RASSEGNA 1 FEBBRAIO 2009 ZEUS BRUNETTA E IL MASSO DI SISIFO - RICERCATORI UNIVERSITARI, SERVONO NORME CHIARE - CAGLIARI: COMUNE BOCCIA IL CAMPUS DELL’UNIVERSITÀ - FINANZIARE GLI STUDENTI CONVIENE ANCHE ALLE BANCHE - RATZINGER SALE IN CATTEDRA - AI CONFINI DELLA COSCIENZA - GLI SCIENZIATI CREDONO O SANNO? - PIÙ FONDI CONTRO LO SCIPPO DEI CERVELLI - NON IMPOVERITE LA MENTE - L'ICT TRA OLISTICO E REALTÀ - TUTTI IN FILA. E SEMPRE PER UN "PEZZO" DI CARTA - COSÌ IL "MOVIMENTO" HA BATTUTO PLAYSTATION - LA STRANA STORIA DEI FARMACI PER L’INTELLIGENZA - CHOPIN E ALTRI ZOMBIE - ======================================================= CEIS: SANITÀ, UNA VORAGINE DA 10 MILIARDI - FARMACI UGUALI PER TUTTI MA NON NEGLI OSPEDALI - COME STAR BENE FINO A 120 ANNI - QUANDO LA MENTE PERDE I RICORDI - ASL, VISITE FISCALI SCONTATE CONTRO I SUPERASSENTEISTI - A CHE ETÀ SMETTERE DI GUIDARE? - UNA CLINICA PORTATILE RACCHIUSA IN UN CEROTTO - VACCINO PER COLPIRE IL TUMORE AL COLON" - CAMPAGNA ANTIPOLIO: IL VIRUS DEVE MORIRE - BAMBINI SPORCHI E SANI ORA LO DICE ANCHE LA SCIENZA - RISCHIO DI ICTUS? ORA SAPREMO QUANTO - NECESSARIA UNA BANCA REGIONALE PER IL CORDONE OMBELICALE - ======================================================= ____________________________________________________ Left 30 gen. ’09 ZEUS BRUNETTA E IL MASSO DI SISIFO Borsisti, assegnisti, cocoprò, consulenti, collaboratori e lavoratori a tempo determinato: un esercito di precari al servizio della ricerca. Storia del loro percorso a ostacoli, in una giungla di norme e decreti. In attesa dell'ultima scadenza, a giugno, decisa dal governo. In migliaia rischiano il posto. Zeus decise che Sisifo avrebbe dovuto spingere un masso dalle pendici alla cima di un monte, ma ogni volta che raggiungeva la cima il masso rotolava nuovamente fino a valle. Per l'eternità, l'uomo che aveva osato sfidare gli dei con la sua intelligenza, avrebbe dovuto ricominciare daccapo la sua scalata. Secoli dopo, migliaia di precari dei 33 enti pubblici di ricerca sono costretti come Sisifo a ricominciare ogni volta dall'inizio. Zeus, assunte le spoglie del ministro Brunetta, ha rimesso mano alle regole del gioco e giù, in migliaia, a rincorrere il macigno sempre più pesante dell'assunzione. Li ha definiti «capitani di ventura» e ha mandato in fumo le loro speranze di stabilizzazione. Per rendere la finestrella ancora più piccola, al ministro sono bastate tre righe, l'articolo 49 della manovra estiva, la legge 133, in cui si stabilisce che «per evitare abusi» nell'utilizzo del lavoro flessibile, le amministrazioni non possono ricorrere al medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori ai tre anni nell'ultimo quinquennio. Sembrerebbe un deterrente all'uso di contratti atipici nel pubblico impiego, ma nel sudoku di finanziarie e circolari, la norma si trasforma nell’ennesima beffa. Seguo Claudio Argentini, ricercatore dell'Istituto superiore di sanità (Iss ) e delegato delle RdB Usi, nel dedalo dei sotterranei dell'Istituto a Roma. Riemergiamo in un cortile dove in fondo c'è la stanzetta, minuscola, del sindacato che conta il maggior numero di iscritti tra i ricercatori precari. È un giorno importante perché, grazie al presidio tenutosi sotto il ministero dell'Agricoltura, si è aperta una trattativa per la riassunzione di 50 cocoprò del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura, "scaduti" il31 dicembre scorso. «Gli enti in cui lavoriamo - spiega Claudio - hanno come scopo principale la ricerca, tuttavia i ministeri dai quali dipendono affidano loro compiti istituzionali, quasi sempre di controllo. L'Ispra si occupa dei controlli ambientali, l'Istat dell'inflazione, l'Iss della sanità (controlli su vaccini e farmaci, alimenti, compresala rilevazione di sostanze nocive e la presenza di patologie negli animali da carne), l'Enea segue tutto il settore dell'energia, e così via. Il ricorso massiccio ai collaboratori è iniziato con il blocco delle assunzioni. Dal'94-'95 gli enti hanno cominciato ad assumere precari, dal ricercatore, al tecnico, fino all'operaio». Di pari passo con l'evoluzione delle forme contrattuali atipiche, i laboratori di tutto il Paese si sono riempiti di borsisti, assegnisti, cococò (poi cocoprò), esternalizzati, consulenti e lavoratori a tempo determinato. «Il risultato è che abbiamo un esercito di ricercatori ultraquarantenni, con mutuo e famiglia a carico, che da dieci-quindici anni cambiano continuamente forma di contratto. L'ultima tipologia, quella del tempo determinato - precisa Claudio -, sarebbe la più corretta per inquadrare un precario della ricerca, se non fosse che questi contratti sono stati reiterati per talmente tanti anni da aver rimpiazzato in pianta organica chi è andato in pensione. Non è raro vedere atti istituzionali firmati da precari». Di fronte a questa prospettiva si è aperta, ormai da qualche anno, una battaglia per la conversione a tempo indeterminato. Nella Finanziaria del 2006 si sono visti i primi risultati: il comma 417 (il cosiddetto emendamento Salvi) ha disposto che tutte le figure precarie nel pubblico impiego fossero sanate, stabilendo un percorso e stanziando fondi a copertura economica. Singoli comparti hanno poi elaborato dei provvedimenti ad hoc per i cococò. Alcune regioni hanno portato avanti con successole stabilizzazioni, riuscendo addirittura a far rientrare gli esternalizzati. Il provvedimento, al comma 519, riconosce il diritto alla stabilizzazione per chi ha tre anni a tempo determinato negli ultimi cinque; il comma 526 tutela i cococò con una riserva nelle selezioni a tempo determinato. La Finanziaria del 2007 ha rafforzato il principio allargando le assunzioni a chiunque avesse tre anni a tempo determinato, anche ancora da compiere. Ulteriore condizione per la conversione a tempo indeterminato di questi lavoratori è il passaggio attraverso la selezione pubblica simile a un concorso, e per fortuna quasi tutti i titolari di contratti a tempo determinato rispondono al criterio. «Negli enti di ricerca in questo modo sono passati da determinato a indeterminato circa 1.500 lavoratori su una platea di oltre 3.500. Queste stabilizzazioni potranno essere effettuate fino al giugno del 2009, ma vista la stretta dell'attuale governo temiamo che non tutti potranno essere sanati. Lo stesso Brunetta dava, come numero indicativo, un totale di 1.800 stabilizzazioni». Prima del governo Berlusconi, nell'aprile 2008, una circolare dell'allora ministro della Funzione pubblica Nicolais metteva seri paletti alle stabilizzazioni, fissando il criterio del contratto triennale: i tempo determinato con tre anni di servizio non continuativi venivano messi fuori. Ritardi nel bandire i concorsi, mancato adeguamento delle piante organiche, inserimento di requisiti accessori (ad esempio votazione massima di laurea), interruzione e frazionamento dei contratti triennali hanno fatto si, come nel caso dei lavoratori del Cra, che centinaia di persone fossero rinnovate con co.co.pro. e assegni di ricerca. «Il discorso economico è fondamentale: un tempo determinato costa circa 45mila euro per un ricercatore e 40mila per un tecnico. Il cococò se arriva a 30mila è già costoso, le borse di studio, dal punto di vista dell'ente, sono le più vantaggiose». La conversione a tempo determinato è un primo salto di qualità a cui puntare, perché solo così nei concorsi il candidato accede alla riserva di posti. Esiste però un limite: il contratto nazionale firmato nel'98 ha sancito una proporzione del 20 per cento di precari sul totale. I:accordo sindacale, paradossalmente, ha spinto alla "sperimentazione" di nuove forme di lavoro. «Una fetta di ricercatori molto particolare - svela Claudio Argentini - sono i cosiddetti "triangolari", gli esternalizzati. Società private o altri enti pubblici che orbitano intorno all'ente di ricerca, assumono i ricercatori con contratti precari e poi li inviano in missione nell'ente di ricerca. Questo è un modo per far circolare denaro, al precario arriva pochissimo». Un esempio? «Ora in Iss ci sono più di 150 Il esternalizzati". L'Istituto ha diversi progetti in collaborazione con le università. Il responsabile del progetto, che gestisce i fondi, stipula una convezione, per ipotesi dà 50milaeuro all'università che fornisce un cocoprò pagato 15-20nila euro. All'apparenza quanto di meno conveniente per l'ente, sul piano economico. Ma così si può disporre di un lavoratore che non può accampare nessun diritto. Non c'è forma di controllo. Sono lavoratori invisibili, entrano come visitatori senza cartellino, ammessi in base a una lettera- Abbiamo scoperto che in Iss ce n'erano tanti solo dopo un'ispezione sulla sicurezza». Nel labirinto di nonne e requisiti per accedere alla conversione è impresa ardua capire se si rientra o non si rientra nella stabilizzazione. A seguito delle manifestazioni dello scorso autunno i precari hanno ottenuto una serie di deroghe sotto forma di pareri del ministero della Funzione pubblica. Ad esempio: per i cocoprò laureati, scaduto il triennio, si può accedere a una selezione pubblica; i diplomati, invece, non potranno essere più assunti come cocoprò e saranno rinnovati solo fino a giugno. «A volte riesce difficile ricostruire la storia contrattuale del lavoratore, una sorta di via crucis con passaggi da borse, assegni, esternalizzazioni, tempo determinato, quasi sempre nello stesso ente, nello stesso progetto. Spesso capita che si lavori gratis, specie se si è in vista della pubblicazione dei risultati di una ricerca o perché si prepara un convegno internazionale. Questo è un ambiente ancora legato alla missione. Per chi ci lavora c'è una forma di devozione mistica alla ricerca che va al di là del normale rapporto di lavoro». Per chi arriva alla fine del percorso, all'agognata stabilizzazione, c'è l'ultimo boccone da ingoiare. Il passaggio di contratto azzera qualsiasi beneficio accumulato, liquidazione, anzianità di servizio, livello contrattuale, persino le ferie non godute (sempre per chi le può maturare). Di fatto laddove la modalità del concorso è aperta, un ricercatore con 15-20 anni di esperienza si troverà nelle stesse condizioni di un neolaureato, di nuovo al punto di partenza. Come il povero Sisifo. _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 gen. ’09 RICERCATORI UNIVERSITARI, SERVONO NORME CHIARE PER COSTRUIRE IL SAPERE DI DOMANI Il reclutamento dei futuri docenti dovrebbe avvenire in modo più semplice, evitando che vadano disperse risorse preziose di Alberto Azzena * Il Ministro Gelmini ha ottenuto l’approvazione del Decreto legge sull’Università, che comprende norme per valorizzare il merito del personale docente (ignorando, però, gli studenti). L’argomento interessa, a giudicare dallo spazio che i giornali gli dedicano; e merita di essere conosciuto perché solo così si evita di eliminare quel che dell’università viene ancora apprezzato, risultati di certe ricerche, cure mediche (si veda Elisir in TV) e altre prestazioni professionali. Fra gli aspetti sfuggiti alla critica uno riguarda il modo in cui viene regolato il reclutamento dei docenti. Lo aveva già fatto il precedente Governo con un Regolamento del Ministro Mussi, talmente farraginoso, a giudizio del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, che lui stesso aveva finito per bandire i concorsi col precedente sistema di regole (dimostrando che per regolare materie delicate occorre conoscerle bene, senza supponenza verso le regole poste dai predecessori). Come vecchio docente universitario (non esente quindi da tentazioni corporative) vorrei invece attirare l’attenzione sul modo in cui avviene il reclutamento iniziale dei ricercatori, da cui si attingono poi i docenti a pieno titolo. Il buon giorno si vede dal mattino. Espongo quindi come avviene il reclutamento iniziale nell’Università. A differenza di quasi tutti gli altri, questo concorso non mira (non deve mirare) ad appurare solo conoscenze specifiche e capacità di farne applicazione, come avviene in magistratura, nelle Poste e in genere nelle amministrazioni statali e locali, ma deve appurare il possesso di capacità critiche indispensabili per giungere a nuove conoscenze (o “scoperte”) di cui la conoscenza della materia è solo un presupposto; perciò l’attitudine a un tale ruolo creativo non si può appurare nel tempo di un concorso, ma solo attraverso il lavoro di ricerca e i suoi risultati. E deve quindi passare molto tempo. Ignorare questo aspetto è fuorviante. Dunque, al momento del concorso la valutazione è già compiuta (adeguatamente e onestamente o no, come dappertutto). Di più, il concorso viene bandito quando si è sicuri che vi sia almeno una persona, il candidato interno, in grado di superarlo; anzi, se si opera onestamente, un candidato di cui si è accertata, in lunghi anni in cui esso ha svolto (di regola gratuitamente o quasi) attività di ricerca, la chiara attitudine. Il che è più facile avvenga nei confronti di una persona che già opera all’interno dell’Università che bandisce, non essendo molto sensato e perfino controproducente che chi ha acquisito una formazione seguendo certi metodi (le c.d. “Scuole”), vada a lavorare in una equipe che ne segue di totalmente diversi, in un campo totalmente diverso e con finanziamenti esterni che comportano la non divulgazione fino al brevetto. Ma v’è un altro aspetto da non trascurare. Si troverebbe qualcuno (in qualunque settore di lavoro) disposto ad affinare le proprie capacità lavorando quasi gratis e rinunciando a sistemazioni meglio retribuite (a proposito perché l’università non può offrirle e Parlamento e Banca d’Italia per i propri funzionari si?) per poi (mediamente dopo sette anni, in un’età in cui mettere su casa e fare figli... per non restare “bamboccioni”) vedersi messo fuori (anche se in ipotesi a favore di un migliore di lui)? E’ illogico o sconveniente tutto questo? Certamente no; anzi è un modo corretto di procedere, che tiene conto delle esigenze della selezione che si deve fare. Che poi qualcuno ne approfitti e operi disonestamente, questo vale per ogni regola, quella non eludibile essendo ancora da inventare. E va combattuto miratamente, ad esempio escludendo per sempre il valutatore dal diritto di valutare. Quantomeno, per rendere la cosa accettabile, umanamente oltre che logicamente, occorre assicurargli di poter spendere in un altro settore la professionalità acquisita, anche per non disperderla, il che sarebbe un danno anche per la collettività che ha sovvenzionato la sua formazione. Tutto bene quindi? No sicuramente. La disfunzione del sistema c’è, ma ha un’altra origine, che si scopre continuando a scorrere il percorso selettivo, o meglio la vicenda della selezione dei ricercatori. Il fatto è che quando si bandisce il concorso di reclutamento dei ricercatori la selezione è già avvenuta quando il singolo docente ha deciso di avviare alla ricerca un giovane appena laureato, consentendogli di iniziare un precorso formativo lungo diversi anni, altrimenti impossibile, specie nelle materie scientifiche dove l’accesso è inevitabilmente precluso agli estranei; col rischio che se al suo termine.... le rose non sono fiorite, si sia indotti a introitare comunque il selezionato per non... lasciarlo sulla strada (o per ragioni meno apprezzabili). Dire come rimediare sarebbe lungo, ma si può tentare di sintetizzare, riservando i particolari a chi si dimostri interessato a conoscerli. La selezione va anticipata al momento in cui si decide chi avviare allo studio e alla ricerca. E deve essere pubblica, mediante concorso; mentre ora avviene come negli studi professionali, cioè nel settore privato, ad assoluta discrezione di chi recluta, senza che nessuno se ne accorga, mentre si tratta di incarichi pubblici. Completato il periodo stabilito per la formazione si deve semplicemente valutare (in sede nazionale, per evitare favoritismi, più agevoli dove il giudizio avviene senza concorrenza) se si siano acquisite e palesate le doti essenziali del ricercatore scientifico. Chi supera il giudizio opera stabilmente nell’Università; chi no, può utilizzare la formazione acquisita (inadeguata per fare ricerca, ma sempre di ottimo livello) a favore di altre amministrazioni pubbliche, ad iniziare dalla scuola, cui dovrebbe avere diritto di accedere automaticamente (come avveniva per gli assistenti universitari che non avessero conseguito la libera docenza); anzi, ad evitare frustrazioni, sarebbe meglio invertire: fare accedere alla formazione in ricerca chi si è distinto in concorsi per l’accesso a pubbliche amministrazioni, già guadagnandosi il “posto”. Del resto allo stesso scopo può valere egregiamente l’ammissione al dottorato di ricerca, riservando poi il concorso di ingresso all’Università a chi abbia conseguito il titolo. Tutto qui. * docente di Diritto amministrativo Università di Pisa _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 gen. ’09 CAGLIARI: COMUNE BOCCIA IL CAMPUS DELL’UNIVERSITÀ Motivo: c’è troppo cemento e non si integra col tessuto urbano attorno di Alessandra Sallemi CAGLIARI. Poker di superdelibere ieri in Comune. La giunta ha approvato il piano regolatore del porto, lo studio per sistemare la zona di Su Stangioni e quindi mettere in moto l’edilizia popolare, il piano di utilizzo dei litorali (sul quale si decideranno quante concessioni resisteranno nelle spiagge), infine ha bocciato il campus dell’Ersu nell’ex semoleria. Attenzione alle parole: nella delibera si parla di residenza universitaria, non di campus. Perché secondo il Comune quello dell’Ersu è un albergone bellissimo da 1.600 persone dove, su 2 ettari, per ogni studente non ci sarebbero più di 10 metri quadri. L’assessore all’urbanistica Gianni Campus spiega che «si può perfezionare il degnissimo progetto di realizzare nell’ex Semoleria un luogo per studenti», ma che «bisogna rivedere l’impostazione e la quantità» del progetto. Tutto, insomma. Perché secondo il Comune, così concepito, il progetto costruisce residenze per studenti senza spazi e senza scambi con la città attorno (il porto e la via Roma). Inoltre il progetto sostenuto dall’Ersu non terrebbe conto delle necessità patrimoniali, quindi erariali, del Comune perché non si è trovato un accordo su cosa dare in cambio alla città una volta cancellato il silos che, nel progetto precedente sulla stessa zona (con la società Edilia), doveva diventare un edificio comunale destinato ad archivio. «Il progetto Ersu in sé è bellissimo - dice Campus - ma bisogna capire che un corpo sociale come quello degli studenti e il grande porto, fisicamente proprio lì adesso ridisegnato dal piano regolatore, non possono non integrarsi, non si può progettare la città per incidenti successivi. Nell’ex Semoleria si sta disegnando un pezzo di città, non si può creare segregazione ulteriore: Cagliari gli studenti li deve vedere, non sistemarli in un ricovero seppure di lusso». Con il no al progetto dell’architetto brasiliano Paulo Mendes da Rocha, viene dato un altro colpo a uno dei temi residui dell’accordo di programma Regione-Comune, bocciato dal consiglio comunale con uno strascico di polemiche nella maggioranza di centrodestra (il sindaco l’aveva firmato, la sua coalizione gliel’aveva bocciato). Di quell’accordo facevano parte la riorganizzazione degli uffici della Regione lungo l’asse viale Trieste-viale Trento; il cosiddetto studentato (perché Cagliari si accorgesse finalmente dei 40 mila ragazzi che la tengono lontana da morte sicura); la resurrezione di Sant’Elia. L’idea di costruire un accordo era buona perché, data la vastità degli argomenti, era ragionevole credere che sarebbe stato più facile trovare il modo di equilibrare gli aspetti patrimoniali: la Regione investiva molto e chiedeva molto, al Comune bisognava restituire molto. In attesa di leggere la delibera della giunta, l’assessore regionale alla Pubblica istruzione, Maria Antonietta Mongiu, non nasconde il suo stupore: «Sono impressionata, mille volte ci siamo incontrati... c’è il progetto di un grande architetto per l’università, per gli studenti, cui in passato si rifilava l’invenduto e questa è la risposta del capoluogo? La risposta alla Sardegna: perché gli studenti a Cagliari vengono da tutta l’isola...». C’è il problema delle cubature in eccesso: «C’è un problema di numeri, gli studenti sono un certo numero, è meglio quindi che una parte di loro resti ostaggio di chi affitta in nero? Devono avere il coraggio di dire che non lo vogliono fare, Cagliari volta le spalle alla Sardegna, alla società della conoscenza, al futuro». Sulle altre delibere varate ieri mattina: Cagliari diventa una città portuale; lungo l’asse nord-est nascerà un quartiere per 2.600 persone con strade, servizi pubblici e senza rischi idrogeologici (alluvione). _______________________________________________________________ Corriere della Sera 30 gen. ’09 FINANZIARE GLI STUDENTI CONVIENE ANCHE ALLE BANCHE Prestito d' onore I tassi, gli importi e la durata dei crediti per lo studio Insolvenze quasi nulle, rimborsi con gli stipendi di domani Le offerte di Intesa, Unicredit, Banca Marche e Sella Diverse decine di atenei in tutta Italia sono convenzionati con gli istituti di credito Prestare soldi agli studenti? Un affare, per le banche italiane. E' quanto emerge dai dati - i primi usciti finora - di Intesa Sanpaolo, il primo istituto in Italia ad aver lanciato il prestito d' onore nel 2004, con "Prestito Bridge". Il rischio di insolvenza, cioè la non restituzione del finanziamento, è risultato praticamente pari a zero. «Su 700 studenti che hanno cominciato a ripagare il debito soltanto uno non è in regola con le rate - dice Marco Morganti, responsabile del Laboratorio Banca e Società di Intesa Sanpaolo -. Il che significa un tasso di insolvenza dello 0,14%, quasi nullo». Alla banca conviene, dunque, per l' affidabilità del debitore. Ma i primi a guadagnarci da questo finanziamento, che nel resto d' Europa è molto diffuso, sono gli studenti, che hanno la possibilità di finanziarsi gli studi senza dover offrire garanzie patrimoniali (la garanzia è appunto l' onore) e ottenere un prestito a tasso fisso e agevolato. «Il tasso che applichiamo è pari all' Interest Rate Swap (IRS) a 6 anni più uno spread dell' 1,6%», spiega Morganti. Se calcolassimo il tasso del finanziamento in questi giorni sarebbe intorno al 4-5%. A titolo di paragone il tasso dei prestiti personali è pari al 9,25%. Ma come si fa a ottenerlo? Bisogna essere al terzo anno della laurea triennale, alla specialistica o a un master e dimostrare di avere una costanza di rendimento nello studio. Si può richiederlo online oppure alla propria università, a patto che si sia convenzionata (con Intesa Sanpaolo lo sono una cinquantina tra atenei e istituti di istruzione universitaria). Chi ha i crediti necessari ottiene l' apertura di un conto corrente su cui è reso disponibile il prestito, che è di massimo 15 mila euro in tre anni suddiviso in tranche da 2.500 euro ogni sei mesi e di 30 mila per il master. La restituzione del prestito comincia un anno dopo aver terminato gli studi (cosiddetto periodo di "moratoria" o "di grazia") e avviene in otto anni, con rate mensili costanti. Una tipologia molto simile di prestito è offerta anche da Unicredit, con "Ad Honorem". Il massimo che si può ricevere è 25 mila euro, con un tasso di interesse fisso pari all' IRS a 3 mesi più uno spread dell' 1,45% e un periodo di rimborso che può arrivare a 17 anni. Rispetto a Intesa Sanpaolo, il numero di università convenzionate è inferiore (6 contro oltre 50). Dal 2005 anche Banca Marche offre agli studenti il prestito "Magna Charta". Possono beneficiarne gli studenti residenti nelle Marche e quelli iscritti ai corsi organizzati dagli Enti formatori con cui la Banca ha stipulato la Convenzione. L' importo massimo varia da 12 mila euro per il biennio specialistico a 36 mila euro per il dottorato di ricerca. Il tasso di interesse è l' Euribor a 6 mesi (oggi al 2,3%) più uno spread del 2,45%. Per finanziare il master, è possibile richiedere un prestito anche a Banca Sella, che concede fino a 50 mila euro. Il rimborso comincia 6 mesi dopo il termine del master, con un tasso di interesse pari all' Euribor a un mese più uno spread del 3%. Fausta Chiesa * * * I numeri Marco Morganti responsabile del Laboratorio Banca e Società di Intesa Sanpaolo: «Su 700 studenti che hanno cominciato a ripagare il debito soltanto uno non è in regola con le rate. Il che significa un tasso di insolvenza dello 0,14%, quasi nullo» * * * Chiesa Fausta ____________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Feb. ’09 RATZINGER SALE IN CATTEDRA Il papa professore: dagli esordi accademici al famoso e controverso discorso sull'Islam tenuto all'università di Ratisbona nel 2006 di Gianfranco Ravasi Mentre fai lezione, il massimo è quando gli studenti lasciano da parte la penna e ti stanno a sentire. Fin ché continuano a prendere appunti su quello che dici vuol dire che stai facendo bene, ma non li hai sorpresi. Quando lasciano cadere la penna e ti guardano mentre parli, allora vuol dire che forse hai toccato il loro cuore». Così confessava il professor Joseph Ratzinger all'amico teologo (e suo "prefetto" in Seminario) Alfred Lapple, introducendo una suggestiva distinzione tra l'insegnante e il maestro. E al Ratzinger professore, agli «anni di studio e di insegnamento nel ricordo dei colleghi 'e degli allievi», tra il 1946 e il 1977, Gianni Valente ha dedicato un profilo delizioso e accurato (San Paolo, pagg. zoC, € y,oo). Si parte dagli anni seminaristici a Frisinga, appena usciti dalle macerie della Seconda guerra mondiale, si passa poi alle tappe progressive in cui lo studente diventa docente, da Bonn a Miinster, da Tubinga all'amata Regensburg. Questo itinerario, costellato dì memorie spesso gustose, ma anche scandito dal tracciato di ricerche ché si cristallizzano in opere famose (c'è> in finale, anche il prospetto di tutti i corsi semestrali tenuti dal professor Ratzinger dal 1959 al i977), approda - dopo il largo spazio riservato alla vicenda conciliare -a chi è «per sempre professore», ossia a quello Schillerkreis di ex- alunni che il Ratzinger-pontefice continua a convocare in seminari estivi, aperti ad altri studiosi, nella residenza papale di Castelgandolfo. Ma nell'immaginario collettivo e nella stessa pubblicistica (spesso solo per gli echi impropri da essa registrati) la lezione capitale del Papa rimane quella tenuta il 15 settembre 2006 nell’auditorium della sua antica sede di docenza, l'Università di Regensburg/Ratisbona. Su di essa si è acceso non solo il clamore dei media e il frastuono di certi ambienti musulmani, per ìl particolare della diatriba tra il dotto persiano e l'imperatore bizantino Manuele II Paleologo, ma si è anche esercitata l'acribia degli interpreti. A raccoglierne uno stuolo, pronti a incrociare le loro argomentazioni critiche o difensive di que11'indubbiamente importante lezione, sono ora due diversi volumi. Il primo, curato da Knut Wenzel, s'intitola Le religioni e la ragione (Queriniana, Brescia, pagg. 158, € 13,00) e convoca otto esperti a vario titolo, tra i quali è d'obbligo segnalare Júrgen Habermas, che nel farsi carico degli interrogativi posti dalla religione vede un antidoto al disfattismo che s'annida nella ragione moderna, e Aref Ali Nayed, un intellettuale musulmano che vaglia dal suo osservatorio quel discorso. L'altro volume, curato da Luca Savarino e pubblicato dall'editrice valdese Claudiana di Torino, è posto all'insegna di un dilemma, Laicità della ragione, razionalità della fede? (pagg. 192, € 16,oo), e propone un panel di studiosi italiani di tutto rispetto (Barcellona, Coda, Ricca, Tronti, Zagrebelsky, tanto per fare qualche nome), ma punta soprattutto sull'articolo critico che il vescovo luterano di Berlino, Wolfgang Huber, pubblicò poche settimane dopo l'intervento papale di Regensburg sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung». Il dibattito si allarga dal cuore del rapporto tra fede e ragione alle ramificazioni molto complesse e incandescenti dell'incontro-scontro tra religione e modernità o tra fede e laicità. Se poi volessimo ampliare l'orizzonte rivolgendoci al magistero pontificio di Benedetto XVI (intendiamo, però, il termine "magistero" nel senso più lato di insegnamento ecclesiale), allora avremmo solo l'imbarazzo della scelta. Forse soltanto il principe dei bibliografi italiani, Giuliano Vigini, saprebbe indicarci quanti titoli sono sul mercato librario attuale sotto il nome del Papa. Noi ora ne segnaliamo un trittico recente che riteniamo significativo. È noto che il Papa ogni mercoledì, nell'ambito dell'udienza generale, tiene una catechesi che ha un soggetto monografico articolato in più lezioni. L'anno paolino, che commemora il bimillenario della nascita dell'apostolo, ha così visto una serie di discorsi su Paolo e i primi discepoli di Cristo, raccolti in un elegante volume dalla Libreria Editrice Vaticana (pagg. 86,,E 14,oo): accanto all'apostolo sfilano Stefano, il protomartire cristiano, vari collaboratori di san Paolo come Timoteo e Tito, Aquila e sua moglie Priscilla, Barnaba, Silvano e Apollo, ma anche la fitta sequenza femminile presente nel Nuovo Testamento. Altro tema affrontato da Benedetto XVI è stato quello delle Catechesi sui Padri della Chiesa, a partire da Clemente Romano (I secolo) fino a Gregorio Magno (VI secolo), in una galleria che comprende ben 33 figure, ora raccolte in unità (Libreria Editrice Vaticana - Città Nuova, pagg. 226, € i4,oo). Accompagnata da una bella nota introduttiva di Giovanni Maria Vian (che, oltre a essere direttore dell'«Osservatore Romano», è un importante studioso di letteratura cristiana antica), la silloge brilla per il rilievo riservato dal pontefice all'amato sant'Agostino che è presentato in ben cinque catechesi. Infine, ecco un'antologia di Pensieri sulla Parola di Dio di Benedetto XVI, una selezione approntata da Lucio Coco, in connessione col recente Sinodo dei Vescovi dedicato proprio a questo tema (Libreria Editrice Vaticana, pagg. n8,£ 8,00). È come un arcobaleno testuale che fa splendere aspetti diversi di una Parola che è «lampada per i passi» del credente sul sentiero della vita. In appendice vogliamo ritornare al Ratzinger professore per una segnalazione che in verità meriterebbe un'apposita recensione. A cura di Sergio Ubbiali viene ora riproposto un famoso saggio del 1977, l’ultimo pubblicato prima di assumere la carica di arcivescovo di Monaco di Baviera: Escatologia, morte e vita eterna (Cittadella, pagg. 300, € a3,9o). Non è solo il tema a renderlo sempre attuale, ma è anche l'approccio che ha spunti molto originali: si legga, in particolare, il capitolo che ha per oggetto l'immortalità e la questione della dimensione personale dell'escatologia. È poi significativo che, a distanza di trent'anni, lo stesso Benedetto XVI abbia voluto scrivere una nuova prefazione all'opera ove segnala i limiti stessi della sua trattazione, tenendo conto degli ulteriori sviluppi della teologia registrati in questi ultimi decenni, nella certezza però che «pur con tutte le proprie insufficienze, il mio tentativo possa ancora aiutare a comprendere meglio la speranza che la fede in Cristo ci dona e a coglierla nuovamente come la promessa a noi contemporanea». ____________________________________________________ Il Sole24Ore 25 gen. ’09 BIOLOGIA: NON IMPOVERITE LA MENTE A due secoli dalla nascita di Darwin, il tentativo di ridurre le scienze umane alla biologia mostra i suoi limiti. Molte attività mentali, dall'etica alla coscienza, non sono spiegabili in laboratorio di Michele Di Francesco A duecento anni dalla nascita di Darwin, il processo di naturalizzazione degli esseri umani sembra avvicinarsi alla conclusione. O almeno così pare a molti. Dopo che biologia e genetica hanno aperto la strada alla spiegazione della vita, sembra ora giunta fora di mente e società. Grazie allo sviluppo delle scienze del cervello, della psicologia evoluzionistica e delle scienze sociali cognitive, non solo i fenomeni mentali appaiono sempre più comprensibili e riconducibili alla rete esplicativa delle scienze biologiche, ma lo stesso sembra valere per società e cultura, etica ed economia, estetica e politica. Un chiaro sintomo di questa tendenza è il proliferare del prefisso "neuro", associato ai più svariati campi di indagine, quali neuroetica, neuroeconomia neuroestetica, neuropolitica, neuromarketing, e il conseguente profluvio di spiegazioni di questa o quella azione sulla base dell'attivazione del tale o tal'altro circuito cerebrale. Siamo quindi alla vigilia del superamento dell'annosa distinzione tra scienze naturali e scienze umane, operato attraverso l'assimilazione delle humanities alle scienze? Nel 1986 la filosofa statunitense Patricia Smith Churchland coniò il termine "neurofilosofia" per indicare un nuovo modo di concepire lo studio della mente> non più basato sull'analisi filosofica a-priori; ma sulle evidenze empiriche circa il funzionamento cerebrale. Si trattò di una mossa coraggiosa e profetica. Sottrarre il dominio del mentale alla filosofia per affidarlo alla scienza significava accettare una scommessa rischiosa, resa apparentemente vincente dal successivo tumultuoso sviluppo delle neuroscienze cognitive. L'emergere di nuovi settori di ricerca come la psicologia evoluzionistica, che pone lo studio del mentale in una cornice darwiniana e ne accentua il ruolo sociale, sembra avere aggiunto un ulteriore tassello al mosaico, aprendo la strada alla spiegazione neurale delle basi della nostra vita collettiva. Ciò che ci rende umani, la mente, il linguaggio, la società, la cultura, appare dunque (in questa sommaria ricostruzione) come fondato su proprietà cerebrali. Fino a che punto ciò è vero? Fino a che punto questo ruolo fondazionale delle scienze del cervello è giustificato dallo stato della ricerca reale e non da una sua lettura ideologica? La questione è complessa. Da un lato sottovalutare la rilevanza delle neuroscienze per la comprensione della natura umana sarebbe un grave errore. Per citare solo due punti tra i molti possibili, le scienze del cervello ci hanno insegnato che il pensiero è radicato nel corpo; il che significa che per capire la mente occorre capire il cervello e le sue funzioni. Il secondo punto è che se accettiamo il contributo dell'organizzazione cerebrale alla costruzione della realtà sociale, allora dobbiamo abbandonare quello che è stato definito «il modello standard delle scienze sociali», rinunciando all'idea dell'onnipotenza di linguaggio, educazione e cultura nel plasmare la mente umana. AL contrario, percezione, memoria, apprendimento, facoltà linguistica si realizzano nel contesto di vincoli biologici. E analogamente è plausibile (mala cosa èpiù controversa) chele stesse istituzioni sociali si formino sfruttando capacità biologiche selezionate dall'evoluzione per risolvere problemi specifici, quali la necessità di comprendere gli stati mentali che guidano l'agire altrui. AL di là dei dettagli, una forma temperata di naturalismo sembra in grado di correggere la mitologia culturalista, per produrre una visione degli esseri umani che dia il giusto peso alla biologia e all'evoluzione nella descrizione della natura umana. Ma qual è il giusto peso? Il riferimento alle scienze del cervello individua sempre la spiegazione privilegiata? Io credo che, come non dovremmo ridurre labiologia alla genetica, così occorre andar cauti nel ridurre lo studio della mente alla sola scienza del cervello. Quelli che sono possibili sono gradi diversi di integrazione. Prendiamo il caso della neuroeconomia, lo studio delle basi neurali delle decisioni economiche. Qui il quadro teorico è favorevole all'integrazione e alla co-evoluzione tra spiegazioni di livello differente: abbiamo infatti le teorie matematiche sviluppate dall'economia classica e quelle psicologiche sviluppate nell'ambito dell'economia cognitiva e sperimentale che offrono una serie di ipotesi chiare e determinate da sottoporre al confronto con le neuroscienze. Ma persino in questo caso favorevole le ricerche di neuroeconomia non si riducono a un unico paradigma metodologico, e rivelano piuttosto una pluralità di approcci, strategie esplicative e livelli di descrizione. Ciò vale a maggior ragione quando il campo da ricondurre al dominio delle scienze del cervello ha a che fare con ambiti molto meno "formalizzati" e concettualmente definiti, quali l'etica e l'estetica. E questo è solo il principio. Se non vogliamo impoverire la nozione di mente considerando irreale ciò che non si può portare in laboratorio, dobbiamo riconoscere che esistono una molteplicità di aspetti del mentale per la cui comprensione lo studio del cervello potrebbe risultare necessario ma non sufficiente. Tra essi citiamo la spiegazione della coscienza e della soggettività; il ruolo di linguaggio e cultura nell'autocoscienza; quello dell'autocoscienza e delle relazioni interpersonali nella genesi dell’io; la possibilità di una spiegazione del contenuto mentale che possa parlare solo di stati interni al cervello senza coinvolgere il mondo su cui vertono. Naturalmente è legittimo sostenere che le spiegazioni neurobiologiche sono "più fondamentali" rispetto alle altre. Ma il punto cruciale è che questo assunto è una tesi filosofica e non scientifica. Non si basa su dati di fatto, ma su una loro interpretazione, che coinvolge complesse discussioni metafisiche ed epistemologhe (quali la validità del fisicalismo, la natura della spiegazione causale, l'idea di livelli di realtà). E evidente che questo tipo di discussioni non si decide enumerando quante volte la parola "neurone" compare, ma si gioca sulla cogenza delle premesse e dell'analisi concettuale implicata. Ben venga quindi la neurofilosofia come importante strumento di comprensione. Pretendere invece che sia l'unico o anche solo quello privilegiato è un'affermazione non supportata dai fatti, e forse ____________________________________________________ La Stampa 31 gen. ’09 GLI SCIENZIATI CREDONO O SANNO? SCIENZIATI, SCRITTORI, ARTISTI NEL SITO INTERNET DI BROCKMAN: A VOLTE LE GRANDI MENTI RIESCONO A INTUIRE LA VERITÀ PRIMA DI AVERNE LE PROVE Quando la scienza fa sosta al bar sport PIERO BIAIVliCCI Gli scienziati credono o sanno? Forse per poter sapere prima devono credere. La fede, sia pure non quella religiosa, sarebbe il vero motore della scienza. E' la tesi paradossale di Non è vero ma ci credo (titolo rubato a una commedia di Peppino de Filippo), libro che raccoglie le opinioni di un centinaio tra i più brillanti fisici, astronomi, matematici, biologi e psicologi, ma anche scrittori, artisti, divulgatori e registi, che si riuniscono nel salotto virtuale dell'agente editoriale John Brockman: il sito www.edge.org. Edge significa bordo. Siamo sulla frastaglia frontiera della ricerca che separa il noto dall'ignoto, dove è lecito fare ipotesi folli e affermazioni scientificamente scandalose. Per attirare il suo club di cervelli su un terreno così scivoloso Brockman ha lanciato su Edge questa provocazione: «A volte le grandi menti riescono a intuire la verità prima di averne le prove. In che cosa credi anche se non puoi provarlo?». Una credenza diffusa ma non provata è l'esistenza di altre forme di vita nell'universo. Con varie sfumature. Martin Rees, cosmologo al Trinity College di Cambridge, pensa che, anche se la nostra civiltà fosse l'unica, si espanderà fino a colonizzare il cosmo e a renderlo «intelligente». AL punto che i nostri lontani discendenti sapranno persino «dare origine a nuovi universi» ubbidienti a leggi fisiche da essi prestabilite, cioè universi geneticamente modificati. Paul Davies invece crede che la vita sia già onnipresente, in pieno accordo con Craig Venter, il genetista-imprenditore che ha mappato il genoma umano. Il biologo Richard Dawkins è convinto che la selezione darwiniana agisca anche sulle specie aliene: tesi non innocua, perché presuppone che l'Evoluzione preceda il Progetto, e non viceversa. Sarebbe interessante un commento di papa Ratzinger. Più modestamente, il fisico Kenneth Ford pensa che «ovunque nella nostra galassia esista una vita microbica» (il paradiso per le multinazionali degli antibiotici). Ci sono i lapalissiani: «Credo che niente sia vero finché non viene dimostrato» (Maria Spiropulu, fisico sperimentale al Cern di Ginevra). I settari: Philip Anderson, Nobel della fisica, crede che la teoria delle stringhe sia vuota e sottragga intelligenze creative a ricerche più importanti. I sofisti: «Credo nel credere» (Tor Norretranders, scrittore). I romantici: «Credo nel vero amore», David Buss, psicologo, Università del Texas. Gli esteti: Leon Lederman, Nobel della fisica, crede nella bellezza intesa come simmetria, e se la simmetria è violata, apre la strada a una bellezza di ordine superiore. Gli ovvi: l'ambientalista Schneider (Stanford University) crede nel riscaldamento globale. I minimalisti: Freeman Dyson, illustre fisico teorico, è convinto, ma non sa dimostrarlo, che mai il contrario di una potenza di 2 sia una potenza di 5. Esistono anche i sognatori. La biologa Stuart Kaufman spera che esista una «quarta legge della termodinamica» che fa esistere nell'universo tante biosfere come la nostra, l'informatico Ray Kurzweil è sicuro che nel trasmettere informazioni supereremo la velocità della luce, molti non si rassegnano all'idea che non esista qualche forma di esistenza al di là della morte. I neuroscienziati, com'è giusto, sono ossessionati dal rapporto tra il cervello fisico e la mente immateriale che ne emerge. Ma poi arriva Alun Anderson, già direttore di «New Scientist» e smitizza: «Io credo che gli scarafaggi abbiano una coscienza». Insomma, ancora un passo oltre il «bordo», e ci troviamo al Bar Sport. Ma il libro messo insieme da Brockman, benché corra il rischio del gossip, ha il merito grande di far riflettere sulla dialettica tra intuizione, teoria ed esperimento in modo estremamente concreto. Ci ricorda che la scienza è fatta di domande più che di risposte, di fantasia più che di arida razionalità. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 27 gen. ’09 PIÙ FONDI CONTRO LO SCIPPO DEI CERVELLI PAVIA - «Accogliamo l' incitamento foscoliano a perseguire l' utile della gioventù e l' amor del vero. Che continui a essere così. Con questo auspicio e con questa consapevolezza, invito tutti a guardare con serenità, nonostante tutto e affidandoci al presidente Napolitano, all' apertura di questo anno accademico». Angiolino Stella, rettore dell' Università degli studi di Pavia, stempera la sua amarezza cercando lo sguardo del presidente. Davanti ai 290 ospiti che ieri mattina hanno gremito l' aula Magna dell' Università di Pavia per l' inaugurazione dell' anno accademico e della mostra dedicata all' orazione foscoliana, il rettore ha affidato a Giorgio Napolitano il futuro delle giovani menti e quello dei ricercatori «emigrati all' estero». «I Paesi vicini - ha detto Stella richiamando l' attenzione di Giulio Tremonti, seduto in prima fila accanto a Umberto Bossi -, pure in una fase molto difficile, investono con decisione nella ricerca. Basti pensare che la Germania ha stanziato 1,9 miliardi di euro nella formazione universitaria, mentre in Francia la "legge Pécresse" prevede un investimento di 5 miliardi in 5 anni per elevare il livello della qualità. Se non si corre ai ripari non è difficile prevedere un notevole incremento della fuga dei cervelli. Noi li formiamo e poi fuggono all' estero per sopravvivere». E il rettore affonda citando Foscolo: «Il poeta si chiedeva come fare a difendersi dagli stranieri che usurpano le nostre arti e scippano le nostre migliori menti. Oggi bisogna lanciare un messaggio di fiducia e di speranza, prima che sia troppo tardi. Privilegiare la qualità, finanziando i giovani ricercatori, dovrà diventare un percorso obbligato...». Nella speranza che il nuovo anno accademico, numero 1184 dal Capitolare di Lotario, prosegua nel segno dei giovani ricercatori, affidati dal rettore alla coscienza del presidente Napolitano e al portafoglio del ministro Tremonti. Giuseppe Spatola Spatola Giuseppe ____________________________________________________ Tutto Scienze 28 gen. ’09 AI CONFINI DELLA COSCIENZA Nuovi studi cercano di capire quando la corteccia cerebrale si spegne davvero La risonanza magnetica funzionale apre la strada per diagnosi più sicure e a, prova di etica FRANCESCO MONACO UNIVERSITA' A. AVOGADRO DEL PIEMONTE ORIENTALE - NOVARA Il titolo del famoso film di George A. Romero «La notte dei morti viventi» ben si adegua alla rappresentazione fantastica dello scenario, ahimè invece assolutamente realistico, della folta schiera di innumerevoli pazienti, in aumento costante grazie ai progressi della medicina rianimatoria, affetti da malattie devastanti del sistema nervoso che coinvolgono o la coscienza o il controllo dei movimenti - o entrambe queste funzioni del cervello in maniera irreversibile - senza tuttavia provocare la morte effettiva, cioè la cessazione completa di tutte le funzioni vitali. Gli esempi di questi casi vanno, per il primo gruppo, dai pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer (con grave decadimento mentale) sino allo stato vegetativo persistente e coma irreversibile; per il secondo, dalla sclerosi laterale amiotrofica (SLA) a sindromi simili come quella detta «locked in» (letteralmente da inlucchettamento), ovvero malattie in cui l'individuo è completamente paralizzato ai 4 arti (tetraplegico), mantenendo tuttavia la coscienza pressoché perfettamente integra. Un sottogruppo della prima popolazione è inoltre costituito da bambini con gravi lesioni cerebrali congenite o acquisite. Tutti questi pazienti rappresentano oggi i «testimonial» più estremi e, va detto, coraggiosi della frontiera bioetica, poiché loro stessi (nel caso della SLA o simili) o i loro familiari o tutori, nei casi di pazienti cognitivamente impediti o comunque inabilitati, interpellano noi tutti, e non solo la classe medica, quotidianamente e sempre più spesso su questioni fondamentali dell'esistenza, come quelle del senso della vita e della morte, incluso il dilemma dell'eutanasia (vedi i casi Welby, Englaro e molti altri). Le neuroscienze sono quindi in primo piano e sotto i riflettori del mondo mediatico. Ci potranno aiutare a decidere se un paziente è vivo 0 morto in maniera definitiva? Oggi la morte cerebrale viene stabilita giustamente con l'impiego dell'elettroencefalografia, ovvero una metodica neurofisiologica, ma le «onde» cerebrali, pur modificandosi, non scompaiono del tutto in nessuno dei casi descritti e sono addirittura normali nelle patologie del solo movimento (come SLA). Un'alternativa è senz'altro rappresentata dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI), ovvero dalla tecnica derivata dalla risonanza magnetica classica che permette di valutare l'attivazione metabolica delle aree cerebrali mentre si compiono atti mentali. Come si può intravedere, la metodica è innovativa e per certi versi rivoluzionaria, perché ci consentirà di avvicinarci alla conoscenza dei meccanismi più intimi del cervello, tra i quali, in ultima istanza, quelli della coscienza e, perché no, dell'anima (due termini che per un neurobiologo sono sinonimi). Studi pioneristici del gruppo di Steven Laureys del «Cyclotron Research Center» di Liegi hanno, tra l'altro, dimostrato che alcuni soggetti in stato vegetativo persistente non sono del tutto privi di coscienza. Ciò naturalmente complica le cose, perché da un lato non è detto che avere certe zone del cervello deputate alle emozioni (come l'amigdala) ingrandite oppure il metabolismo o i flusso cerebrale aumentato diminuito in una determinata area voglia «sic et simpliciter», cioè automaticamente dire che quella mente pensa più o meno bene o prova sentimenti più o meno buoni. Bisogna stare molto attenti alle derive pseudo tecnologiche. Negli Usa il mondo giuridico st già iniziando a richieder l'avallo delle neuro immagiri (cioè la risonanza magnetica in casi di criminalità, quasi ravvisare in tale metodica un moderna alternativa alla desueta «macchina della verità». In altri termini, proviamo a vedere come sono e come si attivano certe aree del cervello mentre l'imputato parla del delitto. Lo stesso dicasi per altre situazioni. Judy Illes, direttrice del programma di neuroetica presso lo «Stanford Cente for Biomedical Ethics», racconta di aver osservato, duran te una coda per i controlli i aeroporto, due persone ch commentavano: «Adesso c scansionano il cervello!». Sono da ricordare anche le fondamentali ricerche neurofisiologiche del gruppo di Giacomo Rizzolatti dell'Università di Parma che hanno portato alla scoperta dei «neuroni specchio» nel cervello, dotati della sorprendente proprietà di attivarsi sia quando compiamo una data azione sia quando vediamo che altri la fanno (concetto di apprendimento per imitazione). Questa non è stata solo un'originale esplorazione dei meccanismi nervosi che sono alla base di molti dei nostri comportamenti individuali e sociali, ma un'innovativa indagine sull'evoluzione dell'intelligenza e delle emozioni (concetto di empatia), del pensiero e del linguaggio. Quattrocento anni dopo che Cartesio ci ha «condannato» a pensare in maniera dualistica (da una parte la mente e dall'altra il corpo), forse e finalmente, oggi, grazie proprio ai progressi delle neuroscienze, anche nei loro aspetti problematici, riusciamo ad avvicinarci, con più libertà e senza remore ideologiche, alla conoscenza dei processi più basilari di funzionamento del sistema nervoso. In effetti si sta avverando la profezia del grande - neuroanatomico spagnolo Santiago Ramon y Cajal (premio - Nobel 1906), il quale, studian do al microscopio, come un entomologo, nel «giardino fiorito» della sostanza grigia cere- brale i neuroni, che egli definiva splendide «farfalle dell'anima», si augurava che il loro i battito d'ala avrebbe potuto, un domani, svelare, chissà?, i misteri della mente. ____________________________________________________ Il Sole24Ore 29 gen. ’09 L'ICT TRA OLISTICO E REALTÀ DI FRANCESCA CERATI Nailah Binti Abdullah viene da lontano, e ha i numeri per arrivare lontano. Malese, di Kuala Lampur, a 3o anni è ricercatrice al National institute of informatics di Tokyo dove si occupa di una nuova frontiera: la collaborazione crossdomain all'interno del web, con una visione olistica dell'informatica. Timida e aggraziata, sembra una ventenne, ma appena inizia a raccontare della sua vita e del suo lavorò emerge la sua vena determinata e appassionata di tecnologia con un bagaglio di esperienze personali e professionali piuttosto unico. La sua biografia, infatti, si intreccia in maniera molto stretta con il suo campo di ricerca: lo studio del linguaggio in rete tra le diverse culture al fine di standardizzare i processi e facilitare la collaborazione. E chi meglio di lei, che ha vissuto in realtà così diverse - da quella europea a quella americana fino all'estremo oriente -può comprendere e analizzare forme di comunicazione tanto diverse? Nailah nasce in una famiglia benestante mussulmana e lascia la Malesia per formarsi ad alto livello in computer science, un interesse che eredita dal padre. Dopo il Bachelor, si trasferisce all'Università di Singapore per un anno di stage, dove conduce una ricerca sulle reti neurali. Qui, scrive un articolo che invia a un congresso in Bulgaria (Aimsa 2000): il lavoro viene accettato e questo le apre le porte per un dottorato in Europa. A 23 anni, vestita con il tradizionale velo (che poi abbandona perché: «in Europa chi lo porta è più soggetta ad attenzione di chi non lo indossa»), arriva in Francia, all'Università di Montpellier II, conoscendo a malapena qualche parola di francese. Un anno dopo, è il a002, ottiene il master, esami tutti in francese, compreso uno sull'elaborazione del linguaggio naturale. Il suo campo di studio sono infatti i protocolli di comunicazione sul web. Da questo momento in poi il suo interesse per il linguaggio diventa quasi una ragione di vita e nel 2 0 04 ha la fortuna di collaborare con William j. Clancey, scienziato della Nasa che si occupa di scienze cognitive. Terminato il Phd, è storia di oggi. Che la vede protagonista e pioniera di una nuova informatica, che mira a comprendere le complesse interazioni che esistono tra utenti diversi e tra i diversi strumenti che l'informatica oggi offre. Per spiegare la sua ricerca Nailah - ospite a Milano dell'evento Women&Tech, promosso da Gianna Martinengo in collaborazione con la Provincia - fa l'esempio di due amici che comunicano via chat per scegliere un film. Grazie ai siti tipo Imdb.com e Amazon. coni la loro scelta viene in qualche modo mediata dalla tecnologia, infatti, la possibilità di consultare e avere informazioni sui film, i generi e i registi in tempo reale permette loro di arrivare a una decisione finale che probabilmente sarebbe stata diversa se non ci fosse stata la rete. «Sulla base di questo esempio - dice Nailah - cerco di mostrare come le persone utilizzano le tecnologie di rete e come la tecnologia, a sua volta, impatta sugli utenti». E alla base di tutto c'è la comunicazione: «Occorre capire in che modo le persone svolgono determinate attività, anche le più semplici come quella di scegliere un film, per giungere a determinate conclusioni. E si deve tener conto anche del fatto che le interazioni potrebbero avvenire tra persone che derivano da culture lontane, con esigenze e abitudini diverse. Ecco che allora l'approccio olistico dell'informatica ci aiuta non solo a sviluppare tecnologie che migliorano l'esistenza, ma che risolvono problemi reali. Basti pensare alle business conference call, a cui partecipano professionisti che si occupano di argomenti diversi, che hanno problematiche diverse, che parlano lingue diverse...». In altre parole, questo nuovo approccio prevede che le persone siano parte integrale della soluzione del problema e che la stessa debba essere trovata tenendo conto degli aspetti psicologici, linguistici e antropologici. Questo comporta essere coscienti del comportamento "reale" delle persone nei contesti applicativi e tutto questo viene realizzato grazie all'analisi delle conversazioni (chat, istant messaging, videoconferenze), ovvero il terreno di sperimentazione di Nailah. Ma perché studiare le attività collaborative umane? «Perché i problemi reali sono oggi troppo complessi per essere affrontati da un solo esperto, e dunque è necessario che più competenze siano sinergiche fra loro» precisa Nailah. Tutto questo comporta la condivisione del significato di concetti e accordi sui protocolli di conversazione. Dunque, lontano dalla visione tradizionale dei ricercatori-tecnologi che a volte hanno dato l'impressione di offrirci soluzioni, in cerca di problemi, Nailah investe sulle caratteristiche della comunicazione umana mediata dalle tecnologie proprio per cercare di svelare quelle proprietà ricorrenti delle conversazioni che finora non sono state che in minima parte formalmente analizzate. Infatti, l'aspetto più importante dell'attività scientifica di Nailah consiste nell'estrarre dalle conversazioni le proprietà essenziali in modo formale per costruire delle procedure automatiche capaci di analizzarle in futuro. In altre parole, costruire una nuova "teoria" calcolabile (e dunque usabile) della collaborazione umana in contesto cross disciplinare. «Le tecnologie spiega Nailah, non solo devono emergere dall'analisi dei contesti reali di uso, ma sono esse stesse causa del cambiamento indotto all'interno delle situazioni di uso a causa della loro presenza». Da un punto di vista tecnico, questo aspetto di "co-adattamento" è tutt'altro che banale: basti pensare a come è cambiato il modo di fare politica attraverso internet. Certo, è ancora presto stabilire se i risultati del lavoro di Nailah saranno all'origine di questo o di altri cambiamenti del nostro modo di lavorare, di vivere, di comunicare; tuttavia il suo lavoro dimostra che la natura stessa dell'attività di ricerca e innovazione in informatica sta cambiando, avvicinandosi sempre più a una ricerca sperimentale come quella di altre discipline scientifiche. In questa nuova informatica la persona; singolarmente o collettivamente, interviene con un ruolo dominante e dunque l'integrazione fra discipline formali e scienze umane (psicologia, linguistica, antropologia, sociologia) sarà prevedibilmente alla base di gran parte degli sviluppi tecnologici dei prossimi anni. Una visione che non è sfuggita ai fondatori di G00gle che lo scorso ottobre hanno invitato Nailah proprio a Mountain View... _______________________________________________________________ Il Salvagente 30 gen. ’09 TUTTI IN FILA. E SEMPRE PER UN "PEZZO" DI CARTA. IL GOVERNO ANNUNCIA LA SVOLTA TELEMATICA. MA... Mai più in coda La rivoluzione può attendere In ospedale, in tribunale, all'anagrafe, in questura Presso un qualsiasi ufficio per regolarizzare un pagamento, per ritirare un referto, richiedere un certificato o rinnovare il passaporto. ENRICO CINOTTI Siamo un popolo in coda. Più che negli altri paesi europei, visto che da noi la burocrazia costa, a ogni cittadino, 4.500 euro l'anno contro i 3.300 della media Ue. Ma coraggio, promette il governo, i tempi stanno per cambiare: entro il 2012 tantissimi servizi della pubblica amministrazione saranno possibili per via telematica. È la rivoluzione annunciata dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e dal ministro per la Pubblica amministrazione e l'Innovazione, Renato Brunetta, la scorsa settimana presentando il progetto E-gov2012. "Elimineremo tutta la carta, miglioreremo i servizi al cittadino che potrà fare tutto da casa con il computer", ha promesso il premier. Obiettivo ambizioso, finalità lodevole. Peccato che al momento mancano tanto i soldi quanto il raggiungimento dei primi obiettivi, comprese le tanto reclamizzate Reti Amiche. Partenza in salita Intanto il costo dell'intera operazione: stimata dal governo in 1.380 milioni di euro, a oggi vede disponibili appena 248 milioni. Un esempio: per rendere operativo il software di gestione del Fascicolo sanitario elettronico (Fse), il documento che raccoglie tutte le informazioni cliniche di un cittadino, la spesa è stimata in 90 milioni di euro, da qui fino a fine legislatura. In cassa però al momento ce ne sono soltanto nove. Nessuno tifa contro. Anzi i cittadini sperano che vengano trovati i soldi per dare alla luce questi progetti. Perché, ad esempio, realizzare l'Fse può davvero favorire il cittadino: se risiedo a Roma e, mentre sono in vacanza, vengo ricoverato a Cagliari, il medico curante tramite il Fascicolo elettronico avrà a disposizione tutta la mia storia clinica. Insomma non avrò più bisogno di scartoffie. Fantascienza? In gran parte sì perché in Italia, a parte alcune Regioni come Emilia-Romagna e Lombardia sono già pronte a partire, siamo ancora molto indietro. In tutti i sensi. Dalla nostra verifica sul campo risulta che lungo lo Stivale gli ospedali che consentono di poter ritirare on line i referti delle analisi, risparmiando al cittadino una fila e diversi soldi alla struttura sanitaria, si contano sulle dita delle mani. Eppure il ministro Brunetta rilancia: "Presto sarà attivo il cali center Linea Amica e realizzeremo la prescrizione medica elettronica con un risparmio del 30% delle spese in ambito sanitario". Scettica è Teresa Petrangolini, segretaria generale di Cittadinanzattiva: "Questi progetti li abbiamo sentiti annunciare tante volte. Di tessere sanitarie elettroniche se ne parla da 15 anni. Di cartelle cliniche on line da almeno dieci. Progetti che ci trovano d'accordo. Ma manca un particolare: la prova dei fatti". Allacciati alla rete? Già, i fatti, i risultati. Ne è consapevole anche il ministro Brunetta, il quale ha esortato i cittadini a "controllare lo stato di avanzamento dei progetti". Vengono alla mente gli spot televisivi delle Reti Amiche. Specialmente quello che invita i cittadini a rivolgersi alle tabaccherie per "pagare i contributi per la colf e il riscatto della laurea". Il Salvagente ha raccolto l'invito del ministro ed è andato a controllare. Ebbene, presso i tabaccai visitati, la risposta è stata sempre la stessa: il servizio non è attivo. Attacca, Beatrice Magnolfi, ministro della Semplificazione amministrativa nel governo ombra del Pd: "Sono stati azzerati i fondi del Sistema pubblico di connettività, ovvero l'infrastruttura portante della trasmissione dei dati tra i vari livelli della pubblica amministrazione e tra questa e sistemi diversi, senza la quale le Reti Amiche sono soltanto uno spot. Se si continua a investire nel rubinetto, dimenticandosi dei tubi, l'acqua non scorrerà mai". Da parte nostra, rimane accesa la speranza anche se l'avvio è davvero deludente. Seguiremo passo dopo passo l'attuazione dei programmi. Convinti che se c'è un male per il cittadino quello è la cattiva burocrazia. II piano digitale di Brunetta , IITALIA TELEMATICA ENTRO IL 2012 Risorse necessarie: 1.380 milioni di euro Risorse disponibili: 248 milioni di euro ECCO ALCUNE MISURE SCUOLA Pagella elettronica, domande di iscrizione on line, segnalazioni assenze, prenotazioni colloqui 2009: nel 40% delle scuole saranno attivati tali servizi 2012: servizi attivi in tutti gli istituti italiani Risorse necessarie: 128 milioni Risorse disponibili: 11 milioni SANITÀ Fascicolo sanitario elettronico 2009: il 15% delle Asl utilizzeranno il Fse 2011: servizio esteso al 75% delle aziende sanitarie 2012: estensione nazionale del Fascicolo elettronico Risorse necessarie: 90 milioni Risorse disponibili: 9 milioni GIUSTIZIA Notifica elettronica degli atti processuali dal tribunale civile agli avvocati. Casellario giudiziario 2009: estensione del servizio attivo ora in 17 tribunali 2010: servizio attivo in tutti i tribunali italiani 2011 : certificati giudiziari (es. carichi pendenti) on line Risorse necessarie: 21,5 milioni Risorse disponibili: zero DOCUMENTI* Passaporto elettronico 2009: da luglio i nuovi passaporti saranno rilasciati solo in forma elettronica con impronte digitali Carta di identità 2011 : da gennaio saranno disponibili le nuove carte di -i identità elettroniche II *Costi in via di definizione Fonte: Piano e-gov 2012, ministero per la Pubblica amministrazione e ('Innovazione ____________________________________________________ La Repubblica 30 gen. ’09 COSÌ IL "MOVIMENTO" HA BATTUTO PLAYSTATION Nello scorso anno quasi il 60% delle console per videogiochi nel mondo é stato venduto dalla Due i segreti del successo: bassi costi di produzione e forme di interattività nuove e adatte a tutti JAIME D'ALESSANDRO ROMA In tempo di crisi le persone stanno a casa. Niente più cinema, niente più ristoranti. Solo film in dvd o videogame. O almeno è quel che sostiene l'industria dei giochi elettronici, che recita questo mantra ormai da mesi per convincere sé stessa e gli altri che il tracollo finanziaria non la tocca. E a guardare i risultati finanziari della Nintendo, la multinazionale di Super Mario, viene da pensare che abbia ragione. Il suo giro d'affari è cresciuto del 17% a conclusione di due anni davvero notevoli, stracciando la concorrenza di colossi come Playstation (ovvero Sony) eXbox (Microsoft). E' infatti dal 2007 che oltre la metà delle macchine per videogame piazzate in giro per il mondo sono sue. Il che significa ad esempio che l'anno scorso sono stati venduti 45 milioni di Wii, la rivoluzionaria console da casa, contro 28 milioni di Xbox e 16 di Playstation. E che di tutte le macchine domestiche o portatili per videogiochi vendute durante il 2008 (101 milioni complessivamente) il 58% erano Wii o Ds, l'erede del Game Boy. Certo, poiché la recessione mondiale colpisce tutti i consumi, anche Nintendo é stata costretta a rivedere le sue stime sul 2009: 26,5 milioni a fine marzo, un milione secco in meno. Ma la colpa è soprattutto dello yen, che si è rivalutato su euro e dollaro rendendo più cari i prodotti. «Quando il Wii venne lanciato a fine 2006 sembrava destinato al ruolo della Cenerentola, fra colossi del calibro della PlayStation 3 della Sony e dell'Xbox 360 della Microsoft», racconta Glen Schofield, general managerdi un editore di giochi di prima grandezza come la Electronic Arts, quella di Fifa, The Sims, Need for Speed. «Invece ha dimostrato che il realismo della grafica digitale e l'inseguire Hollywood sono poca cosa rispetto all'immediatezza e alla facilità d'uso». Già, perché il successa della Nintendo è tutto nel controller del Wii, dotato di sensori di movimenta e capace di trasformarsi ad esempio in racchetta da tennis, e nello schermo tattile del Ds. Entrambi davvero semplici da usare rispetto ai vecchi joypad. Gli altri? Continuano nel solco della tradizione. Ma la Sony, che per più di 10 anni ha dominato questo mercato, ora è costretta a inseguire anche se nelle vendite di console ha una fetta di tutto rispetto pari al31 %. Non tanta per merito della Ps3, fra le macchine di ultima generazione la più claudicante, quanto per la "vecchia" Ps2 per la P1ayStation Portatile. Mentre la Microsoft, che viaggia attorno all' 11% con l'Xbox360, sta dando prova di perseveranza e di aver imparato molto dagli errori commessi con la prima Xbox. Fra gli editori invece le cose vanno molto meno bene, soprattutto in America dove molti studi di sviluppo sono stati chiusi. La Nintendo invece si gode il suo successo, in attesa di battere un altro record con il Ds: superare la PlayStation 2 venduta in oltre 137 milioni di pezzi. Un successo fatto di utili sostanziosi, basti pensare che fra aprile e dicembre ha intascato 501 miliardi di yen, pari a circa quattro e mezza miliardi di euro. Perché il Wii è la meno avanzata tecnologicamente fra le tre console da casa di nuova generazione, di conseguenza anche la più economica da costruire. E poi la tipologia di giochi è spesso completamente diversa da quella che ha dominata in passato e che va ancora per la maggiore sulle ultime console Sony e Microsoft. «Accarezzare cuccioli, tenere in allenamento la propria mente, fare esercizio, non erano considerati video game prima che lanciassimo Nintendogs, Brain Train'rng e Wii Fit», spiega Satoru Iwata, quarto presiedente della Nintendo e principale artefice della grande svolta. «A ben guardare la relazione fra uomo e macchina è solo una questione psicologica. La potenza dell'hardware non c'entra o c'entra solo marginalmente. Per conquistare le persone, anche quelle che non hanno mai toccato un videogame, bisogna creare forme di interazione nuove, sorprendenti e adatte a tutti. Il che significa comprensibili in qualsiasi parte del mondo». Quello del Wii e del Ds è infatti un fenomeno planetario, a differenza di altre console che vendono molto più in certe aree piuttosto che in altre. Eppure, a guardare i dati di vendita del 2008, è l'Europa il mercato di riferimento, davanti agli Stati Uniti e al Giappone. Anzi, quest'ultimo è quasi svanito rispetto alle vette di qualche anno fa, quando c'erano titoli che vendevano milioni e milioni di copie solo a Tokyo e dintorni. Significa che nel Paese dove Wii e Ds sono stati concepiti, l'interesse per i videogame per console sta sciamando a favore di quelli per i cellulari. Oppure semplicemente che i giochi elettronici, si stanno ormai riversando oltre i loro confini tradizionali. ____________________________________________________ Repubblica 26 gen. ’09 LA STRANA STORIA DEI FARMACI PER L’INTELLIGENZA LE FRONTIERE DELLA MEDICINA La ricerca farmacologica stringe i tempi per arrivare a prodotti specifici per lo stimolo neuronale, ma ci vorranno ancora da .5 a 10 anni Una serie di medicinali pensati originariamente per curare le malattie più diverse si è rivelata sorprendentemente utile per migliorare la reattività mentale e stimolare il pensiero e la memoria: in America è b00m e ora queste applicazioni stanno sbarcando in Italia, ma i pericoli sono parecchi PATRIZIA FELETIG Roma Alla vigilia di un colloquio decisivo, per superare un esame, quando si è sotto pressione, concentrazione memoria e concentrazione devono essere al top, diventa sempre più comune cercare aiuto nell'armadietto dei medicinali. Si ricorre a farmaci magari impiegati per un'indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata che però si rivelano efficaci nel potenziare le prestazioni intellettuali. E' la categoria informale di farmaci in maggior sviluppo, in America ma ora anche in Europa: i cognitive enhancer, stimolatori delle facoltà cognitive. Consentono di aumentare 1 'attenzione, acuire la capacità di concentrazione, affinare quella decisionale, ridurre le necessità di sonno. Si trovano in commercio e sono regolarmente prescritti dai medici per il trattamento di una patologia ben definita. L'utilizzo "diverso" preoccupa la comunità scientifica. Spesso il confine è difficile da identificare. II Ritalin, prescritto per curare l’iperattività dei bambini, can dosaggi maggiori si è rivelato uno stimolatore per i neuroni degli adulti. Nato per gli stessi disturbi, l’Adderall, assunto da pazienti non affetti da questa patologia, sollecita concentrazione e memoria, Un altro prodotto di questa neurofarmacologia fai-da-te è il rromgii, prescritto per curare la narcolessia. L'americana Cephalon che lo produce aveva acquistato nel 2001 i laboratori francesi Laffont, sviluppatori di prodotti chimici per contrastare la sindrome dell'affaticamento cronico. Ora è stata più o meno ufficial mente estesa l'applicazione del farmaco. Ancora: l’Aricept, che cura le forme lievi e moderate di Alzheimer, fa parte di questa nuova classe di farmaci utilizzati al di fuori dell'ambito medico. Il ricorso ai cognitive enhancer è diventato un fenomeno di costume così diffuso negli Stati Uniti da richiamare l'attenzione dell'autorità di controllo FDA. Secondo una ricerca condotta dall'Università del Michigan, un quarto degli studenti ricorre a questi farmaci per vincere la fatica. Secondo Business Week, tra i giovani assuefatti alle smart drugs e la consistente fetta di baby b00mer alle prese con i naturali decadimenti delle funzioni cognitive, la domanda delI'Adderall e del Ritalin fuori dell'ambito medico ha registrato negli Usa vendite per 4,7 miliardi di dol lari l'anno scorso. Rispetto ai tradizionali sostegni, dalle anfetamine ingollate dai piloti della Air Force alle pillole di caffeina o energy drink trangugiate dagli studenti, queste smart drug hanno effetti più potenti e prolungati. «La mancanza di indagini approfondite sugli effetti a lungo termine dell'assunzione di questi farmaci da parte di individui sani suggerisce un prudente scetticismo sul ricorso alla cosmetica neurologica» avverte Anjan Chatterjee della clinica universitaria di University of Pennsylvania. Ma il mercato preme: «Dall'operaio al chirurgo, tutti vogliono beneficiarne», sostiene Martha Farah, la direttrice del centro di neuroscienze cognitive dell'Università della Pennsylvania che ha firmato con altri studiosi un manifesto pubblicato su Nature per la liberalizzazione dell'uso off-label di sostanze che possono favorire il miglioramento delle prestazioni mentali delle persone sane. «Ne trarrà vantaggio l'intera società, complessivamente più brillante». Anche se non necessariamente più saggia: oltre all'innaturalità e al rischio di dipendenza c' è un dilemma etica simile al doping sportivo. Remoreper la verità superate stando ad un sondaggio condotto sempre da Nature: 80% dei 1400 intervistati si dichiara pronto a usare i potenziatori neurologici. La buona notizia è che si è compiuta una tale evoluzione della conoscenza dei meccanismi del cervello che esiste la possibilità di intervenire sulla plasticità e il funzionamento cerebrale. Si stimola la performance della mente agendo sull'intero sistema nervoso con i meccanismi più diversi: dall'azione sui recettori ai neurotrasmettitori. Così, da qui a 5-10 anni arriveranno dei farmaci - in fase di avanzata di sperimentazione - specifici per aumentare la memoria e le capacità di elaborazione del nostro cervello. «Un business da 20 miliardi di dollari», prevede Steven Ferris, capo del centro di ricerca sull'invecchiamento della New York UniversitySch00l of Medicine. Uno dei principali finanziatori di queste ricerche è l'esercito statunitense che investe 20 milioni di dollari per trovare l'antidoto chimico allo stress e alla stanchezza da combattimento. Saranno sicuri? Peter Reiner, docente di neuroscienze dell'Università della British Columbia ne è convinto. «Siccome questi farmaci sono espressamente studiati percurare il naturale declino della memoria che avviene con gli anni, possiamo essere convinti che saranno sensibilmente più sicuri rispetto a quelli di oggi invece pensati per curare alcune precise patologie», Ci permetteranno, non solo di aumentare la nostra capacità di ricordare ma accresceranno la nostra capacità di integrare le informazioni, di creare dei collegamenti, di sviluppare il pensiero astratto. Reiner non vede controindicazioni mediche ma individua un problema sociale: «Il rischio è che diventino le medicine dei ricchi». Perché nessun-servizio sanitario pubblico le prescriverà. Le terapie specifiche quando saranno pronte troveranno un mercato di 20 miliardi ____________________________________________________ Libero 31 gen. ’09 CHOPIN E ALTRI ZOMBIE Teschi, cuori e ossa illustri La storia diventa un horror Imperversa la via tombarola alla ricerca: gli studiosi suonano la sveglia alle salme di Cartesio, Brahe, Murat. L'eterno riposo ormai è un sogno ALESSANDRO GNOCCHI Non c'è salma illustre che possa contare sul riposo eterno, ormai un semplice auspicio, se non un vero e proprio sogno. Infatti la via tombarola alla ricerca storica imperversa. La lista dei casi è sterminata. Abbiamo già segnalato tempo fa, neanche troppo, le tristi vicende dei cadaveri di Galileo Galilei, Leonardo da Vinci, Angelo Poliziano, Pico della Mirandola, Napoleone Bonaparte, Johann Sebastian Bach. Si possono aggiungere molti nomi. Sotto a chi tocca, dunque. La scienza è davvero onnipotente, oltre alle questioni vitali riesce perfino a risolvere problemi di cui frega niente a nessuno. Partiamo dal caro estinto Fryderyk Franciszek Chopin (1810-1849). Il grande musicista per ora dorme in una chiesa di Varsavia. Presto però una squadra di studiosi polacchi potrebbe strappargli il cuore dal petto per accertare il motivo della sua dipartita. I ricercatori potranno quindi trovare una risposta alla domanda che li tormenta: tubercolosi, come comunemente ritenuto, o piuttosto mucoviscidosi? I dubbi sulle vere cause della morte iniziarono subito dopo l'autopsia. Pare fossero stati riscontrati dei piccoli tumori sulle superficie del cuore. Ecco quindi l'idea: prelevare parti organiche dal muscolo del pianista e dare un'occhiata. Semplice a dirsi. Ma non a farsi. Per tagliare la testa al toro è necessario rompere le scatole a tutta la famiglia Chopin. Infatti serve il confronto col cuore delle sorelle, spirate per malattie polmonari. Guai in vista anche per il cranio di Cartesio. A 350 anni dalla morte, la Francia ha aperto un processo (scientifico) per stabilire se il filosofo sia stato avvelenato oppure, come vuole la tradizione, sia perito di una banale polmonite. Qui c'è un piccolo ostacolo aggiuntivo. Cartesio è morto in Svezia. Le sue ossa sono tornate in patria all'interno di una cassa. Viaggio organizzato in fretta e furia. Nella confusione, per incanto, si sono moltiplicati i teschi. Se ne conoscono almeno cinque, come segnala Domenico Quirico della Stampa: uno a Parigi, uno a Stoccolma e tre in collezioni private. Bisognerà analizzarli tutti? Forse no. Il più accreditato è quello conservato presso il Museo dell'Uomo di Parigi. La collocazione suscita polemiche: il teschio di Cartesio è esposto tra quello di un australopiteco e la riproduzione di quello del calciatore campione del mondo Liliam Thuram, ancora tra i vivi. Ulteriore proposta degli studiosi: riunire la testa col resto del corpo, ospitato dal 1819 nella chiesa parigina di Saint-Germain-des-Prés. Istruttoria anche sul caso Tycho Brahe, papà dell'astronomia moderna e mentore di Keplero. Il germanista Peter Andersen, 400 anni dopo la scomparsa, lancia accuse pesanti al conte Erik Brahe: brutto assassino, hai ucciso il tuo lontano parente Tycho su ordine del re di Danimarca Cristiano N, tutto preso da gelosia e vecchi rancori politici. Per accertare lo svolgimento dei fatti, Andersen ha deciso di schierare una squadra di chimici e medici, pronti a riesumare le spoglie sepolte in Santa Maria di Tyn a Praga. Alt. Non è finita qui. In questa losca vicenda, c'è di mezzo anche il più inafferrabile degli scrittori, William Shakespeare. Secondo Andersen l’Amleto, composto tra il 1600 e il 1602, è ispirato dall'omicidio Brake, avvenuto il 24 ottobre 1601. La fonte sarebbe il diario del killer, per ora solo presunto perché innocente fino a prova contraria. A Pizzo Calabro è partito il progetto per la ricerca delle ossa di Gioacchino Murat. Dopo un sopralluogo, potrebbe presto iniziare la fase operativa. L'obiettivo consiste nell'individuare i resti di Gioacchino Murat. Il generale francese, re di Napoli e maresciallo dell'Impero con Napoleone Bonaparte, fu fucilato a Pizzo nel 1815 e sepolto nella Chiesa di San Giorgio. Non si sa esattamente in quale parte. Come fare quindi a riconoscere le ossa giuste? Primo. Leggenda vuole che Murat abbia chiesto che il plotone non mirasse al volto. Secondo. I discendenti del re sono disposti a mettere a disposizione il proprio sangue blu al fine di effettuare una analisi comparativa tra il proprio Dna e quello delle spoglie. Il progetto è finanziato dal comune di Pizzo, gli esami sono affidati ai carabinieri del ltis di Messina. Non c'è pace nemmeno per il poeta spagnolo Federico Garcia Lorca che giace in una fossa comune a Viznar, vicino a Granada, insieme con altre vittime della guerra civile fucilate dai franchisti. Certo, qui c'è in gioco una posta seria. I discendenti di coloro che si presume siano sepolti insieme a Lorca vogliono recuperare i corpi dei propri cari e dare loro degna sepoltura. Vale la pena però di riportare le risposte che il nipote del poeta diede a Libero quest'estate. Pur riconoscendo che la richiesta era legittima, prese questa posizione; «Una cosa è certa: non permetteremo che il corpo di mio zio venga portato via di là: lo lasceremo dove si trova, magari facendo erigere un cippo in memoria. Tutto ciò che di "storico" c'era da sapere riguardo Lorca è già venuto alla luce. La memoria è ancora fresca. ======================================================= _______________________________________________________________ La Stampa 28 gen. ’09 CEIS: SANITÀ, UNA VORAGINE DA 10 MILIARDI NEL RAPPORTO CEIS-TOR VERGATA IL PARADOSSO DEGLI OSPEDALI: IL LORO NUMERO È DIMINUITO DELL'8% MA IL PERSONALE È AUMENTATO Enorme la disparità fra le Regioni. "Il federalismo può peggiorare la situazione DANIELA DANIELE ROMA Sanità cara. E sempre più cara. La spesa cresce più veloce del Pil e le previsioni sono fosche. Se le Regioni non saranno corse ai ripari, nel 2010 si aprirà una voragine di 10 miliardi di euro. Già quest'anno, le perdite si stimano intorno ai 3-4 miliardi. Panorama senz'altro poco apprezzabile quello offerto dal VI Rapporto Sanità 2008 del Ceis-Facoltà di Economia dell'Università romana di Tor Vergata. «Il nostro obiettivo - ha detto il ministro del Welfare Sacconi - è che la medicina del territorio assorba il 60% della spesa e il resto venga impiegato in quella ospedaliera. Il modello ce l'abbiamo: Veneto, Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna». Per evitare la catastrofe, si dovrà recuperare efficienza e le strade più dirette sono due: aumentare il contributo economico da parte dei cittadini e/o tagliare servizi. Brutto colpo per i cittadini che, di anno in anno, si vedono aumentare il numero di prestazioni da pagare di tasca propria. Il dossier rivela che sono state 349.180 le famiglie che nel 2006 si sono impoverite per spese sanitarie impreviste; l'1,5% dei nuclei familiari italiani. C'è poi la questione del federalismo. Il Rapporto sottolinea che, se non si provvede a un assetto istituzionale appropriato e a un ridimensionamento calibrato del modello di compartecipazione, «il federalismo rischia di inasprire le differenze tra i servizi sanitari regionali». A voler considerare soltanto la spesa sanitaria il divario tra Nord e Sud divide l'Italia. Se la media nazionale pro-capite è di 1744 euro, si registra, per esempio, che in Trentino Alto Adige, Lazio e Valle d'Aosta è di 1970, in Basilicata e Calabria di 1600. Il Ceis passa in rassegna i diversi sistemi di assistenza e e mette in evidenza discrasie nella politica ospedaliera, quella che assorbe le maggiori risorse. Per esempio, è vero che il numero delle strutture si è ridotto del 7,9% tra il 2000 e il 2006, ma quello del personale è aumentato. C'è stata una crescita dei medici (1,87%), ma soprattutto degli amministrativi (2,05%). E a giudicare dalla recente protesta all'ospedale San Giovanni (Roma), la tendenza fa scuola. «Si è chiesto - dicono i sindacalisti - di utilizzare i fondi degli anni 2004-2007-2008 per tutto il personale avente diritto. L'amministrazione vuole invece usare parte delle già scarse risorse per creare nuovi responsabili amministrativi, con l'assurdo che avremo un dirigente ogni 10 impiegati». Gli economisti, poi, sospettano che le politiche di riduzione dei posti letto siano spesso mere operazioni di facciata, «mancando una reale razionalizzazione del settore». Come, peraltro, più volte chiesto dall'Anaao- Assomed, il sindacato dei medici ospedalieri. Si registra anche un parziale fallimento del meccanismo di pagamento a prestazione, con una forte variabilità tra le Regioni. La tariffa media regionale denuncia differenze che sfiorano il 60%, «difficilmente giustificabili sul piano razionale». Altro capitolo, la spesa farmaceutica. Molti gli interventi volti a contenerla, dato che tra il 1995 e il 2001 aveva fatto registrare un aumento a valori nominali di quasi il 75%. Tra compartecipazione dei cittadini e diffusione dei farmaci equivalenti, nel 2007 s'è avuta una diminuzione di spesa del 2,6%. Anche in questo caso, però, le differenze tra Regioni sono ancora troppe. Le politiche regionali, osservano gli economisti, spesso piegano le logiche di efficienza e appropriatezza a quelle di risparmio finanziario. Ma spendere meno, concludono, «non sempre è indice di maggiore efficienza». Il problema è spendere bene. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 26 gen. ’09 FARMACI UGUALI PER TUTTI MA NON NEGLI OSPEDALI Salute, le nuove emergenze Il Cerm Il Centro di ricerche denuncia come le cure non abbiano un punto di riferimento comune Il dossier Secondo Cittadinanza Attiva il 37% delle proteste riguarda difficoltà di accesso alle medicine Farmaci uguali per tutti Ma non negli ospedali Terapie diverse da Regione a Regione Confronti Un nuovo prodotto in grado di curare tumori, sclerosi, osteoporosi può essere disponibile in una città dopo pochi mesi, in un'altra dopo anni Mario Pappagallo Pfn, Ptor, Ptr, Ptotr, Ptav, Ptop, Ptp, Ptl, Pto, Pta... Letti di seguito ricordano la mitica canzone di Giorgio Gaber in cui si elencavano i partiti italiani, nella realtà sono i vari prontuari che in Italia vanno «superati» perché un farmaco ospedaliero (fascia H) riesca finalmente ad arrivare al paziente. Si tratta di medicinali che o si somministrano o si possono recepire solo in ospedale. Una corsa ad ostacoli che porta alla «balcanizzazione» della sanità italiana, con un'applicazione del federalismo più a vantaggio di politici e burocrati che dei cittadini. I quali purtroppo, e per forza di cose, rispetto ai farmaci ospedalieri, sono diventati di serie A e di serie B. Se non di C. Un farmaco in grado di curare un tipo di tumore o in grado di rallentare una grave disabilità (che costa alla lunga di più al servizio sanitario), dopo l'approvazione a livello nazionale, può essere disponibile in una Regione dopo pochi mesi e in un'altra non esserlo ancora dopo un anno, un anno e mezzo. Accade con la sclerosi multipla, accade con l'osteoporosi. Differenze anche tra Asl e Asl, ospedale e ospedale. Con pazienti costretti ad «emigrare», sempre che il medico di famiglia faccia la prescrizione. In apparenza, il tutto servirebbe a far quadrare i conti. Nella realtà, la «balcanizzazione» i costi li potrebbe addirittura aumentare: commissari e sottocommissari, personale amministrativo (precario o meno) qualcuno deve pur pagarli. La fotografia, piuttosto plumbea, è stata scattata dal Cerm (Competitività, regolazione, mercati) che ha dedicato un ampio studio, firmato Fabio Pammolli e Davide Integlia (www.cermlab.it), ai «farmaci ospedalieri tra Europa, Stato, Regioni e cittadini». Studio ispirato dal rapporto Salute 2007 di Cittadinanza Attiva che evidenziava come il 37% delle denunce riguardava la difficoltà di accesso ai medicinali. «Ne deriva - dice Pomalli - un evidente problema di discriminazione nell'accesso alle cure e di differenziazione del livello essenziale di assistenza (Lea) farmaceutica sul territorio nazionale». E aggiunge: «La governance del sistema sanitario-farmaceutico rappresenta, per il peso che la spesa occupa nei bilanci delle Regioni (70- 80%) e per il rilievo politico-sociale delle prestazioni, il più importante banco di prova del federalismo. È necessario, di conseguenza, interrogarsi, oltre che sui tanti altri aspetti ancora aperti della transizione federalista, sulla compatibilità tra l'attuale filiera decisionale che presiede all'utilizzo di un farmaco in ospedale e i principi che il federalismo vorrebbe affermare». Il sistema di approvazione dei medicinali in fascia H, ospedalieri, mette a nudo le magagne della sanità regionale. Anche nel confronto con realtà simili come quella dei Länder tedeschi. In Germania non c'è una contrattazione-omologazione con un'agenzia nazionale, come avviene in Italia con l'Aifa: un farmaco ospedaliero appena dopo l'approvazione europea dell'Emea può essere commercializzato su tutto il territorio nazionale. Il medico di un ospedale può farne richiesta, ottenerlo e somministrarlo al paziente. In Italia invece ci sono alcuni step che non si possono by-passare (l'omologazione Aifa, l'immissione nei prontuari territoriali), al massimo si possono accelerare per via dell'innovatività di un farmaco, ma non potendo eliminarli si avrà sempre un «ritardo strutturale» nel recepimento di nuove medicine da parte di chi eroga servizi sanitari. Un esempio? «Un farmaco alfa approvato dall'Emea e con l'autorizzazione al commercio - spiega Davide Integlia - deve passare la valutazione dell'Aifa tramite la sottocommissione che si occupa di procedure europee. Dopo si apre il tavolo per la fissazione del prezzo di rimborso, presieduto sempre dall'Aifa. Ottenuta l'Aic in Italia e concordato il prezzo di rimborso, la trafila burocratica del farmaco non è ancora chiusa: devono sopraggiungere i pareri positivi di altre due commissioni tecnico-scientifiche, quella regionale che compila e aggiorna (a seconda dei casi) i Ptor/Ptr/Ptotr/Ptp/Ptop/Ptav, e quella di Asl o ospedale che compila e aggiorna i Pta/Ptl/Pto. Appare quantomeno singolare che, dopo la valutazione scientifica europea e nazionale, ne occorrano altre locali per definire appropriatezza del farmaco e somministrabilità». Tempi biblici. Uno studio del 2005 misura il ritardo medio nel lancio di 29 nuove molecole sottoposte a procedura centralizzata dell'Emea in 14 Paesi dell'Unione Europea, tra il 1994 e il 1998. Germania, Irlanda e Regno Unito sono i Paesi con i tempi di attesa più brevi. In Italia intercorrono mediamente 15,3 mesi, contro gli 8,1 della Germania e dell'Irlanda, e gli 8,4 del Regno Unito. Il nostro Paese è al terz'ultimo posto, tempi più lunghi li fanno registrare solo Grecia (15,8) e Belgio (17,8). Quindi già si parte in ritardo. Il database del Cerm permette di stimare in 226 giorni il tempo medio necessario all'Aifa per completare l'iter di negoziazione del prezzo e di ammissione a rimborso (ammissione in fascia H). Se ai 226 giorni di lavoro dell'Aifa si aggiungono i tempi di inserimento dei farmaci nei protocolli regionali, sub-regionali, ospedalieri, si sfiora il dramma. Integlia snocciola le stime: «Le Regioni che mostrano i tempi più lunghi sono il Lazio con 510 giorni (17 mesi), e la Toscana con 504 (16,8 mesi). Le Regioni con i tempi minori sono l'Umbria con 371 giorni (12,4 mesi), e la Basilicata con 396 giorni (13,2 mesi). La Calabria approva automaticamente tutti i farmaci inseriti nel prontuario nazionale. Sarebbe l'ottimale. Comunque, la media italiana tra il sì Emea e il recepimento nel primo prontuario sub nazionale, è pari a 449 giorni (14,96 mesi)». Incredibile. ____________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 1 feb. 09 COME STAR BENE FINO A 120 ANNI MILANO - Facciamo un viaggio nel tempo. Anno 2050. Una visita medica. «Buongiorno dottore. Ho ottant'anni, sono appena andato in pensione dal mio secondo lavoro, faccio sempre tutti i check-up al centro di medicina preventiva del mio quartiere, ma l'ultimo l'ho fatto, su suo consiglio, in un centro benessere sul Lago di Garda, un gran bel posto. Mi hanno fatto una serie di esami. Avevo paura che mi prelevassero chissà quanto sangue. Invece no, solo qualche goccia e un po' di saliva. E mi hanno consegnato una serie completa di immagini del mici corpo in tre dimensioni». Comincia così la visita. A sceneggiarla, nel suo ultimo libro («La scienza ci guarirà: vincere le battaglie della vita con la prevenzione»), è Luc Montagnier, immunologo e virologo, premio Nobel per la medicina 2008, scopritore del retrovirus causa dell'Aids (Sida per lui che è francese). Domani a Roma presenterà il libro e la sua filosofia scientifica. Montagnièr anticipa le sue idee al Corriere della Sera: Crede fermamente nella prevenzione. È la sua formula di lunga vita in bellezza e buona salute: quei 12o anni di vita media scritti nei geni da raggiungere senza disabilità né handicap. Come prosegue la visita del 2050? «Intanto quel medico è sorridente, non guarda l'orologio - risponde, con una vena critica verso la medicina odierna -. Esamina al computer gli esiti di laboratorio grazie all'intranet che collega tra loro i centri di medicina preventiva. Usa avanzati software e completa i dati con un nuovo apparecchio che permette di misurare le infezioni latenti». E dopo? «Il medico traccia il bilancio: buono. Niente pressione alta, niente tracce di tumori, niente dolori articolari, ma lo stress ossidativo non è total mente compensato e vi è qualche indizio di minimo passaggio batterico nel sangue. Perché? Il dialogo è approfondito. Anche una moderata depressione psicologica può ripercuotersi sul sistema immunitario e favorire i nanobatteri in circolo nel sangue. Gli stessi nanobatteri identificati come origine del morbo di Alzheimer. Sono di origine intestinale, quindi occorre intervenire sull'alimentazione allo scopo di modificare la flora batterica». In realtà l'ottantenne non avrebbe nulla per la medicina odierna. Nulla. Ecco la prevenzione. Quale allora la «cura» per combattere lo stress ossidativo e mantenere alta la soglia di «buona salute» psico-fisica? La prescrizione anti-aging di Montagnier: «Limitare il jogging a mezz'ora ogni mattina, diminuire l'attività svolta in palestra, aumentare l'assunzione di farmaci o complementi alimentari antiossidanti. Al succo di melograno del Caucaso, che regola la pressione sanguigna, aggiungerei polvere,di estratto di papaya fermentata. Tenere impegnato il cervello. Tornare a studiare anche a ottant'anni. Non diventare mai pensionati alla lettera». Nel 205o non si parlerà più di infarto, emorragie cerebrali, maculopatie. Rischio di Alzheimer ridotto del 50%. Il tagliando superato porterà l'ottantenne a quota cento senza problemi. E il servizio sanitario? L'utopia di Montagnier: «Tutto gratis se sul libretto sanitario risultano effettuati i controlli periodici e riduzione d'imposta del 20%... Perché una popolazione anziana in buona salute e senza handicap è un guadagno per la sanità. Così dovrebbe funzionare nel 2050». Un buon consiglio per gli economisti alle prese con una crisi globale. La medicina si trasforma. Via via le cure tradizionali saranno sempre più dedicate a emergenze, interventi dovuti a traumi, incidenti, intossicazioni. Tumori, malattie cardiovascolari, tutte le patologie degenerative legate all'età si eviteranno o si correggeranno prima del loro manifestarsi. Un vaccino per l'immortalità? «L'eternità non ci interessa, ma restare in buona salute per almeno i2o-15o anni sì». Un consiglio alle donne per restare sempre giovani? «Niente fumo né alcol e mantenere sempre nella norma gli ormoni, anche dopo la menopausa». E a tutti? «Le infiammazioni vanno "spente": favoriscono tumori e invecchiamento cellulare». Lo stile di vita giusto? «Quello anti-aging: dieta, attività fisica, allenamento cerebrale. Meditazione e spiritualità sono potenti elisir di giovinezza. Niente stress: invecchia e ammala». _______________________________________________________________ L’Espresso 30 gen. ’09 QUANDO LA MENTE PERDE I RICORDI La memoria s'inceppa. La percezione della realtà si altera. Il senso del tempo si appanna. Un grande esperto spiega cosa accade nel cervello degli anziani che si allontanano dal mondo. E come conviverci PAOLA EMILIA CICERONE COLLOQUIO CON JEFFREY CUMMINGS La memoria svanisce. Come la percezione della realtà, i freni inihitori, le emozioni familiari e la sensazione stessa di essere malati. La chiamano "demenza", ma chi ne soffre vede svanire molto più dei propri ricordi, perché il termine medico indica una disabilità cognitiva abbastanza grave da interferire nelle attività quotidiane di cui la perdita di memoria è solo una caratteristica. Ma non necessariamente la più drammatica. Uno dei massimi esperti di questo mondo a parte in cui vivono molti anziani è Jeffrey L. Cummings, responsabile dell'Alzheimer Disease Center dell'Università della California a Los Angcles, che ha realizzato il Neuropsichiatric inventory, strumento terapeutico usato per classificare i cambiamenti comportamentali nelle malattie neurologiche. Lo abbiamo incontrato a Napoli, al congresso della Società italiana di Neurologia, per farci spiegare cosa c'è davvero dall'altra parte. Come si vive con un anziano svagato? « Cominciamo a definire i sintomi comportamentali della demenza. Che spesso vengono trascurati, mentre hanno un impatto devastante sui familiari e rendono il paziente poco gestibile. In questo modo riusciamo a capire quali tra i pazienti affetti da decadimento cognitivo lieve presentano anche sintomi comportamentali, come depressione, irritabilità o apatia. E sono più a rischio di sviluppare una de menza». Come si fa? «Talvolta prevalgon o d i s i n i b i z i o n e , comportamenti inappropriati, mancanza di tatto e di empatia, e in questo caso siamo di fronte a una malattia che colpisce l'area fronto temporale del cervello. Il 40 per cento dei pazienti con Alzheimer, invece, soffre di depressione, il 60 ha periodi di agitazione, con comportamenti aggressivi che si possono manifestare con insulti, grida e gesti violenti. E il 20 per cento soffre di allucinazioni, che spesso scatenano ostilità e gelosia, i pazienti credono di essere in pericolo o di trovarsi accanto un estraneo». Un comportamento simile a quello di uno schizofrenico? «Nella schizofrenia sono più frequenti allucinazioni uditive, il "sentire voci", nella demenza quelle visive. Anche gli atteggiamenti deliranti sono diversi, mancano i deliri di grandezza e le manie religiose tipiche della schizofrenia, mentre ci può essere la sensazione di essere tradito o derubato dai familiari. Sono i problemi che causano un maggiore stress emotivo e psicologico in chi assiste il malato. E spesso spingono le famiglie a ricoverare i pazienti». Sarebbe meglio seguirli a casa? «E una scelta che dipende molto dalla cultura e dal paese di origine. Non dico che sia necessariamente la soluzione migliore, anche se sappiamo che quando possibile i pazienti vivono meglio in un ambiente familiare». Come si fanno a cogliere i primi sintomi della malattia? "E ancora diffusa la convinzione che la demenza faccia parte del normale processo di invecchiamento, e c'è una sorta di benevola cospirazione, miramente non mten| zionale, che spinge a non intervenire quanta do si manifestano i primi sintomi. Negli Stati Uniti abbiamo già testato con successo un questionario in grado di fare emergere difficoltà nello svolgere i compiti quotiS diani, come preparare i pasti e fare i conti, oppure cambiamenti caratteriali». Sintomi che devono preoccupare? «Anche se è destinato ad aggravarsi, in una prima fase un paziente è in grado di mantenere i contatti col mondo. I test sono utili per individuare segnali allarmanti che spesso vengono sottovalutati. Distinguere tra una certa perdita di memoria, normale a una certa età, e l'incapacità di archiviare nuove informazioni». Diverso dalla difficoltà a ricordare un nome.... «Capita di sentire familiari chiedere: come è possibile che soffra di demenza se ricorda cose successe mezzo secolo fa? È possibile, fa parte delle caratteristiche di queste malattie. Naturalmente, per arrivare alla diagnosi si usano anche strumenti, come test cognitivi specifici e biomarkers. Oggi la puntura lombare permette di individuare quantità alterate di proteine amiloide e tau, caratteristiche della malattia, mentre la Pet è in grado di mostrare placche di proteina amiloide anche asintomatiche. Siamo sempre più vicini a una diagnosi precoce». Che pone anche problemi etici. Fino a che punto un paziente può essere informato sulla malattia? «Io cerco di essere molto diretto. È importante essere chiari: i malati sanno che qualcosa non va, ed è inutile tacerglielo». La depressione di cui tanti pazienti soffrono non può essere motivata dall'angoscia per • la loro condizione? «Ovviamente se un paziente percepisce quello che gli sta succedendo, questo può influire sul suo umore, ma la depressione in senso clinico è qualcosa di diverso, con un c o n n o t a t o neurobiologico importante. Nello stadio iniziale della malattia è naturale che un paziente si preoccupi, ma anche nelle torme più leggere spesso manca un vera consapevolezza della propria condizione, forse perché questa è una delle funzioni cerebrali più sofisticate, e una delle prime a subire danni. In genere non credo che questi pazienti siano infelici, perché non hanno molta coscienza del loro stato: non ricordano di non ricordare... . Cos'è allora che provoca il turbamento, l'agitazione? • L'agitazione che colpisce 180-85 per cento dei pazienti più gravi nasce dal disorientamento, dalla paura: la demenza toglie la capacità di interpretare l'ambiente che abbiamo intorno. Pensiamo a un gesto familiare come entrare nella doccia: immaginiamo di non ricordare i cosa si tratta e che qualcuno ci coi duca in un ambiente ristretto, in scatola che fa rumore e dove succc dono strane cose. Vista così, la reazione di paura è giustificata. E si ripete per tutte le situazioni che non sono più familiari». Come si può intervenire? •• Quando si arriva a questo punto !.. comprensione verbale è sicuramente compromessa. Si può provare con un atteggiamento rassicurante, oppure attraverso il tocco e il tono della voce, per far capire che non c'è niente di cui avere paura. Senza dare m,r niente per scontato e senza aver pai: radi ripetersi. Per affrontarci problemi comportamentali poi ci sono precise strategie» Per esempio? •• La strategia delle tre "R": ripetere, rassicurare, riorientare. In altri termini, aiutare il paziente a rendersi conto dell'ambiente in cui si trova, spiegare costantemente cosa sta succedendo. E non contraddirlo: inutile cercare di convincere un malato che nessuno lo sta derubando, meglio dirigere altrove la sua attenzione. Un altro schema che può essere di aiuto è il cosiddetto Abc, una strategia che suggerisce di cercare di capire i comportamenti anomali o patologici analizzandone gli Antecedenti, il comportamento stesso - Behaviour - e le sue Conseguenze. Alcuni sintomi di difficile gestione come l'agitazione possono avere cause ambientali: prestando attenzione a quando si manifestano si può scoprire ad esempio che un eccesso di stimoli - troppi familiari in visita - può essere controproducente ». Anche l'ambiente in cui il malato si muove può aiutare? « E utile un ambiente in cui il paziente può muoversi in sicurezza, ma senza sentirsi prigioniero né percepire limitazioni, per esempio un giardino in cui non ci siano piante». Lei ha scritto che la demenza colpisce i familiari quanto il malato... <• Finora si è pensato troppo poco alle famiglie. Fare di più vorrebbe dire anche garantire ai malati un'assistenza migliore». Quanto sanno gli scienziati della malattia? ••Nel cervello dei malati di Alzheimer, la forma di demenza più comune tra gli anziani, succede qualcosa che impedisce la rimozione dei depositi di proteina amiloide, che attivano una serie di processi molto lenti e portano alla morte dei neuroni e quindi alla demenza. Quello che dovremmo capire è perché alcuni si ammalano e altri no. Gli studi più recenti si concentrano sull'interazione tra le placche di proteina amiloide e le proteine tau, che giocano un ruolo importante in diverse forme di demenza. Sembra che gli aggregati anomali di proteina amiloide favoriscano i grovigli neurofibrillari di proteina tau che interferiscono con le capacità cognitive». Sono state annunciate novità importanti anche 5 sul fronte delle terapie. .^ •• Non dobbiamo dimenticare i farmaci di 2 cui già disponiamo per l'Alzheimer, gli ini- J bitori della colinesterasi che si sono rivela- | ti efficaci in molti studi clinici. La formula- | zione transdermica, il cerotto, è utile persta guardando a una nuova generazione di farmaci che potrebbero frenare l'andamento della malattia anziché intervenire solo sui sintomi permettendo ai pazienti di funzionare meglio per un periodo più lungo» Di cosa si tratta? «Il farmaco più promettente al momento è il dimebolin, un vecchio antistaminico che si è rivelato efficace come neuroprotettore e agisce anche sui mitocondri che alimentano la cellula: potrebbe arrivare sul mercato per il 2011 perché sta procedendo molto bene e sono possibili sperimentazioni più brevi, sei mesi invece dei 18 mesi dell'immunoterapia». Questo per l'Alzheimer, ma esistono farmaci per i disturbi del comportamento? «Gli inibitori della colinesterasi agiscono sul comportamento oltre che sulla memoria. Quando un paziente manifesta aggressività o apatia può essere sottoposto a questo tipo di trattamento, e se questo non è sufficiente si usano antipsicotici o antidepressivi. Che in genere sono efficaci per controllare i sintomi, anche se vanno usati con attenzione: è aumentato rischio di mortalità legato al consumo di antipsicotici da parte di pazienti anziani affetti da demenza». E sul piano della prevenzione? «I fattori che riducono il rischio sono una dieta sana e ricca di antiossidanti, l'esercizio fisico regolare e un buon livello culturale. Più in generale è importante controllare ipercolesterolemia e ipertensione ed evitare traumi alla testa. Oggi si sta lavorando su alcuni supplementi alimentari come la curcumina e il Dhea che potrebbero svolgere una funzione protettiva. C'è però da dire che studi epidemiologici mostrano una diffusione uniforme della malattia in tutto il mondo, a prescindere dallo stile di vita o dalla dieta». • A sinistra: tomografia di una sezione cerebrale con i segni della malattia di Alzheimer. Nella pagina accanto, sotto il titolo: Jeffrey Cummings _______________________________________________________________ Corriere della Sera 28 gen. ’09 ASL, VISITE FISCALI SCONTATE CONTRO I SUPERASSENTEISTI Tariffa da 41 a 10 euro. Stretta sui certificati medici La direttrice Cristina Cantù: esperimento per facilitare i controlli da parte di aziende pubbliche e private L' epidemia mette sotto pressione i principali pronto soccorso della città Giro di vite dell' Asl contro l' assenteismo ingiustificato: le visite fiscali d' ora in avanti avranno tariffe calmierate. Per facilitare la realizzazione dei controlli previsti dalla legge antifannulloni del ministro Renato Brunetta, infatti, l' azienda sanitaria taglia i costi a carico dei datori di lavoro: dai 41,67 euro previsti, a Milano si scende a 10 euro. La riduzione vale sia per gli enti pubblici sia per le imprese private («a condizione che le stesse siano in regola con le norme a tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro»). L' allarme l' avevano lanciato i presidi delle scuole: «Non ci possono chiedere altri sacrifici, non abbiamo i fondi necessari» avevano detto in massa. Acqua passata. Nei prossimi giorni diventerà operativo il provvedimento dell' Asl, già consegnato per il via libera definitivo al Pirellone. «È un progetto sperimentale - si legge nel decreto firmato dal direttore generale dell' Asl Cristina Cantù -. Il suo obiettivo è facilitare le pubbliche amministrazioni nell' applicazione della legge 133/2008, assicurando parità di trattamento ai privati». Non finisce qui: corso Italia ha fatto anche un patto con i medici di famiglia per migliorare l' appropriatezza dei certificati di malattia. Per il 2009 si prevedono 25 mila richieste di visite fiscali (nel mirino soprattutto gli assenteisti cronici), il doppio rispetto al 2007. Il piano dell' Asl parte proprio mentre l' epidemia influenzale raggiunge il suo apice. Nei prossimi giorni saranno almeno settemila i milanesi con la febbre, altrettanti con malanni simil-influenzali. I più colpiti i bambini tra zero e 4 anni: l' osservatorio dell' Università degli Studi prevede che se ne ammaleranno quasi duemila. «Per l' ultima settimana di gennaio il dato di incidenza dell' influenza a Milano evidenzia una crescita del livello epidemico, con un' incidenza del 5,53 per mille pazienti - dice il virologo Fabrizio Pregliasco, autore del bollettino pubblicato su www.acti-info.it -. Tra zero e 4 anni si sale al 12,37 per mille. Bisogna, poi, aggiungere chi sarà messo ko dalle infezioni respiratorie acute». Già ieri sotto pressione i principali pronto soccorso della città (Fatebenefratelli, Policlinico, Sacco, San Carlo, Niguarda, San Raffaele). Ma in serata la situazione si è normalizzata. Simona Ravizza sravizza@corriere.it Ravizza Simona ____________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 25 gen. ’09 A CHE ETÀ SMETTERE DI GUIDARE? Umberto Senin, professore di geriatria e gerontologia, Università di Perugia Quando gli anni avanzano, arriva un momento in cui guidare l'automobile può diventare un pericolo per sè e per gli altri. Fortunatamente, pare che gli anziani, soprattutto le donne, in genere capiscano quando è giunto il momento di rinunciare. Almeno così suggerisce uno studio pubblicato sulla rivista Investigative Ophthaimoiogy & Visual Science. Quando smettere di guidare? Non esiste un'età specifica in cui rinunciare alla patente. La tarda età porta a una minore efficienza, ma c'è chi a 60 anni farebbe bene a non guidare e chi anche a 8o ha ancora buone capacità. Quali i segnali da non sottovalutare? Deficit della vista, come variazioni nella percezione dei colori e nell'acuità visiva, cognitivi (per es. problemi di memoria) e del movimento sono i principali fattori spia da non sottovalutare. II problema è che oggi, spesso, il rinnovo della patente è un automatismo e il personale istituzionale deputato ai controlli non ha le competenze e gli strumenti necessari per fare le giuste valutazioni. Anche problemi cardiovascolari sottovalutati, la possibilità di una caduta improvvisa della pressione o disturbi della frequenza cardiaca, possono essere alla base di incidenti gravissimi. Qualche consiglio? Gli anziani, soprattutto gli uomini non devono «autopromuoversi». Smettere di guidare è una scelta difficile, spesso vista come perdita di indipendenza, ma quando le prestazioni psicofisiche non sono più all'altezza, bisogna saper dire basta e iniziare una nuova fase. A cura di Antonella Sparuoli ____________________________________________________ Il Sole24Ore 26 gen. ’09 UNA CLINICA PORTATILE RACCHIUSA IN UN CEROTTO Earle Dnckson era un impiegato all'interno della Johnson&Johnson degli anni 20 del Novecento. Un giorno la moglie Josephine, mentre sistemava la casa, si procurò un piccolo taglio che però fastidiosamente perdeva sangue. Entro poche ore sarebbero arrivati gli amici e dovevano far trovare una casa perfetta. La garza, che ai tempi si era soliti bloccare con una spilletta o con un po' di adesivo medicale, non restava al suo posto. Earle si rese conto che se anziché mettere l'adesivo sulla garza, faceva l'opposto, le cose cambiavano. Tagliò piccoli pezzetti di garza e li applicò al centro di un pezzo di nastro adesivo. Era nato il moderno cerotto. Questa scoperta, che è durata un secolo senza particolari cambiamenti, è però destinata a trasformarsi'radicalmente negli anni a venire: Ci sta pensando la neo-costituita società britannica Toumaz Technology, che sta sperimentando dei piccoli chip da inserire nei cerotti, rendendoli quindi un oggetto intelligente e connesso. Già oggi riescono a monitorare valori come l’Ecg, il glucosio nel sangue, e i livelli di PH, e hanno una vita media di 5-7 giorni. Se la vendita di questi cerotti potenziati funzionerà, sostengono che il prezzo potrebbe scendere anche as dollari: non proprio un cerotto qualunque, ma certamente un qualcosa di molto interessante per chi deve tenersi controllato regolarmente. -Questo è però solo il primo passo, perché la vera sfida si gioca non solo sul prevenire, ma soprattutto sul somministrare farmaci. Ed ecco la seconda evoluzione del cerotto. Un gruppo di ricercatori del Mit di Boston, guidati dalla professoressa Paula Hammond, sta testando una nuova pellicola adesiva, basata su pigmenti caricati negativamente e molecole di medicinale caricate positivamente: applicando un piccolo campo magnetico al materiale, il medicinale viene rilasciato. Questo vuol dire che si potranno presto realizzare cerotti programmabili o attivabili a distanza. Per esempio, per le applicazioni nel campo tumorale perché, spiega Hammond,«puoi rilasciare ciò che serve, esattamente quando è richiesto e con un approccio sistematico». Come sappiamo,molti tumori tendono a riformarsi, e spesso il paziente non se ne accorge se non in occasione del successivo controllo medico: questi speciali cerotti potranno, in futuro, rilasciare medicinali chemioterapici se e soltanto se il tumore ricomincia a svilupparsi. Stesso discorso vale per il diabete, dove un intervento mirato e rapido è fondamentale. Questi cerotti analizzeranno, interpreteranno e decideranno se intervenire. Con un tempismo perfetto. In futuro, un semplice cerotto potrà diagnosticare patologie e anche intervenire con prontezza nel curarle. Serviranno ancora diversi anni per avere cerotti di questo tipo distribuiti commercialmente, ma i primi cerotti con la sola funzione di diagnosi li avremo fra pochissimo. La medicina cambia sospinta dall’innovazione tecnologica, rendendo le nostre vite molto più sicure. ____________________________________________________ Tutto Scienze 28 gen. ’09 VACCINO PER COLPIRE IL TUMORE AL COLON" Insegnare all'organismo ad attaccare il tumore: è la tecnica messa a punto da un team di oncologi guidati da Ermanno Leo, di rettore della struttura di chirurgia colo-rettale presso la Fondazione IRCCS «Istituto Nazionale dei Tumori» di Milano, dov'è stato creato il primo vaccino terapeutico al mondo contro il cancro al colon-retto. Dopo quello ai polmoni, è il secondo «big killer» tra i tumori, con 45 mila persone colpite e 18 mila vittime ogni anno in Italia. Il giro di boa della prima fase di sperimentazione clinica del vaccino è stato superato brillantemente e «aspettiamo le autorizzazioni per partire con la seconda fase (200 pazienti previsti), che dovrebbe darci i risultati dopo un anno dall'inizio - spiega Leo. - Se tutto va bene, in due anni il primo vaccino dovrebbe essere pronto». Professor Leo, come è nata l'idea del vaccino? «Ci siamo accorti che alcuni pazienti più fortunati, una volta operati, andavano incontro a recidive molto raramente e che 1`arma segreta" era il sistema immunitario. Normalmente le difese del corpo non riescono a sferrare un attacco contro il tumore e, invece, in questi pazienti il fenomeno avviene spontaneamente: possiedono linfociti "anti-tumore" in grado di riconoscere e attaccare le cellule tumorali». Come le riconoscono? «Mediante una proteina esposta sulla superficie delle cellule malate chiamata survivina: è un'etichetta che indica al sistema immunitario quali sono le cellule da aggredire. Questa è un po' il "carburante" del tumore e, come suggerisce il nome, permette alle cellule tumorali di non morire: per questo sono capaci di produrre recidive». Come avete ideato il vaccino? «Con un preparato a base di anti-survivina e altre molecole antigeniche. Nella prima fase di sperimentazione il vaccino è stato testato su 14 pazienti in fase avanzata di malattia, su cui erano già state tentate, senza successo, tutte le cure». Con quali risultati? «Il vaccino è privo di effetti collaterali e, inoltre, il risultato in termini di immunizzazione, ovvero di risposta attiva del sistema immunitario, è stato ottimo: il75% dei pazienti si è immunizzato contro la survivina. Il vaccino, poi, è risultato in grado di "congelare" la malattia: il tumore non è progredito a un anno di follow up». Quali saranno i prossimi passi? «A febbraio dovremmo ottenere le autorizzazioni per iniziare la 2,2 fase clinica su 200 pazienti: alcuni saranno trattati con terapie standard e altri con il vaccino. Questa fase durerà un anno e, se si confermeranno i risultati positivi, in due anni potremo avere un primo vaccino terapeutico». A chi sarà rivolto? «Potrà essere usato con le attuali terapie per migliorarne la risposta e speriamo si riveli così efficace da poterlo somministrare ai pazienti ad alto rischio di recidive, a scopo "preventivo"». «Anche un test ultrarapido del sangue permetterà una prevenzione più efficace» Qual è oggi l'arma migliore contro il tumore del colon-retto? «La prevenzione, che vuol dire per le persone dopo i 45 anni sottoporsi a "screening" periodici (sangue occulto e colonscopia) per scoprire sul nascere eventuali tumori. Se la popolazione si sottoponesse alla colonscopia, potremmo debellare il tumore, perché l'esame permette anche di individuare stati precancerosi come i polipi e, asportando i polipi, si evita il tumore». Quali sono le novità per la prevenzione? «Stiamo mettendo a punto un test del sangue per la diagnosi del tumore stesso. Quando sarà validato definitivamente, potremo utilizzarlo a fianco di altri esami già in uso e riservare la colonscopia, un test indispensabile ma ancora fastidioso, ai soli pazienti a rischio». Come funziona il test? «Il risultato del test dipende dalla composizione biochimica dei tessuti: ogni elemento ha un colore di riferimento. Le cellule dell'organismo, infatti, quando si trasformano in tumore, "cambiano colore" come le foglie d'autunno. Con un metodo economico di analisi degli spettri di fluorescenza si può vedere se si è in presenza di un cancro: potenzialmente, l'esame, per ora sperimentato su 500 soggetti, di cui la metà ammalati, potrebbe essere usato per qualunque tumore». Sarà il test diagnostico universale? «In un certo senso si: è noto che la "colorazione del sangue" cambia in presenza di certe neoplasie. A questo test, in futuro, potremmo affiancare altri esami del sangue basati, per esempio, sulle tracce di Dna che le cellule tumorali liberano nel sangue, monitorando così i risultati delle terapie». In alcuni individui sono stati scoperti linfociti «anti-tumore» in grado di riconoscere e attaccare le cellule tumorali ____________________________________________________ Il Sole24Ore 29 gen. ’09 CAMPAGNA ANTIPOLIO: IL VIRUS DEVE MORIRE È ancora presente in India, Afghanistan, Pahistan e Nigeria. Ma con le migrazioni può ricomparire in Europa Seicentotrentacinque milioni di dollari per dare la stoccata finale alla poliomelite. E questo lo stanziamento varato pochi giorni fa dall'alleanza pubblico-privata GloUal Polio Eradication Initiative (Gpei), sostenuta dalla Bill&Melinda Gates Foundation (a55 milioni), Rotary International (r00), i governi di Gran Bretagna (i5o) e Germania (I3o). «Oggi siamo a un bivio - ha spiegato lo stesso Gates, impegnato a tempo pieno sul fronte della salute globale da quando ha lasciato il timone della Microsoft - perché dobbiamo investire di più se vogliamo veramente completare l’eradicazione di questa terribile patologia». La diffusione della polio, provocata da un virus altamente contagioso che può infliggere danni neurologici permanenti, oggi è circoscritta a quattro Paesi: India, Afghanistan, Pakistan e Nigeria. Dal 1988, anno di lancio da parte dell'Oms, i pazienti sono scesi da 35omila a meno di 2mila, ma guai ad abbassare la guardia, avvertono gli esperti. L'allentamento della sorveglianza sanitaria o dei cicli di vaccinazione, come è successo qualche anno fa in Nigeria, rischia infatti di fare esplodere rapidamente nuovi focolai. L'Oms ha fissato il aoro come data per la completa eradicazione del morbo, ma a due anni dal termine la battaglia è tutt'altro che vinta. «Negli ultimi anni i progressi sono stati enormi, anche grazie alla diffusione di tre vaccini, ma la completa eliminazione del virus resta ardua» osserva Gates che, come già fatto per le campagne sanitarie contro altre malattie come la malaria, ha preferito investire in programmi già avviati e di successo, come la Gpei, piuttosto che crearne di nuovi. In Afghanistan e Pakistan le difficoltà maggiori nell'eradicazione provengono dalle zone di conflitto, dove regolari campagne di immunizzazione sono difficilmente attuabili e gli spostamenti di popolazioni spesso contribuiscono a diffondere il contagio. Anche in India, dove la stabilità politica e i grandi programmi di immunizzazione hanno portato alla vaccinazione di oltre il 950/ della popolazione infantile, il virus continua a diffondersi nel Bihar e nell' Uttar Pradesh, dove alta densità abitativa, scarse condizioni igieniche e continue migrazioni ne alimentano la diffusione. In Nigeria, la lotta al microrganismo è azzoppata dalla scarsa quali-, tà delle iniziative di vaccinazione, soprattutto nelle regioni settentrionali dove oltre il 6o% dei bambini è a rischio. Cruciale per vincere questa battaglia è il coinvolgimento attivo e rinnovato dei leader del Paese africano, sottolineano gli esperti del Gpei, segnalando che con le nuove migrazioni globali la polio potrebbe facilmente ricomparire anche in Europa e nelle Americhe. Negli ultimi 2o anni la comunità internazionale ha investito diversi miliardi di dollari nella lotta a questa malattia, ma la buona notizia è che le campagne di immunizzazione sono un ottimo investimento. Uno studio pubblicato nel 2007 su «The Lanceb>hamosriatoche, nonostante le difficoltà e gli alti costi delle campagne di vaccinazione, l’eradicazione è la strategia più efficace ed economicamente più efficiente rispetto al contenimento del virus. Una lotta che va condotta senza tentennamenti soprattutto in questa fase, per non perdere il terreno guadagnato, e che sarà anche al centro del prossimo appuntamento del G8 in Italia. GUIDO ROMEO ____________________________________________________ La repubblica 31 gen. ’09 BAMBINI SPORCHI E SANI ORA LO DICE ANCHE LA SCIENZA La scoperta degli immunologi: ambienti troppo asettici diminuiscono le difese dell'organismo Conviviamo con miliardi di microbi ma non tuti si rivelano un pericolo per la nostra salute JANE E. BRODY Quando i miei bambini "esploravano" le strade di Brooklyn, non potevo fare a meno di chiedermi a quanto "saporito" potesse essere lo sporco della strada. Considerato che tutti i comportamenti istintivi presentano un sicuro vantaggio per l'evoluzione - altrimenti, senza dubbio, non si sarebbero protratti nei millenni - ci sono buone probabilità che anche questo ci sia servito a far sopravvivere la nostra specie. E in effetti sempre più numerose e attendibili sono le prove secondo le quali mangiare un pa' di terra o di sporco fa bene. Dopo alcuni studi di quella che è definita la teoria igienica, i ricercatori sono giunti alla conclusione che organismi quali milioni di batteri, virus e soprattutto i vermi che penetrano nel nostro corpo con la terra favoriscono la sviluppo di un sistema immunitario sano. Alcuni studi tuttora in corso confermerebbero addirittura che i vermi possano aiutare un sistema immunitario poca efficiente - che ha provocato disordini auto-immuni, allergie e asma- a rimettersi a funzionare correttamente. Questi studi paiono spiegare perché i disordini del sistema immunitario come la sclerosi multipla, il diabete di tipo 1, i disturbi del colon infiammabile, l'asma e l'allergia siano aumentati significativamente negli Stati Uniti e in altri Paesi in via di sviluppo. «Un bambino che si mette gli oggetti in bocca permette al proprio corpo di esplorare l’ambiente con una reazione immunitaria» spiega nel suo nuovo libro, intitolato appunto "Why Dirt Is G00d" ("Perché lo sporco fa bene", Kaplan editore), la microbiologa e docente di immunologia Mary Ruèbush. «Non soltanto ciò permette di "allenarsi" nelle reazioni immunitarie necessarie a proteggersi, ma riveste una funzione cruciale nell'insegnare alla reazione immunitaria immatura che cosa è meglio ignorare». Un illustre ricercatore, il dottor Joel V. Weinstock, direttore del dipartimento di gastroenterologia ed epatologia del Tufs Medical Center di Boston, ha detto che alla nascita il sistema immunitario umano è come un computer non programmato, che necessita di impostazioni. Secondo Weinstock alcune misure di salute pubblica, quali la decontaminazione dell'acqua e la pulizia degli alimenti, hanno sicuramente salvato la vita di un numero incalcolabile di bambini, ma al contempo hanno abolito "l’esposizione a molti organismi che quasi certamente sono benefici per noi". Ha poi aggiunto: «I bambini allevati in un ambiente ultrapulito e asettico non sono esposti a quegli organismi che li aiutano a sviluppare adeguati circuiti di controllo del sistema immunitaria». Neanche la dottoressa Ruebush, autrice di "WhyDirtIs G00d", propone un ritorno alla sporcizia: ma fa giustamente notare che i batteri sono ovunque, sul nostro corpo, all'interno di esso, e tutto intorno a noi. E deplora la mania odierna di utilizzare centinaia di prodotti antibatterici che convogliano un falso senso di sicurezza e potrebbero favorire lo sviluppo di batteri resistenti agli antibiotici che provocano malattie. Acqua e sapone sono le uniche cose necessarie alla pulizia. «Io raccomando in ogni caso di lavare sempre le mani dopo essere stati in bagno, prima di mangiare, dopo aver cambiato un pannolino, prima di maneggiare gli alimenti e ogni qualvolta siano visibilmente sporche». Quando l'acqua corrente non è disponibile e lavarsi le mani è essenziale, si possono utilizzare salviettine per le mani impregnate di alcol. Il dottor Weinstocksi spinge molto oltre: «Bisognerebbe lasciare che i bambini girassero a piedi nudi e giocassero nella terra, e non fossero obbligati a lavarsi le mani prima di sedersi a mangiare». Dopotutto, insieme al dottor Elliott egli ha constatato che i bambini che crescono in campagna e sono esposti di frequente ai vermi e ad altri organismi trasmessi dagli animali hanno molte meno probabilità di sviluppare allergie e malattie autoimmuni. Altrettanto benefico è, a suo dire, lasciare che i bambini crescano con due cani e un gatto, che li espongono a infestazioni di vermi intestinali che possono far loro sviluppare un sistema immunitario sano. (Copyright `LrzRepubblica" "TheNewYork Tirrzes" TraduzianediAnrccabissanti) L'essere umano mediamente ospita più o meno 90 trilioni di microbi I bambini allevati in un ambiente ultrapulito e asettico non sono esposti a quegli organismi che aiutano a sviluppare il sistema immunitario I bambini che crescono in campagna e sono esposti di frequente al contatto con organismi trasmessi dagli animali hanno molte meno probabilità di sviluppare allergie e malattie autoimmuni Occorre tuttavia lavare sempre le mani dopo essere stati in bagno, prima di mangiare, dopo aver cambiato un pannolino, prima di maneggiare gli alimenti _______________________________________________________________ Corriere della Sera 26 gen. ’09 RISCHIO DI ICTUS? ORA SAPREMO QUANTO Neurologia Adottato in due centri milanesi un sistema computerizzato che è stato sviluppato a Chicago Nuovo dispositivo in grado di misurare il flusso sanguigno nel cervello Il nuovo software permette di combinare angiografia e risonanza magnetica, senza interventi invasivi Cesare Peccarisi Dall'Università americana dell'Illinois di Chicago, sbarca all'Istituto neurologico Besta e all'ospedale Niguarda di Milano un sistema computerizzato capace di calcolare la cosiddetta "risk ratio" per ictus, ossia la percentuale di rischio, in base alle indagini convenzionali, di esserne colpito. Il sistema si chiama MRI-NOVA ed è un'angiografia quantitativa di risonanza magnetica che associa in maniera virtuale l'angiografia (che fa vedere il flusso dei vasi sanguigni cerebrali) alla risonanza magnetica (che visualizza gli organi interni) senza bisogno di alcun intervento invasivo, ma sfruttando solo la ricostruzione ottenuta dalla risonanza. Per studiare i vasi cerebrali le due tecniche erano già state fuse, ma quella metodica non forniva indicazioni sulla gravità dei meccanismi che provocano il danno. S'individuava chi era a rischio perché il lume di un vaso appariva ridotto, ma non quanto pericolo corresse il paziente. Senza la percentuale di riduzione del flusso, non si poteva calcolare se e quando questo si sarebbe fermato, causando l'ictus. Nei casi apparentemente meno gravi il medico dava suggerimenti di prevenzione (vedi box) per ridurre la formazione di placche aterosclerotiche (principale fattore di rischio nell'80% dei casi) e, quando questi non bastavano, terapie preventive a base di farmaci (d'obbligo dopo un TIA, l'attacco ischemico transitorio che spesso precede un ictus) e, nei casi più gravi, la chirurgia neurovascolare. Il problema era capire quando fosse necessario intervenire direttamente sui vasi alterati, applicando un stent (un dispositivo che mantiene il vaso aperto) o praticando una "circonvallazione vasale" (by-pass) che facesse fluire il sangue oltre l'ostruzione, per evitare che si creassero danni irreparabili. Finora non c'era una risposta. Ci si poteva solo affidare alla bravura del medico nell'interpretare queste situazioni, caratterizzate sempre da una certa imprevedibilità, che incombe su questi pazienti come una spada di Damocle. «Adesso questa imprevedibilità sembra sconfitta -dice il professor Giovanni Broggi, che al Besta sta utilizzando la nuova tecnica nei primi pazienti- perché si può vedere direttamente al computer la reale situazione di un vaso sanguigno, con una precisione pari a quella che si avrebbe se si inserisse un rivelatore di flusso direttamente nell'arteria (all'università dell'Illinois il confronto è stato fatto nel cane), ma con un'invasività minima, perché tutto è virtuale: il calcolo del flusso sanguigno all'interno dei vasi lo fa il computer che, attraverso un complesso algoritmo, analizza i dati della risonanza ricreando sezioni virtuali del vaso lungo i tratti che si vuole studiare». «Non si tratta solo di uno strumento di valutazione preventiva - dice il neurochirurgo Paolo Ferroli, stretto collaboratore di Broggi - ma anche di controllo dell'efficacia del trattamento: potremo ad esempio verificare se davvero il bypass di una carotide che si era occlusa ha ottenuto un adeguato ripristino del flusso sanguigno». La prospettiva è quella di valutare i reali benefici anche dei farmaci convenzionali come antipiastrinici o anticoagulanti, verificando quando è davvero il caso d'intervenire con la chirurgia per riattivare il flusso sanguigno. 10% Foto: La quota di italiani a rischio di ictus. Il 75 per cento delle persone colpite da ictus ha 65 o più anni di età Foto: Dentro la carotide Foto: Nell'immagine sopra una carotide, l'arteria che porta il sangue al cervello, visualizzata al computer. Il nuovo sistema permette di misurare il flusso sanguigno in una sezione prescelta, qui evidenziata in verde. _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 gen. ’09 NECESSARIA UNA BANCA REGIONALE PER IL CORDONE OMBELICALE Appello dei medici al convegno della Fidapa SASSARI. Guarire con le cellule staminali si può. Soprattutto se contenute nel cordone ombelicale, fonte preziosa di cellule generatrici di globuli rossi, bianchi e piastrine. La donazione del sangue cordonale al momento della nascita, rappresenta oggi una delle strade importanti da percorrere nelle terapie oncologiche, nella speranza di sconfiggere malattie che sino a pochi anni fa erano gravate da altissimo tasso di mortalità. Il 40/50 per cento dei pazienti affetti da leucemie e linfomi, per i quali è necessario il trapianto di midollo osseo, non dispone di donatore compatibile. Donatore né in ambito familiare, né tantomeno nei registri internazionali dei donatori volontari di midollo osseo: in questi casi il cordone ombelicale è in grado di sostituire il midollo in caso di trapianto. Un convegno organizzato dalla Fidapa di Sassari, è stata l’occasione per sviscerare un tema di grande attualità, attraverso una minuziosa analisi della gestione delle cellule staminali in campo medico. «Negli ultimi anni sono state messe a punto nuove strategie terapeutiche basate sull’utilizzo di cellule staminali totipotenti - ha spiegato Maurizio Longinotti, direttore della clinica di Ematologia sassarese - che, se prelevate alla nascita, congelate e conservate in apposite “banche” possono essere utilizzate per “riparare” organi e tessuti danneggiati”. Ma in che modo agiscono queste cellule all’interno dell’organismo? Immaginate gli scolari. Non sanno ancora cosa faranno da grandi, ma hanno dentro sé tutte le potenzialità per diventare ciò che vogliono: medici, architetti, avvocati o ingegneri. Così vale anche per le cellule staminali. Quelle che, rispetto alle sorelle cosiddette “differenziate”, non sono ancora specializzate. Non sanno ancora compiere nessuna funzione, ma hanno la possibilità di trasformarsi in cellule di organi o tessuti». «Il prelievo del sangue dal cordone ombelicale è un’operazione semplice - ha spiegato Salvatore Dessole, direttore della clinica di Ginecologia e Ostetricia dell’università - che non dà rischio o sofferenza né al neonato né alla madre, purchè effettuato nel rispetto delle norme igieniche e in ambienti altamente sterili». In questo contesto il ruolo dell’ostetrica è di fondamentale importanza perché a lei è affidato il compito di prelevare il sangue e adempiere a tutti gli impegni di carattere pratico ed organizzativo. «Abbiamo il dovere inoltre di promuovere la donazione - ha spiegato Anna Domenica Fiori, ostetrica presso la Asl di Nuoro - perché lo riteniamo un gesto di grande altruismo e generosità». Putroppo in Sardegna manca la banca del sangue cordonale. Nell’isola non è possibile donare il cordone ombelicale in modo solidaristico, ma solo attraverso una donazione autologa. Questo significa che ogni bambino potrà avere sempre a disposizione le sue stesse cellule. Il sangue cordonale sarà “affidato” a banche estere dietro pagamento di cifre consistenti. Perché non creare allora una rete regionale di raccolta che dia speranza ai malati? Daria Pinna