L'IDEOLOGIA TARDO-LIBERISTA DELLA RIFORMA - E’ ORA DI FARE IL PROCESSO ALLA CULTURA - CULTURA E ISTRUZIONE : UNIVERSITA': DUE PROPOSTE - ONORE AL DEMERITO - CHI HA PAURA DEL SORTEGGIO - LE MALATTIE DELLA SCUOLA - SE IL «FUORIUSCITO» AIUTA LA RIFORMA UNIVERSITARIA - UNIVERSITÀ, CAMBIARE COSTA - IL SIMULACRO DELL’ECCELLENZA PER MANTENERE LA STATUS QUO - MA LA RIFORMA NON ARRESTA LA FABBRICA DEGLI ORDINARI - LA CARICA DEI PROF CRESCIUTI IL TRIPLO DEGLI ISCRITTI - BERLINGUER: NON NEGHIAMO I SUCCESSI DELL'UNIVERSITÀ - NON C'È SOLO LA BOCCONI - CONTRO L’UNIVERSITÀ TRUCCATA VERIFICHE REALI SULLA RICERCA - SASSARI UN PROF OGNI 15 STUDENTI: È RECORD NAZIONALE TRA GLI ATENEI - SASSARI, LA FABBRICA DELLE CATTEDRE - MISTRETTA: GLI ORGANICI NON SONO GONFIATI - LA SCIENZA CHE EMIGRA - DEMAGOGIA: ORA GLI STUDENTI VOTANO I PROF - ======================================================= CLINICA MACCIOTTA: TERAPIA INTENSIVA È ASSOLUTAMENTE SICURA - CAGLIARI, CONCORSO PER 44 MEDICI AL POLICLINICO - I LEA IN MARCIA VERSO I COSTI STANDARD - REPORT TDM: QUANDO LA BUROCRAZIA TAGLIA LE GAMBE AI PAZIENTI - DIABETE: SIGLATO L'ACCORDO PER LA PRESA IN CARICO DEL PAZIENTE - IL LAVORO DI SQUADRA METTE AL CENTRO IL PAZIENTE - DIABETE: I DATI DEL PIÙ VASTO STUDIO EUROPEO SUL DISEASE MANAGEMENT - SANITÀ, SENZA PREVENZIONE UN BUCO DI 12 MILIARDI L'ANNO - SANITÀ, IL MANAGER DURA POCO - UNA RETE DI NEUROLOGI IN TUTTA EUROPA - UN FARMACO BIOLOGICO DOPO LA CHEMIOTERAPIA - LA MATERIA DELLA MENTE SVELATA ATTRAVERSO L'ANESTESIA - QUASI 7 MILIARDI DI DOLLARI IN FARMACI E ASSISTENZA - LE RADIOGRAFIE VIAGGERANNO SENZA FILI - LE VIE DEL SESSO E DEL DESIDERIO - ======================================================= ____________________________________________________________ il manifesto 14 nov. ’08 L'IDEOLOGIA TARDO-LIBERISTA DELLA RIFORMA Marco Bascetta C’è una ragione più profonda dell'arroganza, della stupidità e dell'approssimazione che sottendono la riforma Gelmini (quella della scuola e quella, nota per il momento solo nelle sue linee guida, dell'università) che spiega il rifiuto deciso e generalizzato con cui si é scontrata Pur essendo perfettamente in linea con le riforme di destra e di sinistra degli ultimi decenni (con la sola aggiunta di qualche indigesta molestia ideologica) essa paga lo svantaggio di giungere al termine di un ciclo, quello dell'ubriacatura neoliberista, che ha ormai sperimentato tutti i possibili fallimenti, disatteso promesse, frustrato aspettative, aperto una lunga e tetra prospettiva di crisi. Un solo esempio. I nostri turbo riformatori arrivano oggi a proporre il «prestito d'onore», un dispositivo che indebita gli studenti fino al collo per finanziarsi gli studi. Una volta laureati e oberati di debiti, questi ultimi saranno costretti, in una condizione di estrema incertezza del mercato del lavoro, ad accettare qualunque cosa per, saldare, il conto e difficilmente riusciranno a saldarlo. Come suona in un mondo che sta affogando in un mare di debiti impagabili e di crediti inesigibili una siffatta trovata? Comprereste un derivato che contiene il debito studentesco? L'intero disegno della riforma, accecato dall'ideologia, putrefatto prima di nascere, ha qualcosa di postumo. Procede come se ci trovassimo in una fase di espansione dell'economia liberista, in un pullulare di aziende che investono in ricerca e innovazione, in presenza di una crescita dei redditi familiari pronti ad investire in formazione e cultura. Procede, insomma, tra menzogne e patetici decisionismi, in un mondo di pura fantasia. Si continua a farneticare di «capitale umano» (espressione ripugnante quant'altre mai) quando questo «capitale» è in continuo deprezzamento, di «imprenditori di sé stessi» quando questi ultimi sono tutti alla bancarotta. Quanto all'economia reale o alla «politica reale» non restano che i tagli della spesa e il salasso per chi ancora aspira al «lusso» di una formazione culturale. Riproporre una idea aziendalista della formazione a questo punto e in questo contesto non è solo asineria, è crimine. Gli esiti di questa impostazione, inaugurata dalla sinistra, con l'intento del tutto velleitario, e quindi mai realizzato, di adeguare l’istruzione al mercato del lavoro, sono sotto gli occhi di tutti: precarietà del reddito e precarietà del sapere stesso, prodotto con pochi soldi e in tempi tanto rapidi quanto rapida è l'obsolescenza delle scarne conoscenze acquisite. Questo chiedevano infatti il famoso mercato del lavoro e la leggendaria lungimiranza delle imprese italiane, quel tanto di formazione sufficiente a soddisfare la contingenza e al prezzo più basso possibile. E questa è anche la sostanza reale del feticcio del momento: la meritocrazia. Il merito, fuor di retorica, è una misura che appartiene a chi lo elargisce, ai suoi bisogni e alle sue aspettative: fai quel che serve, nel tempo che siamo disposti a concederti e a costi compatibili. Roba da Renato Brunetta, gustosa caricatura del responsabile di un piano quinquennale sovietico. Questo «merito» non ha nulla a che spartire con il talento o con il sapere, che puntano sempre «oltre» le aspettative della contingenza, che comportano generosità e «spreco», guardano al futuro e non alla piatta riproduzione del presente. Per merito non si intende, invece, altro che un disciplinato processo di adeguamento. Un amico con il gusto del paradosso mi disse una volta scherzosamente che tra i raccomandati, per caso, qualche mente brillante ci poteva pure scappare, ma nel gregge dei disciplinati meritevoli era una eventualità da escludere del tutto. Tra i giovani del movimento circola insistentemente un paragone tra la disponibilità del governo (di tutti i governi liberisti) a investire denaro pubblico nel salvataggio di banche e assicurazioni e la volontà incrollabile di risparmiare nel settore dell'istruzione e della ricerca. E’ un confronto pertinente e tutt'altro che demagogico. L'intervento pubblico nel settore finanziario si motiva con l'argomento che li sono racchiuse ormai tutte le nostre vite e le nostre risorse, pensioni, previdenza, risparmi e redditi. Si tratterebbe cioè di un problema che riguarda ormai l'interesse generale della società. Nel sistema della formazione, si potrebbe obiettare, è racchiuso il nostro futuro inteso non solo come potenzialità di sviluppo economico, ma anche come il grado di civiltà cui una collettività può aspirare. E quest'ultimo non si misura con un gretto rapporto costi-benefici, ma comporta, proprio perché proiettato in avanti, sempre un'eccedenza rispetto alle necessità del momento, al pareggio dei conti. Tutto questo riguarda o no l'interesse generale di una società ben più che la «capitalizzazione umana» dei singoli? Ma nelle università, insistono i riformatori armati di mannaia, ci sono sprechi, baronie, clientelismi, privilegi, stravaganze didattiche. Certamente. E le banche non sono forse infestate di truffatori veri e propri, manager privi di scrupoli, taglieggiatori, trabocchetti, burocrazie, indecenti spese di rappresentanza? Chi chiederà conto di ciò? Tra queste due antiche istituzioni la differenza è semplice, l’una sviluppa il sapere (che oggi è comunque appropriato é sfruttato), l'altra il profitto, l'una è istituzione della società, l'altra un potere forte. E non è bastato a una lunga scia di solerti riformatori applicare la terminologia bancaria al mondo della formazione per cancellare le differenze. Quanto al grado di crisi in cui versano il sistema creditizio e quello della formazione è una bella lotta. I tagli all'istruzione sono una scelta politica, come politico è il movimento che li avversa. Sotto attacco è infine il carattere pubblico dell'istruzione. Non solo sul versante dei tagli. L'aver reso precario ed effimero il sapere trasmesso attraverso la frammentazione e l'immiserimento del percorso formativo (più per delirio pedagogico dei programmatori di stato che per tornaconti baronali) ha costretto un gran numero di giovani, comunque disoccupati e precari, ad acquistare continuativamente sul lucroso mercato privato della formazione nuove competenze, a loro volta, quando non truffaldine (si veda il catalogo demenziale dei master), scadenti e a breve scadenza. Adesso si agita il miraggio della trasformazione delle università in fondazioni private alla ricerca di fantomatici finanziamenti, che comunque, già nella loro spettrale improbabilità, spingeranno gli atenei a riorganizzare la didattica secondo un gretto utilitarismo estraneo a ogni spirito critico di autonomia e innovazione. Ma bisogna tenere ben distinta, nella polemica contro i processi di privatizzazione della formazione, l'idea di istruzione pubblica da quella di istruzione statale. L'idea cioè di una sfera in cui si eserciti lo spirito critico dei soggetti che vi operano collettivamente e che interpretano i molteplici e diversificati bisogni culturali di una società in trasformazione, dall'omogeneizzazione dell'istruzione intorno a un rigido ____________________________________________________________ il Giornale 9 nov. ’08 E’ ORA DI FARE IL PROCESSO ALLA CULTURA e nessuno ha il coraggio di dirlo Mentre in Francia si discute con accanimento su come rinnovare il sapere, in Italia gli intellettuali non hanno il coraggio di cambiare. Così tutto ristagna annegato dai troppi festival e dalle poche idee Luca Doninelli Da molti anni si vanno accumulando, in Francia, i cahiers de. doléances (con qualche j'accuse) sullo stato della cultura nazionale. Il suo cinema offre prodotti marginali, la sua letteratura non viene tradotta all'estero, la sua musica non varca i confini, ma soprattutto sono in crisi scuola e università. Gli interventi sono numerosi e autorevoli, a cominciare dal capolavoro che Marc Fumaroli pubblicò diciassette anni fa sulla politica culturale di Stato, da Vichy a Malraux fino a Jack Lang: L'Etat culturel (Lo stato culturale, Adelphi). Fumaroli non le manda a dire: Dopo aver deprecato l'idea della fruizione culturale come atto di civismo, il grande studioso definisce le iniziative culturali pubbliche come altrettante «distrazioni tanto ammodo che non rispondono a nessuna necessità interiore e che non fanno altro che scoraggiare dall'essere se stessi». A essere messo sotto accusa è stato, fin dall'inizio, un intero modello culturale, che comprendeva editoria, spettacoli dal vivo; cinema, musica ma anche università e ricerca e, quindi, istruzione e formazione. Va dato atto ai nostri cugini di non aver mai disgiunto la cultura intesa come prodotto dal momento formativo, La storia di questa - autocritica comprende momenti di grande intensità, come nell'inchiesta uscita lo scorso anno, e curata dal grande matematico Laurent Lafforgue e dalla pedagogista Liliane Lur~,at, dal titolo significativo La débàcle de l'école(La rovina della scuola); o come il mea culpa di Tzvetan Todorov (La letteratura in pericolo, Garzanti) dove uno dei protagonisti dell'era strutturalista ammette i disastri prodotti dal suo metodo nei testi scolastici, nei metodi d'insegnamento e nelle cattedre universitarie di letteratura. Guai, però, se a lanciare l'allarme è - siamo alla fine del 2007-un giornalista americano di Time, Donald Morrison, con un servizio che merita la copertina sull'edizione europea del magazine, ma non compare nemmeno' su quella americana. Apriti o cielo. I, panni sporchi si lavano in casa: questo americano, che si domanda come mai tutto il rumore che la cultura francese produce in patria non faccia vibrare nemmeno la più piccola eco a New York o a Chicago, merita una risposta indignata. E allora giù!, fiumi d'inchiostro, ore e ore di trasmissioni televisive, scudi sollevati pressoché in tutti gli ambienti, da quello editoriale a quello accademico. Così Morrison ha dovuto trasformare il suo articolo in un libretto, uscito da,poco in Francia per i tipi di Denoél, dal titolo che, tradotto in italiano, suona «Cosa resta della cultura francese?». AL suo testo ne segue nello stesso volume un altro di risposta, più breve, di Antoine Compagnon, storico della letteratura, intitolato (traduco) «Il cruccio della Grandeur». Non c'interessa, qui, seguire il corso della polemica. Lo scritto di Morrison è farcito di dati, ma l'interpretazione degli stessi appare spesso un po' grossolana, da giornalista americano abituato a considerare esistente solo ciò che produce visibilità e numeri rilevanti. Quanto a Compagnon, un autore che io apprezzo molto, non si attarda nella difesa, ma - al modo di Socrate nel Fedro - completa la critica per poi mostrarne il lato vitale. Perché così è: se il modello culturale francese presenta molte falle e una certa dose di ipocrisia (basterebbe pensare alla frequenza di parole come «diversità», «alterità» nel suo frasario culturale, a fronte dei modi spesso polizieschi con cui l’alterità viene trattata quando si mostra con il corpo e la faccia di uno straniero), è però anche vero che tutto questo movimento autocritico dimostra lo stato di salute delle radici culturali francesi, é la determinazione della «cultura» a mantenere il suo valore in piena autonomia, distinguendosi dalla politica. La nostra domanda investe, piuttosto, la cultura italiana, sulla quale, in grandissima parte, si potrebbero ripetere - spesso rincarando le dosi - le osservazioni mosse da Morrison e dallo stesso Compagnon nei riguardi di quella francese, è che si riassumono nel suo scarso peso a livello internazionale, nel suo provincialismo, nella sua mancanza di originalità. Da noi non esiste, di fatto, uno Stato Culturale come quello deprecato da Fumaroli, e la cultura, più che un affare di Stato, appare come un affare di élite, di salotti, di circoli, di cricche e, se mai, in un recente passato, di controllo ideologico a opera del fascismo prima e del partito comunista poi, che in modi solo in parte diversi hanno acquistato potere nei gangli della produzione culturale, contaminando (anche mediante il ricatto) l'esercizio della libertà intellettuale nel nostro Paese. Sono tutte cose che sappiamo benissimo. Del resto, gli agenti patogeni della libertà intellettuale esistono e probabilmente esisteranno sempre dappertutto, e questo ha una sua logica (starei per (lire giustizia) perché è nella lotta, nella tensione, nella dialettica che la libertà si afferma. Non ho mai sentito parlare, né qui, né altrove, di uoomini liberi che non abbiano pagato il prezzo della loro libertà. Quello, piuttosto, che preoccupa è la totale assenza, da noi, di un ripensamento paragonabile a quello dei nostri cugini francesi. A nessuno viene in mente di produrre un'analisi critica della nostra cultura capace di abbracciare insieme letteratura, spettacolo, beni culturali e università, considerandoli come un unico problema. Nessuno ha voglia di farsi dei nemici. Così ci accontentiamo di riempire lo Stivale di premi é festiva] e ci illudiamo che la cultura sia in buona salute. Per i ripensamenti è sufficiente Porta a porta, o qualche altro talkshow. L'intellettuale fa un mestiere mal pagato, ha scarsa stima di sé (un buon gelataio guadagna più della maggior parte degli scrittori), ed è facile che finisca per rincorrere un posticino al sole a caccia di gettoni di presenza, girando per convegni e festival, tenendo rubrichette su riviste o, se va bene, aprendosi una strada nel cinema. C'è poi un problema di coraggio. Nel libro di Morrison-Compagnon vengono avanzate ipotesi arditissime, come quella di azzerare i contributi -pubblici allo spettacolo dal vivo, considerati un deterrente culturale (l'artista finisce per essere un mantenuto pubblico: tesi molto americana). Ma chi avrebbe, da noi, il coraggio di formulare simili proposte senza temere di essere linciato? Conosco gente che pensa queste cose e anche di peggio, ma non parlerà mai. Ogni tanto lo fa qualche scemo del villaggio, abilitato a parlare solo perché sa che nessuno lo prenderà mai sul serio. Eppure ci sarebbe molto materiale di riflessione. Si potrebbe cominciare ripensando il ruolo formativo dell'università, chiedersi come superare la sua crisi di competitività, come metterla in grado di rispondere a sfide che vengono non più solo dall'America o dalla vecchia Europa, ma anche dalla Cina, dall'India, dalla Corea. Nell'Italia di oggi ha ancora senso il valore legale della laurea? E ancora. Mentre l'università langue, proliferano i festival letterari, scientifici, filosofici. Ma quanti di questi festival sono veramente utili? Quanti evitano, mediante una saggia conduzione, la riduzione della cultura a spettacolo? Non stiamo correndo il rischio di ridurre la conoscenza a un semplice «parlare di»? E poi. I contributi pubblici al teatro e allo spettacolo dal vivo vanno mantenuti e, se possibile, aumentati (e non tagliati come si continua a fare da noi). Ma come evitare che una parte di essi finisca per alimentare la marginalità? Conosco gruppi teatrali che da dieci anni lavorano sempre sullo stesso testo - magari una fiaba, o un romanzo che nessuno ha mai letto. Nella crisi economica, sulla soglia della recessione, è più che mai urgente che la nostra cultura sappia affermare la sua centralità di fronte alla sfida della globalizzazione, che potrebbe anche relegarci, e forse lo sta già facendo, a un ruolo definitivamente marginale: ruolo da cui, di norma, riescono a evadere solo pochi fortunati individui. lo penso che non ci meritiamo questo: l'Italia non è solo Colosseo e Gomorra. E ora che anche da noi, con coraggio e serenità, si cominci a discutere, ripensare, progettare, affinché tutte le cose buone che produciamo acquistino la forza di proporsi al mondo. In fondo, la cultura che ci ha dominati finora - di destra o di sinistra poco importa - ci ha insegnato che la nostra è solo un'Italietta, scoraggiandoci, per dirla con Fumaroli, dall'esser noi stessi. Non è forse tempo di concederci una nuova ipotesi? MARC FUMAROII Nato nel 1932 è uno storico francese, dal 1986 è membro dell'Accademia di Francia LAURENT LAFORGUE È uno dei più promettenti matematici d'oltralpe e membro del Cnrs francese UMBERTO ECO Semiologo e scrittore è uno dei più noti intellettuali italiani, in patria e all'estero CLAUDIO MAGRIS Germanista e scrittore è considerato un possibile candidato al nobel per la letteratura II valore legale del titolo di studio frena la competitività tra atenei SPRECHI I contributi pubblici al teatro e allo spettacolo se non tengono conto del merito alimentano solo la mediocrità IDENTITA II nostro Paese non è soltanto Gomorra e il Colosseo. Pensare il cambiamento significa ritrovare noi stessi _____________________________________________________________ Corriere della Sera 14 nov. ’08 CULTURA E ISTRUZIONE : UNIVERSITA': DUE PROPOSTE DOCENTI E MERITO di Giovanni Sartori - Il ministro dell'Istruzione non si è lasciato spaventare troppo dalle proteste, ma abbastanza da accettare ragionevoli rinvii e ripensamenti. Nel frattempo direi che la Gelmini, nel complesso, si sia mossa bene. Sulla scuola il ripristino del «maestro unico» non è una tragedia (se tagli ci debbono essere, e essere ci devono, questo non è esiziale), il ripristino dei voti espressi in numeri è una semplificazione utile, e quello del voto in condotta necessario. I maestri non debbono restare indifesi, gli studenti che vanno a scuola per studiare non devono essere danneggiati dai cattivi studenti; e poi nessuna organizzazione al mondo può funzionare senza incentivi e punizioni, senza premi e sanzioni. Invece la scuola è stata sfasciata da una pedagogia «senza punizioni» (quella, dicevo nel mio articolo precedente, divulgata dal dr. Spock) che oramai ha contagiato persino la magistratura. Vedi il recente pronunziamento di una Corte di Cassazione per il quale un docente commette un reato se «minaccia» uno studente di bocciatura! E vedi l'altrettanto assurda dilatazione del principio della privacy che consente a uno studente maggiorenne di chiedere che i suoi voti scolastici non vengano comunicati ai genitori (che di solito lo accasano)! Siamo matti? Sì, direi proprio che lo siamo. Ma veniamo all'Università, che è ancora una partita largamente aperta. Primo problema: la qualità dei professori. È, purtroppo, mediamente bassa. I docenti bravi, anche bravissimi, ci sono ancora; ma sono schiacciati da una valanga di «baroncini» insediati in cattedra da una politica universitaria (di indistintamente tutti i governi post-68) miope e demagogica. Quando io vinsi il mio concorso a cattedra, i posti di professore di ruolo erano, in tutta Italia, 3000; oggi i docenti a vita sono circa 65 mila. I «precari» protestano perché per loro non c'è posto. Già. Non c'è posto perché se l'Università viene imbottita a colpi di migliaia alla volta di 30-35enni docenti di ruolo, finisce che per 30-40 anni i posti li occupano loro. Elementare. Eppure si continua così. Su queste colonne Giavazzi ha giustamente protestato per i nuovi concorsi già banditi. Purtroppo sono già banditi. L'andazzo è demenziale; ma come si rimedia? La mia proposta è di anticipare l'età della pensione da 70 a 60 anni. Non per tutti, si intende; ma per i «baroncini» che da quando sono andati in cattedra non hanno mai scritto un libro e anche per coloro che le lezioni le fanno sì e no. Un secondo rimedio, oramai inderogabile (anche perché ci aspetta una istruzione regionalizzata da un federalismo incontrollabile), è l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Che era dovuta sin da quando l'autonomia delle singole Università ha consentito una stessa laurea (legalmente tale) per corsi di studio completamente diversi. Ma che è dovutissima oggi per combattere la mala pianta delle Università cartacee che sono spuntate ognidove, e anche delle scandalose lauree «precoci» conseguite in due anni (e anche meno). Valga per tutti il caso della Kore di Enna, che laurea in anticipo il 79 per cento dei suoi iscritti. Qui il discorso si dovrebbe allargare alla laurea «breve », la cui introduzione ha prodotto effetti devastanti. Ma una cosa alla volta. Intanto onore al merito di chi cerca di rivalutare il merito. ____________________________________________________________ L’Espresso 20 nov. ’08 ONORE AL DEMERITO II sistema di finanziamenti prevede criteri di efficienza. Non rispettati. Così i Politecnici di Milano e Torino ottengono il 20 per cento in meno. E la Sapienza di Roma incassa 100 milioni in più DI VITTORIO MALAGUTTI Accusati per tenere in piedi Alitalia con il prestito ponte della scarsa primavera», segnala Daniele Checchi, preside di Scienze politiche alla Statale di Milano. Sostiene il ministro Mariastella Gelmini che, grazie alla sua riforma, verranno premiate le università migliori, le più efficienti, le più produttive. Quando? Presto, prestissimo. Già dal 2009, spiegano al ministero dell'Istruzione, almeno 500 milioni saranno destinati agli atenei meglio gestiti scelti sulla base di parametri fissati entro quest'anno. È tutto nero su bianco, scritto ne( decreto legge sull'università firmato lunedì 10 novembre dal capo dello Stato Giorgio Napolitano. Ecco serviti i critici, allora. Mentre infuriano le polemiche sui tagli indiscriminati varati dal governo, il ministro risponde cifre alla mano con gli incentivi per i rettori che puntano sulla qualità. E’ solo l'antipasto: perché, come spiegano i collaboratori della Gelmini, da qui al 2011 le risorse destinate agli atenei d'eccellenza aumenteranno addirittura a 1,8 miliardi. Una somma quanto mai importante, pari a quasi il 30 per cento del finanziamento pubblico complessivo destinato al sistema universitario che, nei piani del ministro, fra tre anni dovrebbe scendere a poco più di 6 miliardi contro i 7,4 attuali. «Una svolta», esultano i supporter della maggioranza di governo. «Aspettiamo i fatti - replicano esperti e studiosi della materia senza nascondere una buona dose di scetticismo. In effetti, i premi all'efficienza non sono certo una novità targata Gelmini. La storia è vecchia ormai di una quindicina d'anni. Un tormentone che finora ha prodotto molta teoria (dotti studi di commissioni ad hoc) e pochi fatti concreti (fondi alle università virtuose). Già ]'anno scorso, per dire, il governo Prodi aveva promesso agli istituti meglio gestiti il 5 per cento degli stanziamenti di Stato per gli atenei. Conti alla mano erano un po' meno di 400 milioni. «Solo che quei soldi alla fine sono stati in buona parte li primo tentativo di elaborare criteri di valutazione a cui agganciare i finanziamenti risale a metà degli anni Novanta. Ma è nel 2004 che viene fissato il cosiddetto "modello di ripartizione" del fondo per le università. Un modello che tiene conto, per ciascun ateneo, del numero di iscritti, del totale degli esami superati e dei laureati, dei risultati della ricerca. Peccato che questi criteri studiati a tavolino siano rimasti per lo più lettera morta. Nel senso che i finanziamenti sono stati erogati secondo "quote storiche di spesa", per usare un eufemismo coniato al ministero. In parole povere, anno dopo anno, ciascun ateneo, efficiente o meno che fosse, ha continuato a ricevere le stesse somme, rivedute e corrette in base all'inflazione e a eventuali incrementi di personale. L così, adesso, esistono due criteri di finanziamento. Uno virtuale, che prernia i migliori. E un altro reale, che non fa differenze. Anzi, peggio, finisce per agevolare le università sprecone, che non hanno nessun incentivo a cambiare rotta. Nasce da qui un paradosso tutto italiano. Quello delle università "sottofinanziate". Ci sono cioè rettori che, in base ai criteri virtuali stabiliti dal ministero, dovrebbero trovarsi a gestire maggiori risorse rispetto a quelle che lo stesso ministero effettivamente eroga. Le tabelle pubblicate in queste pagine, relative al 2007 quando al ministero c'era Fabio Mussi, offrono un quadro completo. Si scopre per esempio che il Politecnico di Milano o quello di Torino, due atenei di qualità, devono accontentarsi di stime di oltre il 20 per cento inferiori a quelle a cui avrebbero diritto se fossero applicati i modelli di ripartizione che premiano l'efficienza. La Sapienza di Roma, invece, incassa circa 100 milioni in più di quanto si meriterebbe. r1 Messina i fondi erogati (180 milioni) superano del 3.5 per cento quelli calcolati in base al modello virtuale 111 milioni). Scorrendo la tabella si scopre che i maggiori squilibri si concentrano in Campania, Sicilia e Lazio. Gli atenei del nord (Piemonte. Lombardia, Veneto sono invece mediamente sotto finanziati per oltre il 10 per cento. « In realtà qualche passo nella direzione giusta è stato fatto», sottolinea Giuseppe Catalano, docente al Politecnico di Milano. Fino a qualche anno fa «gli squilibri a danno delle università sotto finanziate erano ancora maggiori», spiega Catalano, più volte chiamato a far parte di commissioni ministeriali sul tema. Di questo passo, però, ci vorranno decenni per eliminare il problema. Diamo un'occhiata ai numeri. Nel 2007 solo l'1,2 per cento dei finanziamenti è stato concesso in base a modelli che premiano l'efficienza. Nel 2006 eravamo allo 0,5 per cento. Negli ultimi cinque anni questa percentuale si è assestata in media intorno all' 1,6 per cento. In altre parole, tra il 2003 e il 2007 il sistema universitario ha ricevuto dallo Stato 33,8 miliardi, ma solo 5-10 milioni sono andati a favore degli atenei virtuosi. Insomma, briciole. Adesso si cambia musica, promette il ministro Gelmini. Si comincia con 500 milioni, il 7 per cento del totale dei fondi, destinati ai migliori. Va detto che sono ancora da stabilire i criteri con cui queste risorse dovrebbero essere suddivise. L'ingrato compito spetterebbe a una commissione che però deve ancora insediarsi. Nel frattempo gli esperti segnalano nuovi problemi. Il governo Berlusconi vuol bruciare le tappe. Vuole tagliare le risorse complessive e allo stesso tempo aumentare quelle per gli atenei efficienti. In questo modo però c'è il rischio di dare il colpo di grazia a un gran numero di università. Quelle che finora sono riuscite a sopravvivere grazie al sistema tradizionale di finanziamento. Non per niente l'anno scorso la commissione tecnica per la spesa pubblica del ministero dell'Economia raccomandava di aumentare gli incentivi agli atenei di qualità anche grazie a "una crescita sufficiente e certa" del fondo dì finanziamento pubblico. La Gelmini invece si prepara a ridurlo pesantemente. Come se ne esce? Semplice: tagliando il numero dei professori con i pensionamenti. «IN'la così si abbassa la qualità dell'insegnamento», protestano molti rettori. E allora addio qualità. a DATI 2007 `Finanziamenti ritenuti adeguati dalla commissione del ministero in base alla qualità dell'ateneo ""Finanziamenti erogati _____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 nov. ’08 CHI HA PAURA DEL SORTEGGIO di FRANCESCO GIAVAZZI Gli studenti di Trieste hanno avuto un’idea brillante. Tutto è nato sul loro blog dove uno si è chiesto perché in tante università rettori e professori partecipino alle manifestazioni contro i «tagli del governo»: «Può essere che utilizzino il nostro movimento non per il bene dell’università, ma per proteggere qualche loro interesse, magari per impedire che si modifichi il sistema con cui vengono reclutati i professori?». E così sono andati sui siti dove vengono riportate le pubblicazioni scientifiche dei loro docenti e quanto ciascuna è citata in altri lavori. Ad esempio «Publish or perish» che usa i dati di Google Scholar ed è disponibile sul sito www.harzing.com o semplicemente i dati delle valutazioni del Civr disponibili sul sito del ministero dell’Università. Racconta Maddalena Rebecca suPliccolo che da quel giorno si vedono pochi professori alle assemblee degli studenti triestini. Alcune «anime belle» criticano il decreto del ministro Gelmini che prevede una nuova modalità per la scelta dei commissari nei concorsi universitari: elezione di un numero pari a tre volte i commissari necessari e poi sorteggio. «In Gran Bretagna, dove l’università funziona, i dipartimenti scelgono i professori senza bisogno di un concorso ». Lo so bene, ma lì il titolo di studio non ha valore legale e i fondi pubblici vengono assegnati alle università non a seconda del numero degli studenti iscritti, ma in funzione della qualità della ricerca: ricerca che nessuno cita, niente fondi e il dipartimento chiude. Se i critici vogliono essere coerenti dicano che sono pronti a cancellare il valore legale del titolo di studio (come ha fatto ieri sul Corriere Giovanni Sartori) e ad accettare che vengano chiusi i dipartimenti scadenti. E dicano anche che preferirebbero che i concorsi banditi venissero tutti rimandati in attesa di una riforma dell’università. In realtà temo che le critiche tradiscano la rabbia per un decreto che ha fatto saltare gli accordi con i quali i professori si erano divisi i 6.000 posti a concorso prima ancora che si svolgessero le elezioni per la scelta dei commissari. Ne è un segno il tentativo (fortunatamente fallito) di modificare in extremis il testo del decreto per consentire ai professori associati di partecipare alle commissioni. Un vecchio trucco: gli associati devono ancora essere giudicati (per diventare ordinari) quindi sono facilmente ricattabili. E infatti a premere per estendere l’eleggibilità ai più giovani erano gli anziani non gli stessi associati. Vorrei avanzare una modesta proposta. Fra poco più di un mese in tutte le università si voterà secondo le nuove modalità, cioè per costituire un pool di candidati fra i quali poi avverrà il sorteggio. Affinché si possa votare con sufficiente informazione, le diverse discipline dovrebbero prendere esempio dagli studenti triestini e pubblicare un elenco dei professori eleggibili e della loro produttività scientifica. Poiché esistono diversi criteri (li’mpact factor e altri) si potrebbero pubblicare indici diversi. Io mi impegno a farlo per le materie economiche e statistiche e sono certo altri lo faranno per altre discipline, soprattutto quelle meno abituate a standard internazionali. Poi si vedrà, sia quali discipline non avranno ritenuto utile dare questa informazione sia quelle che, pur avendo stilato gli elenchi, voteranno per candidati non particolarmente brillanti. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 10 nov. ’08 LE MALATTIE DELLA SCUOLA Berlusconi non è Churchill — non promette lacrime ma felicità perenne — e non ama lo scontro sulle piazze che incrina la sua popolarità «di massa». Così rinvia in parte la preannunziata riforma dell'Università. Approfitto della pausa per approfondire il poco approfondito, e cioè i problemi originari di una scuola che è, a tutti i livelli, un malato anziano, un malato di vecchia data. E se non ricordiamo agli imberbi e alle giovanette (tra le quali la appena 36enne ministro del-l'Istruzione) come e perché la malattia è cominciata, non si vede proprio come siano in grado di curarla. Supposto, beninteso, che questo sia l'intento. All'origine di tutti i mali del nostro sistema educativo c'è la scoperta (dico così per dire) che la scuola coinvolge un enorme serbatoio di voti. Chi la tocca, contenta o disturba tutti i giovani in età scolastica, le loro famiglie, e anche un'armata di insegnanti, anch'essi con famiglie. Se non si tratta di metà del Paese, poco ci manca. Aggiungi che il tasto della scuola è altamente emotivo e infiammabile; in ballo c'è il futuro dei giovani, giovani che sono anche i nostri figli. Pertanto non è un caso se la Dc non ha mai lasciato ad altri, finché ha regnato, il ministero dell'Istruzione di viale Trastevere. Intendiamoci: la prima Dc di ispirazione degasperiana ha avuto ministri dell'Istruzione bravi e responsabili che avevano davvero a cuore gli interessi della scuola, e che non li sottoponevano agli interessi di partito. Mi piace ricordare, tra questi, il ministro Gui, un gran signore veneto, fatto fuori da uno dei giovani macachi emergenti (Bisaglia) di quegli anni; e mi piace anche ricordare il ministro Malfatti che potrebbe confermare, se non fosse scomparso prematuramente, la mia battaglia, in una commissione ministeriale, per l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Malfatti mi dava ragione, ma mi disse in tutta franchezza (non era un tipo Moro): sarebbe da fare, ma «politicamente non lo posso fare». Già. La caccia al voto o, viceversa, il terrore del voto erano già diventati, a quel tempo, la preoccupazione dominante dei gestori del sistema educativo. Poi arrivò il '68 e da allora vige e impera la demagogia scolastica. Della quale sono finalmente venuti al pettine i nodi. Ciò premesso, i fattori distorsivi specifici del cattivo riformismo della scuola sono tre. Il primo è stato, appunto, il Sessantottismo, che è stato esiziale perché ha predicato l'ignoranza del passato, così recidendo quella trasmissione del sapere che dovrebbe essere la prima missione dell'educatore; ed esiziale perché, cavalcando la tigre dell'antielitismo, ha distrutto il principio del merito producendo la «società del demerito» che premia i peggiori e gli incapaci a danno dei competenti e dei migliori. Davvero formidabili quei ragazzi Il secondo fattore distorsivo è stato il progressivismo pedagogico (largamente di ispirazione psicoanalitica), che ha infestato tutta la disciplina, ma che ha avuto il suo più dannoso rappresentante nel celebre dottor Benjamin Spock, il guru che ha convertito al permissivismo tutte le madri dell'Occidente con la dottrina che il bambino non doveva essere frustrato da punizioni. E' vero che poi Spock ha rinnegato, da ultimo, la sua dottrina; ma era troppo tardi. In passato i genitori erano dalla parte dei maestri; ora li assaltano nel chiedere la promozione ad ogni costo dei loro poveri figli. Prima la scuola media si reggeva sull'alleanza genitori-maestri. Ora i maestri che resistono all'andazzo «mammistico» sono lasciati soli e sono vilipesi come «repressivi ». Davvero formidabili quei genitori. C'è infine un fattore distorsivo che sfugge ai più: la teoria della società post-industriale come «società dei servizi» fondata sul sapere, o quantomeno su alti livelli di istruzione. D'accordo; ma il post- industriale non doveva e non poteva sostituire l'industriale, vale a dire il nocciolo duro della produzione della ricchezza. Senza contare che la società dei servizi si trasforma facilmente in una società parassitaria di «piena occupazione » fasulla (tale anche perché gli economisti misurano bene la produttività industriale, ma assai meno bene la produttività di un universo burocratico). Il punto è, comunque, che è proprio l'idea della società dei servizi nella quale nessuno si sporca le mani che alimenta la insensata corsa universale al «pezzo di carta» del titolo universitario. Se ogni tanto ci fermassimo a pensare, ci dovremmo chiedere: ma perché tutti devono andare all'Università? C'è chi proprio non è tagliato per studi superiori (che difatti si sono «abbassati» per accoglierlo). Nemmeno è vero, poi, che il lavoro «terziario » dia più felicità. Anzi. Più si moltiplicano gli attestati cartacei che creano alte aspettative, e più creiamo legioni di scontenti senza lavoro, o costretti a un lavoro che considerano indegno del loro rango. Fin qui gli antefatti che hanno prodotto la crisi e le malattie della scuola. Verrò ai fatti a una prossima occasione. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 nov. ’08 SE IL «FUORIUSCITO» AIUTA LA RIFORMA UNIVERSITARIA UN MODELLO AMERICANO PER GLI ATENEI La riforma dell'università italiana verso la meritocrazia, tema di accesi dibattiti in questi giorni, è tanto impellente quanto ardua. Svariate proposte per criteri di merito affidabili sono state avanzate, tra le quali quella, sensatissima, di Francesco Giavazzi sul Corriere di lunedì 3 novembre, di fare appello alle competenze del Gruppo 2003, formato dai 30 docenti universitari italiani che hanno il più alto impact factor, cioè i cui lavori professionali hanno il più elevato numero di citazioni sulle riviste internazionali. Ad essi potrebbero affiancarsi i membri della Fondazione Issnaf ( Italian Scientists and Scholars in North America Foundation), nata nel 2007 su iniziativa di autorevoli esponenti della comunità scientifica, tecnologica e accademica italiana negli Stati Uniti. Tra i suoi soci si contano quattro premi Nobel, due premi Balzan, un Medaglia Field (l'equivalente del Nobel per la matematica) e vari membri delle National Academies americane. Onorandomi di essere uno dei soci fondatori, dopo consultazione con il presidente della Issnaf, professor Vito Campese e con gli altri membri, posso farne presente la disponibilità. Uno degli obiettivi dichiarati di questa fondazione è, infatti, proprio quello (cito dal suo statuto) di «esercitare un ruolo attivo per contribuire a una trasformazione del sistema universitario italiano in senso meritocratico, che lo renda più competitivo a livello internazionale ». I comitati consultivi sono composti da membri che prestano volontariamente i loro servizi. Attualmente sono coperti i seguenti settori: Scienze ambientali, Ingegneria, Informatica e Tecnologia delle Comunicazioni, Medicina e Biologia, Matematica Fisica e Chimica, Scienze Economiche e Sociali, Scienze Umane, Industria e Impresa. Ci sembra che sia opportuno cercare di disinnescare subito due possibili reticenze. La prima è che abbiamo da tempo, tutti noi «fuorusciti», notato una forte diffidenza verso «quelli che stanno all'estero». Questa è dovuta a molti fattori, alcuni comprensibili, altri meno. C'è un naturale senso di orgoglio nazionale italiano e un desiderio di conservare la propria autonomia verso quelli che vengono da «fuori» e vorrebbero spiegarci come organizzare l'università italiana. Vale, però, la pena di far presente che, proprio perché «esterni», non abbiamo paraocchi o alleanze accademiche appiccicose, pur avendo, per storia personale incancellabile, a cuore il miglioramento della comunità scientifica italiana. Possiamo leggere e valutare dei dossier in italiano e abbiamo tutti adeguata conoscenza delle situazioni locali italiane. La seconda reticenza, anch'essa in parte comprensibile e in parte meno, è la storica perplessità verso i modelli americani (non dico anti-americanismo, pur diffuso, dico solo perplessità). Qui si impone di far presenti alcuni dati e alcune considerazioni. Le università americane, in varia misura, stanno attualmente attraversando difficili settimane di ridimensionamento spese. La presente crisi economica globale non le risparmia certo. Imperniate sul merito come lo sono state per decenni, cercano di utilizzare lo sprone attuale anche come un'occasione per migliorare ulteriormente. I parametri di eccellenza istituzionale e individuale sono già da tempo consolidati e i dati che forniscono sono pubblici. Non sono calibri perfetti, certo, ma sono assai buoni e si sono via via affinati. L'intenzione, adesso, è di trarne tutte le conseguenze, alcune non piacevoli, ma indispensabili. Per esempio tagliando il superfluo, sfrondando i doppioni, stimolando le collaborazioni, fondendo tra di loro centri e dipartimenti affini, mettendo i più scientificamente deboli sotto la direzione dei più forti, chiudendone alcuni, licenziando i precari meno meritevoli e pensionando gli anziani non più adeguatamente produttivi (già, proprio così, spiacevole ma necessario). Questo, forse, acuirà le perplessità dei nostri colleghi italiani e magari susciterà un genuino anti-americanismo, ma il sistema universitario italiano non può sperare di far fronte alle richieste indilazionabili di questo momento e lasciare quasi tutto com'è. Due semplici dati di perfetta routine possono rendere vivida la diversità tra i due sistemi, quello italiano e quello americano. Ogni tre o quattro anni, ogni dipartimento universitario americano viene soggetto a uno scrutinio rigoroso da parte di membri esterni, colleghi di altre università. Il comitato di scrutinio esterno, dopo un'attenta visita, redige un documento di valutazione (Apr, Academic Program Review), avendo intervistato individualmente non solo i capi di laboratorio e di istituto, i ricercatori e i docenti, ma anche (si noti bene) i rappresentanti degli studenti e il personale amministrativo (segretarie comprese). Il rapporto finale è poi reso pubblico, dopo che gli interessati hanno avuto agio di obiettare pubblicamente, se credono (ma i casi sono rari), ma non possono cambiarlo. Il tutto viene eseguito, posso testimoniarlo, con grande equilibrio e in spirito di perfetta equità. Infine, ogni anno, i migliori neo-dottorati di ogni dipartimento beneficiano di un rigoroso esame, spietato e insieme amichevole, che li allena a presentarsi sul mercato del lavoro. Bombardati ad arte da domande difficili, ricevendo specifici suggerimenti su come rispondere al meglio e su come comportarsi durante le future vere interviste, poi decollano verso il loro primo impiego, accademico o industriale. Sottolineo, ad onta delle perplessità verso il modello americano, ciò che questa pratica sottintende: esiste un mercato del lavoro di alto profilo intellettuale, è normale che il neo-dottorato vada a cercare un impiego altrove, la selezione sarà fatta unicamente sul merito, il corpo docente che lo ha formato interviene non (sottolineo non) con una raccomandazione clientelare, ma con un processo di ottimizzazione del valore del futuro candidato. La disponibilità dei «fuoriusciti» a contribuire a una svolta si basa sul possibile vantaggio che il sistema italiano avrebbe nell'utilizzare chi ha pratica quotidiana di un sistema di questo genere. Non certo su inesistenti sensi di superiorità dei cervelli che sono (come si dice) «fuggiti». ______________________________________________ Europa 14 nov. ’08 UNIVERSITÀ, CAMBIARE COSTA Parla l'esperto Roberto Moscati, sociologo dell'ateneo Milano Bicocca NICOLA MIRENI21 Fanno bene gli studenti a dire: noi la crisi non la paghiamo - perché il governo, di fronte alla difficile situazione economica, ha rivelato che la formazione, l’università e la ricerca non sono tra le sue priorità politiche». Roberto Moscati, sociologo dell’università di Milano Bicocca - «uno degli atenei italiani d'eccellenza» -, non è persona che tiene a polemizzare gratuitamente con l’esecutivo. Non per questo ci fa notare come «tutti gli stati europei stanno attraversando una fase economica complicata, eppure le scelte fatte dagli altri governi si muovono nella direzione opposta a quella adottata dal nostro: tutti cercano di aumentare, per quanto possibile, gli investimenti nella formazione e nella ricerca, non di tagliarli». Dal 1996 al 1999 Moscati ha fatto parte del gruppo ministeriale per la riforma dell’università. Per il Mulino ha curato (insieme a Massimiliano Vaira) un volume, l’Università di fronte al cambiamento (2008), molto prezioso per chi abbia voglia di capire quali sono i nervi scoperti dell'università. Non sono molti quelli che hanno più competenza di lui per guardare con lucidità e disincanto alla condizione universitaria italiana. «È molto difficile valutare la qualità dell’istituzione universitaria - ci spiega E non lo si può certo fare utilizzando formule sintetiche, omnicomprensive e. perciò superficiali. Ogni ateneo ha punte di eccellenza e di mediocrità. È molto rischioso generalizzare». Bare di tutta un'erba un fascio non aiuta, certo, ma ci sono atenei che hanno attivato corsi di laurea per un solo studente. È un comportamento virtuoso questo? «La questione del rapporto tra numero degli studenti e docenti è complessa. Ci sono dei corsi seguiti da cinque, dieci persone. Però 1 importanza delle discipline insegnate giustifica il basso numero di studenti che le frequentano. Pensi alle facoltà di matematica: gli iscritti sono pochissimi, eppure non mi sembra questo un buon motivo per sopprimere quelle discipline che hanno corsi così poco affollati, o no?». Diversa, invece, è la questione del fiorire di corsi di laurea di dubbia - utilità per lo studente e di discutibile qualità scientifica. «La riforma del "3+2" ha avuto degli esiti imprevisti. L’autonomia dell’insegnamento è stata declinata, in alcuni casi, ira senso corporativo. Si è favorita la moltiplicazione delle cattedre per soddisfare le esigenze dei docenti, piuttosto che avvicinare l’offerta formativa ai bisogni formativi degli studenti, riproducendo uno schema arcaico: quello che considera la formazione non di chi la riceve, cioè gli studenti, ma di chi la fa, i professori: un difetto tipicamente italiano». Le riforme che in questi anni si sono susseguite non sono servite a niente? «Le cose stanno lentamente cambiando anche da noi. Le università cominciano a porsi il problema di intercettare gli interessi degli studenti potenziali, modulando la qualità dell’offerta formativa sui desideri di chi all'università poi ci deve andare, come succede per esempio in Inghilterra e in altri paesi. Certo, in Italia sì fa fatica a pensare in questi termini, ma questa esigenza sta emergendo. Chi sceglie di studiare vuole che ciò che fa abbia una certa qualità. Il problema della riforma "3+2" non è stato quello di essersi posta gli obiettivi che si è posta (ridurre gli abbandoni, diminuire i ritardi, diversificare l’offerta), che sono ancora validi e non ancora raggiunti, ma quella di non essere stata accompagnata, materialmente, dal ministero che Yha proposta. I governi che si sono succeduti non l’hanno né apertamente osteggiata né l’hanno saputa gestire: è mancato un c00rdinamento ministeriale che ne accompagnasse I applicazione, curandosi che nella messa in pratica i principi non venissero distorti per fini corporativi, individualistici, come in certi casi è accaduto». Stando così le cose, con i problemi che ci sono sul tappeto, le mosse del governo sono quelle giuste? «Le misure adottate non rispondono a un progetto formativo preciso. Nessuno si è posto il problema di riflettere su come deve essere l’università italiana nel mondo contemporaneo, quali funzioni deve svolgere e cosa si deve fare perché gli obiettivi siano raggiungibili. Ho l’impressione che da alcuni anni si agisca cercando di mettere delle toppe. In quest'ultimo caso, il ministro dell'economia ha deciso, in una situazione economica oggettivamente difficile, che c'era bisogno di tagliare la spesa pubblica, e si è proceduto di conseguenza, senza nessuna valutazione di ciò che fosse bene fare per ridurre gli sprechi e sostenere quanto di buono scrivono sui loro striscioni "noi la crisi non la paghiamo"? ____________________________________________________________ il manifesto 14 nov. ’08 IL SIMULACRO DELL’ECCELLENZA PER MANTENERE LA STATUS QUO Glgl Roggero Le parole non sono né neutre né oggettive; disegnano un campo di battaglia. Così, Gelmini invoca il cambiamento per conservare lo status quo, trovandosi non a caso i baroni come unici alleati nel mondo della formazione. Oppure sì può sostenere l'eccellenza per organizzare quel processo di dequalificazione dei saperi che permea l'università della (fallita) riforma. L'eccellenza, scriveva negli anni Novanta il teorico nordamericano Bill Readings, non è un criterio o uno standard valutativo: è la risposta ai movimenti studenteschi del'68, il «simulacro dell'idea di università», la riformulazione in termini aziendali dell'accademia humboldtiana, trasmutata in sito per coltivare le «risorse umane» attraverso il calcolo costi-benefici. L'eccellenza - e il suo concetto gemello, la meritocrazia - sono parole prive di un referente. Come il caso anglosassone dimostra, nei cosiddetti centri di eccellenza non necessariamente si trasmettono conoscenze qualificate: sono luoghi che consentono di accumulare «capitale sociale» e «umano», di entrare a contatto con lo star system (figure di fama mondiale strapagate per portare lustro a istituzioni il cui quotidiano carico didattico è interamente scaricato sui precari), di accumulare credito nei meccanismi di inclusione differenziale che governano il mercato della formazione. AL suo interno il valore - delle corporate university e della forza lavoro -viene prodotto attraverso unità di misura artificiali, dal sistema dei crediti a una sorta di reference economy. Ciò non ha nulla a che vedere con la qualità della ricerca e della didattica: è noto come si creino lobby accademiche in cui ci si cita vicendevolmente per aumentare il proprio valore e così decidere la posizione delle riviste nel mercato dei crediti e la composizione della peer revìew. Allora i sistemi di valutazione, lungi dall'essere quel criterio oggettivo descritto dai liberali italiani, costituiscono in realtà l'imposizione di un rapporto di forza. Un'altra unità di misura del valore è costituito dal numero dei brevetti, la cui nocività per l'innovazione e la qualità della ricerca - dalle nuove tecnologie al genoma - è ormai tema dominante tra gli stessi teorici neoliberali. Eccellenza e meritocrazia sono la cifra retorica che organizza l’aziendalizzazione dell’università, la misurazione artificiale dei saperi e i processi di gerarchizzazione del mercato del lavoro. Ma sono anche la contraddizione centrale del capitalismo contemporaneo, che deve continuamente bloccare la potenza del sapere vivo per poterlo controllare e segmentare. Attenzione, però: la lotta contro la retorica dell'eccellenza non può celare alcuna nostalgia per l'università del passato, proprio perché sono oggi i residui di quel passato, ovvero il governo feudale degli atenei, la via italiana all'aziendalizzazione, una paradossale forma di difesa dei privilegi baronali. L'onda anomala sta invece rovesciando la retorica della meritocrazia: ciò che è stata chiamata autoformazione è la fuga dalle macerie dell'università per sottrarre l'eccellenza dalle gabbie del declassamento e coniugarla con la libertà, in quanto autonomia delle forze produttive e del sapere vivo. Il problema non sono i finanziamenti al sistema universitario spaccato al suo interno da linee di potere e subordinazione. La questione è quella della rivendicazione di fondi per l'autonoma attività di formazione e ricerca di studenti e precari. Questa è la sfida che il movimento ha lanciato con l’autoriforma. Una sfida, questa sì, d'eccellenza. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 nov. ’08 MA LA RIFORMA NON ARRESTA LA FABBRICA DEGLI ORDINARI Gianni Trovati MILANO. Sorpresa. Il decreto sull’università rischia di fallire nel tentativo di frenare la corsa alla nomina di professori ordinari, che negli ultimi anni ha affossato i conti dell'università italiana. Anzi, paradossalmente, potrebbe alimentare ulteriormente la spinta verso lo scalino più alto della gerarchia accademica. La ragione è sottile, ma il risultato, nella versione attuale del testo, è evidente. All'articolo i, il provvedimento pone i nuovi limiti al turn over, dicendo che le università possono effettuare assunzioni fino al 50% della spesa relativa al personale cessato nell'anno precedente. Fissata l'asticella, i rettori devono destinare almeno il 60% della quota "liberata" ai ricercatori, e al massimo il 10% a nuovi ordinari: Di primo acchito, sembra un'apertura solo per i ricercatori. Ma così non è: perché il limite è legato alla sola spesa, riferita ai risparmi complessivi per le cessazioni dell'anno precedente, e nella maggioranza dei casi all'inizio i nuovi ordinari (o associati) non costano nulla. Gli oneri cominciano ad aumentare negli anni successivi, quando la norma, che si riferisce alle promozioni nuove, non opera più. Qualche esempio numerico può aiutare a capire che cosa si nasconde dietro a questo piccolo bizantinismo (peraltro non inedito, per chi ricorda le migliaia di assunzioni in deroga nel 2003/2004). Secondo i calcoli più recenti, il costo medio di un ordinario si aggira intorno ai 110 mila euro all'anno, mentre quello di un associato viaggia a quota 74.500 (i ricercatori sono a 50.500). Ma il «costo iniziale» di un ordinario, cioè il valore che qui conta, è di circa 7omila euro, cioè meno del costo medio di un associato. Il fenomeno si spiega con le anzianità, che nell’università italiana (sempre più vecchia) sono una voce importante, e fanno salire gli stipendi nei ruoli. L'associato che aspira a diventare ordinario, quindi, al primo anno nel nuovo ruolo non costa nulla, perché il suo peso sui bilanci crescerà negli anni successivi. Ma l'argine posto dalla norma si riferisce solo al momento dell'assunzione, e quindi non lascia ai rettori alcuno strumento forte per frenare le promozioni. Oltre alla volontà dei singoli, spesso il problema è infatti rappresentato dalle pressioni del mondo accademico (come dimostra la delusione di alcuni rettori alla mancata abolizione della doppia idoneità per la prima sessione dl concorsi del 2008, che però avrebbe ingenerato una pioggia di ricorsi da parte degli interessati). Il sostanziale via libera all'affollarsi di promozioni nasce dall'abbandono del doppio limite, presente nella versione originaria della norma. L'articolo 66 della manovra d'estate, su cui interviene il decreto, fissava il parametro per il turn over sia ai costi sia al numero dei docenti andati in pensione, per cui chiudeva ogni spazio anche alle promozioni con oneri "a scoppio ritardato". Un’altra possibilità sarebbe stata quella di riferire il parametro ai «costi convenzionali» anziché a quelli reali, in modo da misurare meglio il peso effettivo nel tempo delle decisioni sui personale. gianmarovati@ilso(e24ore.com I professori ordinari sono aumentati del 32,6% in soli otto anni. È uno dei dati che emerge dall'inchiesta sull'università pubblicata sul Sole 24 Ore di ieri. ____________________________________________________________ il Giornale 11 nov. ’08 LA CARICA DEI PROF CRESCIUTI IL TRIPLO DEGLI ISCRITTI Dietro la crisi di bilancio di molti atenei italiani l'esplosione delle spese per gli stipendi di docenti e tecnici Dal 2000 a oggi il pesa delle buste paga degli ordinari é aumentato del 6301o, mentre le matricole solo del 10% Roma Primi in moltiplicazione delle cattedre. Ultimi nell'assegnazione delle borse di studio. Il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini, fin dal suo primo discorso alle Camere aveva subito segnalato come tra le priorità del governo ci fossero la valorizzazione del merito, la revisione del sistema dei concorsi e la riduzione del numero dei corsi di laurea. Quasi 5.500 nello scorso anno accademico. Ora i dati del ministero elaborati dal Sole 240re confermano che mentre gli studenti non aumentavano ed in qualche caso anzi diminuivano, le cattedre proliferavano senza controllo, spuntando come funghi, spesso al solo scopo di sistemare qualcuno. Una degenerazione esplosa dopo la riforma del 3+2 varata alla fine del'99 dal governo di centrosinistra. In pochi anni esplode il numero dei corsi di laurea che da circa 3.000 salgono ad un massimo di 5.412 per 180.000 insegnamenti. I professori ordinari aumentano del 32.2 percento ed i loro stipendi schizzano come incidenza fino ad un più 63,7 per cento. Non aumentano con la stessa velocità però gli associati ed i ricercatori trasformando l'organico dell'Università in una sorta di piramide rovesciata dove ci sono più generali che colonnelli e Più tenenti che soldati semplici. E soprattutto senza alcun corrispettivo nell'aumento degli studenti che sono saliti di un modesto 10,6percento. Ci sono casi limite come quello della sede di Foggia nata nel '99 che nel 2000 contava 27 professori ordinari saliti oggi a 97. Ma quello che colpisce è l'incremento in percentuale dei docenti, più 361,9 per cento; degli associati, più 67,2; contro un misero incremento degli studenti del 17,6. Nel mirino del ministro Gelmini sono finiti pure i bilanci in dissesto. Al top ma in senso negativo quel lo di Siena dove la spesa per il personale corrisponde all'89,2 per cento del Fondo ordinario, tenendo conto che il tetto massimo è del 90 e che a questo si aggiunge un buco di 150 milioni di curo. Segue Firenze con una spesa del 92,1 del fondo per gli stipendi ed un buco 40 milioni. Il decreto licenziato giovedì scorso dal consiglio dei ministri (trasmesso in serata al Quirinale, dovrebbe essere pubblicato oggi o al massimo domani in Gazzetta Ufficiale) contiene già alcuni correttivi, Prima di tutto si riservano incentivi ai migliori, assegnando agli atenei virtuosi il7 per cento del Fondo, circa 730 milioni di curo. Uno dei criteri per valutare la virtuosità dell'Ateneo sarà quello legato alla produzione della ricerca. Sempre nel decreto ci saranno 135 milioni di curo in più da assegnare subito a partire dal 2009 per gli studenti meritevoli attraverso le borse di studio. Negli anni scorsi molti studenti ritenuti idonei erano rimasti esclusi per mancanza di fondi. La Gelmini punta invece a coprire tutte le richieste. Per fanno prossimo la somma a disposizione per il diritto allo studio sarà di 246,9 milioni. Oggi il ministro incontrerà i sindacati del settore universitario che per venerdì prossimo; il 14, hanno proclamato uno sciopero. La Gelmini si dice - disponibile al dialogo con chi vuole veramente riformare il sistema dell’istruzione ed assicura che dopo aver varato i provvedimenti più urgenti con i decreti per la riforma completa la sede del confronto sarà sicuramente il Parlamento,. ____________________________________________________________ L’Unità 11 nov. ’08 BERLINGUER: NON NEGHIAMO I SUCCESSI DELL'UNIVERSITÀ Luigi Berlinguer Il settimanale "Panorama" ha pubblicato un articolo sull'università di Siena approfittando della sua difficile situazione finanziaria. È vero: il deficit dell'ateneo è divenuto insopportabile, ci sono stati errori, leggerezze, sprechi. cui mi pare tutta via che l'università stia tentando di rimediare. L'articolo però rivela un altro intento: quello di ridurre decenni di cultura ad una farsa campestre. Male informato e soprattutto unilaterale, quel testo ignora i successi dell'ateneo senese. Lascio da parte il tempo ormai lontano del mio rettorato e vengo ai tanti risultati degli ultimi anni. -Il Censis classifica Siena al primo posto per i servizi offerti agli studenti: aule, biblioteche, laboratori, tecnologie. Il rapporto ricerca-società è testimoniato da numerosi brevetti, spin-off, trasferimenti tecnologici rilevanti. Nel ranking "2008 (S00 atenei mondiali) Siena è quarta fra le italiane prima di Boston university (83"). La relazione valutativa del Civr la qualifica eccellente, la colloca al12" posto in Italia. Le sue biblioteche sono aperte fino alle 20, alcune sere fino alle 23, tecnologicamente assai attrezzate, anche per i non vedenti. Ricordo solo due fra le eccellenze scientifiche (la lista è lunga) : il centro di antropologia del mondo antico a Lettere, ed i risultati recenti relativi alla scoperta di una molecola per bloccare il virus Hiv e combattere l’Aids. Da ultimo, la Certosa di Pontignano, splendida foresteria dell'ateneo, che anche grazie a quella struttura, ha creato le condizioni per la sua internazionalizzazione, Un patrimonio di successi straordinario. Perché non se ne fa cenno nell' articolo di Panorama? Per faziosità denigratoria. Ove si è speso troppo o sprecato, si intervenga energicamente, ma si riconosca la verità dei fatti. Ho parlato di Siena per verità informativa ma anche per l’emblematicità del caso. Denigrare e parlare di sprechi è emblematico. Università e ricerca richiedono equilibrio, e soprattutto consapevolezza delle priorità e urgenze. Ne indico tre: anzitutto soldi, risorse, tante. L'italia è agli ultimi posti nel rapporto ricerca/Pil. Stiamo perdendo terreno nel mondo. Il grido del rettore Ballio (politecnico Milano) è come un simbolo. non si sottovaluti. Fare campagna sugli sprechi diventa un diversivo rispetto alla soffocante carenza di risorse. E poi, due cose, urgentissime: cambiare la governance, gli organi di governo degli atenei; e sviluppare al massimo valutazione ed incentivi, con rigo Re ono misure impopolari, ma irrinviabili. Vengono prima di qualunque altra. Sono difficili da adottare da una sola parte. Attenzione, però. Guai a ritrarsi, se si vuole assicurare avvenire all'università. Occorre su questo uno sforzo comune. Gli ultimi provvedimenti Gelmini e la stessa reazione dell'opposizione aprono uno spiraglio, e lo spirito della parte consapevole del "movimento" sembrano confermarlo. Non perdiamo l'occasione. Ascoltiamo il Capo dello Stato.- ____________________________________________________________ Europa 14 nov. ’08 NON C'È SOLO LA BOCCONI AGOSTINO GIOYAGNOLI Si deve probabilmente a Francesco Giavazzi la sostanza del decreto legge sull’università da poco approvato. É stato lui, infatti, a lanciare l’allarme perché stavano per cominciare le votazioni per 3700 posti di professore universitario (più 320 di ricercatore) ed è stato ancora lui a chiedere di bloccarle pretendendo un segno di «discontinuità». L’opposizione, per bocca di Mariapia Garavaglia e di Luciano Modica, ha concordato: ci vuole «discontinuità». E il ministro Gelmini ha ripetuto questa parola, presentando i provvedimenti (approvati peraltro dal consiglio dei ministri un pd alla cieca: passaggi importanti sono stati, infatti, scritti successivamente). In questo caso discontinuità vuol dire introduzione del sorteggio nella formazione delle commissioni per giudicare i candidati all’insegnamento universitario. Alle obiezioni, Giavazzi ha risposto che la critica è mossa dalla «rabbia per un decreto che ha fatto saltare gli accordi con i quali i professori si erano divisi 6000 posti a concorso prima ancora che si svolgessero le elezioni per la scelta dei commissari». È un modo per suggerire che dietro la protesta c'è qualcosa di losco da nascondere, come se fosse in corso una gigantesca rapina di un bene pubblico, trasformato in un bottino spartito tra pochi. Tralasciando per il momento l’indignazione di chi non si riconosce in queste accuse, va osservato che respingere dubbi, obiezioni, dissensi, criminalizzando chi la pensa diversamente significa impedire una discussione nel merito. Va nella stessa direzione la procedura del decreto legge che, per denmzione, impone una nuova normativa senza discussione pubblica (in questo caso, tra l’altro, mancano anche i presupposti di urgenza e il testo sembra pure tecnicamente difettoso). Non è perciò casuale che siano ancora poco chiare le conseguenze dell’introduzione del sorteggio nel la selezione dei candidati all'insegnamento universitario. In realtà, non c'è alcuna garanzia che il sorteggio produca risultati migliori dell'elezione. Sei professori universitari sono in larga parte corrotti e disonesti perché i sorteggiati dovrebbero essere migliori degli eletti? Perché, inoltre, chi entra in commissione per via di sorteggio dovrebbe comportarsi meglio di chi vi entra per via di elezione e che quindi, presumibilmente, gode di una qualche stima? Che cosa c'entra l'inserimento della Dea bendata - così Michele Ainis ha sintetizzato il provvedimento - con valutazioni che riconoscano davvero i titoli e le capacità del candidato? Non suggerisce niente che nei paesi anglosassoni e altrove in Europa, siano facoltà e dipartimenti a scegliere direttamente i nuovi professori, con un metodo totalmente agli antipodi del sorteggio? Naturalmente, è possibile che queste e molte altre obiezioni possano essere superate, ma l’unico modo serio di farlo è prenderle in considerazione. In attesa che ciò avvenga, conviene intanto riflettere sull’ unica conseguenza sicura - ed esplicita mente voluta - di questo provvedimento: togliere potere ai professori ed incrinarne la figura tradizionale. Ma ciò significa colpire anche qualcosa che non è immediatamente evidente ma che è molto importante: quella parte del lavoro universitario che non è visibile e contabilizzabile. Ricordo che cosa ha significato per me, giovane studente, incontrare Pietro Scoppola, confrontarmi con lui, sottoporgli i miei lavori, ascoltare i suoi consigli. Tutto ciò avveniva fuori dall'ora di lezione e senza che Scoppola venisse pagato per questo: lo muovevano solo il senso del dovere e la passione educativa- In. questo modo, egli ha realizzato qualcosa di fondamentale nella trasmissione del sapere: ha creato una piccola "scuola" che ha aiutato tanti giovani - molti dei quali hanno poi seguito strade diverse da quella universitaria - nella loro crescita umana e culturale. Ma intorno a Scoppola non ci sarebbe stata alcuna scuola se egli non avesse almeno potuto immaginare per alcuni di essi non la certezza ma la speranza di seguire la sua strada. È possibile che Giavazzi non abbia considerato tutto questo. Egli, infatti, insegna alla Bocconi, che è diversa da molte altre università. I docenti della Bocconi, com'è noto, sono di altissimo livello: la maggior parte di loro ha percorso brillanti carriere nell'industria, nel le banche, negli studi legali e ai loro studenti essi trasmettono un’esperienza preziosissima. Si tratta però di un particolare tipo di professore, la maggior parte del cui tempo e delle cui energie non è dedicata all’ università. C'è, però, bisogno anche di università dove invece prevale un altro tipo di docente più tradizionale se si vuole, prevalentemente dedicato all'insegnamento e alla ricerca. Il pluralismo fa bene all'università: è importante che a Milano ci sia la Bocconi, ma è altrettanto importante che ci siano anche altre cinque università molto diverse. Il vero autore del decreto Gelmini è Francesco Giavazzi che ha bloccato i concorsi in nome della discontinuità _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 13 nov. ’08 CONTRO L’UNIVERSITÀ TRUCCATA VERIFICHE REALI SULLA RICERCA Il colossale problema resta la mancanza di incentivi e disincentivi Nessuno viene premiato quando ha successo o paga se opera male PIER GIORGIO PINNA SASSARI. «Sicuro: l’università italiana è truccata. Ma ci sono almeno due rimedi. Primo: valutare i risultati delle indagini scientifiche dando più soldi a chi fa buona ricerca e meno soldi a chi la fa cattiva. Secondo: garantire agli studenti la possibilità di cambiare sede, con contributi per vitto e alloggio altrove, nel caso il loro ateneo non si riveli adeguato». Roberto Perotti non crede molto alle proteste anti-Gelmini. Mostra però di non considerare soddisfacenti neanche alcuni recenti provvedimenti governativi, soprattutto quelli basati unicamente sui tagli. Dopo aver operato per dieci anni alla Columbia University di New York, dove ha ottenuto la cattedra a vita, oggi questo docente diventato celebre nel giro di breve tempo per un saggio sugli scandali del malcostume accademico insegna macroeconomia alla Bocconi di Milano. - Il suo libro «Università truccata», edito da Einaudi, è già un best seller: riscuote interesse perché centra l’obiettivo di denunciare la corruzione e propone contromisure per risanare l’accademia italiana malata? «Non spetta a me dirlo. Credo sia un giudizio che compete ai lettori. Ma in ogni caso ritengo che sia proprio così: penso che ad attirare l’attenzione contribuiscano questi due elementi combinati fra di loro». - Un intero capitolo è riservato alla parentopoli di Bari: com’è stato possibile che il sistema abbia consentito tanti intrecci nell’attribuzione delle cattedre? «In realtà le vicende di Bari sono sì sviscerate a fondo, ma in Italia non sono le uniche a pesare in negativo. Il malcostume è diffuso. Mi riferisco, fra l’altro, a recenti inchieste giornalistiche che hanno riguardato gli atenei di Messina e Palermo. Ma si potrebbero citare numerosi fatti analoghi». - «Taroccamenti» a go go. «Sicuramente. Il guaio è che i concorsi si presentano tutti regolari sotto il profilo formale. Per un figlio o per un altro familiare presentarsi a sostenere una prova per diventare docente o ricercatore nell’ateneo dove insegna il padre o un parente non è illegale. Le stranezze cominciano quando gli altri, più o meno con le buone, vengono convinti a ritirarsi». - Come si potrebbero combattere questi processi nell’accademia nostrana. «È semplice. Oggi il merito all’università non è riconosciuto. Così come il demerito. Quel padre o quello zio che ha fatto andare in cattedra il figlio o il nipote oggi non risponde di alcunché. La sua carriera continuerà indisturbata persino se il docente in questione si rivelerà un incapace assoluto. Se al contrario dall’aver fatto un passo del genere derivassero gravi conseguenze a chi si è reso protagonista dell’episodio di nepotismo, allora ci sarebbe un deterrente: molti ci penserebbero su prima di avallare certe situazioni». - Durante la sua indagine le è capitato di ricevere segnalazioni su casi di malcostume dello stesso segno nelle due università sarde? «No, ma non ho potuto approfondire. Sa... gli atenei sono talmente tanti». - Da una elaborazione del «Sole 24 ore» l’università di Sassari è in testa nella fabbrica delle cattedre: per quale motivo si è creato un fenomeno del genere? «Non conosco la situazione sassarese e quindi non sono in grado di fare commenti. Posso fare un ragionamento di tipo complessivo». - Quale? «In questi ultimi tempi, con i concorsi nazionali banditi ogni biennio, parecchi pensavano alla fine di essere tagliati fuori dagli avanzamenti di carriera. C’è stata così un aumento territoriale dei concorsi che hanno creato tanti professori ordinari e associati». - Un discorso a sé riguarda le sedi gemmate: lei nel libro cita un corso di laurea che a Tempio nell’anno accademico 2007-2008 aveva 5 iscritti. A che si deve la proliferazione di corsi così scarsamente frequentati? «Le ragioni sono tante. La principale è che le sedi staccate degli atenei sono considerati piccoli centri di potere, spesso favoriti da clientele locali. Un altro motivo che ha influito su questa proliferazione eccessiva è rappresentato dall’erronea convinzione da parte di numerosi ragazzi di frequentare un’università sotto casa. Invece la mobilità è fondamentale». - Quali sono i falsi miti dell’accademia a cui lei fa riferimento nel suo saggio? «Li posso elencare in breve? Sì? Eccoli. All’università mancano le risorse. Siamo poveri ma bravi. Il clientelismo è circoscritto. L’alta formazione gratuita è egualitaria». - Ma non è forse vero che mancano fondi certi e che con gli ultimi provvedimenti governativi i soldi diminuiranno ancora? «Quest’aspetto è stato tra i più dibattuti del mio libro. Ho ricevuto parecchie critiche per aver sostenuto questa posizione. Eppure, i dati risultano dalle comparazioni internazionali. Un caso per tutti. La Gran Bretagna: ha un’università pubblica come da noi ed è un paragone calzante. Ebbene, le spese per studente a tempo pieno britannico e italiano sono equivalenti». - «Poveri ma bravi», si continua a dire: l’università nostrana sarebbe all’avanguardia «nonostante tutto»? «Se si guardano le citazioni e le pubblicazioni sulle riviste internazionali dei professori italiani, si scopre che siamo nella media europea. Più o meno come la Spagna. Certo: esistono punte di eccellenza e parecchi ricercatori bravissimi. Ma numerose classifiche internazionali indicano che il nostro Paese non è all’avanguardia. E del resto perché tanto stupore?». - Già, perché? «Qualora fosse vera la convinzione che siamo effettivamente “poveri ma belli”, da questa realtà sarebbero derivati alcuni effetti. Il primo è che in tutto il mondo gli altri si sarebbero affannati a copiare il nostro modello. Il fatto che ciò non avvenga dovrebbe invitarci a maggiore prudenza». - E il clientelismo come «fenomeno circoscritto?». «A lungo molti hanno coperto occhi e orecchie. Ma qualsiasi docente conosce centinaia di episodi di malcostume. La verità, al di là delle apparenze, è diversa». - Ovvero? «Tutti noi sappiamo quali sono i sistemi per truccare i concorsi. Per le prime dieci maggiori facoltà di medicina (non ci sono le due sarde, ndr) nel mio libro quantifico la frequenza dei casi di omonimia tra professori: c’è una media tra l’11 e il 33% d’individui in qualche modo collegati dallo stesso cognome». - Lei sfata un’altra certezza diffusa: e cioè la non correttezza dell’equivalenza università-gratuita = università-egualitaria. «Gli atenei sono pagati con i soldi di tutti. A frequentarla sono in prevalenza i più abbienti. In questo modo le tasse dei poveri finiscono per pagare gli studi dei ricchi». - Per voltare pagina rispetto al passato e al presente, lei, professor Perotti, fa alcune proposte. Può illustrarle, in estrema sintesi? «Le ricette sono di due tipi. Dare più risorse agli atenei migliori. E aumentare la mobilità degli studenti». - Dalle nostre parti invece si parla d’altro... «È straordinario come il dibattito in Italia si perda nei mille rivoli delle minuzie normative, degli inutili appelli al civismo e alla magistratura, mentre si ostina pervicacemente a negare il colossale problema di fondo: la mancanza di incentivi e disincentivi appropriati. Da noi nessuno viene premiato quando ha successo nella ricerca e nell’insegnamento, e nessuno paga se opera male». - Lei scrive di soluzioni nuove a problemi vecchi: quali sono esattamente? «Faccio un solo esempio. Applicando il ragionamento che seguivo poc’anzi, le risorse affluiscono esclusivamente a chi fa bene la ricerca e produce risultati apprezzabili. A questo punto chi finanzierebbe più sedi staccate che non siano in grado di ottenere questi livelli di successo?». - Che cosa pensa dell’Onda e delle proteste contro il governo? «Ritengo che gli studenti siano in gran parte male informati o vittime di slogan fini a loro stessi. In questo modo rischiano di fare il gioco dei baroni e comunque dei docenti più corrotti. Più che alla politica di contrazione delle spese dovrebbero ribellarsi all’assenza della possibilità di valutare correttamente l’operato dei dipartimenti. E, naturalmente, opporsi al malcostume». - E qual è invece la sua opinione sulle riforme appena varate e sulle proposte in divenire elaborate dal ministro Gelmini? «I primi provvedimenti mi hanno trovato contrario. L’ipotesi di trasformazione delle università in fondazioni è destinata a non funzionare: in questo modo gli atenei rischiano di diventare ancora di più centri di potere controllati da poche élites. I tagli indiscrimati, da soli, sono discutibili». - Adesso ha invece cambiato opinione? «Dalle linee guida presentate l’altro ieri e dall’ultima misura normativa che le ha precedute emergono buone intenzioni teoriche. Trovo positivo che il 5-7% delle risorse sia legato al giudizio sulla ricerca nei dipartimenti e che questo rapporto sia estensibile in futuro sino al 30. Ma il nodo sarà come applicare queste riforme». - In che senso? «Non vorrei che le valutazioni fossero fatte sulla base dei soliti criteri fumosi. Occorre una cesura netta rispetto ai metodi del passato. In definitiva, lo dico in maniera estremamente chiara: l’unico parametro di riferimento sicuro è la qualità della ricerca». _____________________________________________________________ La Voce 11 nov. ’08 SASSARI UN PROF OGNI 15 STUDENTI: È RECORD NAZIONALE TRA GLI ATENEI Il Sole24: “Pesanti tagli in arrivo” A Sassari i tagli più consistenti ai fondi universitari. Lo prevede una statistica del Sole 24 Ore. Ma alla base della scelta non ci sarebbe nessun accanimento del Governo. Soltanto un computo economico. Visto che la città che ha dato i natali a due Presidenti della Repubblica, mantiene la media più alta in Italia di docenti universitari, ogni mille studenti in corso. Ne conta 65, secondo la classifica pubblicata ieri dal quotidiano di Confindustria, seguita da Trieste, con 59 ogni 1.000 studenti, e Siena con 56. In particolare nell'ateneo sassarese ci sono 477 professori su una popolazione di 7.284 studenti (questi ultimi in calo dal 2000 del 7,1%), cioè un docente per poco più di 15 allievi. Sassari sarà anche uno degli atenei a sopportare i più consistenti tagli del fondo statale per studente previsti dal governo da qui al 2011, con 1.917 euro in meno, preceduta dall'università per stranieri di Siena (3.476 euro) e da Roma Iusm (2.830). Più contenuto, invece, l'organico dei docenti a Cagliari. Nella facoltà di Pasquale Mistretta ci sono 690 professori su una popolazione di 15.319 studenti: cioè un docente per poco più di 22 allievi. L'Università del capoluogo regionale, decima in classifica per entità dei tagli, subirà una riduzione di 1.529 euro per studente. A regime nel 2011, secondo quanto previsto dal governo, il taglio medio dei fondi per studente in corso nelle università italiane sarà pari a 1.258 euro. Il calcolo, però, non tiene conto del 5% di fondi che saranno distribuiti con criteri meritocratici. Relativamente ai docenti ordinari, dal 2000 l'aumento medio nazionale è stato del 32%. A Cagliari, che conta 329 ordinari, l'incremento di docenti è stato di quasi il 49%, a Sassari, con 228, l'aumento è stato del 54%. Quanto ai professori associati, l'aumento medio nazionale è stato dell'8,8%: a Cagliari sono 361 (+4,9% rispetto al 2000), a Sassari 249 (+37,6%), mentre i ricercatori (+23,2% a livello nazionale) sono rispettivamente 507 (+40,8%) e 236 (+11,8%). Eppure, in entrambi gli ateneo il numero degli studenti negli ultimi otto anni è diminuito: a Cagliari sono iscritti in 15.319, con un calo del 13,3% rispetto al 2000, a Sassari 2.784, pari al 7,1% in meno. Nelle università italiane nel complesso, invece, il numero di studenti iscritti è aumentato del 10,6%. Secondo Il Sole 24 Ore Cagliari e Sassari non figurano tra gli atenei italiani coi bilanci in rosso. (red) _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 nov. ’08 SASSARI, LA FABBRICA DELLE CATTEDRE Università. Tagli del governo, la Sardegna nel mirino E’ l’ateneo col più alto numero di docenti per studenti in corso ASSARI. Università sassarese da record: in Italia è quella che ha il più alto numero di docenti ogni mille studenti in corso. Tra ordinari e associati, infatti, sono 65. La ricerca che la pone in vetta alla classifica è del quotidiano Il Sole 24 ore. L’ateneo batte Trieste e Siena, che seguono con 59 e 56 docenti, e distacca Firenze, all’ultimo posto della top ten, ferma a 49. Ma anche Cagliari che sta a metà dell’elenco con 45 docenti. Non solo. I tagli del governo faranno piangere gli studenti sardi. All’università molte cattedre e pochi studenti Sassari prima in Italia: 65 docenti ogni mille iscritti in corso. Maida: non è negativo di Paoletta Farina SASSARI. Università sassarese da record: in Italia è quella che ha il più alto numero di docenti ogni mille studenti in corso. Tra ordinari e associati, infatti, sono 65. La ricerca che la pone in vetta alla classifica è del quotididiano Il Sole 24 ore. L’ateneo turritano spicca tra blasonate e storiche università, batte Trieste e Siena, che seguono con 59 e 56 docenti, e distacca Firenze, all’ultimo posto della top ten, ferma a 49. Ma anche Cagliari che sta a metà dell’elenco con 45 docenti. Non solo. Nella previsione dei tagli annunciati dal governo, saranno gli studenti sassaresi, al terzo posto, a piangere. Il Sole 24 Ore ha voluto fotografare la realtà italiana nel momento in cui l’università viene messa sotto accusa come «fabbrica di cattedre» (sono 180mila gli insegnamenti offerti) a fronte di una crescita misurata, quando non addirittura negativa, del numero degli studenti. E mentre il governo vara il decreto sulle misure urgenti e le linee guida per la riforma, e l’Onda studentesca e i professori si ritrovano insieme a protestare a gran voce contro il ridimensionamento dei fondi. Il record sassarese, che suscita più di una perplessità, non è però valutato negativamente dal Magnifico rettore Alessandro Maida. «Bisogna tenere conto di alcuni fattori per leggere meglio i dati», afferma sicuro. I numeri. A Sassari i professori ordinari e associati sono 477 su una popolazione di 7.284 studenti che seguono regolarmente i corsi (gli iscritti sono oltre 17mila): a voler fare un ulteriore calcolo, un docente per poco più di 15 allievi. Basti pensare che in un’ateneo popoloso come quello romano della «Sapienza», che conta 66.796 universitari, il rapporto è di 1 a 24. Ma nonostante il trend degli studenti sia in discesa - dal 2000 il calo è stato del 7,1% - l’esercito dei professori ordinari (la cosiddetta prima fascia) ne conta 228, con un balzo del 54,1 per cento rispetto a otto anni fa. Proliferano anche gli associati (seconda fascia): passano a 249 con un aumento del 37,6 per cento. Stessa musica per i ricercatori: oggi sono 236, l’11,8 per cento in più rispetto al 2000. Il dato di crescita a livello nazionale, solo dei professori ordinari, è del 32 per cento, tre volte più degli studenti. Ma in Sardegna il rapporto è ancora più alto. A Cagliari, invece, i professori sono 690 su una popolazione di 15.319 studenti in corso regolarmente visto che gli iscritti sono 36mila. Anche nell’ateneo guidato da Pasquale Mistretta gli allievi diminuiscono: dal 2000 il decremento è stato del 13,3 per cento. Tanto che il rapporto è diventato di un docente per poco più di 22 allievi. Anche a Cagliari nonostante gli studenti siano diminuiti i professori ordinari sono diventati 329 (il 48,9% in più rispetto al 2000). Gli associati sono 361 (e anche in questo caso il 4,9% in più rispetto al 2000). Infine sono cresciuti anche i ricercatori: 507 (+40,8 rispetto al 2000). I tagli per studente . Se la media nazionale dei tagli (previsti da quest’anno al 2011) per studente è stata stimata dal Sole 24 Ore in 1258 euro, in Sardegna le cose andranno peggio. Fermo restando che il calcolo non ha tenuto conto della distribuzione «meritocratica» del 5% delle risorse, Sassari si ritrova al non invidiabile terzo posto con 1.917 euro ad allievo, preceduta da Siena stranieri, al primo posto con 3.476 euro, e da Roma Iusm, al secondo con 2.830. Cagliari si è invece collocata in decima posizione con 1.529 euro in meno per studente. Il rettore. Il professor Maida non vede nero. «Bisogna tenere conto di diversi fattori - spiega -. Il primo è che noi non siamo una grande università, ma comunque assicuriamo un elevato numero di facoltà e di corsi di laurea per i quali è necessario, come requisito indispensabile, garantire una presenza numerica di docenti». «L’alto rapporto insegnanti-studenti, poi, è originato dalla maggiore presenza di facoltà scientifiche rispetto a quelle umanistiche - aggiunge il rettore -. In genere avviene il contrario. E fra le facoltà scientifiche ne abbiamo diverse (da Medicina a Veterinaria fino ad Architettura) a numero programmato, dove, appunto, i numeri sono contingentati. «Di negativo, nella nostra situazione, c’è piuttosto il numero contenuto di studenti in corso - aggiunge Maida -. Ma che i docenti siano troppi non sono d’accordo. C’è da augurarsi invece che li abbiano anche le altre università». Tanti docenti, migliore didattica e più profitto per gli studenti? Il Magnifico Rettore rivendica di aver sempre assicurato gli standard nel suo ateneo. Ma concorda che «tutte le università un pochino hanno ecceduto in questi anni». E pensa anche lui a possibili economie. «Ritengo che arriveremo a concordare un programma possibile con Cagliari. Intanto vedo bene il fatto che il governo punti sulle borse di studio e sull’edilizia universitaria. Così si va nella giusta direzione». MISTRETTA: GLI ORGANICI NON SONO GONFIATI» La difesa di Mistretta: concorsi fermi, il problema è la spesa Cagliari. Il rettore concorda con il collega del nord Sardegna: si può razionalizzare SASSARI. Cattedre «gonfiate» eccessivamente? «Non a Cagliari - si difende il rettore Pasquale Mistretta -. Anzi, posso dire, cifre alla mano, che la nostra università vede i posti dei docenti in una situazione di costanza complessiva. Piuttosto il vero problema sono i soldi destinati agli stipendi. Siamo passati da una spesa di 82 milioni 507mila euro a 94 milioni 268mila euro. Un aumento non percepito in busta paga, ma che è il motivo della crisi». «La ricerca del Sole 24 Ore - afferma il Magnifico - si basa su dati che sommano realtà in evoluzione. In breve, nel 2000 non c’era ancora il “3+2”». Che è poi il sistema di laurea triennale e successiva specializzazione che ha portato gli atenei italiani ad aumentare il numero di docenti ma anche sull’orlo dell’abisso finanziario. «Partiamo dal 2005 fino a quest’anno, anni molto significativi per comprendere la nostra situazione - spiega il professor Mistretta -. Nel 2005 nell’università cagliaritana i professori ordinari erano 324, gli associati 381, i ricercatori 489. Nel 2008 sono diventati rispettivamente 331, 362 (il Sole 24 Ore ce ne attribuisce uno in meno) e 507. Sono diminuiti gli assistenti di ruolo, in esaurimento, passati da 23 a 18. Ecco, non vedo questa crescita di organici che ci viene attribuita, nè tantomeno si può parlare, per quanto ci riguarda, di fabbrica di cattedre». Perché anche i concorsi sono bloccati. «Abbiamo bandito solo 16 posti di ricercatore, di cui otto sono finanziati dal ministero - sottolinea il professor Mistretta -. Insomma, stiamo mantenendo i numeri e non si può pretendere da noi di più perchè di più non possiamo fare». Il rettore rileva anche la necessità inderogabile di supportare aree prestigiose all’interno dell’ateneo, che hanno portato ad accrescere le cattedre. «Pensiamo per esempio a neuroscienze: il professor Gianluigi Gessa ha costruito in quarant’anni una struttura di eccellenza, conosciuta a livello mondiale, che deve essere sostenuta con un numero adeguato di docenti». Però, siccome la coperta resta sempre corta, se da una parte si cresce dall’altra quantomeno si sta fermi. «Il fatto, bisogna ammetterlo, è che bisogna limare gli squilibri incidendo sulla distribuzione dei posti - afferma ancora Mistretta -. Ma per riuscirci occorre partire dai consigli di facoltà, dove, diciamo, la parte più forte e inevitabilmente in maggioranza, spesso non tiene conto delle esigenze dei più deboli». Nessun mea culpa da parte vostra su come funziona l’università? «Diciamoci la verità, ridurre i corsi di laurea sarebbe in alcuni casi opportuno. E’ un fronte - conferma il rettore cagliaritano - sul quale ci stiamo già muovendo con Sassari. E se si vuole riformare l’Accademia italiana, puntiamo sulla programmazione: inutile che lo Stato continui a finanziarla alla vecchia maniera». (p.f.) ____________________________________________________________ L’unità 14 nov. ’08 LA SCIENZA CHE EMIGRA Li chiamano «cervelli in fuga»: le nostre università li formano però - dopo la laurea - il sistema paese non è capace di trattenerli. Dove vanno i nostri ricercatori? In tutto il mondo. Ma il luogo più vicino è Monaco di Baviera. Noi ci siamo messi sulle tracce degli astrofisici per raccontare la loro vita. ONDE DONATI INVIATO A MONACO DI BAVIERA odonati@unita.it Studiano i meccanismi dell'universo, scavano dentro la materia oscura, inseguono raggi X ed emissioni infrarosse, cercano nella volta celeste le risposte alle domande primordiali dell'uomo: da dove veniamo?, chi siamo?, dove andiamo? Cosine così, tra tecnologia e filosofia. Ricerca pura. Un «lusso» per l'Italia, che certe risposte ha smesso di cercarle. Eppure senza alzare gli occhi al cielo si resta indietro in molti campi, perché per osservare stelle e galassie si usano strumenti che hanno applicazioni infinite: nella diagnostica medica, nelle analisi dei materiali, nei controlli di qualità dei prodotti industriali, nella ricerca della contaminazione dei cibi e dell'acqua, nella tecnica forense... Che deve fare, allora, un giovane astrofisico italiano? Se è bravo ed ha buone presentazioni prende un aereo e atterra a Monaco di Baviera, dove la fisica è un pallino. Garching, cittadina di 16 mila abitanti a nord di Monaco, ha perfino messo nel suo stemma un reattore nucleare, impianto che esiste dal 1954 per fini di ricerca. Attorno al reattore è poi nato un polo tecnologico e dell’innovazione che fa crescere l'industria, arricchisce la Germania, attira l'interesse del mondo. Vista da qui, la fuga di cervelli dall’Italia è un esodo lento e ordinato. Sui 76 istituti sparsi per la Germania, la prestigiosa Max Planck society a Garching ne ha installati 4 (fisica extraterrestre, fisica dei plasmi, astrofisica, ottica quantistica) - in un bellissimo multicampus per servire il quale c'è una metropolitana nuova di zecca. Gli italiani sono un centinaio, quasi il15%, oltre a quelli del Politecnico (sempre a Garching) e degli altri istituti della Max Planck di Monaco. «A ben guardare l'emigrazione intellettuale non sarebbe un dramma, si va all'estero per ampliare i propri orizzonti, acquisire nuove conoscenze. Il problema è che non c'è ritorno», dice Giovanni Cresci, fisico dì Firenze in forza all'istituto Max Planck per la fisica extraterreste. Allora, sempre vista da qui, la fuga ha due volti: quello dei «fuggitivi» che di tornare in Italia non hanno più voglia neanche se ce ne fosse la possibilità e quello di chi dà loro «asilo». Nulla di umanitario, ovviamente, questi sono_ «migranti» d'eccellenza aiutati dalle loro famiglie, ragazzi formati nelle tanto bistrattate università italiane che nella ricca Baviera trovano fior di accademici disposti a valutarli_ con un unico parametro: il merito. Oggi il paese della Merkel dà alla ricerca il 2,6% del Pil contro l0 0,9 (che il prossimo anno scenderà allo 0,7) dell'Italia ed entro il 2015'conta di arrivare al 10% del Pil, comprendendo anche istruzione e formazione. Un investimento sul futuro colossale, che impiega in modo rilevante anche le intelligenze dell'Italia. Benedetta Ciardi è una dì queste: vincitrice del Marie Curie Award, prestigioso premio europeo per giovani talenti delle ricerca, astrofisica fiorentina, ha tentato uno sbocco in patria «ma quando ho capito come funzionavano le cose, quando ho visto che un curriculum di-tutto rispetto vale per il 10% nella scelta di un ricercatore, quando sai che ogni concorso è una perdita di tempo perché ha un vincitore predestinato, bè scappi». Rientrare? Ci ha provato, all'inizio della sua avventura tedesca, ma invano. Adesso che il suo curriculum glielo permetterebbe non ci pensa proprio: «Gli anni passano, la carriera avanza. Sono al Max Planck da otto anni, ho raggiunto il livello di professore associato con un contratto a tempo indeterminato, lavoro in un ambiente libero dove niente è impossibile. Rientrare è l'ultima cosa che mi passa per la testa». Anche Marcella Brusa, romagnola di Sant’arcangelo, laureata in astronomia a Bologna, ha avuto, ed ha, nostalgia di casa. «Ma poi pensi alla situazione del nostro paese e ti consideri fortunata: possibile che in Italia le cose non siano mai stabili?, che se cambia un governo cambiano le regole, i punti di riferimento? Troppa incertezza, insomma. Qui, invece, sai in quale ambito ti muovi, cosa puoi fare e cosa no». Di fatto, per chi riesce ad entrare nel giro Max Planck, la ricerca non ha limiti: gli strumenti di osservazione (i telescopi nello spazio) e di calcolo sono il meglio che un ricercatore possa sognare. Le missioni di studio e lavoro all'estero sono all'ordine del giorno. Gli stipendi? Alti: la prima busta paga di un ricercatore è di 2100 curo al mese, il 50% in più che in Italia, di un associato 3000. I precari (praticamente tutti i ricercatori, dottorandi e post doc) hanno la stessa protezione sociale dei tedeschi. A queste condizioni logico che si smetta di cercare in Italia. Basta adattarsi, e non è sempre facile, alla disciplina bavarese e alla sua maniacale efficienza. È questa l'esperienza fatta da Claudio Cumani, fisico triestino di 45 anni, a Monaco da 15 che lavora come informatico in un istituto di ricerca europeo, conserva la passione per la politica (è stato 9 anni segretario della sezione Ds) ed è presidente del Comites,l'organismo di rappresentanza dei 72 mila italiani residenti nella circoscrizione di Monaco. Cumani sviluppa software di controllo dei ricettori di immagini attraverso i dati dei telescopi. Se telecamere e fotocamere digitali migliorano ogni giorno le prestazioni, è grazie a queste ricerche. «Ho cercato sbocchi nell'industria privata in Italia. Quando leggevano il mio curriculum la risposta era: "Lei è troppo qualificato". Così mi sono messo il cuore in pace, ho sposato una tedesca e qui sono destinato a restare. Ma non mi sfugge quello che succede in Italia. E mi preoccupa una classe politica che vede la ricerca come spesa improduttiva e una classe docente che pensa solo a se stessa. Qui sto bene, il paese funziona a meraviglia, ai nostri livelli la vita è semplice. Eppure mi rendo conto che non sono più italiano e non sarò mai tedesco». Augusto Giussani, invece, in Italia aveva centrato il suo obiettivo: dopo il dottorato conseguito in Germania ha vinto un concorso per ricercatore a tempo indeterminato. È un fisico che si occupa della dose e degli effetti delle radiazioni sul corpo umano, radioprotezione, medicina nucleare. All'inizio dell'anno ha lasciato la sua (invidiabile) posizione in Italia per tornare a lavorare all'Istituto di Radioprotezione di Monaco. «In Italia - spiega - manca una cultura scientifica. La ricerca è vista come impedimento. Gli investimenti pubblici fino a qualche anno fa non erano tanto inferiori rispetto alla media europea, quello che faceva e fa la _differenza sono gli investimenti privati. Se a questo si unisce il fatto che nell'università, come nel resto della società italiana d'altronde, ogni cambiamento viene interpretato come rischio e non come opportunità, e che tagli e ipotesi di riforma impoveriranno gli atenei, ho preferito lasciare il mio poto a Milano». Per la ricerca molto meglio l'ambiente dinamico e stimolante di Monaco. Del resto da qui con n'ora e mezzo di volo (biglietto low cost a 40 uro) si torna a casa. Sui migranti della scienza il iaggio non pesa più dì tanto: invece pesa, come n macigno, sull'Italia. Italiani di Germania Sono un centinaio i ricercatori italiani al Max Planck ____________________________________________________________ il Giornale 12 nov. ’08 DEMAGOGIA: ORA GLI STUDENTI VOTANO I PROF L'ultima invenzione alla Statale di Milano: ragazzi giudici delle capacità degli insegna Una valutazione è sacrosanta, ma spetta agli esperti, non a giovani spesso impreparati di Stefano Zecchi Con tutta la confusione che c'è adesso all'università, c'è anche il rischio di aggiungere al tra confusione con la demagogia. Finalmente un obiettivo è chiaro: la scadente qualità dei docenti, cioè un problema che si è incancrenito attraverso un sistema concorsuale che poteva anche funzionare se fossero stati onesti i rettori, i presidi e gli stessi docenti chiamati a giudicare. Questo non è avvenuto e ora, per l'immediato, mi auguro che il ministro Gelmini non si lasci ricattare dalle lobby accademiche e vari un regolamento che preveda il sorteggio puro e semplice, senza tante manfrine, per la nomina dei commissari nei prossimi concorsi a cattedra, che si sarebbero comunque dovuti sospendere. Per sottolineare la pochezza della nostra classe docente universitaria si pensa di dare ì voti ai docenti per dimostrare ciò che è già ampiamente dimostrato. Cioè le loro carenze. In questo Paese, però, in cui la demagogia è di casa quando non si sa più che pesci prendere, s'è pensato che i voti ai docenti li debbano dare gli studenti. Supponiamo un quadro di normalità. Gli studenti vanno a scuola per imparare dai professori. Dunque, come fanno gli studenti a sapere quello che dovrebbero sapere i professori per essere bravi docenti? II voto dello studente al professore presuppone che lo studente ne sappia come il professore ed eventualmente qualcosa in più. È evidente l'idiozia del controsenso. 5i obietta: il voto viene dato non valutando le conoscenze del docente, ma sulla base della sua capacità espositiva e della sua disponibilità a seguire il giovane durante il percorso che lo porterà alla laurea. L'attitudine alla didattica è certamente cosa giusta da valutare, ma può essere lo studente il giudice? E poi, l'abilità didattica è davvero importante all'Università? Incominciamo dal primo interrogativo. Lo studente potrebbe essere un buon giudice della capacità didattìca de] suo professore se lui, studente, non fosse, generalmente, un emerito ignorante. I giovani che arrivano all'università rappresentano (non per colpa loro, sottolineo: non per colpa loro) un disastro culturale, a testimonianza che il primo, vero, drammatico problema della scuola italiana non sono né le elementari, né l'università, ma la scuola media e superiore. Il ragazzo che si iscrive all'università uova enormi difficoltà a orientarsi nella didattica accademica, e non sarà mai in grado di giudicare correttamente la capacità di insegnamento del suo docente. Per esempio, potrebbe ritenere oscure le lezioni del professore semplicemente perché è arrivato all'università senza una adeguata preparazione. Secondo interrogativo. L'abilità didattica di un professore d'università è assolutamente secondaria rispetto alle sue conoscenze documentate nei suoi libri. Io ricordo il mio professore di filosofia antica, Mario Untersteiner, incapace di parlare, con un filo di voce, nessuno riusciva a sentirlo perché si lasciavano deserte le prime tre file onde evitare i suoi sputi che emetteva parlando ... Ma un genio, da cui tutti i suoi studenti hanno imparato moltissimo. Dunque, si diano i voti ai docenti, ma si eviti la demagogia che fa dello studente il giudice. D'altra parte, all'università Statale di Milano, dove insegno, gli studenti danno già i voti ai professori. Accade questo: al termine del corso, un incaricato del preside distribuisce dei questionari agli studenti, in cui sono indicate le variabili per giudicare il docente. Gli studenti riempiono queste schede che poi vengono riconsegnate al preside e i cui risultati sono pubblicati. I giudizi non fanno né caldo né freddo a nessuno, perché si sa che sono espressi per simpatia, per antipatia dovuta, per esempio, alla severità del professore, per manifesta incompetenza dello stesso studente. Si giudichino i professori, ma attraverso i loro libri, le relazioni internazionali e, infine, anche per la capacità di insegnare che deve, però, essere valutata da esperti in materia. L'idea che gli studenti diano i voti ai professori, viene dalle università statunitensi. Ma lì, come si sa, è tutta un'altra musìca, che noi non siamo in grado di copiare. CRITERI Non conta tanto l'abilità didattica quanto la competenza, che è espressa nei libri ======================================================= _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 13 nov. ’08 CLINICA MACCIOTTA: TERAPIA INTENSIVA È ASSOLUTAMENTE SICURA La replica della Clinica Macciotta all’allarmismo: «Non ci sono pericoli per i pazienti ricoverati» CAGLIARI. Il reparto di Terapia intensiva neonatale della Clinica Macciotta è assolutamente sicura. È questa la nuova replica della direzione generale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria all’allarmismo di questi giorni dopo la morte, a settembre, di due bambini a causa dell’infezione provocata dal batterio Serratia e di altri otto colonizzati dallo stesso batterio. L’Azienda Mista è chiara in quello che scrive: «Non esiste alcun rischio per i piccoli pazienti ricoverati, neanche per quelli che si devono recare per visite o controlli e neppure per le loro famiglie». Il lungo comunicato dell’Azienda prosegue: «L’allarmismo degli ultimi giorni è ingiustificato. Ecco perché i medici e tutto il personale del reparto sono a completa disposizione delle famiglie per fornire ogni chiarimento necessario, onde dirimere qualunque dubbio. In questa attività di corretta informazione, la direzione sanitaria ha attivato anche un numero di telefono dedicato a cui rivolgersi ( 070/6093438 ) per qualunque domanda sul caso Serratia». La ricostruzione. Questa è la versione dell’Azienda: «Dopo la scoperta della presenza del batterio della Serratia marcescens (un microrganismo opportunista che approfitta delle condizioni immunodepressive del paziente per danneggiarlo) sono state adottate tutte le misure di salvaguardia e di profilassi necessarie, secondo i protocolli operativi stabiliti dal Comitato per le infezioni ospedaliere riunitosi più volte». Questi sono stati gli interventi: lo screening microbiologico periodico su tutti i neonati ricoverati per identificare quelli colonizzati dal batterio, la separazione tra neonati infetti, colonizzati e sani, lo screening microbiologico ambientale periodico in tutto il reparto e del personale per identificare la colonia della Serratia e il potenziamento del personale infermieristico. La tempestività. L’Azienda replica anche all’ipotesi di aver sottovaluto il caso: «Tutte le procedure sono state attuate con la dovuta tempestività fin da settembre e sono tuttora in vigore. Anche l’organico è stato potenziato destinando alla Terapia intensiva neonatale nei primi quindici giorni di novembre quattro infermieri professionali e, già da settembre, con l’aumento del numero degli operatori socio-sanitari disponibili per tutte le necessità del reparto». L’Azienda Mista sostiene anche di aver aumentato - fin da settembre - le ore dedicate alla pulizia per un ulteriore “sanificazione e disinfezione” del rearto di Terapia intensiva. Il prossimo trasferimeto. La Terapia intensiva neonatale sarà trasferita, entro marzo, nel nuovo polo materno infantile del policlinico di Monserrato. Nel frattempo, la direzione sanitaria ha deciso di accelerare l’acquisto di alcune apparecchiature, tra cui, un ecografo, delle termoculle e alcuni cardiomonitor in modo da incrementare la dotazione tecnologica e offrire un “servizio ancora più qualificato”, con l’obiettivo di “continuare a garantire gli standard della struttura, che va ricordato ha tra i tassi di infezioni ospedaliere e di mortalità tra i più bassi in Italia e che nel 2008 si è attestato sul 6 per cento». Per l’Azienda Mista il caso dovrebbe rientrare “nei suoi confini reali” e, in proposito, potrebbe essere importante anche l’esito delle indagini avviate dalla procura della Repubblica. ____________________________________________________________ L UNIONE SARDA 11 nov. ’08 CAGLIARI, CONCORSO PER 44 MEDICI AL POLICLINICO Concorso dell'Azienda universitaria per l'assunzione di laureati in tredici differenti specializzazioni Domande da presentare entro 27 novembre Numerosi i requisiti richiesti per partecipare alle tre prove in programma. L'esame potrebbe essere preceduto da una preselezione. Chiarimenti negli uffici del personale. Medici al Policlinico cagliaritano. Un concorso per l'assunzione di quarantaquattro dirigenti medici è stato infatti bandito dall'Azienda ospedaliero universitaria di Cagliari che ha individuato nelle seguenti discipline i posti disponibili: undici di medicina interna, quattro di radiologia, sette di chirurgia generale, cinque di allergologia e immunologia clinica, tre di endocrinologia, quattro di oncologia, due di cardiologia, due di reumatologia, due di direzione medica di presidio ospedaliero, uno di medicina nucleare, uno di neurologia, uno di gastroenterologia e uno di otorinolaringoiatria. REQUISITI. Per partecipare al concorso è richiesta la cittadinanza italiana (o equivalente), l'idoneità fisica all'impiego e il godimento dei diritti politici. I candidati devono essere in possesso del diploma di laurea in medicina e chirurgia, della specializzazione nella disciplina nella quale si intende concorrere (o equipollente o affine) e dell'iscrizione all'Albo dell'ordine dei medici. I requisiti devono essere posseduti alla data di scadenza delle domande. SCADENZA. Le domande di ammissione al concorso, su carta semplice, devono essere presentate, improrogabilmente, entro giovedì 27 novembre; oppure spedite con una raccomandata indirizzata all'Azienda ospedaliero universitaria, via Ospedale 54, 09124 Cagliari, oppure presentate al Protocollo generale, dal lunedì al giovedì, dalle 8,30 alle 13,30 e dalle 14,45 alle 17, il venerdì solo di mattina. Alla domanda deve essere allegato l'originale della ricevuta del versamento di otto euro, da effettuare sul conto corrente postale 83048769, intestato all'Azienda ospedaliero universitaria di Cagliari, Servizio tesoreria, specificando per quale posto si intende concorrere. PROVE. Il concorso prevede lo svolgimento di tre prove: scritto, pratica e orale. La prima prevede la stesura di una relazione su un caso clinico simulato, su argomenti della disciplina messa a concorso o nella soluzione di una serie di quesiti e riposte sintetiche. La seconda verterà su tecniche e manualità peculiari proprie della specializzazione per cui si concorre. La terza prova riguarderà materie inerenti la disciplina, nonché sui compiti connessi con il posto per cui il candidato aspira. Nell'ambito dell'orale sarà accertata la conoscenza di una lingua straniera, tra inglese e francese, nonché dell'uso delle apparecchiature e delle applicazioni informatiche più diffuse. Le prove potrebbero essere precedute da una preselezione. INFORMAZIONI. Per chiarimenti gli interessati devono rivolgersi agli uffici del personale dell'Azienda ospedaliero - universitaria di Cagliari, telefono 070.6092138-18. L'avviso è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale 84 di martedì 28 ottobre. Il bando, con i requisiti richiesti e le modalità di svolgimento del concorso, è consultabile nel Buras 32, parte terza, di venerdì 24 ottobre e nel sito www.aoucagliari.it. GIUSEPPE DEPLANO _____________________________________________________________ Il sole24Ore 11 nov. ’08 I LEA IN MARCIA VERSO I COSTI STANDARD COME FINANZIARE ED EROGARE I LIVELLI ESSENZIALI Per garantire, ovunque e allo stesso modo, i livelli essenziali di assistenza ai tempi del federalismo c'è una sola cura: quella dei costi standard. Una via difficile e stretta, tutta ancora da percorrere, ma che può finalmente far superare al Ssn i vizi storici che dal 2001 (da quando ci sono i livelli essenziali) si trascina dietro con tutte le ripercussioni del caso: conti che non tornano mai, buchi da ripianare, assistenza di serie «A» e di serie «B» tra le Regioni. Vizi ben noti che lo studio di «Ambrosetti» mette in fila e ricorda con precisione: dalla storica differenza tra la stima del fabbisogno e l'effettiva spesa sanitaria di ciascuna Regione con il conseguente accumulo di disavanzi concentrati in alcune Regioni, all'allocazione delle risorse del Fondo sanitario che si è sempre più configurato «come una mera negoziazione politica» piuttosto che come un meccanismo in grado di pesare i bisogni di salute in base alle risorse disponibili. Ma come superare questa impasse che ogni anno si riproduce con il solito carosello di tira e molla tra Regioni e Governo sulle risorse e da un paio di anni si aricchisce anche del corollario dei piani di rientro e dei commissariamenti? La «via maestra» è quella della definizione di costi standard per l'erogazione di prestazioni (o gruppi omogenei di prestazioni sanitarie) «assegnando quindi alle Regioni - spiega lo studio Ambrosetti fondi sufficienti per erogare quelle prestazioni a costi predefiniti». Prove di costi standard. Il fabbisogno delle Regioni va definito dal numero e il tipo di prestazioni da erogare e il costo standard assegnato a ciascuna delle prestazioni inserite nel paniere. Prevedendo una stima quanto più possibile dettagliata del livello quali-quantitativo delle prestazioni da erogare e, conseguentemente, la previsione di un livello di efficienza minimo richiesto alle Regioni nell'erogazione di questi servizi. In sostanza le Regioni ricevono risorse pari non tanto alla spesa fino a quel momento sostenuta, ma risorse commisurate a un livello di efficienza pre-determinato. I problemi, comunque, non mancano. E secondo Ambrosetti sono tre: c'è innanzitutto un problema cruciale di «natura metodologica» per identificare dei costi standard di riferimento per le prestazioni. Il secondo problema riguarda la gestione dell'indispensabile periodo di transizione dal vecchio al nuovo sistema; Infine il terzo problema attiene alla previsione degli effetti sulle Regioni derivanti dallo sforamento regionale rispetto ai costi standard. Come si calcolano. Le ipotesi per identificare i costi standard - secondo lo studio Ambrosetti - sono tre. La prima prevede la definizione dei costi standard in modo dettagliato per tutte le prestazioni e procedure (approccio «analitico»). Questo approccio impone prima di tutto l'esatta definizione delle prestazioni inserite nei Lea. (lista "positiva"). In secondo luogo richiede la definizione delle quantità dei fattori produttivi necessari per produrre quei servizi da moltiplicare per i loro prezzi unitari. Questo approccio ha chiaramente il vantaggio della precisione ma sconta problemi legati alla disponibilità di dati contabili di dettaglio e alla variabilità dei prezzi dei fattori produttivi sul territorio da applicare alle "quantità". Il secondo approccio («sintetico») prevede di adottare come costi standard di riferimento quelli registrati in Regioni che, alla luce dei dati disponibili, mostrano i più elevati livelli di efficienza ed efficacia. Evidentemente questa modalità, che sconta problemi di precisione e analiticità, ha il vantaggio della fattibilità. Infatti si prevede l'identificazione di un comparatore che pur non riferito alla singola prestazione si affida a un gruppo ampio di prestazioni come il "livello di assistenza" (es. costo medio di un ricovero ospedaliero) il cui dato è certamente desumibile dai sistemi contabili oggi implementati. Infine il terzo approccio è una via di mezzo tra i primi due («misto»): infatti per alcune prestazioni potrebbero essere calcolati e applicati dei costi standard alla definizione del fabbisogno, mentre per altre si potrebbe applicare il modello sintetico facendo così riferimento alle "best practices" regionali. Marzio Bartoloni Fabbisogno e spesa per Lea - Differenze assolute e percentuali (2004) Livello assistenziale Fabbisogno Spesa Scostamento Valore % Valore % Valore % Assistenza sanitaria collettiva 3.935.008 5,0 3.754.977 4,0 -180.031 -4,6 Assistenza distrettuale 39.350.074 50,0 45.453.556 48,0 6.103.482 15,5 Assistenza ospedaliera 35.415.069 45,0 45.256.659 48,0 9.841.590 27,8 Totale 78.700.151 100,0 94.465.192 100,0 15.765.041 20,0 Fonte: rielaborazione The european house-Ambrosetti da delibere Cipe, 2004 e Rapporto nazionale di monitoraggio dei Lea, 2004 Diverse modalità di approccio per identificazione costi standard di riferimento per prestazioni ? ? ? ? ? Approccio analitico Approccio sintetico Approccio misto Caratteristiche Pro e contro Condizioni per l'implementazione Il fabbisogno deriva dal prodotto tra costi standard delle prestazioni rilevati analiticamente e tipo di prestazioni Il costo standard è definito come quel costo sostenuto per ogni raggruppamento di prestazioni dalle Regioni considerate più virtuose Alcuni costi sono definiti analiticamente (ricoveri ospedalieri ) e i rimanenti con un approccio sintetico Esistenza di una lista "positiva" di prestazioni inserite nei Lea Sistemi di contabilità analitica omogenei Possibilità di comparare i costi per livello di assistenza nelle diverse Regioni (disponibilità di dati attendibili sui costi per livello di assistenza per Regione - Modelli La) Sfrutta il sistema Drg non come sistema di finanziamento ma come strumento per il calcolo dei costi standard Impone la revisione periodica di un tariffario nazionale definito in ospedali che operano in condizioni di efficienza Pro: precisione e misurabilità dei fenomeni Contro: difficoltà di implementazione Pro: fattibilità pressoché immediata Contro: condivisione sulle best practices di riferimento È di fatto un costo "medio" e non un costo "standard" Pro: fattibilità con un investimento per la rilevazione analitica dei costi ospedalieri Contro: approccio "spurio" Fonte: rielaborazione The european house-Ambrosetti _____________________________________________________________ Il sole24Ore 11 nov. ’08 REPORT TDM: QUANDO LA BUROCRAZIA TAGLIA LE GAMBE AI PAZIENTI Una corsa a ostacoli in cerca d'assistenza Una lunga odissea fatta di diagnosi tardive e di spese a volte insopportabili. Tanto da indurre spesso i pazienti ad abbandonare le terapie. È un quadro fatto di poche luci e molte ombre quello tratteggiato dall'indagine sulle malattie rare elaborata da Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato. Certo il campione statistico, sottolinea Cittadinanzattiva-Tdm nella premessa del report, non è sufficientemente rappresentativo. Ma i dati raccolti suggeriscono comunque delle problematiche che meritano di essere affrontate e risolte. Un percorso a ostacoli. Troppo tempo per approdare a una diagnosi corretta della patologia, troppe le lungaggini burocratiche che accentuano le difficoltà di accesso alle cure. Senza contare il fattore costo: le spese per curarsi e mantenere un livello accettabile della qualità di vita sono sempre più elevate. E il federalismo non aiuta perché le differenze regionali nell'accesso gratuito ad alcuni farmaci accentuano i problemi dei pazienti. Si comincia dalla diagnosi, i cui tempi restano troppo lunghi: solo l'8,3% deve aspettare un anno. Il 25% dei malati, invece, è costretto ad attendere da uno a tre anni per conoscere la patologia da cui è affetto. Per un paziente su quattro poi, i tempi si allungano ancora di più fino a sfiorare i 3 anni. Che diventano addirittura 7 per i più sfortunati. A indirizzare i malati verso una corretta diagnosi sono prevalentemente gli specialisti (8 casi su 10), mentre il contributo dei Mmg nell'individuare la malattia si rivela indispensabile per il 16,7% dei pazienti. Nel 4,2% dei casi, infine, sono i pediatri a ipotizzare la patologia rara. E, se per il 45,8% degli interpellati è sempre lo specialista a indicare il centro presso cui curarsi, non va tralasciato il ruolo cruciale delle associazioni ("bussola" del malato per 8 casi su 10) e di Internet. Che sostituisce spesso la rete nazionale istituita con il Dm n. 279/2001 fornendo informazioni fondamentali per la diagnosi e il trattamento della patologia. Le cure irraggiungibili. L'odissea dei malati continua anche dopo la diagnosi. Per il 75% degli intervistati, infatti, la scoperta della malattia non semplifica la vita di malati e familiari che devono scontare soprattutto gli ostacoli relativi al percorso assistenziale. Nel 54% dei casi, poi, le difficoltà post-diagnosi sono legate al cattivo raccordo tra il territorio e i centri (ancora poco collegati agli altri anelli del sistema), mentre il 37,5% lamenta problemi connessi all'assistenza farmaceutica. Ma non ci solo le inefficienze del Ssn a complicare l'esistenza dei pazienti, costretti a fronteggiare anche le lungaggini burocratiche: dal riconoscimento dell'esenzione per patologia alla richiesta dei benefìci socio-economici, dal rimborso per le cure all'estero alla domanda di assistenza domiciliare, è spesso un fiorire di nuovi ritardi che rallentano e complicano l'accesso a cure e farmaci. E, tra gli ostacoli elencati, le associazioni tirano soprattutto in ballo l'invalidità civile e l'handicap. Poter usufruire, a esempio, del contributo economico previsto per l'invalidità civile consentirebbe di alleggerire le spese sostenute dal malato. Mentre un più rapido riconoscimento dell'handicap permetterebbe ai familiari di usufruire di permessi lavorativi per assistere i propri cari. Senza dimenticare i problemi di quanti si spostano altrove per farsi curare: qui le difficoltà investono sia le richieste di autorizzazione (29,2%) che l'accesso ai rimborsi (12,5%). Malattia quanto mi costi. Farmaci spesso a pagamento e con differenze rilevanti da Regione a Regione. Così il 57,9% dei pazienti è costretto a mettere mano al portafoglio per acquistare i medicinali. E quando le finanze non consentono la terapia c'è anche chi (un paziente su quattro) getta la spugna proprio per i costi elevati o nel 37% dei casi per via degli ostacoli burocratici. L'indagine ipotizza anche le spese sostenute dai malati: si va da un minimo di 800 euro a un massimo di 7mila euro annui tra farmaci, viaggi, riabilitazione e visite specialistiche. Insomma, una difficile gincana per i pazienti. Che chiedono ai Mmg maggiore preparazione su patologie e modalità di gestione. Un limite riconosciuto dagli stessi medici di base che segnalano queste difficoltà (poco tempo e poche risorse per aggiornarsi), ma si dicono disposti ad assumere il ruolo di case-manager. Per farlo, dicono in coro, occorrono però strumenti adeguati: una formazione ad hoc e una migliore organizzazione territoriale che garantisca una stretta sinergia tra Mmg e centri specializzati. Celestina Dominelli _____________________________________________________________ Il sole24Ore 11 nov. ’08 DIABETE: SIGLATO L'ACCORDO PER LA PRESA IN CARICO DEL PAZIENTE DIABETE/ Siglato l'accordo tra Amd, Sid, Fimmg, Simg, Snami e Snamid per la creazione di team integrati tra Mmg e strutture specialistiche Patto di ferro sulla presa in carico del malato Diagrammi di flusso e follow up personalizzati guidano il percorso Trattamenti adeguati riducono i costi Disease management e clinical governance danno lo starter Il 31 luglio scorso è stato siglato un accordo tra Amd (Associazione medici diabetologi), Sid (Società italiana di diabetologia), Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale), Simg (Società italiana di medicina generale), Snami (Sindacato nazionale autonomo medici italiani), Snamid (Società nazionale di aggiornamento per il medico di medicina generale) per la creazione di team di cura integrati tra Medicina generale e strutture specialistiche per assistere le persone con diabete secondo le linee guida condivise e definite nel documento Standard italiani per la cura del diabete mellito, pubblicato nel 2007. L'accordo descrive il processo di cura, di prevenzione primaria e secondaria, presentando un diagramma di flusso che sintetizza quali debbano essere gli interventi articolati, fondati sulla partecipazione attiva della persona con diabete alla cura della sua salute. Prende origine da alcuni dati di fatto che si sono via via resi sempre più evidenti in questi anni, che ci hanno "costretto" ad affrontare il problema. A partire dai dati epidemiologici oggi i diabetici noti rappresentano il 4,5% della popolazione e sono in continuo aumento - ai costi sanitari, pari a circa il 7% di tutta la spesa del sistema, con oltre la metà dei costi assorbiti dai ricoveri per complicanze. A fronte di ciò, specialisti e medici di medicina generale hanno determinato che, se non si fosse intervenuti rapidamente con una soluzione condivisa, la qualità dell'assistenza ne avrebbe sofferto un decadimento significativo. Inoltre, scontata quella dello specialista, da tempo anche l'attenzione del medico di medicina generale al diabete era massima, e per diverse ragioni. Solide evidenze cliniche d i m o s t r a n o che è possibile prevenire o ritardare la comparsa della malattia nella popolazione con alcuni tipi di trattamento non solo farmacologici, ma soprattutto non-farmacologici, attraverso interventi sullo stile di vita: e la medicina generale è sempre stata, per compito istituzionale, in prima linea nell'attuazione di interventi di prevenzione primaria. A ciò si aggiunga che, secondo un'analisi epidemiologica condotta dall'istituto di ricerca Health Search di Simg nel 2006, un medico di medicina generale con 1.500 assistiti ne ha circa 100 diabetici, con un impegnativo carico assistenziale: si registra per ognuno di essi una media di 20 accessi/anno. Era necessario, pertanto, che medicina generale e specialistica definissero, pianificassero e applicassero un modello di organizzazione dell'assistenza in grado di rispondere ai bisogni indotti da questa malattia cronica. Progetti di gestione integrata, disease management e per ultimo di clinical governance sono stati ampiamente sperimentati proprio in campo diabetologico e rappresentano oggi il punto di partenza per analoghe esperienze in altri ambiti assistenziali. Quando, nei primi anni '90, Amd e Simg promossero un modello di gestione integrata del diabete, sembrava che parlassero nel deserto. Obiezioni e critiche vennero da molte parti. Oggi la gestione integrata non solo non è più messa in discussione, ma è stata ampiamente enfatizzata all'interno del progetto ministeriale di prevenzione delle complicanze del diabete (progetto Igea - Integrazione, gestione e assistenza) per la cui implementazione è indispensabile l'integrazione tra cure primarie e cure specialistiche. Attualmente le strutture specialistiche di diabetologia si collocano a ponte tra ospedale e territorio e si interfacciano con entrambi, al fine di garantire alle persone con diabete la migliore risposta possibile ai propri bisogni assistenziali: modulata per intensità di cura e non per "prestazione". È indispensabile superare la logica della mera prestazione specialistica e considerare invece la complessità dell'intervento curante, che comprende aspetti clinici, farmacologici, tecnologici ed educativo-formativi. Non era più possibile sostenere un modello assistenziale che non considerasse l'omogeneità e l'integrazione dei ruoli tra le varie figure professionali del Servizio sanitario nazionale. Anche la figura del medico di medicina generale è cambiata notevolmente, infatti, e da molti anni. Oggi è un professionista che dialoga e scambia sistematicamente informazioni con gli specialisti del territorio e ospedalieri. Pronto a nuovi compiti di coordinamento e gestione della salute dei pazienti e a sviluppare nuove competenze e garantire la qualità dell'assistenza. "Governo clinico" significa costruire circuiti diagnostico-terapeutici di facile accesso programmato e soprattutto collegati da sistemi informativi comuni, nonché l'istituzione di protocolli di qualità delle prestazioni e di moduli di intervento integrato. Ecco che si è voluto e cercato di trasformare il percorso di cura della persona con diabete, sin qui spesso costituito da una specie di "percorso a ostacoli", in un vero e proprio "piano di cura e salute", in cui siano fin dall'inizio riconoscibili tutti gli attori, il loro ruolo e le loro competenze e soprattutto assicurare che tra di essi vi sia condivisione e omogeneità riguardo agli obiettivi e alla gestione dei processi. Un altro importante obiettivo che ci proponiamo è quello economico. I dati in nostro possesso dimostrano in maniera inequivocabile che è possibile ridurre il costo legato alle complicanze, e quindi ai ricoveri, se il paziente diabetico è curato adeguatamente, in una logica di percorso assistenziale condiviso con tutti gli "attori" della cura. Tra questi, un ruolo fondamentale appartiene al medico di medicina generale, in particolare per quanto riguarda il diabete di tipo 2, che rappresenta circa il 90% dei casi di diabete. Oggi non è più ammissibile che interventi diagnostici e terapeutici siano effettuati al di fuori di una logica di percorso assistenziale, con duplicazioni, confusione nei ruoli, inefficiente utilizzo delle professionalità. In questa nostra visione strategica, per esempio, gli specialisti (e le strutture cui appartengono) devono operare per la definizione del Piano di cura individuale di tutti i diabetici di nuova diagnosi e successivamente intervenire su casi selezionati, su quesito del Mmg, con un approccio di secondo livello che tenda a ottimizzare le risorse disponibili, così come previsto dal documento di gestione integrata. L'utilizzo di percorsi di cura onnicomprensivi, l'appropriata prescrizione di farmaci, il followup personalizzato, la possibilità di utilizzo di risorse umane qualificate, l'empowerment del paziente diabetico sono strategie intese a migliorare il rapporto cost-utility (costo per anno di vita guadagnato esente da eventi). Esperienze nazionali e internazionali dimostrano che tutto ciò induce un inevitabile aumento della spesa per farmaci, specialistica e presìdi, contestuale però a una consistente riduzione della spesa per ricoveri. In definitiva, si ottiene un miglioramento dei risultati clinici, ma la spesa media per paziente resta uguale o addirittura si riduce. Ecco ciò a cui tendiamo. Crediamo quindi che l'accordo firmato, che abbiamo presentato al Ministero, con lo scopo di poterlo presto vedere discusso anche da chi gestisce la Sanità sul territorio, le Regioni, costituisca non solo il punto di arrivo di un processo di condivisione tra specialisti e medici di medicina generale, bensì quello di partenza per migliorare oltremodo l'assistenza alle persone con diabete nel nostro Paese. Adolfo Arcangeli Presidente Associazione medici diabetologi (Amd) Claudio Cricelli Presidente Società italiana di medicina generale (Simg) Le indicazioni I COMPITI DELLE STRUTTURE SPECIALISTICHE Impostazione della terapia medica nutrizionale Aggiornamento per i Mmg in campo diabetologico Definizione diagnostica del diabete neodiagnosticato e inquadramento terapeutico con formulazione del Piano di cura personalizzato e condiviso con i Mmg Presa in carico, in collaborazione con i Mmg, delle persone con diabete Gestione clinica diretta, in collaborazione con i Mmg e gli altri specialisti, delle persone con: grave instabilità metabolica; complicanze croniche in fase evolutiva; trattamento mediante infusori sottocutanei continui d'insulina; diabete in gravidanza e diabete gestazionale Effettuazione dell'educazione terapeutica e, in collaborazione con i Mmg, di interventi di educazione sanitaria e counselling su stili di vita corretti e autogestione della malattia Valutazione periodica, secondo il piano di cura personalizzato dei pazienti diabetici di tipo 2 seguiti con il protocollo di gestione integrata Raccolta dei dati clinici delle persone con diabete in maniera omogenea con il Mmg di riferimento, mediante cartelle cliniche preferibilmente in formato elettronico del protocollo I Identificazione delle donne con diabete gestazionale Diagnosi precoce di malattia diabetica tra i propri assistiti Identificazione della popolazione a rischio aumentato di malattia diabetica tra i propri assistiti Presa in carico dei pazienti, in collaborazione con le strutture di riferimento per il diabete mellito, e condivisione del piano di cura personalizzato Valutazione periodica dei propri pazienti secondo il piano di cura finalizzata al buon controllo metabolico e alla diagnosi precoce delle complicanze Effettuazione, in collaborazione con le strutture per il diabete mellito, di interventi di educazione sanitaria e counselling delle persone su stili di vita corretti e autogestione della malattia Monitoraggio dei comportamenti alimentari secondo il piano di cura personalizzato Organizzazione dello studio (accessi, attrezzature, personale) per una gestione ottimale delle persone con diabete Raccolta dei dati clinici delle persone con diabete in maniera omogenea con le strutture per il diabete mellito mediante cartelle cliniche preferibilmente in formato elettronico _____________________________________________________________ Il sole24Ore 11 nov. ’08 IL LAVORO DI SQUADRA METTE AL CENTRO IL PAZIENTE «Avanti verso l'integrazione tra specialisti e generalisti» Protocollo in linea con il Piano prevenzione e la crescita del Ssn I diktat: prevenire la disabilità e favorire le terapie extraospedaliere Il diabete oggi costituisce un problema di Sanità pubblica in tutti i Paesi del mondo, siano essi sviluppati o in via di sviluppo. Cresce il numero delle persone con questa malattia, anche in conseguenza dell'allungamento della vita media, e se non vi sarà una strategia nell'affrontare il tema della prevenzione e della presa in carico del paziente affetto da diabete i costi per i sistemi sanitari in materia cresceranno in modo esponenziale. Basti pensare che dalle schede di dimissione ospedaliera relative al 2005 risulta che sono state ricoverate per diabete 691.547 persone, con una media di giornate di degenza pari a 10,6 a paziente. Bisogna anche sottolineare che la mortalità delle persone con diabete è quasi 2 volte superiore a quella dei non diabetici e per le donne il rapporto sale a 2,6. Inoltre, l'Oms ha stimato che nel 2005 il 2% del totale delle morti nel mondo sia da attribuire al diabete (1.125.000 persone). Queste cifre fanno comprendere l'entità del problema e la complessità degli interventi necessari per affrontare questa malattia e per assicurare la miglior qualità dell'assistenza, della cura e della prevenzione del diabete di tipo 2 e delle sue complicanze in genere. La risposta a queste sollecitazioni si è concretizzata negli ultimi anni con protocolli e linee guida con diversa attuazione a seconda delle varie esperienze di disease management, non solo in diabetologia. I princìpi fondamentali che sottendono all'incisività dell'azione sono risultati collaborazione, lavoro di squadra, integrazione delle competenze e dei ruoli, autonomizzazione e responsabilizzazione del paziente, posto al centro del sistema curante. Attorno alla persona con diabete operano medici specialisti, non solo diabetologi, medici di medicina generale, operatori professionali non medici. Il modello della medicina moderna, che deve affrontare la sfida della cronicità, impone che i vari attori entrino in sinergia per fronteggiarla in modo complementare, vale a dire valorizzando al meglio le diverse conoscenze e capacità: le competenze specialistiche dell'organizzazione ospedaliera in rete con i servizi territoriali e i medici di medicina generale. In altre parole, bisogna unire le forze in nome dell'integrazione tra ospedale e territorio o meglio, fra medicina specialistica e medicina di base. Ma per fare ciò sono necessarie la condivisione e la partnership tra medico e paziente da un lato e tra i professionisti dall'altro. Il protocollo "L'assistenza integrata alla persona con diabete mellito tipo 2" studiato, sviluppato e firmato dalle Società scientifiche e professionali dei medici specialisti in Diabetologia e di Medicina generale, rappresenta un passo significativo poiché va nella direzione, proposta anche dal Piano nazionale prevenzione e dal progetto Igea, di orientare verso un modello assistenziale adatto a prevenire la disabilità, favorire la deospedalizzazione e sviluppare l'integrazione fra cure specialistiche e cure primarie, oltre a operare per migliorare le competenze delle persone per l'autogestione della propria malattia. Tutto questo trova fondamento nei princìpi, condivisi anche da questo Ministero che ha partecipato alla sua realizzazione, espressi nel documento "Standard italiani per la cura del diabete mellito". Le Istituzioni, a tutti i livelli, e in particolare il Ministero che rappresento dovranno misurarsi costantemente con l'evoluzione del sistema di erogazione delle cure e la loro efficacia, perché sempre di più nel nostro Paese ai pazienti affetti da diabete e agli operatori sanitari che operano in questo ambito siano garantite le condizioni migliori per affrontare i processi di diagnosi e cura che rappresentano un pilastro fondamentale del benessere della persona. Francesca Martini Sottosegretario di Stato alla Salute _____________________________________________________________ Il sole24Ore 11 nov. ’08 DIABETE/ I DATI PRELIMINARI DEL PIÙ VASTO STUDIO EUROPEO SUL DISEASE MANAGEMENT Quasar dà lezioni di strategia Coinvolti 78 centri italiani e circa 7mila assistiti - Il team riduce i costi La disponibilità nei centri per la cura del diabete di adeguate risorse mediche specialistiche (diabetologo, oculista ecc.), infermieristiche e di professionisti sanitari come dietista, podologo, psicologo e relativi ambulatori specializzati, ha un impatto clinico positivo sulla cura della malattia. Le persone con diabete mostrano una tendenza al miglior controllo della glicemia se seguite in Servizi di diabetologia con un'organizzazione integrata dell'assistenza, in grado di far fronte a tutti gli aspetti connessi con questa malattia cronica, le condizioni concomitanti (come ipertensione e ipercolesterolemia), le complicanze (dalla retinopatia che causa danni alla vista, alla nefropatia che compromette la funzione renale, alla neuropatia periferica che favorisce le lesioni al piede, sino all'aumentato rischio di arteriosclerosi e quindi di infarto e ictus). Lo dimostrano i dati preliminari dello studio Quasar, presentati al IV Congresso nazionale del Centro studi e ricerche - Fondazione associazione medici diabetologi (Amd) svoltosi a Cernobbio (Como) nella prima settimana di ottobre. Le persone seguite presso le strutture complesse hanno una probabilità doppia di raggiungere valori di emoglobina glicosilata o HbA1c inferiori al 7% rispetto a quelle seguite presso centri meno strutturati. Anche la pressione arteriosa risulta meglio controllata nelle strutture complesse: la probabilità di ottenere valori entro le soglie stabilite dalle linee guida internazionali, ossia inferiori a 130/85 mmHg, è del 50% più elevata. Non sono state invece evidenziate differenze significative per quanto concerne il controllo del colesterolo. Lo studio Quasar, il più ampio progetto di ricerca sul rapporto tra aspetti strutturali e organizzativi e risultati dell'assistenza diabetologica condotto in Europa, è un progetto di indagine osservazionale, condotto presso i Servizi di diabetologia italiani, che vuole esplorare in modo approfondito i rapporti che esistono fra gli aspetti strutturali e organizzativi dei centri, le procedure messe in atto e i risultati clinici ottenuti (intermedi e a lungo termine), tenendo in dovuta considerazione le caratteristiche degli assistiti. Viene realizzato in collaborazione tra Amd e Consorzio Mario Negri Sud, con il contributo incondizionato di GlaxoSmithKline. Iniziato nel 2005, si concluderà nel 2011. Coinvolge 78 Servizi di diabetologia sul territorio italiano e oltre 6.700 persone con diabete. Anche se i dati presentati a Cernobbio sono da considerare assolutamente preliminari, ci confermano, dal punto di vista clinico, quanto già emerso da analisi economiche di esperienze pratiche. Secondo i dati elaborati dall'Azienda sanitaria locale (Asl) di Brescia, che conduce un programma di gestione strategica o disease management del diabete, le persone con questa problematica rappresentano poco più del 4% degli assistiti, ma consumano l'11% delle risorse. È stato dimostrato che coinvolgendo nella loro assistenza diverse figure professionali mediche e non mediche, e organizzandone l'azione, si riducono le complicanze, proprio grazie al miglior controllo del profilo metabolico. I costi della malattia sono diminuiti da un valore medio pro-capite di circa 2.650 euro nel 2000 a 2.500 euro nel 2003, con una drastica diminuzione del costo per i ricoveri (-28,8%), indice proprio di una minor presenza di complicanze. Questi primi dati di Quasar, che potremo valutare appieno solo tra 3 anni, ci dicono tuttavia anche un'altra cosa importante. Dimostrano inequivocabilmente che nei centri più strutturati gli indicatori di processo, ossia quello che viene fatto, come la frequenza della misurazione dell'HbA1c, della pressione arteriosa, del profilo lipidico, sono nettamente migliori. Tuttavia non è dimostrata corrispondenza tra questi indicatori e il risultato della cura. Significa, in altre parole, che non è sufficiente controllare, ma è necessario adeguare prontamente la strategia di cura ai risultati del controllo. Al termine dello studio, poi, ci aspettiamo di valutare un altro aspetto fondamentale per migliorare ulteriormente la qualità della cura e dell'assistenza diabetologica in Italia: misurare l'impatto dell'organizzazione delle strutture e dei processi utilizzati sul verificarsi delle complicanze macrovascolari, come infarto e ictus. Infatti, diversi studi recentemente condotti in Italia hanno documentato come la percentuale di persone con diabete con inadeguato controllo dei principali fattori di rischio cardiovascolare sia ancora molto elevata: sia per quanto riguarda il controllo pressorio, sia per il controllo lipidico. Inoltre, molte persone non sono trattate con i farmaci, nonostante valori ben oltre la soglia prevista dalle linee guida. È quindi ipotizzabile che una quota importante delle complicanze macrovascolari possa essere evitata rendendo la cura erogata più omogenea e più vicina agli standard raccomandati. Umberto Valentini, Domenico Cucinotta, Marco Comaschi, Giacomo Vespasiani, Alessandro Ozzello, Antonio Ceriello, Salvatore De Cosmo, Chiara Rossi, Antonio Nicolucci, Carlo Giorda, Adolfo Arcangeli Centro studi e ricerche Amd-Associazione medici diabetologi Caratteristiche descrittive della tipologia di strutture esaminate Nefropatia Retinopatia Strutture complesse Strutture ambulatoriali Numero di medici Presenza di dietista Disfuzione erettile Numero di infermieri Presenza di podologo Presenza di psicologo Diabete gestazionale Strutture semplici Complicanze cardiovascolari 68,0% 64,3% 63,6% 32,0% 19,1% 36,4% 24,0% 14,3% 0,0% 36,0% 14,3% 9,1% 40,0% 19,0% 27,3% 32,0% 16,7% 0,0% 20,0% 16,7% 0,0% 60,0% 35,7% 9,1% 1-2 28,0% 40,5% 54,6% 3-4 24,0% 47,6% 45,5% >4 48,0% 11,9% 0,0% 0-2 52,0% 59,0% 63,6% 2-4 24,0% 36,6% 18,2% >4 44,0% 24,4% 18,2% Ambulatori dedicati interni alla struttura 80,0% 73,8% 63,6% Regolare attività educativa in gruppi per i pazienti 48,0% 38,1% 45,5% Laboratorio interno alla struttura 52,0% 42,9% 45,5% Gestione integrata con la medicina generale 44,0% 40,5% 63,6% Analisi degli indicatori di processo nelle strutture analizzate HbA1c 78,4% 49,5% 36,1% 19,9% 75,7% 41,9% 72,8% 27,4% 16,0% 56,7% 41,6% 54,7% 32,9% 21,4% Nefropatia Profilo lipidico Piede diabetico Indicatori di processo Tipologia di struttura Pressione arteriosa 73,1% Complessa Semplice Ambulatoriale _____________________________________________________________ Repubblica 13 nov. ’08 SANITÀ, SENZA PREVENZIONE UN BUCO DI 12 MILIARDI L'ANNO Studio del Cer: ecco quanto si risparmia con l'uso appropriato di alcuni farmaci ROBERTO PETRINI ROMA - Una bomba ad orologeria rischia di scoppiare alla data del 2050: l'invecchiamento della popolazione renderà necessario un aumento della spesa sanitaria dall'attuale 6,9 per cento all'8,6 per cento. La spesa per la cura dei malati cronici, la cosiddetta «long term care», aumenterà dall'attuale 1,6 per cento al 2,8 per cento. Un'Italia in cattiva salute vedrà aumentare anche le prestazioni socio-assistenziali e le indennità di accompagnamento che saliranno complessivamente dall'attuale 0,8 per cento del prodotto interno lordo all'1,5 per cento. Senza un adeguato intervento di cura e di contrasto farmacologico delle malattie legate all'invecchiamento, come l'Azheimer, i disturbi cardiovascolari e bronchiali, il Sistema sanitario nazionale rischia di scoppiare: il Cer ha calcolato infatti che, nell'ipotesi che si tagliasse completamente la spesa farmaceutica, i costi del Servizio sanitario nazionale, invece di diminuire, aumenterebbero nel 2050 del 14,3 per cento, una cifra pari a circa 60 miliardi. Il Belpaese, vecchio e infestato da patologie croniche, rischia dunque di diventare in futuro molto costoso: se non si prenderanno iniziative immediate l'effetto sarà quello di scaricare i costi sulle generazioni future. A fare i conti dei costi pubblici del mancato intervento di contrasto e cura delle malattie croniche e delle malattie della vecchiaiaè stato ieri il Cer, Centro Europa Ricerche, che ha presentato con Farmindustria un rapporto su «I farmaci come strumento di controllo della spesa sanitaria» realizzato dall'economista dell'Università di Tor Vergata Vincenzo Atella. «La spesa farmaceutica non può essere vista sempre e solo come un costo», ha detto il presidente di Farmindustria, Sergio Dompé, che ha spiegato come l'utilizzo dei farmaci abbia ridotto il numero degli interventi chirurgici e abbassato in modo rilevante, ad esempio, il tasso di mortalità nell'ambito delle patologie cardiache. «E' agli sprechi che bisogna guardare, non solo ai farmaci: non è possibile che una siringa costi ad una Asl il doppio che in un'altra», ha aggiunto. «L'industria del farmaco - ha osservato Dompè - non chiede né sconti né giustificazioni per eventuali comportamenti scorretti, che vanno sempre condannati ed eliminati. Da tempo chiediamo invece più trasparenza, meno leggi e più controlli». Particolarmente inquietante il quadro dei costi che il mancato contrasto farmacologico delle malattie croniche provocherebbe. Dalla fotografia della situazione odierna emerge che disturbi cardiaci, broncopolmonari, Alzheimer e depressione (che rappresentano il 53 per cento della mortalità e della disabilità dovuta a malattie croniche) se non trattati adeguatamente si aggraverebbero e aprirebbero un buco di 6,4 miliardi per i soli costi sanitari. Non solo: a questi costi vanno aggiunti quelli sociali: tra ore di lavoro perse e pensioni di invalidità si arriva a 5,9 miliardi. In totale, tra costi sanitari e non, circa 12,4 miliardi. Insomma curare per prevenire i costi ed evitare la cronicizzazione delle malattie: il 30 per cento delle visite specialistiche infatti è attualmente richiesto dai cronici, le malattie cardiovascolari rappresentano la causa più frequente delle pensioni di anzianità e attualmente fanno perdere circa 13 milioni di giornate di lavoro l'anno. PER SAPERNE DI PIÙ www.centroeuroparicerche.it _____________________________________________________________ Il sole24Ore 10 nov. ’08 SANITÀ, IL MANAGER DURA POCO Le poltrone del Ssn DIRETTORI GENERALI SOTTO LA LENTE In media incarichi ai dirigenti per meno di 4 anni, in Calabria si scende a 2 Roberto Turno Quarantatre mesi e via. Altro giro, altra corsa, a volte altro mestiere. Alcuni rottamati, altri ripescati. Non saranno dei "re travicello" o dei leader usa e getta. Poveri, poi, non lo sono di certo, con buste paga che sebbene ferme da 7- 8 anni raggiungono in media i 170-180mila euro lordi annui, premi (se li ottengono...) esclusi. Eppure, da una parte accusati di essere asserviti ai partiti, dall'altra primi responsabili di conti che non tornano (quasi) mai, i direttori generali-manager di Asl e ospedali non possono certo vantare una serena vita professionale. Perché il manager del Ssn è instabile per definizione: in media conserva la poltrona per 3 anni e 7 mesi, un soffio quando c'è in ballo la programmazione. E poi, un consiglio agli aspiranti comandanti in capo di Asl e ospedali: non accettate incarichi in Calabria, dopo venti mesi perderete il posto. Magari prenotatevi a Bolzano: per 8 anni e 9 mesi il governo sanitario è assicurato. E lo stipendio pure. A fare il punto sulla "mobilità" dei direttori generali delle aziende sanitarie è il consueto rapporto «Oasi 2008» del Cergas Bocconi, che sarà presentato lunedì prossimo a Milano a un convegno sui 30 anni di vita del Ssn. Occasione per «riflettere sul passato per progettare il futuro», quanto mai attuale considerati i lavori in corso nel Governo di centro-destra, neppure tanto silenziosamente, intorno ai destini del Ssn. Il capitolo sui direttori generali-manager, che Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare, non è quello più cruciale del rapporto «Oasi». Ma sicuramente è una spia della fatica del "fare" salute pubblica e di gestirla, in un sistema che s'è profondamente modificato in ormai oltre dieci anni e di cui i manager hanno rappresentato una figura importante, anche con tutte le code polemiche che portano appresso. Intanto, perché dal 1996 a oggi, sono stati ben 852 i manager che hanno ricoperto la carica almeno per un anno, rileva Clara Carbone. E poi, si pensi che la volatilità del mestiere di manager del Ssn continua a crescere: nel giro soltanto di un anno, dal 2007 al 2008, la durata in carica è scesa di un mese. L'instabilità cresce, insomma. Ma con tutte le differenze del caso. Si dura 4 mesi in più più nelle aziende ospedaliere (3 anni e 9 mesi) che nelle Asl (3 anni e 5 mesi). Come detto, in Calabria si cambia in media dopo 1 anno e 8 mesi, e all'opposto a Bolzano si resiste sulla poltrona per 105 mesi. Entrambi record irraggiungibili. Ogni azienda ha così in media cambiato la direzione generale più di due volte e mezza dal 1996: un orizzonte di gestione troppo limitato, si afferma nel rapporto. Va da sé che tra elezioni regionali e cambi di maggioranza, conseguenti spoil system, valutazioni dell'operato dei manager, riforme che intanto intervengono, le Regioni non sono certo un unico blocco. Anzi. Ci sono così quelle con elevati gradi di instabilità dei manager e insieme molto aperte alla rotazione interna o a "pescare" i Dg all'esterno: Calabria, Lazio, Sardegna. Ci sono poi le Regioni dove il posto del manager è più stabile e cercano più facilmente all'esterno i Dg: Bolzano e Abruzzo. Ecco poi le realtà in cui la stabilità del posto del manager è più elevata e più "chiusa" verso l'esterno: Lombardia, Molise e Friuli. Infine il gruppo di Regioni dove il manager è instabile ma viene scelto più facilmente facendo ruotare i Dg tra le aziende sanitarie: Umbria e Puglia. Del resto, siamo o no nel pre-federalismo? Foto: LA MEDIA NELLE REGIONI Durata media in carica dei direttori generali in una data azienda sanitaria, suddivisi per regione nel periodo intercorrente tra il 1996 e il 2008. Nella cartina si indicano i dati totali e la media Italia. Nella tabella a destra, invece, la lunghezza dell'incarico del manager Ssn risulta suddiviso tra aziende ospedaliere e Asl ____________________________________________________________ il Giornale 8 nov. ’08 UNA RETE DI NEUROLOGI IN TUTTA EUROPA Newcastle si é deciso di intensificare la lotta alle trecento gravi malattie neuromuscolari La genetica e la biologia molecolare hanno già sviluppato innovative prospettive di cura luigi Cucchi M «Ormai ne siamo certi, le ricerche più avanzate lo hanno confermato, con la genetica si potranno curare molte malattie neurologiche. Un nuovo entusiasmante capitolo della medicina sta per essere scritto». Non ha dubbi Giovanni Meola, cattedra di neurologia all'università di Milano, direttore del Centro neuromuscorale dell'Istituto di Ricovero e Cura a carattere Scientifico del Policlinico San Donato. Studia le malattie neuromuscolari, che colpiscono in Italia 40-SOmila persone, dall'inizio degli anni Settanta. Allora, giovane medico, si recò in Inghilterra a Newcastle, autentico tempio della ricerca neurologica, sviluppata da John Nicolas Walton, ora lord Walton per meriti scientifici. In quegli anni la neurologia era legata alla psichiatria, l'intera area medica era definita neuropsichiatria. Si studiava la schizofrenia e ben poco si conosceva delle cause dell'Alzheimer e del Parkinson. Oggi si conoscono le interrelazioni che esistono tra i vari sistemi e si studia la psico-neuro- immuno-endocrinologia. Le malattie neuro muscolari sono distinte in trecento forme diverse, un tempo era un territorio sconosciuto alla maggior parte dei medici. Le malattie del midollo spinale come la sclerosi laterale amiotrofica, le patologie tipiche dei nervi motori é sensitivi, come le polineuropatie, quelle della giunzione neuromuscolare, come la miastenia grave, e le malattie propriamente muscolari come le distrofie, rappresentavano un arcipelago inesplorato. La stessa malattia di Duchenne, che colpisce costringendoli in carrozzella bambini di 12-13 anni, era poco nota: Nulla o quasi si sapeva delle distrofie miotoniche, le più frequenti nell'adulto, che portano alla paralisi attraverso la contrazione del muscolo. Queste patologie coinvolgono anche il cuore e l'apparato endocrino provocando aritmie e favorendo il manifestarsi del diabete, oltre a determinare alterazioni a livello cognitivo e comportamentale. A Milano, il Policlinico San Donato, è un riferimento nazionale per queste patologie muscolari, si studiano soprattutto le distrofie miotoniche e le canalopatie muscolari. Di una di queste malattie è stato individuato per la prima volta al mondo il cromosoma. Questa ricerca, pubblicata su American Journal of Human Genetits, ha consentito nel 2003 di comprenderne i meccanismi molecolari. Nel 2007 San Donato ha ospitato, per la prima volta in Italia, il congresso mondiale delle distrofie miotoniche, al quale hanno partecipato oltre 350 ricercatori. Non sono molti, in tutta Italia i centri che studiano queste patologie, si contano su una mano.: sempre a Milano vi è l'Istituto neurologico Besta, che eccelle nello studio delle miastenie, malattie della giunzione neuromuscolare, ed il Policlinico, specializzato nella malattia di Duchenne. A Roma all'università Cattolica è attivo un team di ricercatori, a Padova si sono specializzati sulle distrofie. «Ancora negli anni Novanta - ricorda Meola - Alain Emery, professore di genetica all'università di Edimburgo riteneva che qualsiasi terapia per malattie neuromuscolari era da considerare empirica e non risolutiva,. Solo in questi ultimi anni sono stati identificati numerosi geni che hanno confermato l'ampia eterogeneità genetica alla base di queste malattie. «Oggi è possibile - precisa il professor Meola - formulare diagnosi precise ed inequivocabili delle diverse forme neuromuscolari che possono manifestarsi a livello neonatale, infantile giovanile ed adulto. Accanto ai notevoli progressi di ordine genetico si è raggiunta una migliore conoscenza dei meccanismi cellulari e molecolari che permette nuove cure come le terapie geniche e cellulariN. Dal 29 settembre al 2 ottobre proprio a Newcastle, dove vi è l'unica cattedra al mondo di miologia sperimentale, si è tenuto il XIII congresso mondiale delle malattie neuromuscolari con la partecipazione di 600 delegati. E stato deciso di realizzare una rete europea di ricercatori, inclusi quelli dei centri italiani, per lo sviluppo delle tematiche scientifiche e per formulare linee guida per la cura ed il miglioramento della qualità di vita del malato neuromuscolare. In questi ultimi anni le conoscenze scientifiche delle malattie muscolari si sono sviluppate notevolmente e sono aumentate le possibilità di cura. In molti casi la guarigione non è ancora possibile, ma si ottiene il controllo della malattia e la remissione dei sintomi. Si impiegano farmaci antiaritmici perla cura della miotonia che rischia con il blocco muscolare di portare alla paralisi. Anche l'impiego di pace maker e di defibrillatori si è dimostrato utile. È stato definito un rigido protocollo clinico che cerca di prevenire l'insorgenza della fase acuta che porta spesso alla crisi cardiaca. Anche le miopatie metaboliche da deficit di un enzima si possono curare con nuove terapie geniche. Presto un crescente numero di malattie neuromuscolari potrà disporre di cure sempre più efficaci. Nuove conquiste scientifiche sono all'orizzonte, presto si concretizzeranno. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 nov. ’08 UN FARMACO BIOLOGICO DOPO LA CHEMIOTERAPIA di Giuseppe Oddo L’esito positivo della sperimentazione del Tarceva, il primo farmaco biologico orale per la terapia del cancro al polmone - sviluppato da Osi Pharmaceutical, dalla multinazionale svizzera Roche e dalla sua controllata americana Genentech - apre la strada a un nuovo approccio clinico per la cura di una patologia che è la prima causa di morte per tumore nel mondo. L'annuncio della conclusione dello studio "Saturn", condotto su 889 pazienti e c00rdinato da un giovane oncologo siciliano, Federico Cappuzzo, approdato all'Istituto Humanitas di Milano dopo importanti esperienze all'estero, è di ieri. E accende la speranza delle decine di migliaia di persone colpite da questa grave e inguaribile forma di neoplasia. Le stime dell'Istituto superiore di sanità indicano per l'Italia oltre 32mila nuovi casi nel 2008. «Dalla sperimentazione è emerso - spiega Cappuzzo, in partenza per il Giappone per una serie di conferenze - che il Tarceva, una semplice pillola, oltre che scarsamente tossico, riduce in maniera significativa il rischio di progressione della malattia contribuendo a ridurre l'insorgenza dei sintomi a essa collegati quali tosse, difficoltà respiratorie e dolore». Unprecedente studio, ché ha portato alla registrazione del farmaco, «ha già mostrato - riferisce l'oncologo - che pazienti con certe caratteristiche trattati con Tarceva hanno una mediana di soprawiven Ricercatore. Federico Cappuzzo, 40 anni za che superai venti mesi, risultato impensabile appena qualche anno fa». L'attesa media di vita di un soggetto che scopre di avere una metastasi al polmone è infatti, in questa fase, intorno ai dieci mesi. «I più reattivi al farmaco-prosegue Cappuzzo - si sono dimostrati i pazienti che presentano la mutazione di un particolare tipo di gene che produce il recettore del fattore di crescita epidermoidale, mutazione presente in circa il io% dei malati». La malattia oggi è aggredita con farmaci chemioterapici che, nella migliore delle ipotesi, portano alla temporanea regressione del male, non alla cura definitiva. Generalmente non si va oltre i 4-6 cicli per il rischio di dare al paziente solo gli effetti collaterali della chemioterapia: nausea, vomito, caduta dei capelli, riduzione dei globuli bianchi (con rischi di malattie infettive). Ora il Tarceva rende possibile una terapia di mantenimento alternativa alla chemio, che finora è mancata. «Le attuali terapie di mantenimento - dice Cappuzzo-essendo a base di chemioterapici e richiedendo ulteriori ricoveri ospedalieri finiscono o per essere rifiutate dai pazienti, mentre d'ora in poi, conclusa la chemio, ci ' si potrà continuare a curare in modo non solo efficace ma anche più comodo, assumendo una pillola». Essendo per altro mirato alle cellule responsabili della proliferazione del tumore, il farmaco biologico non dà gli effetti indesiderati tipici della chemioterapia. Cappuzzo è visibilmente soddisfatto per i risultati della sperimentazione. Laureatosi all'Università di Palermo, sua città natale, l'oncologia è stata la sua passione, da sempre. «Sono stato spinto verso questo campo - racconta - per il terrore che mi sono portato dentro fin da bambino per questo tipo di malattia». Nel'93 è andato a specializzarsi all'Istituto dei tumori di Milano, allora diretto da Umberto Veronesi, per poi prendere la via dell'estero: prima, a partire dal'97, al Gustave Roussy di Parigi diretto da Thierry Le Chavalier, poi a, partire dal 20o4, negli Stati Uniti d'America, al Colorado Cancer Center di Denver diretto da Paul Bunn, una delle massime autorità mondiali in materia di cancro al polmone, ex presidente della prestigiosa società americana di oncologia. Il rientro in Italia all’Humanitas nell’equipe diretta da Armando Santoro, è di qualche anno fa. Oggi, a 40 anni, Cappuzzo può già vantarne 15 di esperienza come medico e ricercatore. «Il problema italiano - dice - non è tanto la mancanza di ricerca quanto l’assenza di una cultura della ricerca. Negli Usa il medico non solo trascorre del tempo col paziente, ma continua anche a studiarlo in laboratorio. In Italia, purtroppo, fare il ricercatore non paga, né economicamente né professionalmente, e la ricerca è considerata una perdita di tempo. In medicina e in particolare in oncologia, dove purtroppo 5i continua a morire, non è possibile garantire la migliore cura senza ricerca. Ho la fortuna di lavorare in una struttura che ha la ricerca come missione e mi offre la possibilità di confrontarmi quotidianamente-conclude Cappuzzo con ricercatori di grande spessore e rigore scientifico come Armando Santoro e il nostro direttore scientifico, Alberto Mantovani, un grande esempio per tutti noi». ______________________________________________________________ l’Unità 10 nov. ‘08 LA MATERIA DELLA MENTE SVELATA ATTRAVERSO L'ANESTESIA NEUROLOGIA Coscienza La studiamo da secoli ma non sappiamo ancora che cosa sia -~ Fallimenti Ogni mille operazioni accade che un paziente resti sveglio Uno studio su «Science» analizza che cosa succede quando una sostanza anestetica ci fa perdere coscienza e quando, invece, fallisce. Un passo avanti nella comprensione della mente PIETRO GRECO scienza@unita.it Succede, più o meno, ogni mille o duemila operazioni chirurgiche che un paziente sotto anestesia totale recuperi in parte lo stato di coscienza o che, addirittura, resti in tale stato durante l'intero corso dell'intervento. Perché? I motivi sono tre: a) non rispondere agli stimoli e, quindi, sembrare in uno stato di incoscienza non significa necessariamente essere in uno stato di incoscienza; b) non sappiamo come funzionano i diversi agenti che provocano 1a perdita di coscienza e vengono utilizzati in anestesia. IL terzo motivo è concettualmente molto più complesso: non sappiamo cosa sia la coscienza. Da un punto di vista pratico, questo deficit di conoscenza ci impedisce sia di prevedere quando un paziente sotto anestesia può riprendere coscienza, sia di mettere a punto agenti anestetici più specifici ed efficaci. Da un punto di vista teorico lascia insoddisfatto un rovello che da millenni appassiona i filosofi: cos'è la coscienza? L'articolo che Giulio Tononi, neuroscienziato italiano in forze al Dipartimento di psichiatria della University of Wisconsin, negli Stati Uniti, ha firmato qualche giorno fa su Science potrebbe consentire di aumentare le conoscenze. Facendo il punto sulle ricerche più recenti, i tre ricercatori dimostrano infatti che gli anestetici, oltre certe dosi, possono provocare effettivamente una perdita di coscienza e non limitarsi a causare un semplice stato di mancanza di risposta agli stimoli. Sostengono, anche, che sebbene 1a verifica della perdita di coscienza di un paziente sottoposto ad anestesia possa essere realizzata in maniera efficace con stimoli verbali, occasionalmente questa azione può dare risultati sbagliati. Inoltre tutti gli agenti anestetici agiscono, direttamente o meno, su un medesimo complesso cerebrale localizzato nei dintorni lobo parietale inferiore e, forse, su un certo nucleo corticale. Ma cosa fa, questo gruppo di neuroni? Essenzialmente due cose: processa informazioni e le integra. Secondo una teoria proposta qualche anno fa dallo stesso Tononi, la coscienza richiede un sistema integrato di stati cerebrali discriminabili che processano informazioni. I dati empirici sui meccanismi e i fallimenti dell'anestesia sembrano confermare che si ha perdita di coscienza o quando l'agente anestetico blocca il processo di integrazione o quando riduce il flusso di informazione. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 nov. ’08 QUASI 7 MILIARDI DI DOLLARI IN FARMACI E ASSISTENZA Sanità. Cresce l'impegno delle aziende nella ricerca di nuovi medicinali PAGINA A CURA DI Sara Deganello Se la salute è un valore collettivo, allora per loro natura le aziende farmaceutiche hanno un ruolo sociale, al di là delle specifiche azioni di responsabilità d'impresa. Sergio Dompé, 53 anni, presidente di Farmindustria, parla di «contributo sociale» ogni volta che, in ricerche condotte secondo standard internazionali, una tesi che non funziona viene scartata «Detto questo - sottolinea il presidente -non c'è da stupirsi se alle attività di cura della salute e di sviluppo dei brevetti si affiancano attenzione al rapporto coi pazienti, programmi di assistenza c interventi di solidarietà nei Paesi in via di sviluppo». Il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni più povere, l'abbattimento del tasso di mortalità infantile, la riduzione dell'incidenza di malattie come Aids e malaria sono tra gli obiettivi di sviluppo del millennio posti dall’Onu da raggiungere entro il 2012 Kees de Joncheere, 54 anni, consulente per la tecnologia e la farmaceutica dell'ufficio europeo dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), osserva: «Le aziende farmaceutiche sono sempre più impegnate in partnership pubbliche -private per la lotta alle "malattie neglette" nei Paesi tropicali». Sconfitte nel mondo occidentale, queste patologie (come colera e dengue) sono causate dalla mancanza di una sanità di base. «Il progetto Tdr (Tropical disease research) - continua de Joncheere- patrocinato da Unieef, Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, Banca mondiale e Oms, ha costruito eccellenti collaborazioni con l'industria farmaceutica, come l'approvazione normativa di nuovi prodotti e una maggiore accessibilità degli stessi». Sviluppare rimedi efficaci e metterli a disposizione anche di chi non se li può permettere (a prezzi bassi o gratuitamente) sono le azioni che le industrie farmaceutiche mettono in campo per la salute "globale": Oltre a una vasta opera dì educazione alla prevenzione. Molti gli esempi: il gruppo Sigma-Tau si è speso per nuovi farmaci antimalaria. Lo stesso ha fatto Sanofi-Aventis con il piano Impact Malaria, che comprende corsi di formazione in collaborazione con i Governi locali e varie Ong, soprattutto in Africa. Novartis Italia ha sostenuto dal 2005 al 2007 un progetto contro la malaria in Tigrai, regione dell'Etiopia dove la malattia è endemica. Con partner locali e italiani ha coinvolto i residenti in un piano di educazione sanitaria, monitoraggio e trattamento con Coartem (un antimalarico). Novartis, in partnership con l’Oms, mette a disposizione gratuitamente trattamenti contro la lebbra e la tubercolosi. Roche, tra le altre azioni, è da tempo impegnata nella `lotta all’Aids ed è stata tra i fondatori di Aai (Accelerating acces's iniziative), progetto in collaborazione con organismi internazionali per migliorare la qualità delle cure per le persone affette da Hiv nei Paesi in via di sviluppo. La Federazione internazionale industrie farmaceutiche (Ifpma) ha calcolato che gli associati, tra z00o e z006, hanno speso infarinaci e assistenza 6,69 miliardi di dollari. Un impegno aumentato in intensità e capillarità negli anni. Ricorda Kees de Joncheere, «i rappresentanti delle aziende hanno lo status di osservatori alle assemblee dell'Oms e sono interlocutori dell'organizzazione per questioni di rilievo». «In Italia - spiega Sergio Dompé - Farmindustria collabora con Telethon per lo sviluppo industriale dei risultati della ricerca e con Orphanet e l'Istituto superiore della sanità perle malattie rare: la mappatura di patologie poco conosciute, la formazione dei medici, la ricerca di cure sono alcuni dei progetti». L'impegno per un miglioramento del livello di salute> locale e mondiale> è uno sforzo condiviso anche con fondi privati ed enti estranei all'area farmaceutica: Dompé fa un nome: «La Fondazione Bill & Melinda Gates. Grazie a loro intere popolazioni di Paesi in via di sviluppo sono state vaccinate. Ma anche le fondazioni italiane, soprattutto bancarie, sono attive in questo settore»: Per quanto riguarda 'i rapporti tra gli attori nel campo della sanità; de Joncheere sostiene: «La collaborazione tra enti pubblici e privati è una caratteristica imprescindibile. Governi, aziende farmaceutiche; associazioni non profit; Ong negli ultimi anni si sono spesi per sviluppare nuovi farmaci e renderli accessibili: Ciò non è sufficiente: bisogna ripensare la ricerca e i metodi di distribuzione, stabilire quali sono le risorse necessarie». La ricetta di Dompé per realizzare gli obiettivi di salute collettiva non è poi tanto diversa: «Le varie realtà - fondi privati, amministrazioni, aziende, Università, associazioni - si devono c00rdinare, pur facendo ognuna la propria parte: solo uno sforzo progettuale comune darà una resa maggiore». s:deganello@ilsole24ore.com ____________________________________________________________ ItaliaOggi 11 nov. ’08 LE RADIOGRAFIE VIAGGERANNO SENZA FILI Medicina Carestream Health ha realizzato un innovativo sistema per l’acquisizione diretta degli esami a raggi X La soluzione permette di utilizzare le attrezzature analogiche e digitali esistenti senza richiedere la ristrutturazione delle sale. Al via test, in Germania e Francia. In arrivo in Italia nel, 2009 dì Cristina Cimato Esami più rapidi, dosi minori di radiazioni, immagini più accurate e non deperibili. Il passaggio dalla tecnologia analogica a quella digitale nell'ambito della radiologia ha permesso di migliorare le prestazioni delle attrezzature e potenziarne l'efficienza. In questa direzione si è spinta la multinazionale Carestream Health, che ha realizzato un sistema wireless innovativo per l'acquisizione e l’archiviazione delle immagini radiografiche con lo scopo di mantenere intatti rapidità dì esecuzione dell'esame, qualità dell'immagine e bassa dose di radiazione. «II vantaggio di questa tecnologia risiede soprattutto nella sua adattabilità alle strutture esistenti all'interno degli ospedali», ha commentato Marco Bucci, President Medical Films & Printing Solutions Carestream Health, «le dimensioni di 35x43 centimetri sono infatti identiche a quelle di una cassetta radiografica tradizionale, quindi non impone una ristrutturazione degli ambienti e allo stesso tempo permette un miglioramento in termini di archiviazione del materiale». II sistema DRX-1 è composto da una console e dal detettore che viene inserito nei dispositivi da parete o da tavolo. In circa cinque secondi il detettore genera l'immagine digitale e la trasmette senza fili alla console di acquisizione per essere elaborata e visualizzata. Dalla console, poi, le immagini vengono trasferite, sempre wireless, all'archivio. La memoria dei detettori, infatti, è a breve termine e può essere utilizzata per la conservazione delle immagini solo in casi di emergenza, come quello di un'interruzione dei wifi, mentre quella della console è protetta da architetture dì backup. «Il detettore ha una batteria a bordo ed è progettato per essere robusto come una cassetta tradizionale, quindi non è deperibile», ha spiegato Bucci Delle 3000 sale di radiologia italiane solo il 7% è attrezzata con un sistema di digital radiography (ossia dispone di tecnologie di ultima generazione), mentre il 60% delle sale è ancora analogica e più del 30% è attrezzata con Cr (Computed radiography), tecnologia che utilizza un'attrezzatura simile a quella tradizionale, ma al posto delle immagini analogiche produce quelle digitali. «Questa soluzione rappresenta un'ottima opportunità per tutte le strutture ospedaliere che necessitano di migliorare la produttività del reparto di radiologia, ma non hanno disponibilità economiche sufficienti per sostituire le proprie attrezzature o rifare completamente le sale radiologiche», ha commentato Uìorgìo Benea, medico radiologo responsabile del dipartimento di diagnostica per immagini e radiologia interventistica dell'ospedale del Delta di Ferrara e membro del consiglio direttivo della Società italiana di radiologia medica Il sistema, già approvato dalla Fda sarà disponibile in Italia entro il primo trimestre del 2009 ed è attualmente iniziato un test clinico non controllato a Francoforte. Questa settimana il sistema verrà inoltre installato a Toronto e Poissy, in Francia. «L'obiettìvo è quello dì fornire una soluzione che impatti del 50% circa sul costo di una sala completa di ultima generazione, che ha un costo medio di circa 250 mila euro», ha aggiunto Bucci. L'installazione della soluzione non dura più di un giorno e un altro è necessario per l'addestramento. Il peso contenuto del detettore, pari a meno di 4 chilogrammi, lo rende portatile. Questo permette un utilizzo ottimale per tutti i tipi di esami tradizionali come la radiografia generale, ma anche traumatica e ortopedica. __________________________________________________________ tst tutto Scienze e tecnologia 12 nov. ’08 LE VIE DEL SESSO E DEL DESIDERIO DUE STUDIOSI AMERICANI: VOGLIAMO RIDISEGNARE L'IDEA DI ESSERE UMANO IN BASE ALLA FORZA DEGLI ISTINTI Indagine tra psicologia, arte e computer science con le tribù in Rete GIORDANO STABILE Scriveva Madame de Stael che gli uomini desiderano le donne, ma le donne desiderano il desiderio de gli uomini. Da allora sono usciti negli Stati Uniti più di centomila manuali per cercare di dare un bella inquadratura scientifica al- problema del desiderio, o meglio al problema del perché sia così difficile per due esseri umani di sesso opposto non perdere la coincidenza, o almeno trovare il binario giusto. Nel frattempo altri scrittori si sono affannati a spiegare ai manualisti che, a parte Stendhal (insuperabile), nessuno è mai riuscito a dare una risposta scientifica e che è meglio addentrarsi nel ginepraio con l'emisfero destro (quello creativo) piuttosto che con le tabelle e i sondaggi. Nell'era di Internet ci prova un sito che ha la praticità di un buon orario ferroviario e un tasso estetico che rende sopportabile l'approccio scientifico alla più misteriosa delle emozioni umane. L'indirizzo è fleshmap.com: una mappa delle zone erogene che come i mappamondi equo-solidali distorce l'immagine del corpo umano. Glutei, labbra, seni; organi sessuali che si ingigantiscono. Stinchi e piedi - qualcuno dirà com'è banale il gusto comune - ridotti all'osso. Sono le controindicazioni della democrazia spinta. Il risultato dell'indagine è partito dal basso. Gli autori hanno deciso che dovesse essere quasi collettivista, e hanno scelto l’Amazon Mechanical Turk, uno dei più grandi siti al mondo di offerte di lavoro, come base per i sondaggi. Si sono messi d'accordo con i prestigiosi Dolores Labs californiani e hanno raccolto una mole impressionante di dati. Tutti quelli che consultano il sito in cerca di un impiego vengono sottoposti a un questionario. Genere, età, preferenze sessuali. Poi devono scegliere le zone -erogene preferite, sia da guardare che da accarezzare. «Quanto ti piace toccare questa zona?». «Quanto ti piace essere toccato in questa?». Fernanda Viegas e Martin Wattenberg, due artisti pionieri nella visualizzazione dei dati, maghi dell'infografica - hanno esposto le loro opere al New York Museum of Modern Art, al London Institute of Contemporary Arts e ai Whitney Museum ancora a New York - hanno rielaborato i dati in una serie di studi artistici che trasformano la massa di dati in un concetto immediatamente comunicabile. Viégas e Wattenberg aggiornano le elaborazioni, seguendo una lentissima evoluzione dei gusti, che però sembra a fatica distaccarsi dalle leggi ancestrali della riproduzione umana. Anche negli spazi liberatori del web prevale un rassicurante pudore. Il sito allora guida alle pericolose contaminazioni tra corpi, desideri ed espressioni artistiche. Una prima parte si addentra tra gli accostamenti musicali alle varie parti del corpo. L'hip-hop la fa da padrone per quanto riguarda il sedere é tutte le altri parti sconvenienti da nominare, mentre gli occhi sono appannaggio del rock classico ma anche delle heavy metal, mentre un gospel ci fa pensare alle mani e non ai cieli paradisiaci. Intere canzoni possono essere riscritte tracciando spazi bianchi e riproducendo con immagini solo le parole che si riferiscono a parti del corpo. E' un gioco che riesce benissimo con classici di Walt Whitman o William Blake e trova la sua apoteosi con il biblico Cantico dei Cantici. La rappresentazione artistica, risulta dall'indagine, è il miglior antidoto al voyeurismo da quattro soldi e seriale che appesta la Rete. È lo stesso popolo che la frequenta a dirlo: il desiderio ha un disperato bisogno di superare sfide creative e appassisce di fronte alla ripetizione, ai criteri troppo salutistici che vengono ripetuti come mantra su tutti i mezzi di comunicazione, di fronte, in fondo, alla mancanza di follia. Gli artisti di Fleshmap, su Internet, attraverso lo strumento che ha portato all'estremo la riproducibilità dell'opera d'arte, credono lo stesso alla loro funzione: salvare il desiderio. E ci avvertono, citando Spinosa, che il desiderio, di verità e di nostri simili, è «la vera essenza degli esseri umani». -0 5% Ogni parte del corpo è associata a uno stile musicale «I siti porno uccidono il piacere, mentre la creatività lo esalta» RUOLI: VIEGAS E' RICERCATRICE INFORMATICA E DESIGNER COMPUTAZIONALE WATTENBERG E' COMPUTER SCIENTIST E ARTISTA DI NEW MEDVA IL SITO: http://www.fleshmap.com/