RASSEGNA STAMPA 19/06/2011 RIVOLUZIONE NELLE UNIVERSITÀ: A CAGLIARI STENTA AD ATTECCHIRE SCUOLA E UNIVERSITÀ, IN ITALIA: FALLISCE LA FABBRICA DEL FUTURO CELLI: TUTTO IL SISTEMA PUBBLICO È TROPPO AUTOREFERENZIALE" TUTTE LE SCIOCCHEZZE DELL'ECONOMIST SULL'UNIVERSITÀ ITALIANA DOCENTI, LA CATTEDRA È UN SOGNO DECLEVA: SOLO UNO SU CINQUE DEI RICERCATORI AVRÀ UN POSTO POCHI LAUREATI, MENO RICCHEZZA PER LA LAUREA UNA SCELTA SUI NUMERI UNIVERSITA’USA: IL PRESTIGIOSO REGNO DELLA DESOLAZIONE MEGLIO IL SISTEMA ITALIANO DI QUELLO STATUNITENSE MONSERRATO: PATTO DI FERRO TRA COMUNE E UNIVERSITÀ MILIA: «NUOVO COLPO ALLA SCUOLA CON LA CHIUSURA DEI CORSI SERALI» VIA LIBERA ALLA CLASS ACTION SULLE AULE SOVRAFFOLLATE COME DIMOSTRANO GLI INDIOS DELL'AMAZZONIA EUCLIDE E IN TUTTI NOI QUANDO VINCONO I BUONI PER I PARTITI LA CRISI NON ESISTE: +1.110%DI RIMBORSI LA BUROCRAZIA DELL’ECONOMIA DIGITALE COSÌ SIMILE ALLE SCARTOFFIE LE NOSTRE BOLLETTE DOPO IL NO AL NUCLEARE VERONESI: L'URANIO NON FA MALE «URANIO? IL MANDANTE, NON IL KILLER: FA E CODONESU «TEORIA INTERESSANTE, MA NESSUN RISCONTRO ========================================================= MEDICINA: CAMBIA LA FORMULA DEI TEST MEDICINA: NEI TEST PUNTEGGIO MINIMO E GRADUATORIA UNICA TEST ANCHE IN INGLESE PER ISCRIVERSI A MEDICINA PER BATTERE LA CARENZA DEI MEDICI BASTA NUMERO CHIUSO ALL'UNIVERSITÀ I TIMORI DEI MEDICI BERSAGLIATI DALLE DENUNCE SANITÀ DA SBRANARE: MANAGER DI UN SOLO PARTITO IN ASL E OSPEDALI BROTZU: PUDDU IL NUOVO DIRETTORE SANITARIO ASL8: DEFICIT DA 47 MILIONI ASL8: SIMEONE CHIEDE 40 MILIONI PER L'ASSISTENZA TERRITORIALE ASL7: I NUOVI MANAGER ASL7: BILANCIO IN ROSSO PER 11 MILIONI ASL7: Ai VERTICI, PENE RIDOTTE ASL5: ADDIO AL NUOVO OSPEDALE: DAL MEDIO CAMPIDANO TORNA A CRESCERE IL FARMACO MADE IN ITALY UN PACEMAKER PER CONTROLLARE LA PRESSIONE ALTA AIUTO, MI SI È RIMPICCIOLITO IL GENERE UMANO LA TIROIDE ARTIFICIALE ACCHIAPPA-RADIAZIONI SCOPERTE ALLA CATTOLICA LE CELLULE RESPONSABILI DELL'ARTRITE MEDICI OFFLINE A PROVA DI ERRORE AIUTA I BAMBINI A SOFFRIRE MENO, RICEVERÀ UNA BORSA DI STUDIO TUMORI INFANTILI: CONVEGNO PILLOLA DEI 5 GIORNI DOPO PRIMO SÌ TRA LE POLEMICHE PRIMA SI VIVE E POI SI PARLA IPOCONDRIACHE? NO, MALATE DI FIBROMIALGIA OGNI ANNO 30 BIMBI SI AMMALANO DI CANCRO VENETO, MAMME A CINQUANT ANNI A CARICO SSN NUOVA TECNICA PER LESIONI PRE NEOPLASTICHE DEL COLON RETTO ENTRO I PROSSIMI 10 ANNI 20 NUOVI VACCINI «PIT STOP» PER CAMBIARE L' AORTA CASCO COMPUTERIZZATO SEGNALA LE CADUTE VERONESI: NELL'ISOLA MENO TUMORI QUANDO LO STRESS STIMOLA LA RIPARAZIONE DEL DNA UNA PROTESI PER 'RIACCENDERE' LA MEMORIA IL RUOLO DEL RAME NEL PARKINSON QUANTO DOPING INQUINA GLI SPORT AMATORIALI ========================================================= __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 giu. ’11 LA RIVOLUZIONE NELLE UNIVERSITÀ MA A CAGLIARI LA RIFORMA STENTA AD ATTECCHIRE Gaetano Di Chiara La stesura dei nuovi Statuti delle Università costituisce l'attuazione di quella parte della Riforma Gelmini che riguarda gli organi di governo e la struttura dell'Università. Un aspetto innovativo di questa pur criticata riforma è quello di aver individuato come fondamento dell'Università i Dipartimenti. Sono infatti queste le strutture dove operano i docenti universitari ed è quindi naturale che sia trasferita ad essi una consistente porzione dei poteri decisionali in tema di reclutamento dei docenti, offerta formativa e didattica post-laurea attualmente attribuiti alle Facoltà. Queste, trasformate in Strutture di Raccordo o Scuole, dovrebbero avere solo funzioni di coordinamento didattico. Tanto più che solo nel Dipartimento la didattica può essere fertilizzata dalla ricerca, innescando un meccanismo virtuoso capace, attraverso la premialità, di migliorare il Dipartimento stesso e quindi l'Università. Alcuni Statuti, come quello di Sassari, hanno recepito questi principi; altri, come quello di Cagliari, hanno attribuito alle Scuole la funzione di filtro decisionale, vere e proprie forche caudine, delle istanze dei Dipartimenti, relegati al ruolo di galline dalle uova d'oro, capaci di produrre ma non di decidere dei frutti del proprio lavoro. In questo l'Università di Cagliari ha superato tutti, attribuendo alle Scuole non solo molte competenze delle vecchie Facoltà ma anche il nome. Risultato: la complicazione del processo decisionale, diluito in una serie di organi e procedure che renderanno qualsiasi innovazione praticamente impossibile, salvo l'intervento di un deus ex machina, nella persona del Rettore e del suo Consiglio di Amministrazione. Come possono i docenti universitari impedire questa involuzione? Aggregandosi nei Dipartimenti secondo criteri diversi da quelli su cui si basa l'attuale aggregazione di Facoltà e cioè secondo affinità di area scientifica piuttosto che del fatto di insegnare negli stessi corsi di studio. Per esempio, se i docenti dei corsi di Medicina, Farmacia e Scienze Biologiche afferissero a Dipartimenti interfacoltà sarà inevitabile unire queste ultime in un'unica Scuola. Se, nonostante tutto, la sostanza dello Statuto dell'Università di Cagliari non dovesse cambiare rimarrebbe un'ultima chance: l'esame di merito da parte del competente Ministero. Morale: se le Università non sanno trarre profitto dal principio dell'Autonomia, ben venga la mannaia del potere centrale ________________________________________________________________ La Repubblica 13 giu. ’11 SCUOLA E UNIVERSITÀ, IN ITALIA: FALLISCE LA FABBRICA DEL FUTURO Esperti e docenti internazionali per stilare il "rating" dei corsi e valutare quali potenziare EUGENIO OCCORSIO Hanno nomi in codice o in inglese le speranze perché la formazione dei giovani, il pacchetto scuola-università inserito dal governatore Draghi fra le otto emergenze nazionali, inverta finalmente la tendenza: i Its, Executive PhD, peer evaluation. Partiranno tutti nel prossimo anno accademico. Sono nell'ordine gli Istituti tecnici superiori, la possibilità che al dottorato si acceda da una posizione già conseguita in azienda, la valutazione sia della didattica che della ricerca da parte di organismi indipendenti, esterni, competenti. Il tutto per frenare una deriva che ci costa ormai, nelle parole di Draghi, un punto di Pil all'anno. Gli Its, previsti da un decreto del 2008, sono corsi professionalizzanti extra-universitari sul modello delle Scuole Universitarie Professionali svizzere, dell'Institut Universitaire de Technologie francese, delle Fachhochschulen tedesche. «Colmano un vuoto perché valorizzano le peculiarità del territorio e le richieste del mondo produttivo: servono a introdurre rapidamente nel lavoro chi esce dagli Istituti tecnici con una preparazione molto pragmatica», dice Claudio Gentili, capo dell'area education della Confindustria. «Sono in fase di start-up58 Fondazioni di partecipazione, molte delle quali con la presenza di imprese e associazioni territoriali e di categoria». Altrettanto cruciali i dottorati executive: «Sciolgono un legame anacronistico: quello secondo cui il dottorato di ricerca serviva solo come accesso alla carriera universitaria», spiega Massimo Bergami, direttore dell'Alma Graduate, la business school dell'Università di Bologna. «E un modo per coinvolgere le aziende nella vita universitaria, perché insieme con esse si costruiranno programmi didattici, e si darà vita ad uno scambio di docenti e di studenti. Le imprese porteranno negli atenei il loro valore aggiunto in termini di conoscenze pratica, le università le loro conoscenze profonde, si innesterà un circuito virtuoso per cui finalmente non si potrà più dire che un laureato in economia e commercio non ha mai visto un bilancio o un ingegnere non ha mai messo piede in un cantiere. Quante più strozzature saranno eliminate, tanto più rapido sarà l'incontro domanda-offerta sul lavoro, e l'università smetterà di essere una penalizzazione per la crescita del paese». Quanto alla peer evaluation, la "valutazione dei pari" sul modello anglosassone, è il vero snodo su cui s'impernia tutto il processo di riforma che fra mille difficoltà si cerca di portare avanti, del quale la sofferta legge Gelmini è solo l'ultimo tassello. L'applicazione della legge, in vigore da novembre, prosegue peraltro in modo maldestro: «S'introduce il principio sacrosanto che non possono più essere le università a valutare se stesse, ma che a stendere il rating debbano essere comitati esterni con tecnici, docenti anche stranieri, esperti di provata competenza», commenta Andrea Ichino, docente di economia a Bologna. «In quest'ottica gli atenei stanno redigendo i nuovi statuti. Senonché solo ora, alla vigilia del termine per la consegna di questi statuti, è stata finalmente nominata l'Anvur, la commissione ministeriale di indirizzo e coordinamento per queste valutazioni. Ma non doveva essere fatto prima che cominciasse il processo di revisione degli statuti? E come costruire una casa, con tutte le difficoltà che comporta, partendo dal tetto». Quest' assessment dovrà intersecarsi con la riorganizzazione degli atenei, e da esso deriveranno i finanziamenti e la chiusura dei corsi obsoleti o poco frequentati. Ancora: ad esso si collega la restituzione di qualche flessibilità alla spesa degli atenei. «Oggi - dice Ichino - non si può ridurre l'organico, per cui qualsiasi taglio di bilancio si scarica interamente sulle altre attività a partire dalla ricerca». Di pari passo, come in una catena, si dovrà anche spostare il potere decisionale e organizzativo dalle facoltà ai dipartimenti. «L'obiettivo è un modello più moderno, più aderente alla realtà, meno pletorico», commenta Angelo Riccaboni, rettore dell'Università di Siena. «I dipartimenti sono per definizione strutture più snelle, più focalizzate su singole aree, regolati non più da un faraonico parlamentino ma da un più contenuto "consiglio di dipartimento" . A quel punto l'esito della riforma dipenderà dal corretto equilibrio istituzionale fra dipartimenti e consiglio d'amministrazione dell'università, a sua volta più ridotto e con la presenza di membri esterni. Sarà importante far coincidere il tutto con la specializzazione nelle aree di eccellenza delle singole università». Ogni ateneo dovrebbe insomma identificare uno o più settori e su di essi puntare sfrondando il resto. «Qui a Siena abbiamo una forte presenza nelle biotecnologie, imperniata sui due poli dell'università e del centro vaccini ex-Sclavo, ora Novartis. Proprio dalla cooperazione fra noi e loro sono nate diverse iniziative importanti, ed intorno a noi è nato un distretto di piccole aziende di prestigio internazionale». Ma a questa rivoluzione della governance saprà accompagnarsi una riqualificazione della didattica? Chi non ci crede ritiene che sarà insufficiente a risolvere l'equazione cattiva università-bassa crescita. C'è però chi è possibilista: «La qualità degli insegnamenti e degli studenti italiani – afferma Cesare Imbriani, ordinario di economia politica alla Sapienza di Roma - non ha assolutamente niente da invidiare ai modelli stranieri. Mi creda, è tutta una questione di organizzazione. Risolti i nodi, l'università tornerà ad essere un motore per la crescita, se non altro per i minori sprechi di risorse, e smetterà di essere una palla al piede per il sistema-paese». Anche Roberto Nicoletti, prorettore dell'Università di Bologna, invita a valutare le statistiche con attenzione: «Certo, come numero i laureati negli altri paesi europei sono di più, ma bisogna vedere il livello. E anche il tanto magnificato sistema americano non produce necessariamente i migliori cervelli. Mediamente i baccalaureati sono peggiori dei nostri di primo livello». Poi però, a proposito del controverso 3+2, aggiunge: «Era meglio dividere con più attenzione gli insegnamenti. Invece spesso vengono interpretati i secondi due anni come una sorta di replica dei primi tre. Ma, diciamo la verità, i professori universitari non sono campioni di elasticità...» Il problema però, e anche questo non ha mancato di ricordarlo Draghi, è ancora più a monte. Gli studenti italiani di scuola superiore sono sistematicamente al di sotto dei loro coetanei: l'ultima rilevazione triennale del Programme for Intemational Student Assessment conferma che i quindicenni scolarizzati italiani hanno un punteggio nella "comprensione dei testi" di 486 punti contro 493 della media Ocse, in matematica sono a 486 contro 493, in scienze a 489 contro 501 e così via. Gli studenti di Shanghai sono rispettivamente a 556, 600 e 575. «La situazione sta peggiorando inesorabilmente, sarà che in famiglia si legge meno, oppure che i professori sono demotivati», riflette Ilaria Cacciotti, ricercatrice di scienze della vita a Tor Vergata. «Del resto, la demotivazione accomuna gli insegnanti delle medie a noi ricercatori. Io continuo a fare ricerca solo perché ho ricevuto una Borsa di studio dell'Unesco. Tanti se ne vanno all'estero, e come dargli torto?». Questo della "fuga" è il tema più aspro, colpevole non ultimo del depauperamento della ricchezza nazionale, una buona fetta di quel Pil perso di cui parla Draghi. Riprende Ichino: «Quali strumenti abbiamo per trattenere i migliori quando ancora oggi l'unico parametro di valutazione di un docente è l'anzianità di servizio? Nulla che si avvicini al merito». Eppure l'internazionalizzazione è la chiave su cui imperniare un percorso di nuovo sviluppo anche accademico. «L'unico modo che abbiamo per attrarre a nostra volta i cervelli stranieri nelle università è avere la possibilità di offrire loro qualche incentivo in denaro, oltre ad un ambiente favorevole», spiega Riccaboni di Siena. E il rettore della Bocconi, Guido Tabellini, conclude: «La nostra scelta vincente è stata puntare sull'internazionalizzazione. Gran parte dei nostri studenti fa un periodo all'estero, e noi cerchiamo di attrarne di stranieri. Non vogliamo svuotare il paese: vorremmo però che il paese ci aiutasse a tenere qui i migliori. La nostra parte la facciamo». ________________________________________________________________ La Repubblica 13 giu. ’11 CELLI: TUTTO IL SISTEMA PUBBLICO È TROPPO AUTOREFERENZIALE" Pier Luigi Celli Da noi i ragazzi entrano subito In contatto attivo con il mondo dell'industria Il male oscuro delle università italiane è che « sono organizzate su misura dei professori e non degli studenti. E questo habitus si perpetua. Guardate la riforma Gelmini: tutto il dibattito è su come riorganizzare la governane che ridistribuisce il potere interno. Poche parole sui contenuti della didattica che dovrebbero essere il vero problema». Pier Luigi Celli, diretto-re generale della Luiss, è consapevole di vivere in un'isola felice ma con passione cerca di trasmettere il buono che un ateneo come il suo può virtuosamente estendere alle strutture pubbliche. Qual è la vostra visione di un'università "a misura degli studenti"? «Metterli nella condizione di scegliere consapevolmente intanto l'indirizzo e poi la specializzazione su cui studiare. Invece ho l'impressione che il mercato del lavoro a volte non lo conoscano neanche i professori: hanno una resistenza dura da sconfiggere a una normale osmosi di conoscenze ed esperienze. O forse hanno solo paura di perdere potere. Tutto il sistema è molto autoreferenziale». Voi cosa fate, per esempio? «Bè, essendo l'università di proprietà della Confindustria, l'impresa è nel nostro dna. I ragazzi vengono seguiti uno per uno, li accompagniamo a parlare con i dirigenti, fanno stage in Italia e all'estero, ci sono continuamente incontri conviviali con manager delle aree di loro interesse. Li mettiamo in condizione di sapersi orientare da subito e non di trovarsi sbalzati toutacoup in un mercato che non conoscono dopo studi con programmi impostati quarant'anni fa. Lo facciamo perfino peri ragazzi del liceo: stanno per partire le summers chool in cui gli allievi degli ultimi anni vengono a rendersi conto della realtà universitaria per poter scegliere consapevolmente». ________________________________________________________________ Il Foglio 15 giu. ’11 TUTTE LE SCIOCCHEZZE DELL'ECONOMIST SULL'UNIVERSITÀ ITALIANA IL rapporto dell'Economist sull'istruzione è un insieme di mezze verità nel solito contesto "Italiani, Spaghetti, Cosa nostra". "Gli italiani sono profondamente antimeritocratici". Pur facendo la tara del razzismo di questa frase, la sua falsità risulta dal fatto ovvio che, se in Italia non vi fosse stato un sistema dell'istruzione meritocratico, il paese non avrebbe avuto una scienza e una cultura umanistica ai primi posti nel mondo. La mezza verità è che da almeno un trentennio la scuola e l'università sono sempre meno meritocratiche. Le cause di questa degenerazione sono molteplici e non tutte specificamente italiane: il sessantottismo, l'apertura indiscriminata degli accessi universitari, le assunzioni ope legis di migliaia di docenti, l'ideologia del successo formativo garantito e della "customer satisfaction", il pedagogismo antidisciplinare, le riforme universitarie del 3+2 e dei concorsi locali, la mano morta dei sindacati sulla scuola, il rifiuto di ogni forma di valutazione, ecc. Tutto ciò ha origini ben antecedenti ai governi Berlusconi. Il rapporto dell'Economist batte sui tasti della gerontocrazia e delle raccomandazioni. Mezze verità. Nelle università americane non esistono limiti di età: è gerontocrazia? In Italia, prima degli anni Settanta si assumevano anche i ventenni. La gerontocrazia è frutto di migliaia di assunzioni universitarie ope legis, ma in questi anni (si tranquillizzino all'Economist) metà dei professori universitari sta andando in pensione. Quando alle raccomandazioni, dove vive il signor Economist? Nelle migliori università estere si assume per cooptazione, e sulla base di lettere di raccomandazione. La raccomandazione è sacrosanta, purché sia trasparente, scritta e firmata, non per telefono o nei corridoi, e quest'ultima è una degenerazione cresciuta a dismisura con le riforme. Anche in Italia si assumeva per cooptazione. Poi, la riforma Berlinguer ha introdotto il meccanismo concorsuale che (come dice bene l'Economist) premia i candidati locali e ha "screwed", il sistema rendendo inevitabile l'efferata pratica di scambio: "Io ti aiuto a far passare il tuo candidato 'locale', anche se fa schifo, purché tu renda idoneo il mio candidato esterno". L'Economist non dice che una laurea italiana quadriennale in Fisica era una delle migliori del mondo mentre la riforma del 3+2 ha drammaticamente degradato la didattica universitaria. Il proliferare di corsi di laurea deliranti è stato istigato dal sistema dei crediti e della falsa autonomia. Che il 3+2, l'autonomia fasulla e i crediti abbiano disastrato l'università lo pensa la stragrande maggioranza dei docenti universitari, ma smontare il marchingegno della riforma Berlinguer richiederebbe energie che nessuno trova più. Il rapporto dice che l'Italia ha buone scuole primarie, secondarie di media qualità e università mediocri. La verità è quasi all'opposto. Le scuole primarie italiane erano tra le migliori del mondo fino al 1985, ora sono un disastro, devastate da riforme ideologiche che le hanno ridotte a un paese dei balocchi: le loro discrete performance nei test Ocse-Pisa sono una prova dell'inaffidabilità di questi ultimi. Le scuole secondarie di primo grado sono mediocri, perché si è consentito a laureati privi della formazione necessaria di insegnare le materie scienti-fiche. I licei reggono abbastanza bene. Un'altra fandonia è che al termine della scuola secondaria gli studenti italiani non sostengano gli stessi esami in tutto il paese, per cui è impossibile raffrontare i loro rendimenti: hanno mai sentito parlare all'Economist degli esami di maturità, le cui prove sono identiche in tutto il paese? Le università per quanto malandate non stanno affatto peggio della scuola. Inoltre, è una bugia che a fronte delle università statali - di cui si cita il basso profilo nelle classifiche internazionali - si contrapponga un livello ottimo delle private, tra cui Bocconi e Cattolica di Milano. Con tutto il rispetto, nella classifica delle prime 50 università in Social Sciences & Management (QS World University Rankings), la Bocconi nel 2009 era fuori classifica (68° posto) e nel 2010 è entrata soltanto al 48° posto. Della Cattolica non v'è traccia. Molto vi sarebbe da aggiungere, ma concludiamo osservando che prima di imbastire simili prediche bisognerebbe pensare alla trave nel proprio occhio. L'istruzione inglese non se la passa meglio della nostra. Nel 2009 secondo gli uffici inglesi di statistica il 21 per cento dei ragazzi di 14 anni dimostrava un livello di scrittura, lettura e aritmetica degno dei bambini di 7 anni. La lettura dell'English National Curriculum in matematica è imbarazzante. Il lettore può utilmente rileggere l'articolo di Antonio Gurrado, "La scuola dei 700.000 cretini" (il Foglio 1 ottobre 2010). Come ha dichiarato il primo ministro inglese Cameron: "Bisogna uscire dalla 'macchina scuola' creata dai laburisti e restaurare il contatto con i giovani, con la società". Proprio questo è il punto che accomuna il caso inglese con quello italiano: per uscire dalla crisi occorre de-molire la "macchina istruzione", creata da una certa sinistra ideologica. Pertanto, prendersela con Berlusconi su questi temi è privo di fondamento, se non in un senso: e cioè che i suoi ministri hanno fatto ben poco per riparare allo "screwing" del sistema dell'istruzione provocato da altri, e anzi hanno finito con l'arrendersi all'apparato tecno-pedagogico finendo col fare le politiche a esso gradite. Ma non è certamente in questo senso che si muovono le critiche dell'Economist. __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 giu. ’11 DOCENTI, LA CATTEDRA È UN SOGNO Poche speranze anche per le donne con due lauree Per l'Istat il 62 per cento delle insegnanti in provincia rinuncia alla ricerca del lavoro Hanno una, anche due lauree, per lo più sono donne, ma soprattutto disoccupate. Nel migliore dei casi precarie. Al lavoro però, le docenti della provincia di Cagliari che hanno o stanno per conseguire la laurea in Scienze della Formazione Primaria, non hanno rinunciato. Non ancora almeno. Nonostante la tendenza generale, a dirlo sono i dati Istat. «Circa il sessantadue per cento della popolazione femminile», spiega Nicola Marongiu, segretario della camera del lavoro Cgil, «dopo i trentacinque anni rinuncia alla ricerca del lavoro: per una donna trovare un secondo lavoro è quasi impossibile». La tendenza a interrompere la ricerca è alta anche per gli uomini: il quarantadue per cento circa. Un dato allarmante: la popolazione invecchia nell'età e nello spirito. SACRIFICI Non tutti. Ci sono donne e uomini che sono disposti a fare grandi sacrifici pur di vedere realizzati i loro diritti: al lavoro e alla stabilità. Hanno conseguito la laurea (per tanti è la seconda) in Scienze della formazione Primaria, corso di studi quadriennale e abilitante per la scuola dell'infanzia e la primaria, che fino a qualche anno fa, consentiva a tutti l'inserimento nelle graduatorie a esaurimento. Il decreto Gelmini (il 44) ha cambiato le regole del gioco di punto in bianco, stabilendo la non inclusione in Gae per gli immatricolati dopo il 2007. SPERANZE «A breve mi laureo, forse per niente», dice Gloria Scalas, 34 anni di Assemini e una laurea in Lettere moderne. «Senza l'inserimento in graduatoria, abbiamo poche speranze. Perché non chiudono il corso di laurea se, come dicono, non ci sono posti per i docenti?». Un provvedimento che crea discriminazioni tra i docenti stessi: quelli che si sono immatricolati prima del 2007, che potrebbero laurearsi dopo i colleghi del 2008, ma che potranno essere inseriti, e gli altri invece, destinati a restare fuori. «Ho una laurea in Lettere moderne, e sono iscritto al II anno di Scienze della Formazione Primaria», dice Giovanni Marras, 39 anni di Decimo. «Circa ventimila aspiranti docenti abilitati e abilitandi in Italia, stanno vivendo con profonda frustrazione questi ultimi giorni che precedono l'approvazione di un provvedimento legislativo che li vuole escludere dal mondo del lavoro. Il Governo, anziché eliminare gli impedimenti alla realizzazione lavorativa dei suoi cittadini, sta creando nuovi disoccupati, spesso con figli a carico e mutui da pagare. Nonostante tutto, ho ancora speranza di diventare maestro». L'ANIEF Dall'Anief, associazione professionale sindacale, dicono che il Miur continua a rilasciare titoli abilitanti tramite l'Università ma non spendibili nel campo dell'istruzione, nonostante sia l'ente stesso a decidere per entrambi i settori, formazione e lavoro. Poi sottolineano che non è stata considerata la legge (124 del 99) del reclutamento scolastico che stabilisce l'immissione in graduatoria, per tutti gli abilitati. «Stiamo facendo pressione perché il decreto sia emendato, la seconda via sono i ricorsi». Dalla Cgil affermano che la gestione del reclutamento sta diventando sempre più caotica, con modifiche ingiustificabili e anche anticostituzionali. «Sospettiamo che il ministro Gelmini punti al reclutamento per chiamata diretta del preside. Se le cose non cambieranno, la seconda strada da battere saranno i ricorsi». Cristiana Sarritzu __________________________________________________________________ Corriere della Sera 16 giu. ’11 DECLEVA AI RICERCATORI: «SOLO UNO SU CINQUE DI VOI AVRÀ UN POSTO ALLA STATALE» UNIVERSITÀ NOMINATI CINQUECENTO DOTTORATI Il rettore: un danno per i giovani capaci A parole tutti sostengono la formazione, poi non arrivano i finanziamenti Università Statale, Aula Magna piena, nemmeno una sedia libera. In sala i cinquecento (484) neo-dottori di ricerca proclamati dal rettore Enrico Decleva, che li nomina uno ad uno, e loro uno ad uno si alzano fino a quando l' intera platea è in piedi. La cerimonia è d' effetto, ma è una festa a metà. Perché ieri il rettore della Statale ha parlato ai suoi nuovi dottori di ricerca con la franchezza del buon padre di famiglia. Ha espresso «preoccupazione» perché l' università, anche se dovrebbe, non può assorbire questi giovani di valore. «Con le risorse disponibili uno su cinque potrà proseguire qui in Statale». «La maggior parte di loro metterà il titolo sul comodino o andrà in altre università, o partirà. Inutile fingere», ha poi commentato al termine della cerimonia. Ed è anche il sistema dei dottorati che Decleva mette in discussione. «Andrebbe riformato, sono disomogenei nei diversi atenei del Paese e forse sono anche troppi. Serve subito un nuovo regolamento», dice il rettore della Statale. E manca anche la cultura del dottorato, che invece c' è all' estero: «Se hai "Phd" sul biglietto da visita, altrove è segno di grande prestigio, in Italia è diverso, questo titolo non è adeguatamente riconosciuto». Il quadro è questo. Ma nella giornata dei Dottorati è stato anche sottolineato un maggiore impegno rispetto agli anni recenti, sul reclutamento: soltanto gli assegni di ateneo quest' anno saranno novanta in Statale. Fra i cinquecento nuovi aspiranti ricercatori, sei su dieci hanno meno di trent' anni, sono soprattutto donne, 143 arrivano da altre università italiane e 36 dall' estero (e il numero degli studenti extraeuropei è in aumento). «Non si può pensare che questi giovani vengano tutti assorbiti da università ed enti di ricerca. Per questo alla Statale partirà anche un progetto sostenuto da Fondazione Cariplo in ambito medico per creare figure con competenze cliniche che facilitino l' inserimento nel mondo del lavoro», è stato annunciato ieri. Su finanziamenti e riforma il rettore Decleva, che ha lasciato da tre mesi l' incarico di presidente della Crui (ha preso il suo posto Marco Mancini, il rettore dell' università della Tuscia) ha sottolineato anche che l' approvazione della riforma ha portato al recupero di 800 milioni di euro per le università e questa somma, unita alle uscite di servizio dei professori e al blocco degli scatti ha permesso di superare la fase più critica. «Adesso la macchina regge». Ma non basta. «A parole tutti sostengono che formazione e ricerca siano una risorsa su cui puntare ma poi gli investimenti non arrivano». «In Italia c' è il problema dei giovani e in particolar modo c' è il problema dei giovani capaci, se il contesto non cambia devono necessariamente partire - ha dichiarato Decleva -. E questo è un danno non soltanto per loro: noi investiamo e poi li passiamo belli e formati ad altri Paesi europei». Federica Cavadini RIPRODUZIONE RISERVATA Cavadini Federica __________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 13 giu. ’11 POCHI LAUREATI, MENO RICCHEZZA Università di Cagliari più generosa di Sassari nei voti agli studenti ALFREDO FRANCHINI CAGLIARI. Tra le anomalie di una Sardegna che arretra in economia c’è il divario dell’istruzione. Nell’isola non c’è valorizzazione del merito scolastico. Lo confermano i dati degli atenei di Cagliari e Sassari e le statistiche sul lavoro. Studenti oggi, poveri di domani: è il sunto provocatorio di un Rapporto sul welfare compiuto dall’Università La Sapienza di Roma. Il mercato del lavoro non valorizza i titoli di studio, secondo i ricercatori della Sapienza la cui indagine coincide con quella compiuta nell’isola dal Crenos, il centro di ricerche delle Università di Sassari e Cagliari. A leggere i risultati del Rapporto, il nostro sembra quasi un Paese che non ha più bisogno di avere persone istruite: il numero dei laureati è pari a due terzi del numero dei laureati della media europea; dietro l’Italia c’è solo la Romania. E nonostante il basso numero di persone che concludono il corso di studi ci sono più disoccupati anche perché spesso i ragazzi sono in possono di lauree o non richieste o che non trovano riscontro sul mercato del lavoro. Non è tutto. Un laureato italiano guadagna solo il 15% in più rispetto a un diplomato mentre la media europea supera il 40%. In prospettiva welfare, il sindacato considera questa situazione come una «bomba» pensionistica: tra una quindicina d’anni i giovani potrebbero avere pensioni del 30 o 40 per cento sull’ultima busta paga. E le soluzioni sembrano solo due: aumentare il costo del lavoro precario o flessibile e aggiungere contributi figurativi per coprire i periodi, ormai ineluttabili, di disoccupazione. Nonostante questo quadro cupo, l’istruzione resta la prima molla di sviluppo e, tra l’altro, non è vero che non ci sia relazione tra laurea, lavoro qualificato e retribuzioni. In realtà, denuncia il Crenos, uno dei mali è che in Italia, a differenza degli altri paesi europei, molte posizioni qualificate o dirigenziazli sono ricoperte da lavoratori con basse qualifiche in termini di istruzione formale. A confermare la scarsa mobilità sociale e il vizio italico della raccomandazione. I voti di laurea. L’importanza del pezzo di carta è collegato al voto che ciascuno studente riporta, (da 66, corrispondente alla sufficienza, al 110 con lode). Nell’Università di Cagliari il 42% degli studenti ha ottenuto nel 2008 una votazione elevata: il venti per cento si è laureato con 110 e lode, il 22% con un voto compreso tra 106 e 110. A Sassari solo l’undici per cento dei laureati ha ottenuto il massimo e il 23% ha riportato un voto tra 106 e 110. In entrambi i casi sono pochi gli studenti che si laureano con un dignitoso e rispettabilissimo voto più che sufficiente, tra 66 e 90: il 5% a Cagliari e il 10% a Sassari. Il Crenos ha paragonato le votazioni degli atenei sardi a quelle di altri importanti atenei nazionali ed è interessante osservare la differenza tra il voto che spetterebbe allo studente sulla base della media dei voti ottenuti agli esami e il voto finale. Studenti che non raggiungono il 27 (buono ma non ottimo) ottengono a Cagliari un voto finale di eccellenza. L’Università di Cagliari, infatti, si colloca tra gli atenei che premiano maggiormente la tesi di laurea; a Sassari uno studente che si presenta con 104,7 (media per esame di 26,5) ha un premio per la tesi di 7,5 punti contro gli 8 di Cagliari. Preoccupa, invece, un altro dato: gli studenti di Cagliari e Sassari cumulano un ritardo di 2,4 anni per ottenere la laurea, valore inferiore solo a quello di Salerno (2,5) e superiore a tutti gli altri atenei: Bari 1,8; Firenze 1,9; Venezia un anno; Torino 1,1; Bologna 1,4. Resta poi una questione di merito. Il titolo di studio non serve quasi mai come selezione nel mercato del lavoro che, del resto, è diventato davvero anomalo visto che si tratta di un mercato fatto quasi esclusivamente di domanda e senza offerta. La Sardegna ha valori inferiori rispetto alle medie nazionali ed europee. Per il Crenos il motivo è uno solo: «I ragazzi spesso di chiedono che senso ha studiare se poi assumono il raccomandato»? Un circolo vizioso perché tutti gli osservatori dimostrano che solo lo studio può rendere sia ai ragazzi che avranno un lavoro migliore, sia alla società che solo così potrà progredire. ________________________________________________________________ Il Sole24Ore 14 giu. ’11 PER LA LAUREA UNA SCELTA SUI NUMERI Il corso e l'ateneo vanno valutati in base ai dati sulla didattica e agli sbocchi di lavoro di Andrea Cammelli Prima ancora di scegliere un corso di laurea, scegliete di studiare. In tempo di crisi, con la disoccupazione giovanile in Italia elevata, la reazione naturale porterebbe a concludere che la laurea è inutile. Invece l'Istat e l'Ocse ci dicono che, rispetto ai diplomati di scuola secondaria superiore, nell'arco della vita i laureati hanno avuto tassi di occupazione più elevati dell'11% e redditi più alti del 55%.Il dubbio, poi, che i laureati siano troppi è riproposto da tempo. Ma non ha fondamento. Il ritardo dell'Italia internazionale emerge in tutta la sua ampiezza. Pochi giovani, pochi laureati e una formazione, dunque, che vale ancora nonostante il rischio di precarietà che attende le nuove generazioni - e di cui dobbiamo farci carico con urgenza - perché strumenti culturali e professionali più adeguati mettono maggiormente al riparo dalla rapida evoluzione tecnologica e dall'instabilità degli scenari economici, oltre ad assicurare una migliore qualità della vita. Una formazione che punti a insegnare ad apprendere piuttosto che a una eccessiva specializzazione a rischio di rapida obsolescenza. Seguire la propria "vocazione" prima di tutto e su questa investire. Importante fra l'altro è scegliere un percorso che durante gli studi offra la possibilità di entrare in contatto col mondo del lavoro attraverso stage e tirocini e di fare esperienze all'estero (dalle borse Erasmus ai corsi internazionali). Per chi deve scegliere, l'accertamento della qualità degli studi resta un aspetto centrale. AlmaLaurea restituisce ogni anno una documentazione ampia, attendibile, utile sia per orientare le scelte dei diplomati, sia per rispondere ai fabbisogni informativi del ministero e dell'Agenzia nazionale di valutazione dell'università e della ricerca (Anvur). La più recente indagine AlmaLaurea, che vede migliorare i risultati dei laureati zoto rispetto al passato, presenta esiti caratterizzati da un'ampia variabilità tra corsi di laurea. Di qui la necessità per tutti, di guardare più in profondità, al di là dei valori medi e, in prospettiva, adottare criteri di valutazione in grado di misurare il valore aggiunto delle diverse istituzioni formative e di offrire una risposta attendibile al quesito: a parità di condizioni di partenza dei giovani e di contesto, come riesce il singolo ateneo a far crescere lo studente e a offrirgli migliori opportunità occupazionali e di autorealizzazione? Si tratta di approfondimenti ai quali AlmaLaurea ha deciso di destinare le proprie competenze maturate in quasi vent'anni di attività, nella convinzione che ciò possa aiutare i giovani a una scelta consapevole e i responsabili dell'università a destinare le risorse in funzione della produttività delle istituzioni universitarie. Perché investire di più e meglio nell'istruzione di terzo livello e nella ricerca non può che essere l'obiettivo comune a cui tendere per garantire un futuro ai giovani, al mondo produttivo, al Paese. ________________________________________________________________ Tempi 26 giu. ’11 UNIVERSITA’USA: IL PRESTIGIOSO REGNO DELLA DESOLAZIONE da New York Mattia Ferraresi Anche nei mitici college americani monta il dissenso degli insegnanti costretti ormai a coccolare studenti «appena alfabetizzati». Più laureati uguale più iscritti uguale più profitto. Vero, ma che ne sarà del sapere? NEL 1987 LA FURIA ICONOCLASTA di Allan Bloom ha attraversato l'accademia americana. Con modeste aspettative editoriali aveva pubblicato The Closing of the American Miml (recentemente riproposto da Lindau con il titolo La chiusura della mente americana), estensione della pietra tombale dell'università americana apparsa cinque anni prima in forma di saggio breve sul The National Review. La critica del classicista americano all'universo accademico conteneva tesi estremamente urticanti per il nichilismo spensierato che aveva invaso le università e per i suoi più o meno consapevoli propugnatori. La versione estesa del testo di Bloom è un'espansione per cerchi concentrici di un ragionamento inizialmente limitato all'università, con una conclusione spietata: l'ambiente dell'accademia americana è talmente immerso nel relativismo, nel pensiero debole, nel suo senso di superiorità verso un sapere classico giudicato polveroso e inutile che non è più in grado di insegnare qualcosa agli studenti. E così, scriveva Bloom, l'America è diventata una repubblica di Weimar del pensiero. Naturalmente il libro ha venduto alla grande e per quanto l'intellettuale conservatore fosse osteggiato dall'establishment liberai, il suo autorevole atto d'accusa non poteva essere lasciato cadere come fosse l'aggressione isolata di un ultrà; dunque, come ha detto il suo amico Saul Bellow, «tutti gli asini fecero causa comune contro di lui». Erano gli anni dell'esplosione dell'orgoglio delle grandi istituzioni universitarie americane, quelle che Alberto Arbasino qualche tempo prima dipingeva come scrigni del sapere in stile Tudor appoggiati nelle aree nobili della periferia del New England; nel tempo, la rappresentazione dell'upper class dell'istruzione americana si è cristallizzata in una mistica apparentemente impossibile da scalfire. I soli nomi di Harvard, Princeton, Yale, Berkeley, Duke e delle loro università sorelle bastano a evocare un senso di eccellenza accademica, di efficienza operativa, un'allure internazionale inevitabilmente opposta all'inconcludenza provinciale del sistema europeo in generale e italiano in particolare; il segno, insomma, della vittoria degli asini di Bellow contro le critiche radicali di Bluom. Ma i critici non sono del tutto scomparsi. Nel sottosuolo dell'università americana gira un samizdat che riflette sullo stato attuale di questi intoccabili santuari e pone domande radicali: l'università fa quello che dovrebbe? Gli studenti imparano qualcosa? Stiamo davvero diffondendo il sapere? Siamo certi che l'istruzione universitaria sia alla portata di tutti? Il titolo vale quello che costa? Il Professor X risponderebbe "no" a tutte le domande. Non è il leader degli X-Men, il Professor X, ma lo pseudonimo sotto il quale un professore aggiunto di Letteratura inglese di un'università non meglio precisata ha scritto In the Basement oftheIvory Tower (letteralmente: nello scantinato della torre d'avorio), il racconto dall'interno delle patologie che affliggono l'università in America. Non insegna nelle università dell'élite, ma in un piccolo centro come ce ne sono a migliaia negli Stati Uniti, e tutti gli studenti, a prescindere dal corso di laurea che hanno scelto, devono passare i suoi esami introduttivi di inglese per potersi laureare. Quella del Professor X è una testimonianza desolante fatta di studenti «appena alfabetizzati», nessun interesse per la cultura, indisponibilità ad apprendere, lamentele continue per i carichi di lavoro troppo pesanti e, soprattutto, la dif fusa concezione che l'università sia soltanto il passe-partout per parcheggiarsi in un posto di lavoro decentemente retribuito. E il Professor X cosa fa? Scrive sugli esami dei suoi studenti delle "F" in rosso, un atto di lesa maestà verso la concezione che nessuno al college può davvero fallire, e uno dei motivi per cui non può svelare il suo vero nome. Nel 1940 in America c'erano 1,5 milioni di studenti universitari; nel 2006 erano 20,5 milioni, una foga popolare per l'istruzione superiore che ha portato da una parte alla crescita delle rette universitarie (ovvio meccanismo di domanda e offerta), dall'altra all'inflazione del prodotto, che invece di elevarsi si è appiattito sulle regole dello studente collettivo. Ha guadagnato una certa fama in America il caso di Harvey Mansfield, amico di Bloom e professore di scienze politiche ad Harvard; quando nel 2001 l'università ha deciso di aggiustare verso l'alto la tabella dei voti, con lo scopo non dichiarato ma ovvio di avere più laureati con voti brillanti da mettere sul curriculum e quindi più giovani desiderosi di spendere importanti quantità di denaro per ottenere la medesima brillantezza. La "D" di una volta diventava una "C", la "C" una "B", e via dicendo. Di fronte al fenomeno dell'inflazione scientificamente programmata, Mansfield ha inventato il "voto ironico": a ogni studente assegna il voto che davvero merita, ma lo comunica soltanto in privato. Questo voto è "reale" soltanto nel giudizio, non nelle conseguenze accademiche. Per quelle c'è il voto "ironico", il punteggio che secondo gli standard fissati dalla più prestigiosa università del mondo il professore dovrebbe assegnare ai suoi studenti. Ma il meccanismo del voto ironico, reminiscenza di un tempo dimenticato in cui anche nelle università americane era lecito correggere, esaminare e persino bocciare gli studenti, non ha frenato la corsa all'iscrizione: al mitico college del Massachussets sono arrivate già 35 mila richieste di iscrizione per l'anno accademico 2015, un record assoluto. C'è un calcolo preciso secondo il quale le famiglie e gli studenti investono sull'università. Due terzi dei laureati americani hanno un debito con l'università, per una media di 24 mila dollari a testa. Nel corso della cartiera professionale un laureato però guadagna in media 450 mila dollari in più di un semplice diplomato, quindi il sistema è in grado di autoperpetuarsi. In parallelo c'è il calcolo degli amministratori delle università, che negli ultimi decenni hanno investito enormi risorse per costruire campus che rispondano a qualunque desiderio degli studenti tranne a quello di imparare qualcosa. Nel libro Higher Education? Claudia Dreifus e Andrew Hacker offrono una critica serratissima all'educazione superiore in America: l'eccessiva specializzazione di alcune università selezionate in alcuni campi si scontra con la diffusa ambizione sociale della middle class di avere un pezzo di carta che dia accesso a un lavoro ben pagato. Per fare questo le università "normali" hanno distribuito mediocrità a pioggia, si sono inventate i corsi di laurea più assurdi, hanno costruito palestre per competere con quella del campus vicino e così attrarre gli studenti nella propria orbita, hanno in alcuni casi abbandonato il sistema dei voti (i giudizi possono scoraggiare lo studente pagante) e hanno messo in piedi qualsiasi espediente per rendere l'accademia un trampolino per l'avanzamento sociale che non ha molto a che vedere con il sapere. I due professori se la prendono con i meccanismi autoreferenziali nella selezione dei professori e la totale acquiescenza della classe accademica rispetto alle domande del mercato. L'università, secondo gli autori, si è ormai trasformata in una macchina che genera profitto a spese del sapere. La percezione che il cielo di carta dell'università americana si sia strappato suggerisce anche soluzioni più estreme, tipo quella di Peter Thiel, cofondatore di PayPal e grande azionista di Facebook, che ha dato a 24 studenti universitari 100 mila dollari a testa per abbandonare l'università e avviare un'attività propria. Thiel dice che l'ambiente intellettualmente morto dell'accademia americana distrugge le buone idee dei giovani e carica «la prossima generazione di un debito economico spaventoso», quindi ha stanziato un fondo con un nome esplicito: "Stop doing that", lascia perdere quella roba inutile, insomma Allan Bloom e Peter Thiel sono gli estremi dell'emiciclo critico verso l'università americana, ma in mezzo cresce una classe intellettuale non allineata che si sta domandando seriamente se Harvard, Yale, Columbia, così come lo sperduto college della controcultura californiana, siano i pilastri del sapere occidentale o pezzi di una mitologia collettiva destinata ad esaurirsi nel suo stesso narcisismo. «NON TUTTI SONO FATTI PER "BUTTARE VIA" QUATTRO ANNI» Del Professor X non sappiamo molte. Soltanto che tiene due corsi serali di inglese in un college americano e che qualche mese fa ha pubblicato In the Basement of the Ivory Tower, una requisitoria del sistema educativo americano troppo impopolare per essere firmata. NEL LIBRO RACCONTA IL LATO OSCURO DELLA SUA ESPERIENZA DI PROFESSORE, MA CREDE CHE L'INTERO SISTEMA AMERICANO STIA FALLENDO? Non proprio, ma penso che i college stiano attraversando una grossa crisi d'identità. E ora devono farsi diverse domande: qual è lo scopo dell'educazione? Uno studente deve uscire con competenze da vendere sul mercato o con la capacità di pensare, una capacità acquisita in anni di frequentazione delle grandi opere della cultura occidentale? E se questa capacità è tutto ciò che i laureati hanno, come si guadagneranno da vivere? QUAL È IL PROBLEMA DI FONDO DELL'EDUCAZIONE IN AMERICA? Il problema è che troppe persone si iscrivono all'università senza essere preparate. Chi non è versato per lo studio va al college per due motivi: il primo è che gli americani pensano che andare all'università sia un bene in sé, qualcosa a cui tutti dovrebbero aspirare; il secondo è che molti posti di lavoro chiedono crediti universitari. Alcuni posti nella forze dell'ordine, ad esempio, richiedono due anni di college. L'America sta vivendo un periodo di inflazione delle credenziali universitarie; molti posti di lavoro richiedono pezzi di carta assolutamente inutili nella sostanza. L'INFLAZIONE VALE ANCHE PER LE UNIVERSITÀ PIÙ BLASONATE? Non credo, ma a un certo livello la questione è molto diversa. Molti studenti delle università dell'Ivy League sono davvero fatti per studiare. Alcuni hanno avuto risultati pessimi già dalle scuole superiori. La maggior parte non ha mai letto un libro o un giornale e non concepisce queste attività come cose serie. Non voglio essere frainteso; sono ottime persone. Pagano il mutuo e crescono i figli. Ma non ha senso che vadano all'università. Gli studenti di Harvard hanno un'idea di quale è il loro posto nel mondo e hanno i soldi per realizzare i loro progetti. La posta in gioco e molto più bassa: possono prendere una laurea inutile e buttare via quattro anni. Non fa molta differenza. ________________________________________________________________ Tempi 22 giu. ’11 MEGLIO IL SISTEMA ITALIANO DI QUELLO STATUNITENSE. HARVARD? NO, GRAZIE PREFERISCO LA RAGIONE PARLA SILVANO PETROSINO La conoscenza non è solo capacità di risolvere quiz». Alla Cattolica c'è un prof che non fugge all'estero L’UNIVERSITÀ ITALIANA è un campanello « che condiziona i riflessi. Il solo trillo suscita immagini nefaste di baronie, sprechi, provincialismo, tagli di qualche ministro sadico, precariato, dottorandi sui tetti, professori ciarlatani, sottilissimi assegni di ricerca, fughe di cervelli e via così. L il riflesso opposto a quello che accompagna l'università americana, sovrano simbolo di eccellenza ed efficienza. C'è qualcuno, però, nell'accademia italiana che non solo non è fuggito all'estero, ma addirittura argomenta a favore dell'università italiana. Silvano Petrosino, professore di Filosofia morale e Semiotica all'Università Cattolica di Milano, ricorda la premessa obbligatoria del ragionamento: «Il gesto educativo è legato al rapporto fra le due persone, fra il docente e il discente. Puoi avere una bella struttura, ma se non hai l'allievo e il maestro non hai un momento educativo. In questo senso io sottolineo anche il ruolo attivo dello studente: come posso mettere in discussione la volontà del professore di insegnare, così posso discutere la volontà dello studente di imparare». E l'università italiana favorisce questo? Io trovo la nostra università - e direi in generale il sistema europeo continentale - migliore rispetto a quella americana, perché alla base dell'accademia italiana c'è, magari anche inconsapevolmente, una concezione di cosa significa apprendere, e più in generale "sapere", che giudico più vera, più adeguata all'essere umano. Chiarisco la differenza con la distinzione fra intelligenza e ragione. L'intelligenza è essenzialmente concepita come problem solving, la capacità di risolvere un problema che si pone. Si può impostare l'insegnamento in base al problem solving, come succede in America, e la cosa ha i suoi vantaggi, perché alla fine il chirurgo che opera o l'ingegnere che fa il ponte devono risolvere dei problemi. C'è però nell'uomo la ragione, che è un'apertura. Un'apertura verso che cosa? Un'apertura alla totalità dei fattori implicati, perché non tutto è interpretabile in termini di problema-soluzione. Faccio un esempio: due persone che decidono di sposarsi non devono solo risolvere dei problemi, ma allargare la riflessione tenendo conto di tutti gli aspetti, anche delle paure, dei sensi di colpa, delle esperienze passate. Per fare questo devono prendersi un tempo che non è fissato, perché l'accoglienza - che è la dimensione fondamentale della ragione - implica tempo, buchi nel percorso, ripensamenti, cioè qualcosa di drammatico. Non basta risolvere un problema. E così i tempi dilatati che molti criticano all'università italiana sono la conseguenza di un approccio più adeguato alla ragione, mentre per risolvere problemi - cioè per un sistema modellato sull'intelligenza - bastano quiz in cui persino il tempo per ogni singola risposta è già fissato. Ecco, io trovo che la nostra università tendenzialmente miri alla ragione così intesa. Però e proprio per via di questo approccio che il nostro sistema è criticato e addirittura dato per morto... Questo dipende dal fatto che c'è un limite della ragione. Quale? Il fatto che una vera apertura, cioè una vera possibilità di conoscenza, di sapere, implica accettare di aprirsi anche al negativo, a quello che non va, alle ombre, che nel caso dell'università sono gli esami inutili, la gestione discutibile. L'approccio dell'università americana tende a eliminare questo dramma e a concentrarsi sull'applicazione. La critica alle facoltà di giurisprudenza in Italia è sempre stata che il percorso dura troppi anni rispetto al sistema anglosassone. Ma per interrogarti, ad esempio, sul rapporto fra legalità e moralità ci vuole tempo, mentre è vero che se lo scopo è imparare ad applicare un codice allora basta meno tempo. Alcuni di quelli che criticano l'università americana dall'interno sono arrivati sulla soglia di questa conclusione: il sistema non sta fallendo perché ha rinunciato ai propri scopi originari, ma proprio perché li ha compiuti. Paradossale, no? Non è un paradosso, perché l'intelligenza è un'astrazione, un fattore che se concepito come unico orizzonte della razionalità astrae dalla realtà. Faccio un altro esempio: se mentre io sto cercando di aggiustare la spina del mio computer arriva mia moglie e mi dice che nostro figlio sta male, qual è la cosa più ragionevole da fare? Andare immediatamente dal figlio e lasciare perdere quello che stavo facendo. Da un punto di vista del problem solving, invece, l'unica occupazione è la spina del computer, mentre tutto il resto passa in secondo piano. Questa mentalità in America ha portato a un'estrema specializzazione e nello stesso tempo a un'estrema astrazione, una chiusura mentale. Una chiusura che hanno cercato di bilanciare con l'efficienza. [mf] __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 giu. ’11 MONSERRATO: PATTO DI FERRO TRA COMUNE E UNIVERSITÀ L'Università e il Comune di Monserrato stringono un patto di collaborazione. A poche settimane dall'elezione del sindaco, il neo- eletto Gianni Argiolas ha incontrato il rettore dell'Ateneo cagliaritano Giovanni Melis. Al termine della riunione, è arrivata la firma su un accordo che impegna le due istituzioni ad allargare i confini della cultura e dello sviluppo. Tra i punti discussi dal rettore e dal sindaco, il completamento delle strutture ospedaliere con tutti gli altri reparti che consentano l'apertura di un pronto soccorso, la realizzazione di un orto botanico e la creazione, nel territorio circostante il polo universitario, di insediamenti abitativi e attività economiche di piccola e media dimensione. È importante, secondo il primo cittadino e il rettore, anche creare una sede permanente di consultazione sui problemi di comune interesse. Intanto Argiolas, per rafforzare il rapporto di collaborazione, ha creato una delega apposita (“Rapporti con l'Università”) assegnata al vicesindaco Marco Asunis. (s. se.) __________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 giu. ’11 MILIA: «NUOVO COLPO ALLA SCUOLA CON LA CHIUSURA DEI CORSI SERALI» LA POLEMICA CAGLIARI. Guerra tra l’assessore alla Cultura, Sergio Milia, e l’istituzione scolastica regionale della provincia di Sassari e del Sulcis dopo la soppressione dei corsi serali. «Ritengo che sia più che mai urgente un incontro col ministro Gelmini», dice Milia. «L’istituzione scolastica, senza alcuna comunicazione, in maniera unilaterale, ha deciso di colpire mortalmente uno dei pilastri del nostro sistema». E non è la prima volta: «Era già accaduto per il tempo pieno e così si ledono irrimediabilmente i rapporti tra la Regione e l’istituzione scolastica regionale. Sarà compito del mio assessorato sensibilizzare la Giunta regionale che ha già lavorato bene per supplire alle carenze del governo nazionali, perché adotti tutti i provvedimenti a tutela del mondo scolastico». Sulla soppressioen dei corsi serali ha preso posizione Francesca Barracciu (Pd): «La gravità dei tagli agli organici che il ministero continua a decurtare senza alcun rispetto per il diritto basilare all’istruzione, è paragonabile al diffondersi di un’epidemia che rischia di sfociare nella rivolta sociale». Per Barracciu «non solo il governo di centrodestra non crea opportunità di lavoro, ma nega la scuola a chi ne ha diritto. __________________________________________________________________ Corriere della Sera 16 giu. ’11 VIA LIBERA ALLA CLASS ACTION SULLE AULE SOVRAFFOLLATE A DECISIONE IL CONSIGLIO DI STATO: ADEGUARE LE STRUTTURE ALLE NUOVE REGOLE La prima contro la pubblica amministrazione ROMA - Sarà la prima class action contro la pubblica amministrazione. Per dire basta alle aule sovraffollate, con più di 25 allievi stipati tra i banchi. Con rischi per la sicurezza di professori e ragazzi. Il via libera arriva dal Consiglio di Stato che, bocciato il ricorso del ministero della Pubblica istruzione, dichiara ammissibile l' azione collettiva promossa dal Codacons che ha dichiarato guerra alle «classi pollaio» con gli studenti trattati come «polli da batteria». Già il Tar del Lazio aveva dato ragione all' associazione dei consumatori di Carlo Rienzi. Il ministro Mariastella Gelmini si era opposta. Adesso il giudice amministrativo di secondo grado conferma l' orientamento: e impone al Miur (istruzione, università e ricerca) di provvedere a «un atto generale, di natura programmatica» per la riqualificazione dell' edilizia scolastica «specie in quelle istituzioni non in grado di reggere l' impatto delle nuove regole introdotte con riguardo alla formazione numerica delle classi». Il Tar aveva dato un tempo di due mesi. Da quando è entrata in vigore, il 1° gennaio del 2010, la class action sta diventando uno strumento sempre più popolare tra i cittadini che, uniti, acquistano più forza nei confronti della grande impresa. Le prime sono state promosse contro le banche. Su internet esiste anche un registro generale di quelle già avviate (www.registroclassaction.it). «La Gelmini insiste con queste battaglie all' ultimo sangue ma poi le perde sempre», osserva Renzi. «Fra trenta giorni, in caso di sua inerzia, che quasi mi auguro, sarà nominato un commissario ad acta, così finalmente avremo una persona con la testa sulle spalle, che attesterà che il 60% delle scuole non sono a norma e allora il ministro dovrà diminuire il numero degli studenti per classe - adesso si arriva a 35 e anche 40 - e poi le toccherà riassumere i precari che ha licenziato». E proprio alla categoria il Codacons offre ospitalità in due gazebo, a piazza Mazzini e largo Spartaco, a Roma, oggi dalle 11 alle 16. Ma il ministero di viale Trastevere ostenta tranquillità. «Il piano generale per l' edilizia scolastica sarà presentato al più presto» spiegano dal Miur. «Gli accertamenti sono già stati avviati da tempo. Appena pronto, il programma verrà sottoposto alla firma del ministero dell' Economia e dell' Istruzione». Intanto il Pd chiede la convocazione di una commissione parlamentare di inchiesta. Denunciando che in Italia due edifici scolastici su tre non sono a norma di legge. Sul sito web del Codacons, che peraltro riporta un monitoraggio del ministero, le scuole con gravi criticità sono 12 mila: il record è in Calabria, 1.428. Per il segretario generale della Fit-Cgil, Mimmo Pantaleo «altro che riforme epocali. La sicurezza degli alunni e del personale è messa in discussione ogni giorno. La Gelmini dovrebbe vergognarsi per i colpi devastanti che ha inferto con i tagli alla scuola pubblica». G.Ca. RIPRODUZIONE RISERVATA **** 25 Alunni È il tetto massimo previsto per classe Cavalli Giovanna ________________________________________________________________ Il Manifesto 17 giu. ’11 «ONDE E MAREE: DAL MEDITERRANEO L'ENERGIA RINNOVABILE DEL FUTURO» Intervista/ VINCENZO ARTALE, OCEANOGRAFO DELL'ENEA Eleonora Martini Non solo vento, sole, fiumi e calore terrestre. Se c'è una fonte «pulita» con enormi potenzialità di produzione energetica, quella è senz'altro il mare. Onde, correnti marine e maree un giorno non lontano potrebbero produrre energia come piccole centrali atomiche, ma l'elettricità potrebbe arrivare anche sfruttando il gradiente salino e termico degli oceani. Un settore tecnologico ancora in fase sperimentale ma su cui investono molto paesi come il Regno unito, gli Usa, la Norvegia, il Portogallo, il Giappone e il Canada. Troppo poco finanziato invece in Italia, malgrado i nostri ricercatori abbiano raggiunto traguardi significativi e riconosciuti a livello internazionale. Per questo l'Enea ha chiamato a raccolta ieri e oggi a Roma - con un'ottima tempistica, ancorché casuale - tutti i principali esperti italiani della produzione elettrica da energia marina. Il fisico Vincenzo Artale, oceanografo dell'Enea, che ha voluto fortemente il workshop sulle prospettive dì sviluppo del settore nel quale oggi si confronteranno esperti italiani ed europei, non ha dubbi: «I problemi ci sono - spiega Artale - ma sono simili a quelli che vent'anni fa sembravano insormontabili per il settore eolico. La nostra ricerca nel Mediterraneo va avanti solo grazie a un finanziamento di 500 mila euro del ministero dello Sviluppo economico, con il quale stiamo mappando le coste e i mari italiani. Bisogna invece investire di più. Sfruttando le onde e le maree si potrebbero rendere autonomi dal punto di vista energetico paesi come la Scozia, che sta lavorando molto sui cosiddetti sbarramenti sottomarini». E l'Italia, professor Artale? Il Mediterraneo non ha certo le potenzialità energetiche degli oceani o dei mari del Nord, ma ci sono zone ottime per provare a sfruttare le maree (che a differenza del vento hanno il pregio di essere regolari e energeticamente quantificabili), e le onde. Uno dei siti privilegiati è lo stretto di Messina, dove è già installato un prototipo di turbina ad asse verticale chiamata Kobold (tecnologia italiana, simile alle pale eoliche ma piantato orizzontalmente nelle profondità marine, ndr) ottimo per sfruttare le maree. Per avere un'idea delle potenzialità basti pensare che per otte nere la stessa energia prodotta da una pala eolica di un diametro di dieci metri, nel mare ne occorre una di un metro. Altre zone promettenti sono le bocche di Bonifacio, il mare a sud della Sicilia, buona parte del Tirreno, il mar Ligure o lo stretto di Gibilterra, dove il governo spagnolo sta installando un prototipo italiano. Per trasformare invece l'energia delle onde, che nel Mediterraneo non è molto elevata, si usano dighe a cassoni chiamate Rewec3 (Reasonant wave energy converter) che potrebbero essere montate con grande profitto sotto le banchine dei porti, o serpentoni galleggianti che sfruttano il moto di oscillazione ondoso. Quali sono In Italia gli attori principali del campo? Noi dell'Enea stiamo mettendo a disposizione tutto il nostro know how, così come i ricercatori del Cnr. Poi ci sono università molto attive come quella di Messina, di Reggio Calabria o di Napoli, ma è ampia anche l'esperienza degli atenei di Bologna, Padova, il Politecnico di Milano e Torino, e della società Ponte di Archimede. Sono loro che hanno messo a punto il prototipo Kobold che - tra i tantissimi brevetti esistenti per la produzione di energia dal mare - sta ottenendo un buon successo all'estero, tanto che l'Indonesia lo sta sviluppando. Ma siccome siamo ancora agli albori di una nuova fonte tecnologica e visto che gli ingegneri nucleari ora hanno più tempo, si potrebbe intensificare la ricerca tecnologica sulle energie rinnovabili puntando a forme integrate di produzione, con piattaforme che sfruttano vento, sole e mare insieme. D'altra parte la Comunità europea già emette bandi espressamente sull'energia marina. Quale impatto ambientale hanno questo tipo di tecnologie? Vanno valutati attentamente i siti prescelti, come per l'eolico e il fotovoltaico. Ovviamente non si può impiantare una turbina a ridosso delle spiagge. Sulla fauna, invece, questo tipo di tecnologia ha un impatto bassissimo, molto più risolvibile rispetto all'eolico, per esempio. Addirittura le dighe a cassoni sono luoghi dove i pesci si aggregano. Ma siccome su questo campo di ricerca non ci sono investimenti paragonabili né all'eolico né al fotovoltaico, in Italia siamo ancora a livello direi quasi artigianale, di piccole società. Non è così nel mondo e nemmeno in Europa. Per la prima volta in Italia si riuniscono gli esperti europei di produzione energetica dal mare. Una ricerca poco finanziata ________________________________________________________________ La Repubblica 17 giu. ’11 COME DIMOSTRANO GLI INDIOS DELL'AMAZZONIA EUCLIDE E IN TUTTI NOI Uno Studio Condotto Dal Cnrs Francese Sui Mundurucu Del Brasile, Del Tutto Privi Di Istruzione Matematica, Proverebbe Che I Concetti Della Geometria Sono Innati di CATERINA VISCO La geometria è innata e può essere compresa anche da chi non l'ha mai studiata. Lo avrebbero dimostrato i ricercatori francesi del Centre National de la Recherche Scientifique sulla rivista Pnos, in uno studio sugli abitanti di un villaggio isolato dell'Amazzonia, in Brasile, chiamati Mundurucu, completamente privi di istruzione matematica. Molti dei fondamentali principi della geometria - come il fatto che per due punti su di un piano passa una sola retta o che la somma degli angoli interni di un triangolo è sempre la stessa - sono stati formulati da Euclide circa 2300 anni fa e sono parte integrante della nostra educazione scolastica. L'essere radicati nella cultura occidentale non ci permette però di capire se la loro comprensione dipenda dal nostro livello di istruzione e dal linguaggio utilizzato o meno. Per questo motivo i ricercatori francesi hanno coinvolto 22 adulti e 8 bambini tra i 7 e i 13 anni della popolazione Mundurucu in una serie di conversazioni. «Il loro linguaggio» racconta Pierre Pica, coautore della ricerca, «si serve dei numeri in maniera approssimativa, non possiede molti termini propri della geometria, come quadrato o triangolo, e non presenta nessun modo per esprimere il concetto di due linee parallele». Gli studi, iniziati anni fa, hanno già dimostrato che, anche in assenza di termini specifici per indicarli, i Mundurucu utilizzano comunque il concetto di numero. Ora i ricercatori sono passati a indagare sulla geometria, utilizzando, al posto di punti e rette su un piano, i diversi villaggi indicati su una mappa, e al posto della sfera, una zucca. Le risposte dei Mundurucu sono state corrette quanto quelle degli occidentali partecipanti agli stessi test. Per quanto riguarda poi lo spazio sferico - che non si basa sui postulati di Euclide, ma che anzi li mette in discussione - le performance migliori sono state proprio quelle della popolazione amazzonica. Mundurucu non hanno infatti avuto dubbi nell'affermare che in una sfera le rette parallele si incontrano (mentre, nella geometria euclidea, questo non awiene mai), al contrario dei partecipanti occidentali nei quali forse era fin troppo radicata la conoscenza dei principi euclidei. ________________________________________________________________ La Repubblica 17 giu. ’11 QUANDO VINCONI I BUONI Contrordine Scienziati L’evoluzione E’ Altruista Ecco alcuni saggi in cui gli studiosi mettono in dubbio che gli uomini siano "egoisti per natura". Poiché tendiamo invece, a cooperare La logica non è più quella della competizione ma piuttosto l'idea di collaborazione DAVID BROOKS La teoria evoluzionistica ci insegna che a sopravvivere sono gli individui che meglio si adattano all'ambiente. Il più forte prevale sul più debole. Le creature che si adattano trasmettono i propri, egoistici, geni. Quelle incapaci di adattarsi vanno incontro all'estinzione. Stando a questa tesi noi esseri umani siamo marcati da un profondo egoismo, alla stregua di tutti gli altri animali. Puntiamo al massimo risultato entrando in competizione per la posizione sociale, il reddito, le opportunità di trovare un partner. I comportamenti apparentemente altruistici sono in realtà dettati da un interesse personale dissimulato. Carità e fratellanza non sono altro che una mistificazione culturale apposta sulla logica ferrea della natura. Tutto ciò è in parte vero, ovviamente. Ma ogni giorno mi arriva sulla scrivania un libro che pone la questione sotto una luce diversa. Libri sulla solidarietà, l'empatia, la cooperazione e la collaborazione, scritti da scienziati, psicologi evoluzionisti, neuro scienziati. A quanto sembra gli studiosi di questa materia hanno cambiato orientamento, dando vita a un'immagine più sfumata e spesso più tenera della natura. Partiamo dal saggio più modesto. Si tratta di Super Cooperators scritto da Martin Nowak assieme a Roger Highfield. Nowak ricorre alla matematica superiore per dimostrare che «cooperazione e competizione sono perennemente e strettamente interconnesse». Intenti a persegui-re il nostro interesse personale spesso siamo portati a restituire una gentilezza ricevuta, così da poter contare sugli altri in caso di bisogno. Siamo stimolati a crearci la reputazione di persone gentili con l'intento di invogliare gli altri a collaborare con noi. Siamo incentivati al lavoro di squadra, anche se nel breve periodo può risultare controproducente rispetto ai nostri interessi personali, perché i gruppi coesi sono destinati al successo. Nowak attribuisce alla cooperazione un ruolo centrale nell'evoluzione equiparandola alla mutazione e alla selezione. Ma gran parte dei nuovi saggi superano la teoria dell'incentivazione in senso stretto. Michael Tomasello, autore di "Why We Cooperate", ha creato una serie di test adatti, con poche variazioni, sia agli scimpanzé che ai bambini. Dalla sperimentazione è emerso che già in tenerissima età i bambini hanno un comportamento collaborativo e condividono le informazioni, a differenza di quanto accade negli scimpanzé adulti. Un bimbo di un anno informagli altri della presenza di qualcosa indicandolo. Gli scimpanzé e le altre scimmie non condividono le informazioni con spirito collaborativo. I bambini sono pronti a condividere il cibo con estranei. Gli scimpanzé generalmente non offrono cibo, neanche alla prole. Se un bimbo di 14 mesi si accorge che un adulto è in difficoltà, non riesce ad esempio ad aprire la porta perché ha le mani impegnate, cercherà di aiutarlo. Latesi di Tomasello è che l'uomo mentalmente si è differenziato dagli altri primati. La disponibilità alla cooperazione è una qualità umana innata che viene intenzionalmente esaltata nelle varie culture. In Born to Be Good, Dacher Keltner illustra gli studi su cui è impegnato, assieme ad altri, sui meccanismi dell'empatia e della connessione, descrivendo le dinamiche del sorriso, dell'arrossire, del riso e del contatto fisico. Quando si ride assieme agli amici si parte con vocalizza-zioni separate che poi però rifondono in suoni interconnessi. Pare che il riso si sia sviluppato milioni di anni fa, ben prima delle vocali e delle consonanti, come meccanismo per costruire cooperazione. F a parte del ricco strumentario innato della collaborazione tra esseri umani. In un saggio Keltner citai' opera di James Rilling e Gregory Berns, dell'università di Emory. I due neuro- scienziati hanno scoperto che l'atto di aiutare il prossimo attiva le aree del nucleo caudato e della corteccia cingolata anteriore coinvolte nei meccanismi del piacere e della gratificazione. Significa che rendersi utili agli altri è fonte di piacere, come soddisfare un desiderio personale. N e Il suo libro The RighteousMind, in uscita all'inizio del prossimo anno, Jonathan Haidt si associa a Edward O. Wilson, David Sloan Wilson ed altri nel sostenere che la selezione naturale avviene non solo attraverso la competizione a livello individuale, ma anche tra gruppi. In entrambi i casi la carta vincente è la capacità di adattamento, ma nella competizione tra gruppi la capacità di coesione, di cooperazione, l'altruismo dei membri, sono fattori determinanti per imporsi e trasmettere i propri geni. Parlare di "selezione di gruppo" era eresia fino a qualche anno fa, oggi questa teoria sta prendendo piede. Gli esseri umani, sostiene Haidt, sono le "giraffe dell'altruismo". Come le giraffe hanno sviluppato il collo per sopravvivere, così gli uomini hanno sviluppato il senso morale per vincere nella competizione, a livello individuale e di gruppo. Gli uomini danno vita a comunità morali condividendo regole, abitudini, emozioni e divinità per poi combattere e addirittura talvolta morire per difenderle. Le nuove tesi evoluzionistiche che esaltano il fattore cooperazione fanno sì che si rivedano vecchi criteri di analisi come quello che imponeva nelle scienze sociali e in particolare in economia il modello del massimo vantaggio sulla base del principio della competizione egoista. Ma l'aspetto più rivoluzionario riguarda il rapporto tra comportamento e morale, per decenni negato in base a criteri cosiddetti "scientifici". Se è vero però che la cooperazione è parte integrante della nostra natura umana, altrettanto vale per la moralità, non possiamo capire chi siamo e come siamo arrivati fin qui senza considerare l'etica, le emozioni e la religione. (© New York Times-la Repubblica Traduzione di Emilia Benghi) __________________________________________________________________ Corriere della Sera 18 giu. ’11 PER I COSTI DEI PARTITI LA CRISI NON ESISTE: +1.110%DI RIMBORSI Ed è boom nell’uso degli aerei di Stato Ogni componente del governo vola 97 ore l’anno ROMA — «Un conto è fare un articolo, un altro conto fare un articolato…» , ha osservato pubblicamente, alla festa della Cisl di domenica scorsa a Levico Terme, il ministro dell’Economia. Giulio Tremonti ha sperimentato direttamente quanto sia difficile entrare con i fatti nella carne viva degli scandalosi costi della politica. Con la manovra finanziaria dello scorso anno aveva provato a tagliare del 50%i generosissimi «rimborsi elettorali» , come si chiama ipocritamente il finanziamento pubblico, riconosciuti per legge ai partiti politici, cresciuti fra il 1999 e il 2008 del 1.110%, mentre gli stipendi pubblici aumentavano del 42. Ebbene, il taglio è stato prima ridimensionato al 20%, quindi al 10 per cento. Per non parlare della norma che avrebbe riportato le spese di palazzo Chigi, in alcuni casi letteralmente impazzite, sotto il controllo del Tesoro: saltata come un tappo di champagne. Ciò non toglie che quell’ «articolato» prima o poi andrà fatto. Perché qui ci va di mezzo, secondo lo stesso Tremonti, la credibilità della politica e del governo. Se la riforma fiscale le tasse vuole avere una prospettiva minima di serietà, deve passare prima di qua. Fermo restando che i soldi tolti ai privilegi della politica non basteranno certo da soli a tappare il buco che l’eventuale taglio delle tasse (considerato dai capi del centrodestra necessario per arginare l’emorragia di consensi) potrebbe aprire nei conti pubblici. Da dove cominciare? C’è soltanto l’imbarazzo della scelta. «Meno voli blu» , ha detto Tremonti. Una sfida mica da ridere, considerando l’andazzo. Nel 2005 gli aerei di Stato del 31 ° stormo dell’Aeronautica toccarono il record di 7.723 ore di volo. Due anni dopo, durante il governo Prodi, grazie a una direttiva draconiana del sottosegretario Enrico Micheli erano scesi a 3.902. Tornato Berlusconi, quella direttiva è stata prontamente abrogata e nel 2009 le ore di volo per le sole «esigenze di Stato» sono arrivate a 5.931, ma con un governo ridotto a 61 elementi. Cioè, 97 ore e 15 minuti a testa. Letteralmente stratosferico l’aumento procapite (cioè per ogni componente del governo) rispetto a due anni prima: +154,2%. Ma anche il famoso record del 2005 delle 78 ore e 50 minuti a testa è stato letteralmente polverizzato, con una crescita del 23,3%. Mentre il consumo del cherosene ministeriale, alla faccia della crisi, non si è certamente arrestato. Nel 2009 gli aerei di Stato viaggiavano al ritmo di 494 ore al mese? Nel 2010 si è saliti a 507. Ignoti, ovviamente, i costi. Non sarà facile, per Tremonti. Certo, se si potessero ricondurre i conti di palazzo Chigi sotto il controllo della Ragioneria, com’era prima che nel 1999 il governo di centrosinistra li rendesse completamente autonomi, sarebbe un’altra storia. Si toglierebbero alla politica molti margini di manovra non soltanto sui 3 o 400 milioni l’anno di spese vive della presidenza del Consiglio, ma, per esempio, anche sul miliardo e mezzo di budget della Protezione civile. Meno sprechi, più sobrietà. Peccato che i messaggi arrivati finora siano di segno opposto. Qualche esempio? Nel 2010 il budget per pagare gli «staff» politici di palazzo Chigi aveva superato di slancio 27,5 milioni, con un aumento del 26 per cento. Mistero fitto sul numero delle persone. Quest’anno le spese per gli affitti degli uffici della presidenza del Consiglio sarebbero lievitate (sempre secondo le previsioni) da 10 a 13,7 milioni. Recentissima poi la notizia che palazzo Chigi ha deciso di dotarsi non di uno, ma di due capi uffici stampa retribuiti al pari di un «capo delle strutture generali della presidenza del Consiglio dei ministri» . E i nuovi sottosegretari concessi da Berlusconi ai Responsabili come contropartita per il sostegno alla maggioranza? L’Espresso ha calcolato che costeranno 3 milioni l’anno. Il problema dei soldi non tocca invece, almeno all’apparenza, l’ex Pd Massimo Calearo, nominato consigliere del premier per l’export (ma di questo non si occupa già il ministro dello Sviluppo?). Né Antonio Razzi, ora consigliere personale del ministro «Responsabile» dell’Agricoltura Francesco Saverio Romano. Ma siccome il deputato ex dipietrista è stato eletto all’estero ed è fissato con la tutela della cucina italiana, poche ore prima di andarsene per lasciare il posto a Romano l'ex ministro Giancarlo Galan gli ha firmato un decreto che istituisce «l’elenco dei ristoratori italiani all’estero» . Prevede una targa con la scritta «Ottimo – ristorante di qualità» da mettere sulla porta. Vi domanderete: chi sceglie i locali da insignire? Un apposito Comitato interministeriale composto dal ministro e da uno stuolo di funzionari oltre, udite udite, da 9 esperti nominati anche da altri ministeri. Un Comitato interministeriale! Il decreto dice che nessuno prenderà un euro. E le spese vive, fossero anche solo le targhe e i diplomi, quelle chi le paga? Noi. Ma il colmo è un altro. Perché nemmeno un anno fa lo stesso ministero dell’Agricoltura aveva fatto un accordo con l’Unioncamere per dare un marchio di qualità ai «Ristoranti italiani nel mondo» . Forse se n’erano dimenticati… Insomma, se è giusto lamentarsi dei tagli orizzontali e indiscriminati, qui bisognerebbe andarci con il machete. E il parlamento? Lasciamo da parte il capitolo dei numero dei nostri rappresentanti, quasi doppio rispetto alla Spagna. Ma è chiedere troppo di allineare anche le loro retribuzioni alla media europea, come ha suggerito di fare Tremonti per tutti gli incarichi pubblici? Da anni le Camere non promettono che tagli, limitandosi però a indolori sforbiciatine. Guardiamo i bilanci. Le spese correnti della Camera, che nel solo 2010 ha tirato fuori 54,4 milioni per gli affitti, sono previste passare da un miliardo 59 milioni del 2010 a un miliardo 83 milioni nel 2012: +2,3 per cento. Quelle del Senato, che negli ultimi 14 anni ha sborsato 81 milioni per gli uffici di 86 senatori, da 576 a circa 594 milioni: +3,6%. La Camera dispone di 20 auto blu con 28 autisti e i deputati che hanno il diritto a utilizzarle sono soltanto 63. Il machete potrebbe calare, forse a maggior ragione, anche in periferia. Dove gli sprechi della politica sono inimmaginabili. A cominciare dai posti di lavoro clientelari. È mai possibile che in Lombardia un dipendente regionale costi 21 euro a ogni cittadino contro i 70 della Campania? E i 173 del Molise? O i 353 della Sicilia? È mai possibile che sia ancora in vigore una regola che consente a chi è stato parlamentare ma anche consigliere regionale di incassare ben due vitalizi, uno del Parlamento e uno della Regione? In questa meravigliosa condizione ci sono almeno duecento ex onorevoli. E che vitalizi: si arriva fino a oltre 9 mila euro lordi al mese. Accade nella Regione Lazio, dove si può ancora andare in pensione giovanissimi, come dimostra il caso dell’ex governatore Piero Marrazzo, il quale percepisce il vitalizio di circa 4 mila euro mensili dal 2010, prima ancora di aver compiuto 52 anni. È mai possibile che l’unica regione ad abolire l’arcaico e odioso privilegio del vitalizio per gli ex consiglieri sia stata finora, dopo sforzi immani, l’Emilia Romagna (naturalmente, a partire dalla prossima legislatura…)? È mai possibile che nei consigli regionali non si riesca a porre fine all’indecenza dei gruppi politici costituiti da una sola persona, che dà il diritto talvolta ad assumere collaboratori, avere l’auto blu e addirittura uno stipendio maggiorato? Ce ne sono 74 (settantaquattro). Con casi esilaranti. In Piemonte ci sono ben due gruppi «consiliari» che si richiamano all’ex governatrice Mercedes Bresso, Insieme per Bresso e Uniti per Bresso. Unico componente di quest’ultimo: Mercedes Bresso. Ma anche nel consiglio provinciale di Bolzano sono presenti due monogruppi gemelli: Il Popolo della libertà e Il Popolo della libertà – Berlusconi per l’Alto Adige. E nelle Marche persino il governatore in carica Gian Mario Spacca si è fatto il proprio gruppo. Come si chiama? Gian Mario Spacca Presidente, si chiama. Che domande! Sergio Rizzo __________________________________________________________________ Corriere della Sera 19 giu. ’11 LA BUROCRAZIA DELL’ECONOMIA DIGITALE COSÌ SIMILE ALLE SCARTOFFIE CARTACEE . New economy ma old habit, vecchi vizi. Parafrasando una famosa battuta del fondatore di Amazon, Jeff Bezos, potremmo dire che se quella che stiamo vivendo è l’economia digitale 2.0 la sua burocrazia ha pensato bene di svernare il più a lungo possibile nell’era 0.2. Chi ha un account sui vari iTunes e App Store della Apple, dove si possono acquistare canzoni, film, giochi o giornali, non ci fa quasi più caso. Ogni due o tre mesi l’operazione viene interrotta da una finestra con il nuovo contratto da accettare per poter procedere all’acquisto. Stessa cosa accade per Amazon, sulla piattaforma per gli e-book del Kindle e per l’Android Market di Google. Si clicca svogliatamente su accetta e non ci si pensa più. Ma qualcuno si è mai preso la briga di leggere questi documenti fino in fondo? È molto difficile: il nuovo contratto che in questo giorni gli utenti di iTunes hanno ricevuto, per esempio, prevede 68 (sessantotto!) pagine da leggersi sullo schermo da 3,7 pollici dell’iPod o dell’iPhone. Un’operazione che avrebbe stroncato anche il paziente Giobbe. Nulla da dire sulla forma. Quella che si conclude sul web altro non è che una nuova forma smaterializzata di commercio monetario e dunque il contratto è giustificato e necessario. Ma le sessantotto pagine ricordano molto da vicino la valanga di documenti che ci troviamo davanti quando dobbiamo aprire un conto nuovo in banca o dobbiamo sottoscrivere un prodotto bancario: si dice tutto nei minimi particolari per non dire nulla. Però la firma poi fa fede e il cliente passa nel torto. Sulla finanza i regolatori hanno da tempo spinto per una sintesi più efficace pro cliente. E visto che sotto l’epidermide di smartphone e tablet si gioca la partita fondamentale della privacy è forse arrivato il tempo di una semplificazione documentale anche per l’economia digitale. Massimo Sideri __________________________________________________________________ Corriere della Sera 18 giu. ’11 CAMPERISTI E GOMMONAUTI I «FURBETTI» DEL 5 PER MILLE L’agenzia del governo: due su cinque non meritano MILANO — Ci sono quelli della dama, del subbuteo e del burraco. Quelli del lamento rumeno e del flamenco. Le guardie padane, i camperisti, i gommonauti. Gli astrofili e i bocciofili. I cavalieri: Templari, del Tau, dell’ambiente. E poi gli amici: delle mamme e dei nonni, dei cani, dei gatti (vincono i primi sui secondi) e degli animali estinti. Del Milan, di Totò e delle ville venete. Stefano Zamagni mette in fila le parole come se dovesse stenderle su una fune da equilibrista: «Su quasi 50 mila candidati al cinque per mille — afferma il presidente dell’Agenzia per le Onlus — non più di 30 mila soddisfano i criteri di "meritorietà sociale"che sono stati posti alla base di questo strumento» . Per l'esattezza: 30 mila sui 43 mila inseriti quest’anno nell’elenco dell’Agenzia delle Entrate. Meno dello scorso anno, dell’anno prima ancora. Ma comunque tantissimi. Associazioni, onlus, enti. «Tutti impegnati in un modo o nell’altro nel sociale, sia chiaro. Ma con dei distinguo. Le associazioni sportive, beh, non avrebbero titolo. Ci sono poi nomi che gridano vendetta e rischiano di fare male all’intero mondo della solidarietà» . Il cinque per mille quest’anno compie sei anni. Lo stanziamento previsto dalla Finanziaria, e poi ritoccato all’insù dopo le proteste del Terzo settore, è di 400 milioni. E gli italiani che scelgono di «finanziare» così la propria associazione del cuore sono sempre di più: 15,4 milioni nel 2009 (il 5,6%in più rispetto al 2008). Mentre il numero degli enti ammessi, dopo il boom del 2008 (oltre 77 mila), è stato via via ridimensionato dall’Agenzia delle Entrate. Dei 43 mila che quest’anno sono stati inseriti in elenco 97 sono enti di ricerca sanitaria, 436 di ricerca scientifica e dell’università. Seimila e 615 sono invece le associazioni sportive dilettantistiche e oltre 35.500 quelle di volontariato. Si va dalla Fondazione Milan al Circolo damistico di Aosta, dalle associazioni di bowling (quattro tra Roma e Palermo) ai gommonauti pordenonesi (1.421 euro nel 2009), dalle bocciofile (16 da Bolzano a Pesaro) alla scuola portieri. it di Manzano (Udine) e alla Culla della trota di Lanuvio (Roma). E ancora: la Guardia Padana (29.247 euro nel 2009) ma anche le associazioni di immigrati senegalesi (quattro, da Cuneo ad Ascoli Piceno), l’Ordo templi hierosolymitani equites templares onlus di Roma (110 euro nel 2009) e pure i templari di Messina e Palermo, quindi l’associazione carnevalesca bolognese Re Fagiolo (652 euro), i gruppi micologici (sette sparsi in tutta Italia). Fino ad arrivare all’associazione «Basta "m...."in mare» di Rimini. I più sostenuti, dati 2009 alla mano, sono gli enti di ricerca scientifica (37,9 milioni all’Airc) e le grandi Onlus (9,9 a Medici senza Frontiere e 8 a Emergency). Ma quando il contribuente mette una firma alla voce 5 per mille senza indicare l’associazione del cuore le donazioni vengono poi ripartite proporzionalmente tra tutti. Spiega Zamagni: «Sia chiaro: la stragrande maggioranza sono meritevoli, quelle intermedie sono però penalizzate. Ogni anno proponiamo la cancellazione di circa 600 associazioni, nell’ultima riunione ne sono state depennate quaranta» . Il presidente per le Onlus mette l’accento sulla necessità di un controllo preventivo: «È che questo provvedimento non è ancora diventato legge ordinaria. Così che all’ultimo, questo o quell’altro gruppo di potere, riesce a far inserire quelle due righe...» . Lasciando spazio a qualche furbetto e trasformando il contribuente nell’unico vero controllore. Alessandra Mangiarott __________________________________________________________________ Corriere della Sera 18 giu. ’11 LE NOSTRE BOLLETTE DOPO IL NO AL NUCLEARE Se è stato il divorzio degli italiani dal governo, chi paga gli alimenti? I l segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, dice che l’esito dei referendum segna «il divorzio degli italiani dal governo» . Se era un referendum sul governo, è indubbio che abbiano divorziato. Ma, quando c’è un divorzio, c’è sempre qualcuno che paga gli alimenti. Sarà il Paese a pagarli. È la metafora del marito che per far dispetto alla moglie... In democrazia, l’esito di una votazione, quale che sia, è l’espressione della volontà popolare; e, come tale, va rispettato. Ciò non toglie, però, che non sia lo stesso legittima qualche riflessione sulle sue conseguenze. È stata spesso la stessa sinistra «intelligente» a ricordare che furono libere e democratiche elezioni a portare al potere Hitler... Spero sia lecito a chi già aveva espresso riserve alla vigilia del voto chiedere ora ai vincitori: «E adesso come la mettiamo?» . Con la rinuncia al nucleare, resta insoluto, non da ieri, il problema energetico nazionale. La decisione di ricorrervi era già arrivata fuori tempo massimo; le fonti alternative non sono tecnicamente praticabili ed economicamente remunerative perché in una fase sperimentale; il referendum esclude che anche in futuro si possa puntare sul nucleare; nel frattempo, paghiamo l’energia il 30%in più degli altri Paesi europei che un piano energetico se lo sono dato. Il «sì» alla rinuncia al nucleare, se non è stato (solo) un voto contro il governo, è nato (anche) sull’onda emotiva dei disastri di Chernobyl — per l’ubriachezza di alcuni addetti — e in Giappone, dove le condizioni non sono propriamente le stesse che in Alto Adige. Aver votato influenzati dalle conseguenze dell’elevato tasso etilico degli operai sovietici e da quelle di uno tsunami a migliaia di miglia dall’Italia non è stata una gran prova di conoscenza della natura del problema. Il referendum sull’acqua lascia le cose come stavano. Sedicimila concessionarie, partecipate e controllate dai Comuni ma, di fatto, nelle mani delle clientele di partito. Avevano già aumentato le tariffe e gestiscono una rete inadeguata e colabrodo senza avere i soldi per migliorarla. Le vecchie municipalizzate, se non altro perché soggette a regime pubblicistico, erano meglio. La privatizzazione della distribuzione, comunque assegnabile per gara e, poi, controllata dai Comuni, puntava a cercare i soldi sul mercato. Un tempo, a un demagogo che, da Palazzo Venezia, chiedeva «volete burro o cannoni ?» , gli italiani avevano risposto «cannoni» . Poi, erano andati, felici, al macello. La situazione, ancorché su scala minore e in condizioni meno drammatiche, si è ripetuta. Rispettabili erano gli italiani che, allora, avevano risposto «cannoni» ; rispettabili sono quelli che, adesso, dopo aver votato «sì» , esultano altrettanto felici. Analoga la scarsa consapevolezza della realtà. Ps. I fatti descritti e le opinioni espresse non impegnano minimamente il Corriere della Sera. Si prega, pertanto, di non insultarne il direttore, ma di prendersela solo con me. postellino@corriere. it __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 18 giu. ’11 VERONESI: L'URANIO NON FA MALE Umberto Veronesi esclude pericoli dalle esercitazioni militari «E rinunciare all'energia atomica è soltanto un regresso» Malformazioni, tumori, agnelli a due teste e morti sospette. Per Umberto Veronesi, ex ministro della Sanità (nel governo Amato: era il 2000) l'uranio utilizzato nel poligono di Quirra non c'entra: «L'uranio impoverito non fa niente: è solo il nome a far paura. È un elemento tra i più diffusi in natura, è presente anche nell'acqua che beviamo». L'oncologo, direttore scientifico dell'Istituto europeo di Oncologia, a Cagliari per una lectio magistralis nell'ospedale Businco, prende fiato e completa il discorso: «Guardate: l'uranio emette radiazioni alfa di appena un decimo di millimetro. Uno se lo può mettere in tasca. Non succederebbe nulla. Nel mare ce ne sono tre milligrammi per metro cubo. In condizioni naturali è debolmente radioattivo, è stato usato per realizzare armi militari perché ha un peso specifico più alto del piombo. Vi dico di più: l'uranio è dentro di noi. Eppure...». Eppure la procura della Repubblica di Lanusei sta cercando di accertare se il metallo pesante sia stato utilizzato nelle esercitazioni militari del poligono ogliastrino. E se queste attività siano legate alle malattie e alle morti dei pastori che portavano le proprie pecore a pascolare vicino alle aree militari. LE ESERCITAZIONI Diversa è la posizione sulle attività dell'esercito: «Io sono un'antimilitarista convinto. Odio le bombe, non ne esistono di buone e cattive. Uccidono esseri umani viventi. Bisogna opporsi a tutte le guerre e a tutte le installazioni militari». Ma Veronesi, che è anche presidente dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, ha sempre sostenuto l'energia atomica. E ora, a pochi giorni dalla valanga di sì nei referendum, che hanno congelato la svolta nucleare in Italia, non cambia idea: «Mi inchino alla volontà popolare. Ma rimango a favore del nucleare. Non sfruttare questa enorme potenza è un regresso della mente umana. La scienza va verso il futuro. Ora abbiamo la scissione dell'atomo, poi arriverà la fusione. In fondo il Sole è una grande centrale nucleare. Sulla Terra si ripete lo stesso principio, semplicemente in forma microscopica». LE REAZIONI Angelo Bonelli, presidente della Federazione dei Verdi, replica alla teoria dell'ex ministro della Sanità: «Le uscite di Veronesi sul nucleare e sull'uranio impoverito sono sconcertanti. Da un lato prova a delegittimare la scelta degli italiani, che a larghissima maggioranza hanno detto no al nucleare. Dall'altro mette in dubbio che l'uranio sia stato la causa di malattie per i militari e le popolazioni civili». Il deputato dell'Idv Federico Palomba difende le indagini di Domenico Fiordalisi: «Sarà la procura di Lanusei a stabilire se l'uranio impoverito esploso a Quirra non è pericoloso. I dati epidemiologici forniti dalle Asl fanno pensare che i proiettili esplosi in gran quantità a Quirra rappresentino un rischio reale» Graziano Milia, presidente della Provincia di Cagliari, invece attacca Bonelli e Palomba: «Trovo sconcertante che abbiano una considerazione della scienza di così basso profilo. Mi pare che le loro posizioni siano da inquisizione del '500. Veronesi va rispettato e il suo sapere non è sottoponibile al parere della magistratura». Michele Ruffi __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 19 giu. ’11 «URANIO? IL MANDANTE, NON IL KILLER: genera le polveri che poi uccidono» La ricercatrice Gatti: «Tredici pastori morti, è un caso unico al mondo» «Sono d'accordo con il professor Umberto Veronesi: un proiettile all'uranio impoverito può essere messo in tasca senza causare problemi alla salute. La sostanza è usata per costruire aerei e surf. I discorso è un altro: l'uranio impoverito, scarsamente radioattivo, quando è sparato ad esempio contro un carro armato, crea un aerosol di metalli che - se inalato - entra nel corpo attraverso i polmoni, arriva nel sangue, nello sperma, causa tumori, si attacca anche al Dna: da qui la possibilità di bimbi malformati». Maria Antonietta Gatti, biomaterialista dell'Università di Modena, è convinta di una teoria che nei prossimi giorni esporrà negli Usa, in un convegno sulla biosicurezza. «Sono l'unica italiana invitata in un Paese che ha subito la moderna Hiroshima delle nano particelle, cioè l'esplosione delle Torri gemelle, che a distanza di anni sta causando, nelle persone che hanno lavorato ai soccorsi, tumori e diabete con incidenze altissime». E nel poligono di Quirra? «In piccolo ha subìto quel che è successo a New York. Perché le polveri provocate da esplosioni a oltre tremila gradi uccidono». Teoria contestata in campo internazionale. «Abbiamo le foto di queste nano particelle cancerogene, negli organi dei soldati malati e dei pastori morti a Quirra. Io l'ho già detto due anni fa: tredici allevatori ammalati di leucemia in una zona così piccola, in un ambiente che prima era salubre, terra di centenari, è un caso unico al mondo. Per fortuna sta indagando la magistratura di Lanusei». Lei è consulente del pm Domenico Fiordalisi. «Sì, ma anche della Difesa, nella commissione parlamentare d'inchiesta che ha ispirato la legge di risarcimento per chi si ammala e vive nei pressi di un poligono, che ha sollecitato i controlli ambientali recenti. A Quirra sono state sperimentate bombe dal 1956 a oggi, non dimentichiamolo». Veronesi non concorda. «No, se leggete bene le sue parole, il professore non affronta il nocciolo del problema. Io lo sostengo da sempre: l'uranio impoverito non è il killer, ma il mandante della malattia. Sono le polveri della guerra e l'inquinamento bellico ad uccidere». Soltanto a Quirra? E le grandi città inquinate? «Verissimo. L'Organizzazione mondiale della Sanità ha detto che chi abita nella Pianura Padana, dove esiste un'alta concentrazione di inceneritori, vive in media 36 mesi in meno rispetto a chi abita negli altri Paesi industrializzati. Impianti tra l'altro assolti in passato dal professor Veronesi». L'uranio fa male? «Rispondo con una domanda. Come mai nelle centrali nucleari, durante i processi di arricchimento, gli operatori devono indossare tute protettive integrali?» Quirra contaminata? «Quirra è inquinata. Io ho fatto esperimenti addirittura su me stessa, su abiti e scarpe usati per un sopralluogo. Il provvedimento di sgombero degli allevatori deciso dal Gip per me era obbligatorio, anche se resta drammatico». Poligono da chiudere? «No. Io propongo soluzioni, non faccio terrorismo. Mettendo al bando certe attività che si svolgono a Quirra, utilizzando particolari protezioni per gli operatori, bonificando le zone compromesse, il poligono sarebbe sicuro. La mia rabbia è che forse si sarebbe potuto salvare la vita di persone che invece sono morte». Paolo Carta __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 19 giu. ’11 FA E CODONESU «TEORIA INTERESSANTE, MA NESSUN RISCONTRO Riscontri certi ancora non ci sono» Lo studio delle nano particelle di metalli pesanti fa parte dei controlli ambientali effettuati di recente nel poligono dalla Nato. Sono state trovate un po' in tutti i reperti raccolti (foglie, organi di pecore, licheni). «Ma per ora - spiega uno dei commissari incaricati di studiare i risultati, l'ingegner Fernando Codonesu - l'effettiva pericolosità dal punto di vista sanitario è una teoria forte, rispettabile, ma ancora da confermare. Esistono pochistudiosi al mondo di nano particelle, che sono state trovate anche in Toscana, a Baunei, e che forse sono dappertutto. Io non discuto l'importanza degli studi della dottoressa Gatti, ma aspetto altri riscontri in letteratura scientifica. L'uranio impoverito? In natura non esiste. Non so se possa aver creato tumori a Quirra. Di sicuro esistono in quella zona molti fattori di rischio ancora da studiare, legati al poligono. Per esempio le emissioni radar, ma non solo». L'UNIVERSITÀ Il professor Gavino Faà, ordinario di Anatomia patologia nell'Università di Cagliari e responsabile del Registro tumori della Sardegna, predica prudenza: «Sul caso Quirra, delicatissimo, dove la magistratura sospetta l'eventuale correlazione tra attività del poligono e l'insorgenza di determinate patologie, vedo che in tanti parlano troppo. Occorre cautela. I dati in mio possesso sui tumori sono parziali, ma da quel che ho visto per ora non mi sembra che siano così allarmanti. Però ripeto: questo non è il tempo delle parole, ma dei fatti. Bisogna studiare, capire, eventualmente intervenire». I DUBBI Quel che gli studi epidemiologici non hanno ancora spiegato, sono i casi di tumori registrati in una frazione piccola come Quirra in circa 15 anni (13 casi solo tra i pastori, 68 in tutto, secondo gli anti- militaristi). Per Faà, è un discorso fuorviante: «Qualsiasi pubblicazione scientifica, non può accettare numeri in questo modo. Esistono parametri da seguire, osservazioni nel tempo, diagnosi esatte, che io ancora non ho visto e che dovrebbero essere alla base di ogni ragionamento. Ogni studio, deve essere messo a disposizione della comunità internazionale, che di solito arriva a critiche feroci. Ma è l'unica strada possibile». LA MANIFESTAZIONE Oggi manifestazione alle 19 in piazza Marconi a Villaputzu per chiedere lo smantellamento del poligono. (p. c.) ========================================================= ________________________________________________________________ La Repubblica 13 giu. ’11 MEDICINA: CAMBIA LA FORMULA DEI TEST Via i quesiti di cultura generale - Medici e dentisti con prova identica PAGINA A CURA DI Eleonora Della Ratta Novità in vista per i test d'ingresso nelle facoltà a numero chiuso, che lo scorso anno hanno messo alla prova 25omila aspiranti matricole. A giorni uscirà il decreto ministeriale che ridefinisce le modalità per le prove di selezione per l'accesso a medicina, veterinaria, odontoiatria, architettura, scienze della formazione primaria e, in generale, per i corsi di laurea a numero chiuso nazionale. Anche se di ufficiale ci sono solo le date (si veda il calendario a lato), i cambiamenti più grossi riguardano proprio le materie oggetto di prova (si veda il Sole 24 Ore del 9 giugno): tra le 80 domande a cui i ragazzi dovranno rispondere quelle di cultura generale lasciano il posto a quesiti logico-deduttivi, mentre l'altra metà continua a concentrasi sulle materie fondamentali per il corso di laurea (biologia, chimica, fisica e matematica). Tra le novità attese, poi, anche il test unico per le facoltà di medicina e odontoiatria e le graduatorie su base regionale: se il decreto confermerà le indiscrezioni, dunque, gli studenti concorreranno per tutti gli atenei della propria regione e potranno, in base alla graduatoria unica, decidere dove iscriversi. Un cambiamento che potrebbe risolvere, in parte, i calcoli per capire dove ci sono maggiori chance di essere ammessi in graduatoria a parità di punteggio. La preparazione Per arrivare ben preparati alla prova che determina la propria carriera accademica, però, è necessario studiare, concentrandosi soprattutto sulle materie in cui si hanno lacune e allenandosi ad affrontare i test. «I quesiti di tipo logico non richiedono uno studio specifico, ma solo allenamento, un po' come accade per i giochi enigmistici - spiega Stefano Bertocchi, responsabile docenti di Alpha Test -: si tratta di quesiti che richiedono un ragionamento astratto, ma dei quali è bene conoscere le diverse tipologie e le corrette strategie di svolgimento. Per gli altri, invece, bisogna studiare». Soprattutto per chi non ha affrontato alcune materie negli ultimi anni delle superiori, dunque, è necessario un buon ripasso: «I tempi sono stretti, per cui i ragazzi devono stringere i denti e, chiusi i libri della maturità, aprire quelli di preparazione ai test - suggerisce Bertocchi -. Per chi ha bisogno solo di un ripasso basta studiare qualche settimana, ma in genere è meglio cominciare prima, anche al quarto anno di scuola superiore, per evitare sovrapposizioni con la maturità e inutili corse». Esercitazioni Per prepararsi esistono libri specifici e corsi (si veda l'articolo a lato). Molte le risorse, gratuite, che si possono trovare su internet, a cominciare dal sito www. accessoprogrammato.miur.it dove è possibile esercitarsi: il sistema genera ogni volta 8o domande prese dai test degli anni scorsi e al termine calcola il punteggio ottenuto (un punto per ogni risposta corretta, o per le risposte non date e -0,25 per gli errori). Un obiettivo realistico è quello di rispondere bene a circa 55/60 domande, in genere sufficienti per entrare in graduatoria. Le facoltà ad accesso programmato non sono le uniche che richiedono un test di ingresso: il cosiddetto numero chiuso c'è anche in alcuni atenei come la Bocconi di Milano, la Luiss e la Cattolica a Roma o l'Università di Urbino. In questo caso gli atenei verificano le conoscenze di base che la cultura generale, ma anche le capacità attitudinali per gli specifici corsi di laurea: in commercio esistono molti libri ed eserciziari specifici per i singoli atenei. Si può sostenere la prova per ogni facoltà in una sola università (la data è unica) e l'accesso avviene in base a una graduatoria per ateneo, anche se il nuovo decreto ministeriale potrebbe prevedere una graduatoria regionale. La prova consta di 80 quesiti divisi in prove logico- attitudinali (che dovrebbero sostituire le domande di cultura generale) discipline specifiche (matematica, biologia, chimica e fisica). Gli studenti hanno a disposizione 120 minuti per rispondere ai quesiti, ricordando che il punteggio è di i punto per ogni risposta corretta, o per risposte non date, -0,25 per risposte errate. Parte del punteggio viene assegnato anche sulla base del voto ottenuto alla maturità. Suggerimenti e indicazioni vengono dati dallo stesso ministero attraverso il sito www.accessoprogrammato.miur.it. ________________________________________________________________ La Repubblica 17 giu. ’11 PUNTEGGIO MINIMO E GRADUATORIA UNICA LE NUOVE REGOLE DEL TEST DI MEDICINA ROMA — Una prova unica per Medicina e odontoiatria e una soglia minima di punteggio — 20 punti — per l'ammissione ai corsi: sono le principali novità previste dal decreto ministeriale che fissa le regole d'accesso ai corsi universitari a numero programmato, come Medicina e chirurgia, Odontoiatria e protesi dentaria, Medicina veterinaria, Architettura e Professioni sanitarie. Il 5 settembre le prove per l'ammissione ai corsi di Medicina e Odontoiatria: in due ore bisognerà risolvere 80 quesiti a risposta multipla. Un'altra novità è l'introduzione della "soglia minima di ingresso": da quest'anno chi, pur rientrando nei posti a concorso, dovesse avere ai test un punteggio inferiore a 20 resterà fuori. A parità di voti prevarrà la votazione della maturità e se la parità persiste lo studente anagraficamente più giovane __________________________________________________________________ Corriere della Sera 13 giu. ’11 TEST ANCHE IN INGLESE PER ISCRIVERSI A MEDICINA SCUOLA L' INIZIATIVA DELLA SAPIENZA DI ROMA, DELLA STATALE DI MILANO E DI PAVIA SARÀ ESTESA AD ALTRE UNIVERSITÀ Da settembre in tre atenei che già tengono corsi in lingua. «Così attiriamo gli stranieri» Così si aiuta anche la ricerca Angiolino Stella I tagli rendono tutto più difficile Pier Luigi Frati A Londra Per la prima volta i test si terranno anche all' estero: il via con Londra ROMA - Le università italiane vanno all' estero per cercare nuove matricole. A settembre, per la prima volta, i test d' ingresso per la facoltà di Medicina si dovrebbero tenere anche a Londra. Una prova in inglese che servirà ad iscriversi ai corsi di laurea, sempre in inglese, offerti dalla Statale di Milano, dalla Sapienza di Roma e da Pavia. L' insegnamento in lingua straniera nelle facoltà di Medicina (ma anche di Scienze ed Economia) non è una novità. Sono diversi i corsi dove tutte le materie e tutti gli esami vengono fatti in lingua. Ma finora, dove c' era il numero chiuso come per Medicina, la prova d' accesso veniva fatta in italiano. Un paradosso. Quante possibilità poteva avere uno studente inglese, olandese, o arabo di rispondere meglio di un ragazzo di Milano o di Roma a quelle 80 domande scritte in italiano e pensate per chi ha studiato nelle nostre scuole, capitoli dei Promessi sposi compresi? Pochissime, e infatti quella scelta bizzarra ha tagliato fuori proprio gli stranieri. A settembre il paradosso sarà eliminato. A parte il test in trasferta a Londra, le prove in inglese saranno fatte anche in Italia per la Sapienza di Roma, con 30 posti disponibili, la Statale di Milano (50) e Pavia, l' università più piccola che però, partita prima degli altri, si prende la fetta più grande con 110 posti. Numeri che, naturalmente, si aggiungono a quelli disponibili per i normali corsi in italiano. «In questo modo puntiamo ad internazionalizzare le nostre università» dice il ministro Mariastella Gelmini. E questo è un problema antico: negli atenei italiani gli studenti stranieri sono soltanto l' 1,9% del totale. Sotto la media Ocse (3,4%) e quattro volte meno di Paesi come Francia e Germania che pescheranno all' estero anche per la loro storia coloniale ma sono pur sempre i vicini con cui fare i conti. Pavia, Milano e Roma dunque: perché queste tre università hanno scelto la strada dell' inglese integrale? «Se gli atenei italiani pagano un prezzo nelle classifiche internazionali - dice il rettore di Pavia, Angiolino Stella - è anche perché attiriamo pochi studenti da fuori. E invece così si aiuta la ricerca e diventa più facile trovare un lavoro». Non è un caso se dalla sua università molti neolaureati partono per l' Inghilterra e la Svezia dove lavorano subito in ospedale. «Il sistema - prevede il rettore della Statale di Milano, Enrico Decleva - potrebbe essere esteso anche ad altre facoltà. Non possiamo certo competere con gli Stati Uniti, dove gli stranieri sono il 20%, ma dobbiamo fare di più». Una linea condivisa dalla Sapienza di Roma, dove però il rettore Luigi Frati ha qualche dubbio sul futuro: «Aprire agli stranieri è fondamentale ma con i tagli ai finanziamenti già fatichiamo a coprire le cattedre dei corsi normali. Non sarà mica semplice tenere pure i corsi in inglese». I test in inglese non saranno la semplice traduzione di quelli in italiano. Saranno diversi, con domande tagliate su un percorso scolastico «neutro». Milano e Pavia potrebbero farli insieme, con sede unica a Milano. Resta da decidere se fissarli nello stesso giorno di quelli in italiano oppure no. E non è un dettaglio tecnico. Alcuni pensano che, scegliendo due date diverse, il corso in inglese potrebbe diventare non un' opportunità per gli stranieri ma un ripiego per gli italiani bocciati ai test per le facoltà «normali». Non la pensa così il professor Gianluca Vago, coordinatore del corso di Medicina in inglese alla Statale di Milano: «Per un ragazzo italiano è una strada più difficile, chi la sceglie deve essere motivato. E poi aspetterei, siamo ancora ai primi passi». Lorenzo Salvia RIPRODUZIONE RISERVATA **** I numeri 1,9 La percentuale di studenti stranieri che viene a compiere gli studi universitari in Italia. La media Ocse è del 3,4 per cento. Gli stranieri che studiano nel Regno Unito sono invece l' 11,6%; 8,6 quelli che hanno scelto la Germania; 8,2 la percentuale di stranieri che studiano in Francia 20,4 La percentuale (fra gli stranieri che studiano in Italia) che ha scelto la facoltà di Medicina. Il 20,4 ha optato invece per Scienze umanistiche e il 31,8 per Scienze sociali o Giurisprudenza 8 Le università italiane che, secondo un rapporto Crui sull' offerta formativa 2007 (ultimo disponibile sull' argomento) offrono corsi di laurea in inglese; 12 quelle che offrono lauree specialistiche, 22 dottorati, 31 master e 20 summer/whinter school Salvia Lorenzo __________________________________________________________________ Il Giornale 19 Giu. ’11 PER BATTERE LA CARENZA DEI MEDICI BASTA NUMERO CHIUSO ALL'UNIVERSITÀ MI Niente più numero chiuso alla facoltà di Medicina, e finanziamenti specifici, sia pubblici sia privati. È la ricetta proposta dall'assessore alla Sanità della Lombardia, Luciano Bresciani, per arginare la carenza di medici, di specialisti e di infermieri negli ospedali e più in generale nelle strutture sanitarie della Lombardia. Ricetta che fa il paio con la proposta di fare della Lombardia un «laboratorio sperimentale di questo nuovo ciclo di cultura scientifica, attraverso un proposta di legge ad hoc che presto presenteremo come Lega in Regione, per poi inviarlo ai ministeri competenti». Quindi, Lombardia ancora una volta pro attivo modello nazionale per uscire da un impasse - quella della carenza di personale sanitario specialistico - comunque di difficile soluzione. Questo disegno, in particolare, prevede «in una logica federalista, in parallelo con le erogazioni di natura e origine statale per il fabbisogno sanitario - dice Bresciani - anche il finanziamento privato per medici, specialisti e infermieri, al fine di raggiungere i target produttivi della comunità regionale». Bresciani sta già facendo in questo senso passi concreti in sede governativa. «Ne ho già parlato con il ministro Fazio - aggiunge infatti l' assessore -.La scena è quella di un film già visto troppe volte: qui in Lombardia paghiamo dazio per un sistema universitario di stampo eccessivamente centralista, che elude i fabbisogni territoriali in ambito sanitario, confermandosi inadeguato a soddisfare le specifiche, peculiari e differenti esigenze della nostra Regione». Come dire: è ora di cambiare musica e porre mano ai fatti, con misure precise, finalizzate e non dilatorie, se si vuole risolvere il problema che, tra l'altro, non può essere ulteriormente eluso. C'è poi da considerare anche una disomogeneità a livello regionale, figlia delle scelte sbagliate e delle decisioni prese in sede centrale. «Così finisce che il Lazio ha più corsi della Lombardia, nonostante una popolazione che è la metà di quella della nostra Regione». La cultura, conclude, «non deve essere chiusa nel mortaio del finanziamento statale. Abbiamo bisogno di cultura libera e alta qualità per creare e consegnare valori veri e condivisi alla comunità lombarda. L'attuale sistema ha invece costretto molti dei nostri ragazzi ad andare all'estero per acquisire nuove conoscenze, di fatto impoverendo l'intero Paese che in questi anni ha visto emigrare troppi cervelli. Una fuga dovuta anche alla richiesta di cultura che il nostro Paese gli sta negando». __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 Mag. ’11 I TIMORI DEI MEDICI BERSAGLIATI DALLE DENUNCE Le spese sanitarie delle Regioni Gaetano Di Chiara Martedì 24 maggio 2011 Quella sanitaria è una delle voci di spesa più pesanti dei bilanci delle Regioni. Quello che però non molti sanno è che a questa spesa contribuisce per il 12 per cento, secondo l'Ordine dei Medici di Roma, la medicina difensiva, il cui fine primario è quello di mettere il medico al riparo dal rischio di denunce e procedimenti futuri. Questa prassi, quando va bene per il paziente, consiste nell'aumentare gli esami e le visite specialistiche e prolungare i ricoveri ospedalieri; e, quando va male, nell'evitare di curare certi pazienti difficili, dirottandoli verso altri medici o reparti, o nel non prendersi la responsabilità di terapie o procedure particolarmente rischiose. Sono ormai all'ordine del giorno i casi (circa 15 mila l'anno) di medici e chirurghi oggetto di denunce da parte dei pazienti o dei loro parenti. Un caso tra i più sconvolgenti è quello del chirurgo toracico Pier Paolo Brega Massone, arrestato nel 2009 e tuttora in carcere, condannato in primo grado a 15 anni di reclusione per l'omicidio di quattro pazienti. Il problema di incorrere in procedimenti civili o penali è ormai diventato motivo di preoccupazione per più dell'80% dei medici ed è la principale causa della carenza di chirurghi. Così, il Congresso di primavera della Società Italiana di Chirurgia si aprirà con un simposio sulla responsabilità legale del chirurgo. Passati i tempi nei quali i medici erano visti dai propri pazienti come i salvatori, ammantati da un'aura di fiducia e rispettabilità. Oggi, nel tempo della medicina sociale e del servizio sanitario nazionale, il medico è un semplice impiegato statale, un travet, dato che opera in una struttura sanitaria pubblica o, peggio ancora, privata convenzionata, nel qual caso una delle contestazioni più comuni è che gli esami e gli interventi prescritti siano finalizzati all'utile del medico, piuttosto che del paziente. A questa situazione paradossale ha contribuito anche la crisi e la disoccupazione dei giovani avvocati, per i quali il contenzioso sanitario è diventato un nuovo bussiness, con tanto di spot televisivi all'insegna del "si paga solo se si vince". Urge quindi una revisione della legislazione, riservando solo ai casi gravi il procedimento penale, la creazione di strutture di supporto dell'operato del medico e l'assunzione di responsabilità da parte delle amministrazioni sanitarie. Ma soprattutto bisogna rifondare su nuove basi il rapporto fiduciario tra il medico e il suo paziente. __________________________________________________________________ L’Altre Voce 10 giu. ’11 SANITÀ DA SBRANARE: MANAGER DI UN SOLO PARTITO IN ASL E OSPEDALI. Lottizzazione monocolore nuragica. Tutto in famiglia: per fare, disfare, imboscare. Presto selezione politica nei reparti per medici, infermieri e malati. Camici e pigiami? Solo tessera e distintivo di Giorgio Melis Neanche Cencelli, quello del famoso manuale per la lottizzazione scientifica, aveva osato tanto. Botta di fantasia nuragica strepitosa. Siamo i primi e restiamo i peggiori. Con questa destra ultracreativa nella distruzione della Sardegna, la sanità da sbranare è all’ultima raffica. E’ passata quasi sotto silenzio la grande riforma d’avanguardia nazionale. Anticipata sulla Nuova, specificata appena nel testo, senza pudore, quasi applaudita sull’Unione Sarda. Nelle Asl e negli ospedali dell’Isola, “direzioni monocolore”. Ovvero, manager, direttore sanitario e amministrativo (più altri dirigenti a cascata e in cordata) dello stesso partito cui vengono appaltate come feudi privati le Aziende sanitarie e ospedaliere. Uno sballo: tutto in famiglia. Il manager del Pdl, dell’Udc, Riformatore e sardista, se la vedrà solo con direttori del suo stesso partito. Per fare, disfare, strafare, spendere e imboscare senza che nessuno possa metterci becco. Il partito-famiglia esclusivo gerente e referente: unico, totalizzante soggetto abilitato a decidere, fare e giudicare. Una botta di trasparenza senza precedenti. Senza parlare dell’efficienza. Crescerà a dismisura nell’assoluta armonia dei controllori che dovranno controllare solo se stessi, non rispondendo a nessuno ma solo interagendo con la casa comune partitica. La riforma è già scattata. Come in un osceno gioco dell’oca sanitario, il direttore sanitario o e/o amministrativo di una Asl di Cagliari o Sassari e Olbia va nell’ospedale dov’era cresciuto, il predecessore finisce nell’azienda mista ospedalier- universitaria, congiungendosi nell’armonia della direzione monocolore a manager espressi dal loro stesso partito. Appunto dalla culla politica alla tomba sempre partititica ma soprattutto della sanità: finirà nel loculo del massacro lottizzatorio. Nessuno ha spiegato la ratio di questa vergogna. Anche perché nessuno – politici d’opposizione, amministratori pubblici e tanto meno giornalisti presunti – ha posto alcuna domanda o mosso obiezioni. Il tutto accade il giorno della performance clamorosa di un ex assessore alla sanità, Roberto Capelli. Un combattivo nuorese, ex Udc fuoruscito con Rutelli perché insofferente da anni al boss locale di Casini, azionista di riferimento del Pdl e della Giunta Cappellacci. Si chiama Giorgio Oppi, 71 anni, assessore a vita, una delle tante Sua Sanità italiane. Temporaneamente ha preferito la gestione dell’assessorato all’Ambiente ma resta il dominus del mondo sanitario. Sarebbe uno straordinario protagonista per un libro di Paolo Cornaglia Ferraris, il medico-scrittore cagliaritano, trapiantato a Genova, autore di ”Camici e pigiami”: primo di una serie di un inquisitore inesorabile della malasanità italiana. Tornando a Capelli, cos’ha scoperto, producendo uno sproposito di documenti? Che il piano sanitario regionale dell’assessore in carica, Antonello Liori (ex An, medico ospedaliero) è stato copiato paro paro da quello del Piemonte: inclusi errori e riferimento geografici sabaudi incompatibili con l’insularità sarda. Insomma, un bis, una recidiva della più famosa scopiazzatura del programma di Formigoni per la Lombardia da parte di Mauro Pili. Allra beniamino di Berlusconi e giovane presidente nel 2001 di una Sardegna che si era ritrovata inopinatamente a gestire regioni alpine ed essere affollata da ben 11 province. Liori ridimensiona, sostenendo che si tratta delle linee-guida nazionali calate nella realtà isolana. Non bastasse, un altro consigliere regionale del Pd, Marco Espa, animatore del movimento per i disabili, sostiene che nel piano di Liori la parte della normativa sui Trattamenti sanitari obbligatori è frutto di un altro copia-e-incolla dalla Regione Veneto. Insomma, un giro sardo-sabaudo-lombardo-veneto dentro il copy. Una storia che getta anche nel ridicolo una sanità sarda che pure aveva conosciuto momenti e situazioni di eccellenza con la gestione di Nerina Dirindin, chiamata da Renato Soru. Docente universitaria, a suo tempo contestata come “sabauda” (guarda te il caso beffardo): è infatti valdostana-torinese. Dunque piemontese come il piano da cui sarebbe stato plagiato quello sardo. Oltre le scopiazzature, la sanità sarda è stata messa duramente sotto accusa pochi mesi fa dalla Corte dei conti: dichiarata fuori controllo per la voragine di un extradeficit allarmante. Una spesa sanitaria gravata da un disavanzo che nel 2009 ha subito un incremento di oltre l’8% e che nel 2010 ha raggiunto ben 265 milioni di euro. Implacabile il j’accuse della Corte. La spesa farmaceutica, dopo la significativa contrazione del 2007 e del 2008, ha subito un nuovo irresponsabile aumento nel 2009 e nel 2010. “La Sardegna è tra tutte le Regioni quella nella quale si registra la più alta incidenza della spesa farmaceutica”. La spesa per il personale nel 2010 ha registrato un incremento di circa l’11% rispetto al 2004, cui devono aggiungersi i costi per le consulenze, collaborazioni e contratti interinali passati da 19, 9 milioni nel 2007 a ben 72,6 milioni nel 2010. Questo spiega il girone infernale e micidiale dei contratti interinali, assunzioni clientelari che invece di venire imputate alla spesa per il personale vengono camuffate all’interno della spesa per acquisizione beni e servizi. Niente di strano. La sanità sarda è stata l’oggetto principale di uno sfrenato, famelico, onerosissimo attacco del centrodestra appena ritornato alla Regione nel 2009. Con la cacciata anzitempo dei manager scelti da Soru, motivata da una riforma “immediata” inesistente da 30 mesi, la moltiplicazione di poltrone per dirigenti in aziende e ospedali. Nel segno di una spietata lottizzazione moltiplicatrice che ha animato e una guerriglia sanguinosa e irriducibile di tutti contro tutti nel centrodestra e nella Giunta regionale. In questo scenario viene ora calata la pensata oscena della “direzione monocolore”, ovvero Asl e ospedale monolocali per un solo partito per una gestione autoreferenziale. Era necessario realizzare l’armonia della dirigenza, evitando la sciagura che un manager potesse avere una tessera diversa dai direttori sanitario e amministrativo (e altri): con inaudito rischio per i malati. Naturalmente questo indecente progetto non è scritto da nessuna parte. E’ stato deciso e viene applicato per intese nel centrodestra, diventa la vergognosa costituzione materiale dello sgoverno della sanità. Una riforma che va ora coerentemente completata. Medici e infermieri dovranno esser selezionati per reparti monocolori con la bandiera comune del partito di appartenenza: il simbolo dell’Udc o del Pdl al posto della croce rossa. Chi avrà bisogno di un neurologo o di un chirurgo dovrà cercarlo nelle sub-liste di partito degli specialisti delle Asl e ospedali, potendosi rivolgere solo a quelli della sua stessa parrocchia politico-elettorale. Infatti i malati e i ricoverati dovranno dichiarare preventivamente il partito di riferimento. Per poter accedere alle cure solo dei medici dello stesso segno. Ovviamente sotto la paterna regia dei manager monocromastici. E’ il trionfo della tinta unica, ovvero del partito unico al comando e al massacro della sanità e non solo. Per restare allo scrittore Cornaglia Ferraris, Camici e pigiami solo tessera e distintivo. Buona salute a tutti. __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 14 giu. ’11 BROTZU: PUDDU IL NUOVO DIRETTORE SANITARIO Ieri la nomina dell'ortopedico, che resterà in carica per cinque anni È l'ortopedico Remigio Carlo Puddu il nuovo direttore sanitario dell'azienda ospedaliera Brotzu. È stato nominato ieri (con la delibera 339) firmata dal direttore generale Antonio Garau. Puddu guiderà il settore sanitario per i prossimi cinque anni. Sessantacinque anni, ha diretto fino a oggi il dipartimento di Emergenza e della Struttura Complessa di Ortopedia e Traumatologia. Si completano così i quadri dirigenziali dell'azienda, dopo la conferma, il 16 maggio scorso, del direttore amministrativo Bruno Simola. LA ASL 8 Giovedì scorso invece il direttore generale della Asl 8 Emilio Simeone aveva nominato con due delibere distinte (la 732 e la 733) il nuovo direttore amministrativo e quello sanitario. Il primo incarico è andato a Vincenzo Serra, responsabile dell'unità di Programmazione e controllo di gestione dell'azienda sanitaria cagliaritana e per dieci mesi (da marzo a dicembre 2010) direttore amministrativo della Asl di Sanluri. La seconda è stata una conferma: Ugo Storelli proseguirà il suo lavoro all'interno dell'azienda, dove dall'ottobre del 2009 ricopriva il ruolo di direttore sanitario. L'incarico sarà quinquennale. L'AZIENDA MISTA Sempre durante la scorsa settimana erano stati nominati i vertici dell'azienda mista: Piero Tamponi (direttore amministrativo) e Roberto Sequi (direttore sanitario, che ha preso il posto di Gianbenedetto Melis) andranno a dirigere i due settori dell'azienda universitaria ospedaliera. Sulla loro scelta sono arrivate anche le critiche del rettore dell'ateneo cagliaritano Giovanni Melis. __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 14 giu. ’11 ASL8, DEFICIT DA 47 MILIONI «Aumenti di costi dovuti a norme nazionali» Si è chiuso con una perdita di 47 milioni di euro il bilancio dell'Asl 8. Il rendiconto di esercizio è stato approvato ieri mattina all'unanimità dalla conferenza sanitaria composta da 71 sindaci della provincia e presieduta dall'assessore provinciale alle Politiche sociali Angela Quaquero. Un deficit allarmante che registra comunque una riduzione del 37 per cento rispetto a quello del 2009. È stato il direttore generale della Asl, Emilio Simeone, a spiegarne i motivi in apertura della conferenza: «Sulla perdita del 2010 hanno inciso costi derivanti da provvedimenti nazionali o regionali non direttamente riconducibili a scelte di governo aziendale che hanno determinato, a parità di livelli assistenziali, un incremento complessivo di costi per circa 12 milioni di euro», ha spiegato. «Questo», ha proseguito, «ci porta a quantificare la perdita netta legata alle concrete dinamiche gestionali a circa 34 milioni di euro”. LA SPESA Ma a preoccupare è soprattutto «la rilevante crescita della spesa per l'assistenza farmaceutica sia territoriale che aziendale che», ha sottolineato Simeone, «ha portato a un aumento dei costi di circa 18 milioni di euro: un fenomeno che ha una dimensione regionale e su cui la direzione ha già avviato un percorso di interventi necessari per ricondurre questa voce di spesa entro parametri sostenibili». Simeone, nella sua relazione, si è soffermato sulle iniziative attuate dall'Azienda sanitaria per recuperare una parte sostanziale del deficit pregresso. «Abbiamo attuato provvedimenti di razionalizzazione e contenimento della crescita dei costi di produzione», ha spiegato, «senza operare alcun taglio ai servizi sanitari erogati, ai servizi non sanitari come manutenzioni e pulizie, alle tecnologie e infrastrutture e al personale. Al contrario», ha aggiunto, «sono state aumentate le ore di specialistica interna in alcuni territori». NOTE POSITIVE Di positivo, a giudizio del manager, c'è il fatto che «nel 2011 l'azienda ha visto chiudersi il periodo di gestione commissariale e si pone quindi in un orizzonte organizzativo e programmatico di più ampio respiro». Durante la conferenza hanno preso la parola alcuni sindaci. Quelli di San Sperate, Villasimius, Teulada, Monserrato, Settimo, Assemini, Quartu e Sestu hanno sottolineato come in un epoca di contrazioni economiche sia di fondamentale importanza la collaborazione tra Comuni e Asl. «Solo con servizi efficaci ed efficienti», hanno evidenziato, «oltre a garantire una buona qualità di assistenza ai cittadini, si possono evitare ricoveri ripetuti». __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 15 giu. ’11 ASL 8: SIMEONE CHIEDE 40 MILIONI PER L'ASSISTENZA TERRITORIALE Asl 8, polemica sul deficit Ascolta la notizia La Asl dichiara una perdita di esercizio di 47 milioni di euro, in calo di circa il 37% rispetto al 2009. La Corte dei conti, nella relazione annuale sulla spesa sanitaria, pubblicata ad aprile, cita un altro dato: meno 99,3 milioni. Qual è il buco reale dell'Azienda sanitaria locale cagliaritana? La Cgil attacca e chiede una risposta («ci facciano capire qual è la posta di bilancio che ha consentito di dimezzare il deficit») il direttore generale replica prima stizzito («Quale bilancio ha la Cgil, quello della Lombardia?») poi dà una spiegazione: «Il dato riportato dalla Corte dei conti è parziale perché non riporta le ultime assegnazioni della Regione». La polemica non cancella il problema principale: i costi sanitari, storicamente altissimi, continuano a crescere. Basti dire che nel 2010 la Asl ha ottenuto dalla Regione 40 milioni in più di trasferimenti rispetto al 2008. E ne chiede altrettanti in più per i prossimi anni. BOOM DEI FARMACI A lievitare, rispetto agli anni scorsi, sono state le spese per medici di famiglia e le prestazioni specialistiche (più 12 milioni) ma soprattutto la spesa farmaceutica, cresciuta di 18 milioni di euro rispetto all'anno precedente e arrivata a quota 270 milioni, di cui 120 di medicinali prescritti dai “dottori” di famiglia. Un incremento inopinato attribuibile, secondo Simeone, alla crescita sia del numero che dei costi dei farmaci destinati a malati oncologici o affetti da Sclerosi multipla: «Il problema è che la Regione ce li rimborsa secondo tariffe ferme al 2006 ma i prezzi sono aumentati», spiega Vincenzo Serra, direttore amministrativo dell'azienda sanitaria a cui fanno capo 71 comuni, una popolazione di 548 mila persone (100 mila in più rispetto al 2005), sette ospedali e venti poliambulatori. Un altro nodo (e costo) storico della sanità locale è l'assistenza territoriale: dovrebbe fungere da filtro per i non acuti ma continua ad evidenziare carenze (ad esempio sull'emergenza, rileva la Cgil). Significa - e il numero uno della Asl lo riconosce - che un paziente spesso costa due volte: al poliambulatorio e all'ospedale, dove il cittadino si reca se non ottiene risposte. «Se i cittadini non si fidano occorre lavorare per migliorare il servizio nel territorio», ammette Simeone. SERVONO 40 MILIONI E come si raggiunge l'obbiettivo? Chiedendo ancora più soldi: «La Asl 8 è sottocapitalizzata per il numero di Comuni che ha e per l'ampiezza del territorio», osserva Simeone. «Un esempio: il Microcitemico e l'Oncologico assistono per il 30% un'utenza della Asl 8 e il 70% dal resto della Sardegna. Servono più soldi dalla Regione». Quanti? «Diciamo 40 milioni in più: 900 milioni anziché 860». E pensare che la Corte dei conti, nelle sue considerazioni finali, osserva che «l'incremento della spesa, la riduzione degli incassi e l'aumento di crediti e debiti porta alle aziende sofferenze di liquidità cui si cerca di rimediare cedendo i crediti. E garanzie, interessi e oneri della cessione crediti sono a carico della Regione». Paga sempre pantalone. Fabio Manca __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 14 giu. ’11 ASL 7: NUOVI MANAGER Calamida ha nominato il direttore sanitario e amministrativo Arrivano Antonio Frailis e Claudio Ferri Cambio ai vertici della Asl 7: il manager Maurizio Calamida ha scelto il nuovo direttore sanitario e il nuovo direttore amministrativo. Scatta una mini rivoluzione ai vertici della Asl del Sulcis Iglesiente: il direttore generale Maurizio Calamida ha nominato i due nuovi manager che lo affiancheranno alla guida del sistema sanitario pubblico del territorio sino al 2016. LE NOMINE Sono Claudio Ferri, 50 anni, originario di Iglesias, nuovo direttore amministrativo, ed Antonio Frailis, 55 anni, di Cagliari, neo direttore sanitario. Prendono rispettivamente il posto di Giuseppe Serra e di Antonio Farci, quest'ultimo destinato alla Asl di Sanluri. I due manager, nominati venerdì scorso, sono già nell'esercizio delle proprie funzioni. Il direttore generale Calamida ha motivato la decisione di puntare su di loro «perché sono in possesso di esperienza indispensabile nel settore sanitario per assolvere ai nuovi gravosi impegni». I CURRICULA Chi sono i due nuovi amministratori? Come si evince dal suo curriculum, Claudio Ferri è stato alternativamente direttore generale e responsabile tecnico della Residenza sanitaria assistenziale “Rosa del Marganai”, ed è stato manager recentemente di altre due grosse Rsa, una di Milano, l'altra di Novara. Ora il gran salto alla dirigenza finanziaria di un'intera azienda sanitaria. Antonio Frailis, medico specializzato in Igiene e sanità pubblica e in Ecotomografia vascolare, è stato varie volte primario alla Asl di Sanluri, consulente medico legale di varie Procure della Repubblica e nel 2005 è stato commissario per le emergenze in Sardegna nel periodo in cui si diffuse l'influenza aviaria. RIORGANIZZAZIONE I due nuovi manager sono stati nominati in un periodo cruciale per la sanità del territorio. La Regione ha, infatti, intenzione di avviare il piano di riorganizzazione e riordino delle Asl nell'ottica di ridurre i forti deficit finanziari del sistema. E per quella del Sulcis Iglesiente esiste già un programma dettagliato che, in precedenza, aveva accolto i favori di massima dell'assessorato regionale alla Sanità. Un piano che ha fatto discutere sino a provocare, l'estate scorsa, uno scontro istituzionale con la maggioranza dei sindaci e la Provincia di Carbonia Iglesias. Ma è un piano che, per il momento, non è ancora decollato in concreto. «L'obiettivo - puntualizza Maurizio Calamida - è di poter raggiungere buoni risultati sempre nella consapevolezza di dover garantire un miglioramento della qualità dei servizi con il principale scopo che è quello di assicurare benessere ai cittadini e ai pazienti». Andrea Scano __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 giu. ’11 ASL 7, BILANCIO IN ROSSO PER 11 MILIONI I conti della Asl 7 continuano ad essere in rosso. L'Azienda sanitaria locale ha infatti chiuso il bilancio consuntivo del 2010 con un deficit di circa undici milioni di euro. La situazione rispetto al consuntivo 2009 è migliorata dato che il rendiconto si chiuse con un meno 26 milioni di euro. Ma la diminuzione del deficit si deve soprattutto alla Regione che nel corso dello scorso anno ha integrato con circa dieci milioni l'assegnazione annuale a favore della Asl del Sulcis. Un'operazione che si ripeterà chiaramente anche quest'anno dato che il bilancio di un'azienda sanitaria non può chiudersi in passivo. Il disavanzo c'è ma lo ripianerà la Regione. Il conto del 2010 si è chiuso con uscire per circa 206 milioni di euro, gran parte delle quali sono spese fisse per il personale. Sono rimaste invariate, attorno ai trenta milioni di euro, le spese farmaceutiche nonostante sia aumentata l'erogazione diretta dei farmaci. Il documento verrà spedito al collegio dei sindaci e alla Conferenza provinciale socio sanitaria. Successivamente verrà inviato all'assessorato regionale alla Sanità per il parere definitivo. I nuovi dirigenti dell'Azienda sanitaria, intanto stanno lavorando alla predisposizione del bilancio di previsione per il 2011 che dovrebbe contenere anche le misure di contenimento della spesa per limitare il disavanzo. (a. s.) __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 giu. ’11 VERTICI ASL 7, PENE RIDOTTE CARBONIA. Sconto per Raimondi e Marras, assolto Arca Due condanne sensibilmente ridotte e una assoluzione. La Corte d'Appello di Cagliari ha rivisto le pene inflitte in primo grado agli ex manager e dipendenti della Asl 7, Mario Raimondi, Salvatore Marras e Salvatore Arca, accusati di concorso in peculato. Dopo oltre due ore di camera di consiglio, i magistrati hanno confermato, pur riducendo l'entità della pena) le condanne per gli ex direttori generale Mario Raimondi e amministrativo Salvatore Marras. La pena per Raimondi passa da tre anni e mezzo a due anni e quattro mesi; sconto anche per Marras che è stato condannato a due anni e un mese, rispetto ai tre anni e due mesi inflitti in primo grado. L'ex segretario Salvatore Arca, difeso da Michele Schirò e condannato in prima istanza a due anni, è stato invece assolto con formula piena perché il fatto non costituisce reato. Gli avvocati dei due ex manager, Maurizio Scarparo e Benedetto Ballero, hanno annunciato ricorso in Cassazione. Raimondi, Marras e Arca erano stati rinviati a giudizio anche in conseguenza di un'inchiesta della Corte dei conti in relazione a una serie di rimborsi spese concessi nel 2000 a favore di una società di consulenza. In totale, dalle casse dell'Azienda sanitaria erano usciti circa 60 mila euro. Nessuno degli imputati avrebbe intascato un solo euro e questo (in attesa del deposito delle motivazioni) avrebbe inciso nella decisione della Corte di ridurre le pene. Tuttavia per i giudici resta provato il fatto che quei pagamenti costituivano peculato perché non sarebbero stati corretti dal punto di vista procedurale: le causali dei rimborsi non erano state annotate immediatamente e il contratto con la società di consulenza era stato sottoscritto due mesi dopo l'inizio della prestazione. Diverso il discorso per Tore Arca: non avendo potere dirigenziale, il ruolo dell'ex segretario sarebbe stato del tutto marginale. (a. s.) __________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 19 giu. ’11 ASL5: ADDIO AL NUOVO OSPEDALE: DAL MEDIO CAMPIDANO s’alza il vento di protesta Vivace riunione congiunta del Consiglio provinciale e di quelli comunali del territorio LUCIANO ONNIS SAN GAVINO. Il nuovo ospedale si allontana, anzi se ne sono perse le tracce e sarà davvero difficile ritrovarlo. E così dal Medio Campidano riparte il tam-tam della mobilitazione generale contro la «decisione politica» della Regione di calare un velo sulla nuova struttura ospedaliera che dovrebbe sorgere al posto dell’inadeguato e obsoleto “Nostra Signora di Bonaria”. Avantieri sera a San Gavino, nel padiglione polivalente ai margini del parcheggio del vecchio ospedale, si è riaperto il fronte della protesta: consiglio provinciale e consigli comunali riuniti in seduta congiunta e aperta agli interventi esterni, fra i quali quelli dei consiglieri regionali Tarcisio Agus e Giuseppe Cuccu, del deputato Siro Marrocu e dei sindacati. Tutti si sono detti pronti a marciare su Cagliari, destinazione Consiglio regionale, «per ribadire le necessità sanitarie di un intero territorio». Si diceva di un fronte comune per il nuovo ospedale, ma in realtà così non è. Alla convention per il rilancio della mobilitazione, organizzata dalla Provincia con l’assessore delle Politiche sanitarie Nicola Garau, è mancato l’apporto del centrodestra. Nessun esponente del territorio di quell’area politica (a tutti i livelli) ha risposto presente. Una motivazione c’era: si ipotizzava un tiro al bersaglio contro l’assessore della Sanità Antonello Liori e la giunta regionale - cosa che in parte c’è stata - e pertanto tutti hanno concordemente girato alla larga. Peccato, perchè in discussione c’era qualcosa di interesse generale per il Medio Campidano, a prescindere dalla collocazione politica. Lo stesso assessore Liori, invitato di persona dall’assessore provinciale Nicola Garau, ha declinato invece l’invito perchè «al momento non ho risposte concrete da dare». Numerosissimi gli interventi nel corso del dibattito, tutti a senso unico: il nuovo ospedale è una priorità per il Medio Campidano, nessuno è disposto ad assistere passivamente allo scippo dei fondi che erano stati stanziati (prima 98 milioni di euro, poi scesi a 76), «a vantaggio di altri territori dell’isola politicamente più forti». Ma i soldi non ci sono più, volatilizzati. Sono tornati a far parte di un pacchetto complessivo di 225 milioni di euro che dovranno essere ripartiti entro l’anno in tutta l’isola. Impensabile che più di un quarto dell’intera somma venga destinata a finanziare la struttura ospedaliera mediocampidanese, i territori politicamente più forti (Cagliari e Sassari) lasceranno a quelli periferici tutt’al più le briciole. ________________________________________________________________ Corriere Medico 16 giu. ’11 TORNA A CRESCERE IL FARMACO MADE IN ITALY Buone aspettative nel rapporto Pharmintech anche per l'indotto MILANO — Riparte il settore farmaceutico. Crescono la filiera e l'indotto: chimica, meccanica (macchine per impacchettare) vetro, carta, elettronica, plastica. 114° rapporto Pharmintech, presentato a Milano da Giampaolo Vitali (Cnr Torino), ha analizzato l'andamento dei segmenti a monte della produzione di medicinali (chimica) e connessi ad essa, raggruppati nell'associazione Ipack-Ima. Il settore occupa 63 mila addetti per un valore produttivo 2010 intorno agli 11 miliardi, ha una produttività più alta del 28 per cento rispetto alla media dell'industria, investe del 20 per cento ed esporta il 44 per cento in più. I valori di export e fatturato crescono per un numero maggiore di intervistati nel II semestre 2010 e che quest'anno è stabile: c'è una diminuzione di reddito solo per un 5 per cento del campione, più marcata fuori dal settore-farmaco. Ci sono aspettative stabili su ex- pori e produzione, migliori per i beni di con-sumo rispetto ai macchinari. Sergio Dompé, presidente Farmindustria in vista della fiera di Bologna Cosmopharma, invita il settore a reclamizzarsi di più e rimarca che l'industria farmaceutica italiana vale da sola il 47 per cento dell'export hi-tech. E lancia un monito alle istituzioni: «Comprimere ancora questo comparto vuol dire svuotare il tessuto industriale italiano». Intanto, i produttori di farmaci generici e Farmindiustria allineati chiedono una lista ufficiale dei brevetti sui farmaci, certificata da un ente indipendente poiché negli ultimi 4 anni in Italia ci sono stati quattro lanci di prodotti "tutelati da brevetto" per le aziende __________________________________________________________________ Corriere della Sera 16 giu. ’11 UN PACEMAKER PER CONTROLLARE LA PRESSIONE ALTA SALUTE INGANNA I SENSORI DEL CERVELLO RISOLVENDO I CASI RESISTENTI AI FARMACI. LA RICERCA AL CONGRESSO ALLA BICOCCA DI MILANO MILANO - Ci sono persone con la pressione alta che prendono addirittura quattro medicine diverse, ma non riescono a controllarla (possono arrivare al 30% dei casi): soffrono di un' ipertensione «resistente» alle cure (dicono gli esperti), pericolosa perché aumenta di molto il rischio di andare incontro a infarto e ictus. Ma ci potrebbe essere una soluzione al loro problema: una specie di pacemaker che regola la pressione, così come i classici pacemaker regolano il ritmo del cuore. Il dispositivo anti-ipertensione si chiama Rheos e, negli studi clinici preliminari, ha dimostrato di funzionare. Se ne parlerà in occasione del XXI congresso della Società europea di ipertensione (Esh) che si tiene a Milano dal 17 al 20 giugno prossimo. «Questo dispositivo - spiega Giuseppe Mancia, direttore di Cardiologia all' Università Bicocca di Milano e presidente del congresso - si basa su un generatore impiantabile che invia impulsi ai barocettori della carotide. In altre parole: nelle carotidi (le arterie che portano sangue al cervello, ndr) ci sono "sensori" della pressione che mandano segnali al cervello e lo stimolano ad aumentare o ridurre la pressione del sangue, a seconda delle esigenze dell' organismo. Il pacemaker "inganna" questi recettori e fa in modo che il cervello mandi impulsi che abbassano la pressione. In pratica il sistema agisce come "stabilizzatore". Non solo - aggiunge Mancia - mi piace ricordare che questa è l' applicazione pratica di studi che sono stati condotti, negli anni passati, all' Università di Milano». Il pacemaker anti-ipertensione è una soluzione originale che attende verifiche. Nel frattempo il problema ipertensione arteriosa, fra le maggiori cause di infarto e ictus, non è ancora sotto controllo, nonostante la disponibilità di farmaci efficaci e nonostante le prove, inconfutabili, che un abbassamento della pressione arteriosa, determina una riduzione consistente delle malattie cardiovascolari. «Uno studio condotto dall' Università Bicocca di Milano - continua Mancia - dimostra che il 35% dei pazienti con diagnosi di ipertensione e una ricetta per farmaci anti- ipertensivi, non la rinnovano. Rimangono senza trattamento. È dimostrato, invece, che chi continua il trattamento, ha una riduzione del 37% dei danni cardiovascolari». Allora, problema numero uno: i medici di famiglia dovrebbero essere più attenti nella gestione di questa patologia. Problema numero due: esiste uno scollamento fra quello che la ricerca scientifica propone e quello che, poi, viene realizzato nella pratica clinica. «Oggi stiamo discutendo - continua Mancia - quale sia il livello ideale di pressione, «ottenibile» con le terapie. Fino a poco tempo fa si diceva che il più basso livello ottenibile grazie alle terapie era il migliore. Ma non sempre è così. Un abbassamento eccessivo, soprattutto nelle persone anziane, può portare a danni, invece che a benefici». La ricerca continua a cercare nuove soluzioni, ma l' importante è che queste trovino riscontro nella pratica clinica. Ed è preoccupante che una quota consistente delle persone ipertese non siano ancora sotto controllo. Adriana Bazzi abazzi@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA **** Come funziona Il dispositivo La soluzione al problema dell' ipertensione (causa di ictus e infarto) potrebbe arrivare da una specie di pacemaker che regola la pressione, così come i classici pacemaker regolano il ritmo del cuore La sperimentazione L' anti-ipertensione si chiama Rheos e negli studi clinici preliminari ha dimostrato di funzionare. Se ne parlerà al XXI congresso della Società europea di ipertensione (a Milano dal 17 al 20 giugno) Bazzi Adriana ________________________________________________________________ La Stampa 13 giu. ’11 AIUTO, MI SI È RIMPICCIOLITO IL GENERE UMANO L'uomo di oggi più fragile degli antenati del Paleolitico Lo studio: "Colpa dell'agricoltura e della vita comoda" La storia ANDREA MALAGUTt CORRISPONDENTE DA LONDRA L’Homo Sapiens era più robusto e aveva un cervello del 10% più grande Con l'evoluzione l'uomo si è ristretto Involuzione. La specie umana ha camminato all'indietro trasformando il corpo in un involucro più piccolo e minuto. L'uomo di Cro-Magnon, 35 mila anni fa, era più possente di qualunque decatleta moderno. E così più in generale l'Homo Sapiens. Poi ci siamo ristretti. È successo tutto negli ultimi 10 mila anni. Anche il cervello si è ridotto del 10%. La stessa percentuale dello scheletro e dei muscoli. Fine di un mito popolare. Non è vero che di secolo in secolo siamo migliorati. Eravamo più forti e resistenti nel paleolitico. La professoressa Marta Lahr, condirettore del Cambridge University's Leverhulme Centre for Human Evolutionary Studies, si rigira tra le mani i resti di un teschio. Ha una voce metallica, che sembra arrivare da un'altra persona. Biologa e antropologa, si tocca inconsciamente i capelli mentre spiega con la stessa distanza di un orologiaio svedese il senso della ricerca presentata alla Royal Society. «Gli esseri umani erano più alti e muscolosi. Lo studio dei fossili non è omogeneo, ma dimostra qual è stato il nostro cammino nel corso di oltre 190 mila anni. Il cambiamento è stato notevole. Non siamo cresciuti, ci siamo rimpiccioliti». Le indagini sistematiche compiute sui resti umani ritrovati in Africa, Europa e Asia rivelano il percorso di restringimento, come se a un certo punto la natura avesse deciso che per sopravvivere era necessaria una struttura più agile e leggera. «I nostri antenati hanno crani con caratteristiche precise». I fossili africani coincidono con quelli israeliani o asiatici. La struttura di fondo è analoga, anche se alcune caratteristiche possono cambiare. «Ci sono etiopi con la bocca molto grande, per esempio, e popolazioni con la fronte decisamente larga e increspature dovute forse a un atteggiamento facciale perennemente accigliato - continua la studiosa -. Ma tutti erano più grandi noi, lo testimoniano anche le armi, gli strumenti musicali, gli oggetti di uso comune. Il cambiamento sostanziale è avvenuto negli ultimi 10 mila anni. La domanda banale da porsi è: perché? C'è anche una risposta abbastanza semplice, ma forse non definitiva: l'arrivo dell'agricoltura». Basta caccia. L'uomo cambia strada. Scopre i campi e nuove forme di produzione. Una vera rivoluzione culturale. Che però non risolve completamente il quesito. Perché, avendo organizzato un sistema che consente di trovare il cibo con maggiore facilità, la specie si riduce fisicamente e psichicamente? Non è il cibo a renderci più forti e più grossi? Amanda Mummert, antropologa della Emory University di Atlanta, ha appena pubblicato uno studio, riportato dal «Sunday Times», in cui sottolinea come le ricerche condotte su 21 organizzazioni sociali che hanno abbandonato la caccia per l'agricoltura dimostrano che l'altezza media è diminuita col cambiamento di stile di vita. Mentre sono aumentate le patologie. «L'impatto dell'agricoltura, accompagnato da un aumento della densità della popolazione, ha prodotto una maggiore diffusione delle malattie infettive e una diminuzione della statura - spiega l'antropologa -. Dal Medioriente all'Asia, dall'Africa all'Europa». Secondo la Mummert il fenomeno è legato a una mancanza di micronutrienti presenti nella cacciagione e assenti in agricoltura. «Anche se le calorie sono state abbondanti, vitamine e minerali decisivi per la crescita sono diventati insufficienti». Problema risolto? In verità no. Chris Stringer, professore del Natural History Museum di Londra, ritiene che la risposta non sia completa. «Molte popolazioni hanno dovuto sviluppare una maggiore muscolatura laterale proprio per esigenze legate alla caccia. L'agricoltura non spiega tutto. Magari la vita sedentaria». Resta poi la questione del cervello. La professoressa Lahr si lega i capelli neri dietro la nuca. «Abbiamo perso una porzione di materia cerebrale pari a una pallina da tennis. Forse dipende dal fatto che il cervello assorbe circa un quarto dell'energia prodotta dal corpo. Calando le dimensioni fisiche calano anche quelle cerebrali». Forse. Il collega Robert Foyer le appoggia una mano sulla spalla. «Siamo pezzi di pongo. La nostra forma e la nostra dimensione cambiano continuamente. Non è meraviglioso?». L'INVOLUZIONE E' diminuita la massa corporea, ma anche il cervello si è ristretto ________________________________________________________________ Avvenire 16 giu. ’11 LA TIROIDE ARTIFICIALE ACCHIAPPA-RADIAZIONI DI MASSIMO IONDINI La catastrofe è immane. Da tre mesi il Giappone sta rivivendo l'incubo di Hiroshima e Nagasaki. Ogni giorno, ogni ora, si lotta per cercare di tamponare le fuoriu-scite. E sui vertici della Tepco, titolare dell'impianto di Fukushima investito dallo tsunami e diventato una bomba radioattiva a orologeria, grava un enorme macigno. Avranno così accolto con un sussulto una inaspettata mail dall'Italia. Una scialuppa di salvataggio lanciata fino al mare del Giappone da un piccolo paese del lago di Como, Veleso. Li abita l'endocrinologo e immunologo italiano Samorindo Peci. «Una notte tormentata di fine marzo — racconta il 50enne professore, di-rettore del Laboratorio di Terapie cellulari Forschung, in Germania, e a capo del Cerifos (Centro di ricerca e formazione scientifica) di Milano —mi arrovellavo su Fukushima. Riflettevo sulla particolare sensibilità alle radiazioni di un organo come la tiroide, che da endocrinologo ben conosco. Perché è così soggetto alle radiazioni, mi chiedevo, pensando in particolare ai tanti morti di tumore alla tiroide nel Giappone post Hiroshima e Nagasaki». Una notte insonne, ma non infruttuosa... Sì, una notte proficua. Naturalmente, ci stavo pensando da giorni. Ma in quelle febbrili ore mi sono deciso. Saranno state le 3 quando ho mandato la mail con la mia ipotesi di lavoro e una sommaria relazione all'Ambasciata italiana in Giappone e, per conoscenza, anche alla nostra Presidenza del Consiglio. Mi sembrava giusto avvisare che io, cittadino e medico italiano, inoltravo un messaggio di quel tipo a una nostra Ambasciata all'estero. E qual è stata la reazione in Giappone, alla Tepco? «Beh, si sono presi un po' di tempo per valutare la cosa. Immagino di non essere stato l'unico al mondo ad aver avanzato ipotesi e proposte tecnico-scientifiche, più o meno plausibili, in questi drammatici mesi in cui nessuno sa bene che pesci pigliare. Poi, finalmente, è arrivata la risposta della Tepco: mi sono in-contrato a Roma con i suoi dirigenti e ingegneri nucleari, abbiamo approfondito il mio progetto e ora ho l'incarico. Un anno di tempo, con i fondi necessari erogati dalla Tepco, per cercare di neutralizzare i cancerogeni effetti delle radiazioni. È una corsa contro il tempo. Ma qual è la sua ipotesi di lavoro? Il punto di partenza è la centralità della tiroide, perno del metabolismo perché interviene in una enorme serie di scissioni cellulari all'interno dell'organismo. E, come dicevo, è l'organo più esposto alle radiazioni perché contiene al suo interno dei particolari recettori di radioattività. Intende forse rendere in qualche modo invulnerabile la tiroide dei giapponesi a rischio radiazioni? Nient'affatto. Il punto di partenza è invece un altro: riprodurre artificialmente una tiroide uguale a quella umana dal punto di vista metabolico. Studiando composizione e percentuali dei suoi tessuti, ritengo che si possa costruire qualcosa che mimi in toto la tiroide nella sua funzionalità. Ma a quale scopo costruire una tiroide artificiale? Visto che la tiroide è il bersaglio privilegiato delle radiazioni, l'obiettivo è farne una sorta di parafulmine del corpo umano. Dirottando cioè le radiazioni dalla tiroide delle persone a migliaia di piccoli doni artificiali di tiroide. Parafulmini, appunto, da mettere per esempio sulle case di chi vive più a ridosso della centrale nucleare. Non è certo il caso, ma fa quasi sor-ridere l'idea di vedere sopra i tetti o sui balconi delle tiroidi accanto alle parabole e alle antenne tv... Ovviamente, della tiroide questi prototipi avranno solo la funzione, non certo la forma. Si tratterà di piccole sfere, con tanti anelli concentrici e sovrapponibili con al centro un nucleo, che fungano da catalizzatori artificiali di radiazioni. Quando pensa di poter mettere in pratica il progetto e intervenire sul campo? Stiamo per partire in questi giorni. Alla base abbiamo tutta una serie di studi istologici attinti alle varie banche dati. Le radiazioni colpiscono il sistema regolatore immunitario a lunga distanza, attraverso il lento ma progressivo moltiplicarsi e duplicarsi nel Dna cellulare di un'alterazione patologica che, alla fine, evolve in cancro. Perciò, prima si interviene più si neutralizza questo processo degenerativo nelle persone già colpite. Ipotizziamo che queste tiroidi artificiali, piazzate un po' ovunque, riescano a catturare buona parte della radioattività presente, proteggendo così le persone. Come rendere poi a loro volta innocue queste piccole bombe radioattive? Quello che preoccupa è infatti soprattutto la catalizzazione. Non è tanto un problema captare la radiazione, ma imprigionarla in sicurezza. E quindi neutralizzarla. Per questo non sto pensando a una gigantesca tiroide: sarebbe una micidiale mina vagante. Immagino invece una moltitudine di micro tiroidi da smaltire e bonificare facilmente. Con un sensore su ogni sfera che mi dica quando è satura di radioattività e quindi da sostituire. Ma cosa farete praticamente in laboratorio e dove? Questi esperimenti, io e il mio team, li faremo in Italia. Simuleremo tutta una serie di modificazioni funzionali della tiroide giocando sulle diverse percentuali dei suoi componenti e sottoponendo i prototipi a differenti gradi di radiazioni per vedere cosa succede all'interno. Saranno decisivi i vari tempi di reazione. Tutto si gioca intorno alla variabile tempo... Facciamo un esempio: prendiamo una sfera-tiroide a cui abbiamo fatto catturare un determinato dosaggio radioattivo. Dobbiamo vedere in quanto tempo questa sfera rilascerà quello che ha assorbito. Il rischio è che in un ambiente non saturo di radioattività, cioè pulito, queste sfere si mettano a rilasciare troppo in fretta. Si spieghi meglio, professore... Pensiamo a una boccetta di profumo. Anche se la si lascia aperta per un anno e il contenuto evapora, avrà sempre un po' di profumo. Ecco, quella è la minima saturazione: non sprigiona più all'esterno, però c'è. Così, nel nostro caso, ci sarà una saturazione, misurata e controllata, oltre la quale la sfera comincerà a rilasciare radiazioni. Ma un sensore che misura la saturazione ci dirà quando raggiungerà un determinato livello, che è proprio quello che dovremo studiare. A quel punto, questa sfera verrà tolta e sostituita. Sì, ma bonificata come? Si può ipotizzare uno smaltimento talmente impercettibile da risultare quasi innocuo? Questo è il punto nodale, l'obiettivo finale. Dobbiamo trovare ottimali livelli di micro dispersioni, un po' come avviene in un normale studio medico di radiologia. Di quali specialisti si avvale in questo suo progetto? Sto ancora completando il gruppo di lavoro. Ci saranno un fisico, un fisiologo, un biologo, un chimico. Oltre a vari ricercatori che facciano lavoro di relazione. Ma la porta è ancora aperta: se c'è qualcuno che vuole accettare questa sfida, mi contatti. Comunque, saremo non meno di dieci operatori. Alcuni vengono dal dipartimento di Biologia applicata alla ricerca biomedica dell'Università dell'Insubria di Busto Arsizio e attendo notizie da colleghi della facoltà di Medicina dell'Università Cattolica di Roma. Per ora siamo tutti medici italiani. Gli ingegneri, invece, sono tedeschi. E loro che cosa faranno? I tedeschi realizzeranno le sfere-tiroidi. Le due società che ho contattato hanno una particolare capacità di lavorare su molecole poco pesanti che poi convertono in biotecnologia, usando dei micro- acceleratori: parti vive che renderanno le sfere- tiroidi dei potenti catalizzatori, soprattutto di radioattività. Creatività italiana, dunque, e tecnologia tedesca? Una task force, direi, per una causa che dovrebbe oltremodo affratellarci. Certo, i tedeschi sono anche interessati all'ipotesi di poter produrre, e vendere, sfere per singole abitazioni. Si potrebbe realizzare un prototipo di tiroide artificiale da mettere davanti alle case per proteggere le famiglie. Ma, per ora, di queste tiroidi ho solo i primi modelli. E la centrale di Fukushima, come la neutralizzerete? Questo è un grosso problema. E, al momento, è l'obiettivo primario della Tepco. Come gli Usa non riuscivano a tappare il buco in mare, così ora i giapponesi non riescono a fermare le fuoriuscite radioattive. Spostare molecole da un punto a un altro è fattibile entro certi limiti, il problema è quando sono tante. Il punto è inserire qualcosa di vivo, un acceleratore, nella tiroide artificiale. E, fatto in piccola scala, potremo proporzionarlo alla grandezza del disastro. Abbiamo un anno di tempo per provarci. E per riuscirci. «La tiroide è l'organo più esposto alle radiazioni Costruiremo qualcosa che ne mimi le funzioni, quasi un parafulmine Piccole sfere, un nucleo e anelli concentrici, catalizzatori artificiali» Il gruppo di lavoro sarà composto da medici italiani e ingegneri tedeschi. In futuro si potrebbe giungere a produrre e vendere sfere per singole abitazioni per proteggere le famiglie Da tre mesi l'incubo del "veleno invisibile e silenzioso" affligge il Giappone. Unico scampo sembrava la fuga. Ma oggi una speranza concreta c'è, per merito di un nostro ricercatore a cui la Tepco ha dato fiducia, finanziando il suo progetto rivoluzionario ________________________________________________________________ La Repubblica 17 giu. ’11 SCOPERTE DAI MEDICI DELLA CATTOLICA LE CELLULE RESPONSABILI DELL'ARTRITE IDENTIFICATE le cellule responsabili dei casi più gravi di artrite reumatoide. La scoperta porta la firma dei ricercatori della facoltà di Medicina dell'università Cattolica. I colpevoli sono i linfociti B, molto resistenti alle cure standard, che procurano i danni più consistenti alle articolazioni. Ora i pazienti affetti da questa malattia autoimmune possono sperare: presto potrebbero beneficiare di nuovi farmaci e trattamenti personalizzati ________________________________________________________________ MF 16 giu. ’11 MEDICI OFFLINE A PROVA DI ERRORE E-health Al Giovanni Bosco di Torino le prescrizioni viaggiano via Wi-fi. E con Ge-Intel anche la tele-assistenza mette il turbo di Cristina Cimato Passi avanti della tecnologia in ambito sanitario stanno migliorando l'assistenza, velocizzando i tempi di gestione delle pratiche mediche, ma rendono sempre più necessaria una revisione dell'aspetto organizzativo delle strutture di cura. Una ricerca realizzata da Federsanità Anci sullo sviluppo dei livelli essenziali di innovazione in sanità ha permesso di acquisire le informazioni utili alla messa a punto di un modello di riferimento per l'innovazione tecnologica delle strutture sanitarie e, allo stesso tempo, di un sistema di intervento per porre le basi metodologiche per il lancio di una azione integrata sulla sanità elettronica «L'impatto dell'ingresso delle tecnologie nelle aziende sanitarie ha mostrato notevoli vantaggi, sulla spinta dei quali è possibile ipotizzare operazioni di finanziamento per le aziende ma soprattutto impostare una riorganizzazione globale sistematica, condivisa e pianificata», ha spiegato Massimo Mangia, responsabile e-health Federsanità Anci. Un esempio in tal senso è l'Ospedale San Giovanni Bosco di Torino, dove alcuni anni fa è stato avviato un progetto di smaterializzazione della documentazione utile alla somministrazione della terapia ai pazienti di medicina generale grazie a schermi touch screen, netbook, tablet pc e computer da tavolo, tutti collegati tra loro via wi- fi. Dall'esigenza di ridurre, o addirittura annullare possibili discrepanze tra le informazioni trasferite da medico a infermiere, azzerando allo stesso tempo i tempi di passaggio delle stesse, è stata data vita a un'applicazione che ora sta trovando utilizzo anche in altri reparti dell'ospedale. Un software fatto su misura in base alle esigenze di medici e infermieri è stato collaudato su oltre 34 mila terapie, 750 giorni di funzionamento continuo e 36 utenti sanitari. «Il progetto è nato per risolvere alcuni problemi relativi alla sicurezza del dato», ha spiegato Massimo Giusti, direttore del reparto di Medicina interna del nosocomio piemontese, «nel 99% degli ospedali italiani il medico riporta sul fascicolo cartaceo informazioni che vengono poi lette e interpretate dall'infermiere per la parte operativa della terapia. In questi passaggi esistono alcuni rischi di interpretazione della scrittura, o semplicemente di discrepanza, che possono ridursi a dettagli non gravi per la salute del paziente, come il nome commerciale di un farmaco al posto di quello del principio attivo, ma che rappresentano comunque una situazione a cui porre rimedio per un rigore scientifico». Dal 2006 grazie alla collaborazione con il Politecnico di Torino, partner che ha garantito un'analisi scientifica dei dati, è stato possibile apprezzare i vantaggi di questa soluzione tecnologica in termini di efficienza e di costi. «Si è risparmiata tutti i giorni mediamente un'ora di trascrizione delle etichette dei farmaci per i pazienti, una pratica che adesso avviene in 40 secondi e permette di ottenere informazioni dettagliate sulla medicina e su chi l'ha somministrata», ha aggiunto Giusti, «inoltre le discrepanze presenti nelle cartelle, prima pari al 70% dei casi sebbene non si trattasse di errori veri e propri, sono state ridotte a zero». La soluzione, realizzata dall'azienda Bdp eHealt Solutions, è un applicativo su base Microsoft nato in stretta collaborazione con medici e infermieri e, proprio per questo, di facile utilizzo. «L'applicazione trasferisce a video la scheda unica di terapia, dando la possibilità di scendere in dettaglio nei singoli trattamenti, e la prescrizione è disponibile in tempo reale sullo schermo dell'infermiere», ha commentato Fabio Boriarsi, amministratore delegato dell'azienda, «possono essere inoltre impostati in automatico studi sull'efficacia della terapia per razionalizzare farmaci e costi, nonché sull'attività lavorativa svolta dai singoli operatori». Ora sono allo studio un progetto di riconoscimento del paziente tramite braccialetto elettronico e lo sviluppo di un software per le allergie, che permette di avvisare con un alert automatico appena viene registrata la somministrazione di una terapia non idonea al paziente. Se all'interno della struttura possono essere velocizzati i tempi e ridotti gli errori, soprattutto nei pazienti con patologie acute, i maggiori vantaggi peri malati cronici si concretizzano nella continuità della cura, anche al di fuori dell'ospedale. Una nuova soluzione messa a punto da Intel-Ge Care Innovation si concentra proprio sull'assistenza a distanza del paziente con diabete, insufficienza cardiaca cronica o bronco pneumopatia cronica ostruttiva Il dispositivo Guide Intel-Ge Care Innovation permette di monitorare i parametri vitali con un kit specifico per ogni patologia e di trasferire i dati via bluetooth al tablet, oltre che di accedere a videoconferenza, formulari interattivi e filmati, dando così l'idea delle potenzialità dei controlli sanitari domiciliari di ultima generazione. «Questa soluzione rende possibile un dialogo continuo tra i pazienti e gli infermieri, così che qualsiasi variazione delle condizioni del paziente sia rilevata in tempo reale», ha spiegato Renato Quarato, market development manager di Care Innovations.