SOSPENSIONE PROCEDURE COSTITUZIONE COMMISSIONE CONCORSI - DECRETO SUGLI ATENEI, CONCORSI CON NUOVE REGOLE - PASSO INDIETRO.. A METÀ - HA VINTO IL BUON SENSO BASTA CONCORSI TRUFFA E VIA ALLA MERITOCRAZIA - IL COLLE APPROVA IL DECRETO: UNA APERTURA IMPORTANTE - STOP AI CONCORSI IN 7 ATENEI - CAGLIARI: I CONTI IN TASCA ALL’ATENEO – BILANCIO OK - TAGLIO AI CORSI INUTILI E RETTORI SOLO PER 6-8 ANNI - FONDI DIMEZZATI IN TRE ANNI - GRUPPO2003:RESPONSABILITÀ E MERITO PER LIBERALIZZARE GLI ATENEI - L'OCSE E IL BALLETTO DELLE CIFRE - CRUI: TAGLIANO AGLI ATENEI PER RECUPERARE L'ICI - RICERCA: UN PASSO CONCRETO VERSO IL MERITO - MIUR-UNIVERSITAS: NEL SISTEMA CONOSCENZA - FORMAZIONE LA VARIABILE INDIPENDENTE DEL SAPERE - INCARICHI, NUOVE DEROGHE ALLA LAUREA - IL SUCCESSORE DI MISTRETTA - GESSA: PER EVITARE IL FUNERALE DEGLI ATENEI SARDI AIUTI DA MAMMA REGIONE - BRIGAGLIA: SE SI MASSACRA L’UNIVERSITÀ A PERDERE È IL PAESE INTERO - CRIPPA: MAI PIÙ BARONI DA NASCONDERE NELL'ARMADIO - PANI: CARI STUDENTI VI SCRIVO E VI DICO - GIANPIERO CANTONI:LA SCUOLA PRIVATA NON MERITA TAGLI - PER RISANARE L'UNIVERSITÀ BASTA ABOLIRE IL VALORE LEGALE DELLA LAUREA - CABIBBO: NON ESISTE LA FISICA DI DIO - GIULIO GIORELLO, SCIENZA È VIOLARE IL SENSO COMUNE - L'INCOGNITA DELLA GENERAZIONE Y - ======================================================= PROJECT FINANCING PER IL NUOVO OSPEDALE - ECCO GLI 862 MILIONI PER LA SANITÀ - OSPEDALI, PROROGA DI 4 ANNI PER LE VISITE "ESTERNE" - UN ANNO IN PIÙ ALL'«INTRAMOENIA» PRESSO LO STUDIO - VERONESI: UN ATTACCO NASCOSTO ALLA SANITÀ PUBBLICA - AIOP: NEI SERVIZI OSPEDALIERI TARIFFE UGUALI PER TUTTI - UNIVERSITÀ: LASCIA L'ALLERGOLOGO DEL GIACCO - BIOETICA: È UN DIRITTO RIFIUTARE LE CURE - CON LA FARMACOGENETICA I FARMACI DI DOMANI "DISEGNATI" SU MISURA - TRAPIANTI A 3 DIMENSIONI - IL CLUB DEI CADAVERI - I MANCINI PIÙ INIBITI E COMPLESSATI DI CHI SCRIVE CON LA MANO DESTRA - NASCE IN SARDEGNA UN FARMACO ANTI-AIDS - ======================================================= ________________________________________________________________ MIUR 7 nov. ’08 SOSPENSIONE PROCEDURE COSTITUZIONE COMMISSIONE CONCORSI Da (Antonello Masia) Per rettori ------- Comunicasi che il Consiglio dei ministri del giorno 6 novembre u.s. ha approvato un decreto legge recante misure urgenti per l'Università e gli enti di ricerca, tra le quali, nuove modalità per la costituzione delle commissioni di valutazione comparativa per i posti di professore di I e II fascia, e di ricercatori. Tali disposizioni si applicano, con effetto immediato, anche alle procedure in corso per la costituzione delle predette commissioni, già programmate nei giorni 10-19 novembre p.v. Tali procedure sono, pertanto, sospese con effetto immediato. Tale decreto, comunque, non blocca i concorsi e non inficia la validità dei bandi già adottati dagli atenei. Questa Direzione Generale provvederà a comunicare nei prossimi giorni le nuove date per la costituzione delle commissioni, secondo la nuova disciplina, le cui procedure si terranno nel più breve tempo possibile e comunque prevedibilmente non oltre il prossimo mese di gennaio 2009. _____________________________________________________________________ Corriere della Sera 7 Nov. ’08 DECRETO SUGLI ATENEI, CONCORSI CON NUOVE REGOLE Cambia il sistema per formare le commissioni. La Gelmini: 500 milioni agli enti virtuosi, 150 per le borse di studio — Nessun ragazzo meritevole ma privo di mezzi deve restare senza borsa di studio. Il ministro Mariastella Gelmini nell’illustrare il suo decreto sull’università approvato ieri parte dai diritti degli studenti. Finora, sottolinea il ministro, dei 180 mila giovani giudicati meritevoli di un sostegno, 40 mila si sono dovuti arrangiare. Dal prossimo anno accademico, con i 150 milioni di euro stanziati dal governo, non sarà più così. Novità anche per i concorsi: nessun blocco per quelli già banditi (2.300 posti), ma vengono modificati i meccanismi della composizione delle commissioni esaminatrici con l’introduzione del sorteggio. E poi: altri 1.700 posti letto (65 milioni di euro) nelle residenze universitarie. Diritto allo studio, concorsi più trasparenti, apertura ai giovani, premi per gli atenei virtuosi e punizioni per quelli spreconi. Questi i punti principali del decreto legge varato dal governo. Le grandi riforme per rilanciare l’università (reclutamento, governance, valutazione e dottorato) arriveranno, invece, attraverso disegni di legge che recepiranno le proposte emerse dal confronto parlamentare e dalla discussione pubblica. Il dibattito avrà come base le linee guida presentate ieri e che prevedono, tra l’altro, lezioni in lingua straniera, prestiti d’onore per gli studenti, commissariamento per gli atenei inadempienti dal punto di vista finanziario e valutazione periodiche dell’attività svolta dai docenti. Vediamo il decreto. Le commissioni esaminatrici dei concorsi per prof e ricercatori già banditi verranno formate cosi: elezione di 12 professori di una disciplina e successivo sorteggio dei quattro che si affiancheranno all’ordinario della facoltà che ha indetto il concorso. Sarà necessario uno slittamento di poche settimane. Le università virtuose per i risultati della ricerca e la produttività si divideranno 500 milioni di euro. Conterà, nella ripartizione, anche il «coraggio» mostrato nel chiudere sedi distaccate e corsi di laurea inutili. Per gli atenei in rosso niente concorsi. Il capitolo svecchiamento: dei 300 milioni di euro che ogni anno si rendono disponibili attraverso i pensionamenti dei docenti, la metà potrà essere impiegata per l’assunzione di giovani. I concorsi per ricercatore già banditi sono esclusi dal blocco del turnover. Gli enti di ricerca potranno assumere. «Forte e pieno apprezzamento» è il commento della Conferenza dei rettori. Giulio Benedetti __________________________________________________________ il manifesto 7 nov. ’08 PASSO INDIETRO.. A METÀ Dopo la scuola, gli atenei. Arriva un decreto in nome della meritocrazia. Ma i tagli sono confermati Eleonora Martini ROMA La forza dell'Onda li ha costretti a mezzo passo indietro. Per l'università, come per la scuola, il governo Berlusconi ha scelto di nuovo la decretazione d'urgenza ma questa volta non se l’è sentita di tirare troppo la corda e ha concesso una boccata d'ossigeno almeno su due punti: sbloccato il turn over ridimensionati i tagli ai fondi previsti dalla legge 133. Per esserne certi bisognerà attendere il testo del decreto legge varato ieri dal Consiglio dei ministri ma stando alle parole della titolare dell'Istruzione Mariastella Geltnini, che a conclusione del Cdm ha tenuto a Palazzo Chigi una conferenza stampa, sembra possibile una mezza inversione di rotta. Se non altro le «Linee guida per l'Università», varate anch'esse ieri dal tavolo interministeriale, sono solo «un documento programmatico di legislatura - ha spiegato la ministra - che offriamo al dibattito con il mondo accademico e che sarà oggetto di discussione nelle commissioni :competenti e nelle Aule parlamentari». Quattro gli articoli che compongono il decreto legge - che «non è la riforma dell'università», butta le mani avanti Gelmini -misure definite «urgenti», soprattutto perché si interviene sui meccanismi di composizione delle commissioni esaminatrici dei concorsi universitari previsti per gennaio, che dovranno essere formate entro la prossima settimana. Ad esaminare i concorrenti non saranno più quattro membri eletti che affiancano uno interno, ma cinque docenti estratti a sorte tra 15 votati. Un metodo, spiega l'esecutivo, per rendere i concorsi più trasparenti. Ma qualcuno giura che anche quando una quindicina di anni i componenti delle commissioni si estraevano a sorte, i trucchi baronali colpivano ugualmente nel segno. Via libera comunque ai 1.800 concorsi già banditi che dovranno solo slittare di qualche settimana per poter mettere a punto le nuove regole del concorso. Previsto poi lo sblocco totale del turn over per gli enti di ricerca, mentre niente assunzioni per gli atenei con i bilanci in rosso (una ventina in Italia). Le università più parsimoniose invece saranno agevolate nel ricambio generazionale: dal 2009, non più una sola assunzione ogni cinque docenti che andranno in pensione, ma «due o in alcuni casi perfino tre ricercatori per ogni pensionamento», azzarda la ministra. Il tetto semmai sarà stabilito sulla spesa: il governo chiede «alle università di usare almeno il60% delle risorse» recuperate dal pensionamento dei docenti «per assumere giovani ricercatori». II tutto però dovrà essere «a costo inalterato», dice Gelmini, specificando che sono infatti confermati i tagli nel 2010 previsti in finanziaria. Ma per dare un segnale di emancipazione da Tremonti, la ministra dell'Istruzione annuncia anche un po' di soldi. Che, in tandem con meritocrazia, fa tanto giustizia sociale. E il concetto viene ribadito anche nelle Linee guida dell'università. Per cominciare ci dovrebbero essere 150 milioni di euro per «favorire il turn oven>. Poi, il5% di quel Fondo di finanziamento ordinario tagliato dalla legge 133 viene rimesso in circolo: 500 milioni di curo saranno infatti stanziati «per le università più virtuose senza distribuzioni' a pioggia» (parametri del Comitato nazionale valutazione universitaria). Soldi anche per gli atenei che eliminano i «corsi di laurea inutili», mentre 65 milioni di euro saranno destinati alle residenze universitarie con la promessa di 1700 posti in più per i fuoori sede di tutta Italia. In arrivo, infine, «135 milioni di curo per borse di studio a favore di 180 mila ragazzi più meritevoli». Positivo il giudizio della Conferenza dei rettori, soprattutto perché, dicono, rappresenta una «premessa per la determinazione di un clima più costruttivo e di collaborazione nel quale affrontare le questioni legislative e finanziarie aperte». Per il neoeletto rettore della Sapienza di Roma, Luigi Frati, «si poteva avere di più», ma il decreto legge è comunque da considerare «un'inversione di tendenza». Giustificata questa volta, secondo Frati, anche l'urgenza. «Finalmente sarà più difficile truccare i concorsi, assicura il «barone» per. antonomasia, preside per 16 anni della facoltà di medici __________________________________________________________________ Il Giornale 7 nov. ’08 HA VINTO IL BUON SENSO BASTA CONCORSI TRUFFA E VIA ALLA MERITOCRAZIA RIVOLUZIONE ALL'UNIVERSITÀ Accolta la tesi del «Giornale>: saranno sorteggiate le commissioni d'esame per l'assegnazione delle cattedre d i Stefano Zecchi Era solo una questione di buon senso, e quando c'è la volontà, generalmente le cose dì buon senso si comprendono facilmente. Il ministro Gelmini interviene con !a necessaria tempestività per affrontare quattro questioni decisive, poi ci sarà un po' più di tempo per riflettere sul modo dì cambiare l'istruzione universitaria. Incominciamo con la questione dei tagli, che ha scatenato le proteste di studenti e professori. Se i finanziamenti che l'università riceve dallo Stato fossero determinanti per la qualità complessiva della ricerca accademica, tagliarli significherebbe danneggiare tutti i livelli del lavoro universitario. In queste ultime settimane il nostro quotidiano ha avuto modo di dimostrare ampiamente quale sperpero si sia fatto con il denaro pubblico negli atenei italiani. Il decreto del ministro taglierà i finanziamenti là dove c'è cattiva gestione amministrativa e dove è scadente la qualità della ricerca. Questa decisione è fondamentale perché introduce un metodo, cioè la competitività tra le università; sia nella gestione, sia sui risultati della ricerca e dell'istruzione. Per chi non lo sapesse, la Crui, cioè l'organismo che unisce tutti i rettori dell'università, ha agito in queste settimane di crisi come un sindacato che avanza richieste al ministro. Fin qui niente di strano: quello che è inammissibile è che tali richieste (prevalentemente economiche) sono state fatte come se l'università italiana fosse una realtà unica, sindacalmente rappresentabile. Esistono invece differenze enormi tra le singole università, che riflettono gradi di qualità didattica e di ricerca enormi. Ci sono università che svolgono il proprio lavoro decentemente, altre in modo disastroso. Ora la decisione del ministro di diversificare i finanziamenti, oltre a rompere il fronte sindacale della Crui, introduce una differenziazione di merito tra i singoli atenei, secondo l'elementare principio che i bravi vengano premiati, gli altri no. Altro punto del decreto Gelmini: borse di studio ai giovani. Ottima decisione, ma sarà importante capire quali saranno i criteri di assegnazione delle borse: troppe volte la valutazione del reddito familiare non corrisponde alle reali esigenze economiche dello studente. Si faccia in modo che a coloro che chiedono la borsa di studio scatti contemporaneamente l'accertamento fiscale. In ogni caso, la destinazione di una quota dei finanziamenti per borse di studio dimostra la meritoria attenzione del governo al ruolo insostituibile dell'istruzione pubblica. Terzo punto del decreto Gelmini: turn over. Per ogni professore che andrà in pensione saranno assunti due ricercatori. Anche in questo caso il nostro giornale aveva dimostrato nelle scorse settimane come il personale docente delle università italiane sia il più vecchio d'Europa. Il decreto legge porta a un reale, immediato svecchiamento delle accademie. Ultimo punto, che lascio alla fine perché è il più importante. Avevo sollevato su queste pagine senza mezzi termini come i concorsi universitari, cioè il sistema di reclutamento dei docenti, siano vere e proprie truffe. Avevo anche chiesto al ministro di sospendere questi concorsi che, torno a sottolineare, in modo truccato faranno entrare 4.500 docenti, bloccando il ricambio degli insegnanti d'università per i prossimi anni. Il ministro non li ha sospesi, però ha modificato le regole perla formazione delle commissioni giudicatrici. Anziché per elezione, saranno costituite per sorteggio. Questa norma sta già scombussolando !e carte delle baronie del potere accademico che da tempo avevano deciso come pilotare le elezioni, chi eleggere e quali candidati far vincere. Quello del ministro è un primo passo: il cammino da fare per moralizzare questo aspetto essenziale della vita accademica è ancora lungo, però è un passo che fa intendere che la misura è ormai colma, che certa indecenza non è più tollerabile, che d'ora in avanti la musica dovrà cambiare.. C'è da augurarsi che il prossimo disegno di legge sull'università sia orientato in un senso molto preciso: le università non sono agenzie di collocamento del personale attraverso metodi clientelari e nepotistici; le università non sono tutte uguali: vanno premiate quelle che producono qualità; le università pubbliche devono poter competere con quelle private, anche attraverso il sostegno di giovani meritevoli. PRIMO PASSO Quello di oggi è l'inizio di un percorso per moralizzare il mondo accademico _____________________________________________________________________ Corriere della Sera 7 Nov. ’08 IL COLLE APPROVA IL DECRETO: UNA APERTURA IMPORTANTE IL PRESIDENTE «COMPRENSIBILE IL MOTO DI PREOCCUPAZIONE CHE PERCORRE IL PAESE» Napolitano: dopo tante sollecitazioni è un segnale concreto Il capo dello Stato auspica un «ragionevole confronto tra forze sociali, culturali e politiche» ROMA - «Dopo tante sollecitazioni è arrivata un' apertura. E' stato molto importante». Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, commenta con prudente soddisfazione al Corriere della Sera il decreto del governo sull' Università. Di fronte al gotha della ricerca, riunito al Quirinale per celebrare la Giornata per la ricerca sul cancro, il presidente ha appena salutato come «positivo» il decreto che destina 500 milioni di euro alla ricerca di qualità, varato martedì dopo due mesi di proteste. Proseguite anche ieri. Napolitano dice chiaro che considera «ben comprensibile il moto di preoccupazione che in questo momento percorre l' Italia» «relativo all' entità delle risorse finanziarie destinate alla ricerca in tutti i campi». Ecco perché valuta il decreto una «concreta apertura verso le preoccupazioni della ricerca e le aspirazioni dei giovani ricercatori». «La questione non è solo quella delle risorse da allocare sul bilancio dello Stato e non è solo quantitativa» fa notare. L' Italia, dice, non manca di talenti e centri di eccellenza, ma ancora soffre di disparità tra Nord e Sud e di criticità da non sottovalutare. Per questo auspica un «ragionevole confronto tra forze sociali, culturali e politiche in vista di un limpido sforzo comune». Riprendendo il filo delle parole dell' oncologo Umberto Veronesi, Napolitano aggiunge che sarebbe «non inutile, ma benefico» se la politica sapesse riflettere sul binomio politica-innovazione. Ma la politica come la ricerca «non può contare su pillole miracolose». «Spazi e sostegni» ai ricercatori, però, raccomanda «non devono mancare per incoraggiare la loro passione e il loro lavoro e per non perderli come sistema Paese». Parole che in sala raccolgono grandi applausi. Più tardi, con un cocktail di frutta rosso in mano, Napolitano conferma la soddisfazione con cautela. La stessa che usa sua moglie Clio: «Il provvedimento sembra positivo soprattutto perché dovrebbe sbloccare alcuni meccanismi. Vedremo». Prudenza d' obbligo in una giornata ancora scossa dalla protesta. Tensioni che non lasciano indifferente il Quirinale. Dietro l' apertura del governo si intravede la sua azione di "moral suasion". Quella richiesta ormai su più fronti. Proprio ieri, durante il ricevimento, il presidente della Rai Claudio Petruccioli e il direttore generale Claudio Cappon, l' hanno invocata a favore della tv pubblica impantanata nello stallo istituzionale: con i vertici Rai in prorogatio e la commissione di vigilanza ancora senza presidente. Petruccioli lo ha fatto presente all' antico compagno di partito: «Adesso, non è per dire, noi cerchiamo di fare il nostro dovere. Ma la situazione sta diventando davvero pesante per l' azienda». Il presidente ha ascoltato e annuito, aggrottando le sopracciglia. Prima di essere risucchiato dalle strette di mano e le foto ricordo dei premiati Airc. Tra loro, Tommaso Cappi, 37 anni spesi nella ricerca. «A 1.200 euro al mese» fa notare al presidente. Lui allarga un sorriso e replica: «Per questo l' abbiamo premiata». Virginia Piccolillo __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 nov. ’08 STOP AI CONCORSI IN 7 ATENEI Assunzioni bloccate a Firenze, Trieste e Orientale di Napoli - A rischio altre 19 sedi Disincentivi. Chi sfora il tetto del 90% di spesa per gli stipendi non può bandire selezioni Premi, Il 7% del Fondo ordinario ai migliori: in pole Torino e Politecnico di Milano Gianni Trovati MILANO Per ora sono in sette ma già dal prossimo anno, e soprattutto dal 2010, il gruppo degli atenei colpiti dallo stop-concorsi potrebbe crescere, a ritmi serrati. E se per la prima volta da tempo non dovessero arrivare i consueti «sconti» di fine anno ai criteri di calcolo, le università bloccate salirebbero di colpo a 26. Il decreto varato ieri dal Governo blocca il reclutamento di ricercatori, associati e ordinari nelle università che dedicano agli assegni fissi per il personale più del 90% del fondo statale. La cura è drastica, ma del resto il malato è grave: con le dinamiche attuali, nel 2010 gli stipendi si mangerebbero tutta la torta statale e l'accademia, nei fatti, entrerebbe in default. Con questo provvedimento, il Governo inizia una cura all’insegna del «merito» che riprende, cercando di renderle effettive, norme che già esistono nel panorama universitario. Il limite del 90%, infatti, ha appena compiuto il anni essendo stato introdotto dalla Finanziaria per il 1998 (articolo 51, comma 4), ma fino a oggi la mancanza di un disincentivo forte ha reso molto fragile l'argine. Il decreto ora parla chiaro: chi a fine anno sfora il 90% non può bandire nessun concorso nell'anno successivo. Nella situazione attuale, secondo i criteri di calcolo usati normalmente, il blocco scatterebbe appunto per sette università: la più lontana dal tetto è l'Orientale di Napoli (283 docenti per 5.700 studenti in corso), che per le buste paga spende il 95,8% dell'assegno staccato ogni anno dallo Stato, seguita da Firenze (92,1%) e Trieste (91,6%). Nella rete finisce anche Pisa, che nel 2007 non è riuscita a scendere sotto la soglia fatidica nonostante un (lieve) contenimento della spesa, mentre l'Aquila balla a cavallo del tetto: secondo i calcoli del ministero ha raggiunto il 90,1% mentre per quelli dell'università si trova «in salvo» a quota 89,9%. Sul tema è in corso fra università e Viale Trastevere un contenzioso amministrativo, in cui i tecnici delle due parti si confrontano sulle modalità di calcolo, e un braccio di ferro analogo è in atto con Cassino. Un'altra decina di atenei, però, si può considerare già a rischio, perché a fine 2007 dedicava agli stipendi più dell’86% dell'assegno statale. Fin qui, la situazione con gli "sconti", che è quella ufficiale di Viale Trastevere (anche se il testo del decreto non ne fa cenno). Il conteggio del rapporto fra spese di personale e Fondo statale è stato ogni anno alleggerito da una serie di correttivi in favore degli atenei, tra cui spicca quello che impone di conteggiare per 2/3, e non per intero, il personale convenzionato con il Servizio sanitario nazionale nelle facoltà di medicina. Senza lo "sconto", a sforare il tetto sarebbero in 26, cioè quasi la metà dei 58 atenei statali, e in pratica tutte le università dovrebbero sbarrare le porte. Una prospettiva che non è comunque scongiurata, secondo i diretti interessati: «I concorsi - riflette Augusto Marinelli, rettore di Firenze - devono avere una copertura pluriennale, per cui nei fatti lo stop ai concorsi scatterà per moltissimi già il prossimo anno». Nel 2010, infatti, il fondo ordinario dovrebbe essere ridotto di 659 milioni, attestandosi intorno ai 6,8 miliardi, e nel aou dovrebbe scendere verso i 6,2. Ovvio che, diminuendo l'estensione della base di calcolo, il peso percentuale degli stipendi cresce proporzionalmente. Gli sconti, poi, sono solo contabili, e se possono salvare qualche posto sicuramente non modificano lo stato comatoso dei conti di molti atenei. Come dimostra il fatto che, in realtà, il peso più elevato degli stipendi si incontra a Siena, dove gli assegni fissi hanno già superato il r00% del fondo ordinario, e dove l'ateneo è travagliato da un buco che gli ultimi calcoli danno a quota 15o milioni. Siena, comunque, non è sola, visto che anche la Federico II e la Seconda Università di Napoli„collocano le spese per stipendi più in alto rispetto al fondo ordinario. Sempre in tema di meritocrazia, il decreto chiede che dal 2009 almeno il7% del fondo ordinario sia distribuito in modo da premiare le performance degli atenei migliori. Anche questa previsione non è un inedito, e rende strutturale la quota di incentivi prevista dal Patto con l'Università dello scorso anno e mai tradotta pienamente in pratica. Ad attendere ci sono, in prima fila, l'Università di Torino e il Politecnico di Milano, che dagli incentivi avrebbero tutto da guadagnare. _____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 6 Nov. ’08 CAGLIARI: I CONTI IN TASCA ALL’ATENEO – BILANCIO OK L’indebitamento è l’1,85 per cento dei fondi ricevuti. Ma non è detto che essere fra i bravi possa bastare a evitare i tagli Debiti e stipendi: per il Ministero le spese sono giuste Mutui per mezzo milione l’anno, stipendi per 127 milioni e mezzo: i conti dell’Università hanno passato l’esame del Ministero La pacca sulla spalla, all’Università di Cagliari, è arrivata per posta nove mesi fa ed era firmata da Antonello Masia, direttore generale dell’allora ministero dell’Università e la ricerca (oggi accorpato a quello dell’Istruzione): «L’ateneo ha rispettato il limite posto dalla normativa, con una percentuale di indebitamento pari al 1,85%» dei finanziamenti ricevuti dal Ffo, il Fondo di finanziamento ordinario per le università italiane. Che per Cagliari, l’anno scorso, sono stati poco più di 138 milioni di euro. ATENEI IN ROSSO Il dato sull’indebitamento era riferito al bilancio 2006 ed era significativo: in quegli stessi giorni, sulla scrivania di Masia, erano finiti debiti ben più sostanziosi, con percentuali a due cifre. Firenze, 12,11%: qui, per far cassa, l’università ha dovuto vendere alcune tenute. Siena, 16,78: qui, però, il problema sono semmai gli 80 milioni di contributi non versati che l’Inpdap sta chiedendo con una certa insistenza. Istituto orientale di Napoli, al 21,71 dopo nuovi acquisti immobiliari. Cioè gli atenei su cui, secondo il principio che chi sfora paga, dovrebbe cadere il grosso dei tagli. Ma anche quelli su cui, secondo la logica che ha portato a risanare i bilanci di compagnie aeree, amministrazioni comunali, banche in rosso, potrebbe essere impegnato quel che rimarrà del Ffo una volta defalcati i tagli fissati per il prossimo quinquennio dalla legge 133. Quest’anno, dalle casse ministeriali, sono usciti 7 miliardi e 112 milioni di euro. L’anno prossimo saranno 63 milioni in meno. Nel 2010, 661 milioni in meno. FRA I VIRTUOSI Il problema, al momento attuale, sta tutto qui: nessuno, esattamente, sa a chi si taglierà. Cagliari, per i parametri ministeriali, sta nella lista degli atenei indebitati (solo 13, in tutta Italia, non lo sono) ma non troppo. Quell’1,85 per cento di indebitamento, in particolare, riguarda mutui accesi negli anni Ottanta per costruire la Cittadella universitaria di Monserrato: mutui ormai prossimi all’estinzione, con una rata annuale di 537 mila euro. Tutto sommato poca roba, rispetto al totale dei trasferimenti dal Ffo. NON SOLO STIPENDI Non solo. L’Ateneo spende in stipendi “appena” l’84,26 per cento di quanto riceve dal Fondo. Dati relativi al 2007: lo stanziamento è stato di 138 milioni di euro. Sui conti correnti dei propri docenti (714, di cui 68 andranno in pensione nel 2009, sostituiti, in base al limite di uno a cinque fissato per il turn over dalla legge, da 12 colleghi), ricercatori (507, in gran parte precari di cui pochissimi troveranno un posto fisso in ateneo) e personale tecnico amministrativo (1.172 unità) l’università ha eseguito bonifici bancari per poco più di 127 milioni e 500 mila euro. La cifra, a dire il vero, comprende anche gli assegni di studio erogati ad altri 161 ricercatori a termine, che dalla forma di pagamento prendono appunto il nome di “assegnisti”. Da essa vanno sottratti altri costi: 98 mila euro e spicci per “costi relativi alle procedure di stabilizzazione”, poco più di due milioni per «incrementi “virtuali” del Fondo da eventuali convenzioni stabili per la retribuzione di personale a tempo indeterminato e, soprattutto, oltre nove milioni per costi di personale impegnato in attività assistenziale sanitaria convenzionata, cioè essenzialmente i medici e il personale sanitario del policlinico. Si passa così dal dato lordo del 92,35 per cento a quello netto dell’84,26, cinque punti e mezzo sotto la soglia fissata per legge al 90 per cento, e dunque nella lista degli atenei indebitati ma virtuosi. SPESE ED ENTRATE Significa oltre il 15 per cento delle risorse da destinare alle altre spese necessarie al funzionamento della macchina complessa dell’università. In euro, una ventina di milioni, cui vanno aggiunti i 14 e mezzo delle tasse pagate dagli studenti, che valgono circa l’8 per cento del bilancio complessivo. Il dato sulla percentuale del Fondo destinato agli stipendi è cruciale per valutare lo stato di salute economico-finanziaria di un ateneo. Basta dare un’occhiata a quelli che hanno sforato il 100 per cento: Siena (dove gli stipendi valgono il 103,8 per cento dei fondi ministeriali) e Napoli Federico II (100,9), oppure a quelli che gli si avvicinano, come Firenze (99,1), Napoli II (99,9). Sono gli atenei a rischio, quelli che potrebbero essere puniti. O, chissà, rifinanziati. MARCO NOCE __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 nov. ’08 TAGLIO AI CORSI INUTILI E RETTORI SOLO PER 6-8 ANNI ROMA. Riduzione degli insegnamenti e dei corsi di studio, carriere dei docenti scandite da valutazioni periodiche e il 3o% dei fondi distribuiti in base alla valutazione. Ma anche più spazio alle lezioni in lingua straniera, una nuova veste per il dottorato di ricerca e possibile superamento del valore legale del titolo di studio. Sono i contenuti delle lince guida di riforma dell’università licenziate ieri dal Consiglio dei ministri insieme con il decreto sulle questioni più urgenti. Un piano d'azione ispirato al merito e alla razionalizzazione, che, dopo il confronto con il mondo accademico e il parlamento, si tradurrà in disegni di legge. Secondo il progetto, è necessario ridurre gli insegnamenti, attualmente a quota 180mila, affidati per il 40% a docenti esterni: un intervento che, secondo il ministero, potrebbe essere realizzato già da subito. Oltre alla razionalizzazione delle sedi, il documento suggerisce la modifica dell'accesso ai corsi a numero programmato e l'accreditamento della didattica sulla base della qualità. Le performance degli atenei, poi, peseranno sempre di più sulla ripartizione dei fondi. Il ministero, infatti, punta-entro la f me della legislatura -a portare al 30% la percentuale di Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) distribuita in base al merito. Di conseguenza, sarà necessario - dicono le linee guida- attivare al più presto l'Agenzia che si occuperà della valutazione. Gli atenei con i bilanci in rosso dovranno, poi; definire un piano rapido di rientro per non rischiare il commissariamento, previsto in caso di inadempienza. Mentre sarà necessario rivedere anche il rapporto tra le facoltà mediche, gli atenei e il sistema sanitario per equilibrare i costi. Per quanto riguarda il reclutamento dei docenti, la prospettiva è quella di eliminare il meccanismo delle idoneità multiple e di sostituire gradualmente il sistema di aumento degli stipendi con valutazioni periodiche dell'attività svolta dai docenti. Ma anche di ridurre i settori scientifico-disciplinari e rivedere la selezione degli ordinari e degli associati, distinguendo tra reclutamento e promozione. Tra gli obiettivi delle linee guida, poi, anche il completamento delle, norme che permettono la trasformazione degli atenei in fondazioni e il riordino della governance: per i rettori non potranno esserci più di due mandati, per un massimo di 8 anni. II diritto allo studio, infine, dovrà essere potenziato, mentre per il dottorato si ipotizzano nuove norme di ammissione e modifiche alla durata. Al. Tr. __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 nov. ’08 FONDI DIMEZZATI IN TRE ANNI Colpita la Ricerca scientifica e tecnologica applicata Ricerca scientifica e tecnologica applicata: questo il programma più colpito dai ta gli alla ricerca. Lo stanziamento al termine del triennio si dimezza: dai dati elaborati dal Servizio studi della Camera, si passa dai 273 milioni di curo delle previsioni di bilancio assestate 2008 ai 252,8 milioni di curo del 2009, che scendono verticalmente a io6 milioni di euro nel 2010, per poi risalire a 135,7 milioni nel 2o11. A essere colpite sono le spese per le attività dell'Istituto nazionale per la valutazione del sistema istruzione e formazione e dell'Agenzia nazionale per lo sviluppo dell'autonomia scolastica. La stoccata colpisce anche i contributi a enti e istituti dell'Istruzione. La missione "Ricerca e innovazione" del Bilancio per il 2009, che ha in totale una dotazione di circa 2446 milioni per il 2009, 2181 per il 2010 e 2307,9 per il 2011, è costituita da 3 programmi. Il capitolo finanziariamente più dotato è "Ricerca scientifica e tecnologia di base" e nel Ddl Bilancio evidenzia un taglio nel triennio di poco meno di 78 milioni di euro. In questo programma la sforbiciata investe soprattutto il Fondo ordinario per gli enti e le istituzioni di ricerca, che già nel 2009 ha un decremento di quasi 70 milioni di euro rispetto al bilancio 2008. Taglio netto anche per il capitolo dei contributi agli istituti scientifici speciali, ridotto di poco meno della metà rispetto al bilancio 2008. La ricerca per la didattica è stata colpita dalla manovra d'estate. Gli accantonamenti previsti dalla Finanziaria 2007, infatti, con il Dl 112/2008 si sono trasformati in riduzioni effettive dalle dotazioni di bilancio. Oltre a questo taglio, che incide sul 2009, per gli esercizi dal 2009 al 2011 è stata operata anche una riduzione lineare sulle dotazioni finanziarie a legislazione vigente delle missioni di spesa del bilancio di ogni ministero. Globalmente gli accantonamenti del ministero dell'Istruzione, dell'Università e della ricerca trasformati in riduzione di spesa solo per il 2009 sono pari a 323,8 milioni di euro. Fra i tagli targati Finanziaria 2009 il più evidente è quello di 69,5 milioni di euro che colpisce nel 2009 il Dlgs 204/1998, relativo a c00rdinamento, programmazione e valutazione politica nazionale per la ricerca scientifica e tecnologica. Nei due anni successivi, però, il Ddl di bilancio segnala una ripresa. Nicoletta Cottone __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 nov. ’08 GRUPPO2003:RESPONSABILITÀ E MERITO PER LIBERALIZZARE GLI ATENEI Pier Mannuccio Mannucci Gruppo2003 Marzio Bartoloni ROMA Non bisogna avere fretta, non servono pecette o toppe. C'è bisogno di riforme di sistema e terapie d'urto: l'unico provvedimento urgente che dovrebbe prendere il Governo è l'azzeramento dei tagli all'università decisi quest'estate». Pier Mannuccio Mannucci insegna Medicina interna all'università di Milano e guida il «Gruppo z003» che riunisce oltre sessanta tra i migliori cervelli d'Italia, i più citati nella letteratura scientifica internazionale, protagonisti a marzo scorso insieme alla "crema" della scienza italiana di un accorato appello al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano,per salvare la ricerca "made in Italy". Mannucci non ha dubbi: «Temo le soluzioni d'urgenza che fanno solo più pasticci». La sua ricetta è di quelle da far tremare i polsi a tanti rettori, accademici e "baroni" di alto rango. E punta a liberalizzare il pianeta università introducendo allo stesso tempo massicce dosi di valutazione, merito e responsabilità: «Quando l'ho presentata al Senato nel febbraio del 2005 - spiega il presidente del Gruppo 2003 - mi guardavano tutti come fossi un marziano». Perché? Innanzitutto abbiamo chiesto l'abolizione dei concorsi e del posto fisso nelle università. E poi? Massima libertà alle università sulle retribuzioni dei docenti e dei ricercatori, sulle assunzioni e sui percorsi di carriera, ovviamente su base meritocratica, oltre che mani libere sulla didattica. Tanto le scelte di un ateneo vengono premiate o penalizzate delle iscrizioni degli studenti e dal mercato del lavoro. Chi paga? Ogni università deve poter decidere autonomamente l'entità delle tasse e dei contributi sulla base della sua capacità di offerta e di attrazione. E i fondi statali? Una sostanziosa parte del Fondo ordinario di finanziamento, almeno il 3o%, deve essere distribuito in base a criteri di merito. I più bravi nella ricerca e nella gestione vanno premiati con più fondi. Oggi invece che succede? I finanziamenti vengono sostanzialmente ripartiti in base al numero degli studenti. Questo fatto produce una moltiplicazione dei corsi per attrarre più studenti, con sprechi e offerte di bassa qualità. Insomma il punto è che le università non devono essere tutte uguali. Esatto. Per questo serve la valutazione, perché come accade nei Paesi con la migliore formazione, ci sono un drappello di atenei d'eccellenza e poi gli altri che comunque garantiscono una buona formazione. Ma chi valuta gli atenei? In attesa dell'agenzia nazionale di valutazione che sembra non arrivare mai si potrebbe ripartire dal lavoro del Civr, il Comitato di valutazione della ricerca nato da un'idea bipartisan, che delle classifiche molto chiare in base ala produzione scientifica le ha fatte. Perché non usare quelle? Oltre alla valutazione che serve? Una nuova governance. Oggi le cariche di rettore e preside sono elettive e questo non aiuta chi viene eletto ad adottare delle iniziative meritocratiche e magari impopolari. In più questo sistema invoglia a chiudere un occhio di fronte a nepotismi e concorsi truccati. Chi dovrebbe guidare le università? Penso a dei "board" esterni autorevoli e indipendenti. Assolutamente non nominati dalla politica altrimenti si replica il meccanismo sbagliato dei manager degli ospedali. Cosa pensa della possibilità di trasformarsi in delle fondazioni? Non mi sembra una cattiva idea. Personalmente non sono contrario. Ma nel contesto italiano secondo me non possono funzionare. Prima bisogna cambiare profondamente il sistema. Altrimenti il rischio è quello di attrarre solo chi vuole colonizzare le università per poterle sfruttare. C'è infine il discorso dei fondi della ricerca. Come vanno assegnati? Qui il discorso è semplice. Tutti i fondi pubblici dovrebbe essere assegnati con il metodo "peer review", cioè con una valutazione nel merito, anonima, terza e indipendente. Come «Gruppo 2003>r cosa proponete? Il 25 novembre alla Camera lanceremo l'idea di un'Agenzia snella e semplice che gestisca tutti i fondi della ricerca, oggi sparsi in mille rivoli, con questo metodo internazionale. __________________________________________________________________ l’Unità 3 nov. ’08 L'OCSE E IL BALLETTO DELLE CIFRE Benadusi: PROFESSORE UNIVERSITARIO Un gruppo di influenti economisti bocconiani va dipingendo un quadro catastrofico dell'università italiana, che non sarebbe affatto sottofinanziata ma solo stracolma di sprechi, inefficienze e immoralità. Questo catastrofismo, con le sue palesi forzature, finisce per legittimare la distruzione che dell' università pubblica è in atto da parte dei nostri governi i quali, con una progressione giunta oggi al culmine grazie ai provvedimenti inseriti nella legge 133/2008, stanno sottraendole le risorse necessarie per riformarsi e perfino per sopravvivere. Ecco un esempio - altri ne potremmo fare - di palese forzatura. L'autore del recente volume «L' Università truccata», il bocconiano Roberto Perotti, confuta i dati dell'Ocse sulla spesa per studente che vedono l'Italia - con 8.026 dollari - molto al di sotto della media Ocse -11.512 - e al penultimo posto tra i paesi dell'Europa occidentale, circa il40% in meno del Regno Unito, il35% della Germania, il27% della Francia, il20% della Spagna. Poiché per l'Italia, a differenza che per la maggior parte degli altri paesi, tutti gli studenti sono considerati a tempo pieno, compie una rettifica, di cui omette di esplicitare adeguatamente la metodologia, grazie alla quale - coup de theatre - balzeremmo ai primi posti della graduatoria. Insomma, l'università sarebbe sovrafinanziata anziché sottofinanziata. Ma il ricalcolo è del tutto arbitrario perché la tabella dell’Ocse (Education at a Glance, 2008) si basa sulla spesa annua moltiplicata per la durata media degli studi. Pertanto, come precisa l'allegata nota metodologica, se il dato italiano sulla spesa annua è sottostimato quello sulla durata è sovrastimato e i due effetti si bilanciano. Quindi i conti di Perotti non tornano né tornano le disastrose scelte di Tremonti e della Gelmini. •: __________________________________________________________________ Il il manifesto 5 nov. ’08 CRUI: TAGLIANO AGLI ATENEI PER RECUPERARE L'ICI MILANO • Il rettore Decleva, capo della Crui Mariangela Maturi MILANO Un altra rettore, dopo Giulio Ballio del Politecnico, ha ribadito le sue «riserve» rispetto ai tagli dell'università. Enrico Decleva, rettore della Statale e-présidente della Crui (Conferenza dei rettori italiani) ha partecipato all'incontro, «Per una vera riforma dell'Università» convocato ieri dalle liste di sinistra di tutti gli atenei. E' intervenuto per opporsi alla decisione del governo di pagare l'abolizione dell'Ici con ì soldi degli stipendi del personale_ universitario, dato che 470 milioni verranno trattenuti dal fondo ordinario dell'università: «E' un fatto assolutamente intollerabile - ha detto - talmente intollerabile da sperare che la cosa venga corretta». L'aula magna, gremita, ha applaudito il rettore quando richiedeva senso di responsabilità ai professori, che «se non vanno a lezione, non si fanno trovare in orario di ricevimento e trattano gli studenti con sufficienza non solo sono maleducati ma fanno anche. un danno all'istituzione». Porte del successo dell'incontro con il presidente della Repubblica, Sinistra universitaria ha organizzato questa assemblea invitando anche Decleva, che per la prima volta si è concesso. L'aula magna della Statale é ormai uno dei punti di riferimento della protesta. Lì si sono tenuti gli Stati generali dell'università convocati due settimane fa, li si è tenuta la lezione di Dario Fo. iL tenore della conferenza di ieri però era diverso: l'entrata in scena dei rettori ha regalato alla mobilitazione studentesca una credibilità istituzionale, con i pro e i contro che questo comporta Anche i toni della discussione sono inconsueti: prima l'ondata di interventi alle assemblee comprendeva Il «rivoluzionario» che si alza e grida «andiamo a bloccare le strade», oppure il solito «pasoliniano» fuori tempo massimo. Ieri, ovviamente, dominava l'understatement Riguardo alla protesta, Decleva ha ammesso che «è servita da grande detonatore», ma ha subito precisato che la situazione non si supera con il «non ci muoviamo da qua finchè non Eliminiamo i. tagli». Qualche prof è intervenuto con grafici e tabelle. Poche le critiche, un lavoratore agguerrito ha chiesto ai rettore perché non si fosse presentato agli Stati Generali, che pure avrebbero dovuto riguardarlo, e un ragazzo di Scienze Politiche ha invece ribadito l'indipendenza del movimento dai partiti, riferendosi anche al «tentativo imbarazzante dell'opposizione, che ci rincorre proponendo un referendum». Una stoccatina innocente a Sinistra universitaria, lista decisamente piddina. Nell'aula, comunque, uno striscione non passa inosservato: «L'onda non è rappresentabile. La vera rifozma non passa dai baroni», oggi, in Statale, è prevista un'assemblea vecchio stile (più «rivoluzionario» e meno piddino). _____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 Nov. ’08 IL SUCCESSORE DI MISTRETTA Università. Uno di loro guiderà l’Ateneo alle prese con la riduzione delle risorse «No ai tagli, d’accordo con la protesta» Programmi e idee dei cinque candidati alla carica di rettore Nel 2009, dopo diciotto anni di rettorato Mistretta, l’Ateneo cambierà guida. Cinque i docenti che hanno ufficializzato la candidatura Uno dei cinque dovrà governare la futura Università. Quella del dopo Pasquale Mistretta, rettore da diciassette anni (nel 2009, anno delle elezioni, saranno diciotto). Ma anche quella che docenti, ricercatori e studenti stanno fortemente contestando in queste settimane, con le manifestazioni in piazza contro la legge 133. I candidati alla poltrona di rettore che per ora hanno ufficializzato la loro discesa in campo sono cinque. Su un punto sono tutti concordi: giusto razionalizzare le spese, sbagliato tagliare i finanziamenti a cultura e ricerca. Rigorosamente in ordine alfabetico (per cognome) analizzano quanto sta accadendo e raccontano come poter guidare in futuro un Ateneo con meno risorse. DEL ZOMPO È l’unica donna candidata. Maria Del Zompo fronteggia quattro uomini. «L’Italia», spiega, «si era impegnata ad avvicinarsi a investire su cultura e ricerca il tre per cento del Pil. Non solo non sta accadendo, ma ora si taglia. Sono d’accordo con la protesta perché se da una parte è giusto razionalizzare le spese, dall’altra non è possibile diminuire in modo drastico i finanziamenti. Sarà arduo governare l’Università e mantenere l’attuale offerta formativa. I problemi dovranno essere superati in modo collegiale e condiviso». FAA La facoltà di Medicina schiera l’ex preside Gavino Faa. «Docenti e ricercatori», sottolinea, «devono ringraziare gli studenti che hanno creato un dibattito sul ruolo dell’Università. L’attenzione dell’opinione pubblica servirà al mondo accademico. E se una riforma non può partire con i tagli, questo obbligherà tutti a una maggiore attenzione, premiando i docenti che lavorano e inquadrare i lazzaroni. Bisogna anche puntare sui finanziamenti dell’Unione europea. Basti pensare che sono stati premiato 300 ricercatori con borse da un milione di euro. Dall’Università di Cagliari non è arrivata neanche una domanda per partecipare al bando». MELIS Nel polo giuridico ed economico di viale Fra Ignazio si era puntato sulle primarie per sostenere un unico candidato. Invece ne sono rimasti tre. Uno di questi è Giovanni Melis: «La legge 133 prevede soltanto tagli che mortificano le aspettative del personale docente e tecnico-amministrativo, e penalizzano i ricercatori. L’importanza dell’Università per lo sviluppo del Paese richiede che alla politica dei tagli si sostituisca un piano pluriennale per allineare le risorse disponibili ai livelli dei principali paesi Europei. In questo quadro, per rinnovare la nostra Università, dopo 18 anni, è evidente l’esigenza di realizzare una discontinuità rispetto al passato. Occorre puntare sulla chiarezza e sul decentramento dei processi decisionali». PACI Uno dei primi a uscire allo scoperto è stato l’ex preside di Scienze Politiche, Raffaele Paci. «L’Università», scrive nel suo programma, «sta attraversando un momento di grande difficoltà con il blocco del turnover e il taglio dei finanziamenti. Per questo vorrei lavorare alla costruzione di un programma di governo e non di un programma elettorale. Per fare questo è necessario il coinvolgimento e il contributo attivo dei docenti, del personale tecnico amministrativo e degli studenti». SASSU Il terzo candidato del polo economico e giuridico è Antonio Sassu. «L’Università», dice, «è cambiata, diventando una macchina amministrativa complessa: chi la guiderà deve far conoscere per tempo le sue capacità, esperienze e progetti. Per quanto riguarda il programma i tempi sono prematuri. In primo luogo l’Università sta subendo attacchi finanziari e strutturali ai quali bisogna contrapporre una forte reazione come quella di questi giorni. Il secondo motivo è che il programma deve essere un momento di coesione e di condivisione. MATTEO VERCELLI _____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 Nov. ’08 GESSA: PER EVITARE IL FUNERALE DEGLI ATENEI SARDI AIUTI DA MAMMA REGIONE Il Governo ha ridotto i fondi destinati alle Università nei prossimi tre anni, ha bloccato il turnover dei docenti stabilendo che di ogni dieci di loro che andranno in pensione solo due verranno rimpiazzati, e non ha rinnovato il contratto a circa 200 mila ricercatori precari. Berlusconi ha giustificato queste misure draconiane con la necessità di razionalizzare la spesa pubblica e recuperare soldi per sostenere banche e istituti di credito, e ha ricordato che la legge permette alle Università di convertirsi in fondazioni e autosostenersi con fondi privati senza oneri per lo Stato. Nature, la più autorevole rivista scientifica inglese, in un editoriale dal titolo "Cut-throat savings" sostiene che tagliare la gola senza un progetto di riforma è miope e stupido (" unwise and short-sighted "), soprattutto se la vittima è l’Università, il futuro di una nazione. L’Italia, inoltre, disattende l’impegno preso a Lisbona nel 2000 di aumentare progressivamente la spesa per ricerca e sviluppo fino a raggiungere il 3 per cento del PIL entro il 2010. Quali conseguenze avranno le misure economiche del Governo sulle Università della Sardegna? È opportuna una breve premessa sul loro stato di salute. Gli Atenei sardi, come gli altri, hanno malamente utilizzato il prezioso strumento dell’autonomia, ricevuto dal ministro Ruberti nell’81, moltiplicando i corsi di laurea, istituendo lauree brevi, master di primo e secondo livello, dottorati, sedi universitarie decentrate in numerosi paesi dell’Isola, aumentando il numero del personale amministrativo fino a eguagliare quello del personale docente e affidando l’insegnamento ai ricercatori, distraendoli dal loro compito istituzionale che è la ricerca. Infine hanno arruolato, attraverso concorsi "preconfezionati", numerosi ricercatori, professori associati e ordinari, tutti di razza esclusivamente locale. La proliferazione dell’offerta formativa è servita a dare un posto ben retribuito ai professori ma non a formare veri professionisti di cui la Sardegna ha bisogno. Infatti il titolo erogato specialmente dalle sedi decentrate non sempre corrisponde a competenze reali e non offre concrete prospettive occupazionali. Ad esempio, che fine hanno fatto le migliaia di laureate uscite dal corso in Psicologia, quelle che non hanno trovato un posto in un call center? L’Università dovrà trovare in tempi brevi fonti alternative di finanziamento. La conversione in fondazioni è difficilmente attuabile in Sardegna, perché non vi sono industriali o mecenati che abbiano interesse a investire sulla conoscenza. Le piccole e medie imprese sono perfino inconsapevoli del valore strategico della ricerca nella competitività sui mercati. Si prevede invece che le due Università cercheranno di scongiurare il loro funerale chiedendo aiuto a mamma Regione per proseguire nella loro discutibile politica, che non dovrà commettere l’errore, speculare a quello del Governo, di elargire soldi prima che gli Atenei abbiano attuato una riforma che garantisca la produzione di laureati di qualità e offra un titolo con valore di mercato nel senso che serva veramente nel lavoro e nella vita. Nel marzo 2008 la Regione ha stanziato 6 milioni per la sopravvivenza delle sedi decentrate a condizione che "entro tre mesi la Giunta e i rappresentanti delle Università dovranno decidere quale sede decentrata meriti di essere sostenuta e potenziata, quale modificata, quale soppressa", non solo in considerazione del prestigio del Comune, del sindaco o del politico di riferimento, quanto del fatto che fornisca una qualificata offerta formativa. Dopo otto mesi, non è ancora successo nulla. È auspicabile che la Regione coinvolga nella riforma chi fa buona didattica e vera ricerca anziché disperdere soldi come ha fatto finora per sostenere associazioni, consorzi, fondazioni, commissioni, consulenze, nuclei di valutazione, per risolvere "in tempi brevi" la razionalizzazione formativa delle Università sarde. Qualcuno di questi organismi lavora alacremente, con i nostri soldi, per realizzare questo obiettivo, da più di vent’anni. Produrre laureati senza qualità è un peccato mortale non tanto perché si sprecano soldi pubblici quanto perché si rubano gli anni migliori ai giovani sardi. Agli studenti che protestano, il consiglio di "non mollare": siete l’unica forza che potrà cambiare veramente l’Università. Il ceto accademico e politico non attuerà riforme reali senza la vostra rabbia poiché è figlio o padre di questa Università. GIAN LUIGI GESSA _____________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 Nov. ’08 BRIGAGLIA: SE SI MASSACRA L’UNIVERSITÀ A PERDERE È IL PAESE INTERO di Manlio Brigaglia Quarant’anni dopo, un altro ’68. Hanno provato a chiamarla così, la protesta degli studenti universitari: ma quando le hanno cambiato nome, battezzandola l’Onda, hanno voluto dire che la cosa è diversa. Del resto, gli studenti che protestano, oggi, appartengono come minimo alla generazione successiiva a quella del ’68, e nel ’68, ovviamente, non c’erano. La differenza è grossa. Il Sessantotto fu una vera e propria rivoluzione, nata in gran parte da un provvedimento, semplice ma rivoluzionario, come fu quello che apriva le porte dell’Università a chiunque avesse conseguito un diploma di scuola media superiore. L’Università di pochi divenne una scuola di massa: si parlò di «licealizzazione» per dire di una scuola che, rinunciando a ogni livello alto e sofisticato della formazione, si contentava di dare agli studenti un pacchetto formativo più semplice, meno complicato (in una parola, meno difficile). Il ’68 portò con sé una protesta generalizzata, che non riguardava più il modo e neppure la quantità degli studi ma l’intero statuto della presenza dei giovani nella società di quel tempo: gli slogan più famosi non toccavano tanto il sapere quanto la libertà, il rapporto con i genitori più che quello con i professori, ogni forma di emancipazione (in particolare quella della donna) più che la stessa partecipazione alla vita istituzionale delle Facoltà. Ora il discorso è molto meno radicale, anche se tocca una compatta serie di temi più determinanti: il reclutamento dei professori, la superiorità del merito sulla lunga tradizione baronale (sempre imputata, mai neppure intaccata), l’inedito avvento del merito come strumento della promozione, l’arruolamento e la carriera dei ricercatori, un nuovo protagonismo degli studenti. Ognuno di questi temi ha una sua concretezza, una sua dimensione pratica e «maneggevole»: non pretende la rivoluzione, ma soltanto una serie neppure tanto compatta di piccole riforme. Sì, riforme piccole nel senso di riforme che non è impossibile realizzare, che non hanno niente di quel carico di utopia che accompagnava, in passato (non solo nel ’68 ma anche nel ’77) il movimento degli studenti. Che ha oggi due caratteristiche: è movimento di studenti e di professori insieme, mentre il ’68 celebrò una rottura così drastica con la classe docente che, per dare un esempio irrefutabile, scelse come bersagli i professori migliori, non quelli meno bravi e meno impegnati. La seconda caratteristica è la partecipazione degli studenti, molto più larga e comprensiva, fortemente meno ideologizzata di quella di quarant’anni fa: allora il movimento fu fatto soprattutto di minoranze combattive e irriducibili, oggi la protesta protesta accomuna gruppi diversi, relegando il dissenso ai margini della massa studentesca. Da questo punto di vista l’episodio di Piazza Navona sembra originato soprattutto dal desiderio di un piccolo gruppo di esclusi di conquistare un posto nella comunicazione mediatica: la percentuale di spazio televisivo guadagnato con l’aggressione è di gran lunga superiore all’effettiva percentuale di presenza degli assalitori nella composizione del popolo universitario. Una terza forte caratteristica dell’Onda è di avere assunto su di sé un compito di rappresentanza degli interessi universitari che prima veniva o ignorato o delegato ai professori. Per questo il movimento ha di mira non tanto un provvedimento di riforma generale dell’Università quanto lo specifico taglio dei finanziamenti, dal quale peraltro dipende realmente il suo futuro. Sono ormai quattro o cinque anni che l’Università viene chiamata, a ogni bilancio, a ridurre le spese, a tirare avanti stringendo la cinghia: il processo non può continuare all’infinito, anzi è ormai arrivato a un punto di rottura tale che il rettore del Politecnico di Milano può dare per sicura la fine stessa dell’Università in una scadenza vicinissima come il 2010. «Tagliate gli sprechi», dice la maggioranza: ma per quante volte si è sentito questo comodo avvertimento non una volta si è sentito indicare un esempio. Il fatto è che il mondo universitario (uso questo termine per indicare i consigli d’amministrazione e i «consumatori» dei fondi per il funzionamento) ha già ridotto nell’ultimo quinquennio tutte le spese che si potevano ridurre: il taglio degli sprechi è un alibi per la mancanza di soluzioni reali e efficaci come quelle di cui l’Università sente oggi una urgenza irreversibile. Se l’Università perde questa battaglia, il Paese perderà la guerra. Sembra che il governo l’abbia capito, ma bisogna aspettare a vedere. _____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 Nov. ’08 CRIPPA: MAI PIÙ BARONI DA NASCONDERE NELL'ARMADIO Il futuro dell'università di Maurizio Crippa Ce n'est qu'un debut , non è che l'inizio. Era il più famoso slogan del Maggio francese. Il paradosso italiano di quarant'anni dopo è che ora tocca al ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini farsi coraggio e pronunciarlo forte e chiaro. Non era facile prevedere che il suo decreto legge d'urgenza di fine estate, ora trasformato in legge da un Senato "assediato" dalla protesta degli studenti, finisse per scatenare un tale putiferio nazionale, bloccasse scuole, università e strade: in fondo, si trattava di corposi ma sostanzialmente giustificati provvedimenti di razionalizzazione per evitare un disastro annunciato. Bisogna anche dire, del resto lo hanno ammesso anche autorevoli esponenti della maggioranza, da Ignazio La Russa a Valentina Aprea, presidente della Commissione Cultura della Camera, che qualche difetto di comunicazione e di eccesso di urgenza da parte del Governo c'è stato: per muoversi in un campo minato come quello della scuola, occorrono mille precauzioni. Ma proprio per questo, da domani il ministro Gelmini è decisa a voltare pagina, e passare senza indugio ai veri progetti di riforma che, assicura lei e confermano i bene informati, sono già quasi pronti sul suo tavolo. Non è che l'inizio, appunto. Ma quali saranno le prossime mosse destinate davvero a cambiare faccia alla scuola e all'università? Il fronte più caldo e urgente, al momento, è proprio quello degli atenei. «Entro una settimana - ha detto la Gelmini mercoledì scorso in Senato - presenterò il piano per l'università». La prima urgenza da risolvere dovrebbe essere quella di bloccare i concorsi già indetti, per un totale di circa 7.000 posti, che "saturerebbero" completamente le possibilità di nuove assunzioni, in attesa di fissare nuovi criteri, più trasparenti e meritocratici degli attuali, per gli accessi alla docenza universitaria. La seconda mossa sarà quella di ridurre le sedi staccate degli atenei, attualmente 320, decisamente troppe e troppo costose anche per un Paese che vanta ben 94 università: più di quattro a regione. Bisognerà poi rivedere i corsi di laurea, oggi sono la follia di 5.500, per razionalizzare anche qui. La causa di questa esplosione di indirizzi è stata senza dubbio la riforma che ha introdotto le cosiddette "lauree brevi": doveva servire a sfornare più laureati e più in fretta (l'Italia è indietro rispetto alle medie europee) e invece è servita a moltiplicare le cattedre. Dagli uffici del ministro filtra l'intenzione di procedere a un rapido riesame, confrontandosi con serietà anche con la Conferenza dei rettori. O almeno con quelli che non hanno "baroni nell'armadio" da nascondere. Solo così si potranno liberare le risorse necessarie a potenziare le università migliori. Dopo i tagli e il ritorno al maestro prevalente, grande è la sfida che attende il ministro anche sulla scuola. La vera rivoluzione, in realtà, è già in gestazione alla Camera, ed è contenuta in una proposta di legge, la 953 sulle "Norme per l'autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti". A presentarla è stata proprio Valentina Aprea (Pdl), nome indicato da molti come il più influente per le future politiche scolastiche della maggioranza. Nel progetto, questo sì di portata formidabile se andrà in porto, sono previste misure come l'autonomia degli istituti scolastici, che permetterebbe di affidare le scuole a consigli d'amministrazione responsabili della loro gestione, a partire dalla scelta del personale insegnante e dall'uso delle risorse. L'altro punto chiave è la questione delle carriere degli insegnanti. Che non sono solo troppi o fannulloni, ma anche sottovalutati e sottopagati a fronte dello splendido lavoro che la maggior parte di loro fa. Come premiarli? Innanzitutto riconoscendo il merito. Un meccanismo innovativo potrebbe essere quello di inserire tre livelli diversi - iniziale, docente ordinario e docente esperto - per la qualifica e le retribuzioni. Poi serve un sistema più diretto di reclutamento, che ponga anche fine all'insensato viavai da una regione all'altra dei docenti. Non è una questione di "leghismo", ma di efficienza. Anche perché, oggi, il sistema dei trasferimenti è una delle cause che impediscono di avere cattedre - e dunque anche sedi di lavoro - stabili; aumentando costi e disagi non solo per gli studenti ma anche per gli eterni precari chiamati a riempire i buchi qua e là. Domani è un altro giorno, queste sono le prime scelte che attendono Mariastella Gelmini. _____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 Nov. ’08 PANI: CARI STUDENTI VI SCRIVO E VI DICO... Lettera agli universitari cagliaritani di un docente informato dei fatti. Cari studenti, non vendetevi per un piatto di lenticchie, peraltro riscaldato. Non siate strumento d’altri, non cercate alleanze, ma riprendetevi la vostra autonomia, chiedete d’uscire dagli angusti recinti italiani e di entrare in Europa, per un confronto con i vostri colleghi europei. Chiedete che sia anche l’Università a garantirvelo, dovrebbe essere un atto dovuto. È il 2008, non il Sessantotto: è una presa d’atto, prendetene coscienza, possibilmente con la vostra dissacrante originalità giovanile. Vigilate con severità, ma non lasciatevi coinvolgere. Fate in modo che non si dica: "Abbiamo dalla nostra anche gli studenti", da qualsiasi parte venga, politica e/o istituzionale. Fate in modo che non si dica: "Pagliacciate", non date adito a equivoci, tenetevi fuori dal mucchio, "aristocraticamente", nella "vostra" piazza e nei modi della vostra età. Pretendete che la lezione sia rigoroso strumento istituzionale per portarvi in Europa, oltre qualsiasi altro suo carattere strumentale, di visibilità mediatica. Perseverate nella vostra piazza, fate in modo che non sia fuoco di paglia del tipo "dopo il temporale tutti a casa, in buon ordine", magari con il ritiro da parte del Governo di un decreto sull’Università, per una riforma che non è mai stata scritta. Cagliari 2009: sarà eletto il nuovo Rettore dell’Ateneo, siete parte dell’elettorato passivo (180 votanti). Potete incidere in modo significativo. Il prossimo Magnifico potrà dire: "Ho dalla mia anche gli studenti". Impedite che lo possa dire. Astenetevi dal voto con un vostro lecito e legittimo atto di disobbedienza civile. Ne avete il coraggio? L’Università è anche palestra intellettuale della Politica, di nuove visioni del mondo (non solo della Politica), non dovrebbe essere, però, il luogo del "politichese". È invece il recinto dove siete stati costretti a sopravvivere. Prendete atto del carattere della vostra partecipazione elettorale, non è un atto di democrazia. Siete entrati a far parte di un demagogico sistema consociativo a difesa di una vecchia Università corporativa, che lascia fuori i giovani. Prendetene atto. È questo il commento di un docente che rivendica la sua autonomia istituzionale, anche in un aspro confronto con gli studenti. È atto dovuto (è bene aggiungere nell’autonomia dei propri ruoli), ma nel rigoroso rispetto reciproco. PAOLO PANI __________________________________________________________________ Economy 11 nov. ’08 GIANPIERO CANTONI:LA SCUOLA PRIVATA NON MERITA TAGLI GIANPIERO CANTONI docente di economia internazionale e senatore di Forza Italia Gli studenti hanno invaso piazze e strade delle grandi città, con un motto politico preciso e conciso. Sta tutto in una parola: no. Ogni tentativo di porre mano a quella polveriera che è la scuola si imbatte sempre in una esplosione di conservatorismo. Non parlo solo di Letizia Moratti e Mariastella Gelmini, le ministre del centrodestra con cui i nostri ragazzi avevano e hanno giocato a freccette. Penso anche a Luigi Berlinguer, accademico rispettato e uomo dell'aristocrazia della sinistra: impallinato dai giovin signori della nostra scuola, perfettamente educati dai loro professori a mimare in sedicesimo quella vocazione alla contestazione che ne ha contrassegnato la giovinezza. Fa bene Gelmini, e con lei Giulio Tremonti, a resistere. Come hanno dimostrato numerosi commentatori (mi piace qui citare solo il bel libro di Roberto Perotti, L'università tradita, giustamente molto letto in questi giorni), l'università non deve temere i tagli, deve recuperare in qualità. I ragazzi che manifestano non dovrebbero ragliare contro delle sforbiciate che potrebbero e dovrebbero costringere a produrre qualità ed efficienza. Dovrebbero invece protestare perché la scuola non li prepara come dovrebbe. Dovrebbero levare la propria voce contro un sistema educativo che non li mette in condizione di competere con altri giovani, formatisi in altri Paesi europei. Le accuse rivolte al governo di voler privatizzare l'educazione sono ridicole. Ma sono anche preoccupanti. I ragazzi urlano «università pubblica» come se stessero affermando un valore assoluto. Basta con la retorica contro la scuola dei ricchi contrapposta alla scuola dei poveri. La scuola dei ricchi c'è già: sono le università americane e anglosassoni, dove chi può va a studiare per ottenere un alto ritorno sul suo investimento nella propria educazione. Cosa che in Italia non può ottenere. AZIENDE NO PROFIT Del resto, i tagli voluti da Tremonti toccano anche (a dispetto dei manifestanti, che per coerenza in questo caso dovrebbero applaudire) le scuole private. Pongono anzi alle private una minaccia effettiva. Forza Tremonti, rimedia. Elimina quel taglio da 133,4 milioni di euro, che si tradurrebbe - se le scuole cattoliche chiudessero - in un costo esorbitante per lo Stato. Le scuole private sono aziende no profit, non pozzi senza fondo. Vale la differenza fra ospedali privati e ospedali pubblici. Gli uni debbono fare i conti a fine anno. Gli altri hanno dalla loro la logica del piè di lista, per cui al momento della verità ogni dissesto è perdonato. La scuola privata in Italia è sottosviluppata. Quella del pubblico è una concorrenza sleale, che si potrebbe razionalizzare solo attraverso buoni scuola o crediti d'imposta: cioè ammettendo che non è logico che famiglie, spesso non più ricche della media, paghino due volte per lo stesso servizio. Ma la scuola privata è anche una ricchezza. Da una parte, è l'unico benchmark per il pubblico, spesso di eccellenza. Giudicate la differenza d'uso che ne fa la Bocconi rispetto ad altre università. Dall'altra, è un fatto di ricchezza. In piazza s'è vista anche l'omologazione ideologica, che perpetua se stessa. Insegnanti tutti schierati da una parte producono studenti tutti schierati da quella parte. A questo fenomeno, le scuole cattoliche rappresentano spesso l'unica possibilità di un qualche freno. Danno insegnamento di qualità e una prospettiva diversa. Coerente con quella di un gran numero di cittadini e famiglie, che ne costituiscono il mercato di riferimento. Che cos'è il pluralismo, se non questo? Non accetteremmo mai di dover leggere un solo giornale. Non sopporteremmo una televisione di un solo canale. Quando una sola impresa domina un intero settore lo chiamiamo monopolio. Perché lo accettiamo quando si parla di un servizio così essenziale come l'educazione dei nostri ragazzi, proprio mi sfugge. __________________________________________________________________ ItaliaOggi 5 nov. ’08 PER RISANARE L'UNIVERSITÀ BASTA ABOLIRE IL VALORE LEGALE DELLA LAUREA DI MARCO BERTONCINI Si eviterebbe di studiare per il pezzo di carta Recatevi sul sito dell'Università di Bari, facoltà di veterinaria. Troverete una ricca scheda sul «Corso di laurea in scienze dell'allevamento, igiene e benessere del cane e del gatto». Recatevi sul sito del ministero della Gelmini. Troverete che esiste una sede staccata dell'Università di Sassari, in quel di Ozieri, con 15 studenti iscritti. Bastano questi due piccoli dati per capire che l'istruzione superiore non può andare avanti così. Il problema si poneva già negli anni 20 (sic): non poté risolverlo un ministro che si chiamava Benedetto Croce, lo risolse un suo successore (ottenendone piena adesione) che si chiamava Giovanni Gentile, grazie ai pieni poteri (che sarebbero i decreti legge odierni). C'erano troppi studenti universitari: bisognava ridurli. Lo Stato si sarebbe accollato le spese per dieci atenei (e per singoli istituti superiori); a mantenere gli altri avrebbero provveduto gli enti locali o i privati. 5e non ci fossero riusciti, quelle università avrebbero chiuso: La manovra nei primi anni riuscì, perché le facoltà vennero sfoltite di studenti in soprannumero. Poi, giunsero i cosiddetti «ritocchi» alla riforma Gentile e il fascismo cadde nella facile demagogia di ritornare all'andazzo precedente, peggiorato. Dopo il '68, la classe politica coltivò l'assurdo dell'università di massa, due sostantivi che non possono insieme stare: agguagliò tutti i diplomi, dequalificò gli studi superiori, moltiplicò lauree, cattedre, atenei. Oggi, per superare le sedi collocate presso frazioni di paesi minori; per contenere i 5 mila e passa corsi di laurea; per togliere di mezzo centinaia di migliaia di studenti che non studiano; per abolire decine di migliaia di professori non all'altezza; per farla finita con i sindacati di polizia che fanno laureare i marescialli mercé la traduzione in «crediti» del lavoro già svolto: l'unica soluzione seria sarebbe sopprimere il valore legale del titolo di studio. In tal modo, si studierebbe non per il pezzo di carta (che tale diverrebbe di fatto, giacché privo di alcun riscontro di legge), bensì per lo studio in sé. Varrebbe il merito, senza l'atroce odierna parificazione fra studio, e non studio, fra ateneo dì prestigio e ateneo facile, fra insegnamento vacuo e insegnamento serio. Peccato che a parlarne sia l'isolato ex ministro Antonio Martino, riprendendo un antico insegnamento di Luigi Einaudi. Ma nessuno gli dà retta. I liberali, si sa, sono oggi ancor meno numerosi e meno influenti, più divisi e più nascosti di quando erano raccolti in un piccolo partito, __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 nov. ’08 RICERCA: UN PASSO CONCRETO VERSO IL MERITO SELEZIONE NELLA, RICERCA NUOVO MODELLO Per superare l’autonomia senza responsabilità degli ultimi anni, occorre far leva su incentivi e governance Il Governo sta imboccando la ~ strada giusta per rinnovare il capitale umano dando spazio ai giovani, introducendo norme selettive per il loro ingresso nell'università e bloccando il reclutamento in quegli atenei che spendono per il personale più del 90% dei fondi statali. Ma questi provvedimenti non possono che essere un primo segnale. L'obiettivo è invertire il declino della qualità della formazione e della ricerca che sta caratterizzando molte, troppe università italiane. Un declino percepito dalla maggior parte degli studenti, che genera in loro un senso di incertezza e frustrazione e li ha spinti in questi giorni a manifestare per il futuro dell'università. Le loro ragioni sono molte e valide. Le varie riforme dell'università, a partire da quelle di Ruberti e Berlinguer, che avrebbero dovuto realizzare la piena autonomia universitaria, si sono fermate a metà strada. Sia nella selezione dei docenti, che nella didattica, nella ricérca e nella gestione amministrativa, la responsabilità è rimasta "ibrida", condivisa fra centro e periferia, quindi foriera di comportamenti irresponsabili da parte accademica. L'autonomia senza responsabilità è stata la cifra degli ultimi anni e ha prodotto molti guasti dai quali sarà difficile rientrare, senza che una nuova cultura della responsabilità penetri nell'accademia. La sua mancanza ha di fatto reso impossibile creare un sistema di valutazione realmente premiante o sanzionatorio e non si 'e riuscito a sviluppare in modo trasparente, a livello delle rappresentanze democratiche, una qualche forma di "rendicontazione sociale" dell'attività accademica. Da ciò sono conseguiti molti dei mali lamentati dagli studenti: strutture universitarie spesso mal organizzate, scarsamente dotate e obsolete; docenti poco motivati e preparati; corsi di laurea senza sbocchi nel mercato del lavoro; insufficiente preparazione alle professioni e alla attività di ricerca. Di fronte a questo degrado e alla complessità del problema diventa facile per molti la fuga nelle ricette semplificatrici, esemplificate nei due opposti estremismi del ritorno al paternalismo statale o della cieca fiducia nel successo evolutivo dei meccanismi perfetti del mercato. Per i primi, concorsi, corsi di laurea e finanziamenti dovrebbero essere decisi e gestiti dal "dispotismo illuminato" del governo centrale. Per i secondi solo la "mano invisibile" della domanda di formazione da parte degli studenti e di conoscenza scientifica e tecnologica da parte delle imprese e agenzie sarebbe in grado di modellare in senso meritocratico ed efficiente il sistema universitario. Ma non può sfuggire a nessuno che se la prima strada ha già dimostrato la sua inefficienza, i sostenitori della seconda non hanno finora saputo indicare una via realmente percorribile, che non appaia come un puro e semplice smantellamento del sistema pubblico. La riforma di cui hanno bisogno gli studenti e il Paese deve rendere efficiente il sistema pubblico delle università - se vogliamo esempi di efficienza e alta qualità ve ne sono in abbondanza, dalle università pubbliche della California a quelle inglesi - e nello stesso tempo permettere l'evoluzione delle università private riducendone i vincoli burocratici e normativi in modo da dare loro spazio di sperimentazione di soluzioni innovative nella formazione e nella ricerca. A questo scopo occorre superare il modello ibrido e deresponsabilizzante, oggigiorno in vigore. Come? Attraverso un sistema di autonomia compiuta dove le università possano pienamente autoregolarsi all'interno di un quadro generale di obiettivi strategici nazionali, con efficaci modalità di valutazione e certezza nei premi e sanzioni relativi. In questo modello di decentramento regolato in cui il Governo ha il ruolo di "designer" delle priorità strategiche del sistema e le università abbiano completa autonomia didattica, scientifica e amministrativa, i problemi cruciali sono due: incentivi e governance. Dei primi abbiamo già detto, basta rendere efficace il sistema di valutazione già oggi esistente applicandolo nella distribuzione delle risorse alle università. Il secondo, la governance, diventa essenziale per permettere alle università di realizzare in tempi ragionevoli una risposta virtuosa agli incentivi e per introdurre un nuovo spirito e una cultura della qualità e della responsabilità. Una via in questa direzione è stata indicata nel, decreto Tremonti: la trasformazione in fondazioni permetterebbe alle università di dotarsi di un sistema di corporate governance che si è dimostrato, nel mondo anglosassone, il modello migliore per combinare efficienza gestionale e ricerca del primato didattico e scientifico. Università - fondazioni potrebbero costituire un "benchmark" emulativo su un altro insieme di università che si avvicinano ai requisiti richiesti. Crediamo tuttavia che questa strada possa essere percorsa da un numero molto limitato di università pubbliche, perché essa ha piena efficacia solo se i finanziamenti esterni superano quelli statali. La gran parte delle università non potranno operare questa trasformazione, non essendo in grado di attirare cospicue risorse esterne. Questo non significa che non possano dotarsi di un sistema di governance efficace che sia disegnata sulla base di alcuni principi guida comuni a tutto il sistema. Ne indichiamo almeno due: primo, il cambiamento delle modalità di elezione e del ruolo del rettore, che, invece che mediatore degli interessi interni, possa essere il portatore delle strategie di sviluppo dell'ateneo, costruite in competizione con il contesto internazionale della ricerca e della formazione. Secondo, il baricentro decisionale spostato in un consiglio di amministrazione dove siano rappresentati i principali stakeholders, che assuma la piena responsabilità gestionale e finanziaria dei progetti di sviluppo é sappia fare fund raisingper finanziare l'innovazione e la qualità, dialogando in permanenza con il territorio. Le università potranno invertire il declino grazie alla competizione creata dagli incentivi pubblici e a una nuova capacità strategica che permetta di perseguire in modo efficace i loro obbiettivi: potranno scegliere di caratterizzarsi come università di ricerca la cui didattica di base, quella per le professioni e per fattività di ricerca sia indirizzata e ispirata agli obiettivi scientifici e tecnologici dell'ateneo; o potranno preferire di caratterizzarsi come università di didattica orientate, prevalentemente, alla immissione veloce sul mercato del lavoro di personale in accordo con la domanda locale: ma potranno farlo con una strategia consapevole, orientata alla qualità e guidata dalla competizione. C'è da augurarsi che il ministro Gelmini, realizzate le norme urgenti sul reclutamento, possa affrontare in tempi rapidi il problema cruciale degli incentivi e della governance perché, eccezione fatta per un ristretto numero di università che rimangono competitive, il resto del sistema rischia ormai un declino irreversibile. Massimo Egidi megidila luiss.it Riccardo Viale riccardo.viale@jondazionerosseffi.it __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 6 nov. ’08 MIUR-UNIVERSITAS: NEL SISTEMA CONOSCENZA il team di atenei ha definito i possibili assi di sviluppo Il trasferimento della conoscenza dell'università al territorio è una delle criticità del sistema Italia. Alberto Silvani, direttore di Unimitt, Ufficio di trasferimento tecnologico della Statale di Milano, ha appena concluso Universitas, progetto finanziato dal Miur proprio su questi temi. Il limite maggiore che si riscontra oggi, sostiene Silvani, è che la ricerca definisce prodotti "in house", con logica autoreferenziale, che non tiene conto delle esigenze dell'ambiente circostante; ciò rende complicato l'incontro con il mercato. Per ovviare a questi inconvenienti occorre puntare il più possibile su una relazione diretta con il destinatario del prodotto. Altro tema "caldo` su questo fronte è la poca strutturazione di servizi di accompagnamento all'uscita della ricerca accademica, cioè la sua valorizzazione. L'effetto è quello di consegnare in mani esterne le decisioni relative agli esiti del trovato; altro aspetto cruciale è una sorta di distorsione creata dal modo in cui l'università guarda all'economia: si vede il tessuto economico esterno come mera fonte di finanziamenti, non come partner. In team con Politecnico, Bocconi e Università della Calabria, Unimitt ha lavorato su questi temi, con tre peculiarità: complementarietà dei saperi, ambiente esterno ricettivo, background di esperienze significativo. Oltre a verificare una sintonia di fondo tra gli atenei, l'esperienza ha definito le criticità per il futuro e i possibili assi di sviluppo: risolvere il conflitto potenziale degli Ilo (Industrial liason office) con l'amministrazione e i docenti; definire l'aggregazione territoriale ottimale degli Ilo, dopo un finanziamento Miur una tantum, e forme di partenariato con aziende ed enti pubblici; strutturare una rete nazionale degli Ilo che configuri un sistema pubblico della ricerca; definire profili professionali qualificanti e spendibili anche nel privato. ANTONIO SANTANGELO , www.universitasonline.it/universitas/index.php _________________________________________________________ il manifesto 7 nov. ’08 FORMAZIONE LA VARIABILE INDIPENDENTE DEL SAPERE Benedetto Vecchi L’università funziona oramai come un'impresa, anche se trasforma materie prime alquanto particolari, come particolare è la merce che produce. Ma ciò che la rende il suo operato paragonabile a un'impresa è il modello organizzativo che si è data nel corso degli ultimi trent'anni. In primo luogo, tanto a New York come a Sidney, la produzione del numero dei laureati e la formazione di ricercatori risponde a criteri di allocazione ottimale di risorse economiche, di «capitale umano», di accesso alla finanza e di produttività. Inoltre, l'università deve fare profitti, al punto che in molti paesi è diventata norma la possibilità di poter brevettare i risultati delle ricerche scientifiche conseguiti nelle università, facendo venire meno quella consuetudine, diffusa prevalentemente, nel mondo anglosassone, di considerare di «pubblico dominio» le scoperte e le invenzioni avvenute nei laboratori universitari. Le trasformazioni delle formazione universitaria in attività produttiva ha ovviamente incontrato e incontrano resistenze. E tuttavia ciò che è evidente è la crisi dei due grandi modelli di università, quello anglosassone, fortemente orientato al cortocircuito tra economia e formazione qualificata, e quello «europeo», dove la trasmissione del sapere poteva avvenire solo in un mondo a parte, separato cioè dalla realtà. E non è quindi un caso che le pratiche di resistenza alla trasformazione delle università in attività produttive si pongano decisamente lo sviluppo di università autonome, dove sperimentare modalità di produzione e trasmissione del sapere a partire dalla convinzione che la conoscenza è sempre il risultato di pratiche sociali collettive tese a far crescere e arricchire gli «alberi della conoscenza». Negli anni Sessanta del Novecento lo studioso statunitense Robert MerCon scrisse un saggio è divenuto un piccolo classico sul rapporto tra produzione di conoscenza e sapere accumulati nel passato. Si trattava de «Sulle spalle dei giganti», laddove lo studioso americano riprendeva una frase di Isaac Newton, che sottolineava appunto il fatto che aveva potuto elaborare la sua tesi sulla forza di gravità grazie all'opera di scienziati del passato. Ma anche in questo caso il risultato era proprietà esclusiva dell'inventore, Ciò che contradditoriamente emerge dalla crisi dei modelli universitari dominanti è il carattere squisitamente sociale della produzione di conoscenza e che la trasformazione delle università in imprese tende a legittimare l'appropriazione privata del sapere che tale trasformazione veicola Da qui la necessità di affermare l'autonomia delle pratiche culturali, comprese quelle universitarie. D'altronde, lo sforzo progettuale teso a sperimentare un'università autonoma è il background, nonché l'obiettivo de Università globale, il volume presentato in questa pagina. Si tratta di saggi che narrano esperienze di corsi che rompono con l’autoreferenzialità delle discipline e che fanno inoltre crollare le mura che spesso separano gli ambiti disciplinari. Testi scritti con stili espositivi diversi, ma tuttavia convergenti nell'immaginare un modello di università autonomo dal mercato, ma anche da quella concezione elitaria del sapere che spesso accompagna le critiche alle proposte di «modernizzare» il sistema della formazione. La sua lettura offre inoltre alcune c00rdinate per comprendere l’«onda anomala» che sta travolgendo le università italiane. In primo luogo, perché il disegno che si intravede dietro al taglio dei finanziamenti, il blocco parziale del turn-over e la possibilità degli atenei di diventare fondazione è in sintonia con l'università ridotta a impresa Inoltre, perché rivendica la radicale alterità a quanti vorrebbero addomesticare tanto le merci prodotte che le materie prime usate. L'onda anomala di queste settimane non solo esprime un rifiuto, ma prefigura una possibile incompatibilità della formazione con lo spirito imprenditoriale dominante. In altri termini, se i corsi universitari devono produrre una forza- lavoro con le competenze necessarie al mercato del lavoro e plasmata dai principi dell'individuo proprietario, l'onda anomala travolge il progetto di normalizzare la formazione. II collettivo Edu-factory affronta questi temi a partire da esperienza consumate in altri paesi. Certo, in India o negli Stati Uniti le dinamiche sociali sono altre, ma c'è tuttavia una convergenza tra quanto sta accadendo in Italia e la riflessione proveniente da quelle due realtà, in particola modo quando affrontano criticamente le questioni del multiculturalismo o della scelta di riviste anglosassoni come certificazione del lavoro di ricerca scelta. Tenni apparentemente lontani dalla denuncia del potere di veto o di condizionamento delle imprese private nella scelta dei campi di ricerca da «coltivare». La possibilità che prenda corpo un progetto di università autonoma deve si misurarsi con le trasformazioni strutturali, ma anche con le materie insegnate, i contenuti trasmessi, la critica al rapporto asimmetrico di potere tra docente e discente. Argomenti tutti discussi in questo volume, ma argomenti che sono diventati il creativo contesto in cui si muove l'onda anomala che ha scosso finalmente un'università, quella italiana, che mostrava l'indiscutibile segno del declino. Benedetto Vecchi ____________________________________________________________________ ItaliaOggi 7 nov. ’08 INCARICHI, NUOVE DEROGHE ALLA LAUREA Il collegato alla Finanziarîa prevede ulteriori modifiche all'art. 7, comma 6, del dlgs 165 Dall'informatica alla didattica si Allarga l’elenco delle eccezioni DI LUIGI Olivieri Cambia ancora il requisito del possesso della laurea, ai fini dell'assegnazione, di incarichi di lavoro autonomo, da parte delle pubbliche amministrazioni. Il disegno di legge collegato alla Finanziaria 1441-bis è passato al senato col nuovo numero 1167 e prevede un ritocco al testo dell'articolo 7, comma 6, del dlgs 165/2001, norma che non trova pace, tanti sono le modifiche che ha subito in questi mesi. Quest'ultima modifica, per altro, è davvero criptica, perché la legge non indica quale parte (periodo o alinea) del comma è modificata e solo con un occhio particolarmente attento si riesce a capire che si tratta di una modifica apportata al secondo periodo della disposizione, quello dedicato a illustrare i casi nei quali si prescinde dal possesso della specializzazione universitaria. I cambiamenti sono due. Uno riguarda l'oggetto degli incarichi esterni non richiedenti la laurea specialistica. Accanto alle attività nel campo dell'arte, dello spettacolo e dei mestieri artigianali, si inseriscono anche le attività informatiche, il supporto alle attività didattiche e di ricerca, i servizi di orientamento anche svolti nell'ambito del collocamento, i servizi di certificazione dei contratti di lavoro, previsti dalla legge Biagi. Insomma, si allunga l'elenco delle attività che non richiedono la specializzazione universitaria, probabilmente perché il legislatore stesso intende, erroneamente, attribuire al secondo periodo dell'articolo 7, comma 6, un improponibile valore di elenco tassativo, quando la disposizione non può che essere esemplificativa, poiché il primo periodo consente di assegnare gli incarichi esterni anche senza laurea, a condizione, tuttavia, che l'oggetto della prestazione lo preveda. Per quanto riguarda le attività informatiche, il legislatore non fa altro che prendere atto che attualmente operano esperti in materia spesso formatisi da sé, senza titolo accademico, ma dotati di notevoli conoscenze, soprattutto pratiche. Tuttavia, la nuova previsione non appare particolarmente utile. Infatti, i servizi informatici sono analiticamente previsti dal vocabolario comune degli appalti, in una serie di codici (tra essi, 72100000-6 Servizi di consulenza per attrezzature informatiche, 72110000-9 Servizi di consulenza per la scelta di attrezzature informatiche, 72120000-2 Servizi di_ consulenza per il ripristino di attrezzature informatiche, 72130000-5 Servizi di consulenza per configurazione di stazioni informatiche, 72140000-8 Servizi di consulenza per prove di accettazione di attrezzature informatiche, 72150000-1 Servizi di consulenza per verifiche di sistemi informatici e servizi di consulenza per attrezzature, informatiche), rientranti nel punto 7 dell'allegato IIA al codice dei contratti, «Servizi informatici ed affini», sicché gli affidamenti di tali consulenze possono e debbono seguire la disciplina del codice dei contratti e non quella degli incarichi esterni. Anche i servizi di orientamento sono contemplati al codice cpv «79634000-7 Servizi di orientamento per la carriera» e rientrano nell'allegato Il B al codice dei contratti. Per altro, la previsione dei servizi di orientamento tra quelli per i quali non sarebbe necessaria la laurea appare una vera e propria contraddizione in termini. In sostanza, il legislatore prende atto della prassi invalsa in particolare nelle province di far svolgere le attività di orientamento (in particolare finanziata dal Fse) mediante collaborazioni c00rdinate e continuative, anche a personale privo di laurea. Quando, invece, tali servizi, perla lo particolarità, richiederebbero certamente una specializzazione in psicologia del lavoro 0 altre specializzazioni universitarie analoghe. Oltre tutto, la disposizione potrebbe fornire il pericoloso spunto per considerare possibile utilizzare gli orientatori con co.co.co., anche prescindendo dal rispetto dei requisiti di legittimità richiesti dall'articolo 7, comma 6, per il conferimento degli incarichi. Lo stesso vale per i servizi di supporto alla didattica e alla ricerca: occorre, evidentemente, caso per caso verificare se l'attività didattica e di ricerca sia di livello universitario. La seconda modifica riguarda la tipologia dei contratti: l'attuale testo- consente la deroga al possesso della specializzazione universitaria nel caso di stipulazione di «contratti d'opera». Subito si è osservato che questa modalità di regolamentazione della prestazione può valere solo per i professionisti veri e propri e gli artigiani, mentre molto spesso chi svolge attività nel campo dell'arte e dello spettacolo regola i propri contratti mediante prestazioni occasionali, oppure co.co.co., perché manca della qualificazione di professionista. Per questa ragione, il testo del ddl cancella il riferimento al contratto d'opera, sostituendolo con i contratti di collaborazione di natura occasionale o coordinata e continuativa, che rappresentano la tipologia più utilizzata, nei campi per i quali non è richiesta obbligatoriamente la laurea. __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 2 nov. ’08 CABIBBO: NON ESISTE LA FISICA DI DIO di Nicola Cabibbo* L’ evoluzione è oggi al centro del dibattito scientifico. Anche l'Accademia Pontificia delle Scienze, dove sono in corso in questi giorni i lavori della sessione plenaria, ha affrontato il tema nei suoi due aspetti principali:l’evoluzione biologica e l'evoluzione cosmologica dell'universo. Scopo dell'Accademia è quello di presentare al Pontefice lo stato delle ricerche scientifiche, che in quanto tali utilizzano metodi scientifici, senza perciò porsi in maniera antitetica rispetto alla visione cristiana o di altre religioni. La scienza osserva la natura e cerca di capirne il funzionamento. Così vale anche per l'evoluzione. Ma vi sono alcuni ambienti religiosi, in particolare negli Stati Uniti, che sin dal processo Scopes (il famoso "processo della scimmia" del 1925) si sono opposti al suo insegnamento. In tempi recenti hanno cercato di imporre la narrazione biblica della creazione come un fatto scientifico, da presentare in parallelo alle teorie dell'evoluzione -progetto rigettato poiché in aperto contrasto con il primo emendamento della Costituzione americana -. Anche la recente ipotesi del disegno intelligente, non meglio definita, è una branca del creazionismo che si vuol mascherare ma che, infondo, rimane ben trasparente. II discorsosi dovrebbe allargare a una sorta di imbarazzo di alcuni ambienti religiosi verso la teoria dell'evoluzione. In qualche modo ricorda l'atteggiamento, nei Seicento, nei riguardi della terra che si muove; o andando ancor più indietro, all'imbarazzo rispetto all'idea che la terra fosse sferica piuttosto che piatta. Su questi argomenti intervenne Sant Agostino dicendo che la Bibbia non si interessa difatti scientifici, bensì della via alla salvezza. Un pensiero ripreso poi da Galilei nella famosa lettera alla Principessa Cristina: «La Scrittura non ci insegna come vada il cielo, ma come si vada in Cielo». Il problema dell'imbarazzo va risolto a livello teologico. Non può esser risolto in ambito scientifico. Sant Agostino ne aveva indicato la direzione, e con lui anche San Tommaso, il quale aveva messo in guardia dal tentativo di dare un'interpretazione religiosa delle scienze. Né può essere accettato il discorso di Belldrmino: «Ci crederò quando vedrò una prova». Così anche nel caso dell'evoluzione: risolvere il problema dicendo che dopo tutto Darwin non è veramente dimostrato e che esistono passi evolutivi che non si, possono spiegare, sembra una lotta di retroguardia destinata a fallire. Lo stesso discorso si può fare delle attuali teorie scientifiche é fisiche sulla cosmologia. Si pensi al "multiverso", che perora non ha alcuna dimostrazione sperimentale e probabilmente non ne avrà per molto tempo. Eppure le varie ipotesi sulla nascita del nostro universo portano a credere che esso non sia l'unico. Il solo modo per capire se ipotesi simili abbiano senso o meno, è continuare a far ricerca. Questo riguarda anche il tema della creazione del mondo. Un tema, come indica l'intervento di Wilson, che investe la vita umana sulla terra e la necessità di difenderla. Su questo terreno comune possono incontrarsi visioni differenti. Ma non è possibile sostenere che l'insegnamento biblico della creazione debba esser preso alla lettera e trasformarsi in un dato. Semplicemente, la creazione in senso religioso non è un fatto scientifico. Pretendere di costruire una fisica di Dio mi pare blasfemo. *Presidente Pontificia Accademia delle Scienze (Testo raccolto da Marco Filoni) _____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 5 Nov. ’08 GIULIO GIORELLO, SCIENZA È VIOLARE IL SENSO COMUNE L’epistemologo ha aperto ieri mattina a Cagliari il “FestivalScienza 2008” Una testa di capelli bianchi e due occhi azzurri pieni di simpatia verso il mondo. No, non è Giulio Giorello, il filosofo della scienza (e matematico) protagonista ieri mattina all’Exmà di Cagliari della prima giornata del FestivalScienza 2008. È Carlo Bernardini, fisico leccese di fama internazionale, componente della commissione ministeriale per lo sviluppo della scienza. In attesa del suo intervento (“Può crescere una democrazia senza competenze tecniche e scientifiche?”), in programma stasera, se la cava con una battuta: «Quanto sono contento che Giorello faccia una conferenza dal titolo “La scienza come dialogo delle culture”!. L’avessi detto io sarebbe stata l’ennesima dimostrazione dell’arroganza dei fisici». E poiché i fisici «sono anche pedanti» chiude con una preghiera agli studenti presenti: «Trasferite quello che sentite a un centinaio di persone. Qui dentro ci sono a occhio due milionesimi della popolazione italiana, se raccontate quello che raccogliete passiamo a due decimillesimi. Un dato che comincia a essere vagamente significativo...». È ironico il professore, che più tardi esalterà l’intelligenza naturale dei bambini (contro l’ineffabile stupidità degli adulti). Ed è, a parità di ironia, meno amaro del collega cagliaritano Franco Meloni, direttore del Dipartimento di Fisica e vice presidente del Crs4, che ricorda come in tempi bui fossero i monasteri a custodire e trasmettere la cultura. «Ora avviene il contrario. Cerchiamo di uscire dalle torri universitarie per occupare (no, non si può dire) per vivacizzare le piazze. Assurdo dirlo nel 2008, ma ci sembra che ce ne sia bisogno, che ci sia bisogno di dire che la cultura scientifica è utile, che l’innovazione e lo sviluppo fanno bene alla nazione, che fare ricerca è produttivo anche economicamente non solo ecologicamente. Insomma, dobbiamo rispondere se siamo abbastanza democratici, intelligenti, utili, e continuiamo perché il nostro destino finché i tempi non cambieranno sarà sempre quello di portare la cultura». È quello che fa egregiamente da molti anni l’associazione “Scienzaculturascienza”, che ha in Carla Romagnino uno dei rappresentanti più efficienti ed entusiasti. È proprio lei ad aprire il Festival, a sottolineare la crescita d’interesse del pubblico dei media e degli enti sostenitori, ad annunciare la volontà di coinvolgere il pubblico sul tema del dialogo tra scienza e società, dei legami forti tra scienza e musica, letteratura, arte, sport, ma anche su temi sociali e politici: il disagio giovanile, l’energia, la necessità della conoscenza per la crescita della democrazia. «Celebriamo la ricchezza e la varietà della cultura scientifica nei suoi collegamenti con la nostra vita e quella della società». Varietà che torna, in tutte le sue sfumature, nel lungo, appassionato intervento di Giulio Giorello. L’allievo di Ludovico Geymonat, l’autore di tanti libri nei quali mostra il suo garbato scetticismo, esordisce con «un sentite bene là in fondo?» e già questo approccio parla di lui. Grande amante dei fumetti, prende esempio da un fumetto che ha appena notato, nelle sale dell’Exmà. Disegnato da Fabrizio Piredda con testi di Andrea Mameli, mostra due bambini che rompendo una lampadina e vedendo lo spettro newtoniano dei colori scoprono che la luce non è bianca. «Vedere questo aspetto profondo della luce non è facile, ha richiesto la rottura della lampada. Sapete che cosa significa questo? Che le nostre percezioni del mondo vanno spesso integrate con idee che non sono sempre alla portata di tutti, ma richiedono fatica». Bisogna violare il senso comune per far strada alla scienza, dice il professore agli studenti che seguono ogni sua parola. «Occorre fatica, e tensione concettuale. Solo così (e cita Hebb, Hume, Thomas Payne, Galileo) si giunge al sentire comune di una collettività che si riconosce nelle scoperte scientifiche». Esalta il ruolo della comunicazione tra la scienza e le altre espressioni dell’intelligenza umana, Giorello, prende a esempio di grandi comunicatori Galileo, Newton, Darwin, Einstein, maestri capaci di servirsi anche del banale aneddoto per farsi capire. Affronta il tema del rischio dell’impresa scientifica, sottolinea l’importanza delle conquiste scientifiche che legano mondi diversi, ribadisce la positività dei dubbi degli scienziati. È dai dubbi che nascono nuove certezze. «La funzione della controversia, lo scontro delle idee, la diversità intellettuale, il fatto che una immaginazione può essere diversa, tutta questa differenziazione è un bene, non un male, una ricchezza, un’occasione. La pluralità delle idee arricchisce l’impresa scientifica». Quanto all’eresia della scienza, (che poi è l’ uncommon sense a lui così caro), «è la capacità della ragione di esercitare le proprie scelte senza che ci sia una autorità esterna che ci dica cosa dobbiamo fare». Dalla sfera sociale alla sfera privata: «Dobbiamo chiederci», ammonisce, «se questa autonomia non sia da estendersi anche alla vita personale: scegliere il modo di vivere, di sposarsi, di morire. Deplorevole relativismo? Per me non è così. C’è chi crede che chi ha un contatto privilegiato con la Verità possa decidere per tutti gli altri. Questo non avviene nell’impresa scientifica». Ma non significa che tutto equivale a tutto! Anzi, è l’esatto contrario: se è vero che tutto ciò che è provato è stato immaginato non è vero che tutto ciò che è stato immaginato è stato provato. Ecco allora perché è importante l’esperienza, perché rompere metaforicamente la lampada per vedere che cosa è la luce è importante quanto l’ideazione dell’impresa. Ma bisogna avere il coraggio di farlo. «C’è chi chiama questo coraggio “accanimento epistemologico”, eppure senza la sperimentazione continua non avremmo avuto Galilei, Newton, Darwin. Senza l’accanimento sperimentale non saremmo liberi come siamo. È questa la grande ricchezza della scienza, che va avanti usando i sensi e le macchine, sperimentando». «Sapete che cosa diceva Francesco Bacone?», chiede ancora Giorello. «Che più che i tomi di Aristotele hanno cambiato il mondo la scoperta della polvere da sparo, della stampa e della bussola. Io aggiungo lavatrice, lavapiatti, calcolatore tascabile. La natura dell’impresa scientifica è un grande cammino di idee ma non solo». Elogia la concretezza della verità (con la v minuscola), il professore. «Siamo macchine che interagiscono con macchine: e non abbiamo bisogno di pensare a una grande mente incorporea e immateriale. Anche la mente è un’attività dei nostri corpi. Ed è capace di interagire con il mondo non perché sia stata stata progettata da qualcuno, ma perché viene da un lungo, tormentato processo evolutivo». Pone in primo piano il ruolo di una cultura scientifica che non si identifichi con una religione, un gruppo etnico, ma sia aperta a qualunque virtuoso voglia impossessarsi dei segreti della natura. È l’antico programma della Royal Society, è il programma di qualunque impresa scientifica non bloccata da differenziazioni di settarismo. È la democrazia, l’impresa scientifica di civilizzazione nel senso più ampio del termine. «Le idee eccellenti sono tutte difficili quanto rare», dice citando Spinoza. «Ma la verità concreta è un progetto per il futuro. Una maggiore comprensione del mondo aumenta il nostro potere». E per quanto costi la scienza, ammonisce, «costa meno di quanto non sia costato imporre con la forza la propria religione, o la democrazia». Il professore ha quasi concluso il suo appassionato excursus nel mondo della scienza: oltre l’esaltazione della multiculturalità, oltre l’importanza di una seria educazione scientifica nelle scuole («non la vedo in Italia, purtroppo»), resta l’elogio finale della perfezione dell’uomo: una macchina lenta, imprecisa, «ma capace di giocare sui margini». MARIA PAOLA MASALA __________________________________________________________________ Repubblica 3 nov. ’08 L'INCOGNITA DELLA GENERAZIONE Y I sociologi e gli educatori di tutto il mondo si concentrano sui nati nella prima metà degli anni '80 che ora, finito il master o comunque in possesso di una, preparazione superiore, si affacciano sul mondo della dirigenza EUGEM00CCORSIO Roma I sociologi la chiamano Generazione Y, per distinguerla dalla Gene1 razione X che è quella degli adolescenti. In questo caso l'adolescenza l'hanno già dimenticata ma per loro si apre un periodo probabilmente ancora più ricco di incognite e di angosce. Sono i giovani nati nella prima metà degli anni '80. Hanno quindi un po' meno di trent'anni, hanno' preso il loro bravo master o comunque sono in possesso di un titolo di studio superiore e apparentemente di prestigio, e ora non sanno bene cosa fare. Perché è vero, come teorizzò per primo Franco Bertinotti, che i giovani che oggi si affacciano sul mercato del lavoro per la prima volta non hanno la quasi certezza, malgrado appunto i loro studi di prima qualità, di trovare una collocazione sociale superiore a quella dei loro padri. Anzi. Proprio per questi motivi, si assiste in tutto il mondo a un concentrarsi di interesse intorno a questi giovani. Intanto perché sono antropologicamente diversi dai loro genitori. Fin da bambini hanno avuto dimestichezza con i videogiochi, i quali ci piaccia o no gli hanno dato scaltrezza nel governo delle macchine, rapidità d'intuizione, persino - come dicono alcuni studi recenti - più coraggio e intraprendenza rispetto alle generazioni precedenti. Sono poi cresciuti con Internet, con i social network di Faceb00ke MySpace, e gli ultimi - i più giovani - con l’Pod e l’iPhone. Non è quindi possibile che siano identici ai padri. E. infatti sono oggetto di studio. L'Associazione delle Business sch00l europee, basata in Francia, ha dedicato a loro un convegno dal titolo significativo: "Generation Y-Mode d'employ", come dire "istruzioni per l’uso". Le scuole di business, quelle che formano i manager di domani, hanno bisogno di sapere con chi hanno a che fare, e soprattutto di migliorare il dialogo trans-generazionale. Quindi la prima fase è la conoscenza, l' identificazione dei punti di frizione, la messa in opera di meccanismi di collaborazione e anche di tolleranza reciproci. Dal convegno sono emersi molti punti a favore della Generazione Y: fra questi - si legge nel documento finale del convegno - la facilità di viaggiare, 1a padronanza nelle nuove tecnologie, una visione positiva nei confronti del cambiamento, e ancora la capacità di innovazione, il pragmatismo, la possibilità molto più vasta che non i loro predecessori di accesso alle conoscenze, e anche la facilità di apprendimento. Tutto questo, è emerso ancora dal dibattito, porta a superare con maggior facilità i problemi sia dell'impresa (disavanzo fra gli obiettivi e i risultati effettivamente conseguiti, ristrutturazioni con conseguenti tagli occupazionali, conflitti di varia natura) sia dei singoli "sottoposti" (assenza di punti di riferimento, problemi di relazioni con i colleghi, demotivazione perché ci si sente sottovalutati). Insomma, i giovani manager sono i migliori. L'importante è prenderli per tempo e instradarli verso l'alta formazione scegliendo i migliori appena possibile. Per questo, lo stesso Cems, l'associazione di scuole di business che ha organizzato il convegno di cui si parlava, ha promosso, in collaborazione con la L'Oreal, un ampio sondaggio presso gli studenti universitari di tutta Europa, con un duplice scopo: 1) riuscire ad abbassare l'età di accesso agli Mba, eliminando quella fase intermedia fra la laurea "inferiore" e l'inizio degli studi superiori, e addirittura saltando a piè pari il passaggio attraverso il biennio per ingaggiare subito i giovani nel master in business administration; 2) migliorare le tecniche di formazione adeguandole sia ai tempi che al "materiale" umano di cui si sta parlando, la famosa misconosciuta Generazione Y. Per iscriversi alla Essec di Parigi, uno dei programmi dì Mba europei più prestigiosi, ormai basta avere 22 anni (e non più di 32). Anche in Italia ci si sta muovendo con decisione su più fronti in queste due direzioni. «Noi abbiamo cercato con gli ultimi contratti per dirigenti di abbassare l'età in cm si assumono responsabilità dirigenziali in azienda», spiega Claudio Pasini, presidente di Manager Italia, l'organizzazione sindacale che tutela gli interessi della dirigenza e tratta con le aziende i vari contratti (manager del terziario, dirigenti industriali, dirigenti bancari e via dicendo per un totale di 120mila dirigenti privati ai quali se ne aggiungono altrettanti pubblici). «Siamo riusciti - dice Pasini - ad anticipare la prima nomina di un dirigente da una media di 39-41 anni ad una di 37-38 anni. Un anticipo di due-tre anni per conseguire il quale abbiamo stipulato con le organizzazioni degli imprenditori specifiche clausole contrattuali». Come avete fatto a convincerli? «Per le aziende è valso il calcolo che in media risparmiano il 10% dei costi di un dirigente se ne abbassano l'età, cogliendo tra l'altro l'occasione offerta dal tendenziale abbassamento dell'età dei diplomati in Mba o simili. E per i dipendenti abbiamo studiato un metodo: se l'azienda nomina il dirigente prima del 39° anno di età, i contributi ai fondi contrattuali vanno a regime dopo 3 anni. La previdenza integrativa insomma inizia dopo 3 anni. E' un piccolo sacrificio per gli interessati, che infatti accettano entusiasticamente». Un altro progetto dell'organizzazione che va incontro ai giovani si chiama "Un ponte sul futuro". «Abbiamo raccolto le disponibilità di competenze manageriali presso persone che stanno per uscire o sono già usciti dall'età lavorativa, e li abbiamo portati a svolgere la funzione di "tutor" verso i giovani. Abbiamo iniziato a titolo sperimentale con i figli di nostri associati che già lavoravano e ritenevano utile avere suggerimenti per fare un salto di qualità, e poi è diventata un'iniziativa a tutto campo. I ragazzi vedono come una grossa opportunità i) fatto di poter fare tesoro di tante esperienze di riferimento». Anche la Cfmt (Confederazione dei manager del terziario) è attiva sul , sostegno dei giovani dirigenti (sono 25mila quelli del terziario) con un fitto programma di convegni su temi attualissimi (l'ultimo il 9 ottobre a Milano sulla crisi finanziaria internazionale è stato realizzato in collaborazione con la John Hopkins di Bologna), nonché di vere e proprie giornate di formazione (da una a undici) che nel 2007 hanno interessato ben 3znila manager: L'ultima iniziativa in ordine di tempo si chiama "You Manager": è un sistema di certificazione delle competenze, della preparazione, della professionalità e anche dei limiti di ogni individuo, che proprio in quanto certificata dalla Cfmt viene oggi riconosciuta dalle aziende molto di più del vecchio "curriculum", che sembra del tutto inappropriato per la "Generazione Y". ======================================================= _____________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 31 ott. ’08 PROJECT FINANCING PER IL NUOVO OSPEDALE Scontata la scelta di costruirlo nell'area vicino alla Cittadella, restano altri dubbi CAGLIARI. Duecento milioni su duecentosessanta: l'inizio è incoraggiante, anche se i terreni per il nuovo ospedale sono ancora in ballo, con l'area vicino alla Cittadella Universitaria in vantaggio su quelli della Piana di San Lorenzo. Ad annunciare che c'è buona parte dei soldi per il super investimento, è stato l'assessore regionale alla Sanità, Nerina Dirindin, nella presentazione del piano d'investimenti. Cosa accadrà nei prossimi mesi è ancora tutto da scrivere, ma è difficile che, con le elezioni regionali a maggio, il prossimo sia l'anno decisivo per la costruzione del nuovo ospedale. Il percorso è lungo, anche se l'Asl 8 ha presentato un primo studio ora nelle mani della presidenza della giunta. Gli interrogativi sono ancora molti. A cominciare dalla scelta del terreno su cui costruire. Avant'ieri l' assessore Dirindin ha detto che le opzioni sono state ristrette alla Piana di San Lorenzo e alle aree a fianco alla Cittadella Universitaria, mentre è stata accantonata l'ipotesi della zona a ovest della zona industriale di Elmas, a novembre invece dichiarata idonea. La novità rispetto alla delibera della giunta regionale - che a suo tempo oltre a Elmas aveva promosso la Piana San Lorenzo - ha un suo perché facile: il genernatore Renato Soru vuole un solo polo sanitario cagliaritano. Lo aveva detto il giorno dell'inaugurazione della hall dell' ospedale Brotzu e avant'ieri il concetto è stato ribadito dall'assessore. «Dobbiamo pensare in grande - erano state a maggio le parole del presidente della Regione - ed ecco perché puntiamo a una grande Città della Sanità». Città da costruire proprio a fianco di quella Universitaria, perché - sono ancora parole di Renato Soru - "dobbiamo avere la certezza di una sinergia continua tra ricerca e assistenza". A questo punto Monserrato sembra non avere più concorrenti e anche l'ipotesi della Piana di San Lorenzo - presentata a suo tempo dal Comune di Cagliari - è destinata a fare la fine dei terreni di Elmas: bocciata. Sulla necessità di costruire il nuovo ospedale non ci possono essere invece dubbi: Is Mirrionis sarà dismesso, il Marino dovrebbe chiudere, mentre il San Giovanni rimarrà aperto soltanto per le urgenze del pronto soccorso, questo è scritto nel piano sanitario regionale dove si legge anche: «Il progetto nasce dall'esigenza di superare strutture oggi inadeguate e la cui ristrutturazione avrebbe costi alti, mentre nel rispetto dei più moderni standard ospedalieri è necessario unificare l'attività in un'unica sede». Capita anche la filosofia della scelta dell'assessorato, resta da capire come sarà costruito il nuovo ospedale. Nella conferenza stampa dell'altro giorno, l'assessore Dirindin ha detto solo che i finanziamenti previsti dalla giunta sono soltanto una parte di quelli necessari e quindi "bisognerà aprire le porte in modo corretto a un'operazione che preveda l'intervento di capitali privati". L'ipotesi più probabile è la formula del project financing e anche in questo caso c'è ancora molto da capire. Spetterà alla Regione individuare quale colosso nazionale o internazionale ha tanti mezzi finanziari da investire nel progetto e soprattutto quali corde economiche la stessa Regione sarà in grado di toccare. Qualunque privato coinvolto dovrà vedere nell'investimento un business sicuro nella costruzione e nella gestione e questo potrebbe anche essere. Ma il project financing ha delle controindicazioni: potrebbe aprire un pericoloso varco nella sanità pubblica, con l'ingresso ufficiale e autorizzato di chi pensa più al profitto che all'assistenza. Ecco perché la strada per il nuovo ospedale è ancora molto lunga. _____________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 ott. ’08 ECCO GLI 862 MILIONI PER LA SANITÀ La giunta approva il piano 2008, l'assessore Dirindin assicura: «Fondi spesi entro un anno» Nuovi ospedali, innovazione tecnologica, case della salute ALESSANDRA SALLEMI CAGLIARI. La giunta ha deciso di destinare alla sanità 862 milioni di euro: finanzieranno nuovi ospedali, macchinari e le case della salute. C'è curiosità attorno a questa struttura, un'organizzazione sanitaria dove si fanno ricoveri brevi per situazioni di urgenza, si trova un medico di base a tutte le ore, un pronto soccorso, specialisti che visitano in ambulatorio e anche la guardia medica. Casa della salute, un luogo sanitario che dovrebbe favorire l'appropriatezza dei ricoveri ospedalieri, ma soprattutto funzionare da punto di riferimento permanente per i cittadini che, adesso, il sabato e la domenica, qualunque cosa abbiano, la devono risolvere in un pronto soccorso ospedaliero. Dunque l'operazione case della salute è stata annunciata ieri, tra le altre, dall'assessore alla sanità Nerina Dirindin che ha presentato gli «investimenti strutturali e tecnologici per migliorare la qualità dei servizi in Sardegna», 862 milioni di euro che verranno spesi «tutti entro il 2009». «Si tratta di fondi che la giunta ha scelto di programmare per la sanità regionale - precisava Dirindin - e sulle quali le aziende sanitarie possono contare. A loro volta, insomma, le Asl potranno programmarsi il finanziamento». Cinque ospedali nasceranno o verranno completati, tutti gli ospedali sardi riceveranno somme per ammodernare il parco macchinari. I fondi in arrivo danno corso al piano sanitario regionale, la maggior parte di questo denaro arriva dai Fas, fondi aree svantaggiate, finanziamenti che riguardano le regioni europee fino a poco tempo fa inserite nell'obbiettivo uno, quello per le zone meno sviluppate del continente. L'assessore ha chiarito che, subito, sono disponibili 36 milioni di euro, il resto nei prossimi mesi e nel corso del 2009. Nel dettaglio, circa 630 milioni di euro andranno per la costruzione o il completamento di cinque ospedali in tutta l'isola, poi altri 47 milioni finanzieranno i presidi territoriali, ospedali di comunità (come Thiesi e Ittiri) e varie Case della salute. La decisione di spendere in questo modo 862 milioni di euro è stata presa con una delibera adottata lunedì dalla giunta regionale per «piano straordinario di investimenti strutturali e tecnologici da destinare alla salute pubblica». «Si tratta di fondi arrivati dalle casse regionali, statali e comunitarie, che la giunta ha scelto di destinare alla sanità - ha precisato l'assessore Dirindin - altri 50 milioni serviranno per l'ammodernamento tecnologico, poi 80 per la riqualificazione di alcuni presidi ospedalieri e infine 32 da destinare a progetti di valenza regionale e a eventuali emergenze». Per quanto riguarda la divisione fra le Asl: alla «8» di Cagliari andranno in tutto 250 milioni di euro, 200 dei quali da destinarsi alla costruzione del nuovo ospedale e il resto da dividersi fra le esigenze dell'Oncologico, della cittadella sanitaria di Villa Clara, e gli ospedali Binaghi, Santissima Trinità e Marino. Parte del totale andrà anche al centro di radioterapia, al presidio territoriale di Quartu e alle varie case della salute. Alla Asl di Sassari andranno 208 milioni, 120 dei quali serviranno per il nuovo ospedale di Sassari e 80 per il nuovo ospedale di Alghero. L'Asl di Olbia potrà contare su 14,5 milioni per il completamento dell'ultimo braccio del nuovo nosocomio più altri 1,9 milioni per i presidi territoriali e le case della salute. Alla Asl di Nuoro andranno 7,5 milioni di euro, 3,7 dei quali da destinarsi agli ospedali San Francesco e Zonchello e 1,2 per l'ospedale di Sorgono. Per l'Asl di Lanusei sono stati stanziati 5,6 milioni (1,2 per l'ospedale locale), mentre 13,7 andranno alla Asl di Oristano (10 dedicati al solo ospedale) e 42,2 milioni per la Asl di Carbonia (13,8 per l'ospedale Sirai). Altri 45,5 milioni andranno a finanziare il nuovo ospedale di San Gavino che verrà in questo modo completato (ma la Asl potrà contare su un totale di 52,3 milioni di euro). Poi ci sono gli stanziamenti per le restanti aziende sanitarie: 34 milioni all'azienda sanitaria Brotzu, 75 all'azienda mista di Cagliari e 123 a quella di Sassari. LA SCHEDA CAGLIARI. Ecco gli interventi generali e la destinazione delle risorse finanziarie (872 milioni di euro) del Piano straordinario di investimenti 2008 nella sanità che è stato approvato dalla giunta regionale. Gli interventi settoriali 650 milioni: nuovi ospedali. 47 milioni: presidi territoriali, ospedali di comunità e case della salute. 50 milioni: ammodernamento tecnologico. 82 milioni: ristrutturazione presidi ospedalieri. 32 milioni: progetti di valenza regionale ed emergenze. I finanziamenti alle Asl Asl di Sassari: 208 milioni, di cui 120 milioni per il nuovo ospedale di Sassari e 80 milioni per il nuovo ospedale di Alghero). Asl di Olbia: 16,4 milioni, di cui 14,5 per il completamento del nuovo ospedale di Olbia. Asl di Nuoro: 7,5 milioni, di cui 3,7 milioni per gli ospedali San Francesco e Zonchello di Nuoro. Asl di Lanusei: 5,6 milioni, di cui 3,3 per la Casa della salute. Asl di Oristano: 13,7 milioni, di cui 10 per l'ospedale di Oristano. Asl di Sanluri: 52,3 milioni, di cui47,5 milioni per il nuovo ospedale di San Gavino. Asl di Carbonia: 42,2 milioni, di cui 16,5 milioni al Cto di Iglesias e 13,8 al Sirai di Carbonia. Asl di Cagliari: 249,8 milioni, di cui 200 per il nuovo ospedale di Cagliari e 19,2 per l'Oncologico e il Microcitemico. Altre aziende sanitarie Azienda ospedaliera Brotzu: 34 milioni Azienda mista di Cagliari: 75,2 milioni Azienda mista di Sassari: 123 milioni Progetti a valenza regionale: 27,1 milioni Riserva eventuali emergenze: 6,4 milioni _____________________________________________________________________ La Repubblica 7 nov. ’08 OSPEDALI, PROROGA DI 4 ANNI PER LE VISITE "ESTERNE" Marino (Pd): "Messaggio chiaro, non ci saranno controlli sulla libera professione dei medici" MICHELE BOCCI ROMA - Il centrodestra rinvia di quattro anni l'obbligo per le aziende sanitarie di far rientrare nelle loro strutture i medici che fanno la libera professione all'esterno degli ospedali, la cosiddetta «intramoenia allargata». Si tratta di una attività sanitaria svolta a tariffe concordate con la propria asl ma in studi privati e cliniche, e quindi con pochi controlli su prenotazioni e riscossioni del compenso. Con un emendamento al Decreto legge sugli enti locali approvato al Senato è saltato il termine del 1° febbraio 2009, posto dall'ex ministro Livia Turco, ed è stata posticipata a fine 2012 la data entro cui gli ospedali e le aziende sanitarie devono mettere a disposizione spazi adeguati da destinare alla libera professione dei medici, che così non potranno più fare l'intramoenia allargata. Tra l'altro in passato per la costruzione di quegli spazi sono stati stanziati fondi, incassati da molte asl. «La maggioranza manda un messaggio chiaro - commenta Ignazio Marino del Pd, presidente della Commissione d'inchiesta sul sistema sanitario - Non ci sarà da parte di questo governo nessun controllo e nessuna verifica sull'attività libero professionale, quindi vale la regola del "liberi tutti", e che i pazienti si arrangino e paghino se necessario in nero. La Finanza ha già dimostrato in più casi come la libera professione all'esterno delle strutture pubbliche porti all'evasione fiscale». In molti vedono i quattro anni di proroga come un termine eccessivo, e quindi leggono l'emendamento come il primo passo verso l'abolizione dell'intramoenia come introdotta dalla riforma Bindi del 1999. Tra questi il vicepresidente della Commissione sanità del Senato, Daniele Bosone (Pd). Giorni fa, del resto, lo stesso sottosegretario al Welfare con delega alla Salute Ferruccio Fazio aveva detto di lavorare ad un nuovo assetto della libera professione. Si vorrebbe permettere ai medici di svolgerla anche fuori, da privati e magari con la partita iva, ma a patto di fare all'esterno un numero di prestazioni non superiore a quelle fatte in ospedale. Il tutto potendo, al contrario di oggi, diventare primario. Tornando al provvedimento di ieri, in alcune Regioni italiane, come la Toscana, il Friuli e la Lombardia, i medici fanno già tutti intramoenia nelle strutture pubbliche. La proroga per queste realtà non comporterebbe alcun cambiamento. Divisi sul giudizio dell'emendamento i sindacati. Secondo la Cisl si tratta di un provvedimento «saggio e realistico», per l'Anaao «è un atto di buon senso che, speriamo, venga imitato dalla Camera. Ci auguriamo, però, che questa sia l'ultima di una lunga serie di proroghe». Diametralmente opposta la posizione della Cgil: «La proroga colpisce i medici e i cittadini». Il caso TURCO Nel 2007 prorogò, per la terza volta, l'obbligo per le strutture pubbliche di mettersi in regola OGGI Il centrodestra proroga ancora il provvedimento sull'intramoenia, fino al 2012 BINDI La sua riforma risale al 1999 e, tra l'altro, introdusse la libera professione intramoenia VERONESI Nel 2003 diede soldi, e due anni di tempo, per fare intramoenia solo nel pubblico _____________________________________________________________________ Sole24Ore 7 nov. ’08 UN ANNO IN PIÙ ALL'«INTRAMOENIA» PRESSO LO STUDIO LO SLITTAMENTO La nuova scadenza al 31 gennaio 2010 arriva dalle correzioni al decreto legge sulla spesa sanitaria Roberto Turno Un anno in più ai medici pubblici per svolgere la libera professione intramoenia nei propri studi. E altri quattro anni alle Regioni per realizzare gli spazi interni al Ssn in cui far svolgere, dentro le mura del servizio sanitario , la libera professione dei dottori d'Italia. È nuovamente tempo di (doppia) proroga per l'attività intramuraria dei medici del Ssn, con costi a carico dei pazienti. In attesa che il Governo, come annunciato, vari la riforma complessiva i cui contorni sono tuttora una nebulosa, ci ha pensato ieri il Senato a tamponare le prime emergenze. E forse qualcosa in più, considerato il lungo tempo che viene lasciato alle Regioni inadempienti per mettersi in regola. Le novità sono arrivate col sì del Governo a due identici emendamenti targati Pdl e sponsorizzati dal presidente della commissione Igiene e sanità, Antonio Tomassini, al decreto legge 154 su spesa sanitaria e Ici (in scadenza il 6 dicembre), che dopo il via libera del Senato, atteso la prossima settimana, passerà al vaglio della Camera. In sostanza, la scadenza del 31 gennaio 2009, fissata dalla legge 120 del 2007 per l'esercizio della libera professione dei medici anche negli studi privati (la cosiddetta «Alpi»), viene spostata al 31 gennaio del 2010. Insieme viene prorogato dal 31 gennaio 2009 al 31 dicembre del 2012 il termine per completare nelle aziende sanitarie gli spazi per consentire ai medici pubblici l'esercizio della libera professione dentro le mura domestiche del Ssn: 47 mesi in più. Cosa accadrà dal 1° febbraio del 2010 al 31 dicembre del 2012, resta un mistero. Evidentemente, a meno che non intervenga un'altra proroga per l'attività negli studi privati, tutto sarà forse affidato al giro di valzer della riforma che il Governo ha in serbo. Intanto viene tamponata un'emergenza: la scadenza di fine novembre entro la quale i medici devono optare per il rapporto esclusivo, o meno, col Ssn. Ai medici, poi, con un altro emendamento di Tomassini è stata confermata la previsione del contratto appena siglato: i riposi dopo il lavoro notturno sono obbligatori, con tempi che saranno concordati nei contratti integrativi aziendali. Di segno opposto le reazioni politiche. Pienamente soddisfatto Tomassini, contrario Ignazio Marino (Pd), artefice della riforma di un anno fa: «Si ritorna all'anarchia nella libera professione». Quanto agli spazi creati nelle Regioni, dai dati 2007 della Corte dei conti risultano in grave ritardo nell'accesso ai finanziamenti soprattutto Abruzzo, Campania, Molise, Calabria e Sicilia. Spaccati i sindacati. «Una beffa per i cittadini» i quattro anni in più alle Regioni, accusa la Cgil. «Saggia e realistica» è invece per la Cisl la proroga negli studi. «Un atto di buon senso», condivide l'Anaao, che ora attende «un provvedimento strutturato che metta fine a un tormentone che si trascina da dieci anni». Ma il punto è adesso proprio la "struttura" della riforma che verrà: le scommesse, e le polemiche, sono aperte. _____________________________________________________________________ La Repubblica 7 nov. ’08 VERONESI: UN ATTACCO NASCOSTO ALLA SANITÀ PUBBLICA UMBERTO VERONESI L' EMENDAMENTO al decreto legge sugli enti locali, votato al Senato, spostando la scadenza per l'obbligo del tempo pieno del medico all'interno dell'ospedale, riapre segretamente le porte alla doppia professione, nell'ospedale pubblico e nella clinica privata. Una decisione che va contro i pazienti, contro il proprio ospedale e contro la storia. Contro i pazienti, perché significa privarli di parte del tempo prezioso dei medici che li hanno in carico, e dunque inevitabilmente peggiorare il livello dell'assistenza. Non possiamo illuderci che il medico non ambisca ad un elevato status sociale e che non sia attratto da una attività privata certamente più redditizia di quella pubblica. Ma come fa un medico a curare i malati, dedicare loro l'attenzione e l'amore necessario, fare ricerca, aggiornarsi, partecipare alle riunioni di team e a quelle interdisciplinari, il tutto lavorando contemporaneamente in ospedale e in casa di cura? Nessuna azienda permetterebbe a un proprio dirigente di dedicare anche solo una o due ore al giorno a un'azienda concorrente. Per "tenere la testa dentro l'Ospedale", cioè concentrarsi e dare ai pazienti il massimo dell'impegno, non si può passare da una struttura all'altra e lavorare guardando l'orologio. Inoltre la libertà di esercitare anche in casa di cura crea una selezione negativa fra i pazienti, soprattutto dal punto di vista del censo. Così si creano i malati di serie A e quelli di serie B. Il rischio è che i pazienti più ricchi e che presentano patologie meno critiche finiscono in casa di cura, mentre quelli più complessi e meno abbienti restano in ospedale. A danno totale della struttura pubblica che si trova a dover gestire i casi più difficili essendo depauperata, anche solo in parte, delle sue mani migliori e spesso anche di team interi: non è certo raro che il primario porti con sé in casa di cura il proprio anestesista e anche i migliori assistenti e il personale infermieristico. Per questo dico che la doppia professione va quasi contro la Costituzione: perché crea una concorrenza fra sanità pubblica e privata, a chiaro svantaggio di quella pubblica, che si trova a gestire i casi più complessi, con meno risorse. E' infine una posizione antistorica perché va esattamente nella direzione opposta al resto del mondo. La soluzione organizzativa del tempo pieno in ospedale con la libera professione interna è quella adottata dalla grande maggioranza dei Paesi europei: in Svizzera, in Germania, in Danimarca, nei Paesi Scandinavi, ad esempio. Non è per caso che mi sono impegnato per l'adozione di questa soluzione già da ministro della Sanità nel 2000 e ho appoggiato caldamente la legge approvata nel 2007 (all'unanimità fra maggioranza e opposizione) che sanciva l'obbligo per gli ospedali pubblici di dotarsi di strutture per la libera professione. So, per lunga esperienza diretta, che occorre creare le condizioni perché i medici migliori scelgano l'attività ospedaliera a tempo pieno e non abbiano motivazioni sufficienti per avere un'attività privata. So anche che non è difficile crearle; i modelli ci sono, anche senza guardare troppo lontano, nel nostro Paese, e si stanno moltiplicando. I requisiti sono evidenti: uno stipendio di base adeguato e la possibilità di esercitare la libera professione in condizioni dignitose rispetto alla struttura privata (ambulatori attrezzati, personale infermieristico e di segreteria, scelto per la professionalità, sistemi informativi integrati, sale chirurgiche e servizi di terapia intensiva all'avanguardia). Ora questa battuta d'arresto apparentemente favorisce gli ospedali che ancora non hanno voluto realizzare tutti o parte di questi requisiti, ma in realtà è un attacco celato alla sanità pubblica e un tentativo di svuotarla, frenando il suo sviluppo. Non possiamo aspettare altri anni ancora per iniziare a modernizzare i nostri ospedali e lasciarli sprofondare nel degrado. Cominciamo a ristrutturare e riorganizzare gli edifici esistenti, seguendo il criterio dell'accoglienza e del rispetto della persona malata. Creiamo ospedali con meno posti letto ma in camere singole, con grande efficienza e alto turn-over di pazienti, dove i medici lavorano a tempo pieno. Così è in quasi tutti i Paesi avanzati nei quali la sanità ed il sociale sono le vere priorità politiche. _____________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 ott. ’08 AIOP: NEI SERVIZI OSPEDALIERI TARIFFE UGUALI PER TUTTI» INTERVISTA Gabriele Pelissero Vice presidente Aiop «In vista del federalismo fondamentale pagare a prestazione gli enti sia pubblici sia privati» «L'autonomia attribuita alle Regioni fino a oggi ha fallito, portando scarsa trasparenza» Roberto Turno ROMA Pieno diritto di scelta dei cittadini, par condicio assoluta tra ospedali pubblici e privati, conferma dell'applicazione del pagamento a prestazione con tariffe uguali per tutti. E poi vinca il migliore, perché solo la qualità viene premiata dal mercato. «Se la riforma federalista della Sanità seguirà queste linee, molti sistemi sanitari regionali potranno raggiungere un livello di qualità confrontabile con i migliori livelli europei». A indicare la rotta da seguire in Sanità con il federalismo fiscale prossimo venturo, è Gabriele Pelissero, vice presidente nazionale dell'Aiop (case di cura private) nonché presidente dell'associazione in Lombardia e vice presidente del gruppo ospedaliero «San Donato». Le proposte di Pelissero, che è professore ordinario di igiene e organizzazione sanitaria all'Università di Pavia, partono da una considerazione di fondo. L'autonomia «sostanziale» attribuita alle Regioni nel settore ormai da 30 anni, ha fallito sostanzialmente sotto due aspetti: l'assenza di trasparenza e il vuoto di responsabilità. Con il risultato che le "Regioni canaglia" hanno prodotto deficit senza migliorare i servizi, scaricandone i costi sullo Stato e sulle Regioni in regola. Con l'aggravante dell'assenza di «tempestivi indicatori di allarme» in un quadro di «opacità» complessiva. Ma se la sfida oggi è davvero quella di orientare i sistemi regionali al mitico obiettivo «equità, qualità, efficienza», allora per Pelissero «le correzioni al sistema nazionale di riparto dei fondi, seppure indispensabili, non sono sufficienti». Ecco allora le tre proposte del rappresentante Aiop. Tre cavalli di battaglia storici delle case di cura private, che acquistano un peso particolare con la riforma federalista. Primo intervento indispensabile: «La tutela del diritto fondamentale alla salute per tutti i cittadini, che si realizza rendendo sempre più reale il diritto di scelta del luogo di cura». Dopo di che, spiega Pelissero, «va promosso e tutelato il pluralismo dei sistemi sanitari e, al loro interno, il pluralismo degli erogatori. Solo così, solo con sistemi sanitari aperti, con la presenza paritaria di operatori pubblici e privati accreditati, la possibilità di scegliere è reale, perché il cittadino non deve patire gli effetti della cattiva amministrazione della propria Regione o di un Ente pubblico monopolista». Par condicio tra pubblico e privato che dovrà a sua volta garantire la mobilità sanitaria interregionale in cerca di cure, che non va invece «contrastata come tentano di fare alcune Regioni». «La mobilità - afferma Pelissero - è l'unica attuale difesa dei cittadini contro i difetti del proprio sistema regionale. Il futuro dei sistemi sanitari prevede l'allargarsi della mobilità a tutta la Ue, non il contrario. E d'altra parte lo sviluppo tecnologico lo impone: sempre più si assisterà alla nascita di poli sanitari di eccellenza attivi su tutto il territorio nazionale. L'idea delle cure sotto casa è un residuo ottocentesco». Va da sé che un privato di qualità può nascere solo dove il sistema sanitario è di qualità: questa sarà la sfida e l'armonizzazione del futuro che farà superare una volta per tutte la dicotomia pubblico-privato. Ed ecco infine il terzo atto da compiere per dare gambe e sostanza al federalismo sanitario: «La corretta definizione dei costi con l'attuazione del sistema di pagamento a prestazione». Un sistema che, nei fatti, è stato quanto meno male applicato: «Non è possibile pensare a un federalismo sanitario senza riprendere con vigore il principio e la metodologia del pagamento legato alla prestazione». Ma con un'avvertenza: «Bisogna anche costringere le Regioni ad adottare un metodo generale di remunerazione delle aziende ospedaliere, pubbliche e private, che superi l'opacità e spenga l'aspettativa di ripianamento del disavanzo. Il pagamento a prestazione è l'unico sistema che premia in modo trasparente, misurabile, comparabile i migliori, e castiga i peggiori». Tariffe uguali «per tutti gli ospedali pubblici e privati accreditati», beninteso, è la ricetta Aiop, con tariffe «corrispondenti alla realtà e costruite in modo che i migliori abbiano un margine per accrescere la propria capacità di investimento, gli operatori di media qualità possano sopravvivere con un bilancio finalmente trasparente e i peggiori siano esclusi da un sistema oggettivo». _____________________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 Nov. ’08 UNIVERSITÀ: LASCIA L'ALLERGOLOGO DEL GIACCO In pensione dopo una prestigiosa carriera da direttore del Dipartimento internistico 2 dell'Azienda mista Dopo 37 anni di onorata carriera universitaria va in pensione Sergio Del Giacco, direttore del Dipartimento internistico 2 dell'azienda Ospedaliero- Universitaria, e responsabile dell'Unità operativa complessa di Medicina Interna-Clinica Medica. Sposato con Silvana Grossi, due figli (Stefano e Alessandra), Del Giacco è nato a Pavia nel 1936. Laurea a Milano nel 1959 (110 e lode) è stato assistente del professor Melli (Istituto Patologia Medica e Clinica Medica, Milano). Dal '67 è a Cagliari col professor Grifoni. Dal '71 è Incaricato di Immunologia e di Immunologia clinica. Libero docente in Chimica e microscopia clinica (1965) e Patologia medica (1970), ha frequentato il Department of Immunology diretto da Ivan Roitt al Middlesex Hospital di Londra nel 1970 e il Center of Immunology, diretto da Noel Rose, a Buffalo, Usa. Nell'80 ha vinto il concorso da Ordinario di Immunologia clinica e Allergologia. Di ampio respiro il fronte ricerca: si è occupato di Immunologia clinica e Allergologia e in particolare di Malattie autoimmuni, Lupus Eritematoso sistemico, Sclerosi sistemica, Immunodeficienze, Aids, Asma e allergia. Il professore vanta oltre 300 pubblicazioni e ha coordinato numerosi progetti di ricerca ministeriali, nazionali, regionali e dell'Istituto superiore di sanità riguardanti l'immunologia delle malattie autoimmuni, dell'asma bronchiale e dell'Aids. È stato presidente della Società italiana di allergologia e immunologia clinica (Siaic), presidente della Section & Board di allergologia e immunologia clinica della Uems (Unione europea dei medici specialisti), co- chairman dello Specialty e training council della World allergy organization, coordinatore scientifico della Fondazione Piso che attribuisce un premio biennale per l'eccellenza nella ricerca, assegnato, tra gli altri, anche al premio Nobel, Luc Montagnier. Sergio Del Giacco ha fatto parte del board delle principali società scientifiche. Lo scorso giugno l'allergologo ha ricevuto a Barcellona il premio Charles De Blackey dall'accademia europea di allergologia e immunologia clinica: è stato il primo italiano a ottenere il prestigioso riconoscimento. Dal 1983 è stato ordinario di Patologia medica e di Medicina Interna nella facoltà di medicina di Cagliari. «Saluto affettuoso sia il mondo accademico, sia i colleghi ricercatori e clinici. Ma non voglio dimenticare i tanti che hanno collaborato con me, mostrando dedizione e passione, in questi anni. E soprattutto», ha detti ieri Del Giacco, ho un pensiero speciale per i pazienti. La medicina non dà scampo: o la sia ama intensamente da subito o di costringe a cambiare strada». _____________________________________________________________________ Il Sole24Ore28 ott. ’08 BIOETICA: È UN DIRITTO RIFIUTARE LE CURE Il parere del Comitato nazionale LE CONDIZIONI Il documento approvato si riferisce al paziente cosciente, informato e capace di intendere e volere Valentina Melis ROMA Un paziente cosciente, capace di intendere e volere e informato sulle terapie, può chiedere che non siano iniziati o che siano sospesi i trattamenti sanitari, anche se questi possono salvargli la vita. Il medico può astenersi «da comportamenti ritenuti contrari alle proprie concezioni etiche e professionali», ma «il paziente ha in ogni caso il diritto a ottenere altrimenti la realizzazione della propria richiesta all'interruzione delle cure». Sono questi due principi cardine del parere su «Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico», approvato a larga maggioranza, ieri (20 voti favorevoli e tre astenuti) dal Comitato nazionale di Bioetica. Il testo ufficiale del documento (coordinato dal preside della Facoltà di Giurisprudenza dell'università di Bologna Stefano Canestrari) sarà diffuso tra 15 giorni, insieme con una postilla elaborata dai tre componenti del Cnb che ieri si sono astenuti dal voto: Francesco D'Agostino, presidente dell'Unione dei giuristi cattolici italiani, Maria Luisa di Pietro, presidente dell'associazione «Scienza e Vita», e Adriano Bompiani, professore emerito di ginecologia al Policlinico Gemelli di Roma. Altri due principi sono stati condivisi dal Comitato: «la condanna di ogni prassi di abbandono terapeutico» e il fatto che «il rifiuto o la rinuncia del paziente a terapie salva-vita» rimangano sempre «un'ipotesi estrema». Significa che la scelta del paziente deve maturare in un rapporto di comunicazione costante con il medico, e che, pur rinunciando a ogni forma di accanimento clinico (che, si legge nel testo, «si configura come illecita»), il medico è tenuto a garantire sempre le cure palliative. Su un tema delicato come il rifiuto dei trattamenti sanitari restano, all'interno del comitato, le «divergenze» che un mese fa avevano portato la seduta plenaria a sciogliersi e ad aggiornarsi, per mettere a punto il testo definitivo del parere (si veda «Il Sole 24 Ore» del 27 settembre). In particolare, secondo Francesco D'Agostino, presidente onorario del Cnb che ieri ha preferito astenersi, «il documento è «elusivo» su alcuni punti. Ci sono cioè dei «vuoti, che dovrebbero essere riempiti - spiega - per evitare letture contraddittorie del testo». Uno dei punti in questione, per D'Agostino e per gli altri due astenuti, è «il possibile nesso tra interruzione delle cure ed eutanasia», che alcuni potrebbero ipotizzare. In particolare, secondo il giurista, si potrebbe «leggere in questo parere un passo verso la legalizzazione dell'eutanasia passiva». Il presidente del Cnb Francesco Paolo Casavola ha spiegato che il lungo lavoro di elaborazione del parere sulla rinuncia alle cure porta avanti gli studi che già avevano condotto, il 18 dicembre 2003, ad approvare il documento sulle «Dichiarazioni anticipate di trattamento», il cosiddetto testamento biologico. Il parere sul rifiuto dei trattamenti sarà inviato ai senatori della commissione Sanità che stanno discutendo per arrivare a una legge sul testamento biologico. __________________________________________________________________ Repubblica 3 nov. ’08 CON LA FARMACOGENETICA I FARMACI DI DOMANI "DISEGNATI" SU MISURA STEFANIA MARTANI A ciascuno il suo farmaco. Farmaci intelligenti, mirati, addirittura su misura, medicina predittiva in grado di stabilire a quali malattie siamo geneticamente esposti. O ancora, carte di identità genetiche da consultare prima di prescrivere un farmaco. E' lo scenario futuribile ma non troppo della farmacogenetica. II rapporto Position Paper on Terminology in Pharmacogenetics dell'European Agency for the Evaluation of Medicinal Products, spiega che stiamo parlando dello studio, in individui o popolazioni, della variabilità nella risposta ai farmaci dovuta a fattori genetici. «E' lo studio del genoma e dei suoi prodotti, con tecniche di biologia molecolare o genetiche, ai fini della ricerca e sviluppo di farmaci». Insomma, l'utilizzo dell'analisi del Dna a scopi terapeutici, diagnostici e predittivi della risposta individuale a un farmaco. L'identificazione di geni e polimorfismi (variazioni genetiche) coinvolti nello sviluppo di malattie, permette di identificare bersagli più precisi. Oggi i farmaci sono efficaci solo sul 20-60% dei pazienti. Negli Usa in un solo anno ci sono stati 5 milioni dì casi di reazione avversa di cui 100.000 fatali, Secondo Mario Del Tacca, ordinario di Farmacologia a Pisa, «il 70% di chi muore per colpa dei farmaci, potrebbe essere salvato dalla farmacogenetica». Sequenziare il genoma costa 60mila dollari, ma Complete Genomics e BioNanomatrix stanno collaborando per abbassare i costi fino a mille dollari. La Fda ha disposto che il foglietto illustrativo di farmaci come il warfarin, un anticoagulante con un effetto collaterale grave come le emorragie, preveda un test genetico per individuare il giusto dosaggi o. Con queste tecniche si può studiare il complesso di geni che costituisce il patrimonio genetico delle cellule tumorali. E' in funzione della variabilità genetica che un farmaco ha effetti collaterali nei portatori di uria genotipo o su un'etnia. Il BilDil dell'americana NitroMed si è dimostrato efficace contro le malattie cardiache solo negli afro-americani. Il brevetto scade nel 2020: la NitroMed potrà proporre per 15 anni il farmaco e occupare una nicchia di mercato con un potenziale guadagno di 800milioni di dollari all'anno per la cura di 750.000 neri malati di cuore. In Europa, secondo la società di consulenze Frost & Sullivan, il mercato della genomica è di 721 milioni di euro, con una previsione di crescita che nel 2012 porterà a 1900milioni. Per alcuni tumori (seno, polmone, intestino, leucemia mieloide cronica) le nuove terapie sono già una realtà. Spiega Francesco Colotta, Direttore R&5 del Nerviano Medica] Sciences: «Nel nostro centro è in fase 2 un inibitore della proteina Aurora, coinvolta nella proliferazione delle cellule tumorali». L'identificazione del target, l a molecola- bersaglio da colpire per avere effetti terapeutici è l'obiettivo della ricerca - del biotech. Le aziende traggono vantaggio anche in un altro senso: alcuni farmaci ritirati dal mercato sarebbero ancora in commercio se i pazienti che hanno risposto male per motivi genetici fossero stati curati con farmaci alternativi. In oncologia, le terapie intelligenti sono un punto di riferimento nel tumore della mammella (l’Herceptin della Roche), del colon e del linfoma non Hodgkin. La Novartis è all'avanguardia con l’antileucemico Glivec (2,8 miliardi di dollari di vendite, il 16% in più di un anno prima, nel terzo trimestre 2008): prodotto con tecniche genomiche è un farmaco intelligente in grado di bloccare specificamente la causa molecolare alla base della leucemia mieloide. La Glaxo ha sperimentato con queste tecniche due molecole, un inibitore della lipoproteina associata alla fosfolipasi A2, enzima con un ruolo nella formazione della placca aterosclerotica, e una per l’osteoporosi. La Nycomed, 3,5 miliardi di euro di fatturato nel 2007 (58 milioni in Italia), in alleanza con la biotech americana Nps ha lanciato il Preotact, ormone contro l'osteoporosi. Spiega Piervincenzo Col1i, capo per l'Italia: «Stiamo sviluppando ora il teduglutide, proteina che stimola la crescita del tessuto intestinale». Il progetto AP3araa di Celi Therapeutics, società di Seattle ma sede operativa a Milano, prevede una joint-venture con TGen (società biotecnologica quotata al Nasdaq) e l'università di Stanford, per creare una genomic company finalizzata alla creazione di farmaci che utilizzano tecniche genomiche innovative. P3 sta per personalizzato, predittivo e preventivo. Il piano prevede investimenti per 68 milioni di dollari fra laboratori e personale in collaborazione con il team antitumorale della BoerhingerMannheim e il Genomics Research Institute. Il test genetico diventerà ]aprima fase della cura. «Quando abbiamo un nuovo antitumorale - spiega Colotta- cerchiamo di capire qua] è il background genetico associato con una caratterizzazione genetica delle cellule con dispositivi come i microarray che permettono di rivelare la risposta a farmaci e la predisposizione a tumori o malattie genetiche». Con un naicroarray della Eppendorf il medico può stabilire se una paziente deve sottoporsi a radio o cherpioterapia dopo l'asportazione di una cisti maligna dal seno o se si può considerare guarita. Tra i dispositivi, quelli della Roche Diagnostics, 386 milioni di fatturato in Italia nel 2007, come l’AmpliChip CYP 450, già sul mercato, che permette di analizzare in poche ore 30 diversi marcatori genetici prelevando qualche goccia di sangue e serve a riconoscere le variazioni in due geni della famiglia dei Citocromi P450. Sono in sviluppo poi l’AmpliChip p53 che individuale anomalie del gene p53 legato all'aggressività del tumore, e l’AmpliChip Leukemia che individua quale sottotipo di leucemia é all'opera. Insomma, un fiorire di iniziative e investimenti. E siamo appena all'inizio. "Mappare" il Dna e utilizzare % informazioni per prescrivere le terapie: un mercato che in Europa raggiunge già 721 milloni di euro __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 6 nov. ’08 TRAPIANTI A 3 DIMENSIONI La. ricerca nel campo della sostituzione degli organi procede in due direzioni: protesi e cellule riparatrici La notizia del primo "cerotto" biodegradabile imbevuto di staminali in grado di riparare i danni dell'infarto negli animali, pubblicata una settimana fa su «Nature Materials», ha fatto il giro del mondo, perché rappresenta un passo in avanti tangibile verso l'impiego clinico delle cellule dei miracoli. Si tratta di un avanzamento significativo di un approccio che però è seguito ormai da molti anni: quello che prevede di far crescere le staminali su opportuni supporti, fino a quando esse abbiano rimpiazzato del tutto i tessuti lesionati o persi. La novità, nello studio dei cardiologi del Massachusetts Institute of Technology di Boston (Mit), risiede nel fatto che la struttura di sostegno nel tempo si integra fino a scomparire grazie a caratteristiche fisiche e chimiche specifiche; la speranza è che in futuro si possa disporre di scheletri simili per ogni tipo di organo da riparare. La scoperta del Mit non è però unica: negli stessi giorni lxel Haverick, capo dei LeiUniz Research Laboratories for Biotechnology and Artificial Organs di Hannover, in Germania, ha reso noti i risultati ottenuti con una valvola cardiaca che; proprio come il cerotto del Mit, sì integra con il cuore e cresce con esso, eliminando la necessità di ricorrere a più interventi. La sostituzione delle valvole si rende spesso necessaria in bambini che nascono con difetti congeniti: finora, le valvole nuove dovevano essere rimpiazzate dopo qualche anno a causa della crescita dell'organismo. II gruppo tedesco ha invece messo a punto un sistema grazie al quale la valvola (estratta da animali o da donatori) viene completamente decellularizzata fino a che ne resta soltanto lo scheletro, e poi colonizzata con cellule estratte dal sangue del paziente, che crescono su di essa; in questo modo si evita il rischio di rigetto e infezioni, e si ha una crescita costante che segue duella dell'organismo; i primi 16 pazienti pediatrici ai quali è stata inserita la valvola stanno tutti bene. Ma la via verso la sostituzione degli organi è da sempre duplice: da una parte punta sulle staminali, dall'altra su protesi sempre più avveniristiche. È di pochi giorni fa l'annuncio, da parte del cardiologo Alairi Carpentier dell'Ospedale George Pompidou di Parigi, della fine della fase sperimentale del cuore meccanico al quale lavora da oltre z5 anni: «Il cuore artificiale è pronto, ha bisogno di essere fabbricato industrialmente» ha affermato, ricordando che nei test sugli animali e nelle simulazioni non è emerso alcun danno da usura. In questi giorni, poi, dovrebbero essere annunciate importanti novità per quanta riguarda 1a miniaturizzazione di un altro tipo di cuore artificiale al congresso della Società italiana di chirurgia cardiaca che si inaugura l'8 novembre a Roma. Infine, sempre nelle ultime settimane buoni risultati sono giunti dalle ricerche su un altro organo artificiale: il pancreas, studiato nell'ambito di un progetto internazionale dagli esperti del dipartimento di Medicina clinica é sperimentale dell'Università di Padova, c00rdinati da Alberto Maran, che l'hanno impiantato a tre pazienti (sugli otto totali). Il dispositivo si basa su un sensore che tiene sotto controllo la glicemia 24 ore su 24 e regola il rilascio dell'insulina contenuta in una pompa a seconda delle necessità: e i dati della prima fase sperimentale (che dovrebbero essere disponibili entro la fine dell'anno) sono stati definiti molto incoraggianti. La Fda nel 2006 ha autorizzato la messa in commercio di un dispositivo simile, e diversi prototipi sono in avanzata fase di studio in vari Paesi. Ulteriori passi in avanti potrebbero essere fatti grazie a Heart Work, la ricostruzione tridimensionale ispirata direttamente ai disegni di Leonardo realizzata dai cardiologi dello University College di Londra, che riproduce ogni più piccolo dettaglio del cuore simulandone anche tutti i movimenti (www.Heartworks.me.uk). AGNESE CODIGNOLA __________________________________________________________________ La stampa 7 nov. ’08 IL CLUB DEI CADAVERI Offrire il proprio corpo a scopo dì ricerca: un appello dell'Università di Torino Donate il vostro corpo alla scienza». Dall'Università di Torino, dipartimento di Anatomia e Medicina legale, un grido d'aiuto alla scienza. Per formare i chirurghi di domani non basta un libro di testo né la simulazione su un manichino: occorre pratica, e cadaveri sui quali esercitarsi, sperimentare tecniche, tentare nuove metodiche, eventualmente sbagliare (oggi) per saper fare bene (in futuro). Ma perché tutto ciò sia possibile servono corpi da incidere, ricucire, riaprire. E quindi qualcuno che li conceda alla scienza. Nel freddo linguaggio della medicina si chiamano «dissezioni». In quasi tutti i Paesi occidentali la donazione dei cadaveri a scopo di studio è una pratica diffusa, che non scandalizza né trova ostacoli. «In Italia - spiega la professoressa Grazia Mattutino, del Laboratorio per lo studio del cadavere che ha sede in via Chiabrera dove un tempo c'era l'obitorio - la legge non vieta di disporre che le proprie spoglie siano "prestate" per la formazione, ma non esistono norme precise, è un argomento di cui nessuno parla e un'opportunità che pochi quindi conoscono». Dai 2001 a oggi, al Laboratorio sono giunti soltanto sei corpi. Non bastano, per le esigenze dell'Università: «La conseguenza - spiegano i dottori Filippo Castoldi e Roberto Rossi, ricercatori del dipartimento di Ortopedia - è che studenti e specializzandi continueranno a esser costretti ad andare periodicamente all'estero per giornate full-immersion di pratica». Francia, Austria, Spagna, Inghilterra: i Centri per la donazione del corpo sono una realtà consolidata e uno strumento prezioso per tante prestigiose Università straniere. In Italia è una grave lacuna nella formazione. Ada Campanella, professoressa di Matematica del Segrè oggi in pensione, lo chiama, sdrammatizzando, «il club dei cadaveri». Ricorda gli anni in cui il fratello medico - che oggi non c'è più - raccontava dell'utilità di quei corpi nella formazione dei giovani dottori». La molla che l'ha spinta a donare il proprio corpo, quando anche lei non ci sarà più. «All'epoca - dice - molti cadaveri utilizzati nelle Università erano barboni o persone di cui nessuno chiedeva le spoglie per il funerale». «Oggi - prosegue la professoressa - penso che ognuno di noi dovrebbe aiutare lo sviluppo della medicina: il nostro corpo, quando a noi non servirà più, può essere utile a qualcuno». Donare se stessi è una tappa intermedia prima della sepoltura o la cremazione. Non impedisce la donazione degli organi. «Il corpo - spiega sempre Grazia Mattutino - viene messo a disposizione della scienza solitamente per un periodo di sei mesi o un anno, trascorso il quale è restituito alla famiglia per la sepoltura, la tumulazione o la cremazione». Chirurghi in formazione hanno sperimentato e messo a punto interventi innovativi o particolarmente complessi. Specialisti hanno affinato tecniche. Numerosi articoli su prestigiose riviste scientifiche internazionali nascono dalla sperimentazione su cadavere. Oggi a Torino c'è una sola salma a disposizione, anche se 40 persone hanno firmato una dichiarazione perché il loro corpo sia utilizzato un giorno a imi di studio. «E' un grande dono, l'ultimo possibile, e richiede una grande sensibilità». _____________________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Nov. ’08 I MANCINI SONO PIÙ INIBITI E COMPLESSATI DI QUELLI CHE SCRIVONO CON LA MANO DESTRA ROMA - La mano con cui scriviamo influenza i nostri comportamenti: i mancini sono più inibiti dei destrimani e quando devono fare una cosa tendono a essere incerti, hanno paura di commettere errori e sono molto condizionati dalle critiche al loro operato. È il ritratto che emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Personality and Individual Differences, che sottolinea quindi un punto a favore dei destrimani che sono più impulsivi, meno complessati e ansiogeni. «Questo studio mostra un' altra differenza di comportamento tra mancini e destrimani - commenta Eugenio Maria Mercuri, Dirigente Medico responsabile di Struttura Complessa Neuropsichiatria infantile dell' università Cattolica di Milano -. Una maggiore inibizione dei mancini potrebbe dipendere dal fatto che di solito il mancino è una persona self-conscious, ovvero molto attenta a quello che fa e cosciente della propria diversità». I mancini rappresentano il 10% circa della popolazione. Ancora non è chiaro il segreto del mancinismo ma sembra che influiscano sia fattori genetici sia l' ambiente uterino durante lo sviluppo. _____________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 nov. ’08 NASCE IN SARDEGNA UN FARMACO ANTI-AIDS È della Virostatics di Sassari il brevetto che abbatte i costi: lo finanzia anche la Sfirs ROBERTO PARACCHINI CAGLIARI. Ridurre al minimo i costi d'acquisto del farmaco e arrivare a un'unica somministrazione giornaliera: questi gli obiettivi principali del «Vs411», nuovo principio attivo per combattere l'Hiv (virus dell'Aids) presentato ieri pomeriggio nella sede della Sfirs. La finanziaria regionale partecipa per il 15% (8 milioni investiti) la Virostatics, la società con sede a Sassari, titolare del brevetto del farmaco. «Abbiamo scelto di dislocare in Sardegna questa iniziativa non solo per i finanziamenti, ma per l'intenzione della Regione di realizzare un polo biotecnologico nell'isola. Il che crea un quadro molto importante per le sinergie scientifiche», ha spiegato Franco Lori, direttore del progetto, docente alla Georgetown University di Washington e ricercatore nella fondazione Irccs del policlinico San Matteo di Pavia. Vi sono, poi, una serie di finanziamenti da parte «del governo italiano che, complessivamente, arriveranno a 40-50 milioni», ha continuato Lori. Mentre la Sfirs dovrebbe aumentare la sua partecipazione sino al 21 per cento. Nel mondo vi sono oggi venticinque farmaci utilizzati in cinque possibili combinazioni «usati tutti per combattere l'Hiv - ha informato Lori - ma sino ad oggi i ricercatori si sono concentrati sul virus. La nostra strategia di ricerca segue, in parte, quella vecchia in quanto agisce anche sul virus: per limitarne la sua azione di indebolimento del sistema immunitario; e, in più, interviene anche sul sistema immunitario». Quest'ultimo rappresenta l'esercito del nostro organismo, sempre vigile contro i nemici esterni, «solo che ogni volta che si scatena contro gli invasori subisce, come tutti gli eserciti, un certo livello di usura. E questo col tempo lo indebolisce ulteriormente. Da qui la seconda funzione di questo principio attivo, quella immunomodulante: per impedirgli di andare a pieno regime in continuazione. Come per un motore: se lo si spinge sempre al massimo, alla fine si rovina e finisce col funzionare male». Oggi sono impegnati alla Virostatics dieci persone, ma se tutto andrà bene e «se col ministero sarà firmato l'accordo di programma - continua Lori - abbiamo previsto cento posti di lavoro». La società, creata in Sardegna due anni e mezzo fa, è stata fondata dalla americana Raigt, di cui Lori è uno dei fondatori, specializzata nello sviluppo della prima fase di sperimentazione: quella sugli animali. «Ora stiamo finendo il primo modulo di testaggio sull'uomo. Sino ad ora abbiamo lavorato con sessanta pazienti, in Uganda e in Argentina: per definire il dosaggio. E hanno guidato l'equipe gli esponenti di punta della Società internazionale di intervento sull'Aids». Le prossime due fasi prevedono: la sperimentazione umana su un numero più vasto di pazienti e lo studio su tempi più lunghi dell'effetto del farmaco. «Alla fine dovrebbe esserci l'intervento delle case farmaceutiche: per finanziare tutta la fase legata alla produzione del farmaco, quella più costosa, di diverse centinaia di milioni di euro». I punti di forza del nuovo farmaco saranno, come accennato, «un'unica somministrazione giornaliera e un costo notevolmente inferiore di quelli attuali. E questo - ha sottolineato Lori - permetterà di usare questa terapia anche nei Paesi più poveri dove l'alto costo diventa spesso proibitivo». E non aiuta a sconfiggere la malattia.