RASSEGNA 25 APRILE 2009 IL REGNO DI PASQUALE IL MAGNIFICO UNIVERSITÀ, L’ITALIA IMPORTA CERVELLI UNIVERSITA’ AVANZATA L’INVASIONE DEI NEURO MANIACI UNIVERSITARI: LA CULTURA DELL'INFELICITÀ PER LA MEDICINA LA CURA È IL MERITO DARWING: GLI DEI SONO SEMPRE IN NOI MAPPE ONLINE, ALLARME DEI GEOGRAFI «SALVIAMO LA VECCHIA CARTINA» CI VUOLE UN ALTRA FISICA BRAMBILLA: «LE LAUREE IN TURISMO NON SERVONO A NULLA» ======================================================= CAPPELLACCI: «LE ASL AVRANNO NUOVI VERTICI» DNA BYE BYE E INIZIATA L’ERA DEL RNA DNA, SVELATO IL MISTERO DELLE SEQUENZE RIPETUTE LA DELUSIONE GENOMA «MALATTIE NON PREVEDIBILI» ERNIA, SENO, COLECISTI: TUTTI IN DAY SURGERY II "LIFTING DEL RETTO" CONTRO LE EMORROIDI STAMINALI E OSSIGENO PER CURARE IL DIABETE COL CHIRURGO DENTRO LA TAC SETTE MILIONI DI PERSONE HANNO PROBLEMI DI UDITO LA BOMBA-DECIBEL DELLA MUSICA A TUTTO VOLUME È IL NEMICO DEI GIOVANI LA RIVOLUZIONE E' DONNA ESENZIONI: STRETTA SUL REDDITO LE FRODI SONO LO SPORT NAZIONALE IN TUTTA ITALIA RICETTA ELETTRONICA ANTI-TRUFFE ANNIDATO NEL DNA UN VIRUS RACCONTA LA STORIA DEGLI OVINI ======================================================= ________________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 apr. ’09 IL REGNO DI PASQUALE IL MAGNIFICO A chi tocca dopo un rettore in carica diciott’anni? di GIORGIO PISANO Se ne va perché deve. «Non ho scelta». Altrimenti resterebbe, a dispetto dei 76 anni, diciotto nella veste di magnifico rettore dell’Università di Cagliari, fabbrichetta del sapere che fa girare trentaseimila studenti e quasi trecentodieci milioni di euro. Pasquale Mistretta è riuscito a succedere a se stesso cinque volte. Non si poteva, certo, ma gli è bastato cambiare lo statuto: a larga maggioranza come si dice, imperatore quasi per acclamazione che non per la miserabile conta dei voti. Come tutti i cagliaritani a etnia controllata e garantita, è già abbronzato. Il solicello d’aprile gli ha colorato faccia, mani, collo, uniche aree a rischio per un signore che vive in cravatta. Nell’arco di quasi un ventennio, è stato accusato (mai apertamente) di essere un incursore invisibile, sub del sottobosco politico, uno che sposta e taglia a piacimento. Non sono riusciti tuttavia a renderlo chiacchierato, metterne in discussione l’onestà. E l’intelligenza. Perché quella c’è, e si vede. Che altro gli farebbe dire, sennò, che ha smesso da tempo di offendersi? «L’ultima volta che mi è capitato avevo 50 anni». Figuriamoci, passato remoto. L’età gli ha regalato la saggezza per guardare al di sopra di certe testoline professorali che l’avrebbero dolcissimamente fatto fuori. La seccatura è che Mistretta resiste. E partecipa con sincero dolore: ai funerali degli altri. Stare in sella per una stagione così lunga richiede temperamento. E pure una certa faccia che l’interessato ha portato davanti agli studenti in occasione di scontri e occupazioni. S’è tuffato nella mischia («a rischio zugata», come dice lui) riuscendo ad andarsene sempre integro. Nipote di un carabiniere siciliano, due figli, spettatore indefesso della seconda serata televisiva («m’addormento tardi»), mette insieme il piglio del signore e, all’occorrenza, quello del sottoproletario. Il che significa essere mentalmente liberi. Ingegnere, urbanista, ha detto moltissimi anni fa che i centri commerciali sarebbero diventati le piazze del futuro. Tutti giù a ridere salvo ammettere, con molti anni di ritardo, che aveva ragione. Socialista, ex consigliere comunale, nel 2001 si è candidato a sindaco rimediando una sconfitta pesante. «Avevo fatto previsioni campate per aria. Non potevo immaginare che tutti i rioni popolari di Cagliari, da Sant’Elia a Is Mirrionis, da Bingia Matta a Santa Teresa, votassero permanentemente a destra». Non s’è fatto tentare dal grembiulino del Grand’Oriente ma coi massoni - causa di forza maggiore - tratta e discute ogni giorno. «Inutile negarne la presenza all’Università». Gestisce un’azienda con 1.200 docenti e altrettanti impiegati, dottorandi, assegnisti, specializzandi, cocopro e precari vari. Propone 94 diversi corsi di laurea (cento nel 2008), succursali in varie province sarde. L’indagine Censis-Repubblica colloca il suo ateneo al sesto posto tra i medio-grandi d’Italia. Secondo una ricerca planetaria, oscilla invece tra quota 400 e 500 nel mondo. Roba da Paese in via di sviluppo. Ama le letture brevi, soprattutto la poesia perché «mi fa riflettere a lungo senza addormentarmi con papiresse infinite». Ha cambiato lo statuto universitario per diventare eterno? «Beh, direi di sì. Quella che ho avviato nel ’91 (e concluderò a ottobre del 2009) è stata una scommessa con me stesso. Credo d’averla vinta. Adesso vado via perché non ho più la possibilità di restare». Altrimenti? «Mai chiudersi le porte preventivamente nella vita». Quasi un ventennio: ricorda un errore clamoroso? «In qualche circostanza non sono stato abbastanza freddo. Ho fatto salti mortali per sostenere persone che non si sono rivelate all’altezza». Nomi? «Un rettore uscente non deve farne. Sarebbe una vendetta meschina a babbo morto». Di cosa va fiero? «Aver saputo interpretare i cambiamenti generazionali. Non ho mai avuto rapporti tempestosi con gli studenti. Quando diventi vecchio sei una garanzia, a patto di riuscire a mantenerti molto sveglio, mera sciru». E se al suo posto arrivasse un dilettante allo sbaraglio? «Non ce n’è. I candidati sono tutti professori di grande esperienza amministrativa». L’università che ha trovato, l’università che lascia. «Ho trovata una università statica ed estranea alla società civile. La lascio dinamica e aperta al confronto». I docenti sono una casta? «Lo erano. Lo erano al punto che diventando professori ordinari si aveva diritto ad ottenere il "lei" anziché il "tu". Oggi abbiamo soprattutto ricercatori». I prof sono molto diversi dai baroni del ’68? «Sì, ma solo perché è cambiato il sistema. Oggi non potrebbe sopravvivere un preside di Ingegneria come Mario Carta o un chirurgo come Sandro Tagliacozzo». Quanto conta la massoneria? «Niente. Ma mi preme dire che ho reso omaggio alla salma di Armandino Corona, Gran Maestro del Grand’Oriente, perché in 18 anni da rettore non mi ha mai fatto proposte oscene». I gruppi di pressione, comunque, ci sono e contano. «No. Credono di contare, il che è diverso. Per farmi rieleggere non una ma cinque volte hanno visto il mio trasversalismo democratico come conveniva: a destra e a sinistra». Cattedre di famiglia. «Esistono. Ma prima di lanciare la pietra, parlo di mio figlio Fausto, così anticipiamo una domanda di questa intervista. Fausto, che lavora in un settore diverso dal mio, ha atteso anni prima di diventare ricercatore. Allora, dov’è lo scandalo? Mi risulta perfino sia considerato bene». Cattedre ereditate. «Ci sono, meno che altrove ma ci sono». Nomi? «Li pubblicate periodicamente sul giornale: perché dovrei fare il cecchino per conto terzi?». Professori asini. «Più che asini, con difficoltà a farsi capire dagli studenti». Si diceva anche ai colloqui scolastici: suo figlio si applica ma non rende. «E va bene, succede. L’importante è riuscire ad attenuare il danno». Privilegi. «L’auto di servizio e il prestigio del ruolo, non comparabile con quello dei parlamentari. Loro sono più di 900, noi ottanta, compresi rettori delle università private. Il mio è un incarico, come dire?, ad alta caratura». Essere chiamato Magnifico può dare alla testa? «Agli inizi del mandato colpisce. Preferisco essere chiamato professore però, mi dà un senso di appartenenza più solido». Quante persone ha sistemato? «Il verbo sistemare non mi piace. Sono riuscito a mettere in gioco, cioè sotto contratto, centinaia di persone. E ne sono felice». Fischi e pernacchie. «Fischi e pernacchie? Sì, certo, fanno parte del contratto. Ho vissuto le occupazioni degli anni ’80, trattato quando hanno portato i tavoli universitari in piazza, quando volavano botte con la polizia, quando le facoltà erano occupate e qualche docente conservato dentro». Oggi si parlerebbe di sequestro. «Anche allora, se è per questo. Ma era una scemenza, unu scimproriu. Quando vai a parlare in un’assemblea infuocata devi mettere in conto il coretto di buffone buffone . Quel che conta è che alla fine ti ascoltino. Sono fiero di aver sempre avuto un buon rapporto coi ragazzi». Paura, mai? «Sì, quando c’era l’abitudine di gambizzare uomini-simbolo. Io, nella categoria, ci rientravo a meraviglia. Però non ho mai chiesto aiuto alle forze dell’ordine, non ne avevo bisogno». Minacce? «È una minaccia cantare sceemo sceemo ? Al massimo, un’ipotesi». Le facoltà distaccate sono un fallimento? «Così come sono oggi, sì. Vanno ripensate. Quel modello non ha più senso: soldi sprecati e vendita di illusioni». Coi tagli del Governo, cosa resta dell’università? «Bisogna ridimensionare i corsi e tornare all’essenzialità della laurea. Semplificare è il motto». Significa mandare gente a casa? «No. Detto questo, non si possono più tollerare insegnamenti doppi, cattedre in fotocopia, professori che fanno la stessa cosa». Si arriverà all’autosufficienza economica? «Perché succeda l’università deve crescere in un territorio industriale, di capitali e capitalisti che abbiano interesse verso la ricerca. In Sardegna, come in gran parte del Mezzogiorno d’Italia, non c’è nulla di tutto questo. Ovvio che il nostro sia un ateneo povero: perché, la regione invece è ricca?». La sala del rettore, anno 1770, non è la più bella di palazzo Belgrano, in via Università a Cagliari. Austera, poco illuminata, scrivania senza computer, ha di originale soltanto i ritratti (tutt’altro che straordinari) di gentiluomini che vigilano, in posa, dalle pareti. Mistretta ha trascorso migliaia di ore in questo ufficio dai toni regali e un po’ tristi. «È più grande del confessionale del Grande Fratello ma spesso ha svolto la stessa funzione». Mistretta urbanista: la Sardegna cresce nella direzione giusta? «È lenta. Lenta nell’anticipare gli eventi, nello spendere i finanziamenti, nel cogliere l’aria che cambia, nel capire dove va il boom». Dove va il boom? «C’è una evidente concentrazione di trasferimenti (uomini e imprese) su Olbia che però non può continuare a restare paese, bidda. In un futuro non lontano, Sassari sarà solo una città di cultura, Nuoro la patria di Grazia Deledda». E Cagliari? «Troppo chiusa in se stessa, non riesce ad uscire da una logica municipalistica per diventare città-leader dell’Area Vasta. Cagliari è una realtà complicata perché complicati sono i cagliaritani». Complicati? «Siamo tendenzialmente spontanei, e non è un pregio, solari, forse i meno invidiosi tra i sardi ma purtroppo fatalisti. Noi non facciamo succedere. Aspettiamo che succeda». ______________________________________________________________ Corriere della Sera 19 apr. ’09 UNIVERSITÀ, L’ITALIA IMPORTA CERVELLI Il rapporto sulla «guerra globale per i talenti». Più della lingua a frenare la corsa è la burocrazia Ascolta la notizia Gli studenti dall’estero crescono del 20%: sorpasso su quelli in fuga Dal 2004 al 2006, gli studenti di altre nazionalità sono passati da 40 mila a 48 mila, più venti per cento - ROMA — Tra il 2004 e il 2006 i corsi delle nostre università, spesso al centro di polemiche e di analisi impietose, hanno attratto un 20 per cento in più di studenti di altre nazionalità: da 40 mila a 48 mila. Il 2006, per quanto riguarda la capacità del nostro sistema universitario di richiamare iscritti d’oltrefrontiera, è stato un anno di svolta. Il numero dei giovani stranieri che hanno deciso di formarsi in Italia ha superato quello degli italiani che si sono iscritti ad un ateneo d’oltreconfine. Nel 2004 infatti il numero dei nostri ragazzi che emigravano per ragioni di studio superava di 4.251 unità quello degli stranieri che frequentavano le nostre università. In buona sostanza eravamo fuori dal novero dei Paesi sviluppati: nell’Ocse solo l’Italia attirava meno studenti di quanti ne uscivano. Nel 2006 gli arrivi hanno oltrepassato di 8.501 unità le partenze. Numeri molto piccoli se si tiene conto di un flusso mondiale di due milioni e 700.000 studenti universitari che studiano all’estero e che valgono 30 miliardi di euro. O se si guarda a quanto accade in Europa. Ma quei dati segnano un’inversione di tendenza. Nella «guerra globale per i talenti» qualcosa si sta muovendo anche nei nostri atenei? È quanto sembra emergere da un’indagine sulle università italiane nel mercato globale dell’innovazione condotta da «Vision», un «pensatoio » indipendente che produce ricerche sociali e politiche (il rapporto sarà presentato il 20 alla Camera, Palazzo Marini, alla presenza del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini). L’aumento delle iscrizioni di studenti stranieri non è solo una curiosità statistica, un motivo di orgoglio per il nostro mondo accademico che all’improvviso si scopre un po’ più competitivo. Quei laureati, una volta tornati a casa, manterranno vivo per molti anni un legame con la cultura, le competenze e le capacità produttive del nostro Paese. Nei primi dieci posti per la presenza di studenti stranieri(in rapporto agli iscritti e non in valore assoluto) troviamo il Politecnico di Torino seguito da Bocconi, Trieste, Politecnico di Milano, Urbino, Bologna, Trento, Genova, Camerino, Brescia, Verona e Firenze. Il saldo tra studenti universitari stranieri in arrivo e in uscita — 8.501 giovani immigrati nel 2006 — è poca cosa se paragonato a quello degli Stati Uniti (535.492) dove tuttavia tra il 2000 e il 2006 si nota un calo pari al 5 per cento. Ma le distanze restano forti anche se ci confrontiamo con i nostri diretti competitori europei: Regno Unito (305.051), Germania (183.122), Francia (181.730), Belgio (35.469) o Spagna (24.138). «Vision» giunge alla seguente conclusione: «Mentre Francia, Germania e Regno Unito sono abituati ad avere più del 10 per cento dei propri studenti che sono stranieri, la media italiana è del 2 per cento». C’è la difficoltà della lingua. L’Italiano non è un idioma veicolare, anche se nei migliori atenei sta aumentando l’offerta di corsi in lingua inglese. La maggiore difficoltà sembra però essere un’altra, almeno secondo l’indagine condotta da «Vision» nel Politecnico di Torino tra ricercatori e studenti di master per lo più colombiani e cinesi: il 60 per cento ha espresso un giudizio negativo sulla nostra burocrazia e il 32 per cento sulle normative in merito agli immigrati. «Una sorta di selezione al contrario — conclude lo studio — attraverso la quale riduciamo l’emigrazione togliendo la parte migliore». - Giulio Benedetti ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 23 Apr. 09 UNIVERSITA’ AVANZATA PER Mario Losaslo, FILOSOFO DEL DIRITTO, LA DIFFUSIONE DEL WEB NELLE ISTITUZIONI MIGLIORALA QUALITÀ DELLA PARTECIPAZIONE il processo di produzione e di consumo della conoscenza è essenziale Anche per la democrazia DI JUAN CARLOS DE MARTIN E’ uno dei doveri più nobili di un'università promuovere l'avanzamento della conoscenza e la sua dif fusione non solo tra coloro che possono frequentare le lezioni quotidiane, ma ovunque». Nel 1878 Daniel Coit Gilman, il primo presidente della Johns Hopkins University, pensava a una casa editrice universitaria, ovvero a libri e riviste, quando pronunciò quelle parole. Oggi, a distanza di i3o anni, la nobile aspirazione rimane sempre valida, ma i mezzi tecnologici per realizzarla - e arricchirla - sono drasticamente cambiati, aprendo prospettive inedite. Tl mutamento di scenario, reso possibile dall'avvento di internet, è anzi talmente notevole che ormai è opportuno interrogarsi su come dovrebbero cambiare le università nel XXI secolo per rimanere fedeli alla loro antica missione di formare cittadini in grado «di migliorare la conoscenza, di promuovere la comprensione e di servire la società», come recita la mission di Harvard. Tra le molte riflessioni che si possono fare a questo proposito, a mio avviso due spiccano e hanno a che vedere con le università O come organismi che consumano e producono conoscenza e © come tassello essenziale di una democrazia deliberativa moderna. La prima riflessione è basata sulla constatazione che le università sono organizzazioni che usano, riusano, producono e diffondono enormi quantitativi di conoscenza. La comunità accademica, infatti, attinge dai milioni di libri delle sue biblioteche, dalle decine di migliaia di riviste scientifiche esistenti e da moltissimo altro materiale, sia cartaceo sia online (come dati, software e contenuti generalisti), e da tale fonte distilla nuova conoscenza per assolvere ai suoi due compiti istituzionali principali, la didattica e la ricerca. L'output didattico è fisicamente ciò che comunica il docente a lezione, ma è anche il corrispondente materiale didattico, come dispense, presentazioni, contenuti multimediali e libri. L'output scientifico è, invece, costituito, in primis, da pubblicazioni scientifiche, ovvero, libri e articoli su rivista, ma anche da software e dati, ovvero le stesse fonti che alimentano il processo in entrata. Cosa possono fare le università per massimizzare i benefici per la scienza, per gli studenti e per la società nel suo complesso di tale processo di riuso, produzione e diffusione di conoscenza? Moltissimo. A oggi, infatti, il sistema è ancora in larga parte impostato su cardini progettati quasi 40o anni fa, quando la carta e l'assenza di strumenti personali di redazione come il computer appesantivano moltissimo il processo di produzione e distribuzione della conoscenza. Movimenti come quello dell'open access alle pubblicazioni scientifiche e alle risorse didattiche stanno costruendo, grazie a internet, alternative che hanno ormai raggiunto i cuori dell'accademia mondiale, come Harvard, Mit e Stanford. Ma molto resta ancora da fare per rendere le università maggiormente consapevoli del loro ruolo in questo settore e per indurle a diventare proattive. La seconda riflessione è che, nelle democrazie deliberative moderne come le nostre, le università hanno un ruolo insostituibile da due punti di vista. Le università, infatti, formano cittadini dotati sia degli strumenti concettuali sia dell'attitudine mentale necessari a farne attori consapevoli di un confronto costante all'interno della società. Le università, inoltre, costituiscono un serbatoio di conoscenza aggiornata e super partes al servizio della società per affrontare i problemi sempre più complessi che la modernità pone. Anche in questo caso internet offre alle università strumenti che potrebbero rendere molto più incisivo il loro ruolo formativo e di sostegno. Per la formazione, strumenti avanzati di discussione e di networking ordine potrebbero facilitare il coinvolgimento sistematico degli studenti su temi propri dei loro corsi di studio, ma anche su aspetti della vita di ateneo e su grandi temi di interesse per la società nel suo complesso, allenandoli al confronto e alla deliberazione come modo di vivere. Lo stesso tipo di strumenti potrebbero anche rappresentare il modo per portare maggiormente le università verso la società, favorendo una compenetrazione che metta a maggior frutto sia le conoscenze disponibili presso gli atenei, sia l'abitudine della comunità scientifica al confronto oggettivo, rigoroso e paziente. Un aprire le porte di uffici e laboratori per beneficiare non solo le aziende, desiderose di know-how, ma anche i semplici cittadini, gli autodidatti, e poi i policy-makers a tutti i livelli, in un momento storico in cui- nonostante le dichiarazioni di principio - il ruolo dei dati di fatto nelle decisioni politiche è probabilmente a uno dei minimi storici. È sulla base di queste riflessioni che, nell'ambito della Biennale Democrazia di Torino, abbiamo deciso di proporre un dibattito prima online e poi dal vivo sul tema dell'«università aperta»: per offrire sia un esempio metodologico (fuso di nuovi strumenti per dibattere), sia riflessioni e proposte sul tema del ruolo delle università nell'era di internet. I risultati sono disponibili sul sito: neYa.polito.it/universitaaperta. Solo un primo passo per delineare con maggior chiarezza i nuovi modi con cui le università possono contribuire alle società che le ospitano e le sostengono. ______________________________________________ Terra Nuova25 apr. ’09 UNIVERSITARI: LA CULTURA DELL'INFELICITÀ Uno studente su dieci fa ricorso a psicofarmaci»: è questo I'inquietante messaggio lanciato dal rapporto defl'European school project on alcool and other drugs, I'annuale indagine sull'uso di alcol, droghe e sostanze psicoattive nelle scuole, curato per la parte italiana dall'Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa. «L'aspetto più allarmante del rapporto» commenta Sabrina Molinaro, ricercatrice dell'istituto pisano, «è che mentre i numeri riferiti a droghe e alcol si mantengono più o meno costanti, cresce il consumo delle sostanze psicoattive, passato dal 6% del 2003 al 10% di oggi, contro la media europea attestata al 6%». Le conseguenze sulla salute sono evidenti, come spiega Enrico Malizia, professore di farmacologia alla Sapienza di Roma: «(I danno tossicologico acuto a carico del sistema nervoso centrale è certo, come è probabile anche il rischio di dipendenza». L'associazione Giù le mani dai bambini, che da sempre si batte contro l'autorizzazione all'uso di psicofarmaci per bambini e adolescenti, punta il dito contro le istituzioni di controllo sanitario, ma per l'istituto superiore di sanità e l'Agenzia italiana dei farmaco è tutto sotto controllo. Non è dello stesso parere Emilia Costa, professore emerito di psichiatria alla Sapienza: «Si tratta di dati sconvolgenti, che dimostrano che il 10% dei nostri giovani ha problemi irrisolti e vive un senso di inadeguatezza nei confronti delle difficoltà della vita». Ancora più preoccupante, aggiungiamo noi, è che l'unica risposta che la nostra società è in grado di dare loro è una droga legale da acquistare in farmacia. Stiamo nutrendo i nostri figli con la cultura dell'infelicità e i primi a soffrire della mancanza di speranza e di valori sono proprio loro. ____________________________________________________________ L’Espresso 24 Apr. 09 PER LA MEDICINA LA CURA È IL MERITO Il sistema ~~er l'ammissione alle facoltà è diventato una lotteria I ~erversa. C:he non aiuta i migliori. Ma per riformarlo basta poco: una classifica nazionale e la volontà di cambiare DI IGNAZIO MARINO Che la meritocrazia e la trasparenza non siano una peculiarità del sistema universitario italiano è purtroppo un dato di fatto. A volte però ci si trova davanti a meccanismi che inspiegabilmente tendono a penalizzare i giovani migliori senza benefici per nessuno: sono casi in cui una modifica semplice risolverebbe un problema, ma chi è responsabile non si prende la briga di realizzarla. Un ottimo esempio è costituito dai test d'ingresso alla facoltà di medicina e chirurgia. Il prossimo settembre ci sarà l’annuale appuntamento con il test d'ammissione: un test identico negli atenei di tutt'Italia, sostenuto dai candidati lo stesso giorno. A prima vista sembrerebbe un sistema equo in cui, per evitare clientelismi e raccomandazioni è stato eliminato persino il colloquio con il candidato, pur importante in un corso di studi in cui i tratti caratteriali, la psicologia e la motivazione sono fondamentali. E invece un problema c'è: la classifica dei candidati che hanno superato il test non viene stilata su base nazionale, ma è separata per ogni ateneo. L'ammissione alla facoltà è dunque determinata dal rapporto tra candidati e posti disponibili in ogni singola sede, e non in base al punteggio effettivo raggiunto nel test d'ammissione. Questo meccanismo fa sì che uno studente escluso per esempio dall'Università di Torino, sarà costretto a ritentare l'anno successivo ma potrebbe aver consegnato un test migliore rispetto a un altro studente di Roma che invece viene ammesso pur con risultati inferiori. I dati dello scorso anno sono illustrati nella tabella della pagina affianco: su 60.502 candidati, soltanto riescono a farcela. Messina è l'università che offre più chance (5,1 aspiranti per ogni posto), il San Raffaele di Milano invece è la meta più difficile da raggiungere (19,4 concorrenti per ciascuno dei cento posti). Il meccanismo è perverso e funziona come una lotteria: è meglio affrontare il test in una facoltà prestigiosa, che però offre meno posti e dove è maggiore la concorrenza per essere am messi, oppure meglio puntare direttamente su un ateneo in cui la qualità degli studi è considerata minore, ma dove vi sono più posti a disposizione per superare la selezione iniziale? Sembra un sistema davvero illogico, che punisce i migliori, ma che potrebbe essere modificato rapidamente. Partendo da un'idea di Andrea Ichino, professore di economia all'Università di Bologna, abbiamo elaborato assieme una proposta per il ministro Mariastella Gelmini. Perché non creare un'unica classifica nazionale dei risultati del test, senza considerare la sede in cui è stato sostenuto, per ottenere una lista nazionale degli ammessi in base al numero di posti disponibili in tutte le facoltà del Paese? A questo punto sarebbero gli studenti stessi a scegliere l'ateneo che prediligono, partendo dal primo sino all'ultimo degli ammessi. II vantaggio sarebbe duplice: tutti gli studenti più meritevoli a livello nazionale sarebbero ammessi e i migliori avrebbero accesso alle facoltà che preferiscono. Oltretutto, questo meccani smo avvierebbe una competizione virtuosa tra le varie facoltà, che farebbero di tutto per "essere scelte" dagli studenti più promettenti, impegnandosi a migliorare la qualità dell'istruzione e delle strutture universitarie italiane. Si tratta di un sistema semplice, trasparente e di immediata applicazione, in vigore in molti altri paesi: perché non introdurlo subito anche da noi, invece di rischiare di penalizzare i più capaci? ____________________________________________________________ la Repubblica 21 Apr. 09 L’INVASIONE DEI NEURO MANIACI MARCO GATTANEO Proprio nel momento del loro massimo splendore, gli studi sui cervello attraversano una fase turbo lenta. E per di più - chi l’avrebbe mai detto - per colpa del loro strumento più prezioso: le moderne tecniche di visualizzazione dell'attività cerebrale, a cominciare dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI, per gli addetti ai lavori). Che minaccia di polverizzare, ammesso che non l'abbia già fatto, il vasto territorio delle neuroscienze in una miriade di discipline dai nomi più o meno esotici, in cui il prefisso neuro - si giustappone a rami vecchi e maturi della conoscenza: dalla neuroeconomici alla neuroestetica, dalla neuroetica alla neuroteologia. Su queste nuove (o seminuove) discipline e' uscita almeno una dozzina di libri solo negli ultimi dodici mesi, senza contare convegni, congressi e nuove società scientifiche. E’ una nomenclatura che esercita un'attrazione fatale sul grande pubblico, ma che sta scatenando un aspro scontro in seno alla comunità scientifica. Perché lascia intendere, senza andare troppo per il sottile, che le funzioni superiori del cervello possano essere inscatolate in moduli rigidamente separati: qui l'area del senso estetico, lì quella delle decisioni economiche; un po' più in là il modulo di Dio, ovvero i centri cerebrali della spiritualità, accanto a quelli della morale. E spedisce in soffitta la niente per concentrarsi sulle "azioni" --vere o presunte - del cervello, certificate da belle immagini in bianco e nero con vistose macchie colorate che raffigurano, almeno così si lascia intendere, le aree attive quando svolgiamo un determinato compito. Così lo studio dei complessi rapporti tra mente e cervello, da sempre poggiato su precari equilibri, sembra quasi essere travolto da una nuova frenologia, l'idea pericolosa elaborata da Frana Joseph Gall sul finire del Settecento, che pretendeva di identificare le funzioni mentali con precise aree cerebrali e, peggio, di stabilire quali fossero le finzioni più sviluppate di un individuo osservando la conformazione esterna della scatola cranica. Pensava, cioè, che quanto più un'area era sviluppata, tanto più era efficiente la funzione a cui assolveva. Certo, gli studi sulla mente non stanno tornando all'antico con tanta leggerezza, tuttavia è questo il pericolo adombrato in Nearo marzia. Il cervello non spiega chi siamo, un pamphlet da poco pubblicato da "il Mulino" i cui autori, Carlo Legrenzi e Paolo Umiltà, sono rispettivamente professore di psicologia cognitiva all'Università di Venezia e professore di neuropsicologia all'Università di Padova. Ma in verità lo scontro sulle neuro discipline - e soprattutto sulla capacità delle scansioni cerebrali di leggere la mente-era già esploso verso la fine del 2007 negli Stati Uniti. quando il "New York Tymes pubblicava un articolo dai titolo This is your brains in politics. Vi si descriveva un esperimento condotto da Marco coboni e colleghi, dell'Università della California a Los Angeles, su un campione di venti elettori statunitensi incerti nella scelta di voto alle primarie per le presidenziali dello scorso anno. La ricerca sosteneva di poter individuare le preferenze degli elettori, grazie alla scansione del cervello con la WRI, osservando le aree cerebrali che più si attivavano alla vista delle immagini dei candidati. Nel giro di ventiquattr'ore il quotidiano fu investito dalle proteste di altri eminenti studiosi, che contestavano con veemenza l'idea che si potesse determinare la preferenza di voto di qualcuno da una "macchia di attivazione" di questa o di quell'altra area cerebrale. (A posteriori va riconosciuta ai critici qualche ragione: la ricerca sosteneva, tra le altre cose, che Barack Obama non riusciva a entusiasmare gli elettori americani) Per capire il motivo di tanta ostilità, però, occorre fare un passo indietro. La risonanza magnetica funzionale offre preziose indicazioni sullo stato di attività del cervello. Ma non lo misura direttamente. Misura invece le variazioni del flusso sanguigno: quanto più il flusso è intenso, tanto più una certa area è attiva. Però queste variazioni hanno un ritardo di circa cinque secondi rispetto all'elaborazione del pensiero. E, peggio che andar di notte, il cervello è soggetto a un'incessante attività spontanea che non sappiamo spiegare. In realtà, le immagini in bianco e nero del cervello con qualche chiazza colorata che immancabilmente corredano gli studi di "neuro qualcosa" rappresentano solo minime differenze di attività in un magma di scariche neuroriali cui la scienza non è in grado, almeno oggi, di dare un'interpretazione univoca. Sollevato da autorità mondiali del calibro di Chris Frith, Patricia Churchland, Elizabeth Phelps e Russell Poldrack, e raccolto dal libro di Legrenzi e Umiltà, il dibattito sulla reale portata delle scansioni cerebrali e sull'interazione mente cervello coinvolge inevitabilmente uno dei più controversi concetti della filosofia della mente: il libero arbitrio. Perché, alle estreme conseguenze, accettare che la scarica di una manciata di neuroni - tra i cento miliardi di cellule nervose del nostro cervello sia responsabile di ogni nostra decisione significa forse anche limitare drasticamente la possibilità di scegliere, se il cervello, o meglio una sua minuscola porzione, Lo ha già fatto al posto nostro. E questo è un prezzo che nemmeno il più convinto dei deterministi sarebbe disposto a pagare. Si sono moltiplicate le discipline che pensano di poterspiegare tutti i fenomeni attraverso gli studi sul cervello Queste ricerche ora sono messe sotto accusa: "una moda che non funziona" le definisce un pamphlet appena uscito ____________________________________________________________ Tst 22 Apr. 09 DARWING: GLI DEI SONO SEMPRE IN NOI Darwing aveva le idee chiare: la religione è un tratto universale degli umani ",Sbarazzarsene é difficile quanto per una scimmia disfarsi dell'istintiva paura del serpente" GILBERTO CORBELLINI Se c'è un aspetto delle idee di Charles Darwin che è noto a tutti, è che tendono a entrare in conflitto con le credenze religiose. Non che questo fosse lo scopo per cui concepì la teoria della selezione naturale, in alternativa all'idea che la vita sia il risultato di un progetto divino. Tranne qualche cretino, nessuno può sostenere che Darwin volesse dare un dispiacere ai credenti, a cominciare da sua moglie Emma. Sono stati versati fiumi di inchiostro per discettare di quello che pensasse della religione e soprattutto se la teoria dell'evoluzione implichi l'ateismo, l'agnosticismo, ovvero se sia compatibile con la religione. Per la verità, Darwin aveva le idee abbastanza chiare e forse aveva intuito come stanno le cose circa la natura della religione in quanto tratto comportamentale e culturale tipicamente umano. Si dichiarò agnostico, che non era una scelta di disimpegno rispetto a una «militanza» antireligiosa o anticlericale, ma semplicemente considerare il problema insolubile, se lo si formuli nei termini della domanda se un qualche dio esiste o no. Darwin non era sprovveduto. Aveva studiato la teologia. E osservava con l'occhio del naturalista il comportamento umano. Di conseguenza era giunto alla conclusione, come scriveva nel 1880, che gli attacchi alla religione sono senza effetto sul pubblico, mentre si può promuovere meglio la libertà di pensiero facendo progredire la scienza. Inoltre, scriveva nell’«Autobiografia» che la religiosità viene coltivata nei bambini e produce «un effetto così forte e duraturo sui loro cervelli non ancora completamente sviluppati, da diventare per loro tanto difficile sbarazzarsene, quanto per una scimmia disfarsi della sua istintiva paura e ripugnanza del serpente». ETOLOGI E BIOLOGI Poiché non scriveva mai a vanvera, considerando che nell'«Origine dell'Uomo» sosteneva che la credenza in un dio particolare non sembrava innata, mentre appariva un tratto universale la credenza in entità spirituali che pervadono il tutto, si può dire che aveva colto l'essenza del problema. Se la religiosità e le religioni esistono, è perché sono adattative: si tratta di un sottoprodotto di caratteristiche cognitive che in quanto tali non funzionano in modo ottimale e inducono a credere in cose prive di realtà. E infatti alcuni etologi e biologi evoluzionisti ritengono (senza negare che i meccanismi cognitivi alla base della religiosità abbiano avuto un'origine del tutto contingente) che le religioni abbiano una funzionalità adattativa. L'ultimo autorevole biologo evoluzionista ad argomentare in questo senso è David Sloan Wilson, autore di «La cattedrale di Darwin. Evoluzione, religione e natura della società» (Giovanni Fioriti Editore). Lui ha stretto un'alleanza teorica interessante con il iù famoso e parzialmente omonimo Edward O. Wilson, diffondendo la tesi, a lungo ritenuta eretica anche dal Wilson sociobiologo, che la selezione di gruppo è un fattore importante dell'evoluzione biologica. Peraltro, anche Darwin lo pensava. Dopo aver dedicato un libro scritto insieme con Elliot Sober («Onto others. The evolution and psychology of selfish behaviour», Harvard University Press) a riformulare la selezione di gruppo in modo da risultare scientificamente plausibile (ovvero testabile) per dimostrare che la selezione naturale non agisce solo a livello del fenotipo, ma a più livelli, inclusi i gruppi di individui, ha scelto di metterla alla prova nel modo più difficile. Cioè per dimostrare che la religione è un tratto culturale adattativo, selezionatosi nel corso dell'evoluzione. La tesi di Wilson (David Sloan) è che le religioni sono organismi che rispondono alle finalità evolutive fondamentali, che sono la sopravvivenza e la riproduzione. Gli organismi religiosi hanno successo grazie ai processi della selezione di gruppo, in cui proprio i gruppi religiosi sono favoriti, in quanto riescono più efficacemente a favorire un tipo di comportamento che è individualmente svantaggioso: i meccanismi che rendono funzionali questi comportamenti sono i controlli sociali, descritti come una forma di altruismo a basso costo. In assenza di controlli sociali, il comportamento egoistico, che comunque rimane sempre presente nel gruppo, prevarrebbe e sostituirebbe l'altruismo. Proprio i meccanismi di controllo sociale sono la forza dei gruppi religiosi, la cui esistenza dipende da fattori che non sono riconducibili a un altruismo volontario. ELEMENTI METAFISICI E qui entra in gioco la specificità delle religioni, cioè le credenze in sovrastrutture ideologiche e metafisiche straordinariamente funzionali per indirizzare i comportamenti a beneficio del gruppo. Senza dover ricorrere a costosi sistemi di sorveglianza e punizione, i gruppi religiosi ottengono l'adesione individuale e volontaria all'autorità a causa del timore di incorrere nella collera divina o di dover pagare qualche costo «spirituale». Dunque, la fede, permettendo al gruppo di funzionare come un'unità adattativa, risulta un «adattamento». Wilson rafforza la tesi, mostrando - cosa di cui gli antropologi e psicologi cognitivi che si occupano delle origini delle credenze non tengono conto - che la mente umana dispone non solo di moduli cognitivi innati, ma che molto più importanti sono i meccanismi di apprendimento che consentono di far fronte a situazioni impreviste, ovvero di risolvere problemi nuovi. E sottolinea che questa capacità del cervello dipende dal fatto come hanno dimostrato i neurobiologi - che è anch'esso una «macchina darwiniana». Dalla straordinaria plasticità del cervello, consentita dalla selezione neurale, deriva proprio quella diversificazione impressionante dei contenuti delle religioni, quasi simile alla diversità della vita prodotta dalla selezione naturale stessa. Chi ritiene la religione un sottoprodotto giudica che proprio l'esistenza di credenze diversissime non consenta di concepire la religione come un adattamento. Ma, appunto, Wilson spiega il fenomeno facendo riferimento a un modello del cervello più verosimile neurobiologicamente di quello che utilizzano gli psicologi cognitivi ed evoluzionistici. Dal calvinismo a Balì Applicando la sua teoria a religioni diversissime tra loro, come il calvinismo, il giudaismo, il sistema dei templi di Bali, senza trascurare l'analisi sui fattori che hanno favorito le origini e la diffusione del cristianesimo e di numerose altre religioni, anche inventate di recente, Wilson dimostra in modo convincente la funzione secolare della religione. Pur riconoscendo l'esistenza del «lato oscuro» dei gruppi, che sempre per ragioni evolutive tendono a competere in modo violento con altri gruppi, e quindi a produrre intolleranza, lui è ottimista sul ruolo che può svolgere la religione per promuovere il benessere sociale. Non è questa la sede per una discussione critica sulla religione oggi, da un punto di vista evoluzionistico, e forse l'approccio di Wilson non tiene conto che alcuni componenti neuropsicologici della religiosità erano probabilmente adattativi anche rispetto a problemi non strettamente connessi con il mantenimento delf organizzazione sociale. L'impresa che porterà alla spiegazione della religiosità è comunque avviata ed è il momento di immaginare teorie di respiro più largo. Un primo tentativo lo fa lo stesso Wilson nell'introduzione scritta per l'edizione italiana del libro. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Apr. 09 MAPPE ONLINE, ALLARME DEI GEOGRAFI «SALVIAMO LA VECCHIA CARTINA» Il documento «Si rischia una perdita vertiginosa di informazioni» MILANO - Una «perdita vertiginosa di informazioni». La scomparsa di un marchio che «oltre un secolo fa ha realizzato la vera e propria rinascita della cartografia italiana», uno spicchio di made in Italy «che ha fatto scuola ovunque». La ristrutturazione dell'Istituto geografico De Agostini, con i «tagli» al servizio cartografico (da 31 a 6 dipendenti), preoccupa gli studiosi del settore. Cartografi, geografi. A1 punto da convincerli a stilare un «coccodrillo», vale a dire un necrologio anticipato, per quella che «di fatto - spiega Franco Salvatori, presidente della Società geografica italiana - è la dismissione di un pezzo di storia scientifica e formativa del Paese». Per il Gruppo De Agostini, quel ridimensionamento è stato l'unica risposta possibile alla bordata delle «mappe» online, da Google Maps in giù. Disponibili per tutti, ovunque, gratis: «E un fatto è incontestabile: la possibilità di fare entrare la cartografia in ogni casa, su uno schermo digitale, è un passo avanti straordinario», concede Salvatori: «Ma proprio per questo ritengo che quando un settore si trova di fronte a forti innovazioni, come nel caso in esame, be', in genere resta sul mercato affrontando la sbda...». Anche perché «i due prodotti soddisfano esigenze diverse: da un lato; con Google Maps e affini, abbiamo la scansione di un rilevamento da satellite. Dall'altro, la cartografia». E un'immagine cartografica, come quelle dell'Atlante De Agostini e delle mappe su cui si sono formate generazioni di studenti, «è qualcosa di più. Perché trasfigura e rielabora, anche culturalmente, l'immagine fotografica della Terra. E lo fa attraverso gli occhiali di chi la produce, che possono essere didattici ma anche strategici, come per le carte militari...». Simboli, colori, informazioni differenziate. «Senza dimenticare l'estetica», ricorda Claudio Cerreti, presidente del Centro italiano per gli studi storico-geografici e cofirmatario, con Salvatori, dell'appello-necrologio. «E in questo senso De Agostini e Touring hanno sviluppato, negli anni, uno stile tutto italiano». E a rischio, riprende Salvatori, un'esperienza lunga un secolo. 0 forse più: «Perché la cartografia italiana è stata importantissima nel Rinascimento e per tutto il '500, poi c'è stato il declino. Ma tra '80o e 'g00, la ripresa è stata formidabile. E negli anni '50, con De Agostini e Touring è nata una produzione per il grande pubblico, l'italiano medio alle prese con carte stradali, guide turistiche...». Ora, però, la De Agostini riduce e «delocalizza», «il Touring sta vivendo un po' gli stessi problemi, e anche l'Istituto geografico militare è in crisi di gestione. Non c'è più una scuola cartografica vera e propria, perché il mercato del lavoro si riduce». E con lui se ne va un pezzo importante dell'«eccellenza italiana». Gabriela Jacomella ____________________________________________________________ la Repubblica 22 Apr. 09 CI VUOLE UN ALTRA FISICA Perché materia ed energia oscura continuano a sfidare i cosmologi Forse vanno modificate le leggi della gravitazione sulle grandi scale" ATTILIO FERRARI UNIVERSITA'DI TORINO La cosmologia è una combinazione delle leggi della gravitazione di Einstein su grandi scale e delle leggi della meccanica quantistica sulle piccole scale. Le domande sono semplici, ma le risposte sono complesse. Ed è questa complessità a motivarci». Parola di Edward W. Kolb, direttore del dipartimento di Astronomia e Astrofisica dell'Università di Chicago, famoso per gli studi sulle prime fasi dell'Universo. Quali sono le ultime scoperte sulla composizione dei cosmo? «L'astronomo conta le stelle e le galassie fino al fondo dell'Universo: scopre che è fatto soprattutto di idrogeno ed elio, ma che sono presenti elementi come il carbonio, l'ossigeno e il ferro. Però, oggi, le osservazioni dicono anche che quanto vediamo è il 5% dell'Universo. Un 25% ulteriore è necessario per impedire che le galassie si disperdano: si tratta di una materia "invisibile", a cui abbiamo dato il nome di materia oscura. Il rimanente 70% è una forma di materia/energia richiesta dalle leggi di espansione, l'energia oscura. Abbiamo dato dei nomi a queste componenti, ma non significa averle capite». Che cosa sappiamo di loro? «Per quanto riguarda a materia oscura, si pensa che si tratti di particelle esotiche prodotte nei primi istanti dell'Universo, nel Big Bang, quando l'Universo era caldo e in rapida espansione. Si spera che i test al Cern generino le condizioni per produrre le particelle: potremmo studiarle attraverso la trasformazione in materia normale. L'energia oscura, invece, è considerata una forma di massa/energia dello spazio vuoto, un concetto che apre la via verso una nuova fisica». Quali sono i candidati per la materia oscura? «Le idee più accreditate provengono dalle teorie supersimmetriche, secondo cui ogni particella ha una sua corrispondente particella superpartner. Tra le altre sarebbero presenti i Wimp, particelle massive capaci di effetti gravitazionali, ma che interagiscono debolmente con la materia attraverso le altre forze di natura - elettromagnetica, debole e forte - con cui potremmo rivelarle. Queste particelle potrebbero costituire la materia oscura. Il satellite "Parnela" ha rivelato un eccesso di positroni provenienti dalle regioni del centro galattico, dove i campi gravitazionali causano un accrescimento di materia e una condensazione di energia: l'annichilazione di particelle supersimmetriche potrebbe esserne l'origine, anche se sono più probabili altre interpretazioni. Se gli esperimenti fossero negativi, escludendo l'esistenza di particelle supersimmetriche, dovremmo considerare la possibilità che le leggi della gravitazione sulle grandi scale vadano modificate. Già si lavora su quest'idea». E l'energia oscura? Non tutti credono alla sua esistenza. «Le osservazioni sulle supernove dicono che l'espansione dell'Universo sembra accelerare. Altre osservazioni legate alle anisotropie della radiazione di fondo indicano che la materia dell'Universo debba essere due volte e mezza quella della materia normale e di quella oscura. Per comprendere questi effetti occorrono nuovi concetti. L'idea favorita è che esista della massa associata allo spazio vuoto. Tuttavia sono possibili anche altre interpretazioni. Le leggi della gravitazione potrebbero essere differenti su scala cosmologica oppure - come ho studiato con l'Università di Padova - le leggi di espansione nel modello standard di Friedmann sarebbero da modificare per tener conto del fatto che l'Universo è condensato in stelle e galassie». Ci sono test che possono decidere se l'energia oscura esista o si deve immaginare una nuova cosmologia? «Abbiamo i telescopi, che permettono di andare indietro, all'origine dell'Universo. 1 dettagli di questa espansione ci diranno quali dei punti di vista - energia oscura o variazioni delle leggi dell'espansione stessa - è il più corretto». _________________________________________________________ il Giornale 23-04-2009 LA BRAMBILLA ACCUSA: «LE LAUREE IN TURISMO NON SERVONO A NULLA» Le lauree in turismo, così come sono, non servono praticamente a nulla. Michela Vittoria Brambilla, sottosegretario al Turismo, ha deciso di aprire un nuovo fronte: tra i mali che affliggono il settore, sostiene la Brambilla, c'è la distanza abissale tra le conoscenze offerte dagli atenei (con i corsi di laurea in sociologia del Turismo, scienze del Turismo eccetera) e le reali necessità del mercato. Con le conseguenze che mentre chi esce dagli istituti professionali - le vecchie scuole alberghiere - entra con discreta facilità nel mondo del turismo, invece i «dottori in turismo» sono «laureati e specializzati, ma senza le competenze necessarie richieste dal mercato». Per cercare di ricucire la distanza tra sistemi della formazione e mondo reale, ieri la iperattiva sottosegretaria ha annunciato l'ingresso in scena di «un comitato di accademici e addetti ai lavori», guidato dall'ex presidente del Touring, Armando Peres. ======================================================= ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 19 apr. ’09 CAPPELLACCI: «LE ASL AVRANNO NUOVI VERTICI» CAGLIARI. «Cambieremo i manager Asl. Lo spoil system fa parte delle democrazie più avanzate e consente di portare avanti una linea politica con responsabilità». Lo ha detto il presidente della Regione, Ugo Cappellacci, in un’intervista sul sito della Cgil sarda. Il governtaore parla anche del piano casa e dice che «le Regioni lo possono adattare alle proprie esigenze. Metteremo alcuni paletti, che siano rispettosi del nostro patrimonio ambientale». E sull’industria avverte: «Abbiamo bisogno di uno sviluppo diverso ed equilibrato. Oggi la tendenza è fare impresa in Paesi dove il costo del lavoro è più basso. Certo potrei scegliere di investire cento milioni di euro in una fabbrica, ma non sarà per sempre. Le risorse naturali e l’ambiente sì, perchè non possono essere delocalizzati». Il presidente ribadisce poi il no al nucleare e sui fondi per la Sassari-Olbia e le bonifiche: «E’ una partita aperta». ____________________________________________________________ Tst 22 Apr. 09 DNA BYE BYE E INIZIATA L’ERA DEL RNA E’ il pilota che regola i geni e le proteine Ecco perché siamo diversi dai moscerini viviamo in un'epoca «Dna-centrica», mentre un'altra molecola portatrice di informazione, essenziale per la vita, è stata relegata alla posizione di Cenerentola dalla divulgazione scientifica. Si tratta dell'Rna. E' quella che unisce la capacità di conservare l'informazione, tipica del Dna, a quella di catalizzare reazioni biochimiche, tipiche delle proteine: oggi, però, sta svelando sorprese ancora più grandi rispetto a quelle che il Dna, da solo, ci ha riservato finora. La scoperta della struttura del Dna, poco più di 50 anni fa, e di recente il sequenziamento del Genoma umano hanno modificato la ricerca biomedica, ma anche il nostro quotidiano. Espressioni del tipo «è scritto nei suoi geni» sono di ventate parte ciel linguaggio corrente. Il Dna, non c'è dubbio, occupa una posizione centrale nella materia vivente, perché contiene l'informazione genetica di base: possiamo paragonarlo ad una sorta di hard- disk biologico, su cui sono memorizzate le informazioni necessarie per la vita. Ma da chi, e come, vengono gestite? Per rispondere alla domanda è arrivato il momento che il Dna passi il testimone all'Rna. Oggi, infatti, sappiamo che la vita su questo pianeta è iniziata proprio con l'Rna - si parla di «Teoria del Mondo a Rna» - e che l'Rna, al contrario del Dna, svolge un ruolo attivo in molti processi biologici. Ad esempio è sempre più evidente che può modulare e diversificare l'informazione genetica scritta nel Dna. Come nella favola di Cenerentola, quindi, è facile immaginare che, nell'epoca post-genomica, il futuro riservi un ruolo da vera principessa all'Rna. Uno dei suoi ruoli più importanti è quello di veicolare l'informazione dal Dna alle proteine, i veri «effettori» dell'informazione e delle operazioni biologiche. Come avviene questo fondamentale passaggio? La genetica lo sta analizzando nel dettaglio soltanto adesso. Si sapeva già che, affinché sia espresso, un gene deve essere sempre trascritto in una molecola di Rna, chiamato Rna messaggero - rnRna - il cui compito è quello di trasportare l'informazione dal Dna a particolari macchine molecolari, i ribosomi. Questi, utilizzando un codice specifico, traducono l'informazione dal linguaggio a 4 lettere del Dna e dell'Rna - i nueleotidi - in quello a 20 lettere - gli aminoacidi - delle proteine. In ogni organismo vivente, perciò, lo schema di flusso dell'informazione sarebbe: Dna - mRna - proteina. Ma questo non basta a spiegare numerosi punti oscuri. Bisogna quindi chiarire meglio il ruolo dell'Rna. Per molto tempo abbiamo ritenuto le molecole di mRNA come semplici e passive trasmettitrici Uno degli aspetti che più hanno colpito l'opinione pubblica, quando è stata resa nota la sequenza del Genoma umano, è stato il fatto che il numero dei nostri geni non è poi così drammaticamente diverso da quello del moscerino della frutta: circa 25 mila geni nell'uomo e 16 mila nella Drosophila melanogaster. Com'è possibile che una cogi piccola differenza nel numero dei geni possa giustificare la grande diversità biologica tra un moscerino e un essere umano? La spiegazione si sta chiarendo: le proteine finali non sono il risultato della semplice traduzione di un gene, secondo lo schema precedente, ma anche di uno speciale «bricolage» tra pezzi dello stesso gene, che si combinano tra loro. Ecco perché bastano solo 25 mila geni per produrre le oltre 150 mila proteine delle cellule umane. E questo è più che sufficiente per fare la differenza tra noi e un moscerino. Ma come avviene questo «bricolage»? Quando a un gene viene chiesto di esprimere una proteina, il primo passaggio consiste nella trascrizione e nella produzione di un «pre-mRna», che contiene porzioni dette «introni» ed «esoni». Nei mammiferi poi esoni contengono l'informazione che verrà tradotta in proteina, mentre gli introni non hanno apparentemente nessuna funzione. 0, forse, sarebbe meglio dire che non conosciamo ancora la loro funzione? Di certo, attraverso una complessa reazione - detta «splicing» gli introni vengono rimossi dal pre-mRna per produrre un mRNA maturo. Solo quest'ultimo verrà letto dai ribosomi e l'informazione sarà tradotta in proteina. Quindi, per ogni gene umano lo schema di flusso dell'informazione diventa il seguente: Dna - preniRna - mRna - proteina. Che senso ha per la biologia questa segmentazione dei geni in zone codificanti, gli esoni, e in zone non codificanti, gli introni? In altre parole, che senso ha, per la cellula, produrre le grandi molecole di premRNA, se poi deve scartarne grandi porzioni, con il taglio degli introni? Oggi sappiamo che addirittura il 96% dei geni umani va incontro a una variante dello «splicing», chiamato «splicing alternativo». E grazie a questo meccanismo che combina le porzioni del pre-mRna – una specie di «taglia e cuci» genetico - che è possibile, per esempio, produrre anche tre proteine differenti da un solo gene. E' anche lo splicing alternativo, che avviene nella maggioranza dei nostri geni, ma solo in una frazione di quelli del moscerino, a spiegare come mai bastino i nostri 25 mila geni per sintetizzare le oltre 150 mila proteine. Non è solo il Dna che fa la differenza, quindi, ma soprattutto la serie dei complessi meccanismi che lo regolano! Si sa anche che lo splicing alternativo è controllato in modo molto specifico, mentre alcune sue forme contribuiscono a controllare l'informazione genica anche in risposta a differenti stimoli ambientali. Una deregolazione di questi eventi, per esempio, è connessa a una serie di patologie, prima di tutto il cancro. Oggi esiste un «network of excellence», finanziato dall'Unione Europea e chiamato Eurasnet, che si occupa di studiare questo processo: del network fanno parte 4 gruppi italiani, 2 dei quali, diretti da me e dal biologo molecolare Glauco Tocchini Valentini, sono attivi nel Cnr. Da oggi al 25 aprile, ad Assisi, il meeting del network farà il punto su queste straordinarie conoscenze. ____________________________________________________________ la Repubblica 20 Apr. 09 DNA, SVELATO IL MISTERO DELLE SEQUENZE RIPETUTE Ricerca italiana: hanno un ruolo importante nell'attività dei geni ROMA- La materia oscura del nostro genoma non ha più segreti: è stata infatti individuata quell'ampia porzione di Dna cui finora non era attribuito alcun ruolo specifico, ed era anzi considerato un I}na `morto', inutile, non più funzionale. Si tratta del cosiddetto'Dna ripetuto', ovvero milioni di sequenze `gemelle' sparse per il genoma che adesso si è scoperto essere funzionanti e con un ruolo importantissimo di regolazione dell'attività dei geni. Annunciata dalla rivista Nature Genetics, la scoperta è frutto di una collaborazione internazionale tra il gruppo del Laboratorio di Epigenetica del Dulbecco Telethon Institute guidato da Valerio Orlando e ospitato dalla Fondazione Santa Lucia e dall'Ebri, il team di Piero Carninci dell'Omics Centre di Yokohama in Giappone, l'Università di Queensland in Australia. In Italia lo studio è stato finanziato da Telethon, Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro e Fondazione Compagnia San Paolo. «La scoperta - spiega Orlando - rappresenta una tappa storica nella ricerca genetica in quanto dimostra che questi elementi ripetuti, apparentemente morti o silenti, sono in realtà fortemente integrati nel programma genetico di una cellula e di certo sono anche implicati in alcune malattie genetiche e nel cancro in cui il programma cellulare è alterato. Rappresentano dunque nuovi potenziali target farmacologici o potrebbero essi stessi divenire strumenti per terapie mirate». Il genoma è costituito da una porzione, minoritaria, di geni che costituiscono il codice di lettura per produrre proteine, e poi da tutto un altro universo, finora oscuro, di sequenze ripetute e fino a qualche tempo fa chiamate, erroneamente, Dna spazzatura; in quanto ritenute inutili, vestigia dell'evoluzione non più funzionanti. Ma questo 'maxi-studio' dimostra definitivamente che non è così. Le sequenze ripetute, che in totale rappresentano ben il45 per cento dell'intero genoma, hanno un ruolo importantissimo al pari dei geni nel programma genetico della cellula. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 18 apr. ’09 LA DELUSIONE GENOMA «MALATTIE NON PREVEDIBILI» I primi dubbi sulla utilità della mappa del Dna Ascolta la notizia Scienza Il «New England» e il «New York Times»: cambiare strada Milioni di investimenti e aziende che lanciano sempre nuovi test: ma è difficile stabilire un legame tra gene e malattia MILANO — Chi volesse «leggere», nel suo Dna, il rischio di ammalarsi di infarto o di diabete, di Alzheimer o di schizofrenia, deve attendere: l’analisi genetica delle malattie più comuni (e la possibilità quindi di avere test attendibili) si è rivelata molto, molto più complessa di quello che ci si aspettava. L’oroscopo genetico rimane, almeno per ora, un oroscopo da non prendere veramente sul serio. Da quando è stato decodificato il genoma umano nel 2003, i ricercatori si sono messi al lavoro per cercare alterazioni di geni che potessero predisporre alle malattie, soprattutto a quelle più diffuse. E ne hanno trovate moltissime. Parallelamente sono nate, come funghi, aziende che continuano a propagandare test per il Dna capaci di predirne la comparsa in ogni individuo: un vero e proprio boom anche in Italia, ma soprattutto negli Stati Uniti (per mille dollari si può conoscere, nei dettagli, il proprio genoma: basta un po’ di saliva) e in Internet dove siti, come www.23andme.com o www.decodeme.com, offrono persino servizi «specializzati » in cardiologia o in oncologia. Una vera e propria «genomania ». Sarà anche per questo che la più nota rivista medica americana, il New England, ha deciso di prendere posizione con una review sugli studi finora condotti e ben tre editoriali di commento. E la notizia è stata ripresa dal New York Times, secondo il quale l’era della medicina su misura è ancora lontana. «Per chiarezza è importante fare un passo indietro — commenta Paolo Vezzoni, genetista al Cnr presso l’Istituto Humanitas di Milano —. Nell’ultimo decennio sono stati compiuti enormi progressi nella scoperta di singoli geni responsabili, da soli, di specifiche malattie. Sono le cosiddette malattie mono-geniche, come la talassemia, che sono per lo più rare. Nella review si parla, invece, di un enorme studio sui polimorfismi, cioè su tutte quelle variazioni genetiche che sono legate a malattie complesse. Non passa giorno che qualche rivista non parli di scoperta di geni legati a questa o a quella patologia. E alla possibilità di mettere a punto un test per individuarne il rischio ». Ecco però il problema. Anzi i problemi. Se è vero che alcune variazioni genetiche sono correlate alla probabilità di sviluppare una certa malattia, per esempio un infarto, è altrettanto vero che la loro presenza, nel genoma di un individuo, spesso indica un rischio molto basso, tipo il 23 per cento. Non solo. Una malattia può anche essere provocata dalla combinazione di più varianti e spesso da varianti rare, non da varianti comuni. Le malattie cardiovascolari, per esempio, riconoscono almeno una quindicina di varianti di predisposizione e se un test è basato soltanto sulla ricerca di una o due di queste, avrà una capacità predittiva bassa. A questo punto vale molto di più la pena valutare altri fattori di rischio dell’infarto, questa volta ambientali, come lo stress o la sedentarietà o il fumo che sono, al momento più attendibili. Come dire che, sul piano pratico, nella prevenzione di malattie multifattoriali, la genetica non dice granché. Rimane, invece, importantissima quando deve identificare, attraverso test già in uso (ce ne sono in commercio circa un migliaio), malattie ereditarie come appunto la talassemia, l’emofilia o la fibrosi cistica. La mancanza di un reale applicabilità pratica delle ultime ricerche sulle malattie comuni ha stimolato gli editorialisti del New England a porsi una serie di domande. Si chiede per esempio David Goldstein, della Duke University: «Vale la pena di continuare queste ricerche che costano milioni di dollari o è meglio trovare altre strategie, come studiare l’intero genoma di singoli pazienti? Questo secondo approccio potrebbe essere più utile per ottenere risultati più rapidamente trasferibili nella pratica clinica ». - Adriana Bazzi ____________________________________________________________ la Repubblica 23 Apr. 09 ERNIA, SENO, COLECISTI: TUTTI IN DAY SURGERY di Giusepe Del Bello Ernia, colecisti, emorroidi. Ma anche la rimozione della prostata. Tutto 0 quasi. in dav surgery. Se non va in soffitta, la chirurgia generale è destinata al ruolo della protagonista che va in scena solo se indispensabile. Diffusa, conveniente e tecnologicamente avanzata, la day surgery (intervento e dimissione in giornata) è la modalità rapida e sicura, studiata per garantire interventi che un tempo richiedevano degenze lunghe e costose. Lo confermano le casistiche riportate da specialisti italiani e stranieri intervenuti al congresso della Sicads (Società italiana di chirurgia ambulatoriale e Day surgery che, presieduto da Giuseppe ~Di Falco, direttore della Chirurgia "Primo", si conclude domani a Treviso. I dati però. pur facendo registrare dal 1998 a oggi tiri incremento costante del numero di interventi in day surgery, rivelano una flessione negli ultimi due anni. «Siamo passati dal 28% degli interventi del Z00a», osserva Marsilio Francucà. presidente della società, «al 35,9% del 2005, per poi calare al 35.2% nel Z007». Numeri che, secondo gli esperti, sarebbero la spia di una minore attenzione da parte delle istituzioni. «Una metodica innovativa», aggiunge Francucci, avrebbe bisogno di una riorganizzazione. E invece alcune Regioni hanno abolito la possibilità di pernottare il giorno dell'intervento e il limite potrebbe essere esteso a tutto il Paese producendo un ulteriore calo, fino al t8-ao% delle procedure in dav surgery». Il divieto toglie la possibilità di ricoverare ma sola notte come a volte è necessario, indirizzando sin dall'inizio molti pazienti verso una degenza più lunga. Di qui l'ulteriore calo dei casi di da3Surgery. .«La domanda c'è», insiste il presidente della Sicads. «ma è necessario garantire la sicurezza. La day surgery infatti prevedeva la possibilità di un pernottamento. Adesso, si rischia di regredire e di dover dire addio alle colecistedomie laparoscopiche, alle emorroidi, ai tumori della mammella». Ma dal congresso arriva il cosiddetto "modello Treviso" adottato dall'ospedale Cà Foncello" dove è in fase di sperimentazione la "Week surgen", una chirurgia che prevede ricoveri di qualche giorno. «L'anno scorso sono stati effettuati 18.390 interventi e di questi in day surgen• un terzo, cioè Ga33», rivela Di Falco, «gli altri 22 mila potrebbero essere inseriti nel progetto "4 giorni". Abbiamo istituito un piccolo settore chirurgico che apre i battenti il lunedì mattina e chiude alle iG del venerdì. È stato un successo che intendiamo estendere ad altri 4 mila interventi. Così, solo il 40% della chirurgia generale sarà ancora svolta nei reparti tradizionali». ____________________________________________________________ la Repubblica 23 Apr. 09 II "LIFTING DEL RETTO" CONTRO LE EMORROIDI di Angelo Caviglia * L e emorroidi sono delle vene poste alla fine del tubo intestinale, all'interno del canale anale. Quando "scendono", ovvero prolassano al di fuori dell'ano, allora si cominciano ad accusare fastidi che vanno dal prurito, ai sanguinamenti, alle crisi dolorose e addirittura alla stitichezza. Secondo diverse statistiche raccolte in numerosi lavori scientifici circa il 10% della popolazione, nel corso della vita, ha a che fare con questa patologia, in maniera più o meno eclatante. L'intervento tradizionale viene visto dai pazienti in maniera altamente drammatica, memori di esperienze chirurgiche affrontate nel passato da amici o parenti che ne amplificano le conseguenze dolorose. Se la causa è il prolasso La tecnica di Longo (dal nome del suo ideatore, Antonio Longo, dal 1999 all'ospedale St. Elisabeth di Vienna n.dr.) è entrata ormai nella pratica corrente (2 milioni gli interventi realizzati con questa tecnica nel mondo dal 1993) e ha rappresentato una rivoluzione per quel che riguarda la terapia chirurgica di tale affezione, sia per l'alta tollerabilità riguardo al dolore post-operatorio che risulta essere dì gran lunga ridotto rispetto alle tecniche usuali, sia per i lusinghieri risultati per quel che riguarda il miglioramento della dualità di vita. Per curare le emorroidi, ora, non è più necessario rimuoverle, ma è importante eliminare il prolasso rettale che le genera. È lo "scivolamento" del retto verso l'esterno a causare la fuoriuscita delle vene emorroidarie dall'ano. Per fare questo ci si avvale di uno strumento, chiamato Stapler, capace di resecare la mucosa del retto e di ricucirla allo stesso tempo, accorciandolo. Alla fine non ci saranno ferite esterne, il paziente potrà subito sedersi, camminare e soprattutto andare in bagno senza particolari dolori. La cura della malattia emorroidaria con Stapler è diventato negli ultimi anni uno degli interventi di scelta per le emorroidi di II grado avanzato, di III e IV grado e per i prolassi della mucosa rettale. In anestesìa locale L'intervento consiste nell'effettuare, di fatto, un "lifting" del canale anale, mediante l'aiuto di una suturatrice meccanica (Stapler), capace di asportare la mucosa rettale ed emorroidaria prolassata e ricreare un canale anale anatomicamente fisiologico. Dal momento che la sutura è interna al canale anale, in zone molto poco innervate dal punto di vista dolorifico, i fastidi, nei giorni seguenti l'operazione, sono molto ridotti. L'intervento viene effettuato normalmente in anestesia locale, ma può essere eseguito con tutti i tipi di anestesia, dalla spinale alla generale. Tale metodica ha visto diminuire drasticamente il dolore post cuci operatorio di circa il 70-80% rispetto ai precedenti interventi. I fastidi al momento della defecazione sono facilmente dominabili con comuni analgesici. La degenza media è di rz giorni e in genere dopo 7-rj giorni si può ritornare alle proprie normali attività. Inoltre quei pazienti che oltre alla malattia emorroidaria erano colpiti anche da stipsi spesso hanno miglioramenti molto gratificanti dopo in seguito all'intervento. Una esperienza di lo anni L'intervento di Longo è ormai riconosciuto in tutto il mondo pur essendo arrivato da relativamente pochi anni nel bagaglio tecnico dei chirurghi che si occupano di emorroidi. Ormai, a poco più di io anni dalla invenzione di questa nuova procedura, circa il 10% dei proctologi adotta questa tecnica e i pazienti sono altamente soddisfatti. Dal 1999 ho personalmente eseguito più di r.500 interventi con questa tecnica e devo dire che i pazienti sono estremamente soddisfatti dei risultati ottenuti. È importante avere una solida e ampia esperienza nell'uso di questa metodica. A volte si possono avere risultati scadenti se non viene posta una giusta diagnosi e soprattutto se non si ha "familiarità" con lo strumento chirurgico. Gli insuccessi legati a questa metodica sono infatti da imputare a interventi eseguiti da chirurghi che non avevano una precipua preparazione proctologica o a chirurghi non specialisti in questo genere di chirurgia. Direttore della Struttura Semplice Dipartimentale di Colon Proctologia Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini Roma ____________________________________________________________ la Repubblica 24 Apr. 09 STAMINALI E OSSIGENO PER CURARE IL DIABETE L’uso combinato di cellule staminali e ossigenoterapia apre nuove prospettive per la cura del diabete. Uno studio dei ricercatori del Diabetes Researdi Instihzte (DBI) presso la UniversiW of Miami Miller School of Medicine e la Stem Cell Argentina di Buenos Aires pubblicato online, l'm marzo su Cell Transplantation-T{le Regenerative Medicine Journal ha, infatti, mostrato i risultati promettenti di un nuovo protocollo basato su ossigenoterapia e cellule staminali. Nello studio pilota di fase z, 25 pazienti con diabete tipo a hanno ricevuto infusioni di cellule staminali autologhe nei vasi sanguigni afferenti al pancreas e ossigenoterapia iperbarica prima e dopo le infusioni. «I risultati preliminari», spiega Camillo Ricordi, direttore del Cell Transplant Center e del DiaUetes Research Instittzte. «hanno indicato che l'unione tra l’infusione intrapancreatica di cellule staminali autologhe e l'ossigenoterapia iperbarica peri-trapianto ha sensibilmente migliorato la produzione di insulina, i livelli di glucosio e ha drasticamente ridotto il bisogno di iniezioni di insulina esogena». Acquisiti i dati dello studio pilota, i ricercatori hanno avviato un trial clinico, approvato dalla Fda, la Food and Drug Administration. l'ente governatvo statunitense che regola i prodotti alimentari e farmaceutici. I malati reclutati hanno tra 45 e 65 anni. Prelievo di midollo osseo ambulatoriale con la tecnica ago-aspirato con diabete tipo 2 diagnosticato dopo i 4o anni e hanno la malattia da più di 5 anni, ma da meno di r. I partecipanti al trial verranno suddivisi tra terapia farmacologia standard per il diabete tipo 2 o a una serie di trattamenti in camera iperbarica. Durante il trattamento nella camera pressurizzata, il paziente respirerà ossigeno al z00 percento: si pensa die livelli alti di ossigeno portino al rilascio di cellule staminali dal midollo osseo e ne permettano la circolazione in tutto l'organismo. «Dopo io trattamenti con ossigenoterapia», spiega Rodolfo Alejandro, direttore del programma clinico cellule insulari del DRI, «il midollo osseo viene prelevato mediante aspirazione e vengono preparate le cellule da infondere nel pancreas». Dopo l'infusione, i pazienti saranno sottoposti a io ulteriori trattamenti in camera iperbarica. Alejandro conclude: «Questo intervento potrebbe modificare l'evoluzione del diabete di tipo z, dando al pancreas la possibilità di guarire e possibilmente di rigenerarsi». In attesa di conoscere i risultati di questo trial, a Palermo. all’Ismett, sarà avviata l'applicazione del "metodo Ricordi" che consiste nel trapianto di cellule pancreatiche da tiri donatore a tiri diabetico di tipo i. Bruno Gridelh, direttore di Ismett, precisa: «In via sperimentale il programma di trapianto è stato già avviato, ma è destinato solo a pochi pazienti. All'Ismett si è scelto di impiantare cellule pancreatiche solo in due casi: quando il paziente non è più stabilizzato dall'insulina e con ipoglicemia asintomatica, oppure in combinazione con il trapianto di un altro organo, ad esempio il rene. Questo criterio. valido in tutto il mondo. è stato inserito perché al momento il paziente trapiantato di cellule pancreatiche non ha più necessità dell'insulina, ma deve ricorrere alla terapia immunosoppressiva per evitare il rischio di rigetto. L'immunosoppressione è. purtroppo, ancora necessaria e non è una terapia meno pesante rispetto a quella insulinica». Un altro problema è rappresentato dalla scarsità di organi destinati al trapianto: per ottenere un numero adeguato di cellule pancreatiche da infondere in un paziente servono circa 2-3 pancreas per paziente. (tiziana lenzo) __________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 26 Apr. ‘09 COL CHIRURGO DENTRO LA TAC Interventi sulla colonna più rapidi e sicuri grazie ad una nuova apparecchiatura Sul video immagini in diretta del campo e dei gesti operatori Un braccio telescopico mobile robotizzato muove uno scanner circolare, che scorre lungo il corpo del paziente Dagli Stati Uniti è arrivato all'Istituto Galeazzi di Milano l’O-ARM, una nuova TAC disegnata espressamente per l'uso in sala operatoria. La macchina - finora usata in Europa solo in Germania - è un complesso sistema: un braccio telescopico mobile robotizzato muove uno scanner circolare, che scorre lungo il corpo del paziente disteso sul lettino acquisendo le immagini durante l'intervento. I dati - sia immagini Tac tridimensionali ad alta definizione ottenute orientando la scansione in tutte le direzioni, sia immagini radiografiche molto più nitide di quelle delle lastre comuni -, subito elaborati dal computer, nel giro di 30 secondi compaiono su uno schermo posto davanti al chirurgo, fornendogli la visione del campo operatorio. L'apparecchio consente così una chirurgia «guidata», un controllo informatizzato di tutti i gesti chirurgici, particolarmente utile se occorre introdurre sistemi di fissazione della colonna, o quando s'interviene sul settore vertebrale cervicale, sede di strutture vitali. «È un po' come operare dentro una TAC - afferma il professor Maurizio Fornari, dirigente del dipartimento di neurochirurgia dell'Istituto Galeazzi di Milano che, nella sua lunga carriera iniziata all'istituto neurologico Besta, di interventi sulla colonna vertebrale ne ha fatti a migliaia, non ultimo quello sul milanista Alessandro Nesta -. Poter vedere attimo per attimo ciò che accade cambia la prospettiva degli interventi che finora erano, in un certo senso, condotti alla cieca». «Per intervenire su un'ernia del disco o su una lesione traumatica o tumorale della colonna vertebrale, infatti - spiega Fornari - si usavano immagini TAC acquisite prima dell'intervento. La colonna, però, è un sistema multisegmentato molto mobile e le diverse posture modificano ogni volta i rapporti tra i diversi tratti ossei da cui è composta, con situazioni difficilmente e solo parzialmente confrontabili. Stava, quindi, alla bravura dello specialista, che intervenendo sulla colonna lavora dalla parte opposta alla via dell'accesso chirurgico (che è posteriore), saper visualizzare mentalmente il campo operatorio in base ai reperti TAC acquisiti in un tempo e in una postura che erano diversi da quelli della realtà operatoria». «L'enorme aumento di sicurezza e precisione nelle procedure - continua Fornari - consente, inoltre, di accorciare i tempi d'intervento, a tutto vantaggio del paziente che ha un minor traumatismo chirurgico e una pronta ripresa postoperatoria. Fra l'altro, grazie a un'unica fonte di emissione focalizzata e speciali sensori al silicio; l'esposizione alle radiazioni è ridotta a un terzo rispetto ad una TAC convenzionale. II chirurgo ha, infine, l'opportunità di una puntuale revisione dei risultati dell'intervento, sempre con immagini di qualità decisamente superiore». Secondo gli specialisti, la precisione offerta dall'O-ARM potrà dimostrarsi preziosa anche per il posizionamento di elettrostimolatori cerebrali nel trattamento chirurgico della malattia di Parkinson o di quella di Tourette. Cesare Peccarisi ______________________________________________________________ Corriere della Sera 24 apr. ’09 SETTE MILIONI DI PERSONE HANNO PROBLEMI DI UDITO Focus Le nuove frontiere della chirurgia In Italia Sette milioni di persone hanno problemi di udito. Si prevede che nel 2010 il numero possa più che raddoppiare Il futuro Una protesi invisibile utilizza il timpano come «microfono». Partita la sperimentazione anche nel nostro Paese La sordità costa: 92 miliardi di euro E' la spesa annuale nella Comunità europea per il mancato trattamento delle malattie acustiche Esteem E' l'unico dispositivo che viene totalmente nascosto all'interno del corpo. Un vantaggio anche dal punto di vista psicologico Mario Pappagallo Crescita esponenziale di persone con l'udito difettoso. Da circa sette milioni oggi a oltre il doppio nel 2010. Cioè domani. E questo solo in Italia. Da 700 milioni a 1 miliardo e seicento milioni nel mondo. Lo 0,3% colpiti da ipoacusia grave: sordi. Non importa se per nascita, per malattie infettive o per stili di vita sbagliati. Perché anche in questo caso l'ambiente c'entra. Come c'entra l'età media. Più si allunga l'aspettativa di anni in più, più gli effetti dei danni d'usura si sommano. E i nervi, il nervo acustico tra questi, invecchiano. Ma attenzione: oggi a sentire poco si può cominciare da ragazzi. E' l'effetto dell'ambiente, degli stili di vita: discoteche con musica a manetta, iPod sempre accesi, sonorità ambientali in eccesso. C'è anche il «rumore passivo», avverte Michael Glasscock, guru americano della neuro-otologia: «Chi ascolta senza auricolari o cuffie danneggia anche gli altri». Maurizio Barbara, università «La Sapienza» di Roma, entra nel merito: «La perdita dell'udito, o ipoacusia, è considerata una malattia tipica della terza età. In realtà si registra un progressivo deterioramento già a partire dai 30-40 anni. E iniziali disturbi dell'udito si sviluppano, nel 52% dei casi, proprio nella fascia di età che va dai 35 ai 64 anni. La perdita può essere lieve (20-40 decibel) o moderata (40-60 decibel), soprattutto alle alte frequenze. Eppure alcune parole diventano già incomprensibili e i pazienti, a volte, sono costretti alla lettura del labiale per restare integrati nel contesto sociale». Soprattutto i più giovani, però, non cercano immediatamente una soluzione ai loro problemi, lasciando trascorrere spesso molti anni con il rischio di un ulteriore deterioramento dell'udito e di una limitazione della loro vita attiva. E sociale. Commenti del tipo «Quando gli pare ci sente» non sempre sono benevoli e comprensivi. A un certo punto si cominciano a sentire alcuni suoni e non altri, in base all'ambiente dove ci si trova, alla concentrazione, al tipo di vibrazione sonora. Ma ancora l'udito c'è. Ovattato, ma c'è. Una delle conseguenze più gravi per un giovane è la difficoltà a rimanere nel mercato del lavoro, con il rischio di un significativo abbassamento di produttività e tenore di vita. Con costi sociali non indifferenti: circa 92 miliardi di euro all'anno nell'Unione europea, che potrebbero diventare 200 nel 2010. La riduzione delle capacità uditive di un soggetto, l'ipoacusia, può essere mono o bilaterale e viene distinta in diversi tipi: centrale, se il danno è localizzato a livello del cervello e la difficoltà del paziente è legata alla comprensione del segnale verbale; trasmissivo, quando interessa il sistema di trasmissione del suono, dal condotto uditivo esterno all'ultimo degli ossicini (staffa); neurosensoriale, se dovuta ad una lesione dell'orecchio interno o del nervo acustico; misto, se è caratterizzata dall'associazione della componente neurosensoriale con quella trasmissiva; funzionale, se non sono presenti alterazioni nella trasmissionericezione del suono ed il disturbo prende origine da un problema di natura psichiatrica. Aggiunge Barbara: «Le onde sonore sono raccolte dall'esterno e convogliate verso l'orecchio medio, dove si trova il timpano. E tre piccoli ossicini (martello, incudine e staffa) che trasferiscono le vibrazioni del timpano al fluido dell'orecchio interno. Di qui al nervo. Esistono due tipi di perdita di udito: conduttiva e sensoriale (nervo). Una perdita conduttiva deriva da qualcosa che blocca il movimento delle onde sonore verso l'orecchio interno. Quella neurosensoriale è dovuta ad un danno delle cellule ciliate (recettori) nell'orecchio interno o a problemi legati al nervo. La distruzione delle cellule ciliate può derivare dall'invecchiamento o da sostanze tossiche. Il 90% delle ipoacusie è neurosensoriale». La prevenzione è fondamentale. Per le forme ereditarie (50%) è possibile uno screening genetico prenatale. Opportune, comunque, periodiche visite specialistiche. La valutazione audiologica si basa su un esame audiometrico tonale, che misura la soglia uditiva per via aerea e per via ossea, e su quello vocale. Da controllare soprattutto i bambini: c'è un piccolo condotto che unisce orecchio e gola e che nei primi mesi dovrebbe chiudersi, se resta aperto però va tenuto pulito. Guai se il muco lo chiude. Fluidificanti, aerosol e terme sono un toccasana salvaudito. E gli integratori? Gli anti-aging per il nervo acustico sono tocoferolo, miscele con melatonina e Ginko Biloba. Quando però il danno si manifesta, ecco le protesi. Esteticamente accettabili, fisicamente confortevoli e tecnologicamente all'avanguardia. La scelta è vasta, ma i problemi a volte aumentano. «Sto male, non pensavo che il colpo psicologico fosse stato così duro - è un quarantenne a parlare al medico specialista -. Da pochi giorni e per la prima volta in vita mia (ho un deficit uditivo fin da piccolo) sto provando delle protesi acustiche digitali e mi sembra che sto per impazzire dal dolore psicologico. Se sto in mezzo al traffico o se più semplicemente passa una macchina sento tanto fastidiosissimo rumore e non capisco le parole di chi mi sta parlando; mentre mangio sento il rumore di quando inghiotto o di quando bevo...». Su internet, anche su Facebook o twitter, fioccano testimonianze di disagio. E allora? Dopo un po' le protesi finiscono nel cassetto. E non per l'estetica (protesi visibili e color carne non ci sono più), ma anche per la tecnologia. L'ultima novità, ancora in sperimentazione, è la protesi invisibile, inserita nell'orecchio medio. Riproduce un suono naturale. Si chiama Esteem. «Un dispositivo che si applica totalmente all'interno e utilizza il timpano come "microfono" - spiega Barbara, otorinolaringoiatra del Sant'Andrea di Roma, che coordina la sperimentazione di Esteem nel nostro Paese -. In Italia è già stato impiantato su 11 pazienti affetti da ipoacusia di tipo neurosensoriale di grado medio-grave. Nessun caso di rigetto si è verificato. Le protesi sono state tutte applicate in Ospedali pubblici. In totale sono cento nel mondo i pazienti impiantati». Continua a spiegare: «Esteem è l'unico dispositivo, al momento, a disporre di un sistema che viene totalmente nascosto all'interno dell'osso temporale senza necessitare di un microfono, perché usa come tale la normale membrana timpanica. Questo dispositivo utilizza materiali piezoelettrici per rilasciare il suono dal timpano ai fluidi dell'orecchio interno (cellule ciliate). L'intero sistema, compresa la batteria, viene impiantato nell'orecchio medio del paziente e nel mastoide (sistema di cellule ciliate nel cranio dietro l'orecchio medio)». L'intervento dura circa 4 ore perché occorre posizionare, prima di fissarlo, il sensore piezoelettrico in modo preciso. E tararlo. Il paziente stesso e un computer aiutano il chirurgo. Una sorta di pacemaker esterno lo controlla. Tutto perfettamente invisibile. Si può fare la doccia, nuotare e anche fare sport in modo normale. Conclude Barbara: «E' indicato per pazienti con perdita stabile dell'udito neurosensoriale, di tipo medio o grave». E la qualità del suono? I primi pazienti impiantati affermano che è migliore in modo significativo rispetto agli altri supporti, soprattutto in ambienti rumorosi. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 24 apr. ’09 LA BOMBA-DECIBEL DELLA MUSICA A TUTTO VOLUME È IL NEMICO DEI GIOVANI La lunghezza della vita media ha portato ad un aumento delle malattie uditive che prima erano considerate rare? «Sì», risponde uno dei guru dell' otorinolaringoiatria americana: Michael Glasscock III, per anni clinico dell' ospedale della Georgetown University di Washington. Uno dei primi specialisti di neuro-otologia al mondo. «In generale, nel processo individuale di invecchiamento, si verifica una perdita graduale dell' udito dovuta alla distruzione delle cellule ciliate dell' orecchio interno. La causa precisa non è nota, tuttavia si pensa che si tratti dell' acuirsi di fattori come l' esposizione ad una quantità eccessiva di suono e alla riduzione dell' afflusso di sangue all' orecchio interno e al nervo uditivo. Questa perdita di udito legata all' invecchiamento in genere inizia intorno ai sessant' anni. Quindi, siccome l' età media della popolazione aumenta, si registra un innalzamento naturale del numero complessivo di persone che soffre di perdita dell' udito». Obbligatorio un inciso di Glasscock: «La perdita dell' udito viene calcolata su una scala misurata in decibel: i livelli di perdita di udito sono medio (20-40 decibel o dB), moderato (40-70dB), grave (70-90dB) e profondo (superiore a 90dB)». Lo stress della vita moderna, fin da bambini, ha un' influenza sulla salute del nostro apparato uditivo? «Si sa che lo stress influenza molti aspetti del benessere di un individuo. Esiste una condizione medica nota come malattia di Meniere che causa una perdita oscillante del nervo uditivo, uno scampanellio ed attacchi episodici di vertigini (capogiro). Questi sintomi vengono spesso aggravati dallo stress. Lo scampanellio è un suono che le persone sentono nel loro orecchio. È molto fastidioso e la causa non è nota, tuttavia si pensa derivi dal cervello o dall' orecchio interno. Spesso peggiora quando la persona è sotto un eccessivo stress». Le cellule staminali possono giocare un ruolo nella riabilitazione di situazioni oggi incurabili? Esistono ricerche in corso, sia tecnologiche che con le cellule staminali? «In diverse università del mondo si stanno conducendo delle ricerche utilizzando le cellule staminali nel tentativo di rigenerare le cellule ciliate dell' orecchio interno degli animali (in Italia, a Ferrara e a Pisa, i test sui topi hanno dato risultati ottimi, ndr). Potrebbe alla fine diventare una cura per la sordità del nervo, sebbene ancora tra molti anni. Per quanto riguarda la tecnologia, negli ultimi anni abbiamo visto dei progressi incredibili. I supporti all' udito continuano a migliorare e aiutano le persone con deficit del nervo uditivo. L' avanzamento tecnologico più interessante è stato nello sviluppo del dispositivo totalmente impiantato nell' orecchio medio (timed). Envoy medical corporation di St. Paul, in Minnesota, ha sviluppato un timed chiamato Esteem, ora sperimentato anche in Italia. E' indicato per pazienti con perdita stabile dell' udito neurosensoriale, di tipo medio o grave. Un disturbo che colpisce una larga fetta della popolazione adulta e può avere la più svariata origine: dalla senescenza (presbiacusia) che generalmente comincia ad insorgere intorno ai 60-65 anni di età, a forme infettive (parotite epidemica, meningite), all' esposizione - come ho già detto - a rumori intensi e continui, a forme genetiche o tossiche (antibiotici, radiazioni)». Esiste una prevenzione o un consiglio utile per preservare il nostro udito? «Il suono alto è la causa comune della funzione del nervo uditivo. Sono stati eseguiti numerosi studi che dimostrano una precoce perdita di udito in individui giovani di 17 anni. L' ascolto della musica con gli auricolari ad alto volume è considerata una delle cause di ipoacusia in giovane età. I concerti con enormi altoparlanti rivolti verso il pubblico possono produrre 120dB di suono. È come stare in piedi vicino ad un aereo con i motori che girano a piena potenza. Una perdita di udito dovuta al suono si può prevenire. È molto importante indossare delle protezioni (tappi per le orecchie o cuffie speciali che riducono i rumori) quando ci si trova esposti a rumori forti come quelli di seghe elettriche, aspiratori delle foglie, motociclette, aerei, martelli pneumatici, fucili da caccia e pistole. Protezioni per le orecchie anche quando si va ad un concerto rock». M. Pap. Pappagallo Mario ______________________________________________________________ L’Espresso 23 apr. ’09 LA RIVOLUZIONE E' DONNA Dalla mastectomia completa alla chirurgia conservativa del seno, la scienza ha fatto enormi passi avanti. Come racconta un grande oncologo UMBERTO VERONESI La primavera fa pensare alla vita e l'azalea della ricerca, che da 25 anni in questa stagione appare nelle piazze e nelle strade per iniziativa dell'Associazione italiana per la ri- cerca sul cancro, è un appuntamento con la vita. Perché dico questo? Perché questi 25 anni simboleggiati dall'azalea della ricerca corrispondono a una vera rivoluzione nella cura dei rumori femminili e a progressi quasi impensabili, risultato di ricerche avanzate che si sono poste come obiettivo la salvaguardia della vita e della salute delle donne. Dalla diffusione della chinirgia conservativa del seno alla disponibilità di trattamenti mirati, fino alla diffusione dell'assistenza psicologica alle pazienti, tutto concorre a spiegare il rapido miglioramento delle prognosi. Vorrei cominciare dal tumore del seno, il campo in cui mi sono principalmente battuto. Qui il progresso è stato enorme e veramente in direzione della vita. Trent'anni fa la metà delle donne ammalate non ce la faceva: oggi l'85 per cento guarisce. Inoltre più di un terzo delle pazienti (un dato che mi entusiasma) arriva alla diagnosi con lesioni così piccole che le percentuali di guarigione sfiorano il 99 percento. La storia della cura del tumore mammario ha fatto registrare, in questi ultimi 25 anni, continui passi in avanti. E avvenuto grazie alle scoperte fatte negli ambiti più diversi: nella biologia, nella chinirgia, nella terapia farmacologica, nella radioterapia, senza dimenticare una diagnostica per immagini che è andata diventando sempre più raffinata e precisa. E avvenuto anche perché si è sviluppata la capacità di comprendere la portata di alcune di queste scoperte e, soprattutto, di adattarvisi con mutamenti culturali anche molto significativi, che hanno comportato talvolta il capovolgimento di alcune impostazioni terapeutiche consolidate da anni. Uno degli esempi più significativi è l'evoluzione della chirurgia del cancro al seno. Fino agli anni Ottanta, infatti, era ritenuta imprescindibile l'asportazione totale della mammella colpita, dei linfonodi ascellari che si supponeva potessero essere interessati, e sovente anche della mammella controlaterale. Il risultato era una mutuazione devastante, che comportava gravi conseguenze psicologiche per la donna. Si è cominciato allora a pensare che forse era possibile asportare soltanto la parte realmente colpita e si è giunti a considerare prima l'asportazione solo della mammella interessata, poi del tumore e della zona circostante (con la quadrantectomia) e da ultimo solo della massa neoplastica, con la tumorectomia. Nel proporre per primi la quadrantectomia, i miei collaboratori ed io eravamo stati molto isolati, ed eravamo stati feriti da molte critiche. Poi arrivarono i risultati, ottimi. La nostra ricerca aveva preso in considerazione 701 donne con tumore di diametro inferiore a 2 cm., sottoposte all'intervento tradizionale di mastectomia oppure a quello innovativo di quadrantectomia. Le seguimmo per 20 anni, e il lungo follow up ci ripagò con una notizia di contenuto rivoluzionario: il tasso di guarigione era stato identico nei due gruppi. Poi arrivarono i riconoscimenti. C'è un orgoglio che non deriva da vanità, ma dalla coscienza di aver lavorato duramente e nella direzione più utile. Per fare quel "bene dei malati" che è un concetto in cui io credo ancora, anche se sembra passato di moda. Lasciatemi quindi dire che mi sono sentito orgoglioso quando, nel 2002, un editoriale del "New England Journal of Medicine" promosse in modo definitivo la chirurgia conservativa del seno. Il passo successivo è stato quello di riconsiderare il significato e il modo di affrontare i linfonodi ascellari, un problema cruciale per la strategia di prevenzione delle metastasi. Anche qui la scelta - che ha proceduto di pari passo con la ricerca "traslazionale", quella che porta subito i risultati al letto del malato - ha guardato in avanti e ha verificato la possibilità di un intervento conservativo. Tale è stata l'innovazione della metodica del linfonodo-sentinella, ormai adottata in tutto il mondo. • Sempre su questa strada, che si può riassumere nell'obiettivo di passare "dal massimo trattamento tollerabile al minimo efficace", si è giunti poi alla radioterapia intraoperatoria, che ha un doppio vantaggio: quello di poter essere so m m in istra ta durante l'operazione, quando la zona da irradiare è ancora allo scoperto (quindi con grande precisione ed efficacia) e quello di poter concentrare la dose efficace in una sola seduta, evitando disagevoli trasferimenti alle pazienti che abitano lontano dall'ospedale, e dribblando l'ostacolo costituito, in molte regioni, dalla scarsità delle strutture di radioterapia. Siamo infine arrivati al progetto Roll, acronimo inglese che sta per "Radioguided Occult Lesion Investigation". E la più moderna tecnica di asportazione chirurgica dei tumori del seno non palpabili: una piccola quantità di tracciante radioattivo viene iniettata nella zona da operare, che viene successivamente rimossa chirurgicamente grazie alla guida di una sonda che capta la radioattività. All'Istituto Europeo di Oncologia di Milano, di cui sono il direttore scientifico, sono state già operate così oltre mille (e sottolineo) pazienti. Le ricadute di questo nostro lavoro vogliamo metterle a disposizione di tutto il mondo, e in particolare dei paesi che hanno meno opportunità di cure avanzate. Come l'Egitto, dove la mia Fondazione e la Scuola Europea di Oncologià hanno lanciato una campagna di prevenzione del tumore del seno in collaborazione con l'Ambasciata italiana e con l'Ospedale italiano Umberto I del Cairo. Una delle caratteristiche di questa campagna è il coinvolgimento attivo della comunità, proprio quel concetto di Welfare Community fondato su un tipo di società che impara ad aver cura della propria salute: l'autopalpazione del seno viene insegnata a giovani donne-medico egiziane, che poi educano le donne locali a questa tecnica e le istruiscono a chiedere la visita all'Ospedale Umberto I in caso di sospetti. In un paese a prevalenza islamica, che si trova a fare i conti con storici ostacoli culturali, questa rete di donne ha tutte le caratteristiche per poter funzionare. Anche per gli altri tumori femminili i progressi degli ultimi 25 anni s o n o stati significativi: voglio ricordare innanzitutto la netta diminuzione dei tumori del collo dell'utero, grazie alle grandi campagne informative sul pap test. Ormai l'esame periodico è passato nella cultura collettiva, e fin da giovanissime le donne sanno che si tratta di un esame strategico per la salvaguardia della vita e della salute: le piccole lesioni precancerose vengono operate con risultati positivi al 100 per cento, proprio perché scoperte in tempo. Adesso all'arma preventiva del pap test è andata ad aggiungersi una delle migliori scoperte degli ultimi anni: la messa a punto di un vaccino contro il papillomavirus, che si trasmette con i rapporti sessuali ed è responsabile della quasi totalità dei tumori del collo dell'utero. Un grande passo avanti è stata la decisione, presa tre anni fa dal ministero della Salute, di vaccinare tutte le dodicenni, e sicuramente tra non molto si vedranno i risultati di questa grande campagna di prevenzione. Noi dell'Istituto Europeo di Oncologia abbiamo voluto dare una mano con un progetto che è nello stesso tempo d'interesse clinico e d'interesse scientifico, vaccinando cioè mille ragazze di 18 anni dell'area milanese, e seguendole poi gratuitamente per cinque anni. Nel fare il bilancio dei progressi compiuti negli ultimi 25 anni, non si può dimenticare il ruolo della genetica. I test genetici, soprattutto, appaiono come una delle strade del futuro per fare prevenzione. Ci sono adesso test genetici per varie malattie. Nel campo dei tumori femminili, ricordo il caso della predisposizione ai tumori della mammella per la mutazione dei geni Brca l e i , che sono utilissimi per la definizione del rischio. L'unico problema di questi test è il loro costo, reso alto perché coperto da brevetto. Bisogna fare un grande sforzo di ricerca per seguire l'esempio deU'Ifom di Milano, che ha messo a punto per il rischio di tumore del seno un test genetico che cosa dieci volte di meno di quello in commercio, e che da la risposta in sole 48 ore. 11 valore principale della conoscenza del fattore di rischio, come appunto il Brca 1 e 2, è la possibilità di prevenire la comparsa di una malattia. Per fare un esempio, uno studio che sta per iniziare all'le è quello di trattare le ragazze positive al test con un principio attivo, la ferentinide, derivata dalla vitamina A che in uno studio precedente ha dimostrato di ridurre il rischio di tumore mammario nelle giovani donne. I tarmaci, infine. È un campo in cui è cambiato tutto, grazie all'applicazione delle conoscenze biolemolecolari. Si è passati da una strategia in cui si cercava di distruggere le cellule neoplastiche con farmaci antiproliferativi che agivano però su tutte le cellule, a molecole che invece individuano i punti deboli o comunque le caratteristiche peculiari delle cellule cancerose, e colpiscono solo quelle. Sono i farmaci "intelligenti", e mai definizione è stata più appropriata. Va da sé che gli effetti collaterali delle terapie sono assai minori. L'ultima frontiera, la più avanzata, sarà quella delle terapie dirette contro le cellule staminali dei tumori. E una strada molto promettente. Il futuro continua. • ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 23 apr. ’09 ESENZIONI: STRETTA SUL REDDITO Dm Economia-Welfare sul pagamento dei ticket per le prestazioni specialistiche Ogni anno dati comunicati a Mmg e pediatri - Fuori del Ssn chi non rimborsa Guai ai falsi esenti per reddito: la loro sorte sarà rimborsare al Ssn gli importi di tutti i ticket sull'assistenza specialistica ambulatoriale (gli unici a livello nazionale su cui quindi può intervenire il Governo, perché quelli sui farmaci li decidono le Regioni, che registrano esenzioni nel 65% dei casi e valgono come incassi locali quasi un miliardo l'anno) pagati dal Ssn stesso. E se non lo faranno tra i 30 e i 120 giorni dalla notifica della comunicazione dell'Asl (o se non "proveranno" la loro esenzione, documenti alla mano) non potranno più ottenere prestazioni specialistiche dal Ssn finché non salderanno i conti. Il giro di vite rigorosissimo sui controlli delle esenzioni per reddito per il ticket sulle prestazioni specialistiche (36,15 euro) arriva con il decreto interministeriale Economia-Welfare previsto dalla legge 133/2008, la cui bozza è sul tavolo dei governatori perché esprimano il loro parere. Il reddito limite per essere esenti è di 36.152,98 euro l'anno per l'intero nucleo familiare di cui fa parte il richiedente, ma, come testimoniano i numerosi interventi della Guardia di finanza (v. articolo in fondo alla pagina) non sono pochi quelli che non pagano pur guadagnando di più. E per questo lo schema di Dm prevede controlli incrociati, che a regime scatteranno entro il 15 marzo di ogni anno, tra le banche dati dell'agenzia delle Entrate e dell'Inps per quel che riguarda soprattutto i titolari di pensione o assegno sociale e di pensione al minimo. Massimo rispetto della privacy, si intende, tanto che una parte della documentazione acquisita sarà "cancellata" subito dopo il suo utilizzo. Ma il "Sistema tessera sanitaria", che sarà il meccanismo informatizzato a cui faranno capo i controlli, non dovrà lasciare scampo ai falsi esenti, selezionando i nuclei familiari, associando a questi il codice di esenzione ricavato grazie all'applicazione del decreto del ministro dell'Economia del 17 marzo 2008 con cui si è "ridisegnata" la ricetta rosa a carico del Ssn e comunicando per via telematica a medici di medicina generale e pediatri di libera scelta i risultati, esclusivamente dei pazienti a loro carico. E il Sistema dovrà anche strada facendo verificare eventuali incongruenze nella composizione dei redditi dei nuclei familiari. Se Mmg e pediatri non avessero il Sistema tessera sanitaria, saranno le Asl a informarli "su carta". E per gli specialisti prescrittori che non utilizzano il Sistema, le informazioni sulle esenzioni che faranno fede sono quelle sulla prescrizione originale (l'impegnativa per la visita o la prestazione fatta, appunto, da Mmg e pediatri) o per le prestazioni dirette sulla ricevuta di accettazione dell'Asl. Saranno ovviamente valide anche le autocertificazioni da parte degli assistiti, che dovranno tuttavia contenere anche una dichiarazione di conoscenza degli effetti penali di false dichiarazioni e del fatto che le aziende possono effettuare controlli. E il Dm prevede anche un irrigidimento sui controlli di questo tipo. Le Asl non potranno tralasciarne nessuno e possono utilizzare a questo scopo tutte le banche dati necessarie, comprese quelle dei centri d'impiego in caso di dichiarata disoccupazione. Poi le sanzioni. Se i controlli scopriranno l'assenza del diritto all'esenzione, l'Asl ne darà comunicazione all'assistito assieme all'elenco di tutte le prestazioni di cui questo ha usufruito alle spalle del Ssn senza pagare la sua quota di partecipazione alla spesa che il cittadino dovrà restituire al Ssn tra i 30 e i 120 giorni dalla comunicazione, a meno che non sia in grado di fornire la documentazione a prova di quanto originariamente dichiarato. Se non provvederà al saldo, gli sarà inibito l'accesso a nuove prestazioni di specialistica ambulatoriale fino alla regolazione del debito. Lo schema di Dm prevede anche che nelle Regioni in cui saranno stipulati gli accordi Economia-Welfare-Regioni per l'applicazione del Dpcm 26 marzo 2008 (regole tecniche e di trasmissione di dati di natura sanitaria, nell'ambito del Sistema pubblico di connettività con cui si provvede al collegamento in rete dei medici per la trasmissione telematica dei dati delle ricette all'Economia e delle certificazioni di malattia all'Inps) sia sospeso il meccanismo per le esenzioni previste dalla Finanziaria 1994 (quella in cui sono stati fissati anche i limiti di età al di sopra e al di sotto dei quali i ticket non sono dovuti) se Regioni e Ministeri stabiliranno che quelle per reddito scattino su dichiarazione del richiedente o di un suo familiare, che dovrà essere riportata sulla ricetta. Paolo Del Bufalo ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 23 apr. ’09 LE FRODI SONO LO SPORT NAZIONALE IN TUTTA ITALIA I DATI DELLA CORTE DEI CONTI NEL MIRINO DELLA GDF Il sud non è solo ma primeggia Finte fatture su analisi e terapie L'ultima patata bollente le Fiamme gialle l'anno maneggiata a inizio aprile, quando la Guardia di finanza di Bari ha denunciato all'Autorità giudiziaria 720 persone con l'accusa di truffa ai danni del Ssn. Nel mirino le false certificazioni presentate da imprenditori, liberi professionisti, dirigenti pubblici e lavoratori dipendenti per usufruire di un'esenzione che sarebbe dovuta scattare a fronte di 8mila euro di reddito l'anno, elevabile a 16mila con coniuge o figli a carico. Nella Murgia barese - dicono le cronache - circa il 30% degli utenti esaminati aveva dichiarato il falso per non pagare il ticket. Verifiche in corso; ancora nessun colpevole. Ma il tema - in Puglia, come altrove - non è nuovo. «Le frodi a danno del Ssn non sono né monopolio della criminalità di tipo mafioso, né geograficamente limitate alle zone meridionali del Paese», si legge nello studio curato da graduati della Scuola di Polizia tributaria della Gdf, comandata dal generale Saverio Capolupo , nel corso dell'anno accademico 2007-2008. Sotto la lente, le pronunce della Corte dei conti per l'accertamento di responsabilità erariali in materia sanitaria nel triennio 2005-2007: dei 43 illeciti selezionati, il 13% ha riguardato la spesa farmaceutica, il 48% il personale, il 22% gli appalti, il 17% le prestazioni sanitarie. Coincidenza vuole che nella casistica citata spicchi nuovamente un esempio proveniente dal Sud Italia (sezione giurisdizionale della Basilicata, n. 42/2005/R), avente come protagonista un dipendente Asl ricco d'inventiva. Tra le fattispecie ascritte al soggetto figurano tra l'altro falsi certificati Inps e false determinazioni dirigenziali per il riconoscimento di ingenti rimborsi per prestazioni mediche a un soggetto che non ne aveva mai fatto richiesta (false ovviamente anche le fatture alla base del tutto). Un dato banale vista la casistica elencata al capitolo delle false autocertificazioni prodotte per non pagare il ticket: in cima alla lista ancora cittadini pugliesi - 110 per l'esattezza - segnalati per truffa ai danni dello Stato per essersi dichiarati disoccupati nel periodo d'imposta 2002 e non aver pagato il ticket nel 2003. Roba dei tempi andati? Neanche per sogno: sempre in Puglia, sempre per lo stesso motivo, stavolta nel 2006, le denunce sono state 200. A far loro buona compagnia, oltre mille segnalati a Siracusa, 400 a Messina, oltre 200 a Potenza, altrettanti a Reggio Calabria. Per una Sanità pubblica più tartassata che mai. Restando nel seminato dei "falsi esenti" - o allontanandosi di poco - gli sfizi non mancano. Agli atti della Corte dei conti - sempre per il triennio in esame - figurano ad esempio: un danno erariale da circa 40 milioni di euro in Abruzzo per illeciti rimborsi di ricoveri d'urgenza in case di cura non abilitate al Pronto soccorso; danni da 32 milioni, in Campania, per false attestazioni e illeciti rimborsi di prestazioni mai effettuate da centri analisi e centri di riabilitazione; un danno da 15 milioni, in Sicilia, per fatti vari, tra cui figura anche l'inesistente fornitura di gas medicinali. Tanti piccoli spunti, peraltro limitati alla sola realtà indagata dalla Gdf, che danno un senso alla stretta messa in cantiere dal Governo. Che almeno si sforza di impedire a chi ha truffato di tentare di farlo ancora se prima non salda il dovuto. Sara Todaro ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 23 apr. ’09 RICETTA ELETTRONICA ANTI-TRUFFE Nessuna interferenza nella tracciabilità del farmaco con una rete informatica di controlli Forme semplificate per le verifiche collegando farmacisti e industrie La tecnologia andrebbe anche a sostegno della lotta alla contraffazione Niente fustelle e lettura on line annullano il bollino non più riciclabile Tracciabilità del farmaco, bollinatura, numero seriale, Rfid; tanti nomi e tante sigle: il tutto per una necessità: aumentare la garanzia di sicurezza sui farmaci per il cittadino. Ma ce n'era così bisogno? Forse in Italia meno che in altri Paesi, la catena di distribuzione del farmaco è storicamente ben controllata. Semmai le truffe, e tante, sono arrivate dal riciclo dei fustelli o dalla loro falsificazione. Truffe per i rimborsi e farmaci contraffatti sono problemi distinti, spesso confusi insieme. Prima una direttiva comunitaria la 2001/83/Ce, poi l'articolo 40 della legge 392/2002, che la recepisce, hanno generato molti convegni e tavoli di confronto, diversi progetti e sicuramente qualche buon risultato, con la tracciabilità del farmaco: fase 1. L'articolo 40 ha di fatto introdotto il codice identificativo unico, il cosiddetto bollino, di ogni confezione medicinale; scelta lungimirante e coraggiosa, fatta in pochi altri Paesi europei (Grecia e Belgio). Il codice unico è sicuramente il prerequisito per poter tracciare "il viaggio" di un prodotto nella catena distributiva. Si deve però farlo funzionare e questo necessita di diversi strumenti tecnici che ne agevolano l'implementazione: il barcode e, più futuribile, l'Rfid, il microchip a radiofrequenza, i lettori e i canali di comunicazione. Le scelte più coraggiose, spesso, non sono le più semplici da mettere in pratica, tuttavia la fase 1 del progetto di tracciabilità, inserito nell'Nsis: dotare di bollino tutte le confezioni (attività del Poligrafico dello Stato) e tracciarle dai produttori ai distributori e depositari e poi alle singole farmacie è avvenuto con successo. Giornalmente tutti questi operatori trasmettono all'Nsis le proprie transazioni. La fase 2, con il coinvolgimento degli altri attori della filiera del farmaco (farmacia, ospedale e altre strutture sanitarie), si sta sviluppando più lentamente e si è incrociata, soprattutto in ospedale, con altri progetti, legati al monitoraggio dei farmaci più costosi e alla loro appropriatezza prescrittiva. Ma veniamo al cuore del problema: ricetta elettronica e conseguente scomparsa della ricetta rossa; cosa cambierà nell'impianto della tracciabilità del farmaco e sui livelli di sicurezza del sistema? Inutile sottolineare che neanche l'articolo 40, come già l'art. 50 della tessera sanitaria, aveva ipotizzato la scomparsa della ricetta rossa. Qui sono in gioco i famosi fustelli, quelli che il farmacista, con qualche malumore, per il noioso lavoro, toglie dalle confezioni e inserisce nella ricetta rossa, quale prova, per il proprio dossier di rimborso al Servizio sanitario nazionale. Il pacco dei fustelli, insieme alla cosiddetta "distinta riepilogativa contabile", ovvero il conto del rimborso, suddiviso per spesa lorda netta e ticket, viene poi mandato mensilmente agli uffici Asl competenti. In passato, almeno prima della tracciabilità, sul traffico dei fustelli, falsi o rubati, si sono fondate molte delle truffe sui rimborsi Ssn. La ricetta elettronica è una grande opportunità per aumentare ancora di più la sicurezza, ma si pongono alcuni problemi concreti. Dove vanno a finire questi fustelli, come si annullano? Nel seguito, per ricetta elettronica intendiamo l'interconnessione tra medici di medicina generale (Mg) e farmacisti, che permette il trasferimento on line della cosiddetta prenotazione di ricetta, dal medico alla rete regionale delle farmacie. La ricetta rossa funge prima da buono d'ordine, nel passaggio tra medico e paziente e poi da prova per il rimborso, una volta esitata al paziente e staccati i fustelli; un sistema geniale, ma non certo ad alta innovazione tecnologica. Come affrontare il problema, quando ci sarà la ricetta elettronica: il semplice modello, "tutto on line" ne dà una soluzione. Il farmacista legge il bollino, lo confronta con una banca dati centrale, di tutte le confezioni valide e annulla la singola confezione, nel senso che, dopo, nessun altro farmacista potrà trattare quel fustello, in quanto la banca dati centrale lo segnalerà come "non valido". Questa è la normale procedura dei biglietti elettronici di treni e aerei. Un flusso per la prenotazione e uno per l'effettivo uso. Si deve quindi attivare la fase 2 del progetto di tracciabilità del farmaco, ma in una forma semplificata, il cosiddetto approccio "end to end", che lega on line farmacista e industria farmaceutica, la quale dovrebbe avere tutta la banca dati dei bollini delle proprie confezioni. Ma è sufficiente questo? Purtroppo no, dicevamo all'inizio che truffe sui rimborsi e farmaci contraffatti sono problemi distinti. Nel primo caso si parla del traffico dei bollini per una finalità di rimborso, nel secondo di una contraffazione tout court, anche della materia prima. Non c'è modo, chi rimborsa deve essere in linea nel processo di lettura del bollino. Quindi la rete è a tre: chi produce, chi vende e chi rimborsa. Certo la costruzione di una rete industria farmacia, potrebbe essere il primo passo di una soluzione "end to end". La strada per bloccare le truffe è più articolata, ma la creazione della prima rete, diventerebbe un incredibile deterrente contro di esse, nel senso che esisterebbe una traccia di una transazione illecita su di un bollino. Chi rischierebbe di lasciare la propria traccia nel sistema? Forse è ora che la tracciabilità fase 2, trovi una forma più snella, che coinvolga realmente la farmacia. Tutto questo, insieme alla ricetta elettronica, ci metterà all'avanguardia tra i sistemi europei. Agostino Grignani Hexante ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 24 apr. ’09 ANNIDATO NEL DNA UN VIRUS RACCONTA LA STORIA DEGLI OVINI ROBERTO MORINI SASSARI. È il primo ricercatore sardo che conquista la copertina di Science, la notissima rivista scientifica americana, la più prestigiosa con l’inglese Nature. Bernardo Chessa ha solo 38 anni. «Solo» per l’Italia, «all’estero - sorride - sarei già un ricercatore maturo». E probabilmente sarebbe in cattedra da tempo e la sua busta paga sarebbe un po’ più sostanziosa. Ma questo non lo dice. Perché sembra soddisfatto di ciò che fa. E perché, dice, «qui si sta molto meglio». Per la sua ricerca di successo ha scelto un tema che tradisce fin troppo il suo legame con questa terra: la pecora. Il titolo, «Revealing the History of Sheep Domesticazion Using Retrovirus Integration», quasi alla lettera «La scoperta della storia della domesticazione della pecora usando le integrazioni di retrovirus», è lanciato proprio oggi sulla copertina di Science, sia su carta che in rete, sciencemag.org, insieme a una ponderosa ricerca sui bovini, il completamento della mappatura del Dna della mucca, e a uno studio sugli equini. Un numero, quello del 24 aprile, che mette al primo posto gli animali. Caccia al retrovirus Una scommessa vincente quella di Bernardo Chessa, ricercatore al dipartimento di patologia e clinica veterinaria dell’università di Sassari, perché fondata su un’intuizione geniale: usare i retrovirus endogeni, ERVs in sigla, particolari virus che si sono insediati stabilmente nel genoma della pecora, come marcatori genetici per ricostruire la storia, le migrazioni, gli incroci, le caratteristiche delle pecore selvatiche e di quelle addomesticate negli ultimi diecimila anni. E quindi per ricostrruire anche la storia delle pecore sarde. Una ricerca che è piaciuta al comitato scientifico di Science proprio per l’approccio originale, per l’idea. E poi perché ha avuto la capacità di coinvolgere ricercatori di tutto il mondo, dal Portogallo alla Norvegia, dalla Tanzania all’Estonia alla Cina, nella raccolta dei campioni di Dna che gli hanno permesso di ricostruire in due anni la storia dell’addomesticamento - ma la comunità scientifica dice domesticazione - della pecora. Due anni di lavoro. Il primo, il 2007, all’università di Glasgow insieme a Massimo Palmarini, uno dei maggiori esperti mondiali di retrovirus. Il secondo, il 2008, a Sassari, con Marco Pittau, il suo professore, e con la collaborazione di un altro ricercatore sassarese, Alberto Alberti, con cui Chessa ha firmato molti lavori. E con il sostegno economico della Regione: l’assessorato alla Programmazione ha infatti contribuito a finanziare la ricerca con i fondi per lo studio della biodiversità animale. Due anni di lavoro giorno e notte. «Di giorno - ricorda Chessa - lavoravo in istituto sui campioni che mi arrivavano da mezzo mondo, di notte cercavo su internet chi si occupava di ricerche in questo settore in modo da trovare altri corrispondenti che potessero raccogliere altri campioni da esaminare. Più campioni riuscivo a esaminare e a confrontare, più significativi sarebbero stati i risultati». In questo modo ha raccolto circa 1.300 campioni di 130 razze. E ora i corrispondenti sono indicati uno per uno sotto il titolo: hanno tutti l’onore di un passaggio su Science. Vivono e lavorano tutti in Paesi dei tre vecchi continenti, Europa, Asia e Africa. Perché le pecore sono arrivate in America e in Australia solo di recente, naturalmente già addomesticate. Ed era inutile coinvolgere nella ricerca anche i nuovi continuenti. Il metodo dunque. Ecco come lo spiega Bernardo Chessa. «Ci sono 27 retrovirus nel Dna degli ovini e sei di questi sono solo nella pecora, mentre gli altri si trovano anche nella capra. Significa che 21 retrovirus si sono installati nel genoma di animali che sono antenati sia della pecora che della capra, quindi più di tre milioni di anni fa, quando si suppone che le due specie si siano separate. Gli altri sei sono i marcatori che ho scelto. Se nel Dna di due pecore trovo lo stesso retrovirus vuol dire che hanno un antenato in comune anche se ora vivono a migliaia di chilometri di distanza. Vuol dire che quella razza, quel retrotipo, come le chiamo io con un neologismo, è frutto di una mutazione provocata dal retrovirus qualche migliaio di anni fa, o magari solo qualche centinaio di anni fa, e si è diffuso da una stessa zona verso tutti i luoghi in cui lo troviamo oggi». La storia di Giacobbe È così che Chessa, mattone dopo mattone, ricostruisce le migrazioni delle pecore, parzialmente o completamente addomesticate, attraverso continenti e mari insieme agli uomini. Ai pastori. Usando i suoi marcatori originali, ma anche leggendo molto. «Certo - spiega - la genetica non basta, bisogna studiare tutto quello che riguarda le pecore: l’archeologia, l’unica scienza che ci permette di datare i comportamenti umani e animali con notevole precisione, ma anche le leggende. E, perchennò, anche la Bibbia». E fa l’esempio della Jacob sheep, una razza ovina inglese con il mantello maculato, completamente diversa, per i suoi marcatori, dalle altre pecore del Regno Unito. E molto simile a razze ovine mediorientali. Tanto che si potrebbe far risalire il suo nome a Giacobbe che, nella Bibbia, quando decise di separarrsi dal suocero, scelse dal gregge proprio le pecore con il mantello maculato. Una conferma di quelle origini. Il lavoro di Chessa dà risposte anche sugli ovini sardi. Prima di tutto sul muflone. «Le migrazioni - ricostruisce Chessa - partono tutte dal Medio Oriente. È lì che gli ovini sono stati addomesticati per la prima volta. È lì che gli archeologi hanno trovato i primi resti di greggi di pecore insieme a resti umani. La prima migrazione avvenne circa diecimila anni fa e riguarda animali semiaddomesticati che l’uomo portava con sé solo per avere carne fresca da mangiare. Tra questi animali c’era il muflone, che arriva quindi in Sardegna in quel periodo, sicuramente prima di seimila anni fa, quando invece ci fu la seconda migrazione. Relitti, potremmo dire, di quella prima migrazione, oltre ai mufloni sardi, anche pecore Soay e Orkney nel Nord della Scozia e alcune razze scandinave». Ovini che, con l’arrivo della seconda migrazione, dove sono sopravvissuti, probabilmente per la minore pressione dell’uomo sull’ambiente, sono spesso tornati a uno stato selvatico o semiselvatico. Giasone abigeatario Poi, appunto intorno a seimila anni fa, con la rivoluzione del Neolitico, si arriva alla seconda domesticazione e alla seconda migrazione. «Ancora una volta nel Medio Oriente - sottoliea Chessa - si selezionarono ovini anche rispetto ai loro derivati, dal latte alla lana». E proprio la nascita della pecora da lana, da una mutazione genetica casuale che fu evidentemente compresa e selezionata dai primi pastori del Neolitico, si collega a un’altra leggenda, quella del Vello d’oro. «Probabilmente - spiega infatti Chessa - è il ricordo di un furto di arieti che avevano avuto quella mutazione e avevano un mantello, un vello appunto, decisamente più prezioso di quello dei loro simili». Una ricostruzione che farebbe di Giasone e degli Argonauti i primi abigeatari della storia. Una ricostruzione che ha naturalmente anche un riferimento più scentifico di quello fornito dalla leggenda: le statuette trovate in Iraq dagli archeologi che raffigurano o mufloni con il mantello arricciato o, più probabilmente, pecore da lana. Pecore sarde ed estoni Fu intorno a quel periodo che la pecora addomesticata sbarcò in Sardegna. «La pecora che noi conosciamo - dice infatti Chessa - non è una discendente del muflone sardo: i retrovirus lo mostrano chiaramente. Discende dall’ovis orientalis orientalis, probabilmente l’antenato di tutte le pecore. Dovrebbe vivere ancora sulle montagne della Turchia, ma non sono riuscito a farmi mandare campioni da quella zona. Alla fine ne ho trovato un esemplare nello zoo di Tallin, in Estonia. Dunque lungo il percorso delle migrazioni che portavano verso il Nord Europa». E le pecore sarde? «I nostri retrovirus endogeni - illustra soddisfatto il ricercatore sassarese - ci dicono molte cose. Soprattutto ci spiegano che la pecora sarda è completamente diversa da quella che vive nell’Europa continentale: il suo retrotipo si ritrova piuttosto in Medio Oriente, in Sicilia, nel Sud Italia, nella Spagna e nel Nord Africa. Insomma è un retrotipo mediterraneo. Un dato che mi fa pensare che la pecora addomesticata sia arrivata in Sardegna sempre dal Medio Oriente, ma via mare, probabilmente dal Nord Africa, non lungo i percorsi delle migrazioni continentali». Vichinghi sul Mar Nero Ma i marcatori di Chessa ci portano anche a scoperte più lontane nello spazio ma più vicine nel tempo. Come la storia delle Gotland sheep, pecore che vivono in una isoletta al largo della Scozia. «È un retrotipo completamente diverso da tutte gli altri che vivono nelle zone vicine. Mi ero innamorato dell’idea - racconta Chessa - che i Vichinghi avessero avuto anche una storia da pastori e che fossero loro i protagonisti di questa vicenda, perché c’è una leggenda, che risale a ottocento anni fa, che parla proprio dell’arrivo dei vichinghi nell’isola. Ma poi, con l’aiuto di una collega di Glasgow che studia proprio i vichinghi, ho scoperto che era stati sì loro a portare le pecore sull’isola scozzese, ma dopo averle razziate sul Mar Nero. E i nostri marcatori mi hanno confermato questa storia: le cugine delle Gotland sheep vivono proprio sul Mar Nero». La pistola genetica E ora? Ora che farà uno come Bernardo Chessa, un ricercatore a cui piacciono le sfide? Non ne vuole ancora parlare, ma confessa che è attratto dall’immunologia. E si intuisce che non lascerà facilmente lo studio degli ovini. Se a tutto ciò si aggiunge che il suo dipartimento ha comprato da poco una gene gun, una pistola che spara geni, si può fare un’ipotesi. Immunologia più pecore più genetica. E ora sa molte cose sui retrovirus: forse sta rimuginando su qualche ipotesi che permetta di superare i vaccini tradizionali per gli ovini, tanto odiati dagli allevatori.