RASSEGNA STAMPA 17/04/2011 UNIVERSITÀ: SEI DECRETI GIÀ FIRMATI DI CHIARA: MA LE UNIVERSITÀ SONO IN GRAVE RITARDO REGOLE DA RIFARE PER L'ABILITAZIONE NAZIONALE UNIVERSITÀ, LA CORTE DEI CONTI BACCHETTA IL MINISTERO IL TAR ANNULLA 67 MILA TAGLI IL «CALCIOMERCATO» DELLE UNIVERSITÀ ARRIVA IL PROF IN COMPROPRIETÀ L'UNIVERSITÀ CHE CI MERITIAMO GUIDO FABIANI: «BASTA CON L'UNIVERSITÀ IMMOBILE» MELIS: «FUORI CORSO? È ANCHE COLPA DELL'ERSU» L'ITALIA E IL NETWORK DELLE ECCELLENZE NUOVE ASSUNZIONI: I RICERCATORI CONTESTANO IL BANDO ECCO I FANTACONCORSI: I PROF VINCONO MA PER ANDARE ALTROVE LA RICERCA NON TROVA MERITO FATTA L'ITALIA, L'AMERICA FECE IL MIT COSÌ CI UCCISERO IL FUTURO IL MATEMATICO CHE INVENTÒ IL CERVELLO DI GOOGLE GLI INCENTIVI ARGENTINI FANNO RIMPATRIARE I CERVELLI COSÌ TUTELEREMO MINERALI E FOSSILI SARDI ========================================================= CAPPELLACCI NOMINA I MANAGER DELLE AZIENDE MISTE AOU, PUBBLICATO DALLA REGIONE IL DECRETO DI NOMINA DEL MAMAGER SANITÀ IN 600 MILA CERCANO ORDINE SCLEROSI MULTIPLA, GRUPPO SARDO IDENTIFICA LA POSSIBILE CAUSA SCLEROSI, ECCO IL BATTERIO CASSAZIONE: FALSO IDEOLOGICO PRESCRIVERE RICETTE IN BIANCO QUANDO LA SCOPERTA DI GIUSEPPE BROTZU SALVÒ LA VITA A LIZ MONSERRATO. IN RITARDO I BINARI PER SETTIMO ASL 6, PIU SI PRESENTA «BASTA CON LA FUGA DEI NOSTRI ASSISTITI» ASL3: CAPELLI: «SPERIAMO CHE BOCCINO IL PROJECT BLACK OUT ALLA MACCIOTTA, AL BUIO PER 30 MINUTI MPA: «SERVONO DUE MACROAREE» PENSIONATI E POVERI: WELFARE DA ATTUARE SUBITO UN COORDINAMENTO PER GLI INFERMIERI SARDI TESTIMONE DI GEOVA RIFIUTA TRASFUSIONE E MUORE. MENO «PUNTI NASCITA» MA PIÙ SICURI PER MAMME E BEBÉ IN ITALIA ANCORA TROPPI CESAREI,PER DISORGANIZZAZIONE O PER PAURA TARIFFE: IL TAGLIO CHE FA SALIRE IL RIMBORSO I CASI IN CUI SERVE IL BISTURI. A VOLTE IL TRAVAGLIO PUÒ «COMPLICARSI» L'EPIDURALE È OFFERTA A POCHE. DISPARITÀ DA REGIONE A REGIONE LA VITA SI ALLUNGA: MERITO DELL’ITALIA CHE STA BENE RITOCCO, TUTTO SI FA PER TE LA DIFFICOLTA' DI DIAGNOSI DEI DISTURBI BIPOLARI ========================================================= ______________________________________________ Il Sole24Ore 14 apr. ’11 UNIVERSITÀ: SEI DECRETI GIÀ FIRMATI Il 20 parte l'agenzia di valutazione Gianni Trovati MILANO Sei decreti attuativi già firmati, due Dlgs in arrivo, un altro gruppo di provvedimenti «in fase di lavorazione», cinque dei quali «in ultimazione», e quattro in attesa dell'avvio della nuova Agenzia nazionale di valutazione che deve fornire pareri obbligatori. È il monitoraggio sull'attuazione della riforma dell'Università, offerto ieri alla Camera dal ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, in risposta a un'interrogazione di Ferdinando Latteri (Mpa). Al traguardo della firma, ha spiegato il ministro, sono già arrivati i decreti sull'importo minimo degli assegni di ricerca (la nuova disciplina non prevede un tetto massimo), i criteri per le convenzioni su didattica e ricerca, quelli per la mobilità dei docenti, i settori concorsuali, le corrispondenze per le chiamate dall'estero e la busta paga del direttore generale, cioè il nuovo vertice amministrativo degli atenei. Il gruppo dei provvedimenti in arrivo, invece, è guidato da due attuazioni della parte di delega affidata al Governo dalla riforma, e riguardano la contabilità economico-patrimoniale delle Università e i presupposti per il dissesto. In totale, la riforma prevede 47 decreti attuativi per diventare integralmente operativa, ma ieri il ministro ha confermato l'intenzione del Governo di completare il mosaico entro luglio, cioè sei mesi dopo l'entrata in vigore della legge 240/2010. Anche perché nel frattempo sta scaldando i motori l'Anvur, l'agenzia di valutazione del sistema universitario, dopo che il decreto con le nomine dei sette membri del consiglio direttivo è stato registrato dalla Corte dei conti e attende ora solo la «Gazzetta Ufficiale». Per mercoledì prossimo è attesa la prima riunione ufficiale dei sette docenti, insieme allo stesso ministro Gelmini, ma, sottolineano da Viale Trastevere, l'agenzia sta già esaminando i provvedimenti su cui deve dare il parere (per esempio quello sui nuovi dottorati). L'emergenza, per l'Anvur, è la nomina del vertice amministrativo, per far partire davvero l'operatività della struttura. Nella sua interrogazione Latteri, che è stato anche rettore dell'Università di Catania, ha ricordato però i provvedimenti chiave che ancora attendono di essere emanati, come quello sulla premialità per gli scatti di carriera (chiamato ad attutire, per i docenti più giovani, l'impatto con il blocco triennale disposto con la manovra estiva) e le nuove regole sull'abilitazione nazionale. Su quest'ultimo punto, essenziale per far ripartire in autunno la macchina del reclutamento, le obiezioni del Consiglio di Stato (si veda Sole 24 Ore di ieri) impone correttivi importanti: in particolare, vanno rivisti i criteri di valutazione dei candidati all'abilitazione, condizione essenziale per salire in cattedra, e i meccanismi dell'esclusione biennale di chi tenta la prova senza successori ________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 apr. ’11 DI CHIARA: MA LE UNIVERSITÀ SONO IN GRAVE RITARDO I termini della legge Gelmini di Gaetano Di Chiara Il 29 luglio scade il termine concesso dalla legge Gelmini alle università per elaborare il nuovo Statuto. Alcune sedi, come Genova e Roma, avevano modificato lo statuto ancor prima dell'approvazione della legge; altre, come Bologna, hanno un progetto organico e un target preciso; altre, invece, procedono a piccoli passi, emendando, articolo per articolo, il vecchio statuto, senza un faro, ma alla luce di una lanterna, ma non per cercare l'Uomo, come Diogene, ma per trovare il modo per mantenere lo status quo e conservare piccoli poteri personali e rendite di posizione. Quanto all'Università di Cagliari, l'unica certezza è che non si trova nella situazione di Genova o Roma. Una delle innovazioni della legge Gelmini è quella di aver tolto alle Facoltà, trasferendole ai Dipartimenti, alcune funzioni didattiche fondamentali, come il compito di fornire i docenti necessari alla copertura degli insegnamenti dei vari corsi di laurea, la gestione dei dottorati di ricerca e dei master, e infine il reclutamento di nuovi docenti e ricercatori. L'attribuzione ai Dipartimenti, sede tradizionale della ricerca, di funzioni finalizzate all'attività didattica, pone la ricerca stessa a garanzia della qualità dell'insegnamento e del reclutamento, innescando così un processo virtuoso che tende a migliorare sia la ricerca che la didattica. Svuotate così di potere decisionale, le facoltà dovrebbero diventare, secondo la legge, semplici scuole, strutture di raccordo tra dipartimenti e corsi di laurea con compiti puramente amministrativi e di coordinamento. Ma, ci si chiede, può un vero rinnovamento avvenire per mano di quegli stessi che potrebbero subirne le conseguenze negative? Potranno i presidi di Facoltà, per esempio, resistere alla tentazione di far rivivere le Facoltà sotto mentite spoglie (le scuole, per esempio), prevedendo la presenza di loro rappresentanti nel Senato accademico e attribuendo loro funzioni che la legge riserva ai Dipartimenti, come il reclutamento di nuovi docenti? Questa soluzione non è prevista dalla legge ma tra gli accademici esistono fini giuristi che non avrebbero difficoltà ad ammantare di legalità soluzioni sostanzialmente illegali e suscettibili di ricorso. Fortunatamente i destini dell'università non sono solo nelle mani dei suoi organismi rappresentativi, ma dipendono anche dai criteri secondo i quali i docenti si aggregheranno nei dipartimenti, e dall'efficenza dell'Agenzia per la valutazione (Anvur). In base allo spirito della nuova legge i dipartimenti più forti saranno quelli nei quali confluiranno i docenti che appartengono alle stesse discipline e aree scientifiche, e che saranno capaci di produrre ricerca ad alto livello. Le Università che si doteranno di statuti che non favoriranno questo processo virtuoso non avranno accesso alla premialità e saranno inevitabilmente costrette a darsi statuti adeguati se vorranno sopravvivere. Se questo è il traguardo da raggiungere, non sarebbe meglio cercare di raggiungerlo subito, cogliendo gli aspetti sostanziali della legge, invece di far passare una generazione? ______________________________________________ Il Sole24Ore 13 apr. ’11 REGOLE DA RIFARE PER L'ABILITAZIONE NAZIONALE Università. Consiglio di Stato Gianni Trovati MILANO Le regole per l'abilitazione nazionale, uno dei pilastri della riforma universitaria, inciampano in Consiglio di Stato. I giudici amministrativi, nella delibera 1180/2011, hanno stoppato il regolamento scritto dal ministero dell'Università, che ora deve chiarire e correggere i punti criticati dalla sezione per sottoporli a un nuovo esame e ottenere il via libera. Il regolamento (attuativo dell'articolo i6, comma 2 della riforma) è lo strumento essenziale per far ripartire i concorsi, e prevederebbe l'avvio della prima tornata dell'abilitazione nazionale a ottobre, in linea con i piani enunciati dal ministero. I «criteri e parametri» con cui saranno esaminati i candidati sono rimandati a un altro decreto «di natura non regolamentare», e qui si concentrano le critiche più forti del Consiglio di Stato. Il secondo provvedimento è previsto dalla legge ma, dicono i giudici, non può essere assunto in solitudine dal ministero, senza coinvolgere gli «organi di consulenza tecnica» a partire dal Consiglio universitario nazionale. La previsione, poi, determinerebbe un paradosso, in virtù del quale il Cun interviene nell'aggiornamento quinquennale (previsto dalla legge) dei criteri di giudizio, ma non nella loro formazione iniziale. Tutto l'articolo 4 del regolamento, che disciplina le valutazioni, secondo la sezione denuncia «una sostanziale necessità di correttivi». Seguendo l'impostazione del ministero, infatti, il secondo provvedimento con i criteri di giudizio «finirebbe per influire in modo assai pesante» non solo sulle valutazioni dei candidati, ma anche sull'ammissione dei commissari: se non si chiariscono meglio i confini di questi «criteri e para-metri», avvertono i giudici amministrativi, si finirebbe per cozzare con l'autonomia universitaria sancita dall'articolo 33 della Costituzione. Un'altra critica riguarda la regola che esclude per due anni dalla corsa all'abilitazione in tutti i settori chi prova l'esame senza successo; secondo i giudici, l'esclusione dovrebbe operare solo per le prove del settore in cui si è stati bocciati, senza estendersi a settori affini dove il curriculum scientifico del candidato può ottenere un successo maggiore. __________________________________________________________ Corriere 16 apr. ’11 IL «CALCIOMERCATO» DELLE UNIVERSITÀ ARRIVA IL PROF IN COMPROPRIETÀ Via al modello degli atenei esteri. Docenti in prestito non più di 5 anni ROMA — Non c’è il parametro zero, il diritto di riscatto e nemmeno Lucianone Moggi dietro le quinte. Ma dal prossimo anno le università italiane potranno scambiarsi professori e ricercatori come al calciomercato, utilizzando i l p r e s t i t o e la comproprietà. La novità è contenuta in uno dei decreti attuativi della riforma Gelmini, firmato nei giorni scorsi dal ministro. Il documento non usa le espressioni prestito e comproprietà ma, più burocraticamente, fissa i «criteri di attivazione delle convenzioni per le attività di didattica e ricerca» . La sostanza, tuttavia, è la stessa. Un’università può chiedere ad un’altra università il prestito di un professore o di un ricercatore per la durata massima di cinque anni. Proprio come nel calcio, devono essere tutti e tre d’accordo e ognuno ci guadagna qualcosa: l’università di provenienza, che per cinque anni alleggerisce il suo bilancio di uno stipendio; l’università di arrivo, che aggiunge un insegnamento senza aumentare il suo organico in modo stabile; e anche il professore in prestito, che fa un’esperienza diversa in un posto diverso arricchendo il suo curriculum. Se la formula del prestito è del tutto uguale alla versione calcistica, quella della comproprietà cambia un po’: due università possono decidere di «dividersi» un professore e, in proporzione, anche il suo stipendio. Qui non ci sono limiti di tempo e il professore, nello stesso anno, insegnerà un po’ in un’università un po’ nell’altra. Una formula che nel calcio non esiste (nemmeno Moggi era arrivato a tanto) e che potrebbe essere utilizzata soprattutto per le materie di nicchia, quelle con pochi studenti e che rischiano l’estinzione, anche per i tagli degli ultimi anni. Prestito e comproprietà accademica non sono una novità assoluta. Fino ai primissimi Anni 80 erano possibili anche in Italia ma si trattava di un privilegio riservato alla Normale di Pisa. Ed è stato proprio questo illustre precedente — la Normale è tra le nostre istituzioni più prestigiose, da sola ha sfornato tre dei Nobel italiani— a suggerire questa soluzione che però adesso si applicherà a tutti gli atenei italiani. All’estero, poi, lo scambio di docenti è una pratica diffusa: basti pensare alla formula del visiting professor che consente di chiamare anche per un solo anno persone considerate di particolare prestigio. Una delle ragioni del decreto è proprio aprire la strada al visiting professor di casa nostra, consentendo alle università una maggiore flessibilità nei programmi di studio. Ma c’è anche un’altra ragione dietro il calciomercato delle università: il taglio dei fondi delle ultime Finanziarie ha creato gravi problemi di bilancio a moltissimi atenei mentre la riforma Gelmini ha limitato il numero di facoltà e corsi, esploso negli ultimi anni. Gli atenei in difficoltà potrebbero approfittare del decreto per alleggerire i conti, rinunciando temporaneamente ad un docente o dividendolo con un altro ateneo. Mentre quelli messi meglio potrebbero offrire un insegnamento in più con la tranquillità che se le cose non vanno è sempre possibile fare marcia indietro. Dice Fabio Beltram, direttore della Normale di Pisa: «Si tratta di una scelta lungimirante che ci porta alla pari del resto del mondo. È giusto poter sperimentare la didattica, la ricerca e, perché no?, anche le persone» . Non c’è il rischio di allargare il solco fra università buone e meno buone? «Credo di no ma l’importante è che ogni ateneo si specializzi. Solo così potremo avere non atenei di serie A e atenei di serie B, ma atenei forti nel settore A, altri forti nel settore B, altri forti nel settore C...» . Lorenzo Salvia ______________________________________________ Italia Oggi 16 apr. ’11 UNIVERSITÀ, LA CORTE DEI CONTI BACCHETTA IL MINISTERO La Corte dei conti (con la delibera 9/2001) fa le pulci al Piano di programmazione triennale degli atenei messo a punto dai tecnici del ministero dell'istruzione e università con il decreto (50/10) relativo alla «Definizione delle linee generali di indirizzo della programmazione delle università per il triennio 2010-2012». E dà il via libera alla registrazione del testo, a patto che il Miur cancelli i passaggi ritenuti illegittimi. Il provvedimento che stabilisce obiettivi e regole per il sistema accademico su ricerca, studenti e fabbisogno del personale, secondo la magistratura contabile, infatti, non solo è stato emanato con «notevole ritardo», ma ha anche il vizio di far riferimento ad un arco temporale «non corretto», essendo stato adottato il 23 dicembre 2010 per il triennio 2010-2012 quando «l'intero anno 2010 risultava ormai trascorso». Ma il ritardo, controbatte il Miur nella controdeduzione del 25 febbraio scorso, è dovuto all'incertezza relativa «al quadro generale delle risorse finanziarie disponibili» sulla base delle quali le università adottano i loro programmi triennali, ma anche all'indeterminazione legata «alla evoluzione del quadro normativo connesso con il processo di riforma dell'università». Ecco perché, se questa è la cornice di riferimento, dai piani alti del ministero arriva la richiesta che il dm si riferisca a tutto il triennio 2010-2012 per poter ripartire e impegnare prima della fine dell'anno le somme stanziate. Spiega ancora la Corte dei conti che il ministero dovrebbe spiegare il significato di federazione di università, visto che la «normativa vigente alla data del decreto non prevedeva tale istituto giuridico». E chiarire la contraddizione che emerge nel testo quando in un comma si fa divieto di istituire nuove università statali e poi «in contraddizione con ìl precedente comma» c'è la possibilità «per le università non statali di trasformarsi in università statali creando di fatto nuove università statali vietate dal comma precedente». Ma il Miur respinge al mittente anche questa apparente contraddizione precisando che il decreto stabilisce «come regola generale» che non sarà possibile istituire nuove università statali, ma «come regola speciale» la possibilità di procedere alla trasformazione di atenei privati in pubblici con modalità e criteri da definire poi da apposito decreto. C'è poi tutto il nodo dell'intero articolo relativo alle università telematiche per il cui riassetto dovrebbe intervenire un regolamento «in violazione», si legge nella delibera della Corte dei conti, «del principio generale sulla gerarchia delle fonti del diritto». Un rilievo accolto dallo stesso ministero che cancellerà l'intero comma di riferimento dal decreto in esame. __________________________________________________________ Corriere 16 apr. ’11 IL TAR ANNULLA 67 MILA TAGLI IL MINISTERO: FAREMO APPELLO ROMA— Il Tar del Lazio ha annullato i decreti che hanno tagliato gli organici degli insegnanti nella scuola pubblica. La sentenza (la numero 3251, depositata ieri) boccia gli atti dei ministeri dell’Economia e dell’Istruzione che per gli anni scolastici 2009/2010 e 2010/2011 hanno cancellato in tutto 67 mila cattedre. Secondo il Tar ci sono gravi vizi di procedura: per ridefinire gli organici, i ministeri hanno adottato una semplice circolare con uno schema di decreto in allegato mentre sarebbe stato necessario un decreto vero e proprio. Così facendo, inoltre, non hanno acquisito il parere obbligatorio e preventivo delle commissioni parlamentari, come invece indicato dalla Finanziaria del 2002. Per questo, si legge nelle sentenza, «lo schema di parere sarebbe da ritenersi privo di attuale efficacia giuridica» . Il ricorso era stato presentato dal comune di Fiesole, dalla Flc Cgil e da alcuni genitori. Che cosa succede adesso? «Come sempre in questi casi — ribattono al ministero dell’Istruzione— faremo appello al Consiglio di Stato. Ma è chiaro che gli organici degli anni passati sono acquisiti e ormai non si può tornare indietro» . Per il segretario della Flc Cgil Domenico Pantaleo, invece, la sentenza «conferma l’illegittimità dei tagli» . L. Sal. ______________________________________________ Europa 14 apr. ’11 L'UNIVERSITÀ CHE CI MERITIAMO MARIA CHIARA CARROZZA MARCO MELONI Pochi mesi dopo l'approvazione della riforma Gelmini, le università italiane sono impegnate in un compito davvero difficile: sopravvivere. I tagli al sistema dell'istruzione e della ricerca sono avvenuti prontamente, mentre l'attività di normativa secondaria procede con lentezza, nonostante le rassicurazioni del ministro. Gli atenei si ritrovano ad affrontare un vero e proprio ginepraio normativo, a cui è ormai appesa la didattica. Inoltre, a parte qualche normativa di minutissimo calibro, il governo non ha ancora adottato alcuno dei provvedimenti fondamentali — sono decine — per l'attuazione della legge. Lo schema di regolamento per l'abilitazione scientifica (passaggio fondamentale per l'accesso al ruolo dei professori) ha ricevuto un pesante parere negativo da parte del consiglio di stato. È il caso di essere realisti: un governo agonizzante non può essere in grado di adottare tutti gli atti necessari per dare gambe a una riforma che, altrimenti, si risolve nell'incertezza più totale e nel blocco delle attività ordinarie degli atenei. Proprio in questo ritardo preoccupante, troviamo la conferma delle nostre osservazioni dei mesi precedenti: abbiamo più volte sottolineato come la centralizzazione burocratica non sia la strada giusta per imprimere una svolta reale al sistema. Anche se non vale la pena di essere catastrofisti, dobbiamo rilevare che la riforma Gelmini, nel suo cammino accidentato, segna una scelta strategica del governo, in controtendenza rispetto a tutti i paesi con cui ci confrontiamo: la rinuncia a fare dell'università il luogo centrale della promozione di nuove risorse umane, in grado di diventare l'ossatura di un nuovo modello di sviluppo del nostro paese. È il caso di ribadirlo: siamo l'unico paese in cui il governo risponde al crollo delle immatricolazioni dicendo ai giovani di riscoprire l'umiltà e il lavoro manuale, mentre taglia le risorse necessarie per costruire il futuro dell'economia italiana. Noi democratici prendiamo finora un impegno inderogabile: una volta al governo, ridurremo il peso della spesa pubblica sul bilancio dello stato, come richiesto anche ieri dal presidente Napolitano, per reinvestire su settori irrinunciabili come l'università e la ricerca, dato che l'Italia, per competere in un nuovo scenario globale, ha bisogno di più laureati e di più ricercatori. Nella nostra azione, ci basiamo su tre considerazioni: l'immediatezza, il riformismo, il metodo. Sul primo punto, dobbiamo intervenire perché gli atenei escano da una situazione di incertezza cronica: incertezza sull'inizio dei corsi di dottorato, sul rinnovo degli assegni di ricerca, sul reclutamento a tempo determinato. Su queste necessità pressanti concentriamo la nostra azione in parlamento, cercando di influire con proposte di legge per rendere operative le università mentre va avanti un "cantiere normativo infinito" che peraltro non coinvolge gli atenei nella programmazione del loro futuro. Lo dobbiamo alle persone delle nostre università e lo dobbiamo ai nostri ragazzi, che oggi finiscono il liceo e non sanno se potranno continuare gli studi, usufruendo di un diritto costituzionale. Il secondo aspetto è il cardine del nostro riformismo: la contrapposizione tra questa riforma e l'università che vogliamo costituire. Il che non implica la negazione della necessità di un rinnovamento, ma il rifiuto della scelta strategica del governo di colpire l'istruzione come fattore di mobilità sociale, impoverendo il sistema nel suo complesso. Tra i sostenitori di una riforma dell'università, tuttavia, pensiamo vi fossero molti che vogliono un'università più efficiente, in cui la valutazione non sia un'utopia e in cui vi siano regole più semplici e più chiare sulla governance e le carriere. Perciò, vogliamo discutere con tutti quelli che hanno lanciato l'allarme sulla dequalificazione dell'istruzione universitaria in Italia, perché si tratta di un fenomeno precedente all'azione deteriore del governo. Il metodo con cui vogliamo dialogare con queste realtà è la necessaria connessione tra economia e società, allo scopo di coinvolgere le migliori energie accademiche e intellettuali del paese. Per tornare a crescere, l'Italia ha bisogno di un dibattito di lungo respiro sulla sua università, e questo dibattito non può limitarsi agli addetti ai lavori, ma deve coinvolgerci tutti. Per questo, a partire dalla giornata di oggi, noi democratici avvieremo un cammino di ascolto ed elaborazione programmatica che ci porterà a tenere a fine anno la Conferenza nazionale dell'università e della ricerca. ______________________________________________ Il Riformista 14 apr. ’11 GUIDO FABIANI: «BASTA CON L'UNIVERSITÀ IMMOBILE» DI EDOARDO PETTI «Un confronto aperto e libero dai pregiudizi, in grado di cogliere le opportunità presenti nella riforma Gelmini, per affermare nell'università il valore del merito, della verifica dei risultati, e dell'apertura al mondo». All'indomani del convegno del Pd dedicato al mondo accademico, il rettore dell'Università "Roma Tre", Guido Fabiani, lancia un appello alle forze politiche, sociali e intellettuali, a partire dagli studenti, per «dare una scossa al torpore in cui anche gli atenei sembrano immersi». Un universo che «necessita di un'iniezione di responsabilità e autonomia, oltre che di risorse adeguate». QUALE STRADA DOVREBBE SEGUIRE IL PD SULL'UNIVERSITÀ? Innanzitutto è importante che un soggetto che si auto- definisce riformista come il Pd affronti una questione di simile portata. Troppo a lungo, dai tempi di Luigi Berlinguer, è stato distante dal mondo accademico: e troppo spesso ha assunto misure di corto respiro. In quell'incontro ho potuto riscontrare un'estrema varietà di posizioni, e un confronto anche molto duro fra le tesi di coloro che condannano la legge Gelmini senza appello, e chi propone corre zioni e verifiche al provvedimento. Io sono fautore di un approccio pragmatico e attento al contenuto, soprattutto sui punti dirimenti. QUALI SONO I TEMI SU CUI LAVORARE? La responsabilizzazione degli organi di governo universitario, i criteri meritocratici per destinare le risorse, gli accordi fra diversi atenei per creare una rete complementare sul territorio, la sensibilità verso l'internazionalizzazione. È poi essenziale la previsione di un consiglio di amministrazione basato sulle competenze, dell'obbligo di un codice etico, della valutazione trasparente dell'attività e del reclutamento di insegnanti e ricercatori. Spetta agli atenei recepire nei loro statuti questi elementi innovativi. Se poi, da qui a sette mesi, emergessero ostacoli rilevanti nell'attuazione della legge, il testo si può correggere attraverso un confronto bipartisan. Il ministro dell'istruzione ha già manifestato la sua disponibilità, e il Pd ha annunciato una conferenza nazionale dell'università e della ricerca. L'attenzione al mondo universitario significa evitare di trasformarlo in un terreno di scontro politico: conflitto che impedisce di investire su di esso nel lungo periodo, coniugando responsabilità e risorse adeguate. PERÒ I TAGLI DECISI DAL GOVERNO HANNO PENALIZZATO FORTEMENTE PROPRIO IL SETTORE DELLA CULTURA, DELLA RICERCA E DELL'UNIVERSITÀ. Riconosco l'estrema difficoltà in cui è costretto a operare il Tesoro e la necessità di eliminare sprechi per rispettare la disciplina di bilancio. Il vero problema, forse il punto di maggiore debolezza della riforma, è riconoscere la priorità dell'educazione e dell'alta formazione anche sul piano finanziario: è in questo campo che si forma la classe dirigente del futuro. Per far fronte alla richiesta didattica di l milione e 800 mila giovani, abbiamo bisogno di più investimenti pubblici in ricercatori, laboratori, insegnanti. QUELLO DEGLI INVESTIMENTI È UN PROBLEMA DELICATO E CONTROVERSO. LA LEGGE GELMINI RICONOSCE AI SOGGETTI PRIVATI LA POSSIBILITÀ DI DESTINARE RISORSE AGLI ATENEI E DI ENTRARE NEI LORO ORGANISMI DIRIGENTI. È un discorso difficile da affrontare, a causa del fatto che in Italia l'università non è abituata a un rapporto continuo e vitale con il mondo esterno, così come le realtà produttive e imprenditoriali si sentono lontane e separate dal mondo accade-mico. Ma è una sfida che abbiamo davanti, e che dobbiamo governare con equilibrio e trasparenza, senza pregiudizi o barriere: salvaguardando sempre l'autonomia scientifica degli atenei dai pericoli di controllo e di influenza politica o economica sul contenuto della loro attività. Aggiungo che oggi più che mai abbiamo bisogno di una rete di imprese e istituzioni in grado di sostenere e alimentare la ricerca universitaria, utilizzando e diffondendo i suoi risultati sul territorio. Questo tema, che riguarda la missione di ogni ateneo, è stato discusso anche nella riunione del Pd. NEL MONDO ACCADEMICO SEMBRA TUTTAVIA PREVALERE L'OSTILITÀ A SIMILI CAMBIAMENTI. Purtroppo l'università, che si è sempre qualificata per la sua vitalità e centralità nella vita pubblica, è oggi immersa in un profondo torpore: sembra riflettere il blocco civile e culturale dominante in questa società, e le sue intelligenze migliori esprimono solo silenzio. Così prendono il sopravvento le tendenze favorevoli allo status qua, agli interessi corporativi e particolari, alla chiusura nelle nicchie di potere, magari ammantate da discorsi "demo-craticistici". Con il risultato che nei giovani domina il disorientamento e la sfiducia sull'efficacia dello studio e della ricerca: uno spirito di "attesa e inquietudine" che potrebbe sfociare in fenomeni pericolosi, se sollecitato da pulsioni estemporanee e strumentali. Peraltro la domanda di futuro e di spazio è quella che, pur in forme e in realtà ben diverse, hanno posto i ragazzi protagonisti delle rivoluzioni in Nord Africa: una generazione di persone colte, aperte al mondo, che non trova risposte nella loro società. ALCUNI PARLAMENTARI DEL PDL HANNO PROPOSTO UNA COMMISSIONE DI INDAGINE SULLA «CORRETTEZZA E L'IMPARZIALITÀ» DEI LIBRI DI STORIA ADOTTATI NELLE SCUOLE. CHE NE PENSA? Penso che la cultura e l’educazione debbano fondarsi sempre sulla libertà di pensiero di insegnamento, secondo le regole della Costituzione. Con l'unico limite di non divulgare ciò che è storicamente falso. EDOARDO PETTI ________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 apr. ’11 MELIS: «FUORI CORSO? È ANCHE COLPA DELL'ERSU» Attacco del rettore all'ente durante la presentazione delle Giornate d'orientamento Melis: scarsa assistenza, per i pendolari più difficile studiare «L'università di Cagliari ha 34 mila studenti, il 90% dei quali vengono da fuori. Purtroppo soffriamo della scarsa assistenza che l'Ersu dà agli studenti. Ci sono pochi posti letto, da più di 10 anni l'ente non costruisce alloggi e da più di 15 non realizza nuove mense. È uno dei motivi per i quali gli studenti vanno fuori corso: studiare da pendolari è più difficile, anche considerando il nostro sistema regionale dei trasporti. Ci aspettiamo che la nuova giunta ci coinvolga un po' di più». Un attacco in pena regola quello che ieri il rettore Giovanni Melis ha sferrato all'Ente regionale per il diritto allo studio. RIORGANIZZAZIONE Parole pronunciate in occasione della presentazione delle Giornate di orientamento per il prossimo anno accademico e di tre concorsi per assumere 68 ricercatori e 40 docenti associati. L'università si riorganizza per potenziare l'organico e mantenere in vita i suoi corsi: gli attuali 85 dovrebbero comunque ridursi a 83 in seguito a un intervento di razionalizzazione, con l'obiettivo di offrire un migliore servizio agli iscritti, nel quale rientra anche un programma di giornate di orientamento per gli studenti delle superiori. ORIENTAMENTO Il programma di orientamento è nato per far conoscere a 10.500 studenti di quarta e quinta superiore provenienti da tutta l'isola l'offerta dei corsi universitari dell'ateneo cagliaritano attraverso incontri e seminari quotidiani che si concluderanno mercoledì. Il progetto è finanziato dall'assessorato regionale all'Istruzione attraverso fondi del Piano operativo regionale del Fondo sociale europeo (Fse) 2007/2013. «Per scegliere bene un percorso di studio destinato a condizionare il proprio futuro occorre essere informati e consapevoli», ha sottolineato Melis. Secondo uno studio di Almalaurea condotto su tremila persone, a un anno dalla laurea solo il 36,8% di chi ha ottenuto la triennale trova un lavoro, mentre quelli con la specialistica costituiscono il 61,2% degli occupati. La facoltà che garantisce il maggior tasso di occupazione è Medicina. Seguono Farmacia e Ingegneria. L'ORGANICO Attualmente l'organico dell'università conta 571 docenti e 480 ricercatori. In merito alle nuove assunzioni, dopo la protesta degli studenti di Scienze della formazione che lamentavano la mancanza di docenti, Melis è ottimista: «Credo sia un buon risultato. Di questo dobbiamo ringraziare la Regione che ci ha sostenuto e consentito di essere virtuosi». NICOLA PERROTTI ______________________________________________ Il Sole24Ore 13 apr. ’11 L'ITALIA E IL NETWORK DELLE ECCELLENZE MILANO Le ricette sono tante quante le loro fortune all'estero. Nell'ambito delle iniziative dedicate al progetto «Interesse Nazionale», Aspen Institute Italia li ha scovati ovunque: sono manager, ricercatori, scienziati, uomini di sport, musicisti italiani che hanno successo all'estero. È il network delle eccellenze del nostro Paese in trasferta (anche se molti vorrebbero rientrare, ma chissà). Dice Simona Milio, 35 anni, direttore dell'Economie and social cohesion laboratory alla London School of Economics: «Dopo la laurea continuavano a ripetermi di aspettare i concorsi, i bandi, il mio turno: ho fatto la valigia e sono emigrata a Londra». Oggi è una super esperta di fondi strutturali e cooperazione, e benedetta quella decisione di andare a cercar fortuna. Anche Aspen Institute non ha aspettato e ha scovato la crema degli emigranti italiani perché non ha più senso parlare di fuga di cervelli. Quel che conta ha detto Mario Monti a un recente incontro dell'Aspen è che «questi cervelli non stacchino la spina del loro rapporto con l'Italia»: si creerà così una condivisione di esperienze da riportare anche in Italia, di cui pure l'Italia potrà beneficiare. È nell'interesse nazionale che si vogliono far comunicare questi emigranti di alto profilo. Così, ad esempio, Simona Milio ha avviato un progetto con l'Università di Palermo per rendere più facile agli studenti lo scambio fra questa istituzione e l'Lse; Marisa Roberto, scienziata che lavora a San Diego e che è stata premiata da Barack Obama fra i migliori cento ricercatori Usa, organizza ogni anno a Volterra (3-6 maggio), dove è nata, un convegno internazionale sulla dipendenza da alcool e stupefacenti, suo ambito specifico di studio. L'eccellenza si costruisce a partire dagli studi in Italia: «La preparazione di base di licei e università italiani è ottima, poi, ahimè, la carenza di meritocrazia ci porta le». Oppure conta il suggerimento all'estero», dice Francesca Casa- dio, 38 anni, una laurea in Chimica al Politecnico di Milano e oggi responsabile scientifica del laboratorio dell'Ari Institute of Chicago, il secondo più grande museo americano per estensione. La ricetta di Francesco Stellacci, 37 anni di Bitonto, docente a Losanna di scienze dei materiali, è un'altra ancora. Ben vengano gli studi in Italia ma poi bisogna aprirsi al mondo: «Dieci anni fai cinesi, appena arrivati in Usa, chiedevano come ottenere la green card, ora non più perché vogliono tornare in Cina il prima possibile; oggi ricevo decine di lettere di liceali italiani che mi chiedono la stessa cosa: cercano il confronto col mondo giovanissimi». Tante strade, anche quella di Fabio Scano, cagliaritano, responsabile dell'ufficio dell'Organizzazione mondiale per la sanità a Pechino per la cura della tubercolosi: «Ogni giorno, con le armi della diplomazia, bisogna cercare di dialogare con una cultura così diversa da quella occidentale. Oppure conta il suggerimento di Nicola Bellomo, primo consigliere della delegazione della Ue presso l'Unione Africana ad Addis Abeba: «Come i colleghi stranieri abituarsi al pensiero critico: non dare mai nulla per scontato, per acquisito da sempre». Come ha fatto Aspen Institute nel varare l'iniziativa che, sotto la guida di Giulio Tremonti e Cesare Romiti, coinvolge i protagonisti italiani all'estero. Tra gli altri, ci sono Antonio Belloni, direttore generale di Lvmh, Lorenzo Thione di Microsoft, il direttore d'orchestra Gianandrea Noseda, l'archeologo Paolo Matthiae, Ornella Barra leader della Pharmaceutical Wholesale Division, ricercatrici quali Cristina Alberini (New York) e Maria Luisa Gorno (San Francisco). Tante strade, tanti volti, tante strade in ascesa con un'unica ricetta: studiate, studiate, studiate, poi il mondo e la meritocrazia (là dove vive) vi premieranno. ________________________________________________________ L’Unione Sarda 13 apr. ’11 NUOVE ASSUNZIONI: I RICERCATORI CONTESTANO IL BANDO UNIVERSITÀ. I precari mobilitati contro il regolamento: contrasta con la Costituzione I giovani ricercatori precari si mobilitano contro l’Università. Nel mirino il Regolamento per le assunzioni a tempo determinato dei ricercatori “a contratto”, approvato venerdì scorso. Secondo gli studiosi, andrebbe contro «l’articolo 3 della Costituzione, la legge Bassanini bis, la Direttiva europea per la parità di trattamento in materia di occupazione e la Carta europea dei diritti dei ricercatori» perché prevede limiti temporali. Ad essere contestato è l’articolo 12, che consente la partecipazione alla selezione per la stipula di contratti triennali, prorogabili una sola volta di due anni, solo a chi ha «concluso da non più di 6 anni» il dottorato di ricerca. Mentre la selezione “Ricercatore triennale con contratto non rinnovabile a tempo pieno” è riservata a chi è dottore di ricerca «da non più di 9 anni». All’indomani dell’approvazione del regolamento, i ricercatori hanno inviato una lettera agli organi universitari in cui evidenziano come «a livello internazionale il metro di giudizio per valutare un candidato è basato esclusivamente su criteri meritocratici e non su criteri temporali». Per queste ragioni, il regolamento contestato «chiude la porta in faccia a un’intera generazione di studiosi». Anche a quelli «provenienti da altre università, italiane e internazionali, in possesso di un curriculum di elevato profilo». I ricercatori ricordano a rettore, senato e cda, che «in Italia non sono previste scadenze temporali per la validità dei titoli di studio» e quindi «l’introduzione di queste regole esporrà l’ateneo a una serie di ricorsi». Per risolvere il problema gli studiosi hanno chiesto un incontro al magnifico Giovanni Melis, che ha risposto a stretto giro di posta: «Incontrerò i ricercatori il 4 maggio, ma dovrebbero capire che con questo regolamento si vuole promuovere l’opportunità per i giovani studiosi di entrare all’Università». Melis sottolinea che «le disposizioni transitorie contenute nell’articolo 19, consentono la partecipazione, fino al 2015, anche a chi ha solo la laurea». Che però non deve esser conseguita «da non più di 14 anni per il ricercatore a contratto triennale rinnovabile» e «non più di 16 anni per il ricercatore con contratto non rinnovabile». Quindi altri limiti temporali. I ricercatori lunedì hanno iniziato una raccolta di firme online e si sono organizzati su Facebook, dove nel loro gruppo si legge: «Alla Statale di Milano è stata respinta la proposta di introdurre limiti temporali per i concorsi da ricercatore». Ma lì il regolamento era in fase di approvazione, mentre a Cagliari è già in vigore. MARIO GOTTARDI ______________________________________________ Italia Oggi 13 apr. ’11 ECCO I FANTACONCORSI: I PROF VINCONO MA PER ANDARE ALTROVE Lo strano caso delle gare indette dagli atenei telematici DI GIAMPAOLO CEDRI Dai concorsi sospetti a quelli kafkiani. Dalla guerra per bande (accademiche) all'ultima cattedra, alle facoltà che non assumono i docenti che hanno selezionato con defatiganti e costose procedure. Mentre l'università italiana è messa a rumore dall'ennesima inchiesta sul reclutamento taroccato — oltre 22 docenti indagati in 11 atenei — nelle ultime torna-te di idoneità, ancora svolte con le vecchie regole delle selezioni locali ed espletati alla fine dello scorso anno, si registra un singolare fenomeno: quello dei vincitori non chiamati dalle facoltà che avevano messo a concorso i posti. Una quadretto a dir poco surreale: atenei che hanno le risorse per coprire i posti, facoltà che li bandiscono indicandone il membro interno, ministero che sorteggia altri tre commissari fra i docenti delle discipline, candidati che inviano domande e pubblicazioni, di nuovo commissari che le esaminano, docenti che partecipano a scritti, a orali, commissioni che dichiarano un vincitore e un idoneo. Solo che, a questo punto, la facoltà, in preda a un resipiscenza, rinuncia a chiamarli. Insomma, una bella trafila burocratica, il lavoro di tantissime persone, spostamenti, spese, tempo sottratto a didattica e ricerca, che finisce in un nulla di fatto. Il motivo ufficialmente addotto è il solito: «Il curriculum del docente non risponde pienamente alle esigenze della nostra facoltà>, ma non è infrequente che si usi una soluzioni de facto, facendo trascorrere 60 giorni dalla proclamazione degli idonei senza deliberarne la chiamata. Un fenomeno che singolar-mente sembra allignare nelle controverse università telematiche. Nella famosa eCampus di Novedrate (Co), gruppo Cepu, università discussa proprio per il ricorso massiccio a ricercatori a tempo determinato in qualità di docenti, molti concorsi sono finiti nel nulla Fra la fine del 2010 e l'inizio del 2011, in sei prove, a Economia, a Giurisprudenza (due volte), a Ingegneria, le facoltà in questione si sono «dimenticate» di chiamare gli idonei mentre, in altri quattro casi, a Lettere, Ingegneria, Psicologia e Giurisprudenza, la chiamata non è avvenuta perché i prescelti non combaciavano con le esigenze della facoltà. Un paio di questi sono finiti a Parma e a Genova, trasformando l'ateneo di Francesco Polidori, Mr. Cepu, in un concorsificio per conto terzi. Meglio (o peggio), ha fatto la prima storica telematica, l'Università Marconi di Roma, control-lata dal Consorzio ForCom, a cui partecipa anche La Sapienza. Qui, in cinque anni, dal 2006 al 2011 (l'ultimo caso a gennaio di quest'anno), a fronte 12 assunti, sono stati promosso 54 ordinari o associati, che si sono accasati altrove, mentre 25 hanno ottenuto l'idoneità pur rimanendo nell'università di appartenenza. Nella maggioranza dei casi è stato la facoltà telematica a non volerli, con la formula di rito. Una singolare schifiltosità accademica di cui hanno beneficiato anche nomi noti, come quello di Maria Chiara Carrozza, attuale direttore dell'Università S Anna di Pisa e responsabile del Forum del Pd università; che proprio domani si riunisce a Roma. La Carrozza vinse il concorso di Bioingegneria industriale nel luglio 2006 ma la Marconi non volle né lei, né l'altro idoneo, che si accusò al Politecnico di Milano. «Presentai domanda perché vidi il bando in Gazzetta ufficiale», spiega la «rettora» del S Anna in un'intervista a CampusPRO (www. campus.iticampuspro), online domani. «Ritenevo di avere un curriculum all'altezza e feci domanda. Poi però», prosegue, «fui selezionata qui in ateneo, in base a una procedura interna, che consiste nell'ottenere una lettera di presentazione da almeno tre studiosi stranieri. Mi interessava l'idoneità a professore ordinario. alla Marconi non sarei andata». «Questo fenomeno», spiega una fonte ministeriale che ha chiesto l'anonimato, «nasconde talvolta accordi all'interno dei gruppi disciplinari per bypassare intoppi a livello locale. Quando un gruppo di docenti decide di mettere in cattedra uno studioso sapendo che nella facoltà di destinazione, per divisioni locali, non si sarebbe bandito mai un concorso, ricorre al passaggio nell'ateneo compiacente. Quest'ultimo, privato e telematico, spesso drammaticamente sotto-organico, ha tutto l'interesse a dimostrarsi attivo nel reclutamento, senza mai appesantire i ruoli, coperti da personale a termine e poco costoso». Fantaccademia? Di certo, nessuno dei docenti ricusati ha avuto da eccepire, né da protestare. Non si è mai sentito di ricorsi al Tar, né incatenamenti ai portoni dei rettorati. Chissà che anche questa vicenda, oltre a quella giudiziaria, non abbia spinto il neopresidente dei rettori italiani, Marco Mancini, a auspicare una soluzione «americana» per il reclutamento, con le università che scelgono chi vogliono, rispondendo della qualità dei chiamati. _______________________________________________ Il Sole24Ore 13 apr. ’11 LA RICERCA NON TROVA MERITO Fondi statali fermi all'1% del Pil, manca un criterio che premi l'eccellenza di Marco Magrini Antonio Scarpa ha un compito arduo, ma strategico. Ogni anno, grazie a una squadra di 500 ex professori universitari alle sue dipendenze, e grazie alla collaborazione di 3omila scienziati, deve esaminare 100mila domande di finanziamento alla ricerca medica. «Il sistema della peer review - spiega Scarpa, che dopo essersi laureato a Padova nel 1966 ha avuto una lunga carriera nella ricerca e nell'insegnamento - funziona a meraviglia: solo i progetti migliori ottengono fondi. Non ci sono concorsi, o finanziamenti fissi per università o aree geografiche: conta solo il merito. In ballo, ci sono 31 miliardi di dollari». Come avrete capito, Scarpa non lavora in Italia. È il responsabile del Center for Scientific Review del NIH, il National Institute of Health americano. La peer review - scienziati che valutano il lavoro degli scienziati - in Italia praticamente non esiste. I finanziamenti statali, circa del Pil e circa la metà dei maggiori concorrenti europei, vengono distribuiti senza il metro del merito, che pure la contestata riforma Gelmini tenta di introdurre. E fra stipendi magri, ricercatori che invecchiano inattesa di un posto e un sistema dove la burocrazia è semplicemente opprimente, i cervelli non sono incentivati come dovrebbero. Alcuni fuggono. Alcuni lottano lo stesso in laboratorio. Ma tutti sognano qualcos'altro. «Chiudersi nella propria ricerca, pubblicare sulle riviste più prestigiose, viaggiare: solo così ci si sente parte di un mondo stimolante, dove si viene giudicati per quel che si vale», dice Francesco Sylos Labini, coautore di I ricercatori non crescono sugli alberi, non un cahier des doléances, ma un libro che incita l'Italia a cambiare. È un disastro? Beh, non proprio. «Nel numero di pubblicazioni per ricercatore siamo ai vertici mondiali», ricorda Franco Miglietta, dell'Istituto di Biometeorologia del Cnr. Nel 2009, l'Italia era nona nella computer science, ottava nana fisica, settima nella biochimica e nelle neuroscienze, sesta nella matematica: una performance da paese del G8. «Sono pochi scienziati molto produttivi che tirano la carretta», sentenzia Miglietta. La classifica «Top Italian Scientist», facilmente reperibile sul web e pubblicata l'anno scorso da due ricercatori emigrati, ha fatto un certo baccano e molti la considerano controversa: è la lista dei ricercatori italiani, inclusi quelli all'estero, che hanno un H-index superiore a 30. L'H-index serve a calcolare la produttività scientifica di un ricercatore (ma anche di un istituto, o di un paese) tenendo conto del numero di pubblicazioni sulle riviste internazionali, tutte rigorosamente peer- reviewed, e di quante volte sono state poi citate da altri: più o meno, quel che fa Google con il suo algoritmo per indicizzare le pagine web. Ma gli scienziati italiani con un H-index superiore a 3o sono oltre 1.800. Non pochi: tanti. La ricerca è una competizione, ma non fine a se stessa. La ricchezza delle nazioni dipende ormai anche dalla scienza. «C'è un'evidente correlazione fra la spesa in ricerca e il tasso di crescita dell'economia», ammette Luciano Maiani, il fisico che dal 2008 presiede il Cnr. «L'innovazione deve partire dalla ricerca, per poi propagarsi al sistema industriale. Gli investimenti statali sono sotto la media europea, ma non terribilmente. Semmai, qui da noi i privati investono in ricerca appena lo o,3% del Pil e questo dato è assai inferiore che all'estero». Tuttavia, i Governi che si sono succeduti negli anni non hanno dimostrato di comprendere la relazione fra ricerca (inclusa la ricerca di base, non solo quella applicata) e crescita economica, come succede nel Regno Unito o in Germania. C'è forse bisogno di un capo dell'esecutivo laureato in fisica come Angela Merkel? «Tony Blair non era un fisico, ma ha fatto un'eccellente riforma universitaria», risponde Maiani. «Ma se ci fossero dubbi - osserva Miglietta - non si è mai visto un paese dove il Pil cresceva mentre gli investimenti in ricerca calavano». E qui sta il nodo. Un alto H-index riflette, per sua stessa natura, i successi scientifici del passato. Il piazza- mento tutt'altro che onorevole delle università italiane nelle classifiche mondiali, è un promemoria del presente. Così, quando si parla del futuro della ricerca italiana, salta agli occhi un chiaro deficit di lungo periodo. La scienza è diventata un'impresa globale. Ci sono 7 milioni di ricercatori nel mondo e la spesa internazionale in ricerca e sviluppo ha superato i mille miliardi di dollari (+45% sul 2oo2). Oggi che siamo nella cosiddetta "Economia della conoscenza", il sapere è una variabile imprescindibile della competizione. E il sistema italiano sfavorisce - senza appello - la categoria più strategica per questa disfida della conoscenza: i giova ni. «I cervelli sono come i calciatori: i goal si fanno per una quindicina d'anni, non di più. Chi è bravo e non ha una squadra dove giocare, se ne va altrove», osserva Maiani Ecco perché il mestiere di Antonio Scarpa è strategico (per gli americani). Perché è il trionfo della meritocrazia. «Se i ricercatori ottengono i finanziamenti - spiega lui stesso - l'NIH ne versa più o meno altrettanti alle università dove questi lavorano, per coprire i costi amministrativi. Le università vengono sostenute dai fondi federali solo così: ecco perché fanno tutte a gara per assoldare i ricercatori migliori». Il sistema italiano invece, non: difetta solo di meritocrazia e competizione. Gli manca anche la flessibilità. «C'è uno spaventoso carico burocratico non solo per ricevere i fondi statali, ma anche quelli europei», lamenta Alberto Mantovani, prorettore alla ricerca all'Università di Milano. L’articolo 18 della legge Gelmini ci ostacola perfino nell'assumere un tecnico per un progetto di due o tre anni» Le vie d'uscita possono essere molteplici. «Ci vorrebbe una sola cabina di regia - suggerisce Maiani - che faccia scelte chiare in maniera trasparente». «Va bene finanziare di più la ricerca, ma bisogna anche incentivare il trasferimento della conoscenza alle imprese», dice Carlo Rizzuto, presidente del Sincrotrone di Trieste. «In ogni caso - sostiene Sylos Labini - ci vuole una visione di lungo periodo: anche con più soldi, con nuove regole e con il dovuto ricambio generazionale, sarà comunque necessario un decennio, per trasformare lo stato delle cose». Due anni fa, la rivista Nature scriveva che il Ministero dell'università e della Ricerca aveva dato all'NIH americano l'incarico di valutare alcune richieste di finanziamento: in pratica, la peer review in outsourcing. Ma Scarpa smentisce: «Su richiesta del viceministro Ferruccio Fazio, abbiamo solo fornito una serie di consulenze su come applicare la peer review attingendo a un database di mille esperti non italiani e quindi non soggetti a un conflitto d'interessi». Certo, l'idea della meritocrazia in conto terzi era un po' surreale. Ma non si potrebbe ripescare? SENZA QUALITÀ I FONDI ALLA RICERCA di Marco Magrini Senza scienza, il Pil non cresce. Lo ammette L..." anche Luciano Maiani, il fisico che presiede il Cnr, E lo conferma la formidabile accelerazione della produzione scientifica cinese degli ultimi dodici anni. Eppure, la ricerca italiana è sottofinanziata, il network scientifico nazionale è appesantito da un'inutile burocrazia e l'assenza di un sistema meritocratico sfavorisce la categoria più strategica, nella nuova disfida planetaria della conoscenza: i giovani. ______________________________________________ Tst 13 apr. ’11 FATTA L'ITALIA, L'AMERICA FECE IL MIT Anche il celebre Massachusetts Institute of Technology ha appena celebrato i 150 anni A giugno un convegno a Boston analizzerà le sue relazioni passate e future coni grandi del "made in Italy" RICCARDO LATTANZI NEWYORK UNIVERSITY Quando Giuseppe Mazzini professava che «l'educazione è il pane dell'anima», l ' eco _delle sue parole risuonava anche di là dell'oceano, attraverso l'operato di un suo coetaneo. William Barton Rogers, docente di filosofia naturale, intorno alla metà del XIX secolo aveva intrapreso una campagna per l'istituzione di una nuova scuola politecnica, che andasse incontro alle necessità scientifiche e tecnologiche del suo Stato. Lo Stato di Mazzini, invece, stava nascendo proprio in quegli anni. Il 5 ottobre 1860, quattro giorni dopo la battaglia del Volturno, in cui i garibaldini sconfissero i borbonici, Rogers espose a un comitato di notabili bostoniani il piano per la creazione di un «Insti- tute of Technology». L'idea fu accolta con entusiasmo e trasformata in una petizione, sottoposta al Parlamento del Massachusetts. Il 9 marzo 1861, otto giorni prima che Vittorio Emanuele II venisse proclamato Re d'Italia, Rogers fu chiamato a discutere la proposta davanti alla commissione per l'istruzione e il 10 aprile fu approvato il decreto che dava vita al Massachusetts Institute of Technology, il MIT. Due giorni dopo scoppiò la Guerra Civile e anche in America iniziarono le battaglie per l'unità. Il MIT ha resistito ai vari tentativi di annessione da parte della vicina Harvard e come l'Italia, nel 2011 festeggia 150 anni di storia. Le celebrazioni sono iniziate a gennaio e proseguiranno fino alla cerimonia dei diplomi di giugno. In quel mese è in programma un convegno che parlerà delle relazioni passate, presenti e future tra il MIT e l'Italia. «Sarà invitata la comunità MITaliana e ci saranno professori, ricercatori, studenti, ed ex-alunni», spiega Edoardo Cavalieri D'Oro, dottorando in ingegneria nucleare e presidente dell'associazione degli studenti italiani al MIT. Oggi sono 69, di cui tre studiano per il Bachelor of Science (il primo livello dopo le superiori), 42 frequentano programmi di master o dottorato, mentre 24 sono iscritti ad università italiane e venuti a Boston per un periodo di ricerca. Con i ricercatori e i professori, il numero sale a circa 150, tra cui non mancano le eccellenze. Emilio Bizzi è un neuro- scienziato, tra i primi a studiare come il cervello controlla l'attivazione muscolare attraverso il sistema nervoso. Arrivato al MIT nel 1968 come ricercatore, dopo aver diretto il dipartimento di scienze cognitive, è uno dei 14 Insti- tute Professors, il titolo più alto conferito dall'università, e dal 2006 è presidente dell'American Academy of Arts and Sciences. Anche Bruno Coppi è al MIT dal 1968, quando fu reclutato come professore di fisica da Princeton. A volere Coppi, che sarebbe diventato uno dei massimi esperti di fisica del plasma e fusione nucleare, fu Bruno Rossi, al MIT dal 1946 al 1970. Rossi, che con Enrico Fermi ed Emilio Segré partecipò al Progetto Manhattan, è considerato il pioniere dell'astronomia a raggi X. Tra i sui allievi, Riccardo Giacconi, Nobel per la fisica nel 2002. L'Italia è rappresentata anche dal neuro scienziato Tomaso Poggio, direttore del «Center for Biological and Computational Learning», mentre per l'economia ha «esportato» Franco Modigliani, professore al MIT da11962 fino alla scomparsa nel 2003. Modigliani, che vinse il Nobel nell'85, ha contribuito a formare una schiera di economisti, tra cui il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, l'ex viceministro Mario Baldassarri e il bocconiano Francesco Giavazzi. Eh sì, una volta c'erano più opportunità per tornare indietro dopo la specializzazione in America, mentre oggi quasi tutti trovano lavoro all'estero. Alcuni il lavoro se lo inventano. Riccardo Signorelli, ad esempio, ha creato una startup a partire dalle ricerche condotte per il suo dottorato in ingegneria elettrica. La-sua Fast CAP SYSTEMS potrebbe rivoluzionare il mercato delle auto ibride grazie a dispositivi chiamati «ultra capacitors», in grado di immagazzinare energia in campi elettrici, con costi ridotti ed efficienza maggiore rispetto alle normali batterie. I fratelli Umberto e Cosimo Malesci, invece, sono arrivati al MIT dopo il liceo e, finiti gli studi, hanno fondato Fluidmesh Networks, azienda leader nei sistemi wireless per le applicazioni industriali. Il quartier generale è a Boston, ma la sede europea è a Milano. Il loro non è l'unico ponte tra il MIT e il nostro Paese. Nel 2000, su iniziativa del professor Richard Locke, capo del dipartimento di scienze politiche del MIT, è nato MIT-Italy, un programma di scambi e collaborazioni bidirezionali con università e aziende italiane. Se Massimo d'Azeglio si preoccupava che una volta «fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani», istituzionalizzare la rete di relazioni informali tra il MIT e l'Italia non deve essere sembrata un'impresa meno ardua. Per realizzarla, Locke scelse una coordinatrice italiana, Se-renella Sferza, arrivata al MIT con una borsa di studio Fulbright. Da qualche anno è co- direttrice di MIT-Italy con Carlo Ratti, professore nel dipartimento di urbanistica. In 10 anni il programma ha portato 100 italiani al MIT e 200 studenti del MIT in Italia. Numeri a prima vista in controtendenza per un Paese in cui la perdita dei cervelli è diventata una malattia cronica, se non fosse che quelli che vanno in Italia si fermano un paio di mesi, mentre quelli che arrivano a Boston ci restano almeno un anno e spesso ritornano. Questo non significa che programmi come MIT-Italy non siano utili. Tutt'altro. La circolazione dei talenti trasporta le idee verso i terreni più fertili e crea collaborazioni che continuano dopo la fine dei periodi di scambio. Il mondo è cambiato. Se Cavour dovette affidarsi a Garibaldi per portare le sue idee in giro per l'Italia, oggi gli basterebbe aggiornare il profilo su Facebook. ______________________________________________ Il Sole24Ore 17 apr. ’11 COSÌ CI UCCISERO IL FUTURO Mattei, Ippolito, Marotta, Olivetti: menti lungimiranti del secolo scorso, annientate da una classe dirigente di umanisti e letterati di Gilberto Corbellini E’ singolare (o forse no) che mentre le celebrazioni dei 150 anni di Unità d'Italia sono prevalentemente rivolte al passato, mezzo secolo fa si guardasse molto, e con delle buone analisi, anche al futuro. Come si può constatare leggendo gli atti di un convegno organizzato il 2 e 3 dicembre 1961 dal Centro Attività Culturali della Democrazia Cristiana sul tema «Una politica per la ricerca scientifica». La relazione d'apertura, preparata da Giordano Giacomello, allora direttore generale dell'Istituto Superiore di Sanità, e dall'On. Franco Maria Malfatti, rimane esemplare per concretezza e lucidità. Se i futuri tecnici e politici italiani avessero mantenuto quel grado di serietà, probabilmente oggi non saremmo in queste condizioni. Giacomello e Malfatti analizzavano i dati internazionali sui rapporti tra ricerca scientifica, sviluppo economico e insegnamento superiore, individuando precisamente i limiti del sistema italiano e proponendo una serie di interventi. In primo luogo, il miglioramento dell'istruzione scientifica nelle scuole superiori e una programmazione della ricerca scientifica che tenesse conto dei trend internazionali e del sistema locale. Inoltre, prevedevano che il «miracolo economico italiano» si sarebbe estinto presto, senza un'adeguata politica economica dei brevetti e investimenti dell'ordine di alme-no il 2% del Pil, che consentissero di competere che con le crescenti economiche internazionali della conoscenza. Al convegno parteciparono i massimi esponenti della ricerca scientifica italiana, pubblica e industriali del tempo, tra cui Edoardo Amaldi, Felice Ippolito, Vincenzo Caglioti, Adriano Buzzati Traverso e Gino Martinoli. Tutti elogiarono l'analisi di Giacomello e Malfatti, integrandola con osservazioni pertinenti. Se cinquant'anni fa le idee erano così chiare, perché le cose sono poi andate male? Come mai sono accaduti gli episodi raccontati da Marco Pivato, che hanno stroncato sul nascere le opportunità per l'Italia di collocarsi stabilmente tra i paesi con un'economia davvero basata sulla conoscenza? I quattro casi storici di cui narra Pivato sono noti: la triste parabola dell'Olivetti, seguita alla morte di Adriano Olivetti nel 1960 e di Mario Tchou nel 1961; il fallimento del progetto di modernizzazione della politica economica industriale perseguito coraggiosamente e contro le resistenze di una classe politica e industriale ancora feudale da Enrico Mattei; l'arresto di Felice Ippolito, presidente del Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare nel 1963, che segnava anche l'arresto del programma di ricerca e sviluppo del nucleare in Italia; infine, l'arresto anche di Domenico Marotta, nel 1964, che aveva diretto l'Istituto Superiore di Sanità, facendone uno dei centri di ricerca biomedica più dinamici nel mondo occidentale. Si potrebbe aggiungere, la vicenda che vide fallire il progetto di Adriano Buzzati Traverso - forse il più ambizioso di tutti - di riformare i criteri di formazione e reclutamento dei ricercatori nell'area biomedica di base, per adeguarli a quelli dei paesi scientificamente emergenti. Pivato non porta dati nuovi, ma aggiorna il dibattito incastonando i racconti con interviste a testimoni ancora in vita, studiosi che si sono occupati delle conseguenze che quelle «occasioni perdute» hanno avuto per il declino dello sviluppo industriale italiano e intellettuali attenti alla storia scientifica, economica e politica recente. Nelle conclusioni propone una lettura pedagogica di quei casi, richiamandone l'attualità al fine di capire come si devono riformare i rapporti tra scienza, politica e società in Italia. Non si può che concordare con l'ultimo auspicio, sperando che la politica si accorga che senza un'adeguata e diffusa istruzione scientifica somministrata alle più giovani generazioni il Paese non ha futuro. Né l'avrà mai. Ma torniamo alla domanda da un milione di dollari. Al di là del ruolo giocato dai Saragat, dai Valletta, dall'Enel, dalle ripicche politiche tra Dc e Pci, eccetera, si può provare a identificare un fattore che in ultima istanza è all'origine dello "scippo" di cui racconta Pivato, e che ha mantenuto questo paese ai margini della modernità? A mio parere sì. Questo fattore lo hanno denunciato esplicitamente Felice Ippolito e Antonio Ruberti. Nel 1978 Ippolito sosteneva che il problema stava nell'estrazione culturale della classe politica italiana: «politici sono e sono stati molti uomini di cultura, ma in generale di estrazione umanistica. Non abbiamo avuto quasi nessun ministro di formazione tecnica o scientifica nel senso di scienze fisiche o applicate». Scrivendo nel 1998 sul «sistema della ricerca in Italia dopo il 1945», Ruberti affermava che la causa dei ritardi risiedeva in una «radicata e profonda difficoltà a considerare le scienze naturali parte della cultura», ovvero nel «peso che il tipo di formazione e di cultura prevalente nella classe politica ha di fatto esercitato». Appunto. Se ci troviamo in queste drammatiche condizioni, e non siamo in grado di garantire un futuro ai nostri figli, lo dobbiamo a una cultura umanistica conservatrice e dannosamente pervasiva. ______________________________________________ Il Giornale 17 apr. ’11 IL MATEMATICO CHE INVENTÒ IL CERVELLO DI GOOGLE di Stefano Lorenzetto Nel primo mistero gaudio- so si contempla il professor Massimo Marchiori che, sua sponte, rinuncia a 10.000 dollari al mese e lascia il Massachusetts institute of technology di Boston, il leggendario Mit da cui sono usciti 76 premi Nobel, e torna in Italia come ricercatore, il gradino più basso della scala gerarchica universitaria, per un decimo dello stipendio, 970 euro. Nel secondo mistero gaudioso si contempla il medesimo docente che, senza ricavarne il becco d'un quattrino, regala a Larry Page, all'epoca studente alla Stanford University, l'algoritmo che l'anno seguente avrebbe consentito al giovanotto americano e a un suo compagno di studi d'origine russa, Sergey Brin, di creare Google, oggi il più potente e il più cliccato motore di ricerca del pianeta, valore di mercato 143 miliardi di dollari. Nel terzo mistero gaudioso si contempla il buon Marchiori aggirarsi felice tra i suoi 180 studenti nel dipartimento di matematica dell'Università di Padova, dove nel frattempo è diventato professore associato a 2.000 euro mensili, e dilettarsi ai fornelli della sua casa di Mestre: «Mi sto specializzando nella faraona con salsa peverada e nell'oca in onto». Ci sono cervelli in fuga e cervelli di ritorno. Il professor Marchiori, 41 anni, celibe, laureato nel 1993 con 110 e lode in matematica pura e applicata nel medesimo ateneo patavino, sembra appartenere a un'altra categoria: quella di chi ragiona col proprio cervello. Nel suo caso un cervellone, come attesta il dottorato in matematica computazionale e informatica matematica. E nato a Mestre da Orfeo, macchinista delle Ferrovie dello Stato, e da Maria, casalinga: «I medici avevano diagnosticato a mio padre la sclerosi laterale amiotrofica. Ha vissuto per anni da malato aspettando di morire. Alla fine s'è scoperto che invece si trattava d'un problema alla spina dorsale scatenato da un nervo. L'hanno operato e ha ripreso a star bene, ma pochi mesi dopo un tumore ai polmoni se l'è portato via. Questo mi ha fatto capire quanto sia meraviglioso vivere e ha rimesso ordine nelle mie priorità». La sorella maggiore, Elena, non è da meno: specializzata in algoritmi generici, lavora in Olanda e si dedica alla bioinformatica applicata alla medicina. Il giovanotto nel 1997 si trovava anch'egli nei Paesi Bassi, ad Amsterdam, con un contratto da docente presso il Centrum wiskunde & informatica, il corrispettivo del nostro Consiglio nazionale delle ricerche. Ricevette un'offerta dal Mit e si trasferì negli Stati Uniti. Il compito assegnatogli a Boston non era dei più facili: «Come possiamo essere sicuri che i microprocessori non sbaglino a fare i conti? Partendo dalla logica matematica, ho cominciato a indagare». Sulla faccia del pianeta gli scienziati impegnati in una simile impresa non erano più di quattro o cinque. Il risultato della ricerca non fu affatto tranquillizzante: «Scoprii che anche i microprocessori, e dunque i computer, sbagliano». Bastò per metterlo in luce e procurargli un passaggio dal secondo al terzo piano del Mit, quello dove regna sir Tim Berners-Lee, l'informatico britannico che insieme al bel-ga Robert Cailliau ha inventato il Www, il World wide web, la Grande ragnatela mondiale, Internet insomma. «Volle che gli spiegassi le mie idee. Alla fine concluse: "Molto interessanti. Peccato che nel mio team non ci siano posti liberi, altrimenti ti prenderei subito a lavorare con me". Fece una breve pausa, poi batté un pugno sul tavolo: "Però in questo istante ho creato un posto appositamente per te. Benvenuto". Era l'antivigilia di Natale, io avevo compiuto 28 anni da un mese esatto e quel pomeriggio decollava l'aereo che mi avrebbe riportato in famiglia per le festività. Fu il più bel Natale della mia vita». Il resto, per il figlio del ferroviere, è venuto di conseguenza. Autore del P3P, lo standard mondiale per la privacy del Web, finora è l'unico italiano che sia stato ammesso nel board (una quindicina di persone in tutto) del W3C, il World wide web consortium diretto da Berners-Lee, comunità internazionale che riunisce i colossi dell'informatica e delle telecomunicazioni, da Apple a Microsoft, da Ibm a Sony, e definisce gli standard di sviluppo per Internet. È anche chief te chnology officer di Atomium Culture, l'organismo europeo presieduto da Valéry Giscard d'Estaing che coinvolge 25 università, oltre 100.000 ricercatori, un milione di studenti, 17 quotidiani di qualità fra cui Le Monde, Frankfurter AllgemeineZeitunge The Independent, e un gruppo di importanti aziende che insieme fatturano 720 miliardi di euro l'anno. Mentre insegna all'Università di Padova, continua a lavorare per il Mit. In particolare sta studiando il Web 3.0, il cosiddetto Web intelligente. Ma ha rinunciato allo stipendio americano: «Non mi pareva etico accettarlo. Mi sono tolto dal payroll, il libro paga, e attualmente sono visiting scientist». Neanche una cattedra da professore ordinario, è riuscito a rimediare in Italia. «Scappai all'estero dopo essere stato bocciato due volte come ricercatore e una volta come associato. Non c'era un concorso dove riuscissi a spuntarla. Ho visto passarmi davanti figli di ex rettori, nipoti di baroni, raccomandati di ferro». Adesso che è tornato le avranno almeno messo a disposizione un po' di fondi per le sue ricerche. «Come no: 1.200 euro l'anno». Non è possibile. «Vede, i fondi statali sono pochi e quei pochi vengono sparsi a pioggia per non scontentare nessuno. Quindi non c'è alcuna differenza fra chi lavora e chi non lavora, fra chi produce risultati e chi non pubblica da anni una ricerca. In una parola manca la meritocrazia. Al rientro in Italia sono stato fino al 2006 ricercatore all'Università Ca Foscari di Venezia, dov'ero salito a 1.100 euro mensili unicamente per effetto degli scatti d'anzianità». Ma allora perché è tornato in Italia? «Perché questa è casa mia. Ho pensato che negli Stati Uniti i livelli tecnologici sono già elevatissimi. E ho concluso che dovevo rim-boccarmi le maniche qui». A 2.000 euro al mese. «Li percepisco solo da tre anni. Mi rendo conto che la metrica corrente è imperniata sul denaro, ma io ho sempre pensato che nella vita le soddisfazioni non ti vengono dai soldi. Escludo che Michelangelo abbia affrescato la Cappella Sistina solo perché la com-messa di Papa Giulio II gli dovette sembrare molto remunerativa. Si lavora per lasciare qualcosa di bello al mondo». Non s'è mangiato le mani dopo che Larry Page le ha fregato l'algoritmo di Google? «Per nulla. Sono contento che abbia ottenuto i fondi per realizzare la mia intuizione. Io non ci sarei mai riuscito, mentre lui aveva alle spalle la Stanford University, dove c'è un comitato di selezione che, se ti viene un'idea buona, ti dà i soldi a fondo perduto per concretizzarla. Il mito dei progetti americani nati in garage non esiste. Solo la Apple è nata davvero in un garage. Ma Google è figlio della ricca Stanford». E la sua idea dov'è nata? «Qui a Padova nel 1995. Allora per le ricerche in Internet tutti usavano Altavista, che però aveva il difetto di fermarsi al contenuto delle singole pagine. Esempio: digitavi platypus, che in inglese significa ornitorinco, e nei primi dieci risultati ti veniva fuori l'hotel Pla- typus ma non la definizione di ornitorinco come animale. Io ho costruito un motore di ricerca, Hyper search, che invece tenesse conto anche dei collegamenti fra le pagine». E Page in che modo s'è impossessato del suo algoritmo? «Gliel'ho dato io. Nel 1997 presentai l'Hyper search alla sesta Conferenza mondiale del Web a Santa Clara, in California. Page era uno studente di appena 23 anni e mi tampinò per i successivi quattro giorni, chiedendomi un sacco di spiegazioni sul mio motore di ricerca. Fui ben felice di fornirgliele». Ma Page e Brin hanno poi riconosciuto questa primogenitura? «Certo: alla settima Conferenza mondiale del Web che si svolse nel 1998 a Brisbane, in Australia. Ero presente anch'io. Qualche mese dopo fondarono l'azienda Google». Non le hanno mai chiesto di lavorare con loro? «Ogni anno. L'ultima offerta era per il laboratorio europeo di Google che ha sede in Svizzera, a Zurigo». A quali condizioni? «Circa 10.000 euro al mese, più parecchi bonus in base ai risultati conseguiti. Analoghe proposte mi giungono periodicamente anche da Microsoft e Ibm». So che lei, però, oggi è assai critico sulla deriva commerciale di Google. «Come tutti i motori di ricerca, non è obiettivo e non soggiace ad alcun controllo. E una scatola nera: ti devi fidare di quello che trovi dentro. Google ha ammesso in tribunale che molte classifiche sono fatte a mano. Inoltre opera solo su un quarto, forse meno, dei siti effettivamente presenti sul Web». E come fa a escludere gli altri tre quarti? «Non è colpa di Google. Dipende da come s'è evoluto Internet. Vi sono pagine della Rete irraggiungibili per motivi tecnici: la ricerca richiederebbe mesi anziché frazioni di secondo. Perciò Google decide di testa propria quali filtrare e quali no. Ma chi giudica sull'imparzialità delle esclusioni? Oggi il Web comprende 60-70 miliardi di pagine, c'è chi dice addirittura 100. Google ne indicizza solo 15 miliardi». Vi sono motori di ricerca migliori, più imparziali ed esaustivi di Google? «No. Sono googledipendente anch'io». Altra grave accusa che lei muove a Google: vende le tracce delle nostre navigazioni alle aziende che a loro volta vogliono venderci qualcosa. «Page e Brin si sono comprati Doubleclick, il colosso della pubblicità sul Web, che con i suoi programmi-spia è in grado di monitorare come navighiamo di sito in sito. Quindi ciascun clicva a ingrossare il dossier che raccolgono sul nostro conto. La Commissione europea ha ordinato che ogni sei mesi questa raccolta d'informazioni sia distrutta. Ma la norma è facilmente aggirabile. Almeno fino al 2038, quando un bug informatico sul cambio di data, simile a quello del terzo millennio, farà saltare il tracciamento». Google Health archivia anche le nostre cartelle cliniche, con l'edificante pretesto di renderle consultabili online dai medici nel caso venissimo colti da qualche accidente in giro per il mondo. «Ma quello almeno avviene su base volontaria. Pensi invece agli utenti di Gmail, il servizio di posta elettronica, vittime inconsapevoli dei server di Google che leggono tutti i loro messaggi. Le intercettazioni telefoniche, al confronto, sono robetta da dilettanti. Qui non serve manco il pubblico ministero che le autorizzi Si fanno in automatico». Comincio a capire perché è tornato all'Università di Padova a insegnare tecnologia web anziché matematica. «Internet è un mondo giovane che ricorda l'epopea dei pionieri americani: esaltante ma senza regole. La Rete è ancora nella fase Far West». Lei ha dichiarato: «Un domani parleremo col computer come se fosse un piccolo essere umano». Non le fa un po' paura un mondo così? «No. Dico di più: è vicino il giorno in cui il pc sarà capace d'interagire con noi. Invece oggi siamo costretti a rivolgere una domanda a Google e a prendere quello che offre come se fosse il responso dell'oracolo di Delfi». E agli anziani, a chi non ha il computer o il cavo a fibra ottica che arriva nei campi, chi ci pensa? «È triste dirlo, ma si tratta di una parte dell'umanità in via d'estinzione. Dobbiamo allora chiederci: Internet è come l'acqua?». Risponda. «Sì, è un diritto fondamentale. Ieri l'unico cibo era quello materiale. Oggi gli uomini avranno sempre più bisogno di un cibo spirituale che si chiama informazione, senza la quale non puoi vivere. Internet è l'acqua del terzo millennio». Se d'improvviso la Rete collassasse, che accadrebbe? «Il disastro dei mondi. Crollerebbe tutto: trasporti, transazioni finanziarie, comunicazioni, aziende. Si crede che Internet, per le sue dimensioni, sia un pachiderma indistruttibile. È l'esatto contrario: all'elefante basta sfiorare la proboscide per renderlo mansueto. Chi conosce i punti di vulnerabilità, può buttar giù l'intera Rete». Il generale Keith Alexander, direttore della National security agency statunitense, sostiene che entro un anno, al massimo tre, l'Occidente deve prepararsi alla prima cyberguerra, con un blackout elettrico e finanziario di almeno 60 giorni. «La rete elettrica è controllata da Internet. Già adesso, in questo preciso istante, ci sono migliaia di hacker che tentano di abbattere il sistema attraverso il Web. Ci provano ogni giorno, si divertono così. Insegno sicurezza delle reti, quindi so di che parlo». Lei sostiene che siamo pigri e per questo progettiamo macchine sempre più veloci e pensanti che lavorino al posto nostro. Non teme che un giorno possano avere il sopravvento sugli uomini? «Nei prossimi 50 anni no. Per il futuro non ci giurerei. Era il 2003 quando Thomas Friedman sul New York Times pose il provocatorio interrogativo, sotto forma di equazione, sullo sviluppo della Rete wireless: "Google + Wi-Fi = God?", cioè Dio. Ma io ritengo che il maggior pericolo, anche fra un secolo, sarà sempre rappresentato più dall'uomo che dalla macchina». Chi è un matematico? «Una persona che studia il pensiero per come è veramente, anziché per come potrebbe essere. Questo secondo compito lo lasciamo ai filosofi». I numeri possono spiegare ogni cosa? «Spero che non esista nessun mio collega così pazzo da crederlo. Benché nella complessità di tutti i sistemi biologici alla fine si rintracci sempre la matematica, i numeri possono solo aiutarti a capire il mondo». Più importanti i numeri o le lettere? «I numeri parlano alla mente, le lettere al cuore. E senza il cuore non vai da nessuna parte». stefano.lorenzettopilgiornaleit È l'unico italiano chiamato da sir Tim Berners-Lee, inventore di Internet, nel board del consorzio che governa il Web. «Mi disse: "Peccato, non ho un posto da darti. Ma per te lo creo in quest'istante"» ______________________________________________ Il Sole24Ore 16 apr. ’11 GLI INCENTIVI ARGENTINI FANNO RIMPATRIARE I CERVELLI Sono già 820 su 7mila i ricercatori tornati nel Paese Roberto da Rin BUENOS AIRES. Dal nostro corrispondente Ve la ricordate l'Argentina del 2002? Quella del default, dei morti in piazza, della drammatica recessione economica. Ecco, quella di oggi è un'altra Argentina, irriconoscibile se confrontata con allora. Crescita a ritmi cinesi, boom immobiliare, movida e ristoranti sempre pieni. Resta la spina nel fianco di un'inflazione, al 25% annuo. Difficile attribuire i meriti del miracolo. Il dibattito è aperto tra i teorici del viento de cola, ovvero il traino della forte domanda internazionale di commodities, e quelli del Governo di Nestor Kirchner e ora della moglie Cristina Fernandez. Al di là della congiuntura un merito certo spetta al Governo e ad alcune scelte puntuali. Per esempio quella inerente la politica scientifica: "il rientro dei cervelli" è uno dei punti cardine. Il programma si chiama "Raices", Radici, è stato lanciato nel 2003 e ha come obiettivo il rimpatrio dei ricercatori che lavorano all'estero, negli Stati Uniti e in Europa. È stato un successo. Ne sono già rientrati 82o e il "Plan Raices" è diventato Legge. L'obiettivo è diventato ancora piú ambizioso: far tornare a casa 7mila "cervelli" che lavorano all'estero. Adrian Turjanski, 36 anni, argentino, chimico, una specializzazione in fisiologia molecolare, ricercatore all'Università di Washington, è uno degli ultimi scienziati che ha deciso di rimpatriare. Da pochi mesi ha lasciato i laboratori americani ed è rientrato a Buenos Aires. Sarà responsabile del Dipartimento di Bioinformatica della Facoltà di Scienze esatte dell'Università di Buenos Aires. Com'è articolato il programma? Lo Stato argentino, oltre ad agevolare la comunicazione tra domanda (istituti di ricerca) e offerta (ricercatori), si fa carico dei costi di viaggio, agevola il rimpatriato nella ricerca della casa, gli conferisce una somma pari a 5mila pesos (i2oo euro) per le spese di prima necessità e invia in tempo reale il curriculum a 4.500 enti pubblici e privati che potrebbero essere interessati ad assumere. Per parte loro le imprese argentine (tra queste Techint, Ibm Argentina, Volkswagen Arg, Du Pont, Intel, Arcor) diffondono all'estero, tramite la rete consolare, le loro richieste di tecnici e ricercatori per mansioni qualificate. L'Argentina negli ultimi dieci anni ha subito una significativa migrazione di ricercatori: la crisi degli anni Novanta, il default del 2002, hanno reso totalmente incerto il futuro dei ricercatori argentini. Gli Stati Uniti hanno saputo approfittare del disagio economico e professionale di migliaia di giovani scienziati che hanno lasciato Buenos Aires, Cordoba, Bahia Bianca e accettato di lavorare per laboratori e istituti di ricerca americani o europei. Turjanski non è abituato ai riflettori, né alle platee; si schermisce di fronte alle telecamere, la sua - dice - è «una vita passata in laboratorio». Poi spiega: «La cosa più importante, la motivazione che ha spinto me e molti altri a tornare è sapere che qualcuno ti cerca, che la Ricerca scientifica del tuo Paese ha bisogno del tuo contributo». Il senso di abbandono, il disinteresse per il lavoro degli scienziati e le borse di studio "da fame" sono infatti le prime ragioni che inducono a fare le valigie. Nel caso argentino l'emigrazione è stata favorita dal buon livello di preparazione dei laureati. In particolare «le Università americane, i laboratori pubblici e privati - ha concluso Turjanski - apprezzano la qualità della formazione scientifica conferita in Argentina». Una risorsa troppo preziosa per esser ceduta all'estero. Accolto dal governo l'appello del ministro della Ricerca scientifica Lino Baraiiao: «Esportiamo pure bife (carne) ma per favore teniamoci i cervelli». ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 apr. ’11 COSÌ TUTELEREMO MINERALI E FOSSILI SARDI Regione, presto in discussione la proposta di legge del Pd Intendiamo disciplinare comportamenti scorretti e proteggere al meglio il grande patrimonio naturalistico dell’isola SASSARI. Vuole tutelare il patrimonio dell’isola regolando meglio la raccolta di fossili e minerali da collezione l’iniziativa di legge presentata in consiglio regionale dal Pd. «La proposta approderà presto in commissione e con ogni probabilità sarà discussa nelle prossime settimane», precisa il primo firmatario, il sassarese Gavino Manca. Che spiega: «Non ci prefiggiamo d’individuare beni o parti di territorio soggetti a salvaguardia paesaggistica, ma di disciplinare, limitare o vietare condotte negative nella caccia a minerali e testimonianze paleontologiche: comportamenti, come è chiaro, pregiudizievoli per la conservazione dell’ambiente». Il testo della proposta, che dovrà raccordarsi con la legislazione nazionale, reca la firma di parecchi altri consiglieri pd: Caria, Cucca, Giampaolo Diana, Cuccu, Barracciu, Sabatini, Agus, Antonio Solinas, Pietro Cocco. Numerose le novità rispetto alle norme base sulla materia. «Estrazione e ricerca - sottolinea Manca - andranno ovviamente svolte in modo da non compromettere l’equilibrio idrogeologico, la stabilità del terreno e l’integrità dei giacimenti, oltre che la flora e la fauna». Da qui, per esempio, l’avvio di una procedura d’autorizzazione «per enti pubblici o associazioni che intendano acquisire pezzi unici o intere collezioni esclusivamente a scopi didattici, scientifici o culturali». La proposta si compone di 13 articoli. Nel 3º un’altra innovazione: la nascita del registro regionale dei ricercatori e dei raccoglitori. Gli articoli dal 4 all’8 disciplinano la collezione di fossili e minerali. Mentre il 9º ribadisce «il divieto di commercializzazione, con tassative eccezioni in favore di enti pubblici e associazioni». Le successive disposizioni delineano l’impianto di sanzioni e controlli. E l’articolo 13 indica infine le modalità per il reperimento, nel bilancio regionale, delle risorse necessarie all’attuazione della legge. Gli appassionati di minerali e fossili nell’isola sono molti. Qualcuno calcola siano tra i dieci e i ventimila. Non è una coincidenza. La Sardegna, una delle terre più antiche del globo, è stata sempre considerata una palestra per gli studi geologici: vede rappresentate tutte le fasi dell’evoluzione. Il sottosuolo, i tacchi, le pareti calcaree conservano una quantità impressionante di tracce che, se valorizzate, costituirebbero una prospettiva di sviluppo economico da affiancare ai tesori archeologici. Di recente ha dunque cominciato a riscuotere nuovo interesse il meraviglioso mondo nascosto in grotte, cavità, anfratti. Non è perciò casuale l’attenzione riservata a un’opera divulgativa scritta da specialisti dell’università di Cagliari, Salvatore Barca e Carlo Spano. «Rocce e fossili raccontano la Sardegna - Un fantastico viaggio lungo 600 milioni di anni»: questo il titolo del libro scritto dai due docenti per l’editrice Cuec. Analoga attenzione, negli ultimi mesi, hanno incontrato altre iniziative e manifestazioni culturali nell’isola. (pgp) ========================================================= ________________________________________________________ L’Unione Sarda 14 apr. ’11 CAPPELLACCI NOMINA I MANAGER DELLE AZIENDE MISTE Il presidente della Regione Ugo Cappellacci, con due diversi decreti e d'intesa con i rettori delle Università di Cagliari e Sassari, ha ufficializzato i manager delle aziende ospedaliero-universitarie. A Cagliari resta il commissario uscente Ennio Filigheddu, cagliaritano, 54 anni, mentre a Sassari ritorna Alessandro Carlo Cattani, sassarese di 52 anni, che a gennaio si era dimesso dopo la nomina a direttore amministrativo della stessa azienda. I due manager, così come quelli scelti dalla maggioranza di centrodestra per guidare le Asl e l'ospedale Brotzu, hanno prorogato l'incarico ai dirigenti amministrativi e sanitari in carica almeno per sessanta giorni. Una scelta dal forte sapore politico, con il centrodestra impegnato nella campagna elettorale in 98 Comuni e fermamente deciso a non crearsi ulteriori problemi interni con scelte così delicate in piena campagna elettorale. Dopo le elezioni, arriveranno anche i nuovi direttori della sanità regionale, mentre la legge di riforma è ancora ferma in commissione Sanità. ( e. p. ) ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 14 apr. ’11 AOU, PUBBLICATO DALLA REGIONE IL DECRETO DI NOMINA DEL MAMAGER SASSARI. È stato pubblicato dalla Regione il decreto con il quale il presidente Ugo Cappellacci ha nominato i nuovi manager delle Aziende ospedaliero universitarie di Cagliari, l’ex commissario Ennio Filigheddu, cagliaritano, 54 anni, e di Sassari, Alessandro Cattani, sassarese di 52 anni. Il nuovo direttore generale dell’Aou di Sassari aveva già firmato il contratto il 7 aprile, dopo aver incassato il parere positivo del rettore dell’Università, Attilio Mastino e l’unanimità anche dal consiglio di facoltà di Medicina. Sandro Cattani, da anni direttore dell’Ufficio acquisti dell’Asl 1, ha già cominciato a lavorare per cercare di risolvere le criticità, affrontare le emergenze e rilanciare un settore in crisi perenne. Nei prossimi giorni saranno nominati il direttore amminstrativo (l’uscente è Piero Tamponi) e quello sanitario (attualmente a ricoprire l’incarico è Severino Rovasio). __________________________________________________________ Corriere 14 apr. ’11 SANITÀ IN 600 MILA CERCANO ORDINE Dai fisioterapisti al tecnico ortopedico: 22 categorie in attesa di una legge. Da 14 anni Bortone (Conaps): «Chiediamo chiarezza, per salvaguardare la salute dei pazienti» DI ISIDORO TROVATO I n un periodo in cui gli ordini professionali stanno cercando la quadratura del cerchio per proporre una riforma globale del loro mondo, c’è qualcuno che non vede di buon occhio l’eventualità della nascita di nuovi ordini professionali. Si tratta dei circa 600 mila professionisti dell’area sanitaria, quelli con laurea triennale e abilitazione: 22 profili che vanno dal fisioterapista al logopedista, dal tecnico ortopedico al dietista. La sala d’attesa In realtà queste categorie attendono una legge di riconoscimento dal 1997 (primo governo D’Alema) quando iniziò l’iter leg i s L a t i v o che non si è ancora concluso. È indubbio che q u e s t a è una fase poco opportuna per ottenere un risultato atteso da 14 anni: da quando la crisi morde i fatturati di quasi tutte le categorie professionali la concorrenza si è fatta più serrata e non mancano i contrasti tra ordini professionali che si contendono esclusive e competenze. Il conflitto tra notai e commercialisti sulla competenza in merito alla cessione di quote di srl, i contrasti tra avvocati, consulenti del lavoro e ancora commercialisti in merito a mediazioni e arbitrati, in un simile contesto la nascita di nuovi ordini professionali non è vista di buon occhio dai vecchi ordini e neanche da chi teme un ulteriore impennata dei costi. È noto che sono in tanti, anche in Parlamento, a sostenere che gli ordini professionali, come istituzione, siano carrozzoni più costosi che utili e che quindi il nostro sistema, specie in questa fase di vacche magre, non possa permettersi la nascita di nuovi soggetti. «L'istituzione degli Ordini per le nostre professioni — spiega il presidente del coordinamento Conaps, Antonio Bortone — non è un vezzo o una richiesta di tipo corporativo per difendere stipendi, pensioni o quant’altro. È una necessità per migliaia di professionisti che desiderano lavorare certi che i pazienti non finiscano in mani sbagliate, per difendere il lavoro onesto, lo studio, l’aggiornamento, lo Stato e le sue casse» . Il nodo fondamentale del riconos c i m e n t o dell’Ordine infatti è proprio questo: la difesa della professionalità che viene insidiata dall’esercizio abusivo della professione. L’abusivismo A leggere le statistiche, infatti, si scopre che per ogni professionista sanitario, due non lo sono e operano abusivamente. Un fenomeno gigantesco per un giro d’affari, naturalmente in nero, da centinaia di milioni di euro. «È una necessità per i cittadini italiani — continua Bortone — che devono sapere chi sarà che metterà loro le mani addosso, esattamente come avviene per i medici. Di fronte a tutto ciò oggi un professionista sanitario vero e serio ha ben poche armi per difendersi: contrariamente ai medici, infatti, non dispone di un Ordine che lo tuteli e ne sancisca la qualità del lavoro. Uno strumento come l’Ordine sarebbe utile non solo contro l’abuso di professione, ma anche per garantire corretti aggiornamenti e corsi di formazione, indispensabili per svolgere il proprio lavoro con correttezza e per essere almeno parificati alle professioni sanitarie europee» . Rimane il dubbio che il disegno di legge si sia arenato a causa dei costi che comporterebbe l'istituzione di nuovi ordini professionali. «Non si crea nessun nuovo carrozzone, come qualcuno vuole far credere — precisa Bortone —. Questo ordine non costerà nulla alle casse dello Stato e sarà gestito direttamente dalle associazioni professionali» . Per questo il Conaps ha indetto una manifestazione per mercoledì a Roma davanti a Senato. «La richiesta di un Ordine — spiega la vicepresidente del Conaps, Tiziana Rossetto — non nasce dal caso, ma dal fatto che queste professioni si trovano all’interno di un’area sanitaria che necessita assolutamente di un controllo utile a garantire i pazienti in termini di professionalità, di qualità di prestazioni e servizi erogati, cioè di tutela dall’abusivismo. Per questo l’urgenza ha ormai raggiunto un livello oltre il quale non è più possibile andare. Sono quasi 15 anni che questo problema è stato posto, ora è il momento di chiudere il cerchio» . Adesso però l’approvazione del testo in commissione finanze è un segnale d’apertura. Debole, ma pur sempre un buon segnale. ________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 apr. ’11 SCLEROSI MULTIPLA, GRUPPO SARDO IDENTIFICA LA POSSIBILE CAUSA Un gruppo di ricercatori sardi delle università di Sassari e Cagliari ha identificato il micobatterio che potrebbe essere il probabile fattore scatenate della sclerosi multipla. Il Mycobacterium avium subspecies paratuberculosis (Map), che causa la paratubercolosi nei ruminanti, potrebbe essere una delle cause della sclerosi multipla. I primi risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica internazionale “PloS One”. LA PROTEINA. Il gruppo di ricercatori ha identificato una proteina del Map altamente omologa a una proteina umana che viene riconosciuta nei pazienti affetti da sclerosi multipla in Sardegna e potrebbe essere l’innesco della malattia. IL GRUPPO SASSARESE. A Sassari il gruppo è coordinato dal professor Leonardo Sechi che da diversi anni si occupa del ruolo del Map in diverse malattie infiammatorie croniche e autoimmuni: dal morbo di Crohn al diabete mellito di tipo 1. Sechi, allievo di Giovanni Fadda (attualmente docente dell’Università Cattolica di Roma), insieme a Stefania Zanetti, da tempo si occupa delle infezioni causate dai micobatteri, in particolare la tubercolosi e la paratubercolosi. Primo autore della ricerca è Davide Cossu, che ha usufruito di una borsa Master & Back della Regione ed ora è titolare di una borsa della Fondazione Italia sclerosi multipla. IL GRUPPO CAGLIARITANO. A Cagliari il gruppo è coordinato da Maria Giovanna Marrosu, neurologa di fama e responsabile del Centro sclerosi multipla di Cagliari che, insieme con la ricercatrice Eleonora Cocco, ha contribuito in maniera determinante a identificare questa associazione con un lavoro avviato circa tre anni fa. Quello dei ricercatori sardi è uno studio preliminare. Se i dati saranno confermati da studi più vasti, si potrà ipotizzare lo sviluppo di un vaccino che blocchi la reazione autoimmune dell’organismo e di conseguenza la malattia. LA MALATTIA. La sclerosi multipla è una malattia cronica progressiva e autoimmune che colpisce il sistema nervoso centrale (cervello, nervi ottici e midollo spinale), caratterizzata dalla distruzione della guaina mielinica che isola le fibre nervose all’interno del sistema nervoso centrale. Colpisce oltre un milione di persone in tutto il mondo, 50.000 in Italia, e si sviluppa solitamente tra i 20 e 40 anni. LE ALTRE SCOPERTE. La causa della sclerosi multipla non è ancora conosciuta, anche se si ipotizzano più teorie. Di recente gli stessi ricercatori hanno identificato una variazione del gene Cblb che aumenta il rischio di sviluppare la malattia. La ricerca, condotta analizzando oltre sei milioni di marcatori genetici, era stata pubblicata sulla rivista “Nature Genetics” e rientra nello studio di associazione dell’intero genoma Gwas-Genome wide association study, condotto su 883 pazienti e 872 volontari sani. Tutti sardi. ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 apr. ’11 SCLEROSI, ECCO IL BATTERIO Importante scoperta dei ricercatori di Sassari e Cagliari CAGLIARI.Un micobatterio che causa la paratubercolosi nei ruminanti potrebbe essere una delle cause scatenanti della sclerosi multipla. Ad averlo scoperto è un gruppo di ricercatori sardi delle università di Sassari e Cagliari. Si tratta del «Mycobacterium avium subspecies paratuberculosis» (Map). Se i dati saranno confermati da studi più vasti, si potrà ipotizzare lo sviluppo di un vaccino che blocchi la reazione autoimmune dell’organismo e di conseguenza la malattia. I primi risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica internazionale «PloS One». Il gruppo di ricercatori ha identificato una proteina del «Map» quasi identica a una proteina umana che viene riconosciuta nei pazienti affetti da sclerosi multipla in Sardegna e potrebbe essere l’innesco della malattia. A Sassari il gruppo è coordinato dal professor Leonardo Sechi che da diversi anni si occupa del ruolo del «Map» in diverse malattie infiammatorie croniche e autoimmuni: morbo di Crohn e diabete mellito di tipo 1. Primo autore della ricerca è il dottor Davide Cossu, che ha usufruito di una borsa Master and Back della Regione Autonoma della Sardegna ed ora è titolare di una borsa della Fondazione Italia Sclerosi Multipla. «Le cause possono esser molteplici - così ha spiegato ieri Leonardo Sechi parlando con i giornalisti dell’importante scoperta che, se confermata potrà cambiare la vita di migliaia di persone - e si studia il ruolo anche di altri virus. La nostra ipotesi è quella che ci possano essere dei fattori scatenanti a seconda della regione e degli agenti ambientali». In questo momento, ha aggiunto, è stato identificata la presenza del Dna di questo micobatterio e gli anticorpi rivolti verso una proteina specifica usata come traccia su una cinquantina di pazienti. Il gruppo è stato già allargato a 200 e gli studi, ha concluso il ricercatore, sembrano confermare quanto è emerso nello studio appena pubblicato. La ricerca delle cause e dei meccanismi che scatenano la Sclerosi multipla è ancora in corso ma sembra ormai chiaro che nell’insorgenza della malattia giocano un ruolo fondamentale alcuni fattori come l’ambiente e l’etnia (clima temperato, latitudine, origine caucasica, agenti tossici, livelli bassi di vitamina D), l’esposizione ad agenti infettivi (virus, batteri) soprattutto nei primi anni di vita ma anche una predisposizione genetica. Sarebbe l’insieme di più fattori a innescare il meccanismo autoimmunitario alla base dell’insorgenza dei sintomi. La sclerosi multipla, o sclerosi a placche, è una malattia a decorso cronico della sostanza bianca del sistema nervoso centrale. La malattia causa un danno e una e una perdita di mielina in più aree (da cui il nome’multipla’) del sistema nervoso centrale. Queste aree di perdita di mielina (o’demielinizzazione’) sono di grandezza variabile e prendono il nome di placche. Nel mondo, secondo l’Aism (l’Associazione italiana per la sclerosi multipla) si contano circa 1,3 milioni di persone con SM, di cui 400.000 in Europa e 57.000 in Italia. La diagnosi arriva per lo più tra i 20 e i 40 anni e nelle donne, che risultano colpite in numero doppio rispetto agli uomini. Per frequenza, nel giovane adulto è la seconda malattia neurologica e la prima di tipo infiammatorio cronico. ________________________________________________________ Cassazione 13 apr. ’11 CASSAZIONE: È FALSO IDEOLOGICO PRESCRIVERE RICETTE IN BIANCO ANCHE A PAZIENTI CON MALATTIE CRONICHE Con la sentenza n. 13315 la Corte di Cassazione ha stabilito che le prescrizioni farmacologiche "in bianco" costituiscono una prassi che integra il reato e in particolare quello di falsità ideologica. Secondo le motivazioni della Suprema Corte, "il farmaco non è un comune bene di consumo poiché oltre ad essere utile è un prodotto pericoloso anche in condizioni normali di utilizzazione, il cui acquisto deve pertanto essere effettuato sotto il controllo del medico" Nel caso di specie, la prassi condannata dai giudici di legittimità ha come protagonisti medici, che firmavano ricette in bianco, e alcuni farmacisti che, in base alle richieste compilavano le ricette consegnate dai medici con il loro timbro e firma. La vicenda veniva alla luce in seguito ad alcune perquisizioni in cui venivano ritrovate diverse ricette firmate e timbrate senza la prescrizione di alcun medicinale. ________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 apr. ’11 QUANDO LA SCOPERTA DI GIUSEPPE BROTZU SALVÒ LA VITA A LIZ 1961. La polmonite della Taylor Quando Giuseppe Brotzu isolò il fungo cephalosporium nell'acqua di Su Siccu, non sapeva che la sua scoperta, anni dopo, avrebbe salvato la vita di Liz Taylor. La diva dagli occhi viola, scomparsa il 23 marzo scorso all'età di 79 anni, mezzo secolo fa si salvò solo grazie al farmaco. A raccontarlo è il figlio dello scienziato, il professor Giovanni Brotzu: «Nel 1961 l'attrice, mentre si trovava a Londra, fu colpita da una terribile broncopolmonite. I medici accorsi al suo capezzale tentarono di curarla con diversi antibiotici, ma senza esito. Infine si decise di provare in via sperimentale con la cefalosporina, che allora non era in commercio». L'attrice guarì, ma Brotzu non rivelò l'episodio. «Lo seppi anni dopo da un dipendente della Glaxo: mio padre non me ne parlò mai». Presidente della Regione, sindaco di Cagliari e rettore dell'Università, Brotzu nei ricordi del figlio era un uomo molto timido e riservato. IL FUNGO Brotzu scoprì l'antibiotico in un modo curioso: notò che il tifo intestinale nel rione Marina aveva una virulenza minore rispetto agli altri quartieri, e collegò questo fatto all'abitudine dei suoi abitanti di fare il bagno nell'acqua di Su Siccu, inquinata dagli scarichi fognari, e mangiarne i frutti di mare. «Ci dev'essere qualcosa nell'acqua che fa scomparire la Salmonella Typhi», ipotizzò. Prelevò alcuni campioni, li studiò con l'aiuto del suo assistente Antonio Spanedda, ed ebbe la conferma: il responsabile era un fungo, il cephalosporium, che impediva ai germi di proliferare. Era il 20 luglio 1944, ma la cefalosporina ebbe una lunghissima sperimentazione e fu messa in commercio solo nel '65: Brotzu, infatti, aveva aderito al fascismo, e per questo motivo i finanziamenti per le ricerche gli furono negati. I primi ad essere curati con esiti positivi furono dei cagliaritani malati di tifo, ma l'antibiotico si rivelò efficace anche contro la peste e il colera. LE RICERCHE «Mio padre in quel periodo lavorava come consulente all'Erlaas, l'ente per la lotta alla malaria», ricorda Giovanni Brotzu. «Conobbe un ufficiale medico inglese, a cui consegnò alcuni ceppi del fungo: lui li fece arrivare al patologo Howard Florey, che li studiò, e successivamente al biologo Edward Abraham, allievo di Fleming, che isolò la cefalosporina». Abraham brevettò la scoperta, che fu venduta in tutto il mondo dalle case farmaceutiche Glaxo ed Eli Lilly. Brotzu, invece, non ebbe alcun vantaggio economico: per lui, la scienza era un bene dell'umanità intera. LA TARGA Oggi, all'Istituto d'Igiene di via Porcell, una targa ricorda il luogo dove Brotzu isolò il micete: un'iniziativa di Alessandro Riva, ordinario di Anatomia all'Università di Cagliari e recentemente nominato Professore Emerito. «Nel venticinquesimo anniversario della morte di Brotzu, proposi una targa simile a quella che a Londra commemora lo scopritore della penicillina Alexander Fleming», spiega Riva. «Sia lui che Florey ottennero il premio Nobel per le loro scoperte, un riconoscimento che avrebbe meritato anche Giuseppe Brotzu». E non solo per aver donato cinquant'anni di vita in più alla diva dagli occhi viola. FRANCESCO FUGGETTA ________________________________________________________ L’Unione Sarda 13 apr. ’11 MONSERRATO. IN RITARDO I BINARI PER SETTIMO Via ai lavori per il metrò verso il polo universitario Sono iniziati i lavori per la costruzione del tratto di metropolitana di superficie che va da Gottardo (Monserrato) alla Cittadella universitaria, mentre è ancora da appaltare la tratta da San Gottardo alla stazione di Settimo, ora in fase di ristrutturazione. I lavori per quest’ultima parte sono in ritardo rispetto alle previsioni, nonostante siano disponibili oltre tre milioni di euro: potrebbero essere realizzati in otto mesi, al massimo in un anno, mentre per il tratto Gottardo-Cittadella saranno necessari tre anni. «Purtroppo», si rammarica il sindaco di Settimo, Costantino Palmas, «il bando d’appalto è ancora impigliato nella burocrazia. Nel frattempo si stanno eseguendo i lavori per il miglioramento dei binari, che rientra in un progetto più ampio, destinato a mettere in sicurezza l’intera strada ferrata da Cagliari a Mandas. Gli operai sono ora impegnati all’altezza della stazione di Settimo, che sarà abbellita e dotata di servizi collegati alla rete fognaria di Settimo attraverso un impianto di sollevamento». La vera attesa, ovviamente, riguarda però il bando per la trasformazione del tratto tra Monserrato e Settimo, in modo che possa essere percorso dalla metropolitana di superficie. La strada ferrata esiste già, ciò che manca è l’elettrificazione della tratta. Chi vorrà raggiungere la Cittadella universitaria, dovrà fare tappa a Gottardo per poi salire sul convoglio che percorrerà il tratto attualmente in costruzione. L’attesa sarà lunga. Quando il progetto sarà completato, i pendolari avranno l’opportunità di scegliere se spostarsi in auto o in metropolitana, decongestionando così il traffico lungo la strada per Cagliari. ANTONIO SERRELI ________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 apr. ’11 ASL 6, PIU SI PRESENTA «BASTA CON LA FUGA DEI NOSTRI ASSISTITI» SANLURI OBIETTIVI. Il nuovo direttore generale Potenziare e aumentare i servizi e le branche di medicina specialistica poliambulatoriale per diminuire la fuga degli assistiti verso altre strutture sanitarie, e garantire ai più deboli un'assistenza sotto casa. Salvatore Piu, 61 anni, ortopedico, già primario del pronto soccorso del Marino di Cagliari, da dieci giorni direttore generale dell'Azienda sanitaria locale 6 di Sanluri, non ha dubbi. Potenziando e aumentando il servizio si garantisce una migliore assistenza sanitaria e si può diminuire l'emigrazione degli utenti verso altre aziende. «È necessario che ognuno faccia la sua parte. Questa è una struttura per fare sistema. Se sostenuta può attrarre pazienti da tutte le parti», commenta Salvatore Piu. Sin dal primo giorno del suo nuovo incarico ha cercato di incamerare più notizie possibili sull'azienda. «È da dieci giorni che faccio la spugna », dice divertito. E aggiunge: «Il mio compito è quello di migliorare l'assistenza, devo fare tutto quello che è necessario per soddisfare le esigenze degli utenti». Ogni giorno sta incontrando i responsabili di settore per cogliere i problemi e i bisogni urgenti dell'azienda. Tra le prime decisioni da prendere quella di aprire il cantiere per la costruzione del nuovo ospedale di San Gavino. «Dobbiamo partire dagli espropri dei terreni, ci sono problemi nella loro valutazione», aggiunge. Ormai il vecchio ospedale denuncia molti problemi di età e di logistica interna. «I vantaggi che scaturiranno dalla nuova struttura ospedaliera saranno molteplici, aumentando e migliorando i servizi offerti», spiega il direttore generale, che in questi giorni ha avuto modo anche di visitare alcuni poliambulatori del territorio. Un altro cantiere che sarà presto aperto riguarda la costruzione della Residenza sanitaria assistita di Villacidro. Tra i progetti della Asl altre due residenze: a Lunamatrona e ad Arbus. «Ottima soluzione», osserva Piu, «per portare l'assistenza sanitaria sotto casa. Cercherò la massima collaborazione dei sindaci per raggiungere gli obiettivi necessari a soddisfare le esigenze degli utenti». Vi è anche un altro problema sul tavolo del nuovo direttore generale: la gestione del Centro riabilitativo Santa Maria Assunta di Guspini, di proprietà della Fondazione Guspini per la vita, che da agosto scorso è gestito direttamente dell'Asl 6. «È una struttura d'eccellenza», assicura. GIAN PAOLO PUSCEDDU ___________________________________________ La Nuova Sardegna 16 apr. ’11 ASL3: CAPELLI: «SPERIAMO CHE BOCCINO IL PROJECT NUORO. «Il project financing? Speriamo venga bocciato. E, in ogni caso, venga ricontrattato. Così com’è serve a far guadagnare solo chi ha vinto l’appalto. Non i cittadini e gli imprenditori nuoresi». Non la manda a dire l’ex assessore regionale alla Sanità Roberto Capelli. E attacca il maxi appalto. Che l’Asl, dopo il cambio di dirigenza dal Psd’Az al Pdl, vuole invece difendere a spada tratta. Affidando ufficialmente l’incarico all’avvocato Angelo Mocci. Lo storico legale dell’Asl, «defenestrato» con l’arrivo di Antonio Onorato Succu, torna dunque in pista. Con una delibera dell’11 aprile che gli assegna l’incarico di «tutelare l’azienda in tutti i giudizi pendenti relativi al project financing». E questo «disgiuntamente dall’avvocato Matilde Mura già incaricata dai precedenti commissari». Un cambio di passo annunciato, dopo la difesa «soft» dell’ «era sardista», e l’arrivo di Antonio Maria Soru. Già direttore sanitario durante il mandato del «padre» del project, Franco Mariano Mulas. Ma se l’Asl (e l’area Pdl che in questo momento la controlla) ha deciso di salvare il progetto, continuano gli attacchi incrociati al maxi appalto. Dopo le parole di fuoco di Paolo Maninchedda (Psd’Az) arrivano quelle di Roberto Capelli (Api): «In tempi non sospetti - spiega - avevo denunciato le mie perplessità, ora diventate certezze, sul project financing. A distanza di quattro anni noto che, nonostante il palese “fallimento” dell’iniziativa c’è chi continua imperterrito a difenderlo». Il progetto. «La parte del progetto di finanza che riguarda “recupero edilizio” e “forniture elettromedicali” - spiega Capelli - prevede un intervento privato per 52 milioni, e uno pubblico per 14. Il privato riceve l’assegnazione della gestione dei servizi generali e il relativo trasferimento della quota finanziaria di costo cessante per tali servizi della Asl (24.3 milioni annui per 27 anni). A questo si aggiunge un’altra quota di intervento pubblico che la Asl si impegna a corrispondere all’impresa: 5,1 milioni annui per 25,6 anni. Totale 786.660.000 euro. Il tutto indicizzato del 5% ogni tre anni. La Asl trasferisce ai privati le gestione degli spazi commerciali esistenti e da realizzare e i relativi introiti». Manuntenzioni. «Salta agli occhi un particolare - attacca Capelli - nei 5,1 milioni è compresa la quota di costo storico relativa alle manutenzioni, anche straordinarie. Per intenderci e come se acquistassimo una casa nuova da un’impresa e continuassimo a prevedere nel nostro bilancio familiare, una spesa annua di 10mila euro all’anno, per i prossimi 25 anni, per la sostituire le porte o la caldaia e così via». Soldi salati. «Plaudo all’iniziativa imprenditoriale - sottolinea il consigliere regionale - giù il cappello. Con un investimento di 52 milioni in 5/8 anni l’impresa porta a casa un utile lordo di non meno di 230 milioni in 25 anni. E pensare che una banale operazione di leasing con un rateo annuo di 5,1 milioni per 20 anni rende immediatamente disponibili risorse per investimenti di 150 milioni». Privati e sindacati. «Si dice puoi - continua Capelli - che la gestione privata razionalizzerà la spesa. Allora: se produrrà dei risparmi, perché si calcola e si trasferisce il costo cessante e non quello ottimale? Ancora. Viene consentito alla parte privata la rivisitazione dei contratti di lavoro e il subappalto dei servizi. Da ciò ne deriva che un portiere che secondo contratto nazionale ha un costo di circa 16 euro/h, venga “subappaltato”, e compensato, con 7 euro/h. Il tutto con l’assordante silenzio sindacale. Con lo stesso sistema il gestore privato subappalta lavori e servizi ad altre imprese. Con i locali che devono ringraziare se potranno raccogliere le briciole». Servizi sanitari. «Infine i servizi sanitari - chiude Capelli - Chiedo ai cittadini: sono migliorati i servizi? Le liste d’attesa si sono accorciate? I viaggi della speranza sono diminuiti? La radioterapia soddisfa le richieste? Le apparecchiature sono al top? Gli operatori sono soddisfatti? E i precari?». Macchinari d’oro. «Ricordo - chiude Capelli - che solo qualche mese fa è stato bloccato l’acquisto di una Risonanza magnetica che la parte privata del progetto di finanza caricava alla Asl al costo di circa 1,8 milioni, mentre il suo prezzo di mercato era di 1,1. O la proposta d’acquisto del Mammografo digitale per 800mila euro contro un valore di 400mila». La fortuna. «La fortuna - chiude Capelli - della nostra sanità è tutta nella grande professionalità delle “persone” che quotidinianamente tamponano le carenze di programmazione e gestione che vengono da lontano». ________________________________________________________ L’Unione Sarda 13 apr. ’11 BLACK OUT ALLA MACCIOTTA, LA CLINICA RIMANE AL BUIO PER 30 MINUTI La corrente è mancata all'improvviso, ma non era la prima volta della giornata: la clinica Macciotta era rimasta senza elettricità anche durante la mattinata. Ma il black out di ieri sera, alle 20, ha causato ovviamente più disagi: genitori, bambini, infermieri e medici si sono ritrovati in un istante al buio. Nessuna luce d'emergenza, nessuna indicazione che illuminasse l'uscita dalle stanze. Tutto il primo piano e il piano terra si sono trovati immersi nell'oscurità per mezz'ora, fino alle 20.30. Sono rimasti fermi anche gli ascensori della clinica, proprio nel momento in cui nella struttura sono arrivate decine di genitori e parenti per le visite ai bambini ricoverati. Il black out, causato da una dispersione nella zona cucine però non avrebbe creato danni alle attrezzature o messo in pericolo la salute dei piccoli pazienti. ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 13 apr. ’11 Sanità, l’assessore siciliano Russo ha spiegato come «tagliare» le spese MPA: «SERVONO DUE MACROAREE» SASSARI. Dall’ospedale al territorio, attraverso la creazione di due macroaree e la razionalizzazione dei servizi ospedalieri. Sono le linee generali del modello di sanità che la giunta regionale intende realizzare con la proposta di legge che, forte dell’approvazione in Commissione sanità, approderà in consiglio nei prossimi giorni. Il tema è stato al centro dell’affollato convegno: «La sanità virtuosa», promosso dall’Mpa (Movimento per le autonomie) nella sala conferenze della Camera di commercio. Esperti e specialisti, coordinati da Franco Cuccureddu, responsabile regionale del Movimento, hanno fatto il punto alla vigilia della discussione in aula di una questione delicata: ridisegnare la sanità sarda partendo dall’analisi del fabbisogno per arrivare a un modello che offra risposte adeguate tenendo conto delle risorse disponibili. Un modello da imitare? Quello indicato da Massimo Russo, assessore alla Sanità della Regione Sicilia, che ha fatto una riforma considerata storica. A fronte del taglio di un miliardo di spese «Russo ha realizzato - ha detto Franco Cuccureddu - quel concetto di sanità virtuosa che corrisponde al nostro obiettivo». L’assessore Russo, ex magistrato collaboratore di Paolo Borsellino, ha spiegato come abbia messo a punto con un team di esperti una macchina perfettamente funzionante partendo proprio dall’analisi dei fabbisogni. «Senza la quale - ha concluso l’ex magistrato - è impensabile realizzare qualsiasi intervento». A Giovanni Maria Baule, responsabile Sanità del Mpa, è toccato individuare le magagne del sistema sanitario isolano e le differenze abissali tra il nord e il sud dell’isola. Sulla situazione sassarese si è soffermato il manager dell’Asl 1, Marcello Giannico, che ha spiegato come si possano migliorare le cose. La chiusura è stata affidata ad Antonello Liori, assessore regionale alla Sanità. (a.me.) ________________________________________________________ L’Unione Sarda 14 apr. ’11 «PENSIONATI E POVERI RIFORMA DEL WELFARE DA ATTUARE SUBITO» L'inclusione sociale degli anziani? Non può prescindere dalle tutele socio-sanitarie. Urge un cambiamento del welfare, considerando che la spesa sanitaria incide pesantemente su pensioni sotto i mille euro al mese e che la popolazione sopra i 65 anni cresce costantemente. Questi i temi affrontati due giorni fa dalla Fnp Cisl (la federazione che unisce i pensionati Cisl) in occasione dell'assemblea di Cagliari a cui ha partecipato il segretario nazionale Fnp Gigi Bonfanti. LE URGENZE In Sardegna i pensionati Inps sono il 21 per cento della popolazione e le donne rappresentano il genere più debole. Tra le diverse priorità, da denunciare l'eccessiva durata delle liste d'attesa e l'inadeguatezza dell'assistenza domiciliare. E, nello specifico delle tematiche sanitarie, si chiedono risposte all'assessore regionale competente Antonello Liori. «Perché si vuole smantellare l'impianto organizzativo che una normativa regionale recente aveva disegnato per i distretti socio-sanitari? È un problema di costi, di cattivo funzionamento?», domanda la segretaria regionale Oriana Putzolu nella sua relazione, osservando una crescita esponenziale della spesa sanitaria in Sardegna legata non solo all'incremento della richiesta di prestazioni socio- sanitarie ma pure alla sua inefficienza: «La riforma sanitaria non va avanti, il piano sanitario regionale è ormai scaduto da tre anni e solo in questi giorni si è definita la nomina dei direttori Asl». ASSISTENZA DOMICILIARE Famiglie sarde sempre più in condizioni di povertà, per il sindacato. «Anche se alcune sembrano pesare meno soltanto in quanto la dignità dei familiari impone di gestire le cose internamente ai nuclei», sottolinea tra gli intervenuti il segretario generale Cisl Funzione pubblica Davide Paderi. Il sindacato cerca soluzioni anche per i servizi integrati socio-sanitari-assistenziali e in particolare per l'assistenza domicilare integrata. Difficile infatti la situazione dell'assistenza affidata alle cooperative, in sostanza limitate nelle prestazioni per la consueta logica della partecipazione al ribasso alle gare. «Su questo fatto - afferma Oriana Putzolu - si denota spesso la debolezza degli enti locali e dei loro rispettivi servizi sociali a monitorare le vere realtà di povertà e di disagio delle famiglie. E magari utilizzare la formula “piano personalizzato” (finanziato dalla Regione) dentro cui far caricare anche tipologie di intervento che non sono appropriate e finalizzando le proprie risorse per interventi sociali su altre iniziative». CENTRO STUDI «Occorre monitorare le informazioni socio-sanitarie per poter valutare le risorse e l'efficacia di spesa», secondo il segretario generale regionale Fnp Piero Agus che prevede l'istituzione di un centro studi Fnp entro l'estate. «I servizi di assistenza alla persona costituiscono un settore che va regolamentato e sostenuto perché può crescere», aggiunge. LA MANIFESTAZIONE Chiama al “risveglio civile” Bonfanti, convinto che la vera battaglia da affrontare sia il fisco: «Nessuno sui giornali apre un processo su chi non ha pagato le tasse». Batte poi sull'urgenza della legge ad hoc sulla non autosufficienza. «Perché povertà oggi significa venire esclusi», conclude annunciando per giugno una manifestazione nazionale. MANUELA VACCA ________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 apr. ’11 UN COORDINAMENTO PER GLI INFERMIERI SARDI Avrà sede in città l’organismo che riunisce i collegi dell’Ipasvi ORISTANO. È stato costituito ad Oristano il nuovo coordinamento regionale dei collegi Ipasvi, l’organismo di rappresentanza degli infermieri, infermieri pediatrici ed assistenti sanitari di Cagliari, Sassari, Nuoro ed Oristano. Il collegio ha deciso di individuare la sede dell’organismo proprio ad Oristano. Nel corso della riunione gli iscritti all’Ipasvi hanno eletto il presidente, provveduto a distribuire le altre cariche, e predisposto un programma delle attività e degli obiettivi da perseguire. Presidente del coordinamento regionale è Antonio Canu (Oristano), vice presidente è Pierpaolo Pateri (Cagliari), il segretario è Biagio Maccaluso (Sassari), mentre Agnese Mazzete (Nuoro) è il tesoriere. Al nuovo organismo di rappresentanza regionale spetta il compito di interloquire con la Federazione nazionale, ma soprattutto con l’assessorato regionale della Sanità, le Università e con le altre amministrazioni ed istituzioni pubbliche locali con l’obiettivo di dare il proprio contributo al miglioramento del sistema sanitario e formativo locale. «Esprimo la massima soddisfazione per la costituzione del nuovo Coordinamento regionale, così come previsto dal regolamento emanato di recente dalla Federazione nazionale di categoria, che in Sardegna mancava ormai da molto tempo - ha dichiarato il neo presidente Antonio Canu - oltre a rappresentare uno dei punti programmatici del programma triennale del Collegio di Oristano che ho l’onore di presiedere. Siamo già a lavoro per rendere attivo il nuovo organismo e sviluppare il programma che abbiamo già condiviso». Il Coordinamento resterà in carica sino al rinnovo degli organi collegiali provinciali, previsto per il 2012. (e.s.) ________________________________________________________ Corriere della Sera 16 apr. ’11 TESTIMONE DI GEOVA RIFIUTA TRASFUSIONE E MUORE. A BORDIGHERA, IN PROVINCIA DI IMPERIA La figlia si era rivolta al tribunale La 68enne aveva gravi problemi gastrointestinali, ma non si possono imporre cure a chi è capace di intendere MILANO - Ha rifiutato, in nome delle sue convinzioni religiose, una trasfusione di sangue che forse avrebbe potuto salvarle la vita. La figlia ha invocato persino l'intervento della magistratura, per «obbligare» la madre a lasciarsi curare, ma la sua istanza è stata respinta per un vizio di forma. E così Annunziata Iannicelli, 68 anni, ligure, appartenente ai Testimoni di Geova, è morta dopo quasi due mesi di sofferenze all'ospedale Saint Charles di Bordighera. IL RICOVERO - Annunziata Iannicelli era stata ricoverata il 24 febbraio scorso a Bordighera per problemi gastrointestinali. La donna soffriva di cuore: dopo un infarto, le erano stati impiantati una valvola mitrale meccanica, due bypass e un pacemaker. Dimessa, dopo qualche giorno era stata nuovamente ricoverata per il peggiorare delle sue condizioni. Il 4 marzo era stata colta da grave un attacco respiratorio: a quel punto i medici le hanno proposto una trasfusione di sangue ma la donna, sempre cosciente e presente a se stessa, ha detto di no. La figlia, Maria Tronti, ha deciso allora di rivolgersi alla magistratura, anche per legge nessuno può imporre una cura se il paziente è in grado di intendere e di volere. L'istanza è stata respinta per un vizio di forma della domanda con cui la donna chiedeva di ai giudici di far intervenire i sanitari dell'ospedale. IL PRECETTO - I Testimoni di Geova vietano le trasfusioni di sangue rifacendosi a un passo del libro biblico del Levitico, e sostengono che accettare di proposito una trasfusione di sangue, anche per salvarsi la vita, costituisce una grave violazione dottrinale. Alcune Asl si sono adeguate introducendo la possibilità di scelta di trattamenti alternativi alla trasfusione di sangue da donatore, come il recupero intraoperatorio e l'emodiluizione. I correligionari della Iannicelli «sono andati a trovarla più volte in reparto», ha raccontato la figlia, «dicendole che non deve subire trasfusioni e che ci sono rimedi alternativi. Ognuno può credere in quello che vuole, ma in questo caso c'è di mezzo una vita, quella di mia madre». Ma l'appello disperato della figlia, riportato anche dai media, non è servito a nulla. ________________________________________________________ Corriere della Sera 11 apr. ’11 MENO «PUNTI NASCITA» MA PIÙ SICURI PER MAMME E BEBÉ Reparti migliori e vere «eccellenze» per assistere i parti rischiosi In Italia ancora troppi cesarei Il taglio che fa salire il rimborso I casi in cui serve il bisturi L'epidurale è offerta a poche MILANO - Se già il «parto» è stato a rischio, anche il periodo di «puerperio» del programma nazionale di riforma dei punti nascita si preannuncia lungo e travagliato. Fuor di metafora, ministero della Salute e Regioni si sono dati tre anni per realizzare la rivoluzione che dovrebbe condurre l’Italia fuori dalle secche dell’emergenza-nascita evidenziata soprattutto dal numero spropositato di cesarei. Già, ma come ottenere «la promozione e il miglioramento della qualità, della sicurezza e dell'appropriatezza degli interventi assistenziali nel percorso nascita e la riduzione del taglio cesareo», evocati nel chilometrico titolo del programma di riforma? Le Linee di indirizzo ridisegnano il sistema dell’assistenza alla madre e al bambino su due assi fondamentali: ospedali e territorio. I primi andranno incontro a una «razionalizzazione» che porterà i punti nascita che assistono meno di 500 parti all’anno a scomparire, mentre quelli tra i 500 e i 1.000 saranno accorpati. Le strutture di "primo livello" della nuova rete dovranno dare una risposta adeguata ai parti "normali". Per quelli difficili o che potrebbero complicarsi, invece, le mamme avranno a disposizione gli ospedali di "secondo livello". Il tutto con una dotazione di personale e mezzi che assicuri un salto di qualità negli standard di sicurezza ( si veda lo schema a destra ). Così i reparti di primo livello avranno la guardia sulle 24 ore di ostetriche, ginecologi, anestesisti, neonatologi e pediatri, come la disponibilità dei servizi di diagnostica e di laboratorio. Ogni ospedale dovrà organizzare un servizio di trasporto d’emergenza per il trasferimento delle mamme e dei neonati. Per quanto riguarda il territorio, invece, la parola d’ordine è garantire la «continuità assistenziale». Si prevede perciò la creazione di un modello dipartimentale fra ospedale, distretto socio-sanitario, consultorio familiare e altri servizi dell’area materno-infantile. Un’altra novità importante della riforma riguarda l’incentivazione del parto naturale, anche economicamente, e l'epidurale garantita a tutte le donne. La soglia dei 500 parti l’anno non nasce dal caso. Per l’Organizzazione mondiale della sanità è la cifra minima perché un punto nascita possa garantire sicurezza. «Gli studi hanno mostrato chiaramente che la mortalità infantile aumenta con il diminuire del numero di nati — spiega Alberto Ugazio, presidente della Società italiana di pediatria —. Insomma, 500 parti l’anno significa farne uno e mezzo al giorno. Se l’équipe è poco allenata, di fronte a un’emergenza è maggiormente in difficoltà». La stessa Federazione dei collegi delle ostetriche testimonia il fallimento del contenimento dei cesarei legato al Progetto obiettivo materno-infantile di dieci anni fa: «Erano stati previsti ospedali da 500 parti l’anno — dice Miriam Guana, presidente della Federazione — per la gestione di gravidanze e parti fisiologici. In realtà si è visto che anche negli ospedali piccoli i tagli cesarei raggiungevano il 50 per cento». Il motivo è semplice. Nei piccoli ospedali a volte mancano strumenti e attrezzature necessari, i medici non sono di guardia sulle 24 ore e quindi per non rischiare si abusa del cesareo anche in casi dove c’è poco o nulla di patologico. Per questo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) è scesa in campo contro ipotesi di deroghe alla riforma. «Non sono ammissibili — taglia corto Nicola Surico, presidente Sigo — e saremo noi ginecologi, per primi, a spiegare alle donne che è meglio sopportare alcuni disagi logistici, ma avere strutture che garantiscono al meglio la salute di madre e bambino». Sigo, Società italiana di neonatologia (Sin) e Società italiana medici manager (Simm) sono invece a buon punto con un progetto di certificazione di qualità dei punti nascita. Insomma, una specie di «bollino» per quegli ospedali che rispondono ai parametri messi a punti dallo Iom (Institute of medicine, che raggruppa le Società scientifiche Usa): sicurezza, efficacia, efficienza, equità centralità dei pazienti e delle loro famiglie, tempestività di intervento. «La bozza dovrebbe essere pronta entro fine mese aprile — dice Paolo Giliberti, presidente Sin —. Per adesso è un’iniziativa di tipo privatistico e vale solo come indicazione. Ci candidiamo tuttavia a verificare la presenza dei requisiti richiesti e speriamo che il ministero faccia proprio questo percorso». Il provvedimento del ministro Fazio ha ottenuto l’approvazione di massima delle società medico- scientifiche (ginecologi-ostetrici, neonatologi e pediatri), della Federazione sindacale dei medici dirigenti e di quella dei collegi delle ostetriche, come dell’Associazione di volontariato parto naturale tutte coinvolte nell’elaborazione del progetto. Approvazione di massima, si diceva, perché il presidente di Fesmed , Carmine Gigli, proprio questa settimana ha ribadito davanti alla Commissione igiene e sanità del Senato (una delle quattro che indagano sullo stato dei reparti maternità) la necessità di rivedere organici, carichi di lavoro e anche formazione universitaria dei medici ospedalieri. Per la Società italiana di pediatria, invece, la vera riforma avverrà quando seguirà anche la riqualificazione dei pediatri resi disponibili dalla chiusura dei punti nascita e il loro utilizzo nei settori in cui c’è maggior bisogno: da un lato nuove terapie intensive pediatriche attrezzate in grado di assistere i bambini con malattie acute gravi, come i politraumatizzati da incidenti stradali che sono oggi la principale causa di mortalità infantile, e dall’altro lato i grandi reparti pediatrici attrezzati in grado di far fronte alle malattie croniche complesse. Ma tutti i protagonisti del «nuovo corso» sanno che gli scogli più ostici da superare fin da subito saranno gli investimenti necessari e soprattutto la resistenza alla chiusura dei piccoli centri. I tamburi di guerra stanno già rullando. Lo testimoniano le prime interrogazioni parlamentari peraltro bipartizan. Ruggiero Corcella ________________________________________________________ Corriere della Sera 11 apr. ’11 IN ITALIA ANCORA TROPPI CESAREI, PER DISORGANIZZAZIONE O PER PAURA Nuovi dati lo confermano: il maggior numero degli interventi avviene nelle strutture private e al Sud È l’ennesima conferma che in Italia la «piaga» dei parti cesarei non accenna a sanarsi. Negli ospedali pubblici, il 35% delle nascite avviene con il taglio cesareo, mentre le case di cura private accreditate raggiungono quasi il 61%. A livello nazionale, la media si attesta al 38,4% con valori più alti nelle regioni del Centro Sud Italia. La «maglia nera» è di nuovo la Campania con oltre il 60% di cesarei. Ce lo racconta il Rapporto annuale sulle attività di ricovero ospedaliero del 2009, pubblicato sul sito del ministero della Salute, che si basa sull’analisi delle schede di dimissione ospedaliera. Lo testimonia la cronaca recente. Non più tardi di un mese fa, all’ospedale di Leonforte in provincia di Enna, una donna di 34 anni è morta dopo un cesareo e quattro medici sono stati indagati. Ma quali sono i motivi e gli ostacoli ancora disseminati sulla strada della «normalizzazione» delle nascite in Italia? Lo spiega bene il ministero della Salute, nelle Linee guida sul taglio cesareo pubblicate nel gennaio 2010 e messe a punto in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità, le principali società scientifiche di settore e per la prima volta un’associazione di genitori: «Accanto alle classiche indicazioni cliniche, materne e fetali, coesistono, con sempre maggior frequenza e con un ruolo importante, indicazioni non cliniche o meglio non mediche, alcune delle quali riconducibili a carenze strutturali, tecnologiche ed organizzativo-funzionali, quali organizzazione della sala parto, preparazione del personale, disponibilità dell’équipe ostetrica completa, del neonatologo e dell'anestesista 24 ore su 24, unitamente a convenienza del medico, medicina difensiva, incentivi finanziari». Analisi condivisa dalle Società scientifiche. «In molte occasioni, tuttavia, sono le partorienti stesse a richiedere il cesareo per paura», aggiunge Paolo Giliberti, presidente della Società italiana di neonatologia (Sin). Secondo l'Associazione parto naturale però la «colpa» non è delle donne. «Quando lo chiedono è perché non ci sono strutture che incentivino il parto naturale — dice Barbara Siliquini, presidente dell'associazione che ha anche attivato una web Tv per aiutare i genitori a orientarsi —. La questione è più generale. In Italia, la cultura dominante e quindi la formazione degli operatori ha reso il parto un evento non fisiologico ma patologico. Il cesareo tende a diventare dunque la "norma" e viene presentato come privo di dolore. Invece bisognerebbe almeno cominciare a dire che è un’operazione chirurgica addominale». Da qui nasce anche un problema di formazione della classe medica. «Tra le ginecologhe, il tasso di cesarei è altissimo e questo la dice tutta», aggiunge Siliquini. Anche Nicola Surico, presidente della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo) concorda sulla necessità di modificare la formazione dei medici, ma punta soprattutto su quella continua dei camici bianchi che lavorano nei piccoli centri: «Per questi colleghi dobbiamo prevedere un periodo di aggiornamento, magari con l’istituto del comando, negli ospedali dove si fanno più parti». . R. Cor. ________________________________________________________ Corriere della Sera 11 apr. ’11 TARIFFE: IL TAGLIO CHE FA SALIRE IL RIMBORSO Dietro l’alto numero di parti chirurgici ci sono anche questioni di interesse, legate ai Drg, cioè ai rimborsi riconosciuti ai punti nascita? Nella sanità federalista, il sistema dei rimborsi varia da regione a regione. Un parto normale vale dai 1.200 ai 2 mila euro, meno cioè di un’artroscopia e quanto un’appendicectomia. Un cesareo, in media, viene pagato almeno un terzo in più e cioè dai 1.600 ai circa 2.700 euro. Finora, poco è cambiato. In Lombardia, già dal 2005 le tariffe di rimborso dei parti naturali sono state parificate a quelle dei cesarei: 2.100 euro. In Sicilia, l’adeguamento è arrivato solo l’anno scorso sull’onda dei casi di cronaca livellando i due tipi di nascita ai 1.900 euro del parto naturale, contro i precedenti 2.400 del cesareo. Per molti, tuttavia, bisognerebbe sì equipararli, ma al rialzo. I Drg di ostetricia e ginecologia sono fra i più bassi della sanità e quindi, si sottolinea, le aziende sanitarie avrebbero poca convenienza ad investire in questo settore. ________________________________________________________ Corriere della Sera 11 apr. ’11 I CASI IN CUI SERVE IL BISTURI. A VOLTE IL TRAVAGLIO PUÒ «COMPLICARSI» Un fatto è assodato: meno tagli cesarei si fanno, meglio è. Esistono però situazioni in cui la nascita con l’intervento chirurgico non si può evitare. «Le indicazioni elettive principali — spiega Massimo Candiani, direttore della Clinica ostetrico-ginecologica al San Raffaele di Milano — possono essere pregressi interventi chirurgici sull’utero, che quindi abbiano lasciato cicatrici, come la miomectomia per l’asportazione dei fibromi uterini». Della stessa famiglia fanno parte anche i cesarei. Di per sé, non esistono controindicazioni assolute perché una mamma possa scegliere di seguire la strada della nascita fisiologica nel secondo parto. Occorre valutare i motivi del primo e anche l’evoluzione della seconda gravidanza. Altre indicazioni sono legate alla posizione del feto. Se si presenta con i piedi in avanti o è di traverso si tende a non farlo nascere per via vaginale. Sul podalico alcuni ospedali praticano il rivolgimento, cioè girano il bambino in posizione cefalica per farlo nascere. «Poi c’è la componente, importante, dell’aumento delle gravidanze gemellari o multiple, legate all’incremento delle fecondazioni artificiali», dice Giorgio Vittori, responsabile della Divisione di ginecologia all’Ospedale San Carlo di Nancy a Roma. Non si tratta di grandi numeri. Mentre, però, se si aspettano dai tre bambini in su è scontato il ricorso al cesareo, per il parto di due gemelli è possibile anche decidere diversamente. La scelta del cesareo può dipendere anche da determinate patologie della madre, come il diabete, oppure da condizioni che in qualche modo «provano» il feto durante la gravidanza sconsigliando lo stress ulteriore di un travaglio e di un parto normale. «Accanto a queste, ci sono le indicazioni acute nel corso del travaglio — aggiunge Candiani — . Si parte cioè con l’idea di un parto per via naturale, ma insorgono complicanze di sofferenza fetale in travaglio e quindi non c’è il tempo per arrivare alla fine del parto e si deve convertirlo in un cesareo». L’età della madre può influire sulla scelta del cesareo? Si direbbe di no, guardando, per esempio, al caso recente della rocker Gianna Nannini, che ha messo al mondo la sua Penelope a 54 anni. «Ma questi sono episodi del tutto eccezionali e non li prenderei in considerazione, anche per non dare false speranze alle donne non più fertili per età» sottolinea Candiani. Alla prova dei fatti, l’età ha il suo peso. Se si tratta, per esempio, di un primo figlio che arriva dopo mille peripezie e trattamenti per la sterilità, diventa molto difficile che una mamma attempata rinunci a un cesareo programmato per non correre rischi con il suo bambino tanto desiderato. Ovvio che tutte le richieste di cesareo volontario devono essere vagliate e discusse tra il medico e la donna, sottoposte a consenso e a volte esaminate anche sotto il profilo psicologico per evitare la corsa all’intervento chirurgico. «Anche il taglio cesareo di per sé ha la sua morbilità e le sue complicanze — tiene a rammentare Massimo Candiani —. Certo, non bisogna demonizzarlo, ma sicuramente ridiscuterlo e va reinfuso una certo tipo di coscienza nel medico e nei costumi sociali. Perché è comunque vero che nel nostro Paese il tasso dei cesarei è abbastanza elevato e devono essere apportati gli opportuni correttivi per livellare verso il basso questa incidenza». ________________________________________________________ Corriere della Sera 11 apr. ’11 L'EPIDURALE È OFFERTA A POCHE. DISPARITÀ DA REGIONE A REGIONE Le Linee di indirizzo sui punti nascita, ma anche il nuovo Piano sanitario 2011-2013 e, prima ancora, le Linee guida sui cesarei riconoscono all’analgesia durante il parto un ruolo importante. Perché, fin dal progetto dell’ex ministro Livia Turco di inserirli nei Lea (Livelli essenziali di assistenza) nel 2006, questo tipo di anestesia è stato visto anche come un elemento significativo per il contenimento dei cesarei. «Perché molte donne chiedono il cesareo per paura del dolore», spiega Ida Salvo, responsabile della Rianimazione al Buzzi di Milano e da ormai un decennio impegnata con la Società italiana di anestesia e rianimazione (Siaarti) a promuovere il diritto della donna a scegliere come partorire. L’epidurale è un’ottima risposta alla paura di soffrire. E tuttavia è poco utilizzata dalle donne italiane. La media nazionale ufficiale è ancora ferma al dato del 3,6% di un questionario Istat del 2001. Una stima più aggiornata adesso parla del 10%, mentre Regioni avanzate come la Lombardia sono riuscite a raggiungere la quota del 16,6% (dato 2010). Il confronto con altri Paesi europei è deprimente: in Francia e Inghilterra utilizza l’epidurale il 70% delle donne; in Spagna il 60% e in Germania il 30%. Negli Stati Uniti, la percentuale sfiora il 90%. Sono tanti i motivi che ostacolano la marcia dell’epidurale nel nostro Paese. Di sicuro la carenza di risorse e di organizzazione. Nel 2001, il Comitato Nazionale di Bioetica sosteneva che «il diritto della partoriente di scegliere un’anestesia efficace dovrebbe essere incluso tra quelli garantiti a titolo gratuito nei Livelli essenziali di assistenza». Così prevedeva il Decreto Turco del 2008, che però è poi decaduto. In mancanza di una copertura finanziaria a livello centrale, molte Regioni (Lombardia e Veneto, in primis) si sono arrangiate come hanno potuto. Ma la maggior parte si è mossa poco o in modo estemporaneo. Il risultato è la solita situazione a macchia di leopardo, con ospedali pubblici dove l’epidurale c’è ed è gratuita, altri dove invece si paga (dai 500 ai 2.000 euro). Secondo un’indagine conoscitiva dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri (Aaroi) del 2008, solo il 16% degli ospedali avrebbe un servizio di anestesia epidurale 24 ore su 24, mentre un altro 27% lo offre saltuariamente o comunque con grossi limiti: alcuni lo negano dopo le 20 o nei fine settimana ad esempio. ______________________________________________ Il Foglio 14 apr. ’11 LA VITA SI ALLUNGA: MERITO DELL’ITALIA CHE STA BENE Nei dieci anni tra il 1998 e il 2008 la speranza di IN vita o vita media degli italiani è cresciuta di 2,5 anni per quanto riguarda le femmine, superando gli 84 anni, e di ben 3,3 anni per quanto riguarda i maschi, sfiorando i 79 anni. Al compimento degli ottanta anni arrivano quasi sei maschi su dieci e tre femmine su quattro. Numeri formidabili, attestati dalle ultimissime tavole di mortalità dell'Istat. Destinati a crescere ancora, anche se a ritmi che non potranno rimanere così alti - e infatti si va profilando, negli ultimi anni, un rallentamento, del resto inevitabile, dell'aumento della speranza di vita che riguarda particolarmente le donne, arrivate a soglie che hanno già dell'incredibile solo che si pensi che di centomila italiane ben tremila arriveranno al compimento dei cent'anni. A certi numeri non si arriva per caso, o in virtù di un destino particolarmente benevolo. Qui è il punto. Che non c'è modo di sfuggire alla tirannia della speranza di vita o vita media, nel senso che se le condizioni dell'esistenza peggiorano sensibilmente, se le prospettive si fanno fosche, se declinano stili e tenori di vita, allora è inevitabile ritrovare nell'abbassamento della speranza di vita il segno, pressoché immediato, di tutto questo. Non c'è chi non ricordi l'Unione sovietica, il suo tonfo, il caos che ne seguì in termini tanto politici che economico-sociali e perfino culturali. Bene, la vita media registrò un brusco balzo all'indietro, allontanandosi sensibilmente dai livelli europei. Ci sono voluti anni perché cominciasse il recupero. Se negli ultimi dieci anni l'Italia è riuscita a guadagnarne quasi 2,9 - un aumento enorme - la conclusione è inequivocabile: comunque la si metta il nostro paese tra il 1998 e il 2008 non è andato a far naufragio contro alcuno scoglio, non ha attraversato alcuna fase di impoverimento, il suo spirito pubblico e d'intrapresa non è tracollato. E se sembra che sia così allora vuol dire che gli indicatori "minori" (pure quelli economici sono tali) non funzionano e nascondono più di quanto non mostrino. All'interno del dato generale si deve però annotare un doppio segnale di attenzione. Il primo è in verità atteso già da qualche anno, vale a dire il rallentamento della crescita della vita media, se non proprio il suo ristagno-tanto più plausibile, e in certo qual senso giustificato, quanto più cospicui sono stati i traguardi raggiunti. Nel corso del 2008 la vita media è cresciuta di poco più di un mese, ovvero a una velocità di neppure la metà del periodo e questo, ed eccoci al secondo elemento di attenzione perché la vita media delle donne è aumentata di pochissimo, appena un terzo di mese. In effetti il divario femmine maschi quanto a speranza di vita si è ridotto in Italia di quasi un anno, passando dagli oltre sei del 1998 a poco più dei cinque attuali. E' un avvicinamento destinato con ogni probabilità a proseguire, in quanto figlio dell'altro, quello di stili e ritmi di vita socio-relazionali tra maschi e femmine. Il secondo spunto di riflessione ci porta nei paraggi del genoma. Per restare alle donne italiane: su cento, circa quattro non arrivano ai sessant'anni, mentre tre su cento tagliano il filo di lana dei cento. Ciò vuol dire che si registra un "addensamento" assai pronunciato della speranza di vita delle donne italiane attorno a età assai alte e che risulterebbero ancora più alte se si escludessero le cause di morte non collegate all'eredità genetica, come quelle non dovute a malattie. Non mi sembra di vedere in giro molte riflessioni attorno a un elemento così significativo che illustra, dati alla mano, quanto la vita sia, almeno quando può esplicarsi ed esprimersi al di là dei bisogni più essenziali, ovvero una volta che la loro soddisfazione sia assicurata a tutti o quasi, straordinariamente poco selettiva. Non è questione di considerare semplicemente l'alta vita media delle donne italiane (84 anni), la questione ancora più importante è che la variabilità attorno a essa è minima, se si pensa che ancora a settant'anni di cento donne italiane 93- 94 (escludendo dal computo quelle morte di una causa violenta) sono ancora in vita. Ciò sta a significare che, grazie alle più favorevoli condizioni generali di esistenza, che consentono una maggiore, e per così dire più distesa, esplicazione delle potenzialità individuali del dna, proprio le potenzialità collegate alla durata della vita risultano molto "equidistribuite" nella grande platea della popolazione femminile italiana. A tal punto equi- distribuite, anzi, che la tanto decantata "costellazione dei geni che predispongono all'invecchiamento" che si va scoprendo proprio adesso appare ben diversa da come molti genetisti lasciano intendere che sia, ovvero una rarità che bacia pochi quanto fortunati individui. Quella costellazione di geni favorevoli è pane pressoché corrente, altro che rarità, viene da pensare leggendo le tavole di morte delle donne italiane. L'eredità genetica è generosa, dunque, distribuisce di buon grado le sue migliori caratteristiche. Non separa, ma unisce. E lo fa del tutto spontaneamente, solo che la si lasci lavorare in pace. Roberto Volpi ______________________________________________ Panorama 21 apr. ’11 RITOCCO, TUTTO SI FA PER TE Viaggi in cliniche low cost e botox party dove si mangia, si chiacchiera e si fanno le punturine. Sono le ultime manie dei fan della tossina. Anche se qualcuno inizia a pentirsi. E a dirlo. DI TERRY MAROCCO E ANTONELLA PIPERNO Una volta per i miracoli si andava a Lourdes, in treno. Oggi sembra che basti un pellegrinaggio a Gemona, in Friuli-Venezia Giulia, dove in comoda navetta dalla stazione ti prelevano per portarti alla clinica low cost Karmadent, paradiso del restyling. Il loro slogan è: «Perché fermarsi al sorriso quando si può migliorare anche la sua cornice?». E dopo avere curato i denti a basso costo, la cornice, cioè il viso, si spiana con iniezioni di botox a prezzo scontato. Solo 100 euro «ad area». Ecco il botox democratico, per tutti e per ogni età, anche la più tenera. Una premurosa madre inglese, l'estetista Kerry Campbell, pochi giorni fa lo ha iniettato alla figlia di 8 anni. La bambina è appassionata di ballo e canto, mammina voleva spianarle in anticipo le rughe e la strada verso il successo. Siamo già oltre la mamma di Anthony Perkins di Psyco. Le follie da botulino si moltiplicano, ormai lo utilizzano anche i dentisti per aumentare il volume delle gengive e per le rughe periorali. Negli Stati Uniti è autorizzato solo per alleviare i dolori temporo- mandibolari, ma ai congressi dei dentisti spuntano come funghi sezioni di medicina estetica. In Italia la lotta alle rughe si combatte nelle case che contano, dove i botox party sono diventati un ricercato intrattenimento. Racconta un'anonima habitué: «La cosa più divertente è vedere arrivare tutti quei mariti stanchi, che incontri alle partite di burraco e non immagineresti mai a farsi spianare le rughe». Testimone oculare Giulio Basoccu, chirurgo plastico romano: «Mi sono trovato a una festa in un'importante casa romana, la nostra ospite voleva fare "un cadeau", mi spiegò, alle sue amiche». Invece di un libro, un po' di botulino. «C'era un chirurgo per le invitate che, tra fragole e champagne, erano estasiate di farsi pungere il viso. Terribile». Del resto lo diceva già Oscar Wilde: «Il primo dovere nella vita è quello di essere il più artificiali possibile». Ogni pretesto per farsi iniettare il liquido miracoloso è buono: vale perfino la scusa che lo smartphone invecchierebbe il viso. Sì, perché concentrarsi troppo sul piccolo schermo porterebbe ad aggrottare pericolosamente le sopracciglia. E allora via con il nuovo business, iniezioncine per addicted tecnologiche, sempre più giovani. «Sono le nuove generazioni ad avere una forte ideologia del sé, a rifarsi con l'idea di gestire liberamente il proprio corpo» osserva la sociologa Rossella Ghigi, che ha pubblicato Per piacere. Storia culturale della chirurgia estetica (Il Mulino). Perfino la diciottenne Charice Pempengo, interprete della serie tv cult Glee, ha ceduto alle smanie estetiche della produzione e si è botulinizzata. Era già pronta la siringa anche per la venticinquenne Amanda Seyfried, protagonista di Mamma mia!, ma lei si è opposta, giustificando comunque la richiesta: «La qualità delle camere digitali è così alta da non perdonare nessuna imperfezione». Ma sotto la lente non c'è solo il viso. L'ultima leggenda sul botox è che possa aiutare ad avere un fondoschiena marmoreo. È categorico il chirurgo plastico Fiorella Donati: «Roba da pazzi. Ci vorrebbero 10 mila euro di fialette e l'effetto sarebbe opposto: il gluteo non si contrae più e il sedere si affloscia». Meglio tenersi il lato b naturale e guardare Plastilt, nuovo docureality sulla chirurgia plastica in onda dal 19 aprile su Italia 1 in prima serata, con la levigatissima Elena Santarellí. O aspettare a luglio su Fox life Pretty hurts, reality sui retroscena della clinica del botulino dove si esibisce Rand Rusher, re del botox di Hollywood. La presentazione al Mip tv di Cannes fa ben sperare: ai visitatori caffè, brioche e punturine di prova in una discreta suite vicino al Palais di Cannes. Ci si può anche sintonizzare su Faceintv, la prima web tv sulla bellezza del viso. Interviste a specialisti di chirurgia plastica, trucco, psicologia e medici estetici. Una «library» dice l'ideatore Roly Kornblit, dentista, «di tutto ciò che si può fare per migliorare il volto». C'è però chi di tanta perfezione comincia a pentirsi. Come il leader dei Duran Duran, Simon Le Bon, uno dei miti degli anni Ottanta. Ha innestato la retromarcia anche Nicole Kidman: con il volto di porcellana ormai immobilizzato, ha detto di avere usato il botox perché la vita sana non bastava a spianarle le rughe. Atto di contrizione e proposito di una vita senza iniezioni. Si pentono pure i comuni mortali: Tiziana D., estetista romana, 42 anni, a dicembre ha fatto la sua prima iniezione di botulino tra le sopracciglia: «Tutto bene, pelle liscia fino a gennaio, quando la dottoressa ha voluto farmi un ritocchino. Da quel momento sono iniziati i guai seri, dai quali sto uscendo solo ora». Tiziana ha sofferto dí diplopia (visione sdoppiata), rush cutaneo e addormentamento a gambe e braccio destro: «La chirurga giurava che non era colpa del botox. Ma io non le credo affatto ________________________________________________________ Sanità News 13 apr. ’11 LA DIFFICOLTA' DI DIAGNOSI DEI DISTURBI BIPOLARI Il disturbo bipolare, che colpisce oltre 1 milione di persone in Italia, consiste nell'oscillazione del tono dell'umore tra una polarità depressiva ed una maniacale ed è un disturbo molto difficile da diagnosticare; raramente, infatti, viene presa in considerazione la possibilità che un paziente che presenta sintomi di depressione possa in realtà essere affetto da disturbo bipolare. Si stima che un paziente con disturbo bipolare su due conviva con un altro disturbo psichiatrico: la sovrapposizione con i disturbi d’ansia e da uso di sostanze – la cosiddetta comorbidità – aumenta la cronicità di questa malattia, determinando spesso una prognosi peggiore in termini di durata dei sintomi e delle possibilità di remissione. Ne hanno discusso a Roma gli esperti di tutto il mondo, riuniti nella capitale per l’undicesimo International Review of Bipolar Disorders. Una delle principali problematiche del disturbo bipolare è la difficile diagnosi in quanto la fase depressiva, che caratterizza questo disturbo e che ha un impatto molto negativo sulla qualità di vita del paziente, può essere confuso con la depressione (disturbo depressivo di tipo unipolare). La depressione bipolare, invece, è molto più comune di quanto si pensasse in passato. Spesso accade che nelle forme bipolari II, con episodi depressivi importanti alternati a fasi ipomaniacali attenuate, vengano sottovalutate quest’ultime perché confuse con periodi di normale iperattività, agitazione e impulsività. Il paziente non viene quindi riconosciuto come bipolare e viene trattato solo con antidepressivi, inducendo talora una maggiore instabilità. In questi casi l’impiego di altri farmaci, come gli stabilizzatori dell’umore e gli antipsicotici atipici, invece, è molto più efficace. (Sn)