eleonora Della Ratta Per un universitario, cercare una stanza o una casa in affitto non è mai semplice, soprattutto nei primi mesi dell'anno accademico, quando la richiesta da parte di giovani fuori sede è molto alta. Prezzi eccessivi e scarse garanzie sono frequenti in un mercato dove ancora la maggior parte dei proprietari affitta le proprie abitazioni "in nero". Ma se si è bene informati non è impossibile trovare una soluzione adeguata, soprattutto tenendo conto delle agevolazioni fiscali di cui si può usufruire e calcolando fin dal primo momento tutti i costi a cui si può andare incontro, dall'agenzia (se non si tratta direttamente tra privati) alle spese di condominio, che non sono necessariamente incluse nel prezzo. Le forme contrattuali specifiche proposte a uno studente possono essere di; due tipi: il contratto d'affitto studenti (previsto dalla legge 431/1998) e quello di natura transitoria. Il primo prevede una durata dai sei ai 36 mesi e può essere sottoscritto da una sola persona o da un gruppo di giovani: gli appartamenti vengono affittati già arredati e devono avere dimensioni proporzionate al numero degli inquilini. Il canone è fissato da parametri precisi, determinati a livello locale, e prevede agèvolazioni fiscali per i proprietari. Inoltre, è opportuno tenere conto che questa tipologia di contratto vieta il subaffitto e quindi, se uno degli inquilini lascia la casa, saranno gli altri a doversi accollare la quota. Di conseguenza, al momento del contratto è meglio accordarsi sulle possibili soluzioni da adottare nell'eventualità'che uno o più studenti decidano di andarsene. Per essere certi di non dover affrontare discussioni, si può chiedere che la scrittura privata specifichi le diverse quote che gli inquilini dovranno pagare in base alla stanza che occupano, anche se in genere sono gli stessi studenti ad accordarsi tra loro su come suddividere la spesa totale (si veda nei particolari il pezzo sotto). In alternativa la legge prevede il contratto d'affitto di natura transitoria, che ha una durata inferiore: da uno a 18 mesi e senza vincoli sul canone di locazione. Alla base di questo tipo di contratto vi è una clausola sull'esigenza transitoria di affittare (da parte del locatore) e di prendere in affitto (da parte dell’inquilino), cosa che permette termini più brevi per la disdetta del contratto. I canoni di locazione sono liberi, perciò i prezzi possono salire notevolmente. Per combattere il fenomeno del "nero", sono state introdotte agevolazioni a favore di entrambe le parti. Indipendentemente dalla tipologia del contratto, lo studente (o un genitore, se il figlio è a carico) può detrarre dalla dichiarazione dei redditi il 19% delle spese d'affitto, fino a quando esse non superano il tetto di 2.633 euro. La detrazione, dunque, può raggiungere un massimo di 500 euro: Per evitare sorprese è bene assicurarsi che il proprietario della casa abbia registrato il contratto (intestato a chi avrà diritto alla detrazione). Se, poi, nel documento (del quale bisogna conservare una copia) sono incluse altre voci, quali le spese condominiali, queste non, dovranno essere considerate ai fini della detrazione fiscale. Le locazioni regolari sono vantaggiose anche per i proprietari che, in molti Comuni, hanno diritto a uno sconto sull’Ici: Per la dichiarazione Irpef, inoltre, è previsto uno sconto del 30% sull'importo del canone annuo da dichiarare. Tornando sul versante di chi cerca casa, va sottolineato che nel scegliere l'alloggio è bene stare attenti alle spese ordinarie: condominio, riscaldamento e altre bollette. Alcuni proprietari preferiscono includere tutte le voci nel contratto chiedendo una cifra forfetaria mensile, ma molto spesso si tratta di cifre di non poco conto. È importante sapere a quanto ammontano le spese condominiali: soprattutto nelle grandi città e nelle zone più quotate, i condomini hanno spese piuttosto elevate, divise proporzionalmente in base alla metratura e alla posizione dell'abitazione. Le bollette di luce e gas dipendono invece dai consumi: quando si subentra a un altro locatario o si entra in una nuova casa> è consigliabile chiedere se sono stati regolati i pagamenti per i consumi effettuati fino a quel momento. Stanze e posti letto continuano a essere offerti a prezzi molto alti: mediamente, in città come Milano o Roma un posto letto in camera doppia costa circa 250 euro al mese; una camera nelle zone universitarie almeno 800 euro. Cifre sufficienti per pagare le rate di un mutuo. Per questo un numero crescente di famiglie (tra quelle che, ovviamente, ne hanno le possibilità) si sta orientando verso l'acquisto di un appartamento nella città in cui il figlio andrà a studiare: senza trascurare la possibilità di affittare eventuali stanze "in esubero". ______________________________________________________ Il Sole24Ore 13 ott. ’08 DAL DIRITTO DI PRELAZIONE AL RECESSO TUTTE LE CLAUSOLE DA RISPETTARE Matteo Rezzonico I contratti per studenti universitari appartengono al genere delle locazioni transitorie, secondo l'articolo 5, comma 2, legge 431/98 e l'articolo 3 Din del 3o dicembre 2002, norme volte a creare uno strumento per soddisfare le esigenze particolari dello studente; che necessita dell'alloggio per un periodo limitato alla durata del corso degli studi. Ciò significa che le locazioni abitative per studenti universitari, non hanno per oggetto esigenze di primaria abitazione degli studenti. Le parti sono comunque libere di attingere al .contratto libero «4 anni + 4» (articolo 2, comma i, legge 431/98). Identikit dello studente Secondo il Dm citato, questa tipologia contrattuale potrà essere utilizzata esclusivamente, qualora l'inquilino sia iscritto a un corso di laurea o di perfezionamento in un comune diverso da quello di residenza. Ci si è domandato se al modello contrattuale in questione possano accedere anche gli iscritti a corsi di istruzione superiore o a istituti di istruzione non universitaria: In proposito, sembra'ammessa l'opinione secondo cui anche questi soggetti possano accedere al contratto transitorio in esame, sempre che ciò sia previsto, dagli accordi locali tra le organizzazioni della proprietà e dell'inquilinato. Resta fermo che lo studente dei corsi superiori non universitari può comunque stipulare un contratto libero. Benché il Dm preveda che i contratti in questione possono essere sottoscritti o dal singolo studente o da gruppi di studenti universitari fuori sede, o dalle aziende per il diritto allo studio (la norma precisa: "possono" e non "devono"), niente vieta che l'intestazione del contratto sia fatta in capo a terzi, per esempio ai genitori. In ogni caso, la natura transitoria deve essere specificata in contratto (a norma del patto 2 del contratto tipo Allegato E, secondo cui «secondo quanto previsto dall'Accordo territoriale stipulato ai sensi dell'articolo 51 comma 3, della Legge 431/98 tra le parti concordano che la presente locazione ha natura transitoria in quanto il conduttore espressamente ha l'esigenza di abitare l'immobile per un periodo non eccedente.... frequentando il corso di studi di... presso l'università di ...»). Durata II Dm 30 dicembre 2002 fissa i limiti per la durata dei contratti di esame: da sei mesi a tre anni (articolo 3, comma O. Alla prima scadenza del contratto, ove non sia comunicata la disdetta, è previsto il rinnovo automatico. Secondo l'opinione prevalente, si tratterebbe di uri rinnovo automatico destinato a operare solo alla prima scadenza. Alla seconda scadenza, il contratto è invece destinato a cessare per il solo spirare del termine, non essendo previsto alcun rinnovo tacito: In particolare riguardo alla prima scadenza, il Dm (con gli allegati contratto-tipo) fa riferimento alla possibilità di disdetta da parte del solo conduttore: ciò ha creato non poche perplessità, essendosi posto in dubbio che al diniego di rinnovo del contratto alla prima scadenza possa fare ricorso anche il locatore (sulla base dei motivi di cui all'articolo 3 della legge 431/98). Circa modalità e termini della disdetta: il contratto-tipo fissa il termine di tre mesi per l'invio della disdetta da parte del conduttore (clausola O, mentre ove si ritenga consentito anche il recesso del locatore, la disdetta di quest'ultimo dovrebbe rispettare il termine di sei, mesi (articolo 3, legge 431/98). Recesso Nel contratto-tipo (clausola 9) ; è tra l'altro prevista la facoltà del conduttore di recedere anticipatamente dal contratto (anche se solo nel caso di sussistenza di gravi motivi, in base ai principi generali). La stessa clausola prevede, nell'ipotesi in cui i conduttori siano più di uno, la possibilità che soltanto uno o più conduttori recedano dal contratto: in tal caso la locazione proseguirà. nei confronti degli altri, ferma restando la solidarietà del conduttore recedente per i pregressi periodi di conduzione nonché la facoltà di regresso é di conguaglio, nei rapporti interni tra conduttori. Altre condizioni ' Per poter fruire dei contratto transitorio per studenti, l'immobile deve essere ubicato in un comune sede di università o di corsi universitari distaccati e nei comuni limitrofi, come si deduce dall'articolo 5, comma 3, legge 43i/98 (dettato ai fini di individuare i soggetti che possano promuovere gli specifici accordi locali per la definizione dei contratti-tipo). Il requisito vale anche nei confronti degli studenti delle scuole superiori, qualora ciò sia previsto dagli accordi locali. Il Dm; per la misura del canone, rinvia agli accordi locali, che devono tener conto dei canoni previsti per le locazioni del cosiddetto canale convenzionato (articolo 3, comma 2, Din 30 dicembre 2002). Nel Dm e nei contratti tipo allegati non si fa alcun cenno alla possibilità di aggiornamento del canone, benché tale aggiornamento sia consentito nelle locazioni convenzionate, sia pure nella misura limitata del 75% delle variazioni Istat. È inoltre vietata la sublocazione, sia totale, che parziale. La clausola 8 del contratto tipo, Allegato E, dispone infatti ché «Salvo patto scritto contrario, è fatto divieto di sublocare o dare in comodato, né in tutto, né in parte, l'unità immobiliare, pena la risoluzione di diritto del contratto»: Infine la clausola 7 del contratto tipo Allegato E - secondo cui «la vendita dell'unità immobiliare locata - in relazione alla quale viene/non viene concessa la prelazione al conduttore - non costituisce motivo di risoluzione del contratto».- lascia presumere che possa esistere un diritto di prelazione a favore del conduttore. I benefici Per il locatore La legge431/98 prevede che per i contratti a universitari - relativamente agli immobili situati nei Comuni ad alta tensione abitativa - il locatore possa dichiarate il canone di locazione ai fini Irpef o Irpeg, nella misura del 59,5%. Il locatore ha poi diritto a un'aliquota Ici ridotta, ove prevista dal Comune dove è sito l'immobile. Per il conduttore Il conduttore ha la possibilità di chiedere un contributo annuo fino a 3.098,14 Uro se il reddito complessivo annuo non supera due pensioni minime Inpse l'incidenza del canone non risulta inferiore al 14% oppure di 2.324,06 euro se il reddito complessivo annuo non supero, quello determinato dalle Regioni e dalle Province autonome per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica e l'incidenza del canone non risulta inferioreal24%(articolo 11, legge 431/98). L'articolo 15 del Dpr 917/86 dispone che dall'imposta lorda si detrae un importo pari al 10% (e fino a 2.633 euro) dei canoni di locazione, euro derivanti dai contratti stipulati o rinnovati ai sensi della legge 431/98 e successive modificazioni, i canoni relativi ai contratti di ospitalità nonché agli atti di assegnazione in godimento o locazione, stipulati con enti per il diritto allo studio, università, collegi universitari legalmente riconosciuti, enti senza fine di lucro e cooperative. Lo studente dev'essere iscritto, a un corso di laurea presso un'università ubicata in un comune diverso da quello di residenza, distante almenol00Kmecomunquein ' una provincia diversa: L'imposta di registro (Dpr131/86) è calcolata norma sull’intero canone di locazione, ma su 70 percento. . ______________________________________________________ TST tutto Scienze e tecnologia 15 ott. ’08 LENSTRA: SPIE, CARTE DI CREDITO E CIOCCOLATA Le curve ellittiche governano la sicurezza Senza i loro poteri saremo più a rischio Hendrik Lenstra Che cosa c'entrano i dipinti di Escher, con la cioccolata e la sicurezza delle carte di credito? In comune hanno l'uso delle curve ellittiche, uno dei più straordinari oggetti della matematica. Che cosa sono le curve ellittiche? Sono speciali curve, che devono il loro nome al fatto di apparire quando si tenta di misurare la lunghezza di un'ellisse. Nessuno al mondo può dire di conoscerle meglio del matematico olandese Heindrik Lenstra, uno dei tanti ospiti che si alternano al prestigioso «Centro De Giorgi» di Pisa per ricerche, lezioni e conferenze. Professor Lenstra, perchè le curve ellittiche sono ritenute così interessanti? «Per me le curve ellittiche sono oggetti assolutamente affascinanti! Innanzitutto collegano tra loro diverse discipline matematiche. Normalmente apparivano solo nella matematica pura, dove potevano essere affrontate 5 vari modi: attraverso l'analisi complessa, la geometria algebrica e la teoria dei numeri. Adesso compaiono anche nella matematica applicata, ma non importa da dove le si guardi: stanno sempre un po' sotto la superficie ed è solo dopo una seconda occhiata che si inizia a incontrarle davvero. Si può essere competenti in matematica e non riuscire a sapere cosa è una curva ellittica! ». Come si usano queste curve? «E'un fatto recente il loro uso in problemi che apparentemente non hanno alcuna relazione con esse ed è questa la ragione principale per cui le trovo cosi seducenti». Per esempio? «Nella teoria dei numeri abbiamo l'esempio più eclatante con la dimostrazione dell'ultimo teorema di Fermat, che, dopo 350 anni di tentativi, è stato dimostrato proprio con le curve ellittiche». E invece che cosa riservano le applicazioni? «Sono molto importanti anche nelle matematiche applicate, come la sicurezza del Web». Spieghi. «Proteggere i dati delle trasmissioni elettroniche è ovviamente di importanza vitale. Si sa che ci sono vari schemi crittografici e che rispondono a varie necessità. Le curve ellittiche sono alla base di una delle più attraenti classi di sistemi crittografici, specialmente perché sono più efficienti nel raggiungimento di un livello fissato di sicurezza». Roba da spie! «E infatti oggi un "expertise" in curve ellittiche si può trovare anche tra studiosi che sono ingegneri piuttosto che matematici». Che cosa c'entra la litografia «Galleria di Stampe» di Escher con tutto questo? «Indovini: curve ellittiche! La trasformazione che Escher ha usato per disegnare la sua litografia può essere vista come il passaggio da una curva ellittica a un'altra. E infatti i misteri di questa stampa scompaiono, una volta capite le curve ellittiche». E che cos'è l'effetto Droste, a parte quello causato da un'indigestione di cioccolata? «La Droste - si sa - è il famoso produttore di cioccolata. La sua confezione mostra un'infermiera che porta un vassoio, su cui si trova un scatola di cioccolato, su cui c'è un infermiera che porta un vassoio, su cui si trova una scatola di cioccolato su cui... L'effetto genera una ripetizione infinita e ogni ripetizione simile viene chiamata proprio "effetto Droste". Una prospettiva equivalente si trova nella "Galleria di stampe" di Escher, che rappresenta un uomo che guarda un quadro, nel quale si vede lui stesso: la scena è un gioco di specchi, in cui le curve ellittiche giocano un ruolo essenziale». Lei è il responsabile dei programma dei prossimo Congresso Mondiale dei Matematici: che sorprese ci riserva? «Si tiene ogni quattro anni ed il più importante congresso di matematica del mondo: tra l'altro, conferisce le Medaglie Fields, il Nobel dei numeri. Organizzarlo è la prima attività dell' IMU - l'International Mathematical Union - in cui sono rappresentate tutte le società matematiche: ecco perché rappresenta lo stato dell'arte delle discipline matematiche ed è il momento in cui si guarda al futuro. Il prossimo congresso sarà nell' agosto 2010 a Hyderabad, India, un Paese che ha una grande e antica tradizione sia in matematica sia in fatto di ospitalità. Come responsabile del programma, insieme con i membri del comitato, che per tradizione sono segreti fino all'ultimo, posso dire: se qualcuno ha suggerimenti, non è troppo presto per mandarmeli!». Quale è la sua visione della matematica per il terzo millennio? «Uno dei miei colleghi ha detto che, mentre il XX secolo è stato il periodo in cui la matematica è avanzata attraverso le dimostrazioni di esistenza, con soluzioni talvolta astratte, il XXI sarà quello dei metodi algoritmici: come faccio a costruire gli oggetti di cui ho dimostrato l'esistenza? Dato che questo è il cuore delle mie ricerche, spero che il mio collega avesse ragione». Ha un consiglio per chi voglia studiare matematica? «”Voglia" non è la parola giusta. Se fare matematica ti rende felice l'esperienza non è quella della scelta, ma quella della necessità! E se questo è il caso, il suggerimento è di non fare altro che matematica per almeno 10 anni. Pensa a ogni problema che ti capita a tiro e vivi in biblioteca! Leggi i grandi! Metti alla prova la tua forza! Forma la tua visione del mondo della matematica, indipendentemente dai professori. Allora avrai iniziato con il piede giusto». ______________________________________________________ La Repubblica Salute 16 ott. ’08 SFORZA: GENI E CULTURA CAMMINANO INSIEME Luca Cavalli Sforza, professore di genetica alla Stanford University in California Stati Uniti Cavalli Sforza spiega le similitudini tra la trasmissione ereditaria e quella delle informazioni di Francesco Bottaccioli * Luigi Luca Cavalli Sforza, uno dei massimi genetisti viventi. ha deciso di rientrare definitivamente in Italia dopo 37 anni passati negli Stati Uniti, alla Facoltà di Medicina della Stanford University, dove è stato professore e poi professore emerito di Genetica. Il prossimo 24 ottobre a Roma aprirà il Congresso nazionale della Società italiana di Psico neuro endocrino immunologia con una lezione magistrale su "Geni e cultura: il ruolo dei comportamenti nell’evoluzione umana". IL CASO E LA NECESSITÀ È qui la peculiarità della ricerca di Cavalli Sforza e, al tempo stesso. il coraggio di un’indagine necessariamente interdisciplinare, che presuppone una contaminazione tra scienze biologiche e scienze cosiddette umanistiche. «[1 primo vantaggio che si può trarre da questo approccio multidisciplinare», scrive in un suo recente libro 1l caso e la necessità". Di Renzo Editore, Roma 2007, «è il piacere intellettuale di trovare somiglianze e concordanze tra ambiti di studio così disparati e solitamente presentati come opposti, come la scienza e le discipline umanistiche». Ma il libro che ha fatto più scalpore sull'argomento lo pubblicò nel 1981 assieme al genetista di popolazione Marctts W. Feldman, con il titolo "Cultural transmission and evolution. Princeton University Press, dove introdusse il concetto di l'evoluzione culturale" che. al pari di quella biologica, obbedisce alla stessa necessità: ]'adattamento della specie. «L'evoluzione culturale è un’invenzione. o meglio, una manifestazione dell'evoluzione genetica. una delle tante. Non è unica dell’uomo. Vi sono manifestazioni "sociali" anche nei batteri che qualcuno equipara a fenomeni culturali. Ma nessuna specie ha sviluppato un’evoluzione culturale altrettanto potente come quella umana. E ciò grazie al linguaggio che permette di comunicare e trasmettere informazione e potenziali implicazioni non esclusivamente ai propri discendenti biologici, come invece è caratteristica dell'evoluzione genetica». Questa idea della co-evoluzione dei geni e della cultura può però avere anche un’altra lettura, per così dire di tipo "sociobiologico", che mette in risalto soprattutto il lato biologico, Secondo questo approccio, la cultura evolve in quanto evolvono i geni. Nel 1978 uscì un altro libro che fece tanto scalpore da prendere il premio Pulitzer. Parlo di "On Human Nature" di Edward O. Wilson, scritto assieme al fisico Charles Lumsden, il cui messaggio centrale può essere riassunto in una frase efficace: «I geni tengono la cultura al guinzaglio». «Wilson è un grande entomologo». commenta Cavalli Sforza, «studia gli insetti. È indubbio che l’evoluzione sociale delle formiche e degli altri insetti sociali si è sviluppata largamente per via genetica in un arco di tempo molto lungo. Le formiche hanno impiegato milioni di anni per costruire i loro sistemi sociali e i loro ambienti attraverso l’evoluzione genetica. Ma l’evoluzione culturale umana non segue queste leggi. In virtù del suo particolare meccanismo di trasmissione, essa ha una velocità potenzialmente enorme. Wilson non ha capito che la differenza principale tra evoluzione genetica e culturale è proprio nel meccanismo di trasmissione». L'era della comunicazione «Un meccanismo di trasmissione che può essere», aggiunge Cavalli Sforza. «"da Uno a molti" e, nell'epoca di internet, anche da "molti a molti". Quella attuale è veramente la fase della comunicazione globale. che potrà avere importanti ripercussioni sulla stessa evoluzione. con esiti che possono essere positivi, ma anche tremendamente pericolosi». «Abbiamo sviluppato poteri enormi», conclude lo scienziato, «che possono essere posseduti da un solo individuo. Se qualcuno scatenerà una guerra atomica potrebbe anche causare la distruzione della specie umana e di molte altre». Causando così la fine dell'evoluzione umana. _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 13 ott. ’08 PARADOSSI DELL’ARCHEOLOGIA: COSA PROTEGGE UN SITO PIÙ DI UN PALAZZO COSTRUITO SOPRA? di Giorgio Todde Gli archeologi, dopo aver scavato per secoli, si sono resi conto, a ragione, che scavare è un’azione distruttiva. Dicono gli archeologi che una tomba scavata e tirata a lucido avrà una vita breve e che il giusto destino di quel sepolcro consisterebbe nel restare com’era. Tutti, intanto, hanno visto nei giornali i muraglioni mesopotamici che, sotto la sorveglianza dei mistici del non scavo, hanno incorporato le tombe scavate a Tuvixeddu. Qua i muraglioni decidono arbitrariamente dove finisce il Parco archeologico e dove inizia un volgare giardinetto pubblico. Arbitrariamente, visto che ben oltre le colossali fioriere è giusto credere che ci siano altri sepolcri. I baluardi sono alti quasi tre metri e larghi due, un peso immane, e tagliano alcune tombe. Le immagini, almeno quelle, sono incontestabili. Qualche giorno fa la Sovrintendente protostorica Fulvia Lo Schiavo ha sostenuto in una metafisica conferenza stampa, con una determinazione che ci ha raggelato, come quelle fioriere dal peso incalcolabile proteggano, secondo lei, le tombe. E ha argomentato che siccome lo scavo è “distruzione” allora quelle fioriere sono una difesa per i sepolcri che sono finiti sotto. Il sillogismo, però, scricchiola. E vediamo come sono stati “protetti” alcuni sepolcri in tempi recenti. Dalla fine degli anni Novanta sino agli anni 2000 inoltrati, in un’area del colle verso Sant’Avendrace, accanto al vecchio villino Serra - distrutto perché indegno, si vede, di essere conservato - emerse una nuova e grande parte della necropoli. Affiorarono le innegabili 431 nuove sepolture, in parte perfino fuori da ogni vincolo. Le nuove scoperte dimostravano, alla faccia dei negazionisti, quanto l’area della necropoli fosse molto più grande di quella conosciuta. Cosa dovevamo aspettarci? Entusiasmo, i giornali pieni di notizie, l’orgoglio cittadino per la nuova scoperta, amministratori di destra, sinistra e centro in visita alle nuove tombe. Una corsa archeologica all’oro. Secondo i principi enunciati dalla protostorica Lo Schiavo le tombe andavano dunque messe al più presto al sicuro. E avevamo immaginato - ahi, quanto ingenuamente - che il soprintendente avrebbe dovuto avviato le procedure di un nuovo vincolo. Nuove scoperte, nuovi vincoli. Invece, nulla di tutto questo. Nel silenzio archeologico si è scavato e poi costruito un palazzone sulle tombe. I nostri archeologi, esaurito il proprio compito nello scavo, hanno ritenuto che non c’era nulla di più sicuro di una palazzata di undici piani con grande garage, sopra le sepolture. Tutta salute per i sepolcri. Nulla è più protettivo di un palazzo. E così nel 2004, pochi anni fa, i palazzoni giallini hanno ricoperto gran parte dei ritrovamenti e reso definitivamente brutto anche quell’angolo di colle. La Sovrintendente protostorica ha accreditato l’idea che l’archeologo sia un tecnico puro, uno scopritore che nulla ha a che fare con un’altra categoria, quella dei costruttori. Chiedere un vincolo? Battersi per una tutela? No. Questa è un’idea romantica dell’archeologia. E per dimostrare questa teoria ci ha raccontato che sotto la Banca Nazionale del Lavoro, noi valorizziamo oggi delle terme romane. Ci ha assicurato, confermando un vero affetto archeologico per le pietre, che le terme là sotto sono “tranquille”. Chissà che brutta fine avrebbero fatto le terme se, sopra, non avessero costruito la banca. Mentre la Soprintendente parlava della sua idea di tutela ci siamo chiesti se anche l’anfiteatro romano è valorizzato dall’attuale copertura di tavolacci. Ma non volevamo andare fuori tema. Però questo anfiteatro non è facile da digerire e riemerge da sotto i tavoloni di continuo. Ieri, in una bella mattinata autunnale, un signore francese dall’aspetto intelligente, si aggirava in Viale Fra’ Ignazio con in mano una fotografia dell’anfiteatro romano e chiedeva se quella cavità ricoperta di legno e tubi di ferro fosse davvero l’anfiteatro della foto. Non siamo riusciti a fornire una spiegazione coerente però lo abbiamo invitato a rivolgersi alla protostorica dottoressa Lo Schiavo. La protostorica, forse, estenderà ai tavoloni e al ferrame dell’anfiteatro la sua teoria delle fioriere protettive. Ma non convincerebbe l’ostinato viaggiatore francese come, del resto, non ha convinto noi. Quel che resta del colle, ed è tanto, sepolcri, falchi, orchidee, si salveranno dai metri cubi e noi dovremo conservare la bellezza che Tuvixeddu riconquista da sé ogni volta che si attenta alla sua integrità recuperata. Ma una parte è perduta per sempre. E chi ha concorso a questa perdita permettendo che intorno proliferasse un’orribile poltiglia urbana, passerà alla storia della nostra città, e magari anche alla protostoria. P.S.: forse la sconfitta recente del Sì nel referendum sulla “salvacoste” è dovuta alla mancanza, nei manifesti, del prescritto accento che il creativo della campagna referendaria ha dimenticato. E i sardi hanno risposto con un silenzioso No, dotato di un accento sonoro. Segno che le regole della grammatica valgono quanto la pratica e che, come tutte le regole, devono essere rispettate. ______________________________________________________ Avvenire 16 ott. ’08 STUDENTI CINESI IN ITALIA: È BOOM Nell'ultimo anno aumentati di 15 volte PERUGIA. «Forte è stato nell'ultimo quinquennio l'impegno delle università italiane per acquisire studenti cinesi, da 104 nel 2003 a 1640 nell'ultimo anno accademico, con un accrescimento della quota di oltre 15 volte; un risultato incoraggiante nonostante le scarse risorse della rete accademica». Questi i dati che il rettore dell'Università per Stranieri di Perugia, Stefania Giannini, nel ruolo di delegato per le Relazioni Internazionali della Conferenza dei Rettori Italiani, ha presentato ieri all'incontro stampa svoltosi a Roma per la presentazione del Progetto Unitalia. Un’iniziativa, promossa dalla Fondazione Italia Cina in sinergia con il ministero degli Affari Esteri, dell'Ambasciata d'Italia a Pechino, dell'ambasciata della R.RC. in Italia e della Cr" ha il cofinanziamento della Fondazione Cariplo e l'obiettivo sia di attrarre studenti cinesi negli atenei italiani che incrementare l'insegnamento della lingua italiana nelle università cinesi. L:incremento numerico citato dal rettore Giannini ha integrato positivamente quanto evidenziato dal presidente della Fondazione Italia Cina, Cesare Romiti, sul divario numerico di studenti cinesi negli atenei delle principali nazioni europee e l'Italia (40mila in Gran Bretagna, 60mila in Germania). «Se è vero che una maggiore quota di studenti cinesi nei nostri atenei sarà volano di sviluppo complessivo dei rapporti tra i due Paesi - è stato il commento dei rettore della Stranieri - occorre porre in evidenza come la non forte presenza della rete accademica italiana nel mondo in termini, ad esempio, di borse di studio e l'esiguità di risorse a disposizione degli atenei rendono difficile lavorare su questo fronte». ______________________________________________________ Il Sole24Ore 16 ott. ’08 CORSA ALLO STOCCAGGIO DELLE INFORMAZIONI DI GUIDO ROMEO Fisica, ma anche genomica, biologia e soprattutto i contenuti sempre più eterogenei della rete, non possono fare a meno dei petacentri. Questi enormi centri di stoccaggio dati sono sempre più la memoria del mondo contemporaneo, delle nuove conoscenze e perfino dei dati che aspettano di diventare un sapere organizzato. Il Cern, a Ginevra ha da poco inaugurato quella che per molti è destinata a diventare la cassaforte della fisica moderna, nella quale ogni anno si stoccheranno oltre 90 petabit (milioni di miliardi di byte) prodotti dalle operazioni del mega acceleratore Lhc, ma i fisici non sono i soli a far,ruggire nastri e dischi rigidi. Il più grande e più segreto-talmente segreto che non se ne conosce nemmeno la capacità totale, resta il data-center di Google, dove nessun giornalista o persona esterna all’azienda è stata mai ammessa. Di certo si sa che oggi i server di Mountain View sono molto diversi da quei due rack recintati da un muro colorato di Lego con i quali Brin e Page inaugurarono la loro impresa dieci anni fa, ma per fortuna il settore scientifico è molto più trasparente. AL Sanger Center di Cambridge, in Gran Bretagna, il rumore delle macchine è infernale e pervade quasi tutti i mille metri quadri del centro. Qui vengono stoccati i dati dell'analisi genomica di moltissimi progetti di biologia, primo fra tutti i Progetto 1000 genomi con il quale l'istituto Britannico, in collaborazione con l'Istituto di genomica di Pechino e l’Nhgr (National human genome research institute) statunitense, si è posto l'obiettivo, un po' folle, ma certamente straordinario, di identificare tutte le varianti genetiche di almeno l’1% della popolazione umana del pianeta. Un'impresa impensabile fino a 15 anni fa, ma possibile grazie alle nuove tecnologie di sequenziamento del Dna. I nuovi sequenziatori del Sanger producono in appena due ore 320 Tera byte (mille miliardi). Una vera e propria corsa allo stoccaggio che è possibile grazie all'abbattimento dei costi delle memorie digitali. Il Sanger vedrà infatti a breve raddoppiare la sua capacità di memoria grazie alla sostituzione dei suoi hard-drive da 500 GB con modelli da 1TB. E un quarto dello spazio nell'immobile è tenuto libero in attesa di alloggiare nuove macchine che consentiranno di varcare la soglia dell’ ExaByte (un trilione di Byte) e puntare alle vette di zetta (un triliardo) e yotta (un quadriliardo) che si prevede raggiunte già prima della metà del secolo. Una corsa stupefacente anche perché fatta a colpi di componenti comunemente aquistabili nei negozi di Pc. Vicino all'aeroporto di Schiphol in Amsterdam sorge invece la sede principale di XS4Al1, il primo Isp olandese costituito da un gruppo di hacker e oggi di proprietà pubblica, dove è ospitata una copia dell’Internet Archive (archive.org) che permette veri e propri viaggi nel tempo, per scoprire le pagine presenti in rete fin dal 19 9 6. Rispetto alle macchine del Cern, che hanno la missione di catalogare e immagazzinare le immagini provenienti da 600 milioni di collisioni per secondo che hanno luogo nell'Lhc, il centro britannico e olandese hanno però un significativo vantaggio. Diversamente dalle immagini, le informazioni che maneggiamo possono venire ridotte e compresse aumentando la quantità di informazione per cm quadrato di memoria. AL Sanger ad esempio, una volta che le immagini sfornate dai grandi sequenziatori Solexa sono analizzati e tradotti in sequenze numeriche, l'immagine originale viene semplicemente scartata. Analogamente all'XS4All le moltissime e spesso ridondanti informazioni generate dalla rete qui si conservano perfino i commenti di ogni forum online - sono spesso in un formato testuale che può venire compresso e ridotto. La scala dei dati con i quali lavorano pongono però ai petacentri problemi comuni e cruciali. Uno spettro degli amministratori di sistema di queste strutture è il "Google problem": l'improvviso picco di richieste di accesso a un certo dato (una pagina, una sequenza, o una foto di collisione tra particelle) che provocherebbe un vero e proprio collo di bottiglia nella rete. Google ha investito per creare infrastrutture ridondanti. Il Cern ha ovviato regolando accuratamente chi può avere accesso ai dati, ma la situazione è più difficile per il Sanger, perché gran parte dei suoi progetti sono per statuto ad accesso aperto. Ma il pericolo più grande è il surriscaldamento delle macchine, che se non raffreddate possono rapidamente superare i 40° C con danni irreparabili. AL consumo vero e proprio delle macchine va perciò aggiunto anche il costo, non indifferente, di condizionamento. II Sanger Center dedica al raffreddamento un intero piano del suo centro dati, il cosiddetto "Ice Cube". Google ha recentemente proposto l'idea di collocare i suoi server su piattaforme marine che avrebbero il vantaggio di poter utilizzare acqua marina e fonti rinnovabili per abbassare bollette sempre più esorbitanti. È forse in questo campo che è più urgente un salto tecnologico. Anche perché i componenti di questi centri, che siano schede video, Ram e quasi ogni altra cosa fatta eccezione per alcune Cpu, consumano sempre il 100% dell'energia sia che siano attive che a riposo. ______________________________________________________ Il Sole24Ore 16 ott. ’08 UNA GRID CHE UNISCE IL MONDO Una grande rete per gestire i dati Ma non serve solo per la scienza Per ora, sulla rete dei 14 0 centri di calcolo scientifico sparsi per il mondo, stanno elaborando segnali per lo più provenienti dai raggi cosmici. Nella caverna circolare di 27 chilometri di circonferenza, scavata sotto la valle di Ginevra, il grande acceleratore di particelle Lhc del Cern è infatti fermo, bloccato da un guasto dello scorso 20 settembre. E ripartirà, se tutto va bene, a maggio. Funzionano, a regime, solo i sensori di raggi cosmici che, in parte, aiutano a calibrare l'Lhc e in parte vengono utilizzati per scopi scientifici. Lo scorso 20 settembre, infatti, al culmine di una prova dell’anello di i.4oo magneti superconduttori criogenici, un'interconnessione è saltata, con conseguente corto circuito, riscaldamento rapido dell'elio, rottura di alcuni magneti, fuoriuscita del gas. «L'incidente ci ha presi di sorpresa. come un pugno nello stomaco, dopo il successo all'avvio di nove giorni prima-racconta Lucio Rossi, il fisico milanese responsabile dei 1.400 magneti le interconnessioni erano l'ultima parte, non testabile, dell'anello. È stata dura, anche personalmente, soprattutto per il fatto di non poter scendere là sotto a controllare e capire cosa era successo. Solo oggi, riportato in temperatura il settore, la stiamo facendo. E prevediamo, oltre alle riparazioni, di inserire nuovi sensori nelle interconnessioni, per tenerle d'ora in poi, sotto costante controllo. Ne abbiamo da lavorare. E fino a maggio, almeno». Forse però è un bene, questo ritardo, per i 7mila scienziati, in 33 Paesi, collegati alla Grid del Cern: «Avranno più tempo per controllare e mettere a punto un sistema di supercalcolo complesso e mai tentato prima nel mondo, e quindi ancora piuttosto fragile», spiega Dario Barberis, fisico genovese responsabile dell'informatica di Atlas (uno dei maggiori esperimenti nell’ Lhc). La Grid finora ha però mantenuto le promesse. Formulate quasi dieci anni fa, quando i fisici del Cern si trovarono di fronte a un problema quasi insolubile. Il loro nuovo acceleratore a superconduttori, l'Lhc, avrebbe generato circa 60o milioni di collisioni protoniche al secondo, di cui un centinaio, dopo una prima scrematura, di interesse scientifico. Con un flusso "grezzo", però di circa 700 megabytes al secondo (un cd al secondo) e quindi di 15 milioni di gigabytes all'anno, e per vent'anni. Troppi da elaborare, anche economicamente, per il solo Cern. «La singola potenza di calcolo per una simile massa di dati semplicemente non esisteva, e tuttora non esiste - osserva James Gillies, portavoce del Cern l'unica era cambiare tutto il paradigma». «La Grid altro non è che la messa in comune di tutte le risorse di calcolo possibili a disposizione dei fisici, con un progetto cooperativo, prevalentemente di software, che ha pochi precedenti», aggiunge Barberis. E il sistema informatico mondiale a larghissima banda inauguratolo scorso io ottobre al Cerri ha infatti una doppia faccia: la "fonte" e la "rete". La "fonte" sta al Cern. Parte dai quattro grandi rivelatori sotterranei (Atlas, Cms, Alice, IL7cb) che rilevano le collisioni tra particelle tramite apparati sensoriali ultra-veloci. Con valanghe di dati grezzi che si riversano direttamente nei centri di pre-elaborazione posti nelle caverne. Di qui, tramite una delle più ramificate reti locali ethernet-gigabit del mondo, i dati vanno a un data center di 6mila pc, che fa da perno sia per la loro ulteriore "raffinazione" e conservazione (su unità a nastro da 16 milioni di gigabyte complessive), sia per il loro invio sulla Grid. Qui, tramite connessioni ottiche da 10 gigabit/secondo, i flussi di dati vanno ai 140 centri di calcolo scientifico in 33 Paesi, vengono elaborati, analizzati, e i loro risultati in gran parte reinviati al Cern, o memorizzati in altre grandi "cassaforti". «L'intero sistema si basa su una logica unitaria - spiega Bill Johnson, responsabile della R&S Hp sul networking - ogni fisico, in ogni parte del mondo, se ha accesso alla Grid può lanciare da ogni punto della rete il suo "Job", la sua analisi dei dati: Ed è la Grid, tramite il suo software, a deciderne l'esecuzione e allocarne le risorse di calcolo, secondo un principio ad aste e crediti non molto diverso da quello di e-Bay. Per noi di Hp, che abbiamo fornito la rete locale al Cern, è stata una grande occasione di test e di sviluppo del grande networking del futuro». La "fonte", la grande rete sensoriale - locale del Cern (con circa 70mila porte Ethernet ad alta velocità) è stata già, di per sé; un investimento massiccio per le finanze del centro. La Grid, invece, è costata molto meno: in pratica la collaborazione (spesso gratuita), da circa sei anni, di alcune centinaia di fisici e informatici che, ne hanno progressivamente sviluppato e testato il software «Fino a generare un sistema distribuito capace di elaborare mezzo milione di j obs al giorno, e senza problemi», stima Ian Bird, leader del progetto. E da maggio-giugno, quando P acceleratore diverrà pienamente operativo e i flussi di dati cominceranno a scorrere dal Cern verso i centri di primo livello (Tier-i) nazionali (in Italia l’Infn di Bologna), il sistema di scheduling andrà a regime (in buona parte basato sui computer di Brookhaven) e migliaia di jobs, di analisi richiederanno anche giornate di calcolo intensivo dentro i 140 centri della rete. Con il reinvio finale dei risultati, per lo storage, ai nodi principali della Grid. «È una rete concepita per un massiccio scambio di dati e per attività di calcolo intensive ma non costanti - spiega Barberis - è, in pratica un supercalcolatore distribuito e, insieme, più facile e rapido da usare, alla pari per tutti. Che si avvantaggia del fatto che, via fibre ottiche, oggi siamo in grado di scambiarci, a costi accessibili, anche migliaia di gigabit. C'è quindi ancora molto spazio per farla crescere, sia per le ricerche in fisica che in tanti altri campi della scienza». , giuseppe caravita ======================================================= ______________________________________________________ Italia Oggi 16 ott. ’08 MEDICI ALL'AVANGUARDIA: RISCHIO CLINICO E INGLESE MATERIE DEI CORSI DI LAUREA La conferenza dei presidi di facoltà aggiorna il percorso accademico PAGINA A CURA DI BENEDE7TA P PACELLi Corsi di laurea integrati, ambiti disciplinari sperimentali, una sforbiciata al numero degli esami accompagnata dall'accreditamento dei corsi. È il nuovo volto delle facoltà di medicina e chirurgia ridisegnato dalla Conferenza permanente dei presidenti di corso di laurea. Insomma, dal prossimo anno accademico 2008/2009 si cambia e anche le facoltà mediche subiranno alcuni aggiustamenti frutto della legge 270/04. Che, pur riguardando la ridefinizione dei percorsi del 3+2, e non le lauree a ciclo unico, ha rappresentato un'occasione per passare al vaglio anche le facoltà mediche. Uno il punto di partenza: inserire aspetti della medicina e della chirurgia finora trascurati, con uno sguardo rivolto al futuro e all'Europa. Ecco quindi che saranno inserite nuove discipline non considerate dalla legge 509/99: per evitare gli errori di diagnosi e di trattamento, per esempio, lo studio del rischio clinico sarà parte integrante dei corsi dell'ultimo triennio, mentre quello delle scienze umane (deontologia, bioetica) in tutti i sei anni. E poi sarà inserito in tutti gli anni di corso non il semplice insegnamento della lingua -straniera, ma lo studio dell'inglese scientifico. Al via poi nuovi ambiti disciplinari: dalla medicina delle attività motorie a quelle del benessere, ma anche la costituzione di un rapporto interattivo con la medicina del territorio e quella generale. La grande novità sarà, poi, quella di una maggiore integrazione tra gli insegnamenti che obbligherà la condivisione di corsi tenuti da docenti diversi e non limiterà più la visione parcellizzata della propria materia d'insegnamento. Un cambio di prospettiva che ha portato a una riduzione complessiva del numero degli esami che non potranno essere più di 36, con una conseguente integrazione tra le oltre 50 discipline. E poi ancora crediti blindati fino al numero di 338 (per medicina sono 360 in totale, 60 per anno), per rendere il più possibile omogenei i corsi tra le differenti sedi. Perché sommando i 240 crediti obbligatori ai 60 professionalizzanti, 38 relativi all'esame di stato, rimarranno solo 12 crediti ai fini integrativi per le singole sedi. Gli stessi presidenti di corso di laurea hanno poi puntato su un sistema di valutazione autogestito basato su un sistema di accreditamento dei corsi che ha come cardine un'indagine conoscitiva, gestita da esperti in valutazione esterni al mondo della sanità universitaria. Valutazione anche per tutti gli studenti che, dal primo al sesto anno, si sottoporranno annualmente in una stessa giornata a un test nazionale di valutazione (progress test), basato su quiz provenienti da una sola banca dati predisposta dalla conferenza permanente, su materie di base e cliniche, per valutare la progressione dell'apprendimento nei sei anni di corso. Insomma un restyling che, per Andrea Lenzi, coordinatore della conferenza permanente presidenti corso di laurea in medicina e chirurgia, era assolutamente necessario: «stiamo parlando di un corso che impiega sei anni per formare un medico e che, quindi, per forza di cose è socialmente costoso. Ecco perché l'università sta facendo il massimo sforzo affinché sia produttivo». ___________________________________________________________________ ItaliaOggi 14 Ott.’08 SANITÀ AL RESTYLING NUOVE LAUREE PER INFERMIERI E TECNICI All'esame del parlamento i decreti che cambiano le classi DI MARILISA BOMBI Al via la definizione delle nuove classi dei corsi di laurea per il personale sanitario e paramedico. Il governo, infatti, ha avviato l’iter della procedura prevista dalla legge 127 del 1997 per il nuovo ordinamento degli studi dei corsi di laurea delle professioni sanitarie infermieristiche e ostetrica, della riabilitazione, tecniche e della prevenzione e dei corsi di laurea magistrale delle professioni sanitarie. La fonte normativa assegna autonomia agli atenei ma questi devono intervenire in conformità ai criteri generali che vengono fissati con decreto dal ministro dell'università. I nuovi decreti sono adesso all'esame del Parlamento che dovrà pronunciarsi in tempi brevi, attraverso le commissioni competenti. Non ci dovrebbero essere problemi, tuttavia, perché i provvedimenti fanno proprie le risultanze dei tavoli tecnici composti dai presidenti delle conferenze dei presidi delle facoltà interessate oltre che dai presidenti degli ordini professionali e di quelli delle associazioni. Con l'approvazione delle nuove classi vanno definitivamente in archivio quelle varate soltanto nel 2001 e gli atenei, quindi, dovranno modificare i regolamenti didattici già con il prossimo anno accademico 2009/2010 ed entro quello successivo. Una grossa novità, prevista da entrambi i decreti, è rappresentata dall'obbligo di affidare almeno il 50% degli insegnamenti previsti a ricercatori o professori universitari, anche se, relativamente a quest'aspetto, il Consiglio superiore di sanità, nel parere reso, ha puntualizzato che, per altra norma, la titolarità dei corsi è assegnata a personale del ruolo sanitario dipendente dalle strutture presso le quali si svolge la formazione ovvero oltre che nelle università anche nelle aziende ospedaliere, in quelle ospedaliero-universitarie, negli istituti a carattere scientifico. Degno di nota è il fatto che il decreto pone degli obblighi alle università anche in relazione alla denominazione dei corsi di laurea. Questi, infatti, dovranno essere corrispondenti alle figure professionali anche se sarà possibile ridefinire la denominazione dei titoli finali in accordo con il ministro della salute. Il decreto, inoltre, prevede che dovranno essere i regolamenti didattici di ateneo a fissare il numero di crediti per ciascuna attività formativa che dovrà indicare il settore scientifico- disciplinare di riferimento. Gli ordinamenti didattici, inoltre, dovranno consentire agli studenti di svolgere anche attività formativa autonoma, purché questa sia coerente con il progetto formativo complessivo. Per la rilevante importanza delle attività pratiche nella formazione sanitaria dei paramedici è previsto che questa debba essere svolta sotto la supervisione e la guida di professionisti appositamente formati. Un’attività pratica e di tirocinio, poi, dovrà essere coordinata da un docente appartenente allo specifico profilo professionale e in possesso di laurea specialistica o magistrale della stessa classe. ______________________________________________________ La Repubblica Salute 16 ott. ’08 FINANZIAMENTO RICERCA MEDICA, SI CAMBIA Cambiano, seguendo criteri meritocratici, le procedure di finanziamento dei progetti di ricerca di tipo medico. «che per troppo tempo sono stati eterogenei e probabilmente non del tutto limpidi» dice Ferruccio Fazio, sottosegretario alla Salute. «D'accordo con il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini, abbiamo chiesto supporto tecnico al direttore del Center for Scientific Revew (CSR) del National Institute of Health (NIH) Antonio Scarpa, che ci ha indirizzato verso un progetto che riteniamo limpido e adeguato, impostato su criteri meritocratici e non clientelari». Il meccanismo prevede la costituzione di un gruppo di 3-4 esperti funzionari del ministero presumibilmente ex ricercatori (il Comitato unico di valutazione scientifica) con la supervisione di esperti internazionali «i quali faranno le proprie valutazioni in base a criteri puramente scientifici», ha spiegato Fazio. «Questo sistema giudica la scienza per la scienza», commenta Antonio Scarpa. «È già stato adottato da diverse nazioni rivelandosi molto efficiente perché così si paga la scienza e non il ricercatore». Il nuovo sistema sarà applicato con i primi fondi del 2009. Soddisfatto di questo primo passo il presidente del Consiglio Universitario Nazionale (Cun) Andrea Lenzi che ha avuto il compito di illustrare a Scarpa la situazione della ricerca biomedica in Italia. «Al momento la novità più importante riguarda la graduatoria unica dei progetti di ricerca, basata sulla loro qualità scientifica e senza tenere più conto dell'area specialistica o del tipo di istituzione da citi prox2ene». Questi ultimi due criteri sinora hanno fatto sì che, ad esempio. i finanziamenti da destinare alla cardiologia o all'università arrivassero indipendentemente dalla qualità e al valore delle ricerche. _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 ott. ’08 MEDICINE, OGNI SARDO SPENDE 226 EURO Rapporto Osmed: in totale le farmacie dell'isola incassano 364 milioni CAGLIARI. Sedici milioni di ricette per una spesa totale di 364 milioni di euro. Questi i numeri dell'assistenza farmaceutica in Sardegna, contenuti nel Rapporto Osmed del 2007, l'Osservatorio nazionale sull'impiego dei medicinali, presentato ieri pomeriggio a Cagliari. Per la prima volta il rapporto non è stato presentato a livello nazionale: si è scelto di andare in tutte le regioni, la Sardegna è stata la prima del tour. La spesa pro capite in Sardegna è ancora superiore alla media nazionale, ma in diminuzione: l'anno scorso mediamente si è speso 226 euro per abitante (215 euro la media nazionale), ma la spesa si è ridotta del 9 per cento, rispetto ad una media nazionale del 6 per cento. Un risultato che l'assessore regionale della Sanità - che ieri pomeriggio ha aperto i lavori del convegno «Analisi della prescrizione farmaceutica in Italia» - ha definito «enormemente positivo». «I dati dicono che in Sardegna si è speso meno, abbiamo consentito ai pazienti di consumare più farmaci ma spendendo di meno. Il nostro obiettivo è quello di migliorare la qualità dei servizi sanitari e ridurre la spesa dei cittadini. Non dobbiamo dimenticare - ha concluso l'assessore Dirindin - che in Sardegna la spesa per ticket è tra le più basse in Italia, 4 euro per abitante, contro una media nazionale di 9 euro». Dalla fotografia scattata dall'ottavo rapporto Osmed - frutto del lavoro svolto con l'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), l'Istituto Superiore di Sanità, Cevas e Simg (Società italiana medicina generale) - emerge che in Sardegna vi è stata una maggiore disponibilità di farmaci ma a costi inferiori, grazie all'uso di medicine col brevetto scaduto (i cosiddetti farmaci generici) in tutte le situazioni in cui erano disponibili. I risultati sono in buona parte riconducibili alla razionalizzazione del consumo dei farmaci dell'apparato gastroenterico, in particolare degli antiulcera, per i quali la Regione ha adottato specifici provvedimenti di promozione dell'utilizzo dei farmaci generici. Il miglioramento dell'assistenza farmaceutica si osserva anche nell'uso di farmaci per l'apparato cardiovascolare, il cui consumo è aumentato del 5,9 per cento. Il rapporto Osmed è stato illustrato da Roberto Raschietti dell'Istituto Superiore della Sanità. Ai lavori hanno preso parte anche Sergio del Giacco, coordinatore della Commissione per il Prontuario terapeutico regionale, Anna Maria Marata, direttore Area farmaci del Cevas e Nicola Vanacore del Centro di Epidemiologia e promozione della salute. Questo tipo di analisi aiuta nel percorrere la strada dell'appropriatezza delle prescrizioni. Ancora molto probabilmente può essere fatto per contenere la spesa sui farmaci grazie a una maggiore attenzione nella puntualità della prescrizione. A margine dell'incontro è stata sottolineata la necessità di aumentare l'apporto di dati da parte dei medici di medicina generale: la Sardegna, come anche la Sicilia, ancora non ha un flusso continuo di dati dai principali prescrittori di farmaci, vale a dire i medici di base. Il rapporto della Regione con la Simg è cominciato da pochi anni e bisogna completare la rete informatica, vero canale di trasferimenti dei dati dell'attività di tutte le strutture sanitarie. _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 ott. ’08 FARMACI, UNITI SI RISPARMIA SARDEGNA/ Via libera alla gara per l'unione di acquisto dei medicinali - Sei le Asl coinvolte Il taglio dei costi previsto è di 6 milioni di euro nell'arco della fornitura Le Aziende sanitarie dell'Area Nord della Sardegna ridurranno l'importo della spesa farmaceutica di 6 milioni di euro. Un risparmio possibile grazie all'unione d'acquisto per i farmaci. La Regione Sardegna ha infatti da poco approvato la delibera dell'Azienda sanitaria locale di Sassari sulla gara per la fornitura di medicinali ed emoderivati in unione d'acquisto. Un risultato importante dato che è la prima volta che un numero elevato di Aziende in Sardegna si convenziona in un'unione d'acquisto per la fornitura di farmaci. L'unione tra le sei Aziende sanitarie coinvolte - Sassari, Olbia, Nuoro, Oristano e Lanusei e l'Azienda ospedaliero universitaria di Sassari che assieme formano l'Area Nord Sardegna - è finalizzata appunto a ridurre i costi della spesa farmaceutica per ognuna delle aziende ed è nata con la delibera regionale 37/10, approvata il 25 settembre del 2007. La deliberazione ha previsto la costituzione di due macroaree: oltre a quella dell'Area Nord che vede l'Asl di Sassari 1 nella veste di capofila, l'altra unione fa capo all'Asl 8 di Cagliari e comprende anche l'Ao Brotzu, l'Azienda ospedaliera universitaria di Cagliari, l'Asl 6 di Sanluri e l'Asl 7 di Carbonia. Per l'Area Nord dunque la spesa complessiva annua prevista è di circa 70 milioni di euro, con un risparmio che nell'arco dell'intera fornitura dovrebbe raggiungere circa 6 milioni. Per l'Azienda sanitaria locale e l'Azienda ospedaliero universitaria di Sassari il risparmio annuo previsto, per i 3 anni di durata della fornitura dei farmaci, è di circa un milione di euro. La gara d'appalto era stata bandita all'inizio di quest'anno, ed è stata pubblicata su quotidiani e siti web oltre che sulla Guce (Gazzetta Ufficiale della Comunità europea), sulla Guri (Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana) e sulla Gazzetta aste e appalti. L'Asl di Sassari, dopo aver curato la predisposizione del capitolato d'appalto e aver condiviso le linee generali con le direzioni dei Servizi farmaceutici e Servizi acquisti delle singole aziende, si è occupata dell'intera procedura di gara e delle verifiche di legge. Ogni singola azienda convenzionata invece si occuperà di adottare il provvedimento di recepimento dell'esito e tutte le pratiche connesse. Il fabbisogno complessivo dei farmaci è stato stabilito dalla sommatoria delle singole necessità delle Asl, che hanno indicato i farmaci previsti nel Prontuario terapeutico regionale e che vengono utilizzati negli ospedali, nei poliambulatori territoriali, nell'assistenza domiciliare e che vengono erogati ai pazienti in dimissione. G.D.Ma. _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 ott. ’08 SANITA: ECCO L'AGENDA DELL'EUROPA Il Commissario Ue alla Salute Vassiliou ha presentato le prossime iniziative di Bruxelles Presto un Libro verde sul personale sanitario e una direttiva sui trapianti Potenziare donazioni e trapianti, costruire una rete per le malattie rare e migliorare la sicurezza dei malati in ospedale. Sono tre degli 11 punti della campagna «L'Europa per i pazienti», presentata dal Commissario europeo alla Salute, Androulla Vassiliou . Un programma ambizioso basato su una serie di iniziative in materia di assistenza sanitaria che la Commissione lancerà nei prossimi 6-9 mesi. Con un obiettivo comune: garantire un'assistenza sanitaria migliore per tutti i cittadini del Vecchio Continente. Ecco in dettaglio le misure che saranno proposte dalla Commissione di Bruxelles e che faranno seguito alla proposta di direttiva sulle cure all'estero approvata a luglio. Malattie rare: l'obiettivo è stabilire una strategia comunitaria per aiutare gli Stati membri a garantire in modo efficace ed efficiente riconoscimento, prevenzione, diagnosi, trattamento, assistenza e ricerca in tema di malattie rare. Di questo punto si occuperà una raccomandazione del Consiglio durante la presidenza ceca. Personale sanitario: senza una forza lavoro in possesso di capacità e qualifiche sufficienti non è possibile migliorare la salute e consentire un migliore accesso di tutti alle cure. Per questo verrà presentato un Libro verde sui problemi di ordine generale che riguardano il personale sanitario, che suggerisce i modi per affrontarli e solleva una serie di questioni su cui i cittadini sono invitati a esprimersi. Sicurezza dei pazienti: la Commissione presenterà una comunicazione e una proposta di raccomandazione del Consiglio sulla sicurezza dei pazienti e la qualità dei servizi sanitari per affrontare i problemi connessi e introdurre provvedimenti specifici per la prevenzione e il controllo delle infezioni ospedaliere. Donazione e trapianto d'organi: in tutta Europa c'è penuria di organi per i trapianti. Per ovviare al problema, la Commissione intende proporre provvedimenti e princìpi fondamentali di sicurezza e qualità e un piano con 10 azioni prioritarie, con un meccanismo volto a rafforzare il coordinamento fra gli Stati membri. Piattaforma contro il cancro: la Commissione intende sostenere le politiche anticancro degli Stati membri, stabilendo un quadro per l'individuazione e lo scambio di informazioni, competenze e qualifiche sulla prevenzione e il controllo dei tumori, e coinvolgendo tutte le parti interessate. Screening dei tumori: la Commissione sarà invitata a riferire sull'attuazione dei programmi di screening dei tumori, per verificare in che misura funzionino i provvedimenti proposti ed eventualmente valutare ulteriori interventi. Vaccino antinfluenzale: l'attuale capacità di produzione di vaccini contro l'influenza non è giudicata sufficiente in caso di pandemia, per cui la Commissione Ue ha l'obiettivo di aumentare l'uso del vaccino contro l'influenza stagionale, «stimolando così un aumento delle capacità produttive». Uso prudente degli antibiotici: occorre promuovere l'uso responsabile degli agenti antibiotici, anche per evitare lo sviluppo delle resistenze. Allo scopo è stata annunciata la seconda relazione della Commissione sull'attuazione della raccomandazione del Consiglio in questo senso. Inoltre il 18 novembre si terrà la prima Giornata europea di informazione sugli antibiotici, gestita dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, che si trasformerà in un evento annuale. Salute mentale: al patto per salute mentale sottoscritto a giugno, seguirà una serie di conferenze tematiche incentrate sulle priorità del patto, nonché diverse azioni volte a sottolineare il valore aggiunto europeo nel settore. Vaccinazioni infantili: l'iniziativa punta a stabilire un calendario d'immunizzazione che consenta di passare agevolmente da un programma nazionale all'altro e intende stimolare un impegno politico concreto da parte degli Stati, chiamati a intensificare gli sforzi per aumentare e mantenere un'elevata copertura nella vaccinazione dei bambini contro le malattie prioritarie. G.D.Ma. Le iniziative della Commissione Iniziativa Area di intervento Assistenza sanitaria transfrontaliera Direttiva sulle cure all'estero (adottata il 2 luglio 2008) Malattie rare Comunicazione della Commissione e Raccomandazione del Consiglio in materia di una Azione europea nel campo delle Malattie rare Personale sanitario Libro verde sul personale sanitario europeo Sicurezza dei pazienti Comunicazione della Commissione e Raccomandazione del Consiglio sulla sicurezza dei pazienti e la qualità dei servizi sanitari Donazione e trapianto d'organi Proposta per una Direttiva sulla definizione di standard di qualità e sicurezza di organi umani; Piano d'azione su donazione e trapianto di organi 2009-2015 Piattaforma europea contro il cancro Azione comunitaria contro il cancro: una Piattaforma europea Screening del cancro Rapporto sullo stato di implementazione della Raccomandazione sullo screening del cancro del 2003 Vaccinazioni influenzali Proposta della Commissione per una Raccomandazione del Consiglio sulla vaccinazione per le influenze stagionali Uso prudente degli antibiotici 2 Rapporto della Commissione sull'implementazione della Raccomandazione del Consiglio 2002/77; Istituzione dello European antibiotic awareness day Salute mentale Conferenze sulle aree di priorità definite dal Patto sulla salute mentale Vaccinazioni infantili Raccomandazione del Consiglio sulle implicazioni transfrontaliere delle azioni di immunizzazione infantile _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 ott. ’08 SDO 2007/ PATOLOGIE CARDIOVASCOLARI E GRAVIDANZE SONO GLI INTERVENTI PIÙ FREQUENTI Cuore e parti sempre al top Boom di cesarei al 39% - Al momento delle dimissioni a casa l'89% dei pazienti Migliora l'appropriatezza dei ricoveri secondo l'analisi del ministero sulle Sdo 2007, tranne che per i parti cesarei la cui percentuale lo scorso anno (39,3%) è sempre troppo elevata rispetto agli standard e non accenna a diminuire. Le patologie cardiovascolari restano la prima causa di ricovero, mentre compare per la prima volta nel rapporto preliminare la destinazione dei pazienti al momento della dimissione. D ei circa 7,9 milioni di ricoverati in regime ordinario del 2007, poco più di 7 al momento della dimissione sono tornati a casa in dimissione ordinaria senza bisogno di interventi ulteriori: l'89,3%, con il massimo del 91,2% in Calabria e il minimo dell'83,3% a Trento. Ma per l'1,8% le cure continuano. Tra le cause di dimissione, la più frequente è quella volontaria, di chi cioè ha "firmato" per l'uscita: circa 283mila casi (3,6% dei ricoveri per acuti in regime ordinario). Il massimo per questa voce è in Campania (12,1%), il minimo in Friuli (0,6%). Segue il trasferimento in un altro istituto per acuti in 134mila casi (1,7%). Il picco massimo è a Trento (3,8%), il minimo in Puglia (1%). Al terzo posto (74.442 ricoveri, lo 0,9%) sono i trasferimenti in un istituto di riabilitazione (il massimo è il 3,5% a Bolzano, il minimo lo 0,1% di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sardegna) e al quarto (68.699 ricoveri, ancora lo 0,9% del totale) ci sono i trasferimenti in un altro regime di ricovero o in un'altra specialità, sempre nella stessa struttura (picco massimo il 2,7% dell'Abruzzo, minimo lo 0% della Calabria). Per 42.397 ricoverati (0,5%) invece c'è stato il passaggio in una Rsa (massimo 3,7% in Valle d'Aosta, minimo 0% in Molise, Campania e Calabria) e per 17.981 (0,2%) è scattata l'ospedalizzazione domiciliare, con il massimo in Basilicata (1,5%) e nessun caso in Lombardia, Molise e Calabria. Per circa 13mila ricoverati (0,2%) infine, è stata attivata l'assistenza domiciliare integrata (il massimo è a Trento: 0,5%, il minimo con lo 0% in Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna). Il 2,6% dei ricoverati in regime ordinario per acuti è invece deceduto (206.609 pazienti) con percentuali più elevate nelle Regioni più "vecchie" (il 4,7% in Liguria e il 4,9% in Friuli) e più basse in quelle più giovani (1,2% in Campania e Sicilia). Tra le cause di ricovero (Mdc, Major diagnostic category) la più frequente nei ricoveri per acuti è rappresentata dalle malattie dell'apparato cardiocircolatorio (14,7%), seguite dalle malattie del sistema muscolo-scheletrico e del tessuto connettivo (12,1%), mentre meno frequenti sono i ricoveri per ustioni e traumatismi multipli "rilevanti": 0,1% dei casi. In day hospital invece il primo posto spetta alle malattie del sistema muscolo-scheletrico e del tessuto connettivo (10,9%) e alle neoplasie scarsamente differenziate (10,2%). Nessun ricovero per ustioni e traumatismi. A livello di singolo Drg, il primato spetta tra i ricoveri per acuti al parto naturale (4,1%), seguito dal cesareo (2,5%) e dall'insufficienza cardiaca (2,5%). In day hospital, invece, il primato è della «chemioterapia non associata a diagnosi secondaria di leucemia acuta» (6,6%), seguita dagli «interventi sul cristallino con o senza vitrectomia» (la cataratta, 6,2%) e dall'«aborto con dilatazione e raschiamento, mediante aspirazione o isterotomia» (4,2%). L'appropriatezza. Secondo l'analisi del ministero, i tassi di ospedalizzazione per asma, diabete e scompenso cardiaco sono utili per valutare l'inefficacia dell'assistenza primaria e dell'assistenza specialistica territoriale. E nel 2007 si evidenzia un segnale positivo di miglioramento nei tassi di ospedalizzazione che si riducono passando da 99 a 92 per 100mila abitanti per il diabete, da 37 a 33 per l'asma e da 329 a 325 per lo scompenso cardiaco. Resta invece elevatissima l'incidenza di parti cesarei che continuano ad aumentare «nonostante i ripetuti e significativi interventi messi in atto dalle Regioni». La percentuale 2007 è del 39,3% con i valori massimi in Campania (61,8), Sicilia (52,9), Molise (52) e Puglia (50,6). Le dimissioni da Drg chirurgico raggiungono il 40,6%, e sono in lieve aumento rispetto al 2006 precedente (erano 40,2% e 38,9% nel 2005). I ricoveri chirurgici in day surgery sono il 35,2% mentre l'anno prima erano il 36,1%, probabile effetto, secondo il ministero, dello spostamento a livello ambulatoriale di alcune prestazioni chirurgiche e anche conseguenza delle stime per i semestri mancanti delle Regioni inadempienti. L'efficienza. Il calcolo per i ricoveri per acuti in regime ordinario il ministero lo fa sulla degenza media in generale e su quella pre-operatoria in particolare. Quella standard è in linea con gli anni precedenti: 6,72 giornate con differenze regionali che vanno dal minimo di 6,23 giorni in Sicilia (standardizzata) e il massimo in Veneto con 7,63 giorni. La degenza media pre- operatoria, indice di efficienza organizzativa, rimane a 2 giorni. I valori più alti sono nel Lazio (2,74 giorni). Le Regioni del CentroNord sono tutte al di sotto della media (tranne, appunto, Liguria e Lazio), mentre nel Sud al contrario sono tutte al di sopra della media (tranne l'Abruzzo con 1,80). Al secondo posto dopo il Lazio la degenza media pre-operatoria più alta si registra in Molise (2,49) i cui dati sono tuttavia stimati sulla base di quelli del primo semestre dell'anno. Tra quelle che hanno comunicato tutti i dati 2007 invece, la più alta dopo il Lazio è la Basilicata (2,46) seguita dalla Liguria (2,42). I valori più bassi, invece, sono nelle Marche (1,42) e in Friuli (1,48), ma in entrambi i casi i valori sono stimati sulla base dei dati del primo semestre 2007 in quanto quelli del secondo al momento dell'analisi non erano stati ancora comunicati. E i più bassi delle Regioni che hanno completato la rilevazione sono 1,59 giorni a Bolzano, 1,65 in Valle d'Aosta e 1,67 in Emilia Romagna. Le cause di ricovero in regime ordinario (2007) A D CUTI AY HOSPITAL Malattie e disturbi dell'occhio Malattie e disturbi del sistema nervoso Mdc (versione 19.0 del sistema Drg) N. casi % N. casi % 574.548 7,5 147.611 4,2 142.152 1,9 338.722 9,7 Malattie e disturbi dell'orecchio, del naso, della bocca e della gola 303.721 4,0 198.367 5,7 Malattie e disturbi dell'apparato respiratorio 572.853 7,5 74.319 2,1 Malattie e disturbi dell'apparato cardiocircolatorio 1.126.199 14,7 251.811 7,2 Malattie e disturbi dell'apparato digerente 748.799 9,8 254.892 7,3 Malattie e disturbi epatobiliari e del pancreas 335.563 4,4 88.721 2,5 Malattie e disturbi del sistema muscolo-scheletrico e del tessuto connettivo 924.895 12,1 379.312 10,9 Malattie e disturbi della pelle, del tessuto sotto-cutaneo e della mammella 247.802 3,2 274.321 7,9 Malattie e disturbi endocrini, metabolici e nutrizionali 193.036 2,5 171.477 4,9 Malattie e disturbi del rene e delle vie urinarie 374.403 4,9 149.804 4,3 Malattie e disturbi dell'apparato riproduttivo maschile 136.600 1,8 98.092 2,8 Malattie e disturbi dell'apparato riproduttivo femminile 243.938 3,2 204.936 5,9 Gravidanza, parto e puerperio 734.284 9,6 185.328 5,3 Malattie e disturbi del periodo neonatale 135.797 1,8 4.289 0,1 Malattie e disturbi del sangue, degli organi emopoietici e del sistema immunitario 78.072 1,0 78.739 2,3 Malattie e disturbi mieloproliferativi e neoplasie scarsamente differenziate 240.850 3,2 356.146 10,2 Malattie infettive e parassitarie (sistemiche o di sedi non specificate) 90.387 1,2 14.673 0,4 Malattie e disturbi mentali 173.694 2,3 57.953 1,7 Abuso di alcol/droghe e disturbi mentali organici indotti 20.923 0,3 1.886 0,1 Traumatismi, avvelenamenti ed effetti tossici dei farmaci 73.775 1,0 20.681 0,6 Ustioni 5.672 0,1 726 0,0 Fattori che influenzano lo stato di salute e il ricorso ai servizi sanitari 99.024 1,3 113.793 3,3 Traumatismi multipli rilevanti 10.034 0,1 7 0,0 Infezioni da Hiv 11.981 0,2 20.483 0,6 Altri Drg (*) 46.409 0,6 6.216 0,2 Totale generale 7.645.411 100 3.493.305 100 (*) Comprensivi dei pre Mdc. Nota: distribuzione calcolata sui soli dati pervenuti (manca il secondo semestre di Pa di Trento, Friuli V.G., Marche e Molise). Modalità di dimissione: ricovero per acuti in regime ordinario (2007)Regione Totale dimessi Deceduto Dimissione ordinaria a domicilio Dimissione ordinaria presso Rsa Dimissione volontaria Dimissione protetta a domicilio con ospedalizz. domiciliare Trasferimento ad altro istituto per acuti Trasferimento altro regime di ricovero o altro tipo di attività stesso Istituto _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 ott. ’08 RICOVERI 2007 IN CALO: -4,2% SDO 2007/ Il ministero della Salute pubblica l'analisi preliminare dell'attività ospedaliera Day hospital, calo più sostenuto: -7% sul 2006 - Meno degenze ogni mille abitanti Calano i ricoveri nel 2007 rispetto al 2006: -4,2%. E non solo quelli per acuti, che da anni sono nel mirino della razionalizzazione della rete ospedaliera, ma anche i ricoveri in day hospital. Il dato è quello rilevato con le Schede di dimissione ospedaliera 2007, appena pubblicate dal ministero della Salute che ne fa un'analisi preliminare da cui risultano 12.319.301 ricoveri in ospedale, in calo appunto del 4,2% rispetto al 2006 (circa 540mila in meno). Poco più di 76 milioni e mezzo le giornate di degenza, anch'esse ridotte dell'1,8% nel 2007 rispetto all'anno precedente. E tra pubblico e privato nel 2007 rispetto al 2005 (i dati scorporati per il 2006 non sono ancora disponibili) a diminuire di più sono i ricoveri privati che si riducono del -6,5% contro il -4,6% di quelli pubblici facendo registrare nel 2007 rispetto sempre al 2005 un calo del 5% circa. Il ministero tuttavia, nel suo rapporto lamenta anche un disallineamento tra i dati e i codici relativi e precisa che si dovrà attendere la messa a punto delle rilevazioni per il dato definitivo quando tutte le Regioni avranno comunicato i dati relativi al secondo semestre. Fatto sta che la riduzione del numero dei ricoveri complessivi investe tutte le tipologie di attività: acuti, riabilitazione e lungodegenza, regime ordinario e diurno. A differenza degli anni precedenti, il day hospital si ridurrebbe in misura più incisiva, anche se secondo il ministero la stima di una riduzione di oltre il 7% «è sicuramente sovrastimata» per effetto dei dati mancanti di alcune Regioni relativi al secondo semestre dello scorso anno. I ricoveri per acuti in regime ordinario rilevati si attestano su 7.873.578, -3,1% rispetto al 2006, quelli in day hospital sempre in regime ordinario sono 3.568.418, -7,2% sull'anno precedente, i ricoveri di riabilitazione in regime ordinario sono 297.819, -0,9% e quelli in day hospital 66.215, -7,7%, i ricoveri per lungodegenza sono 100.625, -2,8% rispetto al 2006, e quelli per i neonati 412.646, unici in aumento rispetto all'anno precedente, anche se solo dello 0,5 per cento. In totale, quindi, 12.319.301 ricoveri, il -4,2% sul 2006. Il tasso di ospedalizzazione del 2007 può essere stimato complessivamente (acuti, riabilitazione e lungodegenza, ordinario e day hospital) a 199 per 1.000 abitanti, in discreta diminuzione rispetto al 211 per 1.000 del 2006 e al 213 del 2005. La riduzione più evidente si registra nel tasso per acuti che passa da 138 per 1.000 abitanti del 2006 a 131 per il ricovero ordinario del 2007 e da 65 a 60 per 1.000 per il ricovero diurno. Tutte le Regioni del Centro-Sud e in particolare quelle con i Piani di rientro hanno tassi di ospedalizzazione per acuti superiori o prossimi al 200 per 1.000 abitanti. Per queste, a eccezione del Molise, il ministero sottolinea che sono comunque già registrabili «consistenti margini di miglioramento che portano a evidenziare un avvio del processo di deospedalizzazione». P.D.B. Indice di completezza e qualità della rilevazione - Confronto anni dal 1998 al 2005 _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 ott. ’08 BRACCIO DI FERRO TRA ENTI E ASL SUI COSTI DELLE VISITE FISCALI Anti-assenteismo. Pa in ordine sparso sui rimborsi Francesco Machina Grifeo Con l'allargamento delle fasce di reperibilità e l'obbligo di visita fiscale anche solo per un giorno di malattia (comma 3, articolo 71 del Dl 112/2008), si è scatenata la caccia al dipendente assenteista. Dietro il giro di vite sulle certificazioni fasulle si cela, però, l'incognita legata alla crescita dei costi legati ai controlli. Se la Funzione pubblica risponde che a livello di sistema il saldo sarà positivo grazie all'aumento della produttività e ai tagli degli stipendi degli assenti, rimane aperta la questione su chi dovrà accollarsi le spese per i nuovi accertamenti. L'Inps, nel fissare a 6 il numero di visite massime giornaliere per ogni medico (circolare n. 86/2008), ha già lanciato l'allarme sull'inadeguatezza del personale, indicando la strada dell'integrazione delle liste. La questione ora rischia di riesplodere. All'origine c'è la collocazione delle risorse all'interno del Fondo sanitario nazionale a copertura dei Lea. Una definizione contestata da diverse Asl per il fatto che le visite hanno una funzione ispettiva e non curativa. Da qui la sollecitazione alle amministrazioni richiedenti di rimborsarle. Ciò ha determinato una situazione sul territorio non uniforme. L'Economia, per esempio, nella nota prot. 69143 del 2001, ripresa dall'Aran, ha ribadito che le visite rientrano fra le competenze istituzionali delle Asl e non vanno rimborsate dalle Pa (legge 833/1978). Le Regioni però si sono mosse autonomamente e in linea di massima richiedono alle Asl di farsi ristorare integralmente, mentre i ministeri sono da sempre restii. Per cui alcuni enti locali hanno fatto un passo indietro e non hanno disposto i controlli dovuti motivando con la scappatoia, prevista dalla norma, del rispetto delle «esigenze funzionali e organizzative», in modo da non accollarsi nuovi oneri. Su questo quadro si innesta la sentenza della Cassazione, Sezione civile, n. 13992/2008, che ha condannato un Istituto tecnico a risarcire l'Asl per le visite effettuate. I giudici hanno riconosciuto che l'attività di controllo medico-legale rientra fra le competenze istituzionali delle Usl in ragione della legge 833/1978, aggiungendo però che «da una tale competenza non può discendere automaticamente il principio della gratuità della prestazione in esame». Anzi, dall'articolo 69, lettera e), della legge si desume l'esistenza anche di prestazioni a pagamento da parte del Ssn; essendo totalmente gratuite soltanto quelle a garanzia della salute di tutti i cittadini. In conclusione la Corte ha osservato che la visita fiscale, piuttosto che tutelare il diritto alla salute del dipendente, serve al datore di lavoro. Del resto l'attività del medico durante le visite è volta all'accertamento delle ragioni di assenza e non alla cura del soggetto. Dunque, per la Suprema Corte, che si richiama a una decisione del Consiglio di Stato 1907/1998, gli oneri devono essere oggetto di un accordo in conferenza Stato-regioni. Insomma: urge una soluzione politica. _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 ott. ’08 COME SI "APPALTA" L'INFERMIERE CONSIGLIO DI STATO/ I requisiti della gara determinanti nella prestazione dei servizi Un'agenzia di lavoro interinale esclusa perché priva di polizza assicurativa I mpegni da assolvere post aggiudicazione La presenza di una polizza assicurativa sulla responsabilità civile per danni a terzi non può essere richiesta per l'ammissione a una gara pubblica, ma solo succe ssivamente in sede di prestazione del servizio. È quanto si deduce dal Consiglio di Stato, decisione n. 4283 , V sezione 8 settembre 2008, che ha accolto in appello il ricorso di un'impresa contro la pronuncia del Tar Latina n. 137/2007. La sentenza è particolarmente rilevante per le Asl, Ao e Irccs del Ssn che fanno ricorso sempre più spesso alle agenzie per il lavoro somministrato, in special modo per gli infermieri. Il Tar Latina aveva dato torto a un'agenzia per il lavoro che si era vista escludere dalla partecipazione a un pubblico incanto in cui la Pa appaltante aveva aggiudicato ad altra società l'affidamento della somministrazione di lavoro a tempo determinato. Sia il bando di gara con riferimento alle condizioni minime di carattere economico e tecnico da dimostrare sia il capitolato speciale d'appalto prevedeva tra i requisiti di partecipazione, a pena di esclusione, un'assicurazione di responsabilità civile per la copertura dei danni provocati a terzi dai lavoratori somministrati nell'esercizio delle loro mansioni, per evitare che in mancanza di assicurazione ne risponda l'utilizzatore (art. 26 del Dlgs 276/2003). La società ricorrente non aveva prodotto alcuna polizza assicurativa, ma solo una dichiarazione di impegno a presentare la polizza assicurativa successivamente in caso di aggiudicazione della gara. Il Consiglio di Stato ha, invece, accolto il ricorso della società perché la copertura assicurativa è rilevante solo per gli eventuali danni prodotti a terzi durante la prestazione del servizio, per cui l'interesse dell'amministrazione è oggettivamente riferibile alla fase successiva all'individuazione del contraente, e non al momento della presentazione dell'offerta. A nulla è valsa la difesa della Pa appaltante, che ha evidenziato che l'agenzia ricorrente non aveva prodotto la polizza assicurativa espressamente richiesta a pena di esclusione dal capitolato e perciò era stata legittimamente esclusa dalla gara. Non è stata condivisa dal Consiglio di Stato l'affermazione che lo scopo della disposizione era quello di consentire la verifica dell'affidabilità del concorrente. Ne deriva che, correttamente, l'agenzia ricorrente aveva considerato la previsione del possesso della polizza assicurativa quale requisito comprovante la possibilità di poter stipulare tale contratto dopo l'aggiudicazione dell'appalto. Chiedere la stipula di una polizza assicurativa già in fase di partecipazione alla gara, avrebbe significato prevedere un requisito di ammissione non pertinente e non proporzionale all'oggetto della gara, violando il principio base delle gare pubbliche di appalto secondo cui occorre garantire la massima partecipazione e la massima concorrenza. Appare irrazionale e inutilmente vessatorio pretendere l'accertamento assicurativo come requisito di partecipazione alla gara, per dimostrare una determinata capacità economica dell'offerente, trattandosi di un rischio connesso solo al momento dello svolgimento del servizio, e perciò da richiedere solo a seguito dell'aggiudicazione della gara. Il Consiglio di Stato è andato oltre, affermando che è legittimo ammettere una certa discrezionalità della stazione appaltante nel fissare i requisiti di partecipazione alla singola gara, in modo più rigoroso e anche in numero superiore rispetto a quelli minimi previsti dalla legge, ma è pur vero che alla fine la relativa scelta poi può essere sindacata dal giudice amministrativo quando è palesemente irragionevole o contraddittoria, come nel caso in questione. Pier Paolo Balzamo _______________________________________________________________ Marketpress 16 ott. ’08 SARDEGNA: NUOVI LEA, SODDISFAZIONE DELL´ASSESSORE DIRINDIN PER LO STOP AI TAGLI PREVISTI DAL GOVERNO Cagliari, 16 Ottobre 2008 - "Siamo riusciti a bloccare il taglio dei livelli essenziali di assistenza da parte del Governo ed ora ci aspettiamo un confronto vero sull´assistenza e sull´appropriatezza". Lo ha affermato l´ assessore regionale alla Sanità, Nerina Dirindin, all´indomani dell´incontro con i sottosegretari Fazio e Martini per discutere la proposta del Governo sulla riorganizzazione dei Lea (livelli essenziali di assistenza). "D´accordo con le altre Regioni, e prescindendo dal colore politico delle diverse Giunte, - ha detto ancora l´ assessore - abbiamo chiesto un reale coinvolgimento nella riorganizzazione della sanità nazionale e non un mero taglio di prestazioni (per esempio le analisi di laboratorio o la diagnostica per immagine), come quello proposto dal Ministro Sacconi. Qualunque intervento sui Lea dovrà essere fatto dopo un serio e accurato monitoraggio e per questo le Regioni hanno ottenuto la costituzione di un tavolo tecnico comune. Non permetteremo - ha concluso l´assessore - che, nel nome di una fasulla appropriatezza, vengano penalizzati i pazienti, a cominciare da quelli sardi". . _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 ott. ’08 FAVISMO, SARDI TRADITI DA UN GENE Sono circa trecentomila nell'Isola le persone colpite dall'anomalia di un enzima che può scatenare crisi Ma chi ne soffre è immunizzato dalla malaria Sono circa 300 mila i sardi fabici, che, a causa della carenza di un enzima, possono andare in crisi. di LUCIO SALIS Fa parte della grande famiglia delle intolleranze alimentari. Si chiama favismo e si manifesta in seguito alla ingestione di fave e di alcuni farmaci particolari. Con sintomi come febbre, vomito, nausea, senso di stanchezza, urine scure, ittero, respiro frequente, polso debole. «Il favismo - spiega il professor Antonio Cao, direttore dell'Istituto di neurogenetica e neurofarmacologia del Cnr di Cagliari - nasce dal difetto congenito di un enzima: G6PD (glucosio-6-fosfato deidrogenasi). Che è presente in tutte le cellule del corpo umano, nelle quali può (in parte) mancare senza creare problemi. I guai si manifestano quando è carente nel sangue. Perché può provocare la cosiddetta emolisi, cioè la distruzione dei globuli rossi e quindi uno stato, più o meno grave, di anemia». La crisi si manifesta soltanto quando si mangiano fave o si prendono farmaci ossidanti, come alcuni composti antimalarici. Unico rimedio, nei casi gravi, la trasfusione di sangue. All'origine del favismo c'è un'anomalia genetica del cromosoma X, attraverso il quale si trasmette ai maschi, nei quali si manifesta nelle forme più gravi, e alle femmine, colpite in modo più lieve. Si sa di certo che il fattore scatenante delle crisi sono le fave e i farmaci antimalarici. Ma il rapporto fra la carenza dell'enzima e il verificarsi delle crisi emolitiche non è automatico. Ci sono fabici che mangiano fave per tutta la vita e non entrano mai in crisi; altri ai quali basta gustarne una sola per mettersi nei guai, e altri ancora che magari hanno soltanto una crisi in tutta l'esistenza pur senza rinunciare alle fave. Oltre che con i sintomi già citati, il favismo si presenta, a 12 o 48 ore dall'ingestione di fave fresche, con una forte anemia: in pratica, si ha una quasi completa distruzione dei globuli rossi, che calano da quota 5 milioni a 700-800 mila. Nei casi più lievi, il paziente si riprende nel giro di cinque o sei giorni, in quelli più gravi deve ricorrere a trasfusioni di sangue per ristabilire il giusto equilibrio. Il favismo, diffuso in diversi continenti del mondo, si differenzia in circa 300 varianti. Nel tipo che colpisce le popolazioni mediterranee l'attività dell'enzima è inferiore al 5 per cento del valore normale; nella variante diffusa in Africa, invece, è compresa fra il 5 e il 15 per cento. Valori elevati si registrano anche in alcune zone dell'Asia meridionale. Come accade per altre malattie di origine genetica, (ad esempio la talassemia) il favismo è particolarmente diffuso nell'Isola. Si calcola che siano circa 300 mila i sardi colpiti da questa anomalia: il 16,4 per cento dei maschi e il 20,6 per cento delle femmine. Gli studi del professor Cao hanno accertato un rapporto fra favismo, talassemia e malaria. Nel senso che fabici e talassemici non vengono colpiti dalla malaria. «Sopravvivono meglio agli assalti del plasmodium falciparum, il parassita che provoca la malattia - precisa il professore - ma non sappiamo da cosa derivi questa condizione di privilegio in ambiente malarico». Ultimamente, si sta dando molto credito a una presunta relazione fra il favismo e l'esistenza di numerosi centenari in Sardegna. Uno studio dell'Università di Sassari ha rilevato che molti ultracentenari presentano il deficit da G6PD. Si sospetta quindi l'esistenza di un gene della longevità che interagisce col favismo. Altra credenza piuttosto diffusa è quella che individua nei campi coltivati a fave una possibile causa di crisi emolitica. Credenza che il professor Cao liquida come «una sciocchezza. Perché il favismo è causato da due sostanze presenti nelle fave, la vicicina e l'isouramile, che non sono assolutamente volatili. Eppure, a causa di questa sciocchezza, in alcuni paesi è stata vietata la coltivazione di fave nei pressi dell'abitato» _______________________________________________________________ Corriere della Sera 15 ott. ’08 GRATIS O TICKET, I DIVERSI REGIMI DELLE REGIONI Sanità Confermata la necessità di un piano nazionale uniforme La devolution delle vaccinazioni Edoardo Stucchi Il federalismo sanitario coinvolge anche il settore delle vaccinazioni e i propositi di uniformare l'offerta si trascinano di anno in anno. Accanto ai nove vaccini (4 obbligatoli: poliomielite, difterite,tetano, epatite B - e 5 raccomandati: pertosse, Haemophilus, morbillo, rosolia e parotite) inclusi nei Livelli essenziali di assistenza (LEA), il Servizio pubblico prevedeva già nel 2005 anche l'offerta dei vaccini antipneumococco, antimeningococco C a tutti i bambini (e antivaricella agli adolescenti che non avevano ancora avuto la malattia ed ad alcune categorie specifiche), lasciando però alle Regioni il compito di stabilire norme e regole di distribuzione, n risultato è un'Italia divisa: ogni Regioni ha una sua linea di condotta, (vedi grafico sopra). Nel 2007, poi, una disposizione ministeriale ha sottolineato l'importanza della vaccinazione contro il cancro dell'utero (HPV), da riservare alle dodicenni. Problemi di costi hanno però rallentato l'approvazione del Piano nazionale vaccinazioni 2008-2010 che avrebbe garantito l'offerta uniforme di tutte queste tre vaccinazioni, con l'eccezione del vaccino contro il cancro dell'utero, che è comunque già offerto in tutte le Regioni. All'orizzonte si profila ora un nuovo intervento del Ministero per garantire l'uniformità vaccinale descritta, condizione essenziale per mantenere la protezione ai livelli richiesti dall'ÒMS (95%). n nuovo piano dei LEA, comprendente i nuovi vaccini, è ora sul tavolo della conferenza Stato- Regioni. «Di fronte a tali situazioni - spiega Alberto Giovanni Ugazio, presidente della Commissione vaccini della Società italiana di pediatria e direttore del Dipartimento di medicina al Bambino Gesù di Roma - il ruolo del pediatra è fondamentale: è a lui, infatti, che spetta informare le famiglie sulla base dei rilievi scientifici. E per rendere più efficace l'intervento dei pediatri nei confronti degli assistiti abbiamo preparato delle "raccomandazioni" che chiariscono gli aspetti scientifici dei vaccini compresi quelli non raccomandati come, ad esempio, quello per il Rotavirus ». Comunque, per ora, il quadro è ancora confuso e le famiglie sono spaesate. C'è, però, da segnalare l'impegno della Regione Liguria che per prima ha inserito nel calendario vaccinale dell'infanzia lo pneumococco, registrando riduzioni di polmoniti pneumococciche del 70%, di meningiti e di otiti medie del 36% dei casi. «E oltre a questi dati, a conferma della necessità della vaccinazione, - dice Paolo Bonanni, professore di igiene all'Università di Firenze - c'è il fatto che il vaccino è stato inserito nei programmi di 26 Paesi». Intanto continua ad aleggiare anche l'annosa questione della obbligatorietà che parrebbe un inutile fardello. «Non è proprio così - spiega Maurizio Bonati, del Mario Negri di Milano - perché ci sono Regioni come il Veneto che possono permettersi di sospendere questa norma, cosa che hanno infatti già fatto; ma ci sono regioni in cui la copertura è bassa e l'eliminazione della obbligatorietà farebbe scendere le coperture vaccinali a livelli preoccupanti ». La copertura Per le vaccinazioni comprese nel calendario vaccinale la copertura è buona (95%) ad eccezione del gruppo morbillo-parotite e rosolia che si ferma all'88%, con punta minima del 66% a Bolzano Le escluse Varicella e Rotavirus Varicella e rotavirus sono due delle infezioni per le quali non è ancora prevista l'offerta gratuita del vaccino: per la varicella, le Regioni si sono finora dimostrate poco disponibili anche perché era utilizzabile solo una dose monovalente che comportava un'iniezione separata. Soltanto ora, visto che il vaccino è combinato con morbillo, rosolia e parotite, l'offerta regionale potrebbe cambiare, n vaccino per il rotavirus, patologia che provoca malattie gastrointestinali nei bambini fino a 5 anni, farebbe risparmiare soldi su cure e ricoveri. ______________________________________________________ La Repubblica 15 ott. ’08 MANI UNO SU 4 NON LE LAVA: L'IGIENE È UN OPTIONAL Ricerca shock in Gran Bretagna tra i pendolari: dopo la sosta alla toilette molti snobbano acqua e sapone E le Nazioni Unite lanciano la giornata della pulizia, che salverebbe 2.500 bambini ogni giorno ELENA DUSI ROMA Ai bambini va dato il loro sapone quotidiano. L'Unicef, nella "Giornata mondiale del lavaggio delle mani", si preoccupa di quei paesi in via di sviluppo dove la mancanza di igiene uccide più di una guerra. «Mai un gesto così semplice si è rivelato capace di salvare tante vite» ha detto la portavoce dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'infanzia, Veronique Taveau. L'Unicef calcala che rubinetto e saponetta possano salvare la vita a 2.500 bambini ogni giorno: la metà di coloro che si spengono a meno di cinque anni a causa di diarrea o altre malattie infettive legate alla carenza di igiene. «Un bambino su due può salvarsi prendendo l'abitudine di lavarsi le mani con il sapone prima dei pasti e dopo essere andato in bagno» spiega la Taveau. L'Unicef ha organizzato la giornata per le "mani pulite" in 60 paesi concentrati tra Asia e Africa, i più danneggiati dalla carenza di igiene. Ma una ricerca inglese intitolata "Studio sulle mani sporche" ha dimostrato che anche l'occidente ha qualche problema con virus e batteri. In cinque città della Gran Bretagna la London School of hygiene and Trapical Medicine ha organizzato un test sull'igiene personale. Più di 400 pendolari di 5 città inglesi hanno dovuto mostrare le palme delle mani e sottoporsi al conteggio dei batteri che popoavano la pelle. In più di un caso su quattro (il 28 per cento delle persone), insieme ai milioni dì esemplari che vivono tranquillamente sulla superficie del nostro corpo, i ricercatori hanno trovato anche batteri fecali. Segno che, dopo essere andati in bagno, i pendolari pizzicati non avevano fatto tappa di fronte al lavandino. «Ci aspettavamo una cifra intorno al 10 per cento. Trovare così tante persone con le mani sporche ci ha molto stupito» ha commentato la ricercatrice Val Curtis, che ha condotto lo studio reso pubblico proprio in coincidenza dell'iniziativa dell'Unicef "Global hand washing day". Fra i pendolari, ha osservato la Curtis, chi prende il bus è meno attento di chi viaggia in treno. Le donne hanno fatto complessivamente una figura peggiore degli uomini, mentre studenti e professionisti hanno avuto una lezione di pulizia da operai e lavoratori manuali in genere. Anche se nessuno dei batteri trovati sulla pelle dei pendolari (in grado di sopravvivere sul mezzo di trasporto per 3 0 4 ore) è in grado di provocare malattie gravi, la stretta di mano con persone raffreddate è considerata una delle vie di contagio preferite del virus. «II problema non è sola lavarsi le mani. Bisogna lavarsele bene» precisa Antonio Cassone, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità. «Non basta una sciacquata veloce. Occorre strofinare bene, anche nello spazio tra le dita, lavare via tutta il sapone e tenere le unghie corte. La buona abitudine non vale solo per i bambini dei paesi in via di sviluppo, ma per tutti, soprattutto se si vive accanto a persone che possono trasmettere malattie infettive». Il problema del lavaggio con acqua e sapone si fa serio infatti nel momento in cui si entra in un ospedale, tanto che le infezioni tra corsie e sale operatorie in Italia sono responsabili (o corresponsabili) della morte di circa 5mila pazienti ogni anno. La British medical association, nel 2006 aveva raccomandato ai camici bianchi di Gran Bretagna non solo di lavarsi le mani con maggiore attenzione, ma anche di togliersi la cravatta durante le visite. Il censimento dei batteri su questo capo di abbigliamento aveva infatti mostrata picchi preoccupanti. Tra i luoghi pubblici, i più contaminati secondo una ricerca pubblicata dal journal of Infection nel 2005 sono risultati cornetta del telefono, interruttore della luce, maniglia della porta e pulsante dell'acqua nella toilette. ______________________________________________________ TST tutto Scienze e tecnologia 15 ott. ’08 TUMORI AL SENO OBIETTIVO MORTALITÀ ZERO GIÀ NEL 2020 G L'obiettivo di azzerare la mortalità per il cancro al seno assume contorni definiti. Anzi, diventa un traguardo «possibile entro il 2020» a giudizio del professor Umberto Veronesi. « È una stima molto ottimistica, basata sui risultati delle eccellenze raggiunte nel Paese, ma la meta non è irraggiungibile», ha spiegato l'ex ministro della Sanità, intervenuto ieri a Roma a un incontro organizzato al Senato da Europa donna-Forum italiano Onlus. Il tumore al seno, che colpisce una donna su 9, con 36 mila nuovi casi all'anno nel nostro Paese e 300 mila italiane in vita che hanno incontrato la malattia, si può infatti battere «sul lungo periodo», ha detto Veronesi, puntando sulla ricerca, sulla prevenzione e sulla diagnosi precoce. Ed è la capacità di individuare sempre più in anticipo il cancro alla mammella a far ben sperare. «Oggi - ha spiegato l'oncologo - il 35% delle pazienti ha tumori impalpabili», cioè talmente piccoli da essere visibili solo con strumenti diagnostici, e «in casi simili la mortalità è vicino a zero». In queste forme tumorali, infatti, «ogni millimetro in più di massa equivale a un 1% di possibilità di guarigione in meno. E, se quando il tumore è di un centimetro, si ha il 95% di sopravvivenza, questa si riduce del 10% ogni centimetro in più». Fa ben sperare anche il trend di riduzione di mortalità. Se «nel 1950le possibilità di guarigione erano del 20%, si è passati oggi al 90%». Ad alimentare le speranze ci sono i dati di uno studio dell'Ileo su 5408 donne, seguite per 15 anni. E i risultati sono stati «ottimi». La mortalità è stata dell’1% e, sui 136 tumori al seno, si sono registrati solo 4 decessi sulle 47 morti per diversi tumori. «La prevenzione funziona e bene», ha assicurato Veronesi. [e.r.s.] ___________________________________________________ OGGI 22 ott. ’08 CAGLIARI: LA GOCCIA DI GHIACCIO CHE STOPPA I TUMORI Cancro al polmone: all'ospedale Businco di Cagliari ora si affronta con il freddo Infilzare il tumore. Incapsularlo in una sfera di ghiaccio. E poi distruggerlo. Sono le tre mosse della crioablazione o terapia del freddo, impiegata per la prima volta in Italia per il tumore al polmone. «Il trattamento sfrutta il principio del congelamento dei tessuti a temperature assai basse, sotto i -20 gradi, e del successivo scongelamento: lo shock termico è letale per le cellule», spiega Claudio Pusceddu, a capo dell'équipe dell'Ospedale Businco di Cagliari che ha eseguito una sperimentazione su cinque pazienti, tutti attualmente in buone condizioni cliniche (info: 070-60.95.384). L'intervento, in anestesia locale, dura un'ora. Prevede l'inserimento nel torace di aghi che vanno a colpire con precisione la massa maligna, grazie alla guida di una Tac. Negli aghi viene prima introdotto del gas argon, che congela la neoplasia e l’ingloba in una palla di ghiaccio; lo scongelamento successivo con l'elio causa, poi, un danno immediato e irreversibile alle cellule malate. I rischi? «Quelli di una comune biopsia», dice Pusceddu. «Finora la crioablazione è stata impiegata nei tumori alla prostata e al rene. Per il cancro al polmone è una novità assoluta. Che offre una possibilità ai casi non operabili o con metastasi che non rispondono più alla chemio».