RASSEGNA STAMPA 08/05/2011 UNIVERSITÀ: DIECI MILIONI PER RICONOSCERE IL MERITO COSÌ LA GELMINI HA INDEBOLITO L'UNIVERSITÀ STEFANO FANTONI PRESIDENTE ANVUR, PARTE VALUTAZIONE DEGLI ATENEI NO DAI RICERCATORI AL BLOCCO SALARI MASTINO: NO ALL’ATENEO UNICO CAGLIARI: 3 ANNI DALLA LAUREA IL 90% HA UN’OCCUPAZIONE MONSERRATO: CONCORSO PER LA CITTÀ DELLA SCIENZA SE GLI STUDENTI NON LEGGONO C'È "L'UNIVERSITÀ SEN ZA LIBRI" L'ESERCITO TORNA NELLE UNIVERSITÀ USA SARÀ UN'ODISSEA TRA IL MACRO E IL MICRO FISICA, COSÌ L'ITALIA PERDE I TESORI DI FERMI E MAJORANA DIGITALIZZIAMO I DOCUMENTI O IL PATRIMONIO NON AVRÀ EREDI NESSUN MULTITASKING: IL PC BATTE LATIVÙ ORCHIDEA MINACCIATA OGGI CONVEGNO A SEDILO PIANTE ALIENE A TAVOLA ========================================================= DADDEA: SANITÀ IN CRISI, COLPA DELLA GIUNTA CAPPELLACCI LIORI: IL VERO FALLIMENTO È STATO QUELLO DELLA DIRINDIN MANICHEDDA: LA SARDEGNA È SULL’ORLO DEL BARATRO ASLNU, IL «CASO PROJECT» ARRIVA IN REGIONE AUTO BLU: ASL DI OLBIA 129 LA MOLECOLA CHE FRENA IL TUMORE OVARICO FREUD E I BAMBINI DEL DESIDERIO RIABILITAZIONE E TERAPIA DEL DOLORE PERCHÉ NON USARE (MEGLIO) LE TERME? TUTTO DA RIFARE CONTRO L’ALCOLISMO DIVISE FISIOTERAPIA E SCIENZE MOTORIE FEMMINISTE DI SINISTRA SEDOTTE DALLO SCIENTISMO IL MERCATO (IMPOSSIBILE) DEGLI ORGANI INFEZIONI OSPEDALIERE: IGIENE ANCORA TROPPO SCARSA COSÌ LA MEDICINA STA DIVENTANDO «2.0» ECCO DOVE SI CONFRONTANO GLI SPECIALISTI VOTO A OSPEDALI E FARMACI CURE IN EUROPA: TROPPI I RITARDI UN GENE LEGATO AL TRASPORTO DELLA SEROTONINA PREMESSA PER FELICITA' N GRAVIDANZA E' IMPORTANTE LO SCREENING DELLA TIROIDE EMERGENZA-URGENZA: RIDURRE I CODICI BIANCHI E ADEGUARE GLI ORGANICI PER MANTENERE GIOVANE IL CERVELLO OCCORRE DORMIRE TRA LE 6 E LE 8 ORE UNA SOSTANZA NATURALE PER COMBATTERE IL DANNO DA RADIAZIONE COME TRASFORMARE IL GRASSO "CATTIVO" IN "BUONO" L'AUTISMO E GLI ORMONI DELLA SOCIALITÀ ========================================================= ______________________________________________________ Il Sole24Ore 6 mag. ’11 UNIVERSITÀ: DIECI MILIONI PER RICONOSCERE IL MERITO Università. Nasce la Fondazione partecipata da Istruzione ed Economia ROMA Una fiche da io milioni in due anni È quella che il Governo ha deciso di puntare sul merito conil decreto sviluppo approvato dal Consiglio dei ministri di ieri. Introducendo una Fondazione, partecipata dai ministeri dell'Istruzione e dell'Economia, che gestisca l'omonimo fondo introdotto conia riforma Gelmini dell'università. Lo schema è quello anticipato sul Sole 24 Ore di ieri: il nuovo organismo potrà stringere accordi con analoghe realtà di altri Paesi e sarà aperto ai contributi di altri enti pubblici e privati. Affinché diventi operativa bisognerà però attendere un decreto interministeriale a firma di Mef e Miur. Lo stesso atto dovrà poi stabilire il contributo da chiedere agli studenti per accedere alle prove di ammissione al fondo e nominare il presidente. Per partire la Fondazione potrà contare su 9 milioni assegnati al fondo e uno per il proprio funzionamento (rifinanziato anno per anno). A cui si aggiungeranno le risorse messe sul piatto dagli eventuali membri successivi. Tra i suoi compiti spiccano quelli di fissare l'importo dei premi e dei buoni studio da riconoscere agli studenti meritevoli, di gtabilire in che quota questi aiuti andranno restituiti e di decidere concretamente come ripartire il fondo previsto dalla legge 240/2010. Sempre in tema di atenei va segnalato che il Cdm di ieri ha dato il via libera preliminare a due regolamenti attuativi della stessa riforma Gelmini che legano gli stipendi dei docenti ai risultati della valutazione. Il primo Dpr riguarda ordinari, associati e ricercatori assunti prima della riforma e stabilisce che la progressione economica da biennale diventerà triennale e sarà valutata su base meritocratica; il secondo si riferisce a chi è entrato in servizio dopo il varo della legge, rivede il loro stipendio d'ingresso ed elimina il periodo di straordinariato. «L'anzianità di servizio non poteva restare il criterio determinante per l'avanzamento di carriera», ha commentato il ministro Mariastella Gelmini. ______________________________________________________ Il Riformista 4 mag. ’11 COSÌ LA GELMINI HA INDEBOLITO L'UNIVERSITÀ DI ALESSANDRO FIGA TALAMANCA La "riforma Gelmini" del- l'università ha acquistato una valenza politica che va ben oltre i suoi modesti contenuti. È vantata dal centro destra come prova della capacità di riforma del governo, della maggioranza e della minoranza di destra, mentre, a sinistra, è stata oggetto di proteste e critiche che sembravano ignorarne i contenuti specifici. A oltre due mesi dalla entrata in vigore della "riforma", è forse il momento di esaminarne le conseguenze immediate, visto che gli effetti sul lungo periodo, sembrano incerti. Osserviamo prima di tutto che la nuova legge, come quasi tutti gli interventi legislativi sull'università degli ultimi quarant' anni, riguarda quasi solo il personale docente e non affronta i problemi del sistema universitario nei suoi rapporti con gli studenti e la società. È ignorato, in particolare, il problema degli abbandoni (in parte fisiologici) ed il più grave problema dei ritardi negli studi universitari. Non è una sorpresa. Negli anni settanta e ottanta erano i sindacati a promuovere "riforme" che, ovviamente, riguardavano le "categorie" da essi rappresentate. Oggi la "riforma" è stata promossa da alcuni professori-opinionisti, e ne riflette una visione del tutto autoreferenziale. Ma, infine, quali sono o saranno gli effetti immediati della legge sul sistema universitario? E presto detto: la legge obbligherà per qualche anno le università a spendere male i fondi loro assegnati ed il Ministero a distribuire male, tra le diverse sedi, il fondo di finanziamento. Vediamo perché. Prima dell'entrata in vigore della legge il personale docente universitario era inquadrato in tre categorie o "fasce": professori ordinari, professori associati e ricercatori di ruolo. La prima posizione permanente era quella di ricercatore, una figura nata più di trenta anni fa per sistemare i "precari" di allora, che si era però evoluta, anche per interventi legislativi, in un ruolo di docenti a tutti gli effetti. La legge Gelmini ha soppresso il ruolo dei ricercatori: non si possono più bandire concorsi per questo ruolo. La prima posizione permanente di docente sarà quella di professore associato. Ma gli attuali 25.000 ricercatori di ruolo in servizio non possono essere soppressi. Per essi, giustamente, la legge prevede una procedura, assolutamente non automatica, per la promozione a professore associato. Dovranno prima di tutto conseguire una "abilitazione al ruolo degli associati" che sarà conferita da una commissione nazionale, sulla base di un giudizio sulla produzione scientifica dei candidati. Successivamente dovranno essere "chiamati" dall'università. Tutto a posto quindi? Forse, ma solo sulla carta. Dobbiamo chiederci quanti ricercatori di ruolo conseguiranno l'abilitazione a professore associato. La mia stima è che il loro numero si collocherà tra15.000 e 20.000 e la loro promozione impegnerà tutti i fondi disponibili al sistema universitario. Gli abilitati saranno tanti, perché la grande maggioranza dei ricercatori ha raggiunto e superato le qualificazioni scientifiche vantate dagli attuali professori associati. A che titolo si potrà sostenere che queste qualificazioni sono insufficienti? Del resto, le commissioni non hanno nessun incentivo ad essere severe. Se mai è vero il contrario: i settori e le aree che concederanno più abilitazioni avranno un numero maggiore di professori, e si rafforzeranno quindi all'interno delle sedi. Né sarà possibile per le università porre un argine alla promozione ad associato degli "abilitati". Formalmente le università possono decidere come spendere i fondi a loro disposizione. Potrebbero ignorare le richieste di promozione dei loro ricercatori di ruolo "abilitati", e destinare i fondi al reclutamento dei giovani, nei modi previsti dalla nuova legge. O potrebbero invece spendere tutto per la promozione di "abilitati". Si tratta però di una scelta obbligata: i ricercatori di ruolo "abilitati" sono già presenti nell'università e bene in grado di esercitare pressioni anche come elettori del rettore e dei direttori di dipartimento. Essi avranno anche acquisito meriti accettando compiti didattici cui non erano ufficialmente tenuti. Non sarà possibile rifiutare la promozione a chi già svolge i compiti di un professore associato ed è stato dichiarato "abilitato" da una commissione nazionale. Molto più debole sarà la posizione del giovane che non è ancora nei ruoli ed aspira ad una posizione che gli consenta di entrarvi. Anche a livello nazionale ci saranno forti pressioni sul Ministero perché la ripartizione tra le sedi del fondo di finanziamento tenga conto del numero dei ricercatori "abilitati" presenti in ciascuna sede. Nel caso poi che i fondi disponibili per il sistema universitario non siano sufficienti per tutte le promozioni, è probabile che il problema sia risolto prolungando la validità temporale delle abilitazioni. Il blocco ai nuovi ingressi si protrarrebbe quindi per un numero maggiore di anni. Oltre a bloccare i nuovi ingressi si perderà anche l'occasione di ridistribuire sulla base delle esigenze didattiche, i fondi provenienti dal massiccio pensionamento in atto. I fondi andranno alle sedi, e ai settori, che vanteranno il maggior numero di ricercatori in attesa di promozione. Uno strano risultato per una legge che, fin dal titolo, si propone di "incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario". ______________________________________________________ Il Sole24Ore 7 mag. ’11 STEFANO FANTONI PRESIDENTE ANVUR, PARTE COSÌ LA VALUTAZIONE DEGLI ATENEI Il fisico nucleare Stefano Fantoni è stato eletto presidente dell'Anvur, l'Agenzia per la valutazione di università e ricerca, che quindi può formalmente decollare. Nominato ieri all'unanimità dal consiglio direttivo, Fantoni resterà in carica quattro anni e avrà il compito di promuovere la cultura della valutazione negli atenei italiani «Non saremo un tribunale per le università», ha subito precisato l'ex direttore della Scuola superiore di studi avanzati di Trieste (Sissa). Ma la valutazione -ha aggiunto - assurgerà a «paradigma fondamentale», anche perché «avrà una valenza ai fini della distribuzione dei finanziamenti agli atenei». Un impegno non agevole, vista la situazione "a macchia di leopardo" degli atenei italiani. Nel mirino dell'Anvur ci sarà anche la ricerca, secondo il principio del «chi merita va avanti», ha chiarito Fantoni. Un esempio concreto? «Se le università reclutano docenti non all'altezza, avranno meno fondi. E credo che già questo servirà a favorire le persone più competenti». ______________________________________________________ Repubblica 4 mag. ’11 NO DAI RICERCATORI AL BLOCCO SALARI I RICERCATORI della Statale pronti a ricorrere al Tar contro il congelamento delle retribuzioni. Un'azione decisa dal movimento dei ricercatori "rete 29 aprile" contro il blocco degli scatti deciso da Tremonti nel 2010 a cui hanno già aderito in cinquanta. Un blocco che, a detta dei promotori dell'azione legale, va a colpire in particolare gli strutturati con le retribuzioni più basse. «È la rivendicazione di un sacrosanto diritto a difendere gli stipendi dei colleghi più giovani — ha detto Piero Graglia, rappresentante dei ricercatori in Senato Accademico alla Statale— quello deciso dal governo, inoltre, è un provvedimento che va a incidere negativamente sulla qualità ricerca». ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 mag. ’11 MASTINO: NO ALL’ATENEO UNICO Le università italiane stanno dando applicazione da qualche mese alla «Grande riforma» voluta dal ministro Maria Stella Gelmini. Contro la riforma imposta dal governo servono sinergie tra i due atenei sardi Il progetto del ministro punta ad una forzosa integrazione tra università solo per ridurre i costi Un progetto, quello che il governo vuole attuare, imposto nonostante le accese contestazioni e le proteste contro una legge considerata punitiva verso il mondo universitario: l’approvazione dei nuovi statuti è prevista entro il mese di luglio e le commissioni statutarie stanno ormai ultimando il loro lavoro. Rimangono molti punti interrogativi sulle funzioni degli organi di governo e sulle modalità di costituzione dei dipartimenti. Tra gli aspetti che appassionano di più gli addetti ai lavori c’è questa sorta di spaventosa «transumanza» dei docenti e del personale dalle Facoltà ai Dipartimenti di nuova istituzione, ai quali verrà affidata ogni competenza in materia di ricerca, di formazione, di trasferimento e di assistenza. C’è però un aspetto che rischia di passare sotto silenzio: l’articolo 3 della legge 240, nel quadro degli interventi per contenere la spesa pubblica, introduce incentivi per la federazione e la fusione degli atenei, con l’intento di razionalizzare la distribuzione delle sedi universitarie. Abbiamo già avuto numerose avvisaglie di questi orientamenti con il blocco di nuove iniziative formative nelle sedi gemmate deciso con decreto dal ministro: Nuoro, Oristano, Olbia, non potranno progettare nuovi corsi di laurea. E poi con le decisioni adottate sulla formazione degli insegnanti, che sarà organizzata su base regionale: sarà attivato un solo corso di laurea presso l’ateneo con maggior numero di studenti. Il numero delle scuole di specializzazione mediche viene ridotto con un’unica sede in Sardegna. Una dimensione regionale sarà a breve adottata anche per i test d’ingresso ai corsi di laurea a numero programmato, per Odontoiatria e Medicina, con gravi scompensi e disagi, legati alla rilevante differenza di potenza demografica che comporterà un ripiegamento su Cagliari, che pure è collocata in posizione decentrata rispetto al resto di una Sardegna che si desertifica al suo interno. L’orientamento del ministro è chiarissimo e la fusione tra atenei di una stessa regione è fortemente raccomandata. A Sassari il Senato accademico ha chiesto al Rettore di manifestare pubblicamente la netta contrarietà a questo disegno governativo, che d’altra parte contrasta con le politiche ben più aperte e generose della Regione Sardegna: come è noto l’Università di Sassari celebrerà tra qualche mese un anniversario, quello dei 450 anni dalla nascita del collegio gesuitico; ma anche l’Università di Cagliari ha una storia che affonda nell’età spagnola. La regionalizzazione del sistema universitario e la concentrazione in un’unica sede sarà forse possibile in realtà differenti: Sassari dista da Cagliari duecentoventi chilometri, mentre tutte le altre Università italiane si trovano a breve distanza tra loro. Senza parlare dell’insularità e dei collegamenti da terzo mondo, con costi significativi dei trasporti a carico degli studenti. Paradossalmente da Alghero è più semplice raggiungere Barcellona piuttosto che Cagliari. Non c’è nessuna ragione scientifica o territoriale per un ripiegamento su Cagliari; sarebbe sciocco non contrastare il volano che tende a distorcere l’allocazione di investimenti, risorse, popolazione. Conosco troppo bene le posizioni del Rettore dell’Università di Cagliari, l’amico Giovanni Melis: ci lega un rapporto di amicizia, una piena sintonia di obiettivi e di progetti. Dunque il progetto di fusione dei due atenei non è all’ordine del giorno, ma semmai occorre lavorare di più per la nascita di un sistema universitario regionale, articolato in due università distinte, proiettate ciascuna per suo conto in una dimensione internazionale. Attraverso un accordo di federazione, i due Senati accademici dovranno discutere la programmazione strategica e l’offerta formativa definendo sinergie, evitando duplicazioni, premiando le eccellenze, mantenendo un equilibrio che razionalizzi i corsi di laurea. Se non intervenissimo con decisione, il declino del sistema universitario della Sardegna avrebbe riflessi sulle future generazioni: il nostro compito è colmare le lacune nella conoscenza, aumentare il numero dei laureati, offrire ai giovani sardi un ambiente formativo aperto e internazionale. Occorre declinare il processo di internazionalizzazione partendo dalla Sardegna, favorendo la nascita di un ambiente cosmopolita, aperto, ricco di stimoli, con una molteplicità di punti di vista. Non è sufficiente limitarci a sostenere la mobilità studentesca: occorre adottare altre misure, come far nascere corsi di laurea internazionali, garantire un livello di conoscenza delle lingue straniere di eccellenza, impartire un numero adeguato di lezioni in lingua straniera, promuovere soggiorni lunghi all’estero attraverso i dottorati, garantire una conoscenza tecnologica e informatica diffusa. Occorre dare agli studenti punti di vista nuovi, orizzonti più larghi, mentalità più aperte. L’ambiente di apprendimento deve coinvolgere di più anche la città che ci ospita, con spazi di qualità dove lo studente incontri i sui abitanti, restituendo alla città un potenziale formativo. Anche Sassari deve crescere più velocemente e sentire la responsabilità di ospitare una prestigiosa università, estendendo le sue offerte culturali, con una elevazione della qualità della vita e degli incontri sociali. * RETTORE UNIVERSITÀ DI SASSARI ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 mag. ’11 CAGLIARI: 3 ANNI DALLA LAUREA IL 90% HA UN’OCCUPAZIONE Il 25 maggio convegno organizzato dall’università sul rapporto tra livello degli studi e occupazione CAGLIARI. Il 25 maggio prossimo in luogo ancora da decidere l’università organizza un convegno che sviluppa i dati proposti agli studenti delle scuole superiori sarde durante la Settimana dell’orientamento, celebrata a Monserrato con un migliaio di studenti venuti da tutta l’isola per capire cosa offre l’ateneo e quali sbocchi occupazionali ci si può attendere. Nella conferenza di presentazione il rettore mise l’accento sul peso che i corsi universitari conclusi in tempi giusti e con un buon impegno nella qualità dello studio possono avere nella ricerca di un lavoro e anche nella lotta sociale alla disoccupazione. Il convegno del 25 maggio entrerà nei dettagli dei vari argomenti appena accennati dal rettore nella conferenza di presentazione della Settimana dell’orientamento e si propone di offrire agli studenti sardi uno sunto veritiero delle possibilità che l’università apre a chi si iscrive e arriva alla laurea. Non è una novità che la laurea metta in moto un ascensore sociale che altrimenti è molto più faticoso azionare. Negli Stati Uniti fondazioni, istituti privati, imprenditori, il governo investono milioni di dollari in borse di studio per trovare cervelli, farli studiare e mettere in circolazione il mix di talento e preparazione di cui nessuna società può dire di non avere bisogno. Il rettore Melis ha dimostrato dati alla mano che anche nella piccola Italia e nell’ancor più piccola Sardegna gli studi universitari e la laurea riescono a essere un piedistallo di partenza più alto per conquistare un lavoro soddisfacente e una retribuzione adeguata. Iscriversi all’università di Cagliari non è una scelta residuale: è fra le 54 università italiane che partecipano alla ripartizione della quota premiale del ministero per la qualità della didattica e della ricerca. Cagliari è al ventunesimo posto di questa graduatoria. A tre anni dalla laurea il 90 per cento dei giovani ha trovato un lavoro. A due anni l’86 per cento. I laureati del 2009 a un anno dalla laurea hanno trovato lavoro tutti quelli usciti da Medicina, l’83 per cento da Giurisprudenza, il 72 per cento da Ingegneria. A tre anni dalla laurea sono al 92 per cento da Farmacia, al 93 per cento da Ingegneria, all’85 per cento da Scienze della formazione. Nel complesso i laureati del 2007 usciti dall’ateneo cagliaritano a tre anni dalla laurea avevano trovato lavoro al 90 per cento. Un dato: la maggior parte ha trovato occupazione in Sardegna. ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 mag. ’11 MONSERRATO: CONCORSO PER LA CITTÀ DELLA SCIENZA L’ATENEO CERCA IDEE PER LE FACOLTÀ SCIENTIFICHE NEL COMPLESSO DI MONSERRATO CAGLIARI. L’università cerca idee per progettare una cittadella della scienza dove sia agevole studiare, far lezione, ricercare senza che questa diventi un’astronave ma sia, al contrario, un insieme di edifici che si armonizzano con i blocchi della facoltà di Medicina. In una decina di giorni gli uffici dell’ateneo avranno pronto il bando del concorso di idee indirizzato ad architetti e ingegneri per far crescere il complesso di Monserrato dedicato a Scienze e Farmacia. Il rettore Giovanni Melis crede in questa operazione pensata per agevolare gli studenti e i professori, favorire la didattica e gli scambi culturali, tenere assieme insegnamenti diversi legati da necessità comuni. Dovrà essere un luogo confortevole, razionale, di facile accesso. Nel nome della scienza, il bando chiederà che i progettisti si cimentino su un centro per i servizi comuni necessari alla ricerca scientifica, anche questo alla fine luogo di incontro di cervelli, personalità, menti curiose e discepoli che cercano un loro futuro. I soldi per la progettazione ci sono: «Un finanziamento regionale - sottolinea il rettore che ricorda sempre il sostegno della Regione per lo sviluppo dell’università - e anche fondi d’ateneo. Si tratta infatti di un’opera di grande importanza per tutto l’ateneo». Altra cosa è il blocco Q, l’ultimo immobile ancora da costruire dell’insieme di edifici che formano la facoltà di Medicina. E’ stato finanziato per intero, dopo anni di attesa: la didattica e anche parte dell’assistenza resa dalla facoltà di Medicina sono tutt’ora faticosamente divise in due, una a Monserrato e l’altra nel vecchio San Giovanni di Dio e alla clinica Macciotta. Un terzo dei progetti di sviluppo della facoltà sono bloccati dall’edilizia universitaria lasciata a metà. Il San Giovanni sgomberato dalle cliniche universitarie forse sarà oggetto di un accordo col Comune perché accolga alcuni musei che in città non possono nascere causa carenza di location prestigiose, suggestive, storiche quanto basta. La clinica Macciotta se sarà svuotata anche questa potrebbe seguire la sorte del San Giovanni oppure diventare un opportuno prolungamento dell’ex clinica Aresu, ora sede del centro di ricerca Crenos e dell’intera facoltà di Lingue. E’ qui che in ateneo si parla di allestire la foresteria per gli studenti e i professori stranieri, una struttura indispensabile se l’università vuol continuare a marciare sulla strada dell’internazionalizzazione, indicata come unica via d’uscita per far crescere ricerca e didattica. E’ l’unico neo riscontrato da docenti e studenti stranieri: Cagliari offre poca ospitalità a chi viene per studiare e per fare ricerca, il mercato dei fitti non fa distinzione nel pretendere mensili elevati e troppo spesso in nero, non esistono case dello studente nei pressi delle facoltà universitarie. La foresteria nell’ex clinica Aresu non deve essere costruita dal nulla, dopo un’opportuna ristrutturazione si può utilizzare l’edificio davanti alla clinica dove c’era l’auditorium e l’aula delle lauree. Ultimo capitolo: gli alloggi per gli studenti fuorisede, ma questa è un’istanza per il prossimo sindaco di Cagliari. ______________________________________________________ Repubblica 3 mag. ’11 SE GLI STUDENTI NON LEGGONO C'È "L'UNIVERSITÀ SENZA LIBRI" Un concorso tra i ragazzi è la provocazione degli editori del settore e dell'Aie, per garantire la qualità digitale MICHELE SMARGIASSI come una mensa senza pane? O come una mongolfiera senza zavorra? È difficile prevedere cosa gli studenti scriveranno dopo quei tre puntini di sospensione. "L'università senza libri è come...". C'è un piccolo trucco nel concorso che sarà lanciato il prossimo 23 maggio in occasione della Festa del libro 2011, con una certa spericolatezza autolesionista, dall'Associazione italiana editori, assieme a 84 atenei e alla Conferenza dei rettori: i dieci slogan migliori vinceranno un montepremi di diecimila euro, guarda un po', proprio in libri, e dunque si suppone che chi partecipa ci sia affezionato, ai libri. Oppure no? Dopo tutto la generazione dei nativi digitali sta approdando ai banchi delle università, e nulla garantisce che quelnomemillenario, libro, non sia già ritenuto obsoleto come la sua confezione cartacea, anziché rimanere in campo, come gli editori sperano, come sinonimo di "contenuto", a prescindere dal supporto. Un'università senza "contenuti", questo sì, sarebbe un controsenso clamoroso. Dunque cosa perde la didattica se perde la carta? La domanda è urgente. Gli e-book sono già il passato. Quei libri di carta da leggere sul tablet, da scrollare anziché sfogliare, sono come le vecchie carrozze col motore al posto dei cavalli. Ma c'è una zona della civiltà della lettura dove la carrozza è già diventata automobile, o astronave: ed è l'editoria scolastica e universitaria. Curioso ribaltamento: i libri di testo sono sempre andati a rimorchio dei libri- libri, sottoprodotto "per scolaretti". Ora invece è sui banchi che la tecnologia fa esplodere la forma tradizionale del libro e crea la forma del "contenuto" che verrà. C'è la riforma Gelmini, che da settembre renderà non adottabili i volumi che non abbiano un avatar numerico, ma questo stimolo in realtà vale poco: per aggirare i rigori della legge basta allegare un cd-rom con testo in pdf. Quel che spinge gli editori per lo studio a correre è la concorrenza del sapere online. Al mercato dello scolastico-universitario, finora uno dei più sicuri e redditizi (221 milioni di euro annui) grazie al meccanismo delle adozioni (obbligatorie, ma per quanto tempo ancora?) rischia grosso nell'era dei "contenuti" didattici liberamente disponibili in Rete. Lo spettro è la Rete come risposta universale e gratuita. Contenuti messi online liberamente da reti di studiosi, forum e chat di scambio orizzontale: gli studenti stanno già surrettiziamente "adottando" queste fonti alternative. Già oggi gli studenti leggono meno degli impiegati: quasi la metà dei 20-24enni (il 47,1%) e perfino il21% dei neolaureati non toccano mai un libro. Internet è il grande tentatore di questi non- lettori colti. Il vero concorrente del vecchio libro di testo è dunque il "Wiki-testo" ufficioso che ciascuno si fa da sé, googlando allegramente. «Insensato» per Mirka Daniela Giacoletto Papas, ad di Egea (sigla editoriale della Bocconi) e presidente degli editori scientifici dell'Aie: «Quel modello è valido per la divulgazione, rimette in circolo solo nozioni già acquisite: è un gigantesco bigino. Lo studio superiore ha bisogno di contenuti innovativi, più avanzati della media, e di qualità garantita. Servono autori, non compilatori». La domanda implicita del concorso Aie insomma non è se possa esistere l'università senza libri: piuttosto se possano esistere libri universitari senza editori. Perciò gli editori del ramo sperimentano disperatamente: chi indovinerà per primo la forma, o meglio la formula, del libro di testo prossimo venturo riuscirà a esistere anche dopo. Per ora, è un magma. Per capirlo basta una visita ai laboratori della Zanichelli di Bologna, l'editore italiano più lanciato nella corsa al post-libro di testo, che già nel '97 rese "multimediale" il rinomato manuale di fisica dell'Amaldi. «È un processo darwiniano», spiega il direttore editoriale Giuseppe Ferrari, «produciamo libri mutanti e cerchiamo di capire quale formato supererà la selezione ambientale». Sfoglia il catalogo del- l' e-learning Zanichelli per le superiori: c'è il "manuale elettronico" semplicemente sfogliabile su pc o magari sullo smartphone, c' è il "manuale più" pieno di gadget multi- mediali cliccabili, c'è il tutorial che aiutalo studente nei compiti a casa, c'è la "piattaforma didattica" che permette al docente di gestire una classe virtuale e che ingloba strumenti di condivisione presi in prestito dai social network. Dalle multinazionali piovono progetti ancora più azzardati, come il laboratorio di matematica della Pearson che si adatta ai progressi del singolo studente, o il progetto Create di McGraw-Hill, per costruire il proprio libro di testo pescando da un archivio gigantesco di fonti testuali e multimediali. Ma la scuola e l'università italiane sono l'ambiente darwiniano giusto per selezionare "il più adatto"? Un docente su tre di matematica e fisica non usa mai il computer in classe. 1137% delle famiglie con figli minorenni non dispone di Internet veloce. Insomma la cosiddetta "Scuola 2.0" è ancora inaccessibile a un terzo degli studenti italiani. «L'offerta è più forte della domanda, c'è una sensibilità ancora troppo bassa verso i nuovi strumenti», lamenta Giacoletto Papas. Il libro è esploso in mille metempsicosi digitali, ma l'antropologia del sapere universitario vive ancora una sua solida resistenza analogica. ______________________________________________________ Avvenire 3 mag. ’11 NESSUN MULTITASKING: IL PC BATTE LATIVÙ Ricerca Usa: Altro che multitasking, in realtà chi guarda la televisione e contemporaneamente usa il computer è «multidistratto». Lo ha rivelato una ricerca statunitense, secondo cui lo sguardo passa da uno schermo all'altro ogni 14 secondi, una cifra che ha stupito gli esperti: «la cosa peggiore è che il fenomeno avviene senza che i soggetti se ne rendano conto». Secondo l'indagine il media predominante è il computer, che cattura l'attenzione per il 68% del tempo, ma comunque in tutti i soggetti la capacità di focalizzarsi dura pochissimo• solo il 7,5% delle occhiate al pc e il 2,9% di quelle alla tv durano più di un minuto. ______________________________________________________ Il Manifesto 7 mag. ’11 L'ESERCITO TORNA NELLE UNIVERSITÀ USA La prima a muoversi, già agli inizi di marzo, è stata Harvard. Ma nel giro di poche settimane anche l'Università di Stanford, in California, e la newyorkese Columbia hanno seguito il suo esempio, decidendo di aprire di nuovo i loro campus ai reclutatori dell'esercito americano. Una antica tradizione, nata nel 1862, che permette agli studenti di frequentare gratuitamente in cambio dell'impegno a passare poi, una volta laureati, qualche anno sotto le armi. Ma i Rotc (Reserve officers' training corps) erano stati per l'appunto cacciati da tempo dalle università americane. Dalla fine degli anni '60 quando nel paese cresceva il movimento pacifista, le manifestazioni contro la guerra in Vietnam riempivano aule e dormitori, e i rettori si erano dovuti adeguare e chiudere la porta in faccia ai reclutatori del Pentagono. E anche quando quella guerra era finita, la messa al bando era rimasta in vigore. Ad Harvard ad esempio una delle sostenitrici del divieto era stata Elena Kagan, oggi giudice della Corte suprema degli Stati uniti e allora rettore dell'università. Più che per spirito pacifista, per protesta con le politiche discriminatorie dell'esercito, in particolare nei confronti dei soldati gay e delle soldatesse lesbiche. Poi, finalmente, nel dicembre 2010 è arrivato il voto del Congresso che ha abolito la legge del 1993, la famosa «non dire, non ti sarà chiesto», che ha lasciato per anni i militari omosessuali nel limbo, con il rischio di essere cacciati da un momento all'altro. E ora, come ha dichiarato, dopo aver firmato il nuovo accordo con la Marina, Drew Faust: «siamo pronti a riconoscere il desiderio di inclusione dell'esercito americano». Anche se a ben vedere non tutti hanno salutato con tanta gioia la scelta del rettore, anzi qualche manifestazione di protesta nei campus c'è già stata. Molte meno di quanto ci si aspettasse però, e legate soprattutto alla discriminazione, tuttora in vigore nelle caserme, nei confronti di chi non è né gay né eterosessuale, ma transgender. «È bizzarro scoprire che gli studenti sono più conservatori di noi insegnanti - ha commentato Michael Taddeus, docente di matematica alla Columbia, e vecchio liberai - Certo questa è una decisione soprattutto simbolica, ma per me far entrare nell'università l'esercito rimane una pessima idea». Ma forse la sua è una visione troppo pessimistica, e non è detto che la guerra abbia davvero dí nuovo conquistato i cuori dei giovani americani, come raccontano le manifestazioni nel campus della Brown University di Providence, in Rhode Island. Qualche settimana fa due gruppi di studenti, uno pro e uno contro il ritorno dei reclutatori dell'esercito, si sono confrontati nel grande prato del campus, e hanno scoperto che al fondo, molti di loro la pensavano allo stesso modo. Perché quando chi protestava contro i Rotc ha gridato lo slogan «Sosteniamo le truppe, riportiamoli a casa!», i militanti del drappello di giovani repubblicani ha risposto in coro «Siamo d'accordo anche noi!». ______________________________________________________ La Stampa 7 mag. ’11 SARÀ UN'ODISSEA TRA IL MACRO E IL MICRO PIERO.MANUCCI Memoria e futuro. Il Salone del Libro ruoterà intorno a due parole che delineano la traiettoria della scienza: che è memoria, in quanto accumula conoscenze; ed è futuro, perché su basi secolari edifica nuovo sapere. Ma si può prevedere scientificamente il futuro? Non parliamo di un'eclissi o di una reazione chimica. Troppo facile. Pensiamo a fenomeni sociali, mode, svolte politiche. La corsa all'iPad, il successo di Lady Gaga, la caduta di Mubarak. C'era modo dí prevedere queste cose? Fino a ieri no. Domani forse sì. Lo sostiene un esperto di reti, Albert-Laszlo Barabàsi, direttore del Center for Network Science alla Northeastern University. Milioni di persone in ogni istante telefonano, inviano mail, usano motori di ricerca e carte di credito. Ogni gesto lascia una traccia. Per la privacy è un problema, per gli scienziati un'opportunità. Mai era successo che i comportamenti collettivi diventassero materia di sperimentazione in tempo reale. Per la prima volta fenomeni irriproducibili in laboratorio possono essere studiati. Le chiamate da cellulari fotografano il risveglio delle metropoli, il traffico urbano, l'andamento dell'economia. Le interrogazioni ai motori di ricerca svelano gusti, consumi, interessi culturali. I social network sono sonde per indagare stili di vita e valori. Barabàsi ci racconta come fisici, matematici, psicologi ed economisti, esplorando le nostre tracce, abbiano scoperto un ordine nella casualità apparente dei comportamenti collettivi. Un ordine che permette di fare previsioni: le azioni umane procedono non con gradualità ma con accelerazioni e frenate improvvise. Sono come lampi, e Lampi (Einaudi, pp. 326, €28) si intitola il libro che Barabàsi ha scritto con l'inconsapevole collaborazione di tutti noi utenti di Internet e cellulari. Quanto al futuro della scienza, punta in tre direzioni. L'estremamente grande, cioè l'universo nel suo insieme. L'estremamente piccolo, cioè la struttura ultima della materia. Il mondo di mezzo, cioè la complessità degli esseri viventi descritta da Barabàsi. L'universo e le particelle subatomiche pongono domande che sembrano divergere ma in realtà la risposta è una sola perché oggi il macrocosmo si esplora nel microcosmo e viceversa. Al Cern di Ginevra, il più importante laboratorio di fisica del mondo, qualche giorno fa il Large Hadron Collider, un anello di magneti lungo 27 chilometri, ha stabilito un nuovo primato: mai finora tanti protoni si erano scontrati con una energia così alta. Tra i loro rottami i fisici sperano di scovare la particella di Higgs, quella che secondo la teoria più accettata avrebbe conferito la massa a tutte le altre. Come il campo magnetico di una calamita orienta la limatura di ferro, così il campo di Higgs darebbe una esistenza «materiale» alle particelle che formano tutto ciò che esiste, dalle galassie ai pianeti, dall'ameba all'Homo sapiens. Léon Lederman, premio Nobel per la fisica, l'ha ribattezzata «particella di Dio», ma se si dimostrasse che davvero rende «reale» tutto ciò che osserviamo forse sarebbe più giusto chiamarla «particella Dío». Ci muoviamo in dimensioni che si misurano in miliardesimi di miliardesimi di millimetro, cioè in zeptometri. Odissea nello zeptospazio (Sprin-ger, pp. 328, €29) è il viatico con cui Gian Francesco Giudice, fisico teorico al Cern dal 1993, accompagna i lettori alla frontiera del microcosmo. Se poi h si incontri la particella di Dio o addirittura la particella Dio, si vedrà. Stephen Hawking, genio leggendario da trent'anni inchiodato su una carrozzina, per ll Grande Disegno (Mondadori, pp. 180, € 20) ha scelto come sottotitolo «Perché non serve Dio per spiegare l'universo». Dío non servirebbe perché non uno ma infiniti universi possono germogliare spontaneamente dal nulla. Per i fisici il nulla non è ciò che rimane quando da uno spazio predefinito si è tolto tutto, come pensiamo noi comuni mortali svuotando una valigia. Anche se nella nostra valigia riuscissimo a creare il vuoto perfetto, avremmo pur sempre un «vuoto quantistico», nel quale pullulano particelle e antiparticelle virtuali. Talvolta per il principio di indeterminazione una particella si materializza. Così, infiniti universi possono nascere da fluttuazioni quantistiche. E' il tema che trattano Frank Close della Oxford University in Nulla (Codice, pp. 128, €19) e Mario Novello, cosmologo del Centro brasiliano di ricerca fisica a Rio de Janeiro, in Qualcosa anziché il nulla (Einaudi, pp. 175, €20). «La fisica moderna - spiega Close - suggerisce che forse l'universo emerse dal vuoto. Detto in parole povere, l'universo potrebbe essere il pasto gratis supremo, una gigantesca fluttuazione quantistica». Novello è ancora più radicale: «Partendo dalla constatazione dell'instabilità del vuoto e dal decadimento e dalla trasformazione di questo vuoto, il cosmologo può affermare che non sembra possibile che niente esista: l'universo era condannato a esistere». ______________________________________________________ Repubblica 6 mag. ’11 FISICA, COSÌ L'ITALIA PERDE I TESORI DI FERMI E MAJORANA "Oggi mancano i fondi e personale per consentire la consultazione"' ELENA DUSI Gli archivi del Laboratorio Nazionale di Frascati sono scomparsi per fare spazio agli uffici. Quelli dell'Enea (Agenzia per nuove tecnologie, energia e ambiente) hanno le porte sbarrate. «L'ultima volta cheli ho visti, gli scatoloni erano accumulati nell'edificio che ospitava un reattore di ricerca dismesso, nella sede della Casaccia alle porte di Roma» racconta Gianni Battimelli, professore di fisica all'università La Sapienza e storico della scienza. «Recentemente sono tornato per cercarli» aggiunge Gianni Paoloni, storico della scienza e docente di archivistica nell'università romana. «La porta era chiusa. Ma li ho riconosciuti sbirciando dalla finestra. Non penso affatto che abbiano segreti da nascondere. Credo semplicemente a mancanza di interesse e incuria». Labi blioteca di Vito Volterra, fra l'altro fondatore del Consiglio nazionale per le ricerche, è stata venduta ed è finita negli Stati Uniti. A Monaco intanto la ricercatrice della Sapienza Luisa Bonolis lavora alla digitalizzazione dei documenti di fisica del Deutsches Museum: «Americani e tedeschi stanno facendo un gran lavoro per mettere in rete i loro archivi. Dell'Italia non si può certo dire altrettanto». Appesi nel limbo fra scienza e storia, gli archivi della fisica italiana (ma il problema è comune anche ad altre discipline scientifiche) che visse il suo momento d'o ro con Cragazzi di via Panisperna" galleggiano oggi nel disinteresse. «Trent'anni fa per la prima volta è nata una generazione di storici della fisica» spiega Battimelli. «Ma oggi siamo rimasti senza eredi. L'insegnamento di questa disciplina ha perso interesse. Non si creano più cattedre. I giovani laureati si rivolgono ad altri settori. Il lavoro che abbiamo fatto finora per raccogliere e catalogare i documenti di Enrico Fermi, Ettore Majorana, Edoardo Amaldi, Bruno Touschek e tanti altri, l'ultimo dei quali è Nicola Cabibbo, rischia di perdersi nei prossimi anni». Il problema non riguarda solo i fisici. L'archivio dell'Enea contiene le tappe della politica nucleare italiana, tema di grande attualità. Le carte di Amaldi conservate al dipartimento di fisica della Sapienza permettono di spaziare dalla storia dell'integrazione del nostro continente (Amaldi fu uno dei padri fondatori del Cern, l'Organizzazione europ ea p er la ricerca nucleare) a quella del pacifismo e dei movimenti per il disarmo. Di Enrico Fermi esistono sempre a Roma dei dischi di vinile con la registrazione di una presentazione che tenne nel 1949. «Oggi ci mancano i fondi e il personale per consentire la consultazione a tutti» spiega Battimelli. «Eppure trent'anni fa la situazione era molto peggiore. Ricordo quando mi chiamarono perché l'ufficio di Bruno Touschek doveva essere sgombrato e le sue carte erano nel cassonetto della spazzatura. Oggi almeno i documenti importanti vengono vincolati dalla Soprintendenza». Per Paoloni, il problema è soprattutto culturale: «Le comunità scientifiche, quando si indeboliscono, hanno paura di investire per rileggere il proprio passato. Se poi facciamo di tutto per dimenticare che la nostra scienza ha vissuto grandi momenti, è più facile accettare che oggi venga lasciata in uno stato deplorevole. Si finisce col dipingere una notte in cui le vacche sono tutte nere. Ma gli archivi al contrario parlano di una storia molto luminosa». ______________________________________________________ Repubblica 6 mag. ’11 "DIGITALIZZIAMO I DOCUMENTI O IL PATRIMONIO NON AVRÀ EREDI L' allarme di Carlo Bemardini, uno dei più grandi studiosi italiani ROMA — «Il nostro patrimonio è rimasto senza eredi» lamenta Carlo Bernardini, uno dei principali fisici italiani, ex senatore, direttore della rivista scientifica Sapere e autore fra gli altri del libro "La fisica nella cultura italiana del Novecento". «Quello dei documenti è un grande cruccio per me. Sono convinto che l'unico modo per salvare la storia della fisica italiana sia digitalizzare le carte». Quali sarebbero i vantaggi? «Vantaggi di conservazione, prima di tutto. Non c'è pericolo che i documenti scompaiano per col-pa del tempo o di "rapine accademiche". E vantaggi di accessibilità in secondo luogo. Le fonti della storia della fisica italiana diventerebbero di-sponibili in tutto il mondo». Che intende per "rapine accademiche"? «Mi riferisco a un episodio avvenuto alcuni anni fa nell'archivio Majorana a Pisa, ma anche al-l'acquisto da parte di un'università americana della biblioteca di Vito Volterra, o della cessione di alcuni quaderni dell'esperimento Ada di Frascati alla Smithsonian Institution, che li ha esposti in una sala speciale». Quali sono gli ostacoli alla conservazione? «Digitalizzare gli archivi è un lavoro enorme e servono fondi. Ma sono convinto che molti giovani fisici vi si dedicherebbero volentieri ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 mag. ’11 ORCHIDEA MINACCIATA OGGI CONVEGNO A SEDILO Maria Antonietta Cossu SEDILO. Tra rischio di devastazione a causa dell’uomo e necessità di tutela e valorizzazione. Protagonista è quello splendido esemplare che tutti conoscono con il nome di orchidea. Un’espressione della natura di cui anche la Sardegna vanta esemplari autoctoni. Se ne parlerà oggi in un convegno dalle 17 nella sede del Centro di documentazione ambientale. È una delle famiglie vegetali più grandi al mondo per numero di specie e generi e delle 30.000 varietà di orchidee scoperte finora nel mondo circa 60 si trovano in Sardegna. L’eccezionale varietà biologica propria delle Orchidaceae sarà l’argomento centrale del convegno dedicato agli esemplari spontanei. A costituire lo spunto del seminario sarà la presentazione del libro “Hybrides d’Ophrys du bassin méditerranéen occidental” del ricercatore francese Remy Souche, che presenzierà all’incontro. Del volume parlerà Ignazio Camarda, docente di Botanica sistematica e direttore del Centro per la conservazione e la valorizzazione della biodiversità vegetale dell’università di Sassari. La ricca varietà biologica di cui tratta il libro, tuttavia, è minacciata dall’attività antropica, che sul territorio regionale e in particolare sul versante della provincia oristanese si traduce anche nell’uso sconsiderato dei diserbanti ai bordi delle strade per eliminare rapidamente le erbacce con l’arrivo della stagione estiva. Alcuni casi venivano segnalati anche ieri nei centri costieri. Una pratica che secondo gli esperti mette a rischio la capacità riproduttiva dei fiori e delle erbe spontanee in genere, come sosterrà nella relazione introduttiva Alessandra Manca, direttrice del Ceas Centro e coordinatrice della sezione Sardegna centrale del Gruppo italiano per la ricerca sulle orchidee spontanee. Sullo stesso problema si soffermerà anche il referente dell’Amint (Associazione micologica italiana naturalistica telematica) Franco Sotgiu, autore (con il professore Antonio Scrugli) della scoperta di una specie di orchidea ancora sconosciuta nell’isola: la Platanthena Bifolia, individuata alcuni anni fa nelle campagne tra Borore e Santu Lussurgiu e che impone una efficace attività di tutela. ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 6 mag. ’11 PIANTE ALIENE A TAVOLAra: una task force di esperti all attacco dei fiori rosa Tiziana Simula OLBIA. Specie vegetali aliene minacciano gli ambienti naturali e agricoli nell’isola, come nel resto d’Europa. Il giacinto d’acqua che ha invaso un fiume intero nell’oristanese è un esempio, ma tra le 40 specie invasive censite in Sardegna e ritenute dannose, c’è anche il Carpobrotus, pianta ornamentale sud africana che prolifera nelle coste sarde, in particolare nelle dune e nelle scogliere, mettendo a rischio la sopravvivenza delle specie endemiche, a cui ruba spazio, luce e acqua. Per fronteggiare il proliferare delle piante aliene invasive, causa di danni all’ambiente, all’economia e all’uomo, dal 2002, l’Eppo, l’Organizzazione europea e mediterranea per la protezione delle piante, che riunisce 48 nazioni, ha messo in piedi un gruppo di lavoro di esperti. Una task force di specialisti che in questi giorni si trova in città, nella sede dell’Area marina protetta di Tavolara Punta Coda Cavallo, struttura coinvolta nell’iniziativa, insieme al Corpo forestale di vigilanza ambientale, al Servizio fitosanitario regionale, al Servizio tutela natura e al Centro di conservazione per la biodiversità dell’Università di Sassari. Per tre giorni, dal 3 maggio ad oggi, l’Amp di Tavolara di cui è direttore Augusto Navone, già attiva con diverse iniziative sulla materia, è stata l’epicentro degli studi del Panel Eppo, il gruppo di lavoro internazionale sulle specie vegetali aliene invasive, che ogni anno si riunisce in una nazione diversa e che, per la prima volta, ha fatto tappa in Italia, sotto la guida del direttore generale della Eppo Ringolds Arnitis e del coordinatore Sarah Brunel. L’equipe di esperti, venti quelli presenti in città in rappresentanza di altrettante nazioni, ha portato avanti nella visita gallurese i propri studi, finalizzati a mettere a punto strumenti tecnici e linee guida mirati a facilitare gli interventi di controllo e di gestione delle specie vegetali aliene invasive, prevedendo tra le strategie anche la rimozione per le specie più pericolose, nei casi in cui questo sia possibile. Ed è ciò che il Panel Eppo propone per contrastare il Carpobrotus, «laddove c’è una presenza modesta di questa pianta che può essere facilmente controllata, come a Tavolara, ma anche a Caprera e nell’Asinara», spiega l’agronomo Giuseppe Brundu, responsabile italiano del gruppo di lavoro. Il Carpobrotus è una pianta ornamentale di origine sudafricana presente il tutto il Mediterraneo, di cui la Sardegna è particolarmente ricca. Rientra nell’elenco delle 40 specie aliene invasive censite in Sardegna - a livello nazionale, le invasive sono un centinaio -, ed è definita dannosa ai sensi della Convenzione sulla biodiversità, articolo 8 H. «In tutto il Mediterraneo, a vari livelli, sono stati messi in campo interventi per il controllo, la gestione e dove è stato possibile la rimozione di questa pianta, cosa, ad esempio, avvenuta in Spagna», spiega ancora Brundu. Il suo proliferare nelle dune e nelle rupi costiere minaccia la sopravvivenza delle specie endemiche dei luoghi dove cresce, rubando ai suoi innocui vicini spazio, luce e acqua, esponendoli così al rischio estinzione. A Tavolara - dove il gruppo di lavoro ha fatto un’escursione - il Carpobrotus c’è, ma la sua presenza è ancora modesta. «In questo caso - conclude l’agronomo - sarebbe meglio intervenire con la rimozione perchè Tavolara è un’isola ricchissima di specie endemiche e rare, che crescono solo lì, e il Carpobrotus, continuando a proliferare, rappresenta una vera minaccia per la loro conservazione». ========================================================= ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 4 mag. ’11 DIRINDIN: SANITÀ IN CRISI, COLPA DELLA GIUNTA CAPPELLACCI La recente indagine della Corte dei conti evidenzia inefficienze e sprechi La recente pubblicazione dell’indagine della Corte dei conti sullo stato dell’organizzazione sanitaria in Sardegna pone la parola fine allo stucchevole rimpallo di responsabilità sulla condizione di grave degrado in cui è precipitata la sanità sarda. Una spesa sanitaria fuori controllo, gravata da un disavanzo che nel 2009 ha subito un incremento di oltre l’8% e che nel 2010 ha raggiunto ben 265 milioni. Un piano di rientro dal deficit, predisposto dalla giunta Cappellacci, sonoramente bocciato proprio dal governo amico e che ha comportato la perdita di ben 14,8 milioni di euro di trasferimenti statali. La spesa farmaceutica, dopo la significativa contrazione del 2007 e del 2008, ha subito un nuovo irresponsabile aumento nel 2009 e nel 2010. La spesa per il personale nel 2010 ha registrato un incremento di circa l’11% rispetto al 2004, cui devono aggiungersi i costi per le consulenze, collaborazioni e contratti interinali passati da 19, 9 milioni nel 2007 a ben 72,6 milioni nel 2010. Ecco così spiegato il giochetto dei contratti interinali, assunzioni clientelari che invece di venire imputate alla spesa per il personale vengono camuffate all’interno della spesa per acquisizione beni e servizi. Nell’indagine della Corte vengono altresì denunciate due questioni che suscitano viva inquietudine. La prima riguarda le distorsioni di un’organizzazione sanitaria oramai senza governo, che è andata sempre più configurandosi come un vero e proprio sistema feudale: la salute dei cittadini viene data in appalto alle diverse Asl, che la gestiscono come dei veri e propri feudi. Il «feudatario» locale provvede ad affidare ad un proprio «valvassore», il Direttore generale, la gestione del «feudo» Asl, che a sua volta nomina i «valvassini», Direttore sanitario ed amministrativo e così via di seguito continuando con le figure apicali. La mancanza di un’energica azione di controllo e d’indirizzo da parte della giunta regionale ha consentito ai vari feudi, le Asl, una gestione «allegra» dell’assistenza sanitaria, attenta più ai desiderata del proprio «feudatario» che hai bisogni di salute dei cittadini. All’interno del novello sistema feudale della sanità, il Direttore generale della Asl non risponde del proprio operato all’assessore regionale competente ma al proprio «feudatario». La seconda questione concerne la scelta deliberata fatta dalla giunta regionale di non dotare delle necessarie figure professionali l’assessorato della sanità. L’indagine della Corte ha denunciato «dotazioni di risorse umane oggettivamente carenti sotto il profilo quantitativo e qualitativo». Un Direttore generale dell’assessorato privo dei requisiti di legge, come ha evidenziato la mozione approvata dall’assemblea regionale. Una serie di decisioni oggettivamente funzionali al sistema «feudale» della sanità. Un assessorato incapace di svolgere le necessarie funzioni d’indirizzo e di controllo ma anche di esprimere oculati giudizi di legittimità e di merito sulle scelte dell’esecutivo, elimina tutti quei fastidiosi lacci e lacciuoli che impediscono una vantaggiosa politica clientelare. «Lo scenario amministrativo-gestionale fornisce spunti di evidente preoccupazione e pare necessitare urgentemente di una forte iniziativa di razionalizzazione verso canoni di una sana gestione»: quale migliore conclusione delle parole usate dalla Corte dei conti nelle raccomandazioni finali ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 mag. ’11 LIORI: IL VERO FALLIMENTO È STATO QUELLO DELLA DIRINDIN Dadea, ex assessore con Soru, corresponsabile di scelte sbagliate La relazione della Corte dei conti sul servizio sanitario regionale è del 6 aprile. Massimo Dadea, ex assessore regionale della giunta Soru, ha impiegato quasi un mese per commentarla sulle colonne della «Nuova Sardegna» (4 maggio). Tempo che, però, non deve aver impiegato per una attenta e scrupolosa lettura di quelle pagine. Ciò nonostante, è condivisibile la sua premessa («la pubblicazione pone la parola fine allo stucchevole rimpallo di responsabilità sulla condizione di grave degrado in cui è precipitata la sanità sarda»), infatti la Corte dei conti ha ulteriormente e definitivamente certificato che il «Piano di rientro triennale 2007-2009» è fallito. Purtroppo, però, l’ex assessore (in carica proprio in quegli anni) ha clamorosamente dimenticato che il «Piano» è stato concordato e firmato nell’era Soru-Dirindin, e non è stato, come lui imprudentemente sostiene, «predisposto dalla giunta Cappellacci». Stando ai numeri, la relazione certifica che nel 2010 c’è stata un’evidente inversione di tendenza. «Il disavanzo registra preoccupanti indici di crescita», scrive la Corte, ma è bene dividere i «meriti» coi miei predecessori. I «costi di produzione» della sanità sarda hanno registrato nel 2007 un + 6,22%, nel 2008 + 6,24%, nel 2009 + 5,55%, tanto da determinare il lampante fallimento della gestione Dirindin, collega di giunta di Massimo Dadea. Mentre, nel 2010 i costi sono aumentati di appena lo 0,59%, rappresentando un decisivo blocco della spesa, che nel settore della sanità, negli ultimi 10 anni, viaggia ad una media annua nazionale di incremento del 4,3%. Un risultato importante nonostante sia stato un anno di gestione commissariale, che non consente un controllo severo e puntuale degli atti delle Aziende, cosa invece possibile d’ora in poi coi direttori generali recentemente nominati. Durante la mia gestione, senza alcuna modifica al «Piano di rientro», ho cercato di raggiungere gli obiettivi richiesti e di porre rimedio ad una fase difficile per la Regione, a forte rischio di commissariamento governativo, che avrebbe comportato un immediato aumento di tasse e l’imposizione di nuovi ticket, oltre alla diminuzione delle potestà decisionali regionali in tema di sanità. Fondamentale è stata la sostituzione, nel settembre 2009, dei manager delle Asl che avevano contribuito a questa situazione. E’ quello il mese che rappresenta la vera data di inizio dell’era Liori nella sanità isolana, avviata con l’obiettivo di sanare il pesante disavanzo prodotto dalla disastrosa gestione Soru-Dirindin, che nel 2009 aveva toccato quota 265 milioni. Peraltro, è vero che il fallimento del «Piano di rientro Dirindin» è costato alla Regione oltre 14 milioni di euro, ma è altrettanto vero che, grazie alla fiducia guadagnata nei confronti del ministero, che ha prorogato di dieci mesi la verifica del «Piano», ed agli obiettivi raggiunti nel 2010, abbiamo salvato altri 55 milioni di euro, opportunamente finiti nelle casse regionali. Acquisita la dotta lezione di storia del feudalesimo, dispensata da Dadea con perfetta conoscenza di ruoli e funzioni di valvassori e valvassini, sarebbe opportuno che l’ex assessore regionale della giunta Soru si dedicasse ad una più attenta lettura delle relazioni sulla sanità regionale coi relativi dati, certamente più aderenti all’attualità della quale pare volersi occupare. ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 mag. ’11 MANICHEDDA: LA SARDEGNA È SULL’ORLO DEL BARATRO Serve una rivoluzione istituzionale Spesa pubblica fuori controllo e incapacità di produrre reddito: a un passo dal collasso economico e dalla rivolta sociale PAOLO MANINCHEDDA Scrivo queste righe perché credo che non si stia comprendendo in quale baratro sta precipitando la Sardegna. Le entrate previste per la Regione Sardegna sono mediamente di 6,4 miliardi di euro all’anno. In realtà lo Stato ne trasferisce solo 4,5 nell’anno solare; il resto lo dà a conguaglio nei mesi successivi. Come avevo previsto l’anno scorso, la spesa sanitaria viaggia, a fine anno 2011, verso i 3,3 miliardi di euro, a cui va aggiunto quasi 1 milione di euro di spesa per l’assistenza. La macchina della Regione costa circa 2 miliardi di euro. Le società partecipate dalla Regione hanno debiti per circa 402 milioni di euro. Bastano questi semplici numeri per capire in quale guaio ci si trovi. I sardi non possono più permettersi di ragionare solo su come si spendono i soldi delle compartecipazioni erariali piuttosto che su come si produce prodotto interno lordo, non fosse altro perché il celebre federalismo fiscale dell’Italia degli egoismi privilegiati fissa la regola secondo cui ogni regione può consumare e usare solo la ricchezza che produce. Diamo uno sguardo a chi produce. Iniziamo dall’agricoltura. La legge 15 del 2010 è in larga misura inattuata e inattuabile. Sono stati spesi solo i soldi del «de minimis». Le cooperative che operano nel settore ovi- caprino sono al collasso; non sono in grado, in molti casi, di poter esibire le fideiussioni necessarie per incassare i famosi 500.000 euro a società e hanno i magazzini pieni. Il rischio di un crack sociale, economico e finanziario è dietro l’angolo. Sarà l’agricoltura in Sardegna a creare il clima insurrezionale che in altri Stati è stato creato dalla crisi delle banche. Il sistema manifatturiero è fittizio. Si producono pochissimi manufatti. Le grandi emergenze industriali sono tutte irrisolte. Le maestranze sono poco o niente qualificate. Le scuole hanno indici di mortalità da collasso. Molte famiglie hanno conosciuto solo l’assistenza e mai il lavoro, con le conseguenze culturali che si possono immaginare. Il terziario e il turismo. E’ un discorso un po’ più lungo, ma ha certamente ragione chi dice che la grande sofferenza finanziaria di alcuni grandi gruppi sardi si accompagna con un grande difetto di coordinamento delle politiche infrastrutturali, dei trasporti e della cultura, indispensabile per creare il vantaggio competitivo che può trasformare, senza consumarla, la bellezza della Sardegna in ricchezza per i sardi. Poi ci sono le tasse. E’ dall’inizio della legislatura che ripeto che la pressione fiscale italiana è insostenibile per i sardi, soprattutto in periodi recessivi. Oggi, l’azione di Equitalia sta uccidendo socialmente intere famiglie; l’Italia non capisce e parla della Sardegna come di un regno dell’evasione fiscale e impedisce alla Sardegna qualsiasi fiscalità di vantaggio. Le persone a cui viene pignorata l’azienda e la casa non parlano, insorgono. I Segni e i Parisi si sono strappati le vesti dinanzi alla mia mozione per l’indipendenza, ma a loro più che a altri toccherà adesso il compito di spiegare ai crocefissi dal fisco perché nell’età moderna si può essere uccisi socialmente dallo Stato italiano. In questo quadro, come si fa ad anteporre alla tragedia sociale la propria appartenenza ai partiti? E’ come cercare di ottenere vantaggio elettorale dalla morte. Io ho parlato in Consiglio regionale dell’urgenza di una nuova responsabilità e di un nuovo quadro politico. Immediatamente c’è chi ha chiesto la mia espulsione dalla maggioranza e chi ha vietato la mia iscrizione nell’opposizione. Facciano pure. Nessuno, dico nessuno, ha accettato di confrontarsi con i fatti che ho segnalato. I fatti dicono che chi sta bene in Sardegna, chi fa politica, chi ha una buona impresa, chi ha un buon lavoro o una buona pensione deve accettare di fare sacrifici per affrontare una situazione gravissima del nostro popolo. Nessuno è però in grado di gestire e motivare questi sacrifici sotto il fuoco della politica ordinaria, con il governo regionale di turno che si privatizza o strumentalizza le eventuali vittorie e si sgrava degli insuccessi e l’opposizione che enfatizza e governa il dissenso sociale. Io ho voluto dire, appunto, che la tragedia sociale attuale non consente il gioco delle parti, cioè lo svolgersi dell’ordinaria commedia politica a cui si è abituati. Occorre una generazione di coraggiosi che abbandoni le consuetudini di parte e guidi subito una difficilissima traversata nel deserto. Si tratta di fare una grande rivoluzione istituzionale, nel segno esclusivo della Sardegna e non del bipolarismo italiano, per evitare un’inutile e violenta disgregazione sociale. Ognuno si assuma le sue responsabilità: io mi sto assumendo le mie. * Presidente della Commissione Bilancio del Consiglio Regionale ______________________________________________________ La Nuova Sardegna 4 mag. ’11 ASLNU, IL «CASO PROJECT» ARRIVA IN REGIONE Maninchedda e Capelli chiedono conto delle «illegittimità segnalate e ignorate» Ascolta la notizia GIOVANNI BUA NUORO. Il «caso project» arriva sui banchi della Regione. Che, a pochi giorni dalla udienza del Consiglio di Stato, dovrà rispondere a due durissime interrogazioni che attaccano il maxi appalto da 700 milioni. E chiedono a governatore e assessore alla Sanità «cosa intendano fare per impedire le illegittimità segnalate». Un attacco firmato da Paolo Manichedda, il gruppo sardista, Roberto Capelli e Ignazio Artizzu, e poi dall’Udc. Che arriva proprio nel momento in cui la gestione di area Pdl dell’Asl 3 (diretta da Antonio Maria Soru) sta producendo il massimo sforzo per cercare di salvare il maxi appalto da 700 milioni, vinto dalla francese Cofely e cassato dal Tar Sardegna. Uno sforzo che potrebbe portare a una «conciliazione» con la ricorrente (la Polish House) che potrebbe essere ripescata all’interno della società di progetto che ha in concessione il project. Eventualità questa (ipotetica ma mai smentita dall’Asl) contro la quale si sono già pronunciati molti dei firmatari delle due interrogazioni. «Che servono - spiega il leader sardista Paolo Maninchedda - a fare chiarezza. A mettere tutto, visto che abbiamo richiesto la risposta scritta, nero su bianco. E che consentirà, a seconda della risposta, di rivolgerci ad altre sedi». L’oggetto del contendere riguarda l’ossatura del progetto. Che, secondo i suoi oppositori «È semplicemente un mero appalto di opere - attacca Maninchedda - in quanto oltre a non esistere il rischio di domanda non sussiste nemmeno il rischio di gestione. Motivo per cui il Tar ha bocciato tutta l’operazione». Perplessità che, secondo quanto informano i redattori dell’interrogazione, erano già state espresse dall’allora commissario straordinario dell’Asl 3 Antonio Onorato Succu. Che, ben prima che arrivasse la bocciatura del Tar, aveva inviato una nota ufficiale a presidente della Regione e assessore alla Sanità. Mettendo in fila diversi dubbi «in ordine alla procedura di finanza di progetto» e sottolineando «diverse perplessità». Tra cui il fatto che: «l’utilizzo di questa procedura non ha consentito all’Asl di beneficiare di un maggiore ribasso che sarebbe potuto emergere dal confrotno concorrenziale delle procedure di appalto». «Non si capisce - attacca Maninchedda - perché la Regione non abbia mai risposto a questa nota. Né si capisce come intenda affrontare le enormi criticità del progetto, che anche una eventuale pronuncia favorevole del Consiglio di Stato non sanerebbero. A iniziare dalla copertura finanziaria, che la Regione non ci ha ancora detto come intende garantire». ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 mag. ’11 AUTO BLU: ASL DI OLBIA 129 BRUNETTA E IL TAGLIO DELLE AUTO BLU QUELLO CHE I NUMERI — non DICONO . Della nota con cui venerdì 6 maggio il ministro dell’Innovazione Renato Brunetta ci ha comunicato che le pubbliche amministrazioni stanno tagliando le auto blu colpiscono almeno un paio di cose. La prima: i numeri. Il comunicato stampa segnala infatti alcuni casi di riduzioni «significative» del parco macchine. Apprendiamo quindi che fra il 2009 e il 2010 le auto di servizio della Regione Molise sono passate da 73 a 52 (cinquantadue!). Ma pure che quelle della Provincia di Parma sono diminuite da 84 a 58 (cinquantotto!), e quelle della Provincia di Bari da 64 che erano si sono ridotte a 46 (quarantasei!). Si scopre poi che il Comune di Messina, che aveva 164 auto, adesso ne ha soltanto 103 (centotre!), una in più del Comune di Palermo. Ben 26 in meno, però, della Asl di Olbia, che ha in garage 129 (centoventinove!) macchine. La seconda cosa che colpisce è il numero delle amministrazioni che hanno compilato il questionario del ministero. Sono meno del 30%del totale. Forse un po’ pochine per trarre qualche conclusione. Per esempio, per stabilire che le auto «blu-blu» , come Brunetta definisce quelle che usano i politici, si sono ridotte del 10%, che le «blu» , ovvero le vetture a disposizione degli alti burocrati, sono state tagliate del 7,1%, e che le «grigie» , a servizio dei vari uffici sono l’ 1,4%meno di un anno prima. Anche perché, al di là della propaganda, sarebbe interessante sapere che cosa è successo nelle amministrazioni centrali, oltre che negli enti locali. Qualche settimana fa da palazzo Chigi, dopo un’attesa di circa due mesi, ci ha fatto sapere che la presidenza del Consiglio ha 120 auto di servizio. Cifra, per inciso, che non comprende le vetture a disposizione del presidente del Consiglio, il cui numero è rigorosamente top secret. Sono aumentate o diminuite rispetto a un anno prima? E poi, che cosa accadrà con la nuova scandalosa infornata di sottosegretari? Li manderanno tutti a piedi o forniranno anche a loro, com’è assai più probabile, una confortevole Audi 2.700 (anche se il modello 4.200 è decisamente più gettonato) con autista e scorta al seguito, per la gioia dei contribuenti che pagano le tasse fino all’ultimo euro? Sergio Rizzo ______________________________________________________ Il Sole24Ore 7 mag. ’11 DIVISE FISIOTERAPIA E SCIENZE MOTORIE Fine dell'equipollenza fra la laurea in scienze motorie e quella in fisioterapia. È stata pubblicata sulla «Gazzetta ufficiale» 104 di ieri, 6 maggio, la legge 63 del 21 aprile che abroga l'articolo 1-septies del Dl 250/2005, convertito dalla legge 27/2006. La norma stabiliva, appunto, che «il diploma di laurea in scienze motorie è equipollente al diploma di laurea in fisioterapia, se il diplomato abbia conseguito attestato di frequenza ad idoneo corso su paziente». Un decreto dell'Istruzione definirà, per il conseguimento della laurea in fisioterapia da parte di laureati e studenti dei corsi di laurea in scienze motorie, la disciplina del riconoscimento dei crediti formativi, l'accesso al corso universitario in fisioterapia, le regole del tirocinio sul paziente. ______________________________________________________ TST 4 mag. ’11 LA MOLECOLA CHE FRENA IL TUMORE OVARICO Quando è assente, è più probabile che la malattia si ripresenti o studio che abbiamo pubblicato sulla rivista «Lancet Oncology» ha dimostrato che esiste un'associazione tra i livelli di espressione di una molecola denominata miR-200c e la sopravvivenza di pazienti con carcinoma dell'ovaio al primo stadio. MiR-200c fa parte di una famiglia di piccole molecole di RNA - i micro RNA o miR - che negli ultimi anni sono al centro della ricerca biologica ed oncologica, perché coinvolti nel processo che porta alla formazione di tumori. I miR, inoltre, sembrano rivestire grande interesse anche come potenziali bio- marcatori di utilità diagnostica (vale a dire per stabilire in modo preciso e precoce la diagnosi di tumore) e prognostica (per prevedere quale sarà l'andamento della malattia e la sopravvivenza del paziente). Ciascuno di questi miR è in grado di controllare l'espressione di molti geni che hanno un ruolo nell'insorgenza dei tumori, nella loro crescita, nella formazione di vasi sanguigni tumorali e nella formazione di metastasi in altri organi. Si può quindi ritenere che la valutazione di queste piccole molecole di RNA, che non servono a produrre proteine, ma a regolare molti geni importanti, ci fornisca un quadro riassuntivo delle proprietà biologiche di un tumore di un particola-re paziente, cioè indichi la sua «firma molecolare». Nel caso del tumore ovarico, in particolare, c'è bisogno di identificare i biomarcatori sia per una diagnosi precoce sia per prevedere l'evoluzione della malattia e pilotare così la terapia più efficace e meno tossica per ciascuna paziente. Nel nostro studio abbiamo valutato l'espressione di miR in 144 casi di tumori dell'ovaio al primo stadio: questa ricerca è stata possibile attraverso una collaborazione che dura da più di 20 anni con Costantino Mangioni e più di recente con Rodolfo Milani, responsabili del Reparto di Oncologia Ginecologica del San Gerardo di Monza, Università la Bicocca, con i quali abbiamo sviluppato una «banca» di biopsie di oltre 1300 casi di carcinomi dell'ovaio, associata a un «database» sviluppato dai nostri informatici per registrare tutti i dati biologici, istopatologici e clinici delle pazienti operate. Lo studio si è svolto in due fasi: in una prima fase abbiamo valutato l'espressione di tutti i miR (circa un migliaio) in 89 casi, 22 dei quali non erano guariti, manifestando la ricomparsa della malattia. Alcuni miR, quindi, sembravano statisticamente associati alla sopravvivenza delle pazienti. La riconferma di tutti questi dati si è avvalsa di un'altra metodica - sia sulla stessa casistica sia su una indipendente - realizzata da Dyonyssios Katsaros del dipartimento di Ginecologia Oncologica dell'Universi-tà di Torino. In una seconda fase l'analisi biostatistica ed informatica (che si è avvalsa della collaborazione di bioinformatici e statistici dell'Università di Padova e Firenze) ha tenuto conto di tutte le altre caratteristiche di ciascuna paziente (con la cosiddetta analisi multivariata) e ha confermato che l'espressione di un particolare miR - il miR-200c - è associata ad un' alta probabilità di guarigione, indipendentemente dagli altri fattori anatomopatologici e clinici. Si ritiene, quindi, che miR-200c sia un regolatore di molte proprietà biologiche del tumore, che rallenti la crescita e la capacità metastatica delle cellule tumorali e ora i nostri laboratori stanno attivamente lavorando per chiarire i meccanismi molecolari che sono alla base di questi effetti. Chiarire tutti questi meccanismi, infatti, può permettere di identificare delle terapie selettive per il carcinoma dell'ovaio. Per esempio miR-200c regola in modo negativo il fattore VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor), che è il principale fattore angiogenico turnorale e, di conseguenza, nei casi in cui míR-200c è poco «espresso» si potrebbe intervenire con terapie dirette contro lo stesso VEGF: si tratta di cure che, per altro, sono in fase avanzata di studio clinico anche in molti centri oncologici italiani. Attraverso i finanziamenti dell'AIRC - l'Associazione italiana per la ricerca sul cancro - pensiamo che sarà possibile passare all'applicazione di queste conoscenze scientifiche per un concreto miglioramento della terapia dei tumori ovarici. Ora, dopo ulteriori verifiche dei dati ottenuti su casistiche più ampie, abbiamo in programma di utilizzare tutti questi dati per realizzare in clinica terapie mirate che tengano conto della «firma molecolare» del tumore. Non solo. I nostri laboratori stanno anche lavorando per rendere possibile la formulazione di queste piccole molecole di RNA come potenziali farmaci. Siamo ancora in una fase sperimentale iniziale e abbiamo molti ostacoli da superare per trasformare questa idea in realtà, ma la rapidità con cui molte nuove tecnologie si stanno sviluppando rende tutt'altro che utopistico intravedere un'applicazione clinica già entro pochi anni. ______________________________________________________ L’Unione Sarda 5 mag. ’11 FREUD E I BAMBINI DEL DESIDERIO A scuola le ricadute (positive) dei figli sognati Quando la scuola nasce, nel XVIII secolo, come istituzione pubblica, alla famiglia, che un tempo aveva il monopolio dell'educazione dei figli, rimarrà un ruolo solo in apparenza residuale, che contribuirà col tempo a rendere sempre più difficili i rapporti con la scuola pubblica. Consolidandosi come luogo privilegiato delle relazioni affettive e personali, l'unico rifugio per la soggettività dei suoi membri, la famiglia contribuirà a rendere più difficile il dovere della scuola di educare i giovani ai valori dello Stato di diritto, suo compito primario. I rischi di complicazione dei rapporti con la scuola aumenteranno con la progressiva de-istituzionalizzazione della famiglia. La coppia ha sempre meno i caratteri di un'unione riconosciuta da un'autorità giuridica o religiosa, e molto di più quelli di un incontro di persone che, semplicemente, si amano. Questo fatto modifica profondamente i rapporti tra genitori e tra genitori e figli: per la prima volta nella storia dell'umanità, i piccoli nascono perché “desiderati”, come frutto di una scelta libera e consapevole, come fatto di cultura. Sigmund Freud aveva in parte anticipato, ipotizzandolo, l'evento, quando nel 1898 scriveva che sarebbe stato uno dei più grandi trionfi dell'umanità se la procreazione si fosse elevata al rango di “azione volontaria e intenzionale”, se si fosse affrancata dalle sue stesse origini, di puro atto biologico, mirato “alla soddisfazione di un bisogno naturale”. Ma non avrebbe mai immaginato che questa conquista di civiltà, ormai in atto, avrebbe rappresentato un elemento di complicazione, non di semplificazione, del lavoro della scuola. Il bambino del “desiderio” non è un bambino come gli altri: è questo bambino, non un altro. I genitori che lo vogliono, lo vogliono perché corrisponde ad un loro modello e magari lo prefigurano come già potenzialmente dotato di quella individualità che essi desiderano e sognano. Franco Epifanio Erdas (Università di Cagliari) ______________________________________________________ Corriere della Sera 4 mag. ’11 RIABILITAZIONE E TERAPIA DEL DOLORE PERCHÉ NON USARE (MEGLIO) LE TERME? Nel 1980 l' Italia ha cambiato l' organizzazione della sanità con una Riforma che si sarebbe dovuta basare su tre gambe: prevenzione, assistenza ospedaliera, riabilitazione. Purtroppo così non è stato, e per anni solo gli ospedali sono stati fulcro della sanità. Gli ospedali già esistevano, i posti letto pure, e nessuno badava agli irrazionali sprechi. Così, a parte rare eccezioni, nonostante il numero di infartuati e di traumatizzati gravi (stradali o da lavoro) la riabilitazione ha lasciato sempre a desiderare. Con viaggi della speranza all' estero, per chi poteva permetterselo. Così, a parte le Spa o simili, la prevenzione non è mai partita. Se non a parole. E da sola, se ben organizzata, potrebbe ridare salute anche alla sanità italiana attirando turisti salutisti. Va bene, obietteranno i più, ma il tutto costa. E con i chiari di luna attuali come si fa? La soluzione c' è e ancora una volta viene da una ricchezza tutta italiana, tramandataci dagli antichi romani: le terme. Oltre 130 sono i centri termali della penisola, presenti in tutte le Regioni. Organizzazione invidiabile: massaggi, acque terapeutiche, fanghi, palestre, estetica e terapie varie. Con ambulatori, medici e fisioterapisti. Ricchezza che il mondo ci invidia, da rilanciare. Integrandole con nuovi servizi: la riabilitazione, la prevenzione, la terapia del dolore. A carico del servizio sanitario o dell' Inail, per quel che riguarda ciò che oggi si fa in ospedale: una «degenza» in albergo (con la giusta convenzione) costa la metà, al massimo i due terzi, di quanto un giorno in un ospedale pubblico (da 500 euro in su) senza il costo dei farmaci. Insomma una riabilitazione a cinque stelle, coccolati e facendo risparmiare la sanità... Non è poi impossibile. Ovviamente, con gli esami diagnostici che servono assicurati dall' Asl nelle strutture più vicine. E la terapia del dolore non oncologico di cui si sta ora organizzando la rete potrebbe essere assicurata, dopo la corretta diagnosi, da un medico specializzato che può usufruire dell' ambulatorio termale. Utopia? All' estero una nota catena alberghiera si sta interessando proprio alla terapia del dolore pensando di offrirla come servizio nelle sue Spa. Mario Pappagallo ______________________________________________________ TST 4 mag. ’11 TUTTO DA RIFARE CONTRO L’ALCOLISMO Il consumo di bevande alcoliche può ave re gravi conseguenze per la salute, che vanno dai traumi causati da incidenti stradali al cancro e alle malattie cardiovascolari. Il passaggio dal brindisi con gli amici alla dipendenza da alcol è subdolo e, per questo, spesso se ne trascurano i segni premonitori, scambiando per vizio quello che oggi. è un grande problema medico, sociale od economico a livello mondiale L'alcolismo, infatti, è ormai riconosciuto Come una malattia cionica,1 cui tratti salienti sono la ricerca ansiosa e l'uso compulsivo di alcol. Nonostante sia noto che componenti ambientali, soprattutto lo stress e alcuni tratti ereditari, giocano un violo fondamentale nel controllare la vulnerabilità individuale a diventare alcolisti, ancora non si conosce in che modo questi fattori interagiscano tra loro. Comprendere la natura di tale interazione è una delle sfide fondameli- tal/ della ricerca, perché aiuterebbe a sviluppare sia strategie preventive, sia rimedi farmacologici. Proprio questo è il tè- ma centrale del congresso internazionale «Alcoholism and stress: a framework for future trentnient and strategies», programma a Velterra da ieri fino al 6 maggio. Ai lavori, aperti da Kenneth Warren, direttore del «Niaaa», l'agenzia federale americana per lo studio dell'abuso di sostanze alcoliche, partecipano 150 scienziati provenienti da tutto il mondo. Tra quelli di maggior rilievo figurano la professoressa Judy Cameron dell'università di Pittsburgh (Usa), invitata a discutere del legame tra sensibilità allo stress e alcolismo, e il professor Rainer Spanagel dell'Istituto Centrale di Salute Mentale tedesco, con un intervento sulle nuove strategie terapeutiche per la prevenzione contro le ricadute. Le potenzialità future di trattamenti farmacologici ancora in sperimentazione clinica saranno discusse a conclusione del convegno, in una tavola rotonda a cui interverranno numerose aziende del settore, incluse le italiane CT laboratories, Ablycon ed Euroclone. L'italianità sarà rappresentata anche da Marisa Roberto, ricercatrice allo Scripps Institute di San Diego e organizzatrice del congresso con il collega George Koob. «La conferenza è il primo tentativo concreto a livello internazionale di mettere insieme ricerca di base e clinica per lo sviluppo di terapie preventive e curative dell' alcolismo», spiega la neurobiologa. Come lei, molti sono convinti che il segreto per sconfiggere questa malattia sia nascosto nelle origini biologiche del legame tra stress e dipendenza da alcol. Quello che chiamiamo stress è in realtà un insieme di reazioni che l'organismo avvia come risposta a situazioni snervanti o ritenute pericolose. A livello cellulare lo stress induce cambiamenti nel sistema ormonale e nell'attività di certe regioni del cervello, che poi si manifestano con effetti sia fisiologici, come l'aumento dei battiti del cuore, sia emotivi, come la sensazione di ansia. Gli studi su modelli animali hanno dimostrato che alcune delle alterazioni neurobiologiche dovute allo stress sono collegate anche all'insorgere dell'alcolismo. E' un'ipotesi che la dottoressa Roberto studia da alcuni anni, concentrandosi in particolare sull'amigdala, una piccola regione del cervello che in risposta allo stress rilascia il neurotrasmettitore «Gaba», il quale ha un effetto ansiolitico sul sistema nervoso. Anche l'etanolo stimola il rilascio di «Gaba» e, quindi, «un consumo continuo ed eccessivo di alcol ne aumenta drammaticamente il livello nell'amigdala e a lungo andare il cervello finisce con l'adattarsi, fino a non poter più fare a meno della sua "dose" di "Gaba"». Secondo la scienziata, questo meccanismo, che collega a doppio filo stress e alcolismo, potrebbe spiegare lo sviluppo della dipendenza da alcol e suggerire un modo efficace per bloccarlo. Originaria di Volterra, Marisa Roberto ha scelto come sede del congresso proprio la suggestiva cittadina toscana, che ha lasciato 10 anni fa per seguire la sua passione per la ricerca. La sua è una storia di successo. Nel 2010 è stata premiata dal presidente Barack Obama con il prestigioso premio «Pecase», il massimo riconoscimento conferito a ricercatori all'inizio della carriera. L'Italia non è stata da meno e, durante una cerimonia ufficiale nel corso della conferenza, la professoressa sarà insignita del cavalierato della Repubblica. Congratulazioni Marisal ______________________________________________________ Corriere della Sera 3 mag. ’11 FEMMINISTE DI SINISTRA SEDOTTE DALLO SCIENTISMO IL SAGGIO I PROGRESSISTI E I TEMI BIOETICI DAI CONTRACCETTIVI AI FIGLI IN PROVETTA LA DENUNCIA SI TENDE A LEGITTIMARE MANIPOLAZIONI BIOLOGICHE DI OGNI TIPO Il vuoto ideologico colmato dalla fiducia nella tecnica Il tragico caso Reimer Nato maschio, mutilato per errore fu allevato come una femmina ma si ribellò e poi finì per suicidarsi Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta il Partito comunista italiano (dal 1991 Partito democratico della sinistra) ha modificato radicalmente il proprio modo di guardare alle questioni morali connesse con la vita umana. Un giovane storico, Andrea Possieri, già autore di un eccellente lavoro sugli ultimi anni del Partito comunista, Il peso della storia. Memoria, identità, rimozione dal Pci al Pds (1970-1991), pubblicato dal Mulino, ha ora studiato come è avvenuto, passo dopo passo, questo Cambiamento di senso comune sui temi bioetici (così il titolo del suo saggio che esce nel libro, curato da Lucetta Scaraffia, Bioetica come storia. Come cambia il modo di affrontare le questioni bioetiche nel tempo, per le edizioni Lindau). Il racconto prende le mosse da una lettera pubblicata su «Noi Donne» il 3 dicembre del 1972. All' epoca la rivista - espressione dell' Unione donne italiane, un' organizzazione collaterale al Pci - era diretta da Giuliana Dal Pozzo e la pagina delle lettere serviva a dar conto alle lettrici (ma anche ai lettori) di un universo, quello femminile, in grande trasformazione. «Credo che la vera liberazione, la vera uguaglianza, può arrivare soltanto con la scienza e con la tecnica», scriveva Marianna T. su «Noi Donne». Per poi così proseguire: «Che cosa è che differenzia radicalmente l' uomo dalla donna e concede a lui di lavorare come vuole? Il fatto che lui non deve fare figli, non ha disturbi mensili, non ha da crollare sotto il peso della gravidanza o da allattare i bambini e così via. Ebbene si passi questa incombenza alle macchine, ovvero alle incubatrici. Prima o poi dovrà pur essere possibile mettere in un' incubatrice un uovo femminile e un seme maschile, e tornare nove mesi dopo a ritirare il bambino; se ne parla ancora per scherzo, ma non credo sia più difficile che andare sulla luna. A questo punto non ci sarebbero più che delle differenze insignificanti, fra l' uomo e la donna. Mi rendo conto che questa rivoluzione biologica sarebbe sconvolgente, per i suoi effetti psicologici; ma d' altra parte non mi sembra affatto necessario che, per il semplice gusto di restare "donna" nel senso tradizionale della parola, si abbia da soffrire anche fisicamente». Desta interesse, scrive Possieri, il fatto che una rivista come «Noi Donne», «certo non assimilabile al movimento femminista - che all' opposto, in quegli anni, polemizzava duramente con le scelte e le posizioni politiche dell' Udi - né tantomeno alle teorie filosofiche del femminismo radicale di marca anglosassone, accogliesse nelle sue pagine un richiamo a visioni politico-culturali del tutto estranee alla storia del movimento delle donne di estrazione marxista». In realtà qualcosa aveva già cominciato a muoversi tra il 1967 - all' epoca della commercializzazione (ma solo a scopo terapeutico) della pillola anticoncezionale di Pincus - e il 1968, anno del movimento studentesco nonché dell' enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, che condannava ogni forma di controllo delle nascite. «Noi Donne» - fino a quel momento incentrata sulle tradizionali rivendicazioni emancipazioniste - cominciò ad occuparsi dei temi relativi alla cosiddetta «maternità consapevole»: fecondazione in provetta, coppie di fatto. Fu in quel momento che un deputato socialista, Gianni Usvardi, iniziò una battaglia per cancellare il divieto di far propaganda a favore del controllo delle nascite. Affiancato in ciò dall' Associazione italiana per l' educazione demografica (nata a Milano nel 1953) presieduta da Luigi De Marchi. E soprattutto dal Partito radicale di Marco Pannella, al quale De Marchi aveva aderito. Nel marzo del 1971 la Corte costituzionale stabilì l' incostituzionalità dell' articolo 553 del codice penale, che vietava la propaganda e l' uso di qualsiasi mezzo contraccettivo, prevedendo fino a un anno di reclusione per chi si fosse reso responsabile di tale reato. Quella sentenza determinò una svolta. Ma ancora più importante fu il risalto che il periodico dell' Udi, nel gennaio del 1973, riservò all' attività del medico di Baltimora John Money, il quale per primo aveva formulato il concetto di identità di genere. Di che si trattava? Simone de Beauvoir nel suo famoso libro Il secondo sesso (Il Saggiatore) aveva scritto: «Donna non si nasce, lo si diventa». Money volle dimostrare scientificamente quell' assunto e ne nacque un libro dal titolo Uomo, donna, ragazzo, ragazza, edito in Italia da Feltrinelli. La dimostrazione si basava sul caso dei due gemelli Reimer, omozigoti nati in una cittadina canadese nel 1965. Che tipo di dimostrazione? Nel tentativo di circoncidere uno dei due piccoli, il medico aveva compiuto un errore e aveva provocato un danno irreparabile al pene del bambino. I genitori disperati si erano rivolti al dottor Money (che avevano visto in un programma tv nel corso del quale il medico aveva reclamizzato la propria capacità di trasformare l' uomo in donna) e gli avevano chiesto aiuto. Money era intervenuto sul neonato, gli aveva asportato i testicoli e gli aveva costruito chirurgicamente un organo genitale femminile. Gli venne anche assegnato un nome da bambina, Brenda. Da questo momento in poi Brenda, avendo un gemello con lo stesso patrimonio genetico, sarà la prova vivente che non sono i geni, bensì l' educazione e qualcosa di indotto - capelli lunghi, bambole, gonne, nastrini, vestiti di pizzo - a fare la donna (o l' uomo). «Noi Donne» scopre il «caso Money» e, per la penna di Giulietta Ascoli, dedica articoli su articoli alla questione, che acquista una valenza rivoluzionaria. Sulle pagine della rivista viene attribuita al dottor Money la prestigiosa qualifica di «uomo emancipato». La pubblicazione in Italia del libro di Money (che verrà tre anni dopo) consacrerà la tesi che l' essere maschio o femmina non è deciso dalla natura bensì dalla società. A questo punto si rende necessaria una breve digressione. Chi sia interessato a sapere come andò a finire quella storia, deve assolutamente leggere uno straordinario libretto di Giulia Galeotti (anche lei, tra l' altro, ha scritto, per Bioetica come storia, un interessante saggio; è sulla concezione dei disabili a partire dall' Ottocento: a un progressivo riconoscimento dei loro diritti è corrisposta la tentazione di disfarsi della loro costosa presenza attraverso tecniche di controllo prenatale). Il libro della Galeotti che si occupa del «caso Money» si chiama Gender Genere. Chi vuole negare la differenza maschio- femmina? L' alleanza tra femminismo e Chiesa cattolica ed è stato pubblicato poco tempo fa dalle edizioni VivereIn. Racconta di come il ragazzo di nome Brenda, dopo un po' , si sia istintivamente rifiutato di seguire la terapia ormonale del dottor Money, che avrebbe dovuto trasformarlo «definitivamente» in donna. Di come crescendo abbia preso sempre più i tratti del maschio e del fatto che, quando il padre gli rivelò la sua storia, abbia subito un autentico shock. Brenda decise a quel punto di amputarsi il seno e di assumere un nome maschile, David. Tentò una prima volta, senza successo, il suicidio. Si sottopose poi a un intervento per la ricostruzione del pene. Iniziò a uscire con le ragazze. Sposò Mary, già madre di tre figli. Ma David non riuscì a trovare un equilibrio. A questo punto raccontò la propria storia al giornalista John Colapinto per un libro che avrà successo negli Stati Uniti, ma non sarà tradotto in Italia. Finché, all' età di 38 anni, David-Brenda si uccise. Una storia spaventosa. Ma all' epoca in cui se ne occupa «Noi Donne» quello di Money sembra un esperimento perfettamente riuscito e la vicenda di David-Brenda viene presentata come un caso esemplare. Vengono poi (1978) la legge 194 sull' interruzione volontaria di gravidanza; la prima bimba concepita in provetta (Louise Brown, luglio 1978); il boom dell' ecografia (in uso al policlinico Gemelli di Roma già dal 1971). Per l' aborto, sulla rivista dell' Udi si dà grande risalto al metodo di aspirazione Karman, che viene presentato come «fisicamente poco traumatizzante», un intervento che richiede «un' attrezzatura abbastanza semplice» e «una spesa relativamente esigua»: una tecnica «sperimentata positivamente da molte donne», di per sé «in grado di eliminare angosce e paure». Un articolo racconta così l' arrivo in uno spazio Aied di un «giovane ostetrico» londinese esperto di Karman: «L' annuncio della sua presenza, il sapere che avrebbe operato ininterrottamente dalle otto del mattino alle nove di sera, ha richiamato all' ospedale una grande quantità di donne che speravano, dopo tante tribolazioni e pellegrinaggi inutili, di ottenere l' aborto». «Noi Donne» dà risalto alle ricerche dello psicanalista argentino Arnaldo Rascovsky, che «dimostrano» l' esistenza dell' apparato psichico del feto solo a partire dal quarto mese di vita. Ricerche che, provando «indirettamente» che prima del quarto mese non esiste una vita psichica del nascituro, confermano «la validità etica e giuridica della legislazione vigente» in materia di aborto. «Quello che soprattutto ci deve interessare», scrive la rivista comunista, «è questo: la scienza ci ha aiutato a sapere con certezza che entro il terzo mese l' aborto non è un fatto così traumatico come alcuni vorrebbero indurre a pensare». E siamo al referendum sull' aborto (17 maggio 1981). Per questa fase va menzionata un' altra rivista «più teorica» che fa capo direttamente alla sezione femminile del Pci: «Donne e Politica», nata nel 1969 su iniziativa di Adriana Seroni che la dirige fino al 1981. Secondo Possieri, «Donne e Politica» assomigliava soprattutto nel primo periodo della sua diffusione, dal 1969 al 1977, «più a un bollettino di stampo cominternista che a una moderna rivista politica; rigorosamente in bianco e nero, con un' impaginazione a colonne, senza nessuna presenza iconografica e con alcuni interventi concepiti come dei saggi con tanto di note esplicative, non si prestava, certamente, a una larga diffusione di massa (solamente a partire dal dicembre 1977 venne inserito, per la prima volta, del "materiale illustrativo" e furono tolte le note a fondo pagina)». Dura era la contrapposizione di questa rivista al movimento femminista e il tema dell' emancipazione femminile era strettamente collegato al rapporto tra le donne e il mondo del lavoro. Nell' agosto del 1980, quando ormai si capisce che il referendum sull' aborto non può più essere evitato, «Donne e Politica» pubblica un dossier sul tema in questione, preceduto da un duro editoriale della Seroni contro «radicali e clericali», contro Marco Pannella e Carlo Casini, accusati di aver voluto il referendum con «argomentazioni assai diverse» ma con un obiettivo comune: «la distruzione o il profondo snaturamento della legge sull' aborto». «Noi Donne», invece, si distingue per la capacità di portare in primo piano i temi bioetici. Di qui in poi il periodico dell' Udi è per circa un quindicennio «un grande incubatore di idee di valori, di esperienze umane e di progetti politici che ha avviato», sottolinea Possieri, «un processo di inculturazione politico-simbolica di issues e parole d' ordine, esterne alla tradizione del movimento operaio, che lentamente iniziano a innestarsi sul nucleo storico della cosiddetta identità comunista». Al referendum del 1981, come era già accaduto nel 1974 per il divorzio, il fronte laico vince. «Noi Donne» esulta. Solo nell' aprile del 1982 allorché presso l' Accademia delle Scienze di Parigi il professor Etienne-Emile Baulieu, allievo di Pincus, presenta la pillola Ru486 che «sostituendosi al progesterone» impedisce che l' ovulo fecondato si impianti «nell' utero», solo in quel momento il periodico dell' Udi solleva dubbi. Dubbi di ordine etico, perché «con questi preparati l' aborto sarebbe interamente gestito dalla donna, senza ospedalizzazione, senza traumi fisici, senza interferenze mediche, senza giudizi di chicchessia», quindi si sarebbe potuto correre il rischio di tornare all' aborto «privato» e di «perdere quanto dolorosamente e faticosamente» le donne avevano conquistato attraverso la legge sull' interruzione di gravidanza. Ma la rivista continua a svolgere un ruolo decisivo, una sorta di «avanguardia» politico-culturale «nella ricezione e nella diffusione dei temi bioetici rispetto ai tradizionali luoghi di elaborazione culturale dei due grandi partiti della sinistra». Questo ruolo di avanguardia è caratterizzato da tre nomi: in primo luogo Annamaria Guadagni, poi Mariella Gramaglia e infine Franca Fossati, che dirigono «Noi Donne» a partire, rispettivamente, dal 1981, dal 1985 e infine dal 1991. «Donne e Politica» si mette sulla scia di «Noi Donne», dapprima sotto la direzione di Lalla Trupia, che nel 1981 prende il posto della Seroni. Poi con Livia Turco che succede alla Trupia, diviene responsabile della sezione femminile del Pci (lo sarà anche nel Pds) e, dopo un vivace confronto con il Centro culturale Virginia Woolf di Roma, fa approvare dal Partito comunista il documento dal titolo «Dalle donne la forza delle donne. Carta itinerante» che accetta il pensiero della «differenza sessuale» elaborato dal gruppo milanese della Libreria delle donne. E qui riprende la discussione sulla pillola Ru486, sulla quale erano stati avanzati i dubbi di cui si è detto. Verso la fine degli anni Ottanta, quelle obiezioni iniziali vengono considerate non più attuali. E si allargano le frontiere entro la quali la nuova etica fa proseliti. «Noi Donne» intervista la sottosegretaria alla sanità, la socialista Elena Marinucci, che dichiara di aver sollecitato la casa farmaceutica Roussel-Uclaf «a rendere disponibile in Italia la pillola per abortire». Nel 1987 l' Udi promuove un sondaggio tra le proprie militanti nel quale il 27 per cento risponde di essere favorevole alle nuove tecniche di fecondazione assistita. Un' analoga indagine, l' anno successivo, vede salire questa propensione al 60 per cento. «In definitiva», scrive Possieri, «quello che si delineò tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta fu l' incontro sul terreno comune dei temi bioetici tra almeno tre differenti tradizioni politiche: innanzitutto, la cultura femminista e quella emancipazionista che avevano trovato una nuova sintesi politico-simbolica nella Carta delle donne; in secondo luogo, la cultura politica di marca liberal-socialista che propose un nuovo patto sociale per una ridefinizione dell' etica pubblica ed elaborò un concetto di bioetica laica che includeva al suo interno molte battaglie tipiche del femminismo; e, infine, la cultura politica d' estrazione gramsciana che, dopo aver visto nascere la discussione di questi temi bioetici all' esterno del Pci, finì per essere il luogo politico che ne avrebbe ereditato le idee e i progetti, soprattutto dopo lo shock sistemico del 1989-1993». Con il marxismo in crisi, «alla bioetica veniva affidata, dalla nostra "era delle incertezze", non solo la missione di strutturare una logica di razionalità laica che risolvesse le questioni specifiche della disciplina, ma anche il compito di proiettare le aspettative più in là, chiedendo a questa stessa razionalità laica di fungere da paradigma interpretativo per affrontare dilemmi etici di ogni tipo». Gli interventi su «MicroMega» e su «Notizie di Politeia» di Remo Bodei e Maurizio Mori, assieme alle tesi di Umberto Veronesi (esposte nel libro Colloqui con un medico, a cura di Giovanni Maria Pace, pubblicato da Longanesi), diedero corpo dottrinale a nuove forme di pensiero laico. Nuove? Queste forme di pensiero in realtà riportavano alla luce «la forma primigenia e aggiornata del marxismo ottocentesco, ovvero lo scientismo»; si assisteva così alla nascita di una costruzione politico-culturale che, è opinione di Possieri, «prevedeva non solo la creazione di un' opinione pubblica favorevole a ogni innovazione tecnico-scientifica, ma anche uno slittamento delle opinioni morali, che si muovevano verso una sempre maggiore apertura al relativismo». È lo slittamento morale di cui ha efficacemente trattato Jacques Ellul ne Il sistema tecnico (Jaca Book). Cioè - come scrivono nella prefazione a Bioetica come storia Sergio Belardinelli, Edoardo Bressan e Lucetta Scaraffia - «la tendenza tipica delle società tecnologiche ad accettare sempre in modo acritico le innovazioni tecniche, anche se, alla nascita, sono oggetto di condanna generale». Dopo un certo lasso di tempo, in genere cinque o dieci anni, «la novità sembra divenuta inevitabile e la spinta a essere moderni fa il resto inducendoci ad accettarla, anche se le riserve non sono sciolte». A provocare questo mutamento «è il confronto con gli altri Paesi, dove spesso le novità sono accettate in anticipo; e se altrove hanno dato cattiva prova, nella loro attuazione, non se ne tiene conto». È la tendenza a fare della scienza un' ideologia, forse l' unica sopravvissuta, e quindi ad affidare alle tecnica il compito di creare nuovi valori, una nuova etica del comportamento. «Una proposizione morale», scrive Ellul, «verrà considerata valida per un dato periodo solo se sarà conforme al sistema tecnico, se concorderà con esso». Anche se molto spesso, dopo anni, si scopre che i sospetti della prim' ora erano più che fondati e le obiezioni iniziali resistono al tempo che è trascorso. La resistenza iniziale, sostengono i tre prefatori a Bioetica come storia, molto spesso si basava su buone ragioni, a dispetto della circostanza che poi, rapidamente, queste ragioni sono state accantonate. Ricordarle a cose fatte, quando probabilmente l' innovazione è stata accettata ed è diventata «normale», è sempre utile, perché offre una base critica per osservare le trasformazioni che la tecnica ci impone, e un pensiero critico nei confronti delle innovazioni tecnoscientifiche è molto difficile da elaborare». La tecnica, fa notare Ellul, proprio quando sembra che risolva problemi, ne crea ogni volta di nuovi, «e ci vuole sempre più tecnica per risolverli». Tutto ciò nella storia dell' ex Pci è servito a dare nuova linfa alla pianta primigenia che si era essiccata. «Il progressismo etico, l' entusiasmo per le tecnoscienze, ogni tecnologia che sembri confermare e rafforzare la libertà femminile», scrivono Belardinelli, Bressan e Scaraffia, «si sono infatti rivelati utili per riempire il vuoto ideologico con cui si è trovata improvvisamente a fare i conti la sinistra, e sono stati quindi accolti con favore dalle stesse persone che fino a poco tempo prima li guardavano con diffidenza». E non è detto, sostengono sia pure in modo non esplicito autore del saggio e prefatori del libro, che con questo «riempimento del vuoto» la sinistra ci abbia guadagnato. paolo.mieli@rcs.it RIPRODUZIONE RISERVATA **** Riflessioni per capire come cambia la morale Bibliografia Il saggio di Andrea Possieri sui mutamenti di orientamento della sinistra rispetto a temi come l' aborto, la contraccezione e la procreazione assistita è incluso nel volume Bioetica come storia. Come cambia il modo di affrontare le questioni bioetiche nel tempo (Lindau, pagine 247, Euro 23), che esce in libreria dopodomani, 5 maggio. Il volume, curato da Lucetta Scaraffia, contiene anche scritti di Emanuele Colombo, Giulia Galeotti, Lorenza Gattamorta, Francesco Tanzilli. A Giulia Galeotti si deve anche il saggio Gender Genere, edito lo scorso anno dall' editore VivereIn. Da segnalare anche il libro di Jacques Ellul Il sistema tecnico, uscito in Francia nel lontano 1977 e tradotto in Italia nel 2009 da Jaca Book. **** 1971 Una sentenza della Corte costituzionale, emessa nel marzo 1971, cancella l' articolo 553 del codice penale, che vietava la propaganda e l' utilizzo di ogni mezzo contraccettivo **** 1981 Viene sottoposta a referendum la legge 194 del 1978 sull' interruzione volontaria della gravidanza. Il tentativo di modificare le norme sull' aborto in senso restrittivo viene respinto con il 68 per cento di No **** **** L' inventore **** Dibattito La rivista «Donne e Politica» del Pci, diretta da Adriana Seroni (nella foto in alto), attaccò i radicali di Marco Pannella (nella foto al centro) sul tema dell' aborto Sociologo, teologo e ambientalista, il protestante francese Jacques Ellul (nella foto più in basso), scomparso a 82 anni nel 1994, criticava la tendenza della società attuale ad accettare con l' andar del tempo tutte le innovazioni tecnologiche, aggirando o rimuovendo le pur fondate obiezioni inizialmente avanzate contro la loro adozione Mieli Paolo ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 mag. ’11 IL MERCATO (IMPOSSIBILE) DEGLI ORGANI di GIUSEPPE REMUZZI «H o due bambinimeravigliosi, mio marito ha perso il lavoro, vorrei dare un rene a una persona che ne ha bisogno, vado anche in America se serve» . Cosa si può rispondere a una lettera così? Le solite cose: «Quello che lei propone non si può fare per legge, né in Italia né negli Stati Uniti. Dove lo fanno come in India, Pakistan o Paesi Arabi non ci sono garanzie per chi dona ...» e poi «coraggio, le difficoltà si superano, vorrei poterla aiutare» . Ma cosa se ne fa una persona senza soldi con due bambini piccoli di una risposta del genere? Rispondo comunque, ma non mi sento a posto. Continuo a pensare alla signora dei due bambini poi me ne dimentico. Fino alla prossima lettera: «Ho 40 anni, bella, sana, pulita, ho 1 figlia bellissima e 1 figlio grande che guadagna 800 euro al mese, vorrebbe un bar piccolino tutto suo ma le banche non lo aiutano, con gli strozzini ho perso tutto, anche il marito. Vendo 1 rene, il prezzo è 254 mila euro. Mi chiami la prego, sono vicina a fare un brutto gesto» e c’è un numero di telefono. Cosa faccio, chiamo? E per dire cosa? Che non si può, che la legge lo proibisce, che non sarebbe giusto? Faccio finta di niente, in fondo quella lettera così vera — «1 figlia bellissima» , «1 rene» — potrei anche non averla ricevuta, alla fine non chiamo. Ma sto male, e anche adesso nel rileggerla (e se il brutto gesto l’avesse fatto davvero?). «Nella mia anima c’è un disperato bisogno di ricostruirmi un futuro» . Questa volta è un uomo di 40 anni che scrive. E io: «Lo tenga il suo rene, non si sa mai cosa può succedere» . C’è anche un donatore di sangue «sanissimo» che vuole vendere un rene: «Lei non può capire il mio calvario e le umiliazioni che ricevo ogni giorno» . Un signore non più giovane scrive: «Non sono mai stato malato, non bevo, non fumo, mangio quasi solo frutta e verdura» . E io di nuovo a tutti e due: «Vendere un rene in Italia non si può, non posso fare niente per aiutarla è un’attività illegale» . Se rispondo mi sento ridicolo, e se non lo faccio è come se togliessi a chi mi scrive anche l’ultima ragione per sperare. In questi giorni il Los Angeles Times ha pubblicato un articolo con questo titolo: «Cosa succederebbe se il mercato degli organi fosse regolamentato per legge?» . «Se i reni si potessero vendere e comperare e se fosse per legge, tante persone povere avrebbero di che vivere e molti ammalati risolverebbero i loro problemi, allora perché non farlo?» si chiede Jessica Ogilvie che ha scritto quell’articolo. Così prova a intervistare due esperti: «Negli Stati Uniti ci sono quasi 90 mila persone che aspettano un organo ma il trapianto lo fanno in meno di 18 mila all’anno — dice Benjamin Hippen, un nefrologo di Charlotte in North Carolina — per quanti sforzi facciamo per ottenere reni da cadavere non riusciremo mai a soddisfare le necessità di tutti. Se ci fosse una legge che regola la compravendita dei reni avremmo molti più organi, i medici potrebbero scegliere i donatori migliori e chi compra un rene avrebbe un organo sicuro. Non solo, il sistema sanitario risparmierebbe miliardi di dollari ogni anno» . Francis Delmonico che è professore di chirurgia alla scuola di medicina di Harvard la pensa in modo completamente diverso: «Capisco le buone intenzioni di chi vorrebbe regolamentare il mercato degli organi, ma se negli Stati Uniti lo facessimo per legge sarebbe come dire che lo si può fare dappertutto, India, Cina, Bangladesh per esempio. E allora i rischi di epatite, tubercolosi e tumori sarebbero molto alti. Questa cosa non va fatta, per nessuna ragione. Fra l’altro nel mercato degli organi ci guadagnano solo i ricchi, per i poveri è sempre un dramma» . Delmonico ha ragione. Ma se uno è disperato, ragione e buoni argomenti servono a poco. Una donna povera del Sud dell’India ha venduto un rene per 32.500 rupie, poco più di duemila euro, la storia si può trovare su Berkeley Organs Watch News. Lavora come domestica, il suo lavoro è pagato molto poco, il marito è disoccupato. La signora ha cinque figli piccoli. Da più di dieci anni vendere organi è fuori legge sia in India che in Pakistan. Il solo risultato è che adesso è tutto più difficile, comprare un rene costa di più: chi organizza questa attività, ora illegale, vuole più soldi e a chi vende un rene di soldi ne vanno sempre meno. La signora del Sud dell’India adesso vive ancora nei debiti. I soldi che le sono arrivati dalla vendita del rene sono finiti nel giro di pochi anni. Le è stato chiesto se, potendo tornare indietro, l’avrebbe rifatto. Lei, nonostante tutto, ha risposto: «Lo rifarei, e se di reni ne avessi tre, l’avrei fatto due volte» . No, non possiamo accettare che ci sia compravendita di organi, nemmeno regolamentata per legg ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 mag. ’11 INFEZIONI OSPEDALIERE: IGIENE ANCORA TROPPO SCARSA In Europa, ogni anno, più di 4 milioni di pazienti sono colpiti da circa 4,5 milioni di episodi di infezioni ospedaliere legate alla cura, che provocano 16 milioni di giorni di ulteriore permanenza in ospedale, 37 mila decessi e costano 7 miliardi l’anno. Ma per evitare queste infezioni in molti casi basterebbe lavarsi correttamente le mani. Lo ricorda l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) nella giornata sul tema dell’igiene delle mani «The save lives: clean your hands» . La soluzione? Frizionare con il sapone per 20-30 secondi e lavare, sfregare e asciugare per un totale di almeno 40-60 secondi: tanto basta per lavarsi correttamente le mani ed evitare le pericolose infezioni «ospedaliere» legate all’assistenza sanitaria. E in Italia? I dati più attendibili arrivano da un’indagine in 50 ospedali condotta dal microbiologo Antonio Cassone per l’Istituto superiore di sanità. Ogni anno circa 400 mila persone vengono colpite da infezioni ospedaliere: polmoniti, setticemie e infezioni da catetere le più comuni. Il 2 per cento dei pazienti che contraggono un’infezione in corsia muore. ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 mag. ’11 COSÌ LA MEDICINA STA DIVENTANDO «2.0» Informazione Il rapporto fra curante e curato al vaglio della rivoluzione digitale Il rapporto fra curante e curato al vaglio della rivoluzione digitale Reti sociali e blogterapia A ddio Hercy! scrive Mamiga e continua: «L’ultimo Hercy è la fine delle terapie in infusione per il tumore. È un capitolo che si chiude, prima che se ne apra un altro, quello dei controlli periodici» . Hercy è l’Herceptin, uno dei farmaci più usati nella cura del cancro al seno. Mamiga è una mamma di due bambini che racconta un anno di convivenza con la sua malattia nel blog oltreilcancro. it, insieme ad altre (per lo più) giovani malate. Con lei c’è Innoallavita che ci dice: «Vogliamo parlare delle nostre difficoltà e angosce quotidiane. La blogterapia è una grande risorsa per patologie come la nostra» . Blogterapia, anche il web può aiutare i pazienti: oltreilcancro. it è un esempio, ma ce ne sono molti altri. Ma perché le persone parlano online dei loro mali? «Il sentirsi protagonisti aiuta a uscire meglio dalla malattia -commenta Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze all’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. -Quest’ultima costringe all’impotenza e alla solitudine, mentre il rapporto con gli altri, attraverso i social network, può aiutare a ricreare la stima di sé» . Uno dei blog più famosi, negli Usa, è CarePages. com: pazienti ricoverati in ospedale, ad esempio, aggiornano familiari e amici sulle loro condizioni. Blog, forum e social network (come Facebook, Twitter o YouTube), tutti strumenti del «web 2.0» , stanno rivoluzionando la vita dei pazienti, il lavoro dei medici, l’attività di ricerca scientifica, il rapporto medico-paziente, l’informazione in sanità. Tutto è cominciato nel 2006 negli Stati Uniti e, da noi, più o meno l’anno scorso, con il passaggio dal web tradizionale (il «web 1.0» ) al web 2.0. Se il web 1.0 era qualcosa di statico e il flusso dell’informazione era unidirezionale, con il web 2.0 le cose cambiano: l’utente viene messo al centro dei servizi e può interagire con altri. «I blog sono stati i primi a partire— spiega Eugenio Santoro responsabile del Laboratorio di Informatica Medica all’ Istituto Mario Negri di Milano —. Sono spesso gestiti da pazienti e consentono, sostanzialmente, uno scambio di storie e di esperienze. Offrono un supporto che i medici difficilmente garantiscono dopo le dimissioni dall’ospedale» . Uno degli svantaggi del blog è che gli spunti di discussione nascono da chi lo gestisce. I social network (reti sociali), sono più democratici: chiunque può lanciare uno spunto che diventa argomento di discussione della "community". «Quando si parla di social network — continua Santoro che ha appena pubblicato il libro «Facebook, Twitter e la Medicina» (Pensiero Scientifico Editore) — si pensa subito a quelli generalisti tipo Facebook, ma i social network in ambito medico non sono questi; sono realizzati su piattaforme più controllate (per esempio Ning) e mettono a disposizione strumenti capaci di facilitare l’interazione di varie persone con uno stesso problema» . Persone che, in genere, sono affette da qualche malattia, spesso cronica, come il diabete, come l’asma. Un esempio per tutti: Pazienti. org, nato sulla falsariga dell’inglese PatientOpinion. org. Ma non ci sono solo siti che aggregano pazienti. Ci sono anche quelli come Mammeonline. net che parlano di gravidanze e neonati, come Traineo. com o FatSecret. com o Diettv. com che suggeriscono diete a chi vuole perdere peso. In Italia stanno cominciando a nascere, negli Stati Uniti sono già una realtà consolidata. Uno dei social network americani più famosi è PatientsLikeMe. com che raccoglie quasi 100 mila pazienti. «I social network sono l’evoluzione dei forum (gestiti da qualcuno che risponde a delle domande ndr)» puntualizza Santoro. Questi ultimi sono rigidi, permettono di partecipare a una discussione, ma non consentono una interazione fra pari al contrario dei social network, che, inoltre, sono più flessibili: permettono di linkare un video di YouTube, un’immagine di Flickr, una serie di diapositive di SlideShare, di rilanciare un articolo letto su una rivista scientifica, sempre attraverso un link. La novità del web 2.0 è, dunque, la condivisione dell’informazione attraverso strumenti altamente tecnologici. Anche Facebook ospita pagine mediche (una si chiama "cellula cancerosa") che sono pubbliche: possono, cioè, essere viste da tutti e non richiedono l’"amicizia"(per accedere, invece, a una pagina "personale"del tizio X o del gruppo Y, occorre chiedere la possibilità di accesso, cioè l’amicizia, al tizio X o a Y). E Facebook ha un grande impatto in termini di informazione sanitaria. Ai tempi dell’influenza H1N1, questo social network, in Italia, ha contribuito al flop della vaccinazione (nella discussione è prevalsa la paura degli effetti collaterali da vaccino). Oggi, però— continua Santoro— Facebook e Twitter sono più utilizzati come social media, cioè come strumenti di propagazione dell’informazione, anche medico-sanitaria, che ha origine da altri media, compresi quelli tradizionali, come giornali e canali TV (che infatti hanno aperto pagine su Facebook per diffondere i propri contenuti ndr)» . «L’informazione rimbalza attraverso le reti di amicizia — spiega Santoro —. Ecco perché chi fa informazione sanitaria ha interesse ad aprire un canale Facebook o Twitter» . Twitter funziona come Facebook, ma con due vantaggi: i suoi canali sono pubblici (non si deve chiedere l’"amicizia") e i messaggi sono al massimo di 140 caratteri: per questo possono viaggiare sotto forma di Sms anche attraverso i cellulari di vecchia generazione. Le associazioni di pazienti, per esempio, usano molto Facebook e Twitter per cercare nuovi adepti o per farsi conoscere. E anche per la raccolta fondi: il sistema funziona. Adriana Bazzi abazzi@corriere. ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 mag. ’11 ECCO DOVE SI CONFRONTANO GLI SPECIALISTI I social network si fanno strada anche fra i medici italiani. Stiamo parlando dell’uso professionale di questi strumenti, con una serie di obiettivi che vanno dal confronto per una seconda opinione (cioè un giudizio di un medico diverso da quello che ha formulato una diagnosi o indicato una cura), alla discussione di casi clinici complessi, dallo scambio di informazioni su nuove ricerche e nuove terapie alla formazione professionale collettiva. Gli Stati Uniti hanno fatto scuola: Sermo, lanciata nel 2006, è la più grande community di medici creata dai medici. In Italia ne sono nate alcune. Una è esanum. it (deriva da un’esperienza tedesca) e conta circa 5 mila iscritti; un’altra è linkaiom. it, un’emanazione della Società italiana di oncologia medica; un’altra ancora, inderma. it è dedicata alla dermatologia. Da citare anche dottnet. it, destinato anche a farmacisti e operatori sanitari, e doctorsbook. it. Ma i dottori su Facebook non accettano i pazienti come «amici» I medici non vogliono i loro pazienti come "amici", ma non lo vogliono nemmeno i pazienti. Almeno su Facebook. Un'indagine condotta nel 2010 dal Journal of Medical Ethics su oltre 400 medici dell'Ospedale universitario di Rouen, in Francia, fornisce un paio di informazioni interessanti. La prima è che il 73%dei medici ha un profilo su Facebook, anche se con molte più limitazioni di accesso rispetto alla media degli utenti, pubblica informazioni reali sulla propria vita e fotografie personali, nonostante sia, più di altri, attento alla propria privacy. La seconda è che l’ 80%dei medici rifiuterebbero una eventuale richiesta di amicizia in rete da parte dei propri pazienti. Ma, del resto, sono anche pochissimi i pazienti che la richiederebbero: soltanto sei su cento. Perché questo rifiuto da parte dei medici? Innanzitutto per la voglia di mantenere le distanze e il desiderio di proteggere i propri dati personali, poi per la convinzione che questa interazione non sarebbe corretta da un punto di vista etico. I social network, dunque, non sembrano favorire il dialogo virtuale fra i sanitari e i loro assistiti e i medici ritengono che accettare una loro richiesta di amicizia difficilmente si tradurrebbe in una forma di assistenza medica. Non solo: i medici hanno anche una scarsa propensione a comunicare, con i loro pazienti, attraverso la posta elettronica. In questo caso è una ricerca americana condotta dal Center for Studying Health System Change (è una delle più importanti organizzazioni americane che valuta l'impatto delle nuove tecnologie in ambito medico) a illustrare la questione. Primo dato: soltanto il 6,7%dei medici è in contatto con i pazienti grazie all'e- mail. Secondo: la percentuale arriva al 14,9%se si parla di contatti occasionali. — si pensava che l'information technology avrebbe potuto migliorare la comunicazione medico-paziente, ma non è così. E non è un problema di ritardo tecnologico o scarso interesse verso questo genere di comunicazione che, invece, i medici usano per accedere a referti clinici, per dialogare con i loro pari su casi clinici, per ricevere segnalazioni di articoli pubblicati dai media) o nella letteratura scientifica (grazie a Feed RSS, il "postino automatizzato" che si attiva e recapita informazioni, non per posta elettronica, ma su un sito "aggregatore di notizie" che diventa così un "giornale scientifico" personalizzato). I medici non lo fanno per altri motivi (dice ancora la ricerca): il timore di un sovraccarico di lavoro, per leggere e rispondere alle mail, non retribuito; la mancanza di un contatto diretto; la scarsa fiducia in questo genere di strumenti e nel loro effettivo impatto sulla qualità della cura e soprattutto la preoccupazione per la privacy dell'assistito. Ma che cosa ne pensa il Presidente della Simg, la Società dei medici generalisti? «Non bisogna confondere — dice Claudio Cricelli —. Non si deve essere amici del paziente, ma medici del paziente e la familiarità, che fa parte del rapporto, non va confusa con l’amicizia. Quindi, bene la mail se si limita all’ambito professionale» ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 mag. ’11 VOTO A OSPEDALI E FARMACI Siti in cui si danno giudizi come sugli hotel Per analogia con TripAdvisor, il sito che dà il voto agli hotel, l’hanno chiamato HospitalAdvisor, per assegnare punteggi agli ospedali e ai dottori in ogni parte del mondo, anche in vista del sempre più diffuso "turismo sanitario". Per ora è in lingua inglese, ma siti del genere arriveranno anche da noi. Già si notano le prime avvisaglie. Negli Usa il rating, cioè l’attribuzione di un punteggio a tutto quello che si può classificare, è un’abitudine consolidata. Da sempre si stilano le "Top Ten"degli ospedali, che tradizionalmente vengono pubblicate da settimanali tipo U. S. News. Lo stesso vale per i medici: in tutte le librerie d’America o su Amazon. com (la libreria virtuale) si trovano pubblicazioni, come America’s Top Doctors, dove i sanitari sono giudicati in base alle loro performance. Anche in Francia c’è questa tradizione e da anni riviste, come Le Point, pubblicano il Palmarès des hopitaux. Ma Internet è più agile: sono moltissimi i siti, soprattutto americani, come healthcarere-views.com, bestdoctors. com o RateMDs. com dove si classificano le strutture sanitarie e l’operato dei medici secondo vari parametri. «Anche da noi esistono indicatori — spiega Eugenio Santoro, responsabile del Laboratorio di Informatica Medica dell’Istituto Mario Negri di Milano — che servono per misurare le performance degli ospedali. Tempo fa il Ministero della Salute aveva dato vita al progetto Mattoni con questo obiettivo, ma in generale gli indicatori vengono utilizzati in politica sanitaria per individuare quello che non funziona e migliorarlo e non sono resi pubblici. Unica eccezione la Regione Lazio» . Morale: quando esiste una lacuna dell’informazione da parte del servizio pubblico, è prevedibile che gli strumenti del web 2.0 finiranno per colmarla: saranno i cittadini a stilare le loro classifiche. Commenti sull’operato degli ospedali e dei medici circolano già in rete, nei social network dei pazienti, tipo pazienti. org o anche nei siti delle struttura sanitarie, che hanno cominciato a crearsi un profilo su Facebook o su Twitter dove è possibile esprimere un "mi piace"sulle loro iniziative. E ci sono anche siti dedicati come QSalute. it. I due sistemi, quello organizzato dalle istituzioni per informare sulle proprie attività e aperto anche ai commenti del pubblico, e quello dei cittadini, hanno entrambi pro e contro. Il primo è più attendibile, ma è sterile proprio perché spesso (tranne eccezioni) manca il giudizio del cittadino; il secondo colma la lacuna, ma rischia di essere troppo arbitrario. In Gran Bretagna, il National Health System, il sistema sanitario nazionale, ha risolto il problema, mettendo insieme le due cose all’indirizzo nhs. uk/choice dove vengono forniti sia i dati di performance delle diverse strutture, sia i commenti dei cittadini. — che impatto può avere tutto questo sulla scelta del medico o della struttura sanitaria? Il timore è che qualcuno possa screditarli online. A volte avviene, tanto che alcuni medici accusano questi siti di scarsa eticità e si stanno preoccupando di costruire contro-siti per promuovere la propria immagine. Altri, invece, li vedono di buon occhio, perché possono anche incrementare il numero di pazienti. Da alcune indagini americane, però, risulta che pochi pazienti cambiano il medico o l’ospedale sulla base dei giudizi trovati su Internet. Nel frattempo sta emergendo un altro problema: l’abitudine di dare il voto ai farmaci. Il sito americano RevolutionHealth, creato dall’ex Segretario di Stato Colin Powell, lo fa, con conseguenze ancora tutte da valutare. A. B ______________________________________________________ Corriere della Sera 8 mag. ’11 CURE IN EUROPA: TROPPI I RITARDI Non poter accedere alle cure necessarie, non poter scegliere dove riceverle, attendere troppo tempo per fare una visita o un intervento chirurgico. Diritti dei pazienti europei ancora violati, secondo una recente indagine realizzata nei Paesi dell’Unione dal Network Active Citizenship— che raggruppa le organizzazioni civiche di tutta Europa (Cittadinanzattiva per l’Italia) — e presentata a Bruxelles in occasione della recente Giornata europea dei diritti del malato. Dai risultati del monitoraggio sull’applicazione della Carta europea dei diritti dei pazienti risulta che nessuno dei 20 Paesi monitorati, compreso il nostro, li rispetta tutti e quattordici. Nella classifica dei diritti maggiormente violati, la maglia nera va ancora una volta al mancato rispetto del diritto al tempo. «Rispetto alla precedente indagine del 2007 la situazione purtroppo non è migliorata — commenta Teresa Petrangolini, direttore del Network Active Citizenship — . È vero che ci sono poche risorse economiche, ma è scandaloso che anche diritti che non costano nulla, come quello all’informazione o alla privacy, non siano rispettati» . «La scelta del cittadino non è libera davvero se le cure riconosciute e alle quali si può accedere gratuitamente sono soltanto una parte — aggiunge una delle curatrici del rapporto, Rosapaola Metastasio— . Il diritto a scegliere tra servizi e strutture sanitarie è di fatto violato in 16 Paesi europei, nonostante le diverse sentenze e la recente direttiva europea sulla mobilità dei pazienti che obbliga gli Stati ad adottarla entro un anno» . Secondo l’indagine, ottenere cure ordinarie (non in caso di emergenza, quindi) senza preventiva autorizzazione in altri Paesi Ue è possibile solo in Belgio, Francia, Germania, Grecia, Regno Unito, Spagna, Bulgaria e Romania. Quanto all’accesso all’assistenza, in 12 Paesi è un diritto violato sistematicamente: ricevere cure adeguate dipende anche dal luogo di residenza o dal tipo di malattia. Chi, per esempio, soffre di una malattia rara è costretto a spostarsi da un luogo all’altro (anche all’estero) per trovare un centro specializzato: accade pure a pazienti italiani. Dall’indagine risulta inoltre che i cittadini di molti Paesi spesso ancora non sono abbastanza informati su quali siano esattamente i propri diritti. E, se i diritti non sono conosciuti, è difficile poi che vengano reclamati. Maria Giovanna Faiella ______________________________________________________ Sanità News 7 mag. ’11 E' UN GENE LEGATO AL TRASPORTO DELLA SEROTONINA LA PREMESSA PER LA FELICITA' Sarebbe un gene a determinare quanto una persona e' soddisfatta della propria vita. Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Journal of Human Genetics, secondo cui, coloro che lo ereditano da entrambi i genitori, hanno il doppio della probabilita' di vivere la sensazione di essere felici. Per arrivare a queste conclusioni un gruppo di ricercatori della London School of Economic ha chiesto a 2.500 persone di esprimere il loro grado di soddisfazione rispetto alla propria vita. Dall'analisi del Dna dei soggetti e' emerso che quelli che hanno una doppia versione del gene 5- HTT, coinvolto nel trasporto della serotonina, si dicono felici nel 69% dei casi, mentre in quelli che non ne hanno nessuna copia la percentuale scende alla meta'. "Ovviamente non e' un gene a determinare il nostro benessere - hanno commentato gli esperti - ma questa e' una dimostrazione del fatto che c'e' una 'linea di base' determinata, che spiega ad esempio perche' alcune persone sono naturalmente piu' felici e altre no". ______________________________________________________ Sanità News 6 mag. ’11 IN GRAVIDANZA E' IMPORTANTE LO SCREENING DELLA TIROIDE Importante tenere sotto controllo la tiroide durante la gravidanza. E' quanto e' emerso da uno studio presentato da Eliska Potlukova della Charles University di Praga (Repubblica Ceca) durante il Congresso Europeo di Endocrinologia conclusosi a Rotterdam (Paesi Bassi) nei giorni scorsi. La ricerca ha visto coinvolte 200 donne sottoposte a diversi esami alla tiroide prima e dopo il parto. Dallo studio e' emerso che, pur in assenza di sintomi, meta' delle donne risultavano predisposte al rischio di problemi alla tiroide per la presenza di un particolare marcatore nel sangue, e che nei due anni successivi al parto un terzo del campione esaminato ha effettivamente poi sviluppato problemi alla ghiandola. Per questi motivi, sostiene la studiosa, ''Ogni donna, prima di rimanere incinta, dovrebbe sottoporsi a degli esami per essere sicura del corretto funzionamento della propria tiroide ______________________________________________________ Sanità News 4 mag. ’11 EMERGENZA-URGENZA: RIDURRE I CODICI BIANCHI E ADEGUARE GLI ORGANICI Le Organizzazioni Sindacali della dirigenza medica e della medicina convenzionata hanno condiviso le linee di intervento esposte dal Ministro della Salute Ferruccio Fazio nell’incontro che si è svolto in merito alla riorganizzazione del sistema di emergenza-urgenza. In modo particolare è stato condiviso l’obiettivo di ridurre l’afflusso dei codici bianchi e verdi attraverso una maggiore integrazione tra ospedale e territorio, ma anche la necessità di lavorare in un’ottica di sistema. Il vero problema dei Pronto soccorso oggi è l’eccesso di domanda di ricovero soprattutto nell’area medica per cause epidemiologiche e demografiche cui si è accompagnata negli anni una progressiva riduzione del numero dei posti letto per acuti e di personale dedicato, specie nelle Regioni soggette ai piani di rientro. Le Organizzazioni Sindacali hanno sottolineato al Ministro la necessità di risposte urgenti soprattutto in merito al problema degli organici, procedendo anche a rivedere le linee guida che governano il sistema dagli anni ’90. ______________________________________________________ Sanità News 4 mag. ’11 PER MANTENERE GIOVANE IL CERVELLO OCCORRE DORMIRE TRA LE 6 E LE 8 ORE 0001 (Sn) - Roma, 04 mag. - Gli adulti che dormono meno di sei o piu' di otto ore per notte rischiano di vedere il cervello invecchiare 4-7 anni prima del tempo. E' quanto emerge da uno studio pubblicato su Sleep dai ricercatori della University College London Medical School di Londra (Gran Bretagna). La ricerca, condotta su 5.431 partecipanti di mezz'eta', ha dimostrato che i soggetti che 5 anni dopo l'inizio dello studio dormivano un'ora in piu' o una in meno avevano ottenuto punteggi piu' bassi nei test cognitivi, rispetto a chi non aveva sempre riposato da 6 a 8 ore a notte. Gli esperti hanno quindi calcolato che dormire meno o piu' del necessario puo' significare portare il cervello a usurarsi prima del tempo, e a invecchiare in anticipo di 4-7 anni. ______________________________________________________ Le Scienze 5 mag. ’11 UNA SOSTANZA NATURALE PER COMBATTERE IL DANNO DA RADIAZIONE Lo sviluppo di nuovi farmaci protettivi sarebbe estremamente utile sia in caso di incidenti nucleari sia per i pazienti sottoposti a radioterapia Una sostanza simile al resveratrolo - un antiossidante che si trova nel vino rosso, nell'uva e nelle noci - potrebbe svolgere un ruolo protettivo nei confronti dei danni biologici da esposizione alle radiazioni: il risultato viene riferito sulle pagine della rivista ACS Medicinal Chemistry Letters da Michael Epperly e Kazunori Koide dell' Università di Pittsburgh. Secondo quanto si legge nel lavoro l'esposizione alle radiazioni come quella del recente incidente giapponese della centrale di Fukushima o in seguito a radioterapia può dare un'ampia gamma di disturbi di diversa gravità e può anche essere letale se avviene in alte dosi. Negli Stati Uniti, la Food and Drug Administration sta attualmente valutando un farmaco contro la malattia da radiazioni che ha però l'inconveniente di essere difficilmente sintentizzabile in grandi quantità. Inoltre è affetto da effetti indesiderati che ne impediscono l'uso nei pazienti affetti da tumore. Per superare queste difficoltà, in quest'ultimo studio i ricercatori hanno verificato la possibilità che il resveratrolo potesse svolgere un ruolo protettivo nei confronto del danno da radiazione. Lo studio ha avuto risultati positivi con cellule in coltura ma non nel modello murino. Sui topi irradiati ha avuto successo invece una sostanza simile, denominata 3,5,4’-Tri-O-acetilresveratrolo, che ha il vataggio di poter essere facilmente prodotta in grandi quantità e di poter essere somministrata per via orale. (fc) ______________________________________________________ Le Scienze 3 mag. ’11 COME TRASFORMARE IL GRASSO "CATTIVO" IN "BUONO" Se si riuscirà a trasferire la metodica dal piano sperimentale a quello clinico, si avrà un nuovo efficace strumento per contrastare l'epidemia di obesità Silenziando, nel cervello di alcuni ratti, l'espressione di una proteina che si sa stimolare l'appetito, alcuni ricercatori della Johns Hopkins sono riusciti non solo a ridurre l'assunzione calorica da parte degli animali, ma anche a trasformare il loro grasso in una forma che più facilmente viene "bruciata" e trasformata in energia. "Se potessimo indurre il corpo umano a trasformare il 'grasso cattivo' in 'grasso buono' che brucia calorie invece di immagazzinarle, potremmo aggiungere un nuovo efficace strumento per contrastare l'epidemia di obesità", ha detto Sheng Bi, che firma con i colleghi un articolo pubblicato sulla rivista Cell Metabolism in cui è descritta la scoperta. Il tessuto adiposo bianco è quello che tipicamente si accumula attorno all'addome e in altri distretti corporei e che immagazzina le calorie di troppo che assumiamo. Le cellule di questo tessuto adiposo contengono una singola grande goccia di lipidi, come il colesterolo e i trigliceridi. Le cellule del tessuto adiposo bruno contengono invece molte goccioline di lipidi ciascuna delle quali è affiancata da elementi cellulari che ne consentono un agevole utilizzo ai fini della generazione di energia, e proprio per questo il grasso bruno è considerato grasso "buono". Normalmente i bambini possiedono una buona scorta di tessuto adiposo bruno alla nascita, che funge da difesa dal freddo, ma questo progressivamente diminuisce per far posto al grasso bianco tipico dell'adulto. Bi e colleghi hanno progettato un esperimento per vedere se la soppressione del neuropeptide Y (NYP) nell'ipotalamo dorsomediale permettesse una diminuzione del grasso corporeo dei ratti. Questa struttura cerebrale è notoriamente collegata alla gestione della sete, della fame, della temperatura corporea, del bilancio idrico e della pressione sanguigna. In questo modo hanno potuto verificare l'esattezza della loro previsione dei livelli di tessuto adiposo, tuttavia hanno anche inaspettatamente scoperto che il grasso bianco era stato pressoché completamente sostituito da grasso bruno. Secondo i ricercatori la trasformazione fra i due grassi in seguito alla soppressione di NPY potrebbe essere legata all'attivazione delle cellule staminali per il grasso bruno che comunque continuano a persistere disperse nel grasso bianco. Secondo Bi, una possibilità - peraltro ancora tutta da verificare - sarebbe quella di iniettare cellule staminali di grasso bruno nel tessuto adiposo bianco per stimolare la perdita di peso negli obesi, ma "solo la ricerca futura ci dirà se ciò è possibile". (gg) ______________________________________________________ Le Scienze 3 mag. ’11 L'AUTISMO E GLI ORMONI DELLA SOCIALITÀ Dimostrato il ruolo di ossitocina e vasopressina per il controllo dei disturbi del comportamento sociale e cognitivo in un modello animale per l'autismo L' ossitocina (Ot) e la vasopressina (Avp) mostrano un'elevata capacità di influire positivamente sui difetti sia di socialità sia di flessibilità cognitiva in individui adulti, cioè termine dopo il completamento dello sviluppo del sistema nervoso. A mostrarlo è stata una ricerca condotta da una collaborazione fra l'Istituto di neuroscienze del CNR di Milano, e le Università di Milano (Statale, Bicocca e Politecnico), di quella dell'Insubria e di quella di Tohoku, in Giappone, i cui risultati sono ora pubblicati sulla rivistaBiological Psychiatry. La ricerca conferma e amplia il ruolo fondamentale che questi due ormoni hanno nel regolare vari aspetti del comportamento sociale, suggerendo un loro possibile impiego in disturbi dello spettro autistico. "Per mettere a punto e validare un possibile approccio terapeutico per i disturbi dello spettro autistico, abbiamo condotto un'approfondita caratterizzazione di modelli murini (topi geneticamente modificati) privi del recettore dell'Ot nel sistema nervoso centrale", dice Bice Chini, coordinatrice della ricerca. "In mancanza di tale recettore, questi animali mostrano alterazioni della memoria sociale e ridotta flessibilità cognitiva, riproducendo quindi il nucleo centrale della sintomatologia autistica, che consiste in deficit delle interazioni sociali, anomalie della comunicazione, rigidità cognitiva e interessi ristretti". I dati dei ricercatori "hanno evidenziato che gli animali non familiarizzano con altri soggetti della stessa specie e, soprattutto, non sono in grado di distinguere un topolino già incontrato da uno nuovo", spiega Mariaelvina Sala, prima firmataria del'articolo. "Inoltre, presentano deficit molto caratteristici di flessibilità cognitiva: sono capaci di apprendere un compito in maniera molto efficiente, ma una volta appreso non sono in grado di abbandonarlo per acquisirne uno nuovo al cambiare delle condizioni ambientali, dimostrando una peculiare rigidità cognitiva. Abbiamo notato anche che gli animali sono più aggressivi e, se trattati con dosi normalmente inefficaci di agenti farmacologici convulsivanti, rispondono con crisi di tipo epilettico, manifestazioni queste frequentemente associate alla sintomatologia autistica, che indicano un aumento della loro eccitabilità cerebrale di base". Lo studio ha evidenziato che la somministrazione di Ot ed Avp è in grado di ripristinare tutti i deficit riscontrati anche in giovani animali adulti. "Questa capacità è di grande rilevanza perché indica che il sistema Ot/Avp è altamente plastico e capace di modulare l'attività di processi cognitivi complessi anche dopo il completamento dello sviluppo del sistema nervoso", prosegue Marco Parenti, che ha partecipato allo studio. "I nostri dati indicano che tale capacità risiede nella proprietà dei due neuro peptidi di intervenire nei processi cellulari coinvolti nella definizione dello sviluppo in senso inibitorio o eccitatorio di determinate sinapsi e quindi nel determinare l'equilibrio eccitazione/inibizione neuronale,fondamentale per il corretto funzionamento del cervello". Un'ulteriore conferma dell'aumentata eccitabilità cerebrale è stata ottenuta dall'analisi delle registrazioni elettroencefalografiche degli animali, effettuata grazie a un software messo a punto dal Politecnico di Milano. "I risultati del nostro studio", conclude Bice Chini, "sono importanti perché, dimostrando che deficit comportamentali e cognitivi legati a un'alterazione dell'eccitabilità neuronale in età evolutiva possono essere modulati in età adulta dai due Ot ed Avp, preludono a potenziali nuovi approcci terapeutici basati sull'uso di queste molecole". (gg)