RASSEGNA STAMPA 09/10/2011 LA CRUI: «L'UNIVERSITÀ RISCHIA L'APOCALISSE» ANVUR: CON QUESTI CRITERI DI VALUTAZIONE LA RICERCA PERDE FIDUCIA IN SE STESSA ANVUR: LA VALUTAZIONE DELLA RICERCA FA BENE SOPRATTUTTO AI GIOVANI ANVUR: LA RICERCA HA BISOGNO DI UNA LINGUA MADRE ANVUR: SE L'ITALIANO PENALIZZA LA RICERCA MELIS: LA RIVOLUZIONE: VALUTARE IL MERITO «L’ATENEO NON DIALOGA CON LA CITTÀ» MELIS: DIFENDE LO STATUTO: COLPA DELLA GELMINI TIMES: NESSUN ATENEO FRA I PRIMI 200 UNIVERSITÀ DEL NORD PIÙ CARE CHE AL SUD ELOGIO DELL'UNIVERSITÀ ITALIANA, FUCINA DI CERVELLI (IN FUGA) ERASMUS: TANTI STRANIERI MA ALLOGGI SONO TROPPO CARI CIPE: FONDI ALL?UNIVERSITA’ E AL POLICLINICO LA CLASSE MISTA È MEGLIO IG-NOBEL: HARVARD PREMIA GLI STUDI PIÙ IMPROBABILI PER LA PA UNO SHOCK DIGITALE ORA VA DI MODA IL "SOCIAL LEARNIG" PARERE ARAN E-LEARNING, LA P.A. NON DÀ PERMESSI LA (CO)SCIENZA COLLETTIVA DELLA RETE L'UNIVERSITÀ DI OXFORD TRASFORMATA IN SPAM ========================================================= MEDICINA: NOBEL AL TEAM DEGLI IMMUNOLOGI MA UNO È MORTO DA TRE GIORNI TEST MEDICINA: IL MIGLIORE È IL MICHELANGELO GLI ASPIRANTI INFERMIERI ZOPPICANO IN CULTURA GENERALE AOUCA:SANNA: SONO OSPEDALI, NON MULTISALA AOUCA: INFORMA CANCRO: SPORTELLO OGNI ANNO NELL’ISOLA 50 NUOVI CASI DI AUTISMO LA SANITÀ RELIGIOSA TRA CARITÀ E BUSINESS SAN RAFFAELE, PAZIENTI IN CALO I MEDICI: QUI CURE ECCELLENTI «L'URANIO IMPOVERITO? NESSUN TUMORE» IN ITALIA IL PRIMATO EUROPEO PER I BAMBINI IN SOVRAPPESO E OBESI LE LISTE ATTESA SONO ANCORA UN PROBLEMA. SOPRATTUTTO AL SUD L'EMOGLOBINA CHE VIENE DAL FREDDO L'ALLENAMENTO IDEALE PER I PAZIENTI CON SCOMPENSO CARDIACO CRONICO IL BATTERIO HELICOBACTER PROTEGGE DALLE ALLERGIE CARCINOMA DELLA MAMMELLA: ALLARME IN SARDEGNA 165 CASI SU CENTOMILA LE CURE A DOMICILIO AUMENTANO E FUNZIONANO ========================================================= ___________________________________________________________ L'Unità 1 Ott. '11 IL CAPO DEI RETTORI AGLI STUDENTI: «L'UNIVERSITÀ RISCHIA L'APOCALISSE» Prove di dialogo alla Sapienza tra presidente della Crui e universitari L'allarme «Senza fondi si blocca tutto». Oggi manifestazioni in 11 città Il presidente della Crui: «Guardo con attenzione alle mobilitazioni studentesche». Occasione del confronto, l'assemblea convocata dalla Rete universitaria nazionale (Giovani democratici e non solo). MARIAGRAZIA GERINA ROMA mgerina@unita.it Quello appena trascorso è stato l'anno della riforma Gelmini e di una mobilitazione studentesca senza precedenti. Ma l'anno che verrà, per l'università italiana, potrebbe essere addirittura «l'anno dell'apocalisse Maya». Sarà la platea. Fatta di studenti che vanno e che vengono nell'Aula Amaldi, Facoltà di Fisica della Sapienza. E di valigie, che chi è arrivato in treno all'ultimo momento, ammucchia un po' ovunque. Ma Marco Mancini, nuovo (da qualche mese, ormai) presidente dei rettori italiani, piuttosto a suo agio nel contesto informale dettato dagli studenti che l'hanno invitato alla loro assemblea, la dice proprio così. «La situazione è drammatica», ripete snocciolando cifre molto poco astratte. Quelle del Fondo di finanziamento ordinario, che con i famosi 300 milioni che mancano all'appello, non basterà neppure a pagare gli stipendi. Come quelle per il diritto allo studio: «Tra i fondi statali e quelli regionali non si riuscirà a coprire la stessa percentuale dello scorso anno». Unica boccata d'ossigeno le risorse stanziate per trasformare i ricercatori in nuovi associati, «se il governo ci permetterà di spendere»: «Servono ai ricercatori, perciò non ha senso dire che un ateneo può spenderli e un altro no», avverte invocando «entro l'anno» un emendamento per togliere il tetto di spesa che lega al momento le mani alle università. Sono cose che ha già detto, in sedi ufficiali, nelle audizioni parlamentari, a colloquio con il ministro. Stavolta però la differenza la fanno proprio il luogo e l'uditorio. Che danno al discorso un significato più forte della parole. Sottotesto: prove di dialogo, di nuovo tentato con gli studenti. Prospettiva: un possibile fronte comune, almeno contro i tagli. L'occasione di muovere qualche passo su quel terreno, quanto mai disastrato dopo la riforma Gelmini, appoggiata dalla maggior parte dei rettori, per ora, gliel'hanno offerta, per ora, i Giovani Democratici («ma tra di noi ci sono anche quelli che non votano Pd») della Rete universitaria nazionale, che da ieri, a Roma, sono riuniti in assemblea per discutere università e di nuove mobilitaRitaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. zioni. Ospiti parlamentari, sindacalisti, rappresentanti del mondo universitario. Il collettivo di Fisica li ha accolti calando sull'ingresso della facoltà uno striscione che ironicamente muta la sigla Gd in «Giovani disorientati». «Benvenga il dialogo», rispondono loro, rivendicando la formula adottata. «Se mi inviteranno, andrò volentieri ovunque», si sbilancia per parte sua Mancini, ben disposto, nel caso, a ripetere l'esperimento anche con altre platee di universitari. «Dobbiamo far capire al paese, ciascuno per la sua parte, che ha bisogno dell'università per risolleversi dal suo destino sventurato», spiega il presidente della Crui. Puttosto critico con la riforma, che pure molti suoi colleghi hanno appoggiato («Ma non parliamo di abrogare quello che è già stato fatto, meglio semplificare, semmai»). E dice di guardare «con attenzione ed estrema sensibilità» ai primi segnali di nuova mobilitazione da parte degli studenti. Oggi, intanto, scendono in piazza in tutta Italia, Unione degli Universitari e Rete degli Studenti Medi, insieme: «Invaderemo le piazze con un enorme telo bianco, armati di tempere, pennelli e colori per scrivere idee e proposte per la scuola e l'università che vorremmo avere ___________________________________________________________ Corriere della sera 10/09/2011 ANVUR: CON QUESTI CRITERI DI VALUTAZIONE LA RICERCA PERDE FIDUCIA IN SE STESSA di TULLIO GREGORY L'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur) ha varato, e proposto alla discussione, i «criteri e parametri di valutazione dei candidati e dei commissari dell'abilitazione scientifica nazionale» (nuova formula dei vecchi concorsi). Già Ernesto Galli della Loggia ha indicato sulCorriere alcuni punti assai problematici nei criteri dettati per valutare le pubblicazioni dei candidati, «dettagli» significativi del generale declino del Paese e della sua stessa identità. Varrà la pena riprendere il discorso, esaminando più da vicino il documento dell'Anvur. Esso afferma di seguire orientamenti condivisi a livello internazionale, ma propone parametri bibliometrici, cioè puramente quantitativi, sui quali proprio la comunità scientifica ha da anni espresso forti riserve. Ricorderemo solo alcune significative e autorevoli prese di posizione. Il Consiglio Universitario Nazionale, nel documento del dicembre 2008, ha escluso la validità di criteri bibliometrici (fondati sull'Impact Factor, ovvero il numero medio di citazioni ricevute in un determinato e breve arco temporale su riviste presenti nelle banche dati citazionali di Isi), per la gran parte delle aree disciplinari, dalla matematica all'informatica, dalle scienze della terra all'ingegneria-architettura, dalle scienze dell'antichità alle discipline filosofiche, storiche, filologiche, giuridiche; più di recente (2011) è tornato a «sottolineare che non è possibile individuare e definire indicatori universali». Nel 2009 una commissione creata dal Consiglio scientifico generale del Cnr, presieduta da Luigi Labruna, proponendo nuovi e più adeguati criteri di valutazione per le scienze umanistiche, ha escluso per esse la validità di criteri bibliometrici e ha sottolineato il carattere non scientifico della banca dati delle riviste Isi (lo stesso va ripetuto per Scopus), trattandosi di prodotti puramente commerciali: la prima è della società Thomson Reuters Corporation, la seconda è degli Elsevier; in queste banche dati si entra non sulla base di valutazioni scientifiche, ma per accordi economici, con accesso a pagamento. Del tutto privo di pretese scientifiche è Google Scholars, grande calderone di libri, riviste e citazioni, facilmente manipolabile e falsificabile. Peraltro il numero delle citazioni non è di per sé indice di qualità: non solo perché le citazioni possono anche essere stroncature (la banca dati non fa differenza), ma anche perché lavori altamente specialistici possono trovare pochi recensori, mentre la loro significatività nei tempi lunghi è assai più incisiva. In sede internazionale basterà ricordare il documento presentato dall'Académie des Sciences al ministro dell'Istruzione superiore e della ricerca francese (17 gennaio 2011): esso mette in luce, con un dettagliato elenco, tutti gli errori intrinseci all'applicazione di criteri bibliometrici, mostrandone altresì l'inadeguatezza per una corretta valutazione scientifica. Nel marzo 2011 è stato presentato un ampio rapporto della European Sciences Foundation sui criteri di valutazione dei programmi di ricerca nel quale si sottolinea come parametri bibliometrici abbiano un valore del tutto marginale e non possano essere esclusivi o determinanti per la valutazione delle ricerche individuali. Dunque la comunità scientifica nazionale e internazionale è tutta fortemente critica dei parametri bibliometrici che invece, per l'Anvur, costituiscono parametri da «utilizzare per i candidati all'abilitazione», parametri così precisati: 1) il numero di pubblicazioni censite su Isi o Scopus (o altra base dati di ampia copertura); 2) il numero totale delle citazioni; 3) l'indice h (basato sul numero delle pubblicazioni e sulle citazioni ricevute). Fortunatamente qualche dubbio deve avere colto i membri dell'Anvur dato che — anche se non detto direttamente — tali parametri non si applicano, almeno per ora, alle discipline storiche, filologiche, filosofiche, antichistiche, giuridiche e sociali (aree 10-14, con alcune eccezioni); per questi settori sarebbe opportuno tener presenti le indicazioni del Cnr. Preoccupa ugualmente la sicurezza nel proporre parametri quantitativi per tutte le altre aree disciplinari per le quali, abbiamo visto, il Cun aveva escluso la validità. Del resto non sono solo questi i problemi che il documento solleva: al di là del credito dato alle banche dati di Isi e Scopus, assai preoccupante appare la distinzione proposta, fra articoli e monografie in lingua non italiana e quelli in italiano (forse si pensa, ma non si dice, all'inglese), assicurando ai primi una maggiore valutazione. Così una monografia, anche di grande rilevanza, pubblicata in lingua italiana vale meno («peso 1 punto») di una pubblicazione in lingua straniera (peso 1,5: curioso l'uso del termine «peso» per qualificare il valore scientifico di un testo). La stessa definizione di un punteggio massimo per ogni pubblicazione penalizza monografie di più alto valore; meglio sarebbe indicare un punteggio globale per le pubblicazioni, lasciando alle commissioni di valutare le singole opere. V'è infine l'introduzione di un criterio puramente aziendalistico e manageriale nel «profilo scientifico del professore associato e del professore ordinario»: la capacità «di attrarre finanziamenti»; «almeno in un caso» per l'associato, con una «posizione di leader» per l'ordinario. Come se compito di uno studioso, sua missione, fosse trovare denari e sponsor, e questo possa essere requisito tanto importante da divenire condizione per accedere alla carriera universitaria. Dettagli? Può darsi, ma siamo qui nel punto più delicato della recente riforma universitaria e si ha l'impressione che il documento dell'Anvur rispecchi un desolato paesaggio nel quale gli stessi protagonisti hanno perduto fiducia nella ricerca libera e disinteressata, accettando un'idea di università come azienda che deve vendere prodotti, valutando i risultati della ricerca in base all'immediato successo, all'ascolto: come si chiede agli spettacoli televisivi, con i noti risultati. ___________________________________________________________ Corriere della sera 21/09/2011 ANVUR: LA VALUTAZIONE DELLA RICERCA FA BENE SOPRATTUTTO AI GIOVANI di STEFANO FANTONI Da quando si è ufficialmente insediata, all'inizio di maggio, dopo quasi cinque anni dalla sua istituzione, l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca (Anvur) è stata oggetto di numerosi interventi, alcuni di supporto, con suggerimenti costruttivi, altri di aspra critica che denunciano paure a mio avviso infondate. Mi sembra quindi opportuno fare il punto sulla logica che guida l'azione dell'Agenzia, più che rispondere a singoli interlocutori. Il campo di azione dell'Anvur è vastissimo, dalla valutazione della ricerca a quella delle strutture universitarie, dall'accreditamento di nuove sedi e corsi alla determinazione delle regole per l'accesso ai ruoli accademici, punto questo che ha comprensibilmente suscitato il maggiore interesse, e di conseguenza gli attacchi più violenti, cui cercherò di rispondere spiegando la ratio della nostra proposta. Nel fornire al ministro indicazioni per il regolamento sull'attribuzione dell'abilitazione scientifica per professore universitario associato e ordinario, gli obiettivi che Anvur si è posta sono: innescare un processo di miglioramento dell'Università e individuare metodi di riconoscimento della qualità dei ricercatori e docenti che riducano il margine di arbitrio delle commissioni valutatrici. La soluzione che abbiamo proposto, aprendola al dibattito e recependo parte dei suggerimenti dei colleghi, è riassumibile in due semplici concetti: chi aspira a una data posizione accademica deve avere requisiti almeno pari a quelli della metà superiore di coloro che già la occupano, garantendo così nel tempo il miglioramento della qualità media; chi si propone come «commissario» deve essere non inferiore a coloro che dovrà valutare. Per stabilire il possesso dei requisiti richiesti, si fa riferimento alle due procedure utilizzate nelle università di tutto il mondo, e cioè gli indicatori bibliometrici (numero delle pubblicazioni, numero di volte in cui sono state citate, continuità della produzione scientifica...) e il giudizio dei pari, che pur prendendo in considerazione le stesse variabili (su cos'altro dovrebbe fondarsi un giudizio di merito?), qualifica i riferimenti quantitativi, considerati non del tutto affidabili, soprattutto nei settori delle scienze umane e sociali. Si sono quasi immediatamente costituiti gli schieramenti contrapposti dei «quantitativi» e dei «qualitativi». Questi ultimi, in un clima da «pietà l'è morta», denunciano la scomparsa di criteri come la passione per la ricerca, la sopravvalutazione degli aspetti internazionali, e ancora, la meccanicità di criteri e indicatori che, nati in ambito tecnico- scientifico, sono di difficile applicazione in ambito umanistico e sociale. Verissimo: nessuno auspica che siano applicati degli automatismi riduttivi. Ma una norma generale che vogliamo serva a migliorare il sistema universitario non può essere disegnata sui casi eccezionali. È possibile che l'utilizzo degli indicatori lasci fuori un ottimo studioso «di nicchia», ma per contro riduce l'accesso di molti non meritevoli. È probabile che le più diffuse banche dati di indicatori bibliografici presentino dei limiti, ma la soluzione è che gli accademici italiani si diano da fare per costruirne di più affidabili, cosa che in verità molte società scientifiche stanno già facendo. Non si può sostenere la (in)validità di uno solo dei due sistemi senza tenere presenti anche i limiti dell'altro, ed esiste una corposa letteratura scientifica in merito. E del resto gli esiti spesso nefasti della selezione senza precisi vincoli sono sotto gli occhi di tutti. Intendiamoci: le commissioni sono e restano sovrane. Se riterranno di assegnare l'abilitazione scientifica a un docente che non ha i requisiti richiesti potranno farlo, ma dovranno motivare la loro scelta. Anche i singoli atenei potranno chiamare, nei concorsi locali, questi stessi docenti, ma se la qualità del loro lavoro non sarà soddisfacente, se ne terrà conto nel valutare le politiche di reclutamento. L'unico modo per evitare ingiustizie o collusioni è quello di penalizzare chi compie delle scelte con motivazioni diverse dal merito. Accettando la sfida di dotare l'Università italiana di un sistema di valutazione, già presente in Paesi come l'Olanda, la Francia, l'Inghilterra, fin dall'inizio degli anni Ottanta, ci aspettavamo delle resistenze e le resistenze ci sono state. Alcune sincere e intellettualmente motivate, altre più manifestamente legate a gruppi di interesse o di potere. Ci incoraggia molto il forte appoggio da parte di molti giovani ricercatori operanti sia in Italia sia all'estero, ma anche quello, a volte inaspettato, di società scientifiche e ampi settori della società civile, consapevoli di quanto una buona Università sia condizione indispensabile per lo sviluppo economico e sociale, oltre che per la promozione dei singoli. Ci stiamo giocando una partita molto importante non solo per il sistema universitario ma per il futuro del Paese. È richiesto un salto di qualità, che muova dalla valorizzazione delle specificità e delle eccellenze e dalla lucida individuazione degli elementi di debolezza. I nostri colleghi potranno aiutarci a sostenere questo salto di qualità che ci attendiamo verrà innescato dal processo valutativo. Poco costruttiva invece è una critica aprioristica di ogni forma di indicatore o modo di giudizio e ancor meno utile il rimpianto dei bei tempi andati in cui l'unico criterio utilizzato era il principio di autorità. Siamo fiduciosi che la parte più ampia e più sana del sistema universitario e della ricerca sia pronta come noi dell'Anvur ad accettare la sfida del cambiamento. Presidente Anvur ___________________________________________________________ Repubblica 7 Ott. '11 ANVUR: LA RICERCA HA BISOGNO DI UNA LINGUA MADRE IL DIBATTITO SUI CRITERI DI VALUTAZIONE INTRODOTTI DALL ANVUR ROBERTO ESPOSITO Quale sarebbe quello di considerare il linguaggio una sorta di utensile neutro, odi scatola vuota, capace di convogliare al suo interno qualsiasi contenuto. L'inglese, divenuto globish, lingua globale compresa da tutti, consentirebbe di superare le barriere linguistiche nazionali, favorendo una comunicazione trasparente trai ricercatori, sia nel campo delle scienze dure che in quello delle scienze umane. Alla base di tale ragionamento vi è l'idea errata che la lingua non abbia alcun rapporto né con il pensiero che trasporta né con il contesto in cui si genera- quando è ben noto che si pensa sempre in una data lingua e che ogni lingua è storicamente connotata. Non riesco neanche a immaginare che si possa presumere qualcosa del genere. Che, per fare un esempio, si considerino i termini esprit, mind e Geist equivalenti e perfettamente traducibili l'uno nell'altro. Che non si sappia che il genio di una lingua, nell'ambito della filosofia, della letteratura o del diritto (ben distinto, anche semanticamente, in civil law e common law), risieda precisamente nei punti di resistenza al suo trasferimento immediato ed automatico in un'altra. Il che non significa che Dante o Heidegger siano intraducibili, ma che costituiscono una sfida ardua ed inesauribile per i loro traduttori. Sono precisamente questa tensione e questa sfida ad arricchire la conoscenza sia della lingua di partenza che di quella di arrivo. L'autoconsapevolezza di un linguaggio nasce sempre dall'urto e dalla comparazione con gli altri. Tutto ciò è certamente ben noto ai membri dell'ANVUR. Solo che, evidentemente, essi considerano una certa omologazione linguistica, nonostante l'impoverimento culturale che ne deriverebbe, un prezzo accettabile da pagare all'internazionalizzazione della cultura italiana. Ma proprio questo effetto resta tutto da provare. Non solo per le ragioni richiamate da Ciliberto, relative alle radici italiane dell'intera cultura umanistica. Ma anche perché la scrittura in inglese, da parte di autori italiani, già problematica in sé per quanto detto, ne renderebbe impossibile la traduzione nell'area anglosassone, privando l'esercizio di valutazione di un elemento decisivo di giudizio. In ambito umanistico, libri di ricercatori italiani scritti in inglese non solo non sarebbero tradotti, ma interesserebbero sempre di meno. Almeno nel campo della filosofia, è noto che da alcuni anni tra gli autori contemporanei più tradotti in America vi sono gli italiani. Ma sono i pensatori italiani che non imitano gli inglesi né nella lingua né nello stile di pensiero. Sono quelli che portano in tutto il mondo il lessico, lo stile, l'originalità di una peculiare tradizione filosofica, valida precisamente in quanto diversa dalle altre. La cultura, nazionale ed internazionale, nasce da questo confronto e da questo scambio. Da una continua relazione tra identità e differenza, universalità e singolarità. Fuori dalla quale il sapere diverrebbe un contenitore, senza vita e senza anima, di nozioni sempre più ripetitive. Intervenendo nel dibattito aperto su Repubblica da Galli, Graziosi e Ciliberto, credo si debba innanzitutto ringraziare i colleghi impegnati nel lavoro, indispensabile e delicato, di individuare i criteri di valutazione dell'attività scientifica svolta nell'università italiana. Indispensabile perché occorre comunque fissare parametri formali di giudizio che mettano fine alla situazione di caos, e talvolta di parzialità, che finora ha reso opaco il sistema del reclutamento universitario. Delicato perché, investendo il futuro della ricerca, quest'operazione va condotta con un'ampiezza d'orizzonti e una sensibilità culturale proporzionali alla sua rilevanza. Si tratta di mettere in campo una griglia metodologica di grande rigore, ma anche di grande duttilità, tale da non sacrificare la peculiarità di situazioni specifiche alla necessaria generalità degli obiettivi proposti. E comprensibile che di questa complessità la questione della lingua diventi il condensato e l'epicentro problematico. Ma è importante, in casi come questo, prima di arrivare alle conclusioni, evitare di partire da un presupposto sbagliato. IL DIBATTITO Sul tema della decisione dell'Anvur sono intervenuti Galli, Graziosi e Ciliberto La scrittura in inglese da parte di autori italiani renderebbe impossibile la traduzione nell'area anglosassone negando un elemento fondamentale di giudizio ___________________________________________________________ Il Tempo 3 ott. ’11 ANVUR: SE L'ITALIANO PENALIZZA LA RICERCA Provinciallsr- «made in Italy» di FEDERICO GUIGLIA C embra uno scherzo, invece è L3 l'ultima trovata del provincialismo "made in Italy" (in inglese, "of course"): gli-studiosi italiani che pubblicheranno lavori in italiano, rischiano d'essere penalizzati. Saranno, all'opposto, favoriti se pubblicheranno i loro lavori in inglese. Questo potrebbe presto decidere l'Anvur, che è l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'Università e della ricerca. "Nazionale", dice 'il nome, ma non si capisce di che, visto che nei 150 anni dell'unità d'Italia si profila l'ipotesi che venga discriminato proprio l'elemento più antico e moderno che ci ha resi patria dell'universo: la bellissima e millenaria lingua italiana. Bellissima per il mondo, visto che è una delle cinque -e a volte quattro- lingue più studiate nelle scuole e nelle Università del pianeta. Bellissima e diffusa in ambiti internazionali molto diversi fra loro, dalla musica lirica al calcio, dalla moda al cibo, dall'arte alla Chiesa cattolica, dove figura, ovunque, come lingua d'uso principale o di cui, comunque, è bene non fare a meno. Bellissima Ànvir L'Agenzia nazionale per la valutazione dell'Università e della ricerca, potrebbe valutare meno i lavori pubblicati nella nostra lingua anziché in inglese per i settanta milioni di cittadini che la parlano fra i cinque Continenti, per gli ottanta milioni di stranieri d'origine italiana fra le Americhe, l'Europa e l'Oceania, per gli almeno (almeno!) cinquanta milioni di non italiani che per ragioni economiche, storiche o geografiche orbitano intorno alla lingua di Dante. Ma bellissima anche per la scienza senza confini, come testimoniano le storie raccolte da Waldirnaro Fiorentino su centinaia e centinaia di inventori italiani che hanno pubblicato e pubblicano in italiano ("Italia, patria di scienziati", edizioni Catinaccio, 2011 col patrocinio della Società italiana per il progresso delle Scienze), e come conferma la fresca ricerca del professor Michele Gazzola sui brevetti industriali in Europa. Negli ultimi cinque anni -è la preziosa scoperta di Gazzola (Università di Ginevra)-, i brevetti industriali rilasciati dall'Ufficio competente appartengono per il 7,5% dei casi all'area italofona e "solo" per il 6,8 all'area inglese. Persino nell'impari lotta fra la nostra lingua e l'inglese di tutti, l'italiano non arretra e non sfigura. Anzi, avanza nel periodo che va dal I gennaio 2006 al 31 dicembre 2010. Del resto, non c'è un solo straniero poliglotta al mondo a cui verrebbe mai in mente di considerare un lavoro in lingua italiana (o in lingua francese, spagnola, tedesca: fate voi), degno di minor "valutazione" soltanto perché non è scritto in inglese. E che questa possa invece essere l'idea geniale di una parte dell'in- tellighenzia "italiana", e proprio quella chiamata a dare le pagelle agli altri, la dice lunga sulla mancanza di una certa idea dell'Italia e della sua lingua, e su una visione del mondo triste e, insieme, comica. Sarebbe come se i francesi penalizzassero quanti ricercano in francese su Napoleone, o gli spagnoli quanti osano scrivere nella lingua di Cervantes su Don Chisciotte, o i tedeschi quelli che s'azzardano a dire di Einstein in tedesco. Ci si domanda se in un Paese che è, malgrado tutto, la sesta potenza del pianeta, la ricerca italiana possa subire un affronto del genere da chi forse confonde il dovere e il piacere dell'essere poliglotti con una desolante esterofilia Dalla fisica alla matematica, dalle scienze umanistiche alla straordinaria ricerca sullo (e nello) spazio le eccellenze italiane non possono essere mortificate da chi non coglie le potenzialità e l'universalità della lingua italiana. Conoscere l'inglese senza mai rinunciare all'italiano: la vera ricerca nazionale è già bilingue e internazionale. Riferiamolo a chi ancora non lo sa. L'interrogativo Perché un Paese che è la sesta potenza del pianeta, deve subire un affronto da chi confonde il dovere dell'essere poliglotti con una desolante esterofilia ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 ott. ’11 MELIS: LA RIVOLUZIONE: VALUTARE IL MERITO Il rettore Melis sul nuovo statuto e sui parametri per assegnare risorse ALESSANDRA SALLEMI Cagliari. C’è tempesta all’università per la riscrittura dello statuto, operazione obbligatoria in seguito alla riforma degli atenei del ministro Gelmini. L’ultima protesta è dei dipendenti tecnico amministrativi: esclusi dalla nuova composizione del consiglio di amministrazione poi riammessi ma non con la formula chiara da loro sollecitata secondo la quale la rappresentanza doveva essere espressamente indicata nell’elenco dei componenti. Il rettore Giovanni Melis qualche giorno fa ha parlato all’assemblea dei dipendenti, riuniti in rettorato con evidente intento di rivolta contro un’esclusione che, secondo molti, ha a che fare con una sotterranea riduzione degli spazi di democrazia. In altre parole: la Gelmini ha trasformato i rettori in monarchi un tantino assoluti che devono concedere meno che si può alla contrattazione e alla cogestione. Vero? «No», risponde secco il rettore che sta ancora facendo i conti con una sua definizione all’indirizzo dei tecnici («inutili e dannosi») scappata in un momento di tensione e comunque non rivolta, ha spiegato dopo, al personale tecnico-amministrativo. Tornando al nodo del problema: «Lo statuto - spiega Melis - non è un documento politico, è un atto amministrativo collegato con il processo di riorganizzazione dell’ateneo necessario per mantenere la qualità della didattica e della ricerca in una situazione di tagli di organici e di tagli sui fondi. C’è confusione: le critiche, nella realtà, sono rivolte verso contenuti che discendono dalla legge Gelmini, contro la quale ci siamo espressi tutti, lo statuto non è che l’applicazione della legge. La commissione statuto ha lavorato per sei mesi valutando proposte giunte da tutte le componenti del mondo universitario anche esterno. L’elaborazione finale sono 65 articoli di cui 63 sono stati scritti all’unanimità. I due ancora in ballo sono appunto quelli sul Senato accademico e sul cda, si discute della loro composizione. Devono diminuire i numeri dei componenti, ma soprattutto devono diventare organismi del tutto diversi dal passato». Nel Senato c’erano 25 componenti, si deve scendere a 19. Nel cda erano 21, diventeranno 9. «Nel Senato è prevista la presenza dei dipendenti tecnico-amministrativi e qui bisogna trovare un giusto equilibrio tra le nuove facoltà, che sono sei contro le undici di prima, e le aree». Senza il bilancino potrà succedere infatti che intere aree disciplinari potrebbero non essere rappresentate. «Il consiglio di amministrazione non è più un organo elettivo, attua gli indirizzi del Senato e da questo può essere sfiduciato. I componenti vengono eletti dal Senato su rose di nomi sulla base di requisiti di competenza che devono essere verificati. Con la governance di prima non c’era nessuna corrispondenza tra organismi decisionali e responsabilità: tutti decidevano, nessuno era responsabile. Nella nuova cornice, all’interno del cda non c’è distinzione tra personale docente e tecnico amministrativo: nell’assemblea dell’altro giorno si è cominciato ad approndire tale aspetto, il sindacato dei dipendenti ha proposto che il loro rappresentante fosse eletto dall’assemblea, ma questa è una vecchia impostazione. Dovrebbe contare, invece, che l’impianto organizzativo dell’ateneo è immodificato». Dalla discussione è nata una nuova proposta: l’assemblea elegge una rosa di nomi e in questa il Senato sceglierà un rappresentante dei dipendenti tecnico-amministrativi, il tema torna quindi in commissione statuto. «Ma c’è anche un’altra rivoluzione - conclude il rettore - stiamo inserendo in modo sistematico i parametri di merito nell’assegnazione delle risorse, nell’attribuzione dei posti, nella premialità per i dipendenti. L’impegno deve poter essere valutato: è indispensabile che ci siano parametri oggettivi». ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 ott. ’11 «L’ATENEO NON DIALOGA CON LA CITTÀ» Critici Cgil e Cisl: manca un rapporto coi problemi del territorio UNIVERSITA’ Il dramma dei fuori sede per la riduzione delle borse di studio: «Sono del tutto insufficienti» CAGLIARI. Università in fibrillazione: per il nuovo statuto, per le decisioni prese sui fuori corso e per i riflessi dei tagli ai trasferimenti. Secondo molti studenti fuori sede, ad esempio, il numero delle borse di studio dell’Ersu è stato ridotto o, in ogni caso, è del tutto insufficiente visto che per le matricole su 1.901 domande, hanno beneficiato del contributo solo 922 universitari. Ma va detto, come precisato da Giovanna (studentessa in Scienze politiche fuori sede), «che i miei familiari hanno un reddito di 9.900 euro annuo, ma nonostante questo non sono rientrata tra i beneficiari. Mentre i genitori dell’ultimo in graduatoria, che ha avuto accesso al contributo, hanno circa 8.400 euro». Una situazione che mostra le forti difficoltà degli universitari fuori sede meno abbienti, soprattutto se si considera che una camera in affitto costa in media 230 euro al mese o circa 200 se lo studente alloggia in una camera doppia. Per quanto riguarda la riforma dello statuto, il problema «è salito alla ribalta, a causa delle vibrate proteste del sindacato interno contro il rettore dell’università Giovanni Melis - afferma Fabrizio Carta, segretario generale territoriale della Cisl - che si oppone a che sieda nel consiglio d’amministrazione un rappresentante eletto dal personale tecnico amministrativo». Posto che i rappresentanti dei lavoratori condividono la richiesta di una maggiore partecipazione, «la questione va anche oltre - continua Carta - secondo noi il rettore e l’università nel suo insieme dovrebbero affrontare il rapporto tra il mondo accademico e la società esterna. Se, infatti, si sostiene da più parti e giustamente che l’università, la ricerca e la cultura sono un volano dello sviluppo socio economico, bisogna anche essere conseguenti e riannodare i fili tra l’ateneo e il mondo produttivo, le associazioni, il sindacato (che rappresenta i lavoratori), i pensionati e i disoccupati». Critica anche la posizione della Cgil: «Sullo statuto - spiega Nicola Marongiu, segretario della Camera del lavoro cittadina - secondo noi il rettore punta a una semplificazione che non capiamo. Ci pare evidente che c’è una riduzione del ruolo degli organi di indirizzo dell’attività accademica. Se dovessi dirlo in modo brutale: questo è un ateneo in cui pesa solo il corpo docente, mentre le altre componenti (tecnico amministrativi e studenti) sembrerebbero avere meno diritto di parola». Poi c’è «un problema annoso che riguarda Cagliari e il rapporto tra ricerca e città - prosegue Marongiu - non solo tra i singoli docenti e le varie parti del centro urbano, ma dell’ateneo nel suo complesso. E questo manca». Il sindaco Massimo Zedda nelle sue dichiarazioni programmatiche ha accennato al San Giovanni di Dio... «Ma si tratta di capire - conclude Marongiu - come un polo dove si fa ricerca possa essere messo al servizio di una realtà complessa come Cagliari. Mentre questa non sembra un’università che dialoga con la città». La questione è che un centro come Cagliari e l’intera Sardegna, «realtà che vivono una fortissima crisi occupazionale e sociale - precisa Carta - e che vedono un incremento costante di povertà, non solo materiale, hanno bisogno assoluto di un’università che non rimanga un mondo chiuso in se stesso. La gestione dell’ateneo va condotta con rigore scientifico ed economico, ma non può essere simile a quella di un’azienda di credito. Insomma, non ci si può limitare a sfornare laureati o ad espellere fuori corso, bisogna collegarsi strettamente con il mondo del lavoro, svolgendo il ruolo di cerniera tra lo studio e l’accesso al lavoro e diffondendo i germi della cultura e della formazione». In questo senso i sindacati chiedono al rettore un «confronto aperto» con le forze sociali. (.r.p) ___________________________________________________________________ Sardegna Quotidiano 2 ott. ’11 IL RETTORE DIFENDE LO STATUTO: COLPA DELLA GELMINI GIOVANNI MELIS Il rettore difende la riforma dello Statuto e le iniziative per i fuori corso di lunga data. POLICLINICO MONSERRATO Con i milioni del Cipe sarà realizzato un nuovo blocco e sarà svuotato l’ospedale civile. Il rettore Giovanni Melis è al centro delle polemiche per la riforma dello Statuto dell’Ateneo. «In tanti se la prendono con me, ma sono costretto ad applicare la legge Gelmini. Anche se l’ho contestata è una legge». Le polemiche sul nuovo Statuto e sulla decadenza dei fuoricorso sono mitigate dalla pioggia di milioni del Cipe. Per il Magnifico rettore è un periodo intenso «ma ci tengo a precisare che sulla decadenza degli studenti circolano molte informazioni sbagliate». Giovanni Melis respinge le accuse degli studenti che si lamentano per il provvedimento che costringe chi non sostiene esami da parecchi anni a laurearsi entro aprile dell’anno prossimo. «A parte il fatto che tanto clamore è servito da stimolo - spiega - perché tanti studenti a cui mancavano un paio d’esami e non ne sostenevano da anni hanno deciso di terminare gli studi. E i nostri uffici li stanno assistendo per trovare la soluzione migliore ». I fuori corso sono quasi la metà degli iscritti all’Ateneo cagliaritano, un numero elevato che può creare problemi nelle valutazioni per la qualità dell’Università. «Sulla decadenza bisogna però precisare alcuni punti cruciali. Chi è ancora iscritto a corsi di laurea estinti nel ‘99 può passare ai nuovi corsi, portando con sé gli esami sostenuti». Una delle paure degli studenti era quella di perdere gli esami già passati con tanto sacrificio. «Certo che i casi saranno valutati, perché in certi ambiti un esame sostenuto così tanto tempo fa può non essere più aggiornato - spiega - poi non è vero, come hanno sostenuto alcuni, che non ci sono norme apposite per i disabili, sono all’articolo 51, o per i laureandi, sono previste delle proroghe». Ma l’idea di fondo del rettore è quella di “tagliare ” i fuori corso eterni. «Non ci si iscrive all’Università solo per avere lo status di studente universitario, ma bisogna impegnarsi e studiare», precisa. LO STATUTO TRAVAGLIATO In questi giorni il rettore Giovanni Melis è alle prese con la difficile riforma dello Statuto. «Stiamo ancora discutendo alcuni aspetti, ma su 65 articoli c’è l’accordo ormai su tutto restano solo da definire i dettagli sulla composizione degli organi di rappresentanza: Senato accademico e consiglio di amministrazione». Su questi aspetti sono tanti i malumori nell’Ateneo. «È normale, basti pensare che si passa da 11 a 6 facoltà, ci sono molte persone che non vogliono accettarlo». Tutto parte dalla riforma Gelmini: «Anche io l’ho contestata sotto molti aspetti, ma la legge c’è e va applicata, sarebbe un reato evitarlo». Il personale tecnico-amministrativo protesta perché vuole mantenere una sua rappresentanza nei due organi dell’Università. «Con la riforma il Senato accademico non sarà più costituito rispettando le rappresentanze mentre nel Consiglio di amministrazione l’ingresso sarà legato alle competenze ed è aperto anche agli esterni, la rosa dei nomi sarà valutata anche dal Comitato etico». I MILIONI DEL GOVERNO Il Cipe ha stanziato 118 milioni per il mondo universitario cagliaritano. Soldi che serviranno, tra l’altro, per realizzare il campus di viale La Playa e completare il grande sviluppo del Policlinico di Monserrato. Quaranta milioni saranno destinati alla costruzione del Blocco R. «Che ci consentirà, tra le altre cose, di svuotare definitivamente il San Giovanni di Dio - spiega il rettore - ora stiamo completando il Blocco Q che ospiterà il materno- infantile, spostando la clinica pediatrica e parte dei reparti del San Giovanni di Dio». Il piano strategico prevede l’accorpamento a Monserrato di tutte le strutture dell’area medica. «E tutti i locali che resteranno liberi in città verranno occupati dalle facoltà di Giurisprudenza, Economia e Commercio e Sciene Politiche». Coi fondi Cipe sarà creato anchen un nuovo Orto botanico. «Così potremo alleggerire quello attuale, che sarà più libero e potrà essere sfruttato anche per scopi non didattici». Marcello Zasso ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 ott. ’11 TIMES: NESSUN ATENEO FRA I PRIMI 200 Classifica Times ROMA Nessuna piacevole sorpresa. Anche nella classifica del Times (Times Higher Education) gli atenei del Belpaese bisogna cercarli con il lumicino. Nessuna università italiana figura, infatti, tra le prime 200 università del mondo recensite dall'annuale ricerca che mette sul podio l'Institute of Technology in California, medaglia d'oro, Harvard, secondo classificato e Stanford che agguanta un «bronzo». Per il secondo anno di fila bisogna scorrere parecchio la graduatoria prima di trovare un ateneo di casa nostra. Soltanto al 228/mo posto si incontra il primo: l'Università di Bologna. L'Alma Mater Studiorum guadagna diverse posizioni rispetto allo scorso rapporto del Times (era 287/ma). Seguono, tra le italiane, la statale di Milano (240/ma posizione) e Milano Bicocca (241/ma) ___________________________________________________________ Il Manifesto 4 Ott. '11 UNIVERSITÀ DEL NORD PIÙ CARE CHE AL SUD Secondo la Federconsumatori, le università al Nord Italia sono più care che nel Mezzogiorno. Secondo un rapporto dell'Osservatorio nazionale dell'associazione dei consumatori gli atenei del Nord sono mediamente più cari del 13,5% rispetto alla media nazionale e del 28,3% rispetto a quelle del Sud. È la Puglia la regione dove studiare costa meno anche se in generale tutte le università meridionali applicano in media tasse più basse. Le rette più economiche sono quelle dell'università Aldo Moro di Bari, seguita però dall' «Alma Mater» di Bologna (miglior classificato tra gli atenei italiani nei ranking internazionali) che per chi ha un basso reddito - un Isee inferiore a 20.000 euro - applica delle tasse inferiori del 35% rispetto alla media nazionale. L'ateneo più caro (prendendo in considerazione la fascia più bassa di redditi) è invece l'università degli studi di Parma con una retta di 890,05 euro annui per le facoltà umanistiche e dì 1005,87 euro per quelle scientifiche. Seguono gli atenei di Verona e la Statale di Milano. Complessivamente, rileva il rapporto Federconsumatori, rispetto al 2010 si registra una lievissima diminuzione dei costi a carico degli studenti delle fasce di reddito più basse, e, per contro, un incremento a carico delle fasce più alte. Ma è molto interessante notare, sottolinea Federconsumatori, che la maggior parte delle famiglie monoreddito di lavoratori autonomi, come gioiellieri, albergatori e ristoratori rientrano nella seconda fascia lsee considerata (appena sopra quella dei redditi più bassi), e quindi paga esattamente la stessa tassa annuale universitaria di una famiglia monoreddito di un operaio non specializzato. ___________________________________________________________ Avvenire 4 Ott. '11 ELOGIO DELL'UNIVERSITÀ ITALIANA, FUCINA DI CERVELLI (IN FUGA) Durante una interessantissima giornata di studi su "La ricerca universitaria e la sua valutazione" che si è svolta all'Università Cattolica di Milano qualche giorno fa, tra le molte informazioni offerte, è stato fornito anche il seguente dato: al di fuori dell'Italia operano circa ventiduemila ricercatori italiani. Una simile cifra può essere valuta in due modi diversi; da una parte ci si può, ed anzi ci si deve dispiacere del fatto che così tante persone di valore abbiano dovuto lasciare il proprio Paese per proseguire ricerche e studi che spesso si sono rivelati, e certamente ancora si riveleranno, di primissimo piano. L'Italia non ha creduto in loro, non gli dato fiducia, e così ha preferito, secondo una felice ma anche inquietante battuta di una delle relatrice del convegno, «importare calciatori e veline, ed esportare ricercatori». D'altra parte, però, il dato in questione permette di sviluppare anche un'altra considerazione: la preparazione di base che l'università italiana offre ai propri studenti è in generale di ottimo livello, e infatti essa viene apprezzata laddove si è capaci ed anche interessati ad apprezzarla. È questa una verità nota agli addetti ai lavori ma che il più dalle volte viene sottovalutata dai media italiani che preferiscono ripetere la solita cantilena esaltando 1—eccellenza" — parola ambigua e pericolosa — delle università straniere, in particolare (siamo pur sempre una provincia dell'impero) di quelle statunitensi. Non pensando a quel che si dice, si insiste nell'incantare molti giovani neolaureati con nuell'abracadabra che è il "master-negli-Stati-Uniti". L'università italiana non è certo decrepita o "in ritardo" come si sente spesso affermare, soprattutto dagli italiani. I problemi, i gravi problemi certo non mancano; ormai lo sanno anche i sassi: non ci sono fondi, non c'è ricambio del corpo docente, da quattro anni non si fanno concorsi, per i giovani intraprendere la carriera accademica è come andare a giocare all'Enalotto, e per loro non c'è altra certezza se non quella di un'incertezza che accompagna un apprendistato che per i più fortunati, non per i più capaci, dura almeno dieci/quindici anni. Eppure, nonostante tutte queste difficoltà, l'università italiana resta vitale, configurandosi ancora come un luogo privilegiato all'interno del quale si sviluppa un sapere ricco e fecondo. Infatti gli studiosi e gli studenti non hanno certo atteso l'autorizzazione della politica o di qualcos'altro per decidersi a studiare, e così, dando fortunatamente credito alle proprie intuizioni, sono comunque riusciti a sviluppare le proprie ricerche: a volte è bastata la passione di un docente, l'interesse di un discente e soprattutto un minimo di libertà per diffondere quei semi che poi, secondo tempi fortunatamente imprevedibili, hanno dato e daranno ancora i loro frutti. Ma come valutare — ecco che prende forma l'obiezione — la "passione", rinteresse", la "libertà", la "fecondità" che alimentano ogni nuovo sapere, lo stesso che, proprio perché "sapere" e soprattutto perché "nuovo", impone sempre una "propria" misura, del tutta diversa da quella di cui l'apparato che lo vuole valutare si dimostra capace? E d'altra parte come escludere tutti questi "fattori intrattabili", residui per alcuni di una tradizione umanistica ormai esaurita, da una valutazione che, per essere rigorosa, deve resistere alla tentazione di ridursi a quel gioco di prestigio che, tra lo stupore solo degli ingenui, finisce per estrarre dal cilindro sempre e solo quel coniglio ch'essa stessa vi aveva prima introdotto? In questo senso bisogna senz'altro arrestare 1' `esportazione di cervelli", ma a tal fine è necessario soprattutto non attendersi dai ricercatori le stesse prestazioni e gli stessi risultati che, non per caso, hanno fatto la fortuna dei calciatori e delle veline. ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 2ott. ’11 ERASMUS: TANTI STRANIERI PER STUDIARE MA GLI ALLOGGI SONO TROPPO CARI ERASMUS 2011 BETTINA CAMEDDA CAGLIARI. Cresce il numero di studenti stranieri che decidono di trascorrere un periodo di studio a Cagliari. Se lo scorso anno accademico sono stati 216 i giovani che hanno scelto il capoluogo cagliaritano come meta, quest’anno, solo nel primo semestre, si sono iscritti 212 studenti. A fine anno dovrebbero essere circa 500. Vengono soprattutto dalla Spagna, ma anche da Stati Uniti, Giappone e Turchia. Ieri si sono incontrati per la prima volta, tutti insieme, all’auditorium della facoltà di Lingue e Letterature straniere in occasione della seconda edizione dell’Erasmus Welcome Day 2011. Una giornata di benvenuto organizzata dal Settore Mobilità Studentesca e Fund raising in collaborazione con l’associazione studentesca Esn Cagliari. E sono proprio i volontari dell’associazione Esn che si occupano, a loro spese, della permanenza dei compagni di studio stranieri. Li vanno a prendere in aeroporto, li aiutano a cercare una sistemazione perché alla Casa dello studente sono solo sei i posti letto disponibili per gli stranieri. Ed è qui che i nuovi arrivati si scontrano con le stesse problematiche degli studenti sardi. A partire dagli affitti in nero di stanze o appartamenti. E se si riesce ad ottenere un contratto regolare ecco che si devono fare i conti coi costi elevati imposti dai proprietari. Un problema che altrove hanno risolto, in parte, coi campus universitari. È così che Cagliari universitaria resta un miraggio. ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 ott. ’11 CIPE: FONDI ALL?UNIVERSITA’ E AL POLICLINICO Ecco come saranno spesi i fondi destinati dal Cipe all'Università L'Ateneo si rifà il look Ersu e Comune: 25 milioni per il campus Dei trecento milioni di euro stanziati dal Cipe per le università sarde, 118 saranno destinati a Cagliari. Ecco come saranno spesi nel capoluogo. Da una parte, tra Cittadella e Policlinico di Monserrato, ci saranno il polo scientifico e quello di medicina. Dall'altra, nel cuore di Cagliari, si libereranno numerosi edifici nel centro storico, tra questi il San Giovanni di Dio e il palazzo delle Scienze, pronti per essere utilizzati da studenti e docenti delle altre facoltà. Grazie ai circa 118 milioni di euro stanziati dal Cipe per l'Università di Cagliari si potrà completare un progetto avviato molti anni fa. IL RETTORE «Avremo un polo scientifico nella Cittadella, quello di medicina al Policlinico e in città un campus urbano con ingegneria, le facoltà umanistiche, giuridiche ed economia», evidenzia il rettore Giovanni Melis. Ma la pioggia di soldi permetterà la realizzazione del campus universitario a Cagliari, la costruzione di un nuovo orto botanico attaccato alla Cittadella di Monserrato e il completamento di una foresteria per gli studenti stranieri all'interno del complesso dell'ex clinica Aresu». Il rettore sorride. Difficile nascondere la soddisfazione in questi casi. «Si tratta di finanziamenti che avevamo richiesto da tempo per realizzare i progetti inseriti nel piano triennale». I NUMERI La cifra più alta (40 milioni) del finanziamento per l'Ateneo cagliaritano è destinata alla costruzione del blocco “R” al Policlinico. «Qui», fa sapere il rettore, «andranno gli ultimi reparti del San Giovanni di Dio e alcuni dipartimenti universitari del Santissima Trinità, Binaghi e Marino». L'ospedale civile resterà vuoto: «Per il suo futuro, e per quello di altre strutture ed edifici che si libereranno, servirà un'intesa con il Comune e la Regione». Con 24 milioni si completerà l'accorpamento delle facoltà di Farmacia, Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali e Medicina nella Cittadella universitaria: «Verranno potenziati i laboratori, ma soprattutto si potrà realizzare un centro servizi per la ricerca scientifica di primissima qualità». IL CENTRO Rivoluzione anche per gli edifici nel centro. Tralasciando il capitolo campus universitario («La partita da 25 milioni di euro la giocheranno Comune ed Ersu», ricorda il rettore), il trasferimento di numerosi dipartimenti a Monserrato renderà disponibili edifici come la Clinica Macciotta e pediatrica (trasferimento in atto), il palazzo delle Scienze e quello delle Scienze della terra, e l'immobile di viale Fra Ignazio che ospita Biologia. «Saranno ristrutturati grazie allo stanziamento da otto milioni», commenta il rettore, «e saranno a disposizione dei dipartimenti urbanistici, umanistici, giuridici ed economici». Matteo Vercelli ___________________________________________________________________ Le Scienze 26 Sett.. ’11 LA CLASSE MISTA È MEGLIO Una nuova ricerca evidenzia che, gli studenti divisi per genere, non hanno la possibilità di sviluppare le competenze necessarie per interagire al meglio con l'altro sesso Da alcuni anni in alcuni paesi - in particolar modo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti - si è sviluppato un movimento che contesta la presenza nelle scuole di classi miste, per sostenere la necessità di un ritorno a classi composte di studenti di un unico sesso, sostenendo che in questo modo si otterrebbero risultati migliori. Ora un gruppo di ricercatori della Penn State ha condotto uno studio per appurare se tali presunti vantaggi esistano davvero: "Per giustificare questa sorta di segregazione ci devono essere prove scientifiche che essa sia in grado di produrre risultati migliori" ha detto Lynn S. Liben, che ha diretto lo studio e firma un articolo in merito sulla rivista Science. I ricercatori osservano innanzi tutto che alcuni risultati vantati hanno un vizio sistematico di partenza: la maggior parte delle scuole che applicano questa segregazione sono scuole private, che richiedono esami di ammissione superati con un certo punteggio per l'ammissione, e non si possono quindi fare raffronti immediati con la scuola pubblica. Alcuni sostenitori dell'eliminazione delle classi miste sostengono che le differenze cerebrali tra ragazzi e ragazze richiedono stili di insegnamento diversi. Ma i neuroscienziati hanno trovato poche differenze tra il cervello maschile e femminile, e nessuna di queste è stata collegata a stili di apprendimento differenti. "Il nostro esame degli studi esistenti ci porta a concludere che non vi siano prove scientifiche per gli effetti positivi di una scuola riservata a un solo sesso", ha osservato la Liben. "Questo non vuol dire che i risultati accademici siano definitivamente peggiori, ma non sono neppure migliori. I presunti vantaggi non sono stati dimostrati". Per contro, quando gli studenti sono divisi per genere, non hanno la possibilità di sviluppare le competenze necessarie per interagire al meglio con l'altro sesso lavorando insieme: già nel corso di una ricerca condotta nel 2010 in erano stati studiati gli effetti delle divisioni di genere in classi di scuola materna a guardare, ricorda la Liben, i ricercatori avevano rilevato come nel giro di due sole settimane i bambini mostrassero un deciso aumento di atteggiamenti di genere stereotipati. (gg) ___________________________________________________________ Avvenire 1 Ott. '11 IG-NOBEL: HARVARD PREMIA GLI STUDI PIÙ IMPROBABILI Tra le I O ricerche bizzarre, la data della fine del mondo e la relazione tra le decisioni e il bisogno di fare pipì BOSTON. Mai prendere decisioni quando si ha bisogno di fare pipì. Meglio prendersi una piccola pausa, recarsi alla toilette e poi affrontare la scelta. Non è una semplice considerazione di buon senso. E il risultato di una complessa ricerca di due gruppi di scienziati i cui risultati sono stati pubblicati sulle prestigiose riviste ' Psychological Science" e "Neurology abd Urodynamics". E sono valsi agli studiosi l'assegnazione dell'Ig-Nobel, il premio conferito dall'Università statunitense di Harvard ai lavori scientifici più improbabili. Ogni settembre, dal 1991, nel Sanders Theatre di Boston, una giuria di esperti attribuisce dieci riconoscimenti, proprio come i veri Nobel — uno per ogni ambito del sapere, dalla Medicina alla Letteratura —, agli studi più assurdi. Ieri, oltre alla relazione tra capacità di decidere e voglia di urinare, premiato con l'Ig-Nobel per la Medicina, sono stati insigniti dello stravagante titolo le ricerche sulla passione dei coleotteri per le bottiglie di birra australiane, sulla contagiosità dello sbadiglio nelle tartarughe dai piedi rossi, sullo spray antincendio al wasabi o sul significato dei sospiri. L'Ig- Nobel per la Pace è andato al sindaco di Vilnius per aver dimostrato che il problema delle auto di lusso in sosta vietata si risolve passandoci sopra con un carro armato. Nella sezione Letteratura, invece, è stata premiata la teoria della strutturata". Un nome pomposo dietro cui si nasconde un surreale escamotage: per avere successo ci si deve impegnare in qualcosa di importante per evitare di fare cose ancora più importanti. Lo studio fisico I PREMIATI AD HARVARD(AP) più pazzesco è quello di un'équipe olandese sulle cause dei capogiri nei lanciatori del disco, attraverso un confronto con un altro gruppo di atleti che invece non accusa il problema: i lanciatori di martello. Mentre il canadese John Senders ha ottenuto l'Ig-Nobel per la pubblica sicurezza dopo aver condotto una serie di test — con tanto di video — sulla capacità di guida di un autista a cui veniva lasciata cadere, ripetutamente, l'aletta parasole sugli occhi, accecandolo. Infine, per la Matematica, sono stati premiati i tanti scienziati che si sono dilettati a stabilire la data della fine del mondo, coi risultati più svariati. Con la seguente motivazione: «Per aver insegnato al mondo ad essere prudenti quando si fanno calcoli». ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 2 Ott. '11 PER LA PA UNO SHOCK DIGITALE Uno studio per Nova del Politecnico di Milano quantifica in 43 miliardi i risparmi possibili: solo con l'eProcurement un taglio di 4 miliardi di Antonio Larizza I benefici: acquisti ottimizzati, aumento di produttività, vantaggi per cittadini e imprese Nell'Italia delle manovre economiche in atto, c'è una manovra digitale in potenza capace di liberare risorse per 43 miliardi di euro È questa la cifra che lo Stato potrebbe risparmiare se portasse a termine un convinto programma di digitalizzazione della Pubblica amministrazione centrale e locale. dato, stimato con un approccio prudenziale, emerge da uno studio condotto da un gruppo di ricercatori degli Osservatori del Politecnico di Milano per Nòva. La ricerca è presentata in queste pagine con l'obiettivo di stimolare la riflessione e rilanciare il dibattito economico su questi temi, provando a quantificare un valore troppo spesso considerato intangibile: il valore dell'economia della conoscenza in un paese industrializzato. Per quantificare i benefici che deriverebbero dalla digitalizzazione della Pa i ricercatori hanno individuato tre tipologie di risparmi: quelli ottenibili sugli acquisti della Pa, quelli generati da un aumento della produttività e quelli, indotti, che una pubblica amministrazione pfir snella ed efficiente garantirebbe alle imprese. Il risultato: 43 miliardi di euro risparmiati ogni anno. Una cifra pari a dieci volte i tagli agli enti locali varati dal Governo per il 2012 (42 miliardi). E superiore anche alle risorse che in queste ore si stima di recuperare, per esempio, dalla cessione di immobili pubblici (25-30 miliardi). Senza contare che in questo caso non si tratta di entrate una tantum, ma di risparmi strutturali sulla spesa corrente. Ecco perché è doveroso seguire il ragionamento condotto dai ricercatori del Politecnico. Iniziamo dall'analisi dei benefici interni. Ogni anno la pubblica amministrazione spende75o miliardi. Una somma pari quasi alla metà del Pii. La spesa per acquisti di beni e servizi è pari a circa 120 miliardi. Ipotizzando che il 30% di questa somma sia gestita con tecniche di eProcurement (acquisizione di beni e servizi offline) e ipotizzando un risparmio medio sugli acquisti generato da queste tecniche pari alza, ecco quantificati i primi4 miliardi di risparmio. ((Si tratta di una stima prudente spiega Alessandro Perego, responsabile scientifico Osservatori ICT&Management del Politecnico di Milano dedotta da una serie di esperienze, sia pubbliche che private, che abbiamo analizzato». Esperienze che parlano chiaro. All'Enel, per esempio, la quota di acquisti di beni e servizi gestiti con tecniche di eProcurement (esclusi i combustibili) supera il 70% del totale. La Pa dell'Errfflia Romagna gestisce con tecniche di eProc-urement il io% degli acquisti, con l'obiettivo di raggiungere il 30%, così come avviene per la Pa del Regno Unito. Lo stesso dicono i dati disponibili sui risparmi medi ottenibili. nelle imprese private sono pari al 17%; nel pubblico vanno dal 12% (Comune di Livorno) al 15% (Pa del Regno Unito). Già oggi, il risparmio medio ottenibile sul portale per gli acquisti in Rete della Pa con il sistema Rdo-Mepa (richiesta d'ordine sul mercato elettronico della Pa) oscilla tra il io e il 50%, a seconda della categoria merceologica. «È quindi ragionevole e probabilmente fin troppo prudente continua Perego ipotizzare, anche per lo Stato e gli enti locali, che a regime l'eProcurement possa gestire il 3o% degli acquisti, con un risparmio medio del 10%». Il secondo livello di risparmi prende in considerazione i benefici legati all'aumento di produttività dei processi della Pa, tramite azioni mirate (digitalizzazione dei pagamenti, dematerializzazione, uso di posta elettronica certificata, sanità digitale, pagamenti multicanale, fascicoli penali elettronici, cloud computing, ecc).«In questo caso spiega Perego dal momento che l'85-90% dei costi di processo della Pa sono relativi al personale, la stima dei benefici da digitalizzazione può essere ristretta ai vantaggi in termini di produttività del personale». Il punto di partenza del ragionamento è anche in questo caso rappresentato da esperienze in aziende private miste (pubblico-privato), dove, mediamente, i progetti di digitalizzazione hanno aumentato la produttività del 20 per cento. Per la Pa i ricercatori hanno stimato un risparmio medio del 10% sulla spesa totale. «Questo è un valore mediato tra lo o% di risparmio per le componenti della Pa "poco" aggredibili (scuola, esercito, ecc.) e il 20% di risparmi che invece si potrebbero ottenere sulla quota di dipendenti di ministeri, regioni ed enti locali». Data la spesa totale (i5o miliardi), questa voce potrebbe quindi liberare '5 miliardi di risorse. E renderebbe praticabile il blocco del turnover nella Pa: blocco che in assenza di un miglioramento dell'efficienza dei processi capace di aumentare la produttività a parità di forza lavoro sarebbe difficile da motivare, se non in nome di un'ormai cronica carenza di risorse. Il terzo capitolo riguarda i benefici esterni: ovvero i risparmi indotti per il sistema delle imprese e per i cittadini. I ricercatori hanno preso in considerazione due tipi di costi di interazione tra Pa e imprese: i disti della burocrazia e gli oneri derivati dal ritardo dei pagamenti da parte della Pa. Secondo una stima del Censis, il costo della burocrazia per le imprese italiane è pari a 70 miliardi di euro. Lo studio ipotizza che un terzo di questi costi siano fisiologici, ma che i due terzi rimanenti si possano eliminare con due azioni: la semplificazione normativa e la digitalizzazione dei processi, che da sola potrebbe eliminare un terzo dei costi. Ovvero 23 miliardi di euro, che le imprese potrebbero risparmiare, ogni anno. L'altra voce considerata riguarda i ritardi di pagamento, che si traducono in costo del denaro. Oggi la Pa ha un debito verso le imprese pari a 70 miliardi di euro.11tempo medio di pagamento è di 130 giorni (contro i 3o giorni sanciti da una direttiva europea che presto dovremo recepire). Ipotizzando un costo del denaro dell'8%, nei 100 giorni medi di ritardo le imprese pagano, in termini di interessi, 1,5 miliardi di euro all'anno. Lo studio stima che processi di acquisto e gestione d'ordine digitalizzati potrebbero ridurre i ritardi di almeno il 50%, ovvero la quota imputabile a errori inefficienze nel ciclo di ordine, fatturazione e pagamento. Per le imprese, vorrebbe dire ridurre gli oneri da interessi per 750 milioni di euro all'anno. Per condudere l'analisi sarebbe necessario stimare i risparmi indotti dalla digitali7zazione della Paperi cittadini. Il calcolo dovrebbe considerare infinite variabili, sia quantitative che qualitative. Su questo lo studio si limita ad affermare che «i benefici per i cittadini sarebbero così tanti da essere difficili da quantificare», fornendo, indirettamente, un ordine di grandezza anche per questa voce. A ragione considerata la più promettente. antonio.larizza@ilso1e24ore.com MENO COSTI E PIÙ EFFICIENZA COMUNE DI PRATO LA MULTA E IL TICKET SANITARIO SI PAGANO AL SUPERMERCATO 4A,Il progetto T-Serve fa risparmiare al Comune di Prato (3.8omila abitanti) 59omila euro circa l'anno: è un sistema eGovernment di pagamenti multicanale. Il Comune, con T-Serve, ha attivato infatti 31 servizi di pagamento erogati online e attraverso diversi sportelli gestiti da intermediari, molto capillari sul territorio (170 tabaccherie, 187 sportelli bancari, 15 supermercati, 18 totem jolly self service, 6 agenzie Aci). Il cittadino può fruire così dei principali servizi comunali: pagare multe, ticket sanitari, mensa scolastica, ricevere le foto riprese dall'autovelox, accedere a zone soggette a traffico limitato, iscriversi alla scuola di musica, ai servizi della biblioteca, oltre che trattare Dia, istanze edilizie, tassa sui rifiuti, Ici, certificati anagrafici. Il sistema, costato 97mila euro, integra via web due cose: i sistemi distribuiti presso gli sportelli e quelli gestionali di back-office del Comune. Così può verificare e saldare le posizioni debitorie dei singoli utenti in tempo reale e senza l'intervento del personale comunale. T- Serve è stato poi adottato da vari enti pubblici della Toscana, su proposta del Comune di Prato: tra gli altri, i Comuni di Livorno, Pisa, Vecchiano, Pontedera, le Asl di Prato e Pistoia, l'azienda municipalizzata Asm Spa. Ora T-Serve gestisce quindi un sistema di commissioni sulle transazioni provenienti sia dagli enti utilizzatori sia dagli intermediari. In tal modo il sistema complessivo è in grado di autosostenersi economicamente. Limita il costo finale di commissione all'utente a un valore pari o inferiore a quanto applicato dalle Poste per il pagamento dei bollettini tradizionali. Tra gli sviluppi futuri il Comune sta valutando se estendere il sistema à pagamenti via cellulare. DAGLI ATTI DIGITALIZZATI A FINE 2011 RISPARMI PER 50 MILIONI DI EURO Il Comune di Roma ha avviato il progetto di dematerializzazione della carta, risparmiando circa 10 milioni di euro nel 2010, che diventeranno 50 a fine 2011, a processo ultimato. Il Comune sta quindi rendendo digitali gli atti pubblici in tutti i settori operativi dell'amministrazione. A oggi ha dematerializzano 120mila atti, che coinvolgono 82 aree organizzative. Il risparmio viene da due fronti. Ci sono 5,5 milioni di fogli di carta in meno all'anno ed è stato possibile ridurre i tempi di lavoro. Si tratta di 26omila giornate di lavoro in meno l'anno per la movimentazione di pratiche complesse e 3omila per l'impiego di personale addetto a distribuire quelle cartacee. Il lavoro è quindi anche reso più efficiente: i documenti sono immediatamente disponibili, in forma digitale, agli uffici competenti. Il tutto avviene attraverso una piattaforma condivisa da circa 7mila operatori coinvolti nelle fasi di protocollazione, invio, accettazione e riassegnazione delle pratiche, su 15mila postazioni di lavoro collegate in banda larghissima. È una piattaforma applicativa di protocollo informatico e gestione documentale unica per tutti gli uffici, posta presso il Centro di elaborazione dati del Comune. Funziona così: il sistema dematerilizza, attraverso la scansione, i documenti che transitano in entrata e uscita attraverso gli uffici. I documenti scansionati, previa notifica via e-mail, sono inoltrati agli uffici interessati. È un vantaggio anche per l'ambiente, nota il Comune: non solo perché i dipendenti consumano meno carta, ma anche perché non devono più usare l'auto per trasportare i documenti. ANALISI: I DATI DI ACCETTAZIONE E LE ANALISI FINISCONO NEL CLOUD PRIVATO L'azienda ospedaliera di Lecco (3mila dipendenti, 1100 posti letto, 240 milioni di euro fatturati nel 2010) utilizza un sistema di cloudoud privato, con piattaforma dell'azienda NetApp. Serve a ridurre i costi di gestione di molte applicazioni interne e a renderle più efficienti. Adesso i server dell'ospedale memorizzano in modo centralizzato i dati e forniscono servizi ai computer usati dal personale. Prima l'Ospedale aveva un server dedicato per ogni applicativo, il che faceva lievitare i costi di gestione, assistenza e manutenzione. Il primo passo è stato virtualizzare i server con VmWare, per ottimizzare le risorse. Dopo, dal 2010, l'Ospedale ha cominciato a portare i servizi su una piattaforma centralizzata, con la soluzione di NetApp. Completerà il progetto nel 2012, ma già adesso ha centralizzato i servizi di pronto soccorso, di accettazione e di analisi di laboratorio. Questi non sono più su macchine singole, ma su un sistema virtuale distribuito tra diverse risorse hardware. Risultato: l'Ospedale ha ridotto a un terzo i costi di gestione e così conta di rientrare in 2-3 anni dell'investimento per la piattaforma, costata 13omila euro. Un altro vantaggio è la maggiore sicurezza e affidabilità dei servizi. Il guasto di un server non li interrompe, visto che questi sono distribuiti su diverse risorse. Il sistema protegge anche dal guasto di un intero datacenter: riesce a riattivare i servizi, su un diverso datacenter, in 15 minuti. Al momento l'Ospedale ha preferito utilizzare un modello di cloud privato tenendo internamente i server, perché ritiene i propri dati troppo sensibili per affidarli a un fornitore esterno. ___________________________________________________________ L’Unità 3 Ott. '11 ORA VA DI MODA IL "SOCIAL LEARNIG" L'approccio all'apprendimento in maniera cooperativa sta soppiantando quello tradizionale dell'e-learning CARLO INFANTE ESPERTO PERFORMING MEDIA Sappiamo bene che i neologismi galoppano, bradi, nelle praterie delle terre di nessuno. Non è facile rincorrerli, sono veloci e scartano all'improvviso. Ma sono efficaci e con Salva con Nome li monitoriamo perché le parole nuove sottendono nuove cose. In questo senso nei termini che intercettiamo ci sono tutte le contraddizioni di un mondo, quello dell' innovazione digitale, in cui si intrecciamo sistemi interpretativi diversi, da quelli informatici a quelli socio-culturali. Ecco, appunto, social learning concetto che sta soppiantando quello di e-learning che per tanti anni aveva definito le pratiche telematiche applicate al contesto formativo per intendere la formazione a distanza. Quelle piattaforme on line erano spesso costosissime, congegnate con protocolli informatici complessi. Con la diffusione dei social network e delle soluzioni open source sta prendendo piede la cosiddetta pratica del mash up che in sostanza significa "mischiare" tra loro diverse applicazioni, utilizzando quelle che sono a disposizione gratuita nel web. Ecco così emergere il fenomeno del social learning che comporta un cross over tra le pratiche del social networking (ben aldilà di face- book) e quelle dell’e-learning. Tra gli esempi più emblematici di questa combinazione si sono piattaforme web open source come Kairos o la più diffusa Moodle che contempla un approccio costruzionista e sociale all'educazione, caratterizzato dalla partecipazione attiva delle comunità d'apprendimento piuttosto che dai moduli d'istruzione. Su questo stesso principio si muove anche la piattaforma ThinkTag Smart utilizzata all'Università di Milano-Bicocca (nel corso di Turismatica) e alle scuole civiche di Fondazione Milano. Germano Paini, un pioniere del social networking cognitivo, definisce questo progetto "Social Education Environment: riprogettare la formazione". Lo esplicita bene in questi termini: "Il progetto è orientato a superare le logiche erogative che dominano la formazione realizzando processi formativi basati sulla diretta partecipazione degli studenti alla creazione, gestione, organizzazione dei contenuti in un'ottica social attraverso l'uso evoluto degli strumenti digitali, delle reti sociali e delle opportunità del cosiddetto web 2.0". Si tratta quindi di un progetto che adotta una metodologia che può essere trasferita in altri contesti formativi sia a livello scolastico sia a livello della formazione dell'adulto, dell'aggiornamento professionale e del long life learning, secondo le logiche dello sviluppo professionale continuo. L'innovazione risiede in questi processi di cooperazione educativa che purtroppo la crisi strutturale del sistema Università riesce a cogliere in minima parte, quasi esclusivamente affidata a docenti a contratto (a quei pochi sopravvissuti ai tagli imposti dalla normalizzazione dei piani di studio) che nonostante operino ai margini delle strutture istituzionali creano le condizioni virtuose per attuare processi formativi al passo coi tempi. Tornando alla definizione di social learning va detto che questo termine viene utilizzato anche in altri contesti, come quello promosso da Garamond che sta creando un grande Repertorio Italiano di Contenuti Educativi e Didattici costituito da contenuti aperti, non soggetti a copyright (con licenze Creative Commons), gratuitamente riproducibili e condivisibili fra tutti di studenti e i docenti... ___________________________________________________________ Italia Oggi 4 Ott. '11 PARERE ARAN E-LEARNING, LA P.A. NON DÀ PERMESSI DI ANTONIO G. PALADINO Non spettano le 150 ore di permesso retribuito per studio ai lavoratori pubblici che frequentano corsi organizzati dalle università telematiche. Infatti, in questi casi, posto che il lavoratore non è tenuto a rispettare un orario di frequenza del corso in orari prestabiliti, si può ritenere che ciò possa avvenire anche al di fuori dell'orario di lavoro, con il conseguente venire meno di ogni necessità di fruizione dei citati permessi. È quanto precisa l'Aran nel testo del parere n. 166 del 25 settembre scorso, rispondendo a un quesito relativo alla corretta fruizione dei permessi retribuiti per diritto allo studio ex art. 13 Ceni 16/5/2001 (meglio noti come 150 ore). L'Agenzia, infatti, precisa che i permessi in oggetto possono essere fruiti solo per lezioni e corsi di stadio il cui svolgimento sia previsto in concomitanza con l'orario di lavoro. In tale ambito, pertanto, l'atte-stato di partecipazione o di frequenza assume un rilievo prioritario, in quanto certifica sia la circostanza dell'effettiva presenza alle lezioni sia quella che le medesime lezioni si svolgono all'interno dell'orario di lavoro (ciò che giustifica la fruizione dei permessi). In presenza di un lavoratore che deve seguire dei corsi organizzati da università telematiche, proprio la circostanza che lo stesso non è tenuto a rispettare un orario di frequenza del corso in orari prestabiliti, induce l'Aran a ritenere che ciò possa avvenire anche al di fuori dell'orario di lavoro, con il conseguente venir meno della fruizione dei citati permessi. Infatti, non essendo obbligato a partecipare necessariamente alle lezioni in orari rigidi, come avviene nelle università ordinarie, il lavoratore potrebbe sempre scegliere orari di collegamento compatibili con l'orario di lavoro nell'ente. Tuttavia, apre uno spiraglio l'Agenzia, i permessi potrebbero essere concessi solo nel caso in cui il dipendente fosse in grado di presentare, in particolare, un certificato dell'Università che attesti «che lo stesso ha seguito personalmente, effettivamente e direttamente le lezioni trasmesse in via telematica e che le giornate e gli orari coincidono con le ordinarie prestazioni lavorative». ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 1 ott. ’11 LA (CO)SCIENZA COLLETTIVA DELLA RETE NUOVE FRONTIERE IL WEB APRE LE PORTE DELLA RICERCA ALLA «DEMOCRAZIA DELLA VERITÀ». MA BISOGNA CONTROLLARE I PERICOLI Un gioco per scoprire con gli internauti la struttura delle molecole La buona scienza democratica deve anche ricordare che Hitler fu votato dal parlamento tedesco. Ecco perché serve la filosofia per sorvegliare inganni e autoinganni della conoscenza umana «Foldit» è un nuovo gioco online creato da un gruppo di ricercatori dell' Università di Washington: scopo del gioco è far sì che gli utenti di Internet collaborino tra loro per individuare la struttura delle molecole. Le proposte dei giocatori servirebbero poi ai biochimici per perfezionare le loro teorie. Sembra che il procedimento abbia già dato buoni frutti, in particolare per definire la forma di una delle proteine retrovirali alla base dell' Aids. È appena un accenno, ma già lascia capire che qualcosa sta cambiando nei meccanismi di acquisizione e uso della verità, non soltanto nella comunicazione pubblica (dopo il «terremoto Wikileaks» la notizia sembra sia ufficiale: la nostra cultura ha un nuovo rapporto con il concetto di verità), ma anche nell' apparato lento e complesso della ricerca scientifica. Senza dover sposare il cosiddetto «programma forte di sociologia della conoscenza», si può ammettere che nella ricerca scientifica la verità ha una natura tipicamente cooperativa. Il sunphilosophein socratico, il cercare insieme, ha trovato nelle istituzioni scientifiche moderne una piena realizzazione, persino al di là delle premesse. Non soltanto si cerca insieme, ma il cercare insieme è condizione per l' accettabilità dei risultati ottenuti. Questo aspetto, reso necessario dall' estrema complessità delle ricerche attuali, è ufficializzato negli standard di professionalità, per cui hanno credito e voce solo le scoperte pubblicate su organi ufficialmente garantiti. Criteri che si stanno adottando in Italia, anche per le discipline umanistiche, e che come noto hanno suscitato e suscitano molte discussioni. Ma ci chiediamo: ciò vuol dire che il pay-off verità, che in definitiva è il vero premio della scienza, deve essere subordinato al pay-off accettabilità collettiva? Davvero la democratizzazione della scienza - un processo coerente con la più vasta democratizzazione della ragione promessa dal Web - richiede il primato dell' accordo sulla verità? In quale misura questo non espone anche la scienza al difetto fondamentale della politica democratica, ossia l' eventualità che, attraverso traffici e manipolazioni, vengano votati a maggioranza provvedimenti ingiusti e lesivi del bene pubblico? Anche la buona scienza democratica, in effetti, deve ricordare che Hitler fu votato dal parlamento tedesco. Tenere conto di questo non significa fare un passo indietro rispetto alle conquiste faticosamente ottenute. Non significa neppure buttare a mare l' affidabilità dei risultati scientifici (come oggi spesso si tende a fare), per cui anche sullo scienziato grava il sospetto che grava su ogni politico: il credito che ha è il frutto di contrattazione, o di autentico valore? Significa piuttosto, io credo, riportare la filosofia nella scienza. Proprio la filosofia infatti, non come scienza istituzionale (che ha i problemi di tutte le altre scienze), ma come ipotesi antropologica e tecnica di valutazione delle conoscenze, era la medicina escogitata dai greci per far sì che il cercare insieme non perdesse di vista gli obiettivi: la giustizia per la politica, la verità per la scienza, e il vero giusto e il giusto vero per entrambe (visto che i concetti socratici non si possono separare gli uni dagli altri). Per filosofia intendiamo quell' intelligenza scettica e critica, consapevole degli inganni e autoinganni della conoscenza umana, che è perfettamente insegnabile (fu lanciata appunto dalla paideia greca), ed è tuttora, anche se dimenticata, sullo sfondo di ogni vera acquisizione. Ritornando al «Foldit», la notizia credo sia importante perché ci parla di un allargamento della cooperazione. Partecipa all' impresa non soltanto la rete dei ricercatori, oligarchia designata dall' alto, ma anche ciò che Alain Badiou ha chiamato il chiunque: il frequentatore del Web, senza identità definita, e senza arte acquisita che non sia il libero gioco delle proprie facoltà. Ma proprio qui risiede la medicina filosofica. I concetti di verità e giustizia in effetti non appartengono alle istituzioni, siano esse la Scienza o la Religione, ma al lavoro del pensiero, che è a disposizione di tutti. È questa dunque la «democrazia della verità» che i giovani Schelling, Hegel, Hölderlin avevano prefigurato, immaginando un tempo in cui il sapere non avrebbe più legato le sue vicende al Potere, ma sarebbe stato libero di circolare nei pensieri e nelle vite di chiunque. L' autrice Franca D' Agostini, torinese, insegna Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino ed Epistemologia all' Università degli Studi di Milano. Il suo ultimo libro, uscito per Bollati Boringhieri, si intitola «Introduzione alla verità». Sarà protagonista dell' incontro su conoscenza e verità nella scienza in programma al Cineteatro Gavazzeni di Seriate giovedì 13 ottobre, alle 20.30. **** Premi Nobel, filosofi e altri Cinque volti della rassegna R. Timothy Hunt Sempre al Teatro Sociale, l' 8 ottobre alle 21, il Nobel per la Medicina 2001 parlerà di ulcera Barry James Marshall Nobel per la Medicina 2005, sarà al Teatro Sociale di Bergamo il 1° ottobre (21) Fritjof Capra Il 7 ottobre al Sociale il fisico austriaco parla dei legami tra scienza e giurispru- denza A. Prasanna De Silva Al Teatro Donizetti, il 15 ottobre, il chimico parla di molecole intelligenti Zaverio Ruggeri Al Sociale, l' 8 ottobre alle 9.30, il medico parla di farmaci salvavita killer D' AGOSTINI FRANCA ___________________________________________________________ Repubblica 6 Ott. '11 IPAD: SE LA NOSTRA COSCIENZA DIVENTA UN SOFTWARE VALERIO MAGRELLI Questo di Maurizio Ferraris è un libro inevitabile, come il tracciato di certe rotte di collisione sulla carta nautica. Anima e iPad. E se l'automa fosse lo specchio dell'anima? (Guanda, pagg. 185, euro 16,50) rappresenta infatti la logica conclusione di un percorso ormai ventennale. Dopo aver esaminato, sulla scia di Derrida, il fenomeno dell'interpretazione (Storia dell'ermeneutica, 1988), della tecnologia (Dove sei? Ontologia del telefonino, 2005) e dell'iscrizione (Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, 2009), era giocoforza che le ricerche dello studioso convergessero verso l'iPad, l'oggetto che oggi meglio raffigura il connubio fra fisico e mentale. Tutto comincia dalla constatazione che l'evoluzione tecnologica non ha portato al trionfo dell'oralità e alla scomparsa della scrittura, ma, al contrario, a una proliferazione di quest'ultima. Provane sia che i telefonini, dopo essersi rimpiccioliti, si sono ingranditi di nuovo fino all'iPad, per avere uno schermo e una tastiera (dunque per poter scrivere, non per poter parlare); sono cioè diventati biblioteche, discoteche, cineteche e pinacoteche. Né è un caso che il traffico di sms abbia superato quello vocale. Dunque, nel suo profondo, la società della comunicazione pare piuttosto una società della registrazione, in cui tutto deve lasciare una traccia ed essere archiviato, col malizioso corollario per cui «la pentecoste è un fenomeno postale: non è la calata dello spirito, è la propagazione della lettera». Eppure, se senza la tabula (vale a dire quel sistema d'iscrizioni e trascrizioni che forma la cultura) non c'è spirito, pensiero o mente, allora il passo successivo vedrà un progressivo avvicinamento fra anima e automa (il solito iPad). Con un affondo improvviso, Ferraris ci ricorda che non c'è niente di più umano della tecnica (e niente di meno umano di un uomo privo di tecnica), mentre al contempo ci svela una triste sorpresa: chi si aspettava da lei una qualche forma di emancipazione, dovrà ricredersi, constatando, al contrario, come essa si sia trasformata in un nuovo veicolo di sfruttamento. Essere sempre connessi, infatti, implica essere sempre disponibili al lavoro, «come pompieri in caserma». Ma c'è di peggio, in quanto nel nostro mondo vige ormai una registrazione totale. Basti pensare alla nozione di tracciabilità, che garantisce sia la provenienza di un prodotto, sia il controllo de gli utenti telefonici e telematici (con buona pace dei criminali intercettati). Morale: non è affatto ovvio che Internet renda stupidi. Quel che è certo è che può rendere schiavi, secondo le abbaglianti premonizioni di Schmitt, Jiinger e Foucault. D'altronde, se l'addetto al call center può essere trasformato in macchina, è perché ogni uomo nasconde una essenza di macchina. Definendo la coscienza un "effetto collaterale", Ferraris cancella via via le differenze fra anima e automa, come nella depressione (che rende sensibili alla ripetizione facendo emergere l'automa che noi siamo) o nella vita quotidiana (che nella maggior parte del tempo trascorriamo a non pensare). Così giungiamo al punto, ovvero al dubbio che noi stessi possiamo essere automi: «Siamo automi spirituali ma liberi, cioè talmente complicati da non sapere di esserlo»... Esposto in maniera limpida, serrata e brillante, il testo consta di due parti, ovviamente legate a doppio filo: da un lato l'ampia trattazione vera e propria, dall'altro una circoscritta ma puntuale confutazione delle tesi sostenute dal grande filosofo americano John Searle. Mettiamo tra parentesi la seconda sezione, più complessa e specifica, per osservare come Ferraris miri a superare il dualismo cartesiano fra anima e corpo, spirito e materia, o meglio, per usare un'altra contrapposizione, fra lettera e spirito. Lo scopo? Riabilitare la prima (poiché, come ci spiega con un gioco di parole, «la lettera gode di una cattiva stampa»), e riconoscere il ruolo della materia nella costituzione dello spirito. Ciò significa appunto mostrare l'analogia fra anima e iPad, ossia «dimostrare che la nostra mente è un apparato scrittorio». La lettera, pertanto, non va intesa alla stregua di un accessorio inerte, ma come «la condizione di possibilità dello spirito». Altrimenti detto, materia e forma sono inseparabili, malgrado chi si ostina a immaginare un omino (l'Homunculus) nascosto nel cervello per guidare i nostri atti corporei. Anche nel chiuso della nostra anima, prosegue l'autore, c'è qualcosa come un documento, una iscrizione, una tabula su cui si forma ciò che chiamiamo idee, intenzioni, coscienza. Da qui una serie di note sull'essenza della tecnica, individuata nella registrazione, ossia nella memoria, la quale non è solo la madre delle Muse (come dicevano i greci), ma del pensiero in generale. Senza registrazione non c'è tecnica, né tantomeno quella "tecnica delle tecniche" che è la scrittura. La memoria, perciò, non è qualcosa che si aggiunge a una psiche già formata, bensì «costituisce la stoffa di cui è fatta la nostra ani- ma». Peccato non poter raccontare le ultime pagine, dove si di- spiega un'autentica fantasmagoria, fra tombe e bare a forma di telefonino, spettri telematici, mummie e resurrezioni. Questo corredo funebre non è una bizzarria, ma funge da reperto per comprovare come «la struttura testamentaria sembri costituire l'essenza del web». Il tono spesso ironico non nasconde la gravità di tali implicazioni, come quando Ferraris parafrasa il Vangelo. Protendendo un iPad, per esempio, potremmo dire: «Prendete, questo è il mio cor- pus» (ovvero l'insieme di tutte le iscrizioni). Se questo è vero, tan- to vale arrendersi, e infine riconoscere, negli ultimi modelli della Apple, le nostre nuove Tablet della Legge. ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 9 ott. ’11 L'UNIVERSITÀ DI OXFORD TRASFORMATA IN SPAM Nobili disavventure dei sistemi di sicurezza Una settimana da spam. Quale sarebbe la nostra reazione se, improvvisamente e per più giorni, le nostre email ci tornassero indietro, rifiutate dal sistema come spazzatura virtuale? Panico. Tanto più se, a trasformarsi in spam, non fosse un singolo ma un gruppo (numeroso) di persone. E anche «blasonate»: gli studenti e i docenti dell'Università di Oxford, in Inghilterra. È successo davvero, la settimana scorsa. Improvvisamente, nel weekend, le email spedite dai server dell'ateneo verso indirizzi Microsoft (Hotmail, Live e Msn) hanno cominciato a tornare al mittente, contrassegnate come spam. Microsoft che mette al bando Oxford? Oltre al sospetto di lesa maestà, la vicenda era anche senza spiegazioni. Oxford si è lamentata, Microsoft ha preso tempo e, alla fine, si è arrivati a una conclusione (e al ripristino dello status quo). A sorpresa la colpa non era di Microsoft ma di Oxford. Un'indagine interna, infatti, ha scovato l'origine del «baco», dovuta a quanto pare all'errore di un dipartimento dell'ateneo che ha configurato male una mailing list, facendo sì che generasse una enorme quantità di email: più di un milione, molte delle quali dirette verso indirizzi Hotmail, Live ed Msn. L'onda anomala ha fatto scattare le procedure automatiche di sicurezza di Microsoft e le email oxoniane sono finite nella lista nera. Morale, nessuno è al riparo da guasti tecnici ed errori umani. E se l'onore violato di Oxford fa notizia chi si curerà di noi, utenti meno blasonati ma lo stesso minacciati da server inaffidabili e connessioni ondivaghe? ========================================================= ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 4 ott. ’11 MEDICINA: NOBEL AL TEAM DEGLI IMMUNOLOGI MA UNO È MORTO DA TRE GIORNI MEDICINA L' IMBARAZZO DI STOCCOLMA: «NON LO SAPEVAMO, IL PREMIO RESTERÀ A LUI» Sopravvissuto al cancro per 4 anni grazie alle sue ricerche La figlia Il regolamento vieterebbe i riconoscimenti postumi La figlia: «Papà oggi ne sarebbe onorato» MILANO - Certo che i cinquanta professori dell' Assemblea dei Nobel di Stoccolma non avrebbero mai immaginato di trovarsi in una situazione così imbarazzante. Quello che non era mai successo, in cent' anni di storia del più prestigioso premio al mondo, è accaduto ieri. Poche ore dopo la nomina dei tre vincitori per la medicina e la fisiologia, alle 11.30 di mattina in diretta via web, si viene a sapere che uno di questi, il canadese Ralph Steinman, 68 anni, scienziato «esploratore» del sistema immunitario, è deceduto tre giorni fa, il 30 settembre. E il Nobel, per regolamento, non può essere assegnato post-mortem, a meno che il vincitore non scompaia dopo l' annuncio, ma prima della cerimonia di consegna, il 10 dicembre (è successo nel 1996, quando il Nobel per l' economia William Vickrey, anche lui canadese, mancò pochi giorni dopo la proclamazione ufficiale). Non lo sapevamo, si scusano adesso gli accademici attraverso il segretario generale Goran Hansson: «La notizia - dice Hansson - è stata comunicata dal presidente della Rockefeller University di New York, dove Steinman era professore di immunologia, alle ore 2.30 del pomeriggio. Nemmeno loro ne erano a conoscenza, fino a oggi. Quello che adesso possiamo esprimere è un profondo dispiacere per il fatto che lo scienziato non possa gioire del premio». Tutto in buona fede, dunque, ma, nell' era di Internet, forse un controllo in più si poteva fare, per evitare che un riconoscimento così prestigioso si tingesse di giallo. I membri della giuria del Karolinska Intitutet di Stoccolma intendono ora mantenere la decisione presa, ma si riservano di studiare il regolamento e decidere come suddividere la quota del premio, in totale 10 milioni di corone svedesi, pari a oltre un milione di euro. Una metà della cifra doveva andare a Steinman, la seconda agli altri due vincitori, l' americano Bruce Beutler, 54 anni, e Jules Hoffmann, nato settant' anni fa in Lussemburgo, ma cittadino francese. Tutti e tre hanno ottenuto il riconoscimento dell' Accademia svedese per aver svelato i segreti del sistema immunitario, quel sistema che protegge l' organismo dall' aggressione di virus e batteri, parassiti e funghi, ma che, in certi casi, può commettere errori e aggredire i tessuti sani del corpo, dando origine alle cosiddette malattie autoimmuni, come l' artrite reumatoide. Beutler, attualmente allo Scripps Research Institute di La Jolla, California, e Jules Hoffman, che ha lavorato prima in Germania poi all' Università di Strasburgo, hanno scoperto l' immunità innata: hanno individuato, cioè, una famiglia di recettori delle cellule che funzionano da «sensori», capaci di intercettare la presenza di microrganismi pericolosi e di attivare le difese immunitarie di prima linea. Sono scoperte che hanno aperto la strada alla costruzione di farmaci e vaccini contro molte malattie infettive. Steinman, che era nato a Montreal e si era laureato prima in biologia e chimica alla Mc Gill University e poi in medicina alla Harvard Medical School di Boston, si era, invece, occupato di memoria immunologica e di cellule dendritiche, una sorta di «guardie del corpo» che ricordano i «nemici» dell' organismo e danno vita a sistemi di difesa molto sofisticati. Le cellule dendritiche possono essere sfruttate anche per la costruzione di vaccini contro il cancro, un altro grande avversario dell' organismo umano. E Steinman, ammalato di un tumore al pancreas, aveva provato una immunoterapia, basata proprio sulle sue scoperte, che gli ha consentito di sopravvivere quattro anni, dopo la diagnosi della malattia. «Siamo commossi per questo premio Nobel che riconosce i tanti anni di duro lavoro spesi da mio padre - ha detto la figlia dello scienziato, Alexis Steinman -. Ne sarebbe davvero onorato». Adriana Bazzi abazzi@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA **** Gli studi Lo scienziato Il canadese Ralph Steinman, 68 anni, scienziato «esploratore», biologo alla Rockefeller University di New York, ha scoperto i segreti delle cellule-sentinella delle difese immunitarie: Nobel per la medicina, è deceduto il 30 settembre La scoperta Insieme ai biologi Bruce Beutler e Jules Hoffmann ha ottenuto il riconoscimento per aver svelato i segreti del sistema immunitario, che, in certi casi, può commettere errori e aggredire i tessuti sani, dando origine alle cosiddette malattie autoimmuni Bazzi Adriana ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda29 Sett. ’11 TEST MEDICINA: IL MIGLIORE È IL MICHELANGELO I dati delle prove d'accesso alla facoltà di Medicina premiano il liceo scientifico Ma le due studentesse più brave sono ogliastrine, poi il Dettori Giovedì 29 settembre 2011 Percentuale da record del tecnico Nautico: due “macchinisti” su quattro conquistano l'accesso alla facoltà. La percentuale più alta tra tutti i partecipanti. Èil liceo scientifico Michelangelo l'istituto con il miglior risultato nei test di ammissione alla facoltà di Medicina e Chirurgia. Lo evidenziano i dati disaggregati per istituto, pubblicati ieri dal ministero della Pubblica istruzione. Il liceo cagliaritano è risultato primo sia in valore assoluto (19 idonei) sia come indicatore di rendimento (19%) anche se 14 idonei su 19 tentavano il quiz per la seconda volta ed erano, per così dire, “ripetenti”. Nel 2010 il miglior istituto era stato il Dettori, il cui risultato generale - 24,05% di rendimento - era stato superiore a quello del Michelangelo. LICEI DOMINATORI I test di quest'anno confermano la supremazia dei licei tra le scuole di provenienza degli aspiranti medici: l'81,75% dei partecipanti proviene infatti dai licei Classici e Scientifici. Significativo anche il fatto che abbiano ottenuto il 94,92% dei posti. I licei classici hanno avuto un rendimento migliore (14,02%) rispetto a quelli scientifici (11,28%), ma questi ultimi si aggiudicano il 61% dei posti grazie alla numerosità dei partecipanti. LA MIGLIORE È DI ELINI Ma se i licei cagliaritani iscrivono più studenti nella facoltà, è l'Ogliastra a confermarsi provincia vincente: le migliori due studentesse, quelle che hanno ottenuto il punteggio maggiore, sono rispettivamente di Elini e di Lanusei. A uno studente del Dettori va la medaglia di bronzo. Il concorrente più vecchio ha 65 anni (c'è chi sostiene - ma non ci sono prove - che i più anziani non siano altro che “suggeritori” iscritti ai test per aiutare i più giovani), il più giovane non ne ha ancora 18, essendo nato nel dicembre del 1993. SORPRESA NAUTICO La sorpresa più interessante è tuttavia l'exploit dei candidati del “Nautico”. Nonostante abbiano una preparazione tecnica e una specializzazione in “macchinisti” che dovrebbe destinarli a bordo di una nave, quattro di loro hanno tentato l'accesso a Medicina e due (il 50%) hanno passato il test. Percentualmente un record. Nessun risultato per i 22 aspiranti medici con la maturità tecnica commerciale né per i 17 geometri e i 7 periti industriali informatici. A conferma che la cultura generale e le nozioni di fisica e matematica (sulla quale la media del voto è stata disastrosa, 0,7 centesimi) si apprendono, come è noto, di più al liceo. GLI ALTRI DATI A Cagliari le domande sono state 2222 ma si sono presentati 1838 candidati per 197 posti. Sei schede sono state annullate. Anche quest'anno le studentesse hanno prevalso numericamente sui colleghi maschi: 1192 contro 646 ossia il 64,85% di femmine. Ma i maschi sono stati più bravi: con il 36,32% di partecipanti hanno ottenuto il 48,22% degli idonei (95 maschi e 102 femmine) IL 60% VIVE IN PROVINCIA Le scuole sarde piazzano complessivamente 176 idonei (89%), mentre i neo studenti in Medicina residenti in Sardegna sono 180 su 197. La provincia di Cagliari, per ragioni di quantità di residenti, raccoglie il maggior numero di idonei (60%) e la migliore prestazione idonei/presenti (12%). I SICILIANI Dopo la Sardegna, anche quest'anno è la Sicilia la regione che ha visto la più grande partecipazione di studenti: 45. Di questi, 12 sono risultati idonei (nel 2010 per la sola medicina erano 47 con 10 idonei). Come l'anno scorso, gli studenti siciliani sarebbero passati tutti a Messina e a Palermo, considerata la media dei voti registrati lì. Per gli irriducibili campanilisti c'è un altro dato di un qualche interesse: Sassari è l'unica provincia sarda che non riesce a sistemare idonei all'università di Cagliari. Fabio Manca ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 6 ott. ’11 GLI ASPIRANTI INFERMIERI ZOPPICANO IN CULTURA GENERALE L’esito dei test d’accesso alle lauree per le professioni sanitarie Rispetto ai colleghi che hanno partecipato alle selezioni per l’accesso alla facoltà di Medicina sono stati più carenti in Cultura generale e in Chimica, materia in cui sono stati un disastro. Ma sono migliori di loro, nel punteggio medio, in Biologia, Fisica e Matematica. Leggendo i dati elaborati dall’Ateneo sulle prove dei 3067 aspiranti a una professione sanitaria che hanno effettuato il test l’otto settembre scorso (310 ammessi, circa uno su dieci) emergono dati interessanti sulla loro preparazione di base. Mediamente carente, come quella degli aspiranti medici. Il risultato medio per tutti i candidati è stato di 27,03 centesimi, inferiore di oltre 8 punti al risultato, già mediocre, di Medicina (35,71). CHIMICA OSTICA Biologia è stata la disciplina con il più alto punteggio medio (58,81). Crolla Chimica (32,24), non malissimo Fisica e Matematica (45,54). Gli aspiranti Fisioterapisti ottengono la media più alta rispetto ad aspiranti igienisti dentali, ostetrici, infermieri, tecnici di laboratorio biomedico, tecnici di radiologia, assistenti sanitari, logopedisti, tecnici per la riabilitazione psichiatrica e tecnici per la prevenzione ambientale. Le studentesse hanno prevalso numericamente sui colleghi maschi (69% contro 31%) ma sono state battute da loro nel punteggio medio (11,37% contro il 9,55% delle femmine) . RECORD DELL’ALBERTI Il 43,07% dei partecipanti proviene dai licei scientifici ed hanno ottenuto 62,58% dei posti. Sul piano numerico, l’Alberti di Cagliari ottiene il miglior risultato riuscendo a piazzare 22 idonei con un rendimento del 23%. Il Piga di Villacidro è secondo con 19,64%. Al terzo posto il Brotzu di Quartu con 19,57, seguono Michelangelo, il Fermi di Nuoro e il cagliaritano Pacinotti. I PIÙ BRAVI AL DON BOSCO Seguono il liceo de Castro di Oristano, il Ginnasio Don Bosco di Cagliari con 23,08% da cui provenivano otto candidati: cinque hanno ottenuto il posto in facoltà con un rendimento eccellente: 62,50%. I candidati del liceo Salesiano hanno ottenuto la media più alta (38,44) tra tutti i partecipanti. Tra i singoli ammessi, la media più alta è stata realizzata dal liceo Pintor con 42,83 che però chiude solo al 4° posto con un deludente 24% (era primo in medicina) . Gli studenti del Siotto si sono distinti più degli altri in Cultura generale e Biologia, ma sono crollati in Chimica e Matemati ___________________________________________________________________ Sardi News Sett.. ’11 AOUCA:SANNA: SONO OSPEDALI, NON MULTISALA Lasciamoli vicino ai pazienti di Emanuele Sanna Da qualche tempo la sanità fa notizia solo perché sarebbe fonte di sprechi e di dissanguamento del bilancio regionale. Nell'Assemblea legislativa sarda si discute solo di tagli, di ticket e di soppressione di piccoli ospedali considerati rami secchi anziché preziosi presidi di salute territoriale. L'ultima edizione del Piano sanitario regionale è stata largamente disattesa e già si litiga per un nuovo Piano in una disarmante assenza di proposte alternative. Intanto però qualcosa si muove in profondità con atti amministrativi e provvedimenti unilaterali di alcuni direttori generali delle Asl che rispondono esclusivamente ai loro assessori di riferimento. Emblematico e allarmante quello che sta succedendo nella "capitale" della Sardegna. L'esodo delle cliniche universitarie dal centro storico di Cagliari verso il nuovo polo sanitario di Monserrato è già iniziato e pare che si completerà in breve tempo. La scelta dell'ateneo è ormai irreversibile e rimetterla in discussione non ha più senso anche se a suo tempo fu, con buoni argomenti, contestata nell'interesse degli studenti e delle comunità. Archiviata la fuga della facoltà di Medicina penso però che meriti una discussione pubblica più attenta il progetto di decretare il "fine vita" dello storico ospedale civile realizzato a metà dell'800 da Gaetano Cima e che da 170 anni svolge un ruolo fondamentale per tutelare la salute dei cagliaritani e dei sardi. In nome di un discutibile decentramento e ammodernamento della rete ospedaliera una recente e non infallibile programmazione regionale ha previsto la chiusura pressoché totale di quelli che una volta si chiamavano gli Ospedali Riuniti di Cagliari (San Giovanni di Dio, Santissima Trinità, Cliniche pediatriche) e la contestuale soppressione degli ospedali Binagli e Marino. È bene anche ricordare che la "Clinica Mario Aresu", una volta modello di eccellente assistenza ospedaliera e di formazione specialistica, è già stata smantellata e trasferita fuori città. Forse è opportuno sottolineare che 30 anni fa con la Riforma e con l'avvento del Sistema Sanitario Nazionale e soprattutto con alcuni atti coraggiosi e lungimiranti della politica regionale, l'organizzazione sanitaria della nostra Isola fu radicalmente potenziata sia sul versante della prevenzione e della territorializzazione dei servizi sia su quello decisivo dei presidi ospedalieri e universitari. Con l'apertura del Brotzu e del Microcitemico e con un grande investimento strutturale sugli altri ospedali isolani Cagliari e la Sardegna uscirono dal loro Medio Evo sanitario. Quel passaggio non fu indolore perché colpiva interessi e pigrizie culturali consolidate ma la risposta degli operatori sanitari e dei cittadini fu straordinariamente positiva. I principali Centri di cura, di ricerca e di coordinamento della tutela attiva della salute, attraverso una feconda integrazione ospedali/università, diventarono il fulcro di una buona e moderna organizzazione sanitaria a Cagliari come a Sassari e in tutta la Sardegna. Anche a seguito di quelle scelte la storiche piaghe sanitarie della Sardegna furono curate e debellate. La talassemia, il favismo, l'incidenza delle malattie infettive, la mortalità infantile e perinatale in pochi anni furono portate ai livelli delle regioni europee più progredite. Per i cardiopatici, gli emodializzati, i pazienti affetti da gravi patologie neoplastiche e i trapiantati finirono i dolorosi e umilianti viaggi della speranza. La prevenzione, le cure, le tecnologie più avanzate, i medici e gli ospedali furono avvicinati ai cittadini e resi fruibili e di buona qualità a prescindere dal censo e dal luogo di residenza. A Cagliari come a Sorgono, a Isili come a Lanusei, nelle città come nelle zone interne, il criterio della prossimità dei servizi e della loro specializzazione per le patologie più complesse fu la bussola che guidò le scelte più feconde della politica sanitaria regionale. Oggi si tende a cambiare pericolosamente strada. Perché demolire l'esistente e delocalizzare i presidi ospedalieri lontani dalle città e dai luoghi dove la gente vive, lavora e spesso si ammala? Perché la più grande città della Sardegna dovrebbe essere privata dei suoi storici ospedali dopo gli ingenti investimenti fatti per dotarli di tutti i requisiti strutturali e professionali per farli diventare presidi essenziali della salute regionale? Perché "deportare" nelle periferie e nell'hinterland migliaia di posti letto e con essi costringere a un assurdo e quotidiano pendolarismo molte migliaia di lavoratori, di malati e familiari sofferenti? Prima di fare passi sbagliati e avventati forse è meglio aprire nel Consiglio regionale e anche nei Consigli comunali una discussione meno superficiale. Poco male se vanno in periferia le Città Mercato e i cinema multisala ma gli ospedali e i Pronto Soccorso è bene che restino dentro le città e vicine alle comunità. Il caso Cagliari è emblematico, ma questa tendenza sbagliata rischia di estendersi a tutta la Sardegna. Perché costringere un paziente del Mandrolisai o del Sarcidano o di Arzana a ricoverarsi a Nuoro o a Cagliari anche quando la sua patologia può essere più tempestivamente e con minori costi umani ed economici affrontata nell'ospedale che ha avuto finora nel suo territorio? A prescindere dalle Giunte e dalle maggioranze che si alternano nel governo della nostra Regione autonoma penso quindi che una riflessione si imponga per tutti in questo delicato campo della nostra organizzazione civile. Ritengo che si debba sollecitare un confronto di adeguato respiro culturale e in una cornice programmatica per quanto possibile affrancata dalla contingenza politica. Provo sommariamente a richiamare alcuni obiettivi per una nuova stagione programmatica che a me sembrano raggiungibili e irrinunciabili riqualificando concretamente anche la spesa sanitaria. Bisogna intervenire innanzitutto sulle sorgenti delle malattie, che sono spesso sociali e ambientali, con una ramificata rete di screening e di diagnosi precoce. Bisogna potenziare l'assistenza domiciliare e la riabilitazione nel territorio. Dobbiamo con più convinzione sostenere i centri di salute mentale, le comunità terapeutiche, le case famiglia e l'integrazione dei servizi socio-sanitari. Bisogna monitorare la sicurezza e la prevenzione nei luoghi di lavoro. Occorre infine programmare e investire sulla formazione specialistica per disporre di tutte le professionalità necessarie al sistema sanitario pubblico che si può virtuosamente integrare anche con la sanità privata e con le organizzazioni no-profit. Tutto questo è a mio giudizio possibile perché oltre alle deprimenti risse da cortile in cui si esibisce purtroppo oggi una parte della classe dirigente regionale ci sono ancora per fortuna in Sardegna risorse culturali, civili e morali, in grado di riportarci sulla strada giusta per garantire a ogni persona una salute di buona qualità. Rimetterci in cammino e verso un giusto orizzonte significa in fondo ritrovare la stella polare della nostra più genuina tradizione sia in campo clinico sia in quello della ricerca scientifica. La Scuola medica sarda ha avuto in passato luminari come Giuseppe Brotzu, Armando Businco, Erminio Costa, Mario Aresu, Giuseppe Macciotta e Francesco Delitala. Quella scuola ha prodotto tanti eccellenti discepoli, alcuni ancora vivi e vitali, come Antonio Cao e Gianluigi Gessa (ai quali assessori di qualsiasi stagione o partito politico dovrebbero più spesso chiedere consiglio prima di rottamare il patrimonio e i buoni frutti prodotti dalla nostra terra). Da giovane studente e ancora adesso attraversando le ampie corsie del vecchio ospedale cagliaritano penso che in quel luogo di sofferenza e di cura si sono formati e hanno esercitato la loro arte medica uomini straordinari, creando attraverso le generazioni una scuola di assoluto valore internazionale. Forse con l'ospedale di Gaetano Cima siamo ancora in tempo per salvare non solo un prezioso patrimonio architettonico e uno straordinario crocevia di cultura medico-scientifica, ma anche i diritti e i servizi molto avanzati che abbiamo conquistato per tutelare meglio la nostra salute e la nostra vita. ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 ott. ’11 AOUCA: INFORMA CANCRO: SPORTELLO Riparte il Progetto “Informa Cancro” a cura dell’Azienda ospedaliero- universitaria di Cagliari, in collaborazione con la Federazione delle Associazioni di volontariato in oncologia (Favo). Il progetto, coordinato dalla dottoressa Maria Teresa Ionta, dell’Unità operativa complessa di Oncologia medica diretta da Bruno Massidda, è alla seconda edizione e si giova del supporto del Servizio civile del ministero dell’Interno. Sono stati assegnati all’Aou (unica sede in Sardegna) ben due volontari da utilizzare per lo sportello informativo e di accoglienza. I giovani interessati in età compresa tra 18 e 29 anni, possono scaricare il bando sul sito www.aoucagliari.it nella sezione primo piano e notizie. Il bando scade alle 14 del 21 Ottobre. Il progetto si prefigge di migliorare la conoscenza e la consapevolezza della dimensione familiare, sociale e sanitaria del cancro , superando l’isolamento e la penalizzazione dei malati oncologici sia in ambiente sociale che lavorativo. Il compito dei volontari del servizio civile sarà quello di ascolto e di accoglienza dei malati oncologici e di chi sta loro vicino fornendo un’informazione che sia il più possibile mirata e personalizzata sulla malattia, i trattamenti e i loro effetti collaterali, l’accesso ai benefici previsti dalle leggi in campo lavorativo, previdenziale e assistenziale. ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 9 ott. ’11 OGNI ANNO NELL’ISOLA 50 NUOVI CASI DI AUTISMO Negli ultimi vent’anni è stato riscontrato un aumento del 600% BETTINA CAMEDDA CAGLIARI. In Sardegna sono diverse migliaia: l’autismo non è una malattia rara ma se diagnosticata in tempo, permette notevoli miglioramenti. Non è certamente una patologia semplice, però non va ridotta all’immagine data nel Film “Rain man” visto che Mozart e Einsten sono considerati due Asperger (una forma dello spettro autistico “ad alto funzionamento”). Negli ultimi venti anni si è riscontrato un aumento della diffusione del 600 per cento sulla popolazione globale. Basti solo pensare che la percentuale dei bambini con autismo è superiore a quella dei piccoli affetti da tumore, diabete e Aids messi insieme. La ricerca ha fatto passi avanti ma è ancora difficile stabilire che cosa è l’autismo. Ed è difficile capire quale metodo di insegnamento adottare per aiutare l’autistico ad essere più autonomo, più sociale. Su questa linea in Sardegna nasce nel 2003 il Centro per i disturbi pervasivi dello sviluppo dell’Ospedale Brotzu, diretto dal professore Giuseppe Doneddu. «Il Centro segue oltre 1200 persone affette da autismo di tutta l’isola. In Sardegna l’incidenza della patologia è di 50 nuovi nati per anno come la media internazionale - afferma il direttore Doneddu - a livello internazionale si parla di 1 nato su 110 normali». Capire l’autismo nelle sue forme è uno degli obiettivi del seminario «L’apprendimento nell’autismo in età prescolare: dalla ricerca alla pratica clinica» tenuto in settimana presso l’ospedale Brotzu, da uno dei maggiori esperti in materia, lo psicologo e ricercatore Giacomo Vivanti. «In questo momento l’idea che abbiamo dell’autismo è che sia un disturbo genetico legato a un diverso sviluppo del cervello che fa sì che i bambini leggano le informazioni intorno a loro in modo diverso. Il 75 per cento dei bambini ai quali è stata diagnosticata in tempo la malattia è in grado di parlare - spiega Vivanti - bisogna ancora capire perché il 15 per cento non risponde al trattamento». Le difficoltà nel comunicare, nel capire gli altri e imparare dagli altri, così come il ripetere continuamente le stesse azioni sono solo alcuni dei sintomi legati all’autismo. Eppure la maggior parte delle persone che ne soffrono possiedono delle abilità fuori dal comune rispetto ai non autistici. Il loro, scriveva lo psichiatra infantile Han Asperger nel 1944, è prima di tutto «un modo diverso di essere al mondo». Un mondo che la ricerca deve ancora scoprire del tutto. Vivanti si interessa in modo particolare all’autismo perché ha due fratelli autistici. Ma per poter fare ricerca, una volta laureato nel 2003, si è trasferito in America, all’University of California: «In Italia la ricerca nelle università è basata su gruppi di potere che facilitano l’ingresso ad amici e parenti. Spesso i ricercatori devono lavorare anni da volontari e la loro età media è di 40 anni. Io volevo fare ricerca a 30». ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 29 Sett. ’11 LA SANITÀ RELIGIOSA TRA CARITÀ E BUSINESS Il sostegno Il lavoro di queste istituzioni venga sostenuto seriamente Il crac economico del San Raffaele con tutte le sorprese che l' hanno accompagnato invita alla riflessione su tutta la sanità privata religiosa. Una realtà importante, presente nel nostro Paese in molte regioni e anche in Lombardia, ove operano numerose strutture di grande tradizione: Don Gnocchi, Camilliani, Fatebenefratelli, Suore Missionarie del Sacro Cuore, Suore Ancelle della Carità, solo per citarne alcune. Molte di queste istituzioni sono convenzionate con il Ssn, sono non profit, e cercano di rispondere a bisogni spesso non completamente soddisfatti dalle strutture pubbliche esistenti (come ad esempio l' assistenza a soggetti con gravi handicap o malati psichiatrici). Si tratta di una sanità in gran parte diversa da quella delle numerose strutture private accreditate presenti in Lombardia, sia per organizzazione interna che per missione e visione dell' assistenza al malato, basata sui principi cattolici di ospitalità e carità cristiana. È una sanità frammentata, che troppo spesso viene lasciata sola a svolgere funzioni di «ammortizzatore sanitario e sociale» per compiti considerati dagli altri troppo onerosi o non remunerativi. Una realtà che fatica a mantenere i propri spazi in una sistema regolato ormai solo da criteri economici. Quello della sanità religiosa è un mondo che talvolta fatica a coniugare i valori dell' assistenza a quelli della moderna managerialità necessaria per il funzionamento di quelle complesse strutture che sono oggi gli ospedali e che risente in modo importante della crisi di vocazioni. È bene che il lavoro di queste istituzioni e di tutto il vero non profit sanitario (e forse San Raffaele non lo è mai stato realmente...) venga fortemente sostenuto e riconosciuto nell' interesse di una società che ha bisogno di questi servizi assistenziali, anche attraverso lo sviluppo di progetti comuni e integrati con le strutture pubbliche. Un ulteriore aiuto potrebbe derivare dalla creazione di una rete di collegamento e solidarietà che permetta alle strutture religiose di sviluppare sinergie d' azione mantenendo le specificità della loro visione assistenziale. Si tratta di un patrimonio di storia e di assistenza, che la Lombardia non può rischiare di perdere, un patrimonio prezioso per tutti noi. sharari@hotmail.it RIPRODUZIONE RISERVATA Harari Sergio ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Sett. ’11 SAN RAFFAELE, PAZIENTI IN CALO I MEDICI: QUI CURE ECCELLENTI MILANO - Pazienti in calo per paura di non avere un' adeguata assistenza a causa della crisi finanziaria. Studenti dell' Università Vita Salute che si ritirano dopo avere pagato la prima retta. L' indebitamento da 1,5 miliardi di euro del San Raffaele inizia a fare calare la fiducia nel colosso fondato da don Verzè. Di qui la difesa dei medici finora rimasti in silenzio. «Anche a nome di tutti i colleghi universitari (che rappresentano, nella quasi totalità, i vertici delle strutture di assistenza clinica) e di tutti i professionisti medici e ricercatori che operano al San Raffaele, desidero evidenziare che le motivazioni della attuale fase di crisi finanziaria del San Raffaele non sono certo riconducibili all' attività sanitaria e di ricerca - spiega Massimo Clementi, preside della facoltà di Medicina e chirurgia -. L' ospedale gode di un' acclarata e meritoria fama che varca i confini nazionali. Non solo: il San Raffaele è, di gran lunga, la prima istituzione italiana per produttività nella ricerca tanto da aver ottenuto un finanziamento di un miliardo di dollari da una charity internazionale». ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 6 ott. ’11 «L'URANIO IMPOVERITO? NESSUN TUMORE» Dibattito al Cnr tra esperti e militari. Tra dieci giorni il sottosegretario Cossiga a Quirra Martedì 04 ottobre 2011 Dalla redazione ROMA «L'uranio impoverito non presenta particolari caratteristiche di tossicità: scientificamente non si può quindi dire che le nano-particelle abbiano scatenato l'insorgenza di tumori nei militari in missione». Enrico Sabbioni, direttore a Rovigo dell'Ecsin (centro internazionale sulle nano-tecnologie) scagiona il metallo: «Non esiste, a oggi, una relazione tra leucemie e uranio depleto». Questa la sentenza scientifica che il ricercatore ha emesso, ieri, nel corso del convegno «Nanotecnologie, nanoparticelle e salute umana: quali evidenze?», organizzato a Roma dalla direzione generale della Sanitàmilitare nell'aula del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Tema scottante, quello sull'uranio impoverito, per le conseguenze sulla salute dei militari e sull'ambiente contaminato nel poligono di Salto di Quirra. Proprio sabato scorso il procuratore di Lanusei, Domenico Fiordalisi, ha firmato il decreto di dissequestro dell'area del demanio militare bloccato nell'ambito dell'inchiesta sul presunto inquinamento della base. Dalle indagini in Sardegna - dove tra dieci giorni il sottosegretario alla Difesa Giuseppe Cossiga arriverà a Perdasdefogu per incontrare gli allevatori e affrontare i temi degli indennizzi - all'acceso dibattito al convegno romano. SABBIONI «Prevenzione» e «cura» è il binomio della proposta che Sabbioni ha avanzato in Commissione d'inchiesta sull'uranio impoverito al Senato: «Una bio-banca con un archivio sanitario che contenga esami di sangue, urina e capelli dei soldati ex ante, durante e post missione. Un'indagine prenatale - spiega - attraverso marcatori specifici (proteine), mirata a monitorare costantemente lo stato di salute dei soldati». GATTI Le polveri ultra-sottili rilasciate in seguito a esplosione di materiale bellico sono tossiche e superano tranquillamente le barriere microbiologiche dell'organismo. Ne è convinta Antonietta Gatti, responsabile del dipartimento dei biomateriali all'università di Reggio Emilia: «Le nano-polveri prodotte dalla guerra e dai poligoni militari di tiro, passano nel sangue e nello sperma». E snocciola cifre: «Su un campione di 141 soldati italiani e stranieri impegnati in operazioni nei Balcani o nel poligono interforze di Perdasdefogu, sono quarantasei i militari che hanno contratto linfomi e malattie del sangue». A essere incriminata stavolta è una miscela di metalli: cobalto, tungsteno, ferro. Ma non l'uranio impoverito. «Un pastore sardo è morto per un agglomerato di nano-particelle (piombo-ferro-cromo), ma non in seguito a contaminazione da uranio impoverito», puntualizza Gatti. LA POLEMICA Scoppia la polemica nella sala del Cnr. Maria Pia Sammartino, docente al dipartimento di Chimica della Sapienza, grida il suo disaccordo: «L'uranio impoverito ha una tossicità accertata dal punto di vista chimico e radiologico. Se viene ingerito provoca danni irreversibili». Punta il dito contro il ministero della Difesa: «C'è una responsabilità accertata dell'esercito. Hanno mandato i ragazzi in zone di guerra, sprovvisti di tute e maschere, e senza avvisarli delle conseguenze per la salute». Roberta Floris ___________________________________________________________________ Sanità News 6 ott. ’11 L'ITALIA DETIENE IL PRIMATO EUROPEO PER I BAMBINI IN SOVRAPPESO E OBESI L'Italia detiene il primato europeo di bambini tra i 9 e gli 11 anni sovrappeso o obesi. A quanto pare, la dieta mediterranea non basta: i nostri bambini fanno molto meno movimento dei loro coetanei di qualche anno fa. E' quanto e' emerso questa mattina a Roma nel corso della presentazione dell'''ObesityDay'', che si terra' il prossimo 10 ottobre, la giornata ideata dall'Associazione Italiana di dietetica e nutrizione clinica (Adi) per sensibilizzare alle problematiche legate all'obesita' e per dare consigli a chi combatte quotidianamente contro l'aumento di peso. ''I bambini di oggi stanno troppo fermi e giocano all'aperto molto meno rispetto a quanto accadeva in passato - spiega Giuseppe Fatati, presidente della Fondazione Adi (Associazione Italiana di dietetica e nutrizione clinica) e coordinatore dell'Obesityday' -. Fanno giochi meno fisici, e questo comporta una diminuzione generale della massa muscolare e della forza''. Il che innesca un circolo vizioso: ''La massa muscolare e' quella che consuma energia: i bambini di oggi hanno meno muscoli, e di conseguenza bruciano meno calorie. E cosi' tendono a ingrassare piu' facilmente''. ___________________________________________________________________ Sanità News 30 Sett.. ’11 LE LISTE ATTESA SONO ANCORA UN PROBLEMA. SOPRATTUTTO AL SUD I cittadini aspettano, come pure la legge: un fronte in cui le nostre Regioni tardano a mettersi in regola con quanto prevedono le normative nazionali e' quello della lotta alle liste di attesa. E' quanto rileva il rapporto presentato oggi da Cittadinanzattiva che evidenzia come sette regioni siano ancora inadempienti sull'istituzione dei Cup regionali (RECUP): si tratta di Abruzzo, Campania, Calabria, Liguria, Piemonte, Sicilia e Veneto. Le regioni si differenziano anche per il numero di prestazioni per le quali hanno stabilito tempi massimi di attesa: si va dalle 125 prestazioni del Piemonte, le 101 della Provincia autonoma di Bolzano e le 100 di Lombardia e Provincia autonoma di Trento, alle situazioni negative di Abruzzo, Calabria, Liguria, Marche, Puglia, Sardegna, Toscana ed Umbria che ne hanno definito soltanto 33. Undici regioni su 21 hanno attivato, nella maggior parte delle aziende (superiore al 90%), un servizio di prenotazione delle prestazioni che distingue il canale pubblico-istituzionale da quello intramurario, attraverso numeri e/o orari differenti. Si tratta di Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Molise, Puglia, Toscana, Umbria, Veneto e P.A. Trento. In Abruzzo, Liguria, Piemonte e Sardegna, la percentuale delle aziende che hanno attivato questo tipo di servizio e' tra il 50 e il 90%. Calabria, Campania, Lazio e Valle d'Aosta rispondono con una percentuale di aziende inferiore al 50%. I Piani regionali di contenimento dei tempi di attesa sono ancora in stand by in numerose regioni, nonostante la scadenza ultima per presentarli fosse quella del 30 luglio appena trascorso: ad oggi - rileva il Rapporto - Calabria, Lazio, Basilicata, Piemonte e Sicilia sono inadempienti, nonostante le ultime tre ne avessero anche annunciato la pubblicazione. E ancora: gli organi paritetici per il controllo della intramoenia, la cui istituzione e' stata stabilita dall'accordo Stato- Regioni del 18 novembre 2010, languono. Le uniche ad averli attivati sono la Sicilia e la Provincia autonoma di Trento, ma entrambe prevedono la presenza unicamente delle organizzazzioni sindacali e non di quelle di tutela dei diritti dei cittadini utenti. L'Emilia Romagna e' invece in dirittura di arrivo, con la partecipazione tra l'altro delle organizzazioni civiche. E se si sforano i tempi massimi chi indica strade alternative senza oneri per il cittadino, come stabilisce il Piano nazionale di contenimento delle liste di attesa 2006-2008? A farlo, con modalita' diverse di regione in regione e non sempre note ai diretti interessati, sono Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Toscana, Valle d'Aosta, Veneto e P.A. di Trento. Completamente inadempiente, dunque, su questo fronte, il Sud del Paese. ___________________________________________________________________ Le Scienze 16 Sett.. ’11 L'EMOGLOBINA CHE VIENE DAL FREDDO Le nuove conoscenze sul trasporto dell'ossigeno anche a basse temperature potrebbero aprire la strada alla progettazione di emoderivati da utilizzare in condizioni di ipotermia Il sangue di mammut potrebbe consentire lo sviluppo di nuovi emoderivati per moderne procedute mediche che comprendano la diminuzione della temperatura corporea del paziente: il risultato è riportato in un articolo pubblicato sull'ultimo numero della rivistaBiochemistry. Chien Ho e colleghi sono partiti da una semplice constatazione: gli antenati dei mammut si evolsero inizialmente in climi caldi, in regioni dove ora vivono gli elefanti asiatici e africani, ma migrarono verso le regioni eurasiatiche in un periodo compreso tra 1,2 e 2 milioni di anni fa, nell'Era glaciale del Pleistocene. Si adattarono così al loro nuovo ambiente, sviluppando uno spesso pelo e orecchie più piccole, due cambiamenti anatomici che consentivano di conservare meglio il calore corporeo. In una precedente ricerca, Ho e colleghi hanno scoperto che l'emoglobina, la proteina contenuta nel sangue responsabile del trasporto dell'ossigeno dai polmoni al resto dell'organismo, è, nel caso del mammut, portatrice di mutazioni del DNA che la rendono differente da quella posseduta dall'elefante asiatico. Gli studiosi sono così andati alla ricerca delle mutazioni che permisero all'antico pachiderma di sopravvivere a temperature estremamente basse, analizzando in particolare l'emoglobina dell'animale estinto. In mancanza di un campione di sangue di mammut, hanno prodotto artificialmente l'emoglobina utilizzando frammenti di sequenze di DNA di tre esemplari morti in Siberia tra 25.000 e 43.000 anni fa. Il confronto con l'emoglobina dell'elefante asiatico e dell'uomo ha mostrato che la proteina prodotta dal mammut era molto meno sensibile alle variazioni di temperatura e quindi in grado di portare facilmente l'ossigeno di cui hanno bisogno i tessuti anche con il freddo, superando quindi una fondamentale limitazione delle altre due. Queste nuove informazioni, sottolineano gli autori, potrebbero aprire la strada alla progettazione di nuovi prodotti emoderivati da utilizzare in condizioni di ipotermia durante gli interventi chirurgici al cuore e al cervello. (fc) ___________________________________________________________________ Sanità News 30 Sett.. ’11 L'ALLENAMENTO IDEALE PER I PAZIENTI CON SCOMPENSO CARDIACO CRONICO Uno studio condotto da Fabio Esposito della Facoltà di Scienze Motorie dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con la University of California, San Diego (UCSD) e con la University of Utah, rileva un significativo miglioramento della massima capacità aerobica in pazienti con scompenso cardiaco cronico dopo un allenamento muscolare localizzato. La ricerca, pubblicata sul Journal of the American College of Cardiology (JACC), è stata condotta analizzando nei pazienti la struttura muscolare, il trasporto di ossigeno e il metabolismo, prima e dopo un particolare programma di allenamento con piccoli esercizi localizzati sui muscoli estensori della gamba. Tradizionalmente, per migliorare la capacità aerobica e la funzionalità motoria, anche in questo tipo di patologia l’allenamento adottato è quello svolto su cyclette (cicloergometro). Questa modalità di esercizio tuttavia, coinvolgendo una grossa massa muscolare, è pesantemente limitato dal deficit cardiaco e impedisce ai muscoli delle gambe di ricevere un adeguato stimolo allenante. Al contrario, esercizi mirati sui muscoli estensori della gamba, svolti grazie all’utilizzo di un attrezzo specifico appositamente costruito (ergometro), coinvolgono solo una piccola massa muscolare, gravano quindi minimamente sul cuore e permettono ai muscoli coinvolti di allenarsi al massimo. Per verificare l’effetto di questo tipo di allenamento specifico, sono stati coinvolti 6 pazienti maschi con scompenso cardiaco cronico e 6 soggetti sani di età, sesso e livello di attività fisica simili ai pazienti. I ricercatori hanno condotto una serie di test durante esercizi al cicloergometro e durante esercizi di estensione di una singola gamba. Dopo 8 settimane di allenamento i test sono stati ripetuti ed è stato rilevato un significativo aumento nel trasporto e nell’utilizzo di ossigeno nei muscoli delle gambe, grazie a una migliore redistribuzione del sangue e ad una più efficace funzionalità delle fibre muscolari. In particolare, è stato evidenziato che allenando un piccolo gruppo muscolare alla volta (ovviando quindi alla limitazione centrale data dal deficit cardiaco tipico di questa patologia), la massima capacità aerobica aumenta significativamente, raggiungendo livelli simili ai soggetti sani. Lo studio dimostra quindi che anche in pazienti con scompenso cardiaco i muscoli delle gambe, se adeguatamente stimolati, sono in grado di migliorare la loro prestazione aerobica. Infatti, essi rispondono all’allenamento con un aumento del numero dei capillari e del flusso sanguigno e con un miglioramento del metabolismo aerobico delle fibre muscolari quando sono allenati singolarmente. I risultati dello studio sono incoraggianti, poiché possono avere importanti conseguenze sul piano terapeutico e riabilitativo. Un allenamento mirato su un piccolo gruppo muscolare, infatti, somministrato sempre sotto un adeguato controllo medico specialistico, può sensibilmente migliorare la qualità della vita di questi pazienti, senza sottoporre il cuore a stress eccessivi e con benefici evidenti durante le normali attività quotidiane. Per approfondimenti (Sn) ___________________________________________________________________ Sanità News 30 Sett.. ’11 IL BATTERIO HELICOBACTER PROTEGGE DALLE ALLERGIE Il batterio Helicobacter pilori protegge dall'asma provocata dalle allergie. Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Journal of Clinical Investigation, secondo cui l'aumento dei casi di questa patologia nei paesi occidentali potrebbe essere dovuto proprio alla progressiva scomparsa di questo microrganismo. Nello studio i ricercatori dell'Universita' di Zurigo hanno infettato alcuni topi con il batterio, che nella maggior parte dei casi non e' pericoloso per l'organismo. Le cavie infettate a pochi giorni di vita hanno sviluppato una tolleranza immunologica al batterio, e nessuna risposta allergica ai principali allergeni. Un gruppo di controllo di topi non infettati invece e' risultato fortemente allergico. "L'infezione precoce aumenta la produzione di cellule T, che sono fondamentali per regolare la risposta immunitaria - hanno spiegato gli autori - e questo spiega il meccanismo protettivo". Una volta trapiantate le cellule T nei topi allergici, hanno dimostrato gli esperti, anche questi guadagnano l'immunita', che pero' viene persa se si uccide il batterio con gli antibiotici. BRIEF REPORT Helicobacter pylori infection prevents allergic asthma in mouse models through the induction of regulatory T cells Isabelle C. Arnold1, Nina Dehzad2, Sebastian Reuter2, Helen Martin2, Burkhard Becher3,Christian Taube2 and Anne Müller1 1Institute of Molecular Cancer Research, University of Zürich, Zürich, Switzerland. 2III. Medical Clinic, Johannes Gutenberg University, Mainz, Germany. 3Institute of Experimental Immunology, University of Zürich, Zürich, Switzerland. Address correspondence to: Anne Müller, Institute of Molecular Cancer Research, University of Zürich, Winterthurerstr. 190, 8057 Zürich, Switzerland. Phone: 41.44.635.3474; Fax: 41.44.635.3484; E- mail: mueller@imcr.uzh.ch. Or to: Christian Taube, III. Medical Clinic, Johannes Gutenberg University, Langenbeckstrasse 1, 55101 Mainz, Germany. Phone: 49.6131.176848; Fax: 49.6131.176668; E-mail:taube@3- med.klinik.uni-mainz.de. First published July 1, 2011 Received for publication September 8, 2010, and accepted in revised form May 11, 2011. Atopic asthma is a chronic disease of the airways that has taken on epidemic proportions in the industrialized world. The increase in asthma rates has been linked epidemiologically to the rapid disappearance of Helicobacter pylori, a bacterial pathogen that persistently colonizes the human stomach, from Western societies. In this study, we have utilized mouse models of allergic airway disease induced by ovalbumin or house dust mite allergen to experimentally examine a possible inverse correlation between H. pylori and asthma. H. pylori infection efficiently protected mice from airway hyperresponsiveness, tissue inflammation, and goblet cell metaplasia, which are hallmarks of asthma, and prevented allergen-induced pulmonary and bronchoalveolar infiltration with eosinophils, Th2 cells, and Th17 cells. Protection against asthma was most robust in mice infected neonatally and was abrogated by antibiotic eradication ofH. pylori. Asthma protection was further associated with impaired maturation of lung-infiltrating dendritic cells and the accumulation of highly suppressive Tregs in the lungs. Systemic Treg depletion abolished asthma protection; conversely, the adoptive transfer of purified Treg populations was sufficient to transfer protection from infected donor mice to uninfected recipients. Our results thus provide experimental evidence for a beneficial effect of H. pyloricolonization on the development of allergen-induced asthma. Introduction Atopic asthma is characterized by lung inflammation, airway hyperresponsiveness, and airway obstruction (1). The pulmonary infiltrates of asthmatic patients consist of eosinophils, mast cells, and activated Th2 and Th17 cells, which orchestrate allergen-specific immune responses (2). In recent decades, the incidence of asthma and associated allergic diseases has increased to epidemic proportions in developed countries, especially among children (3). The growing prevalence of asthma has been attributed to pollution and tobacco smoke (3) and to a lack of infectious stimuli arising from modern sanitary practices and the widespread use of antibiotics (4). The “hygiene hypothesis” postulates that early exposure to microbial antigens is essential for the normal maturation of the immune system and the prevention of allergic diseases (4); it was recently revisited by Blaser and Falkow (5), who propose that the loss of our ancestral indigenous microbiota, rather than a general decline in arbitrary childhood infections, is causally associated with the asthma epidemic. In experimental models of asthma, infection with microorganisms possessing strong immunomodulatory properties has been negatively associated with allergic airway disease (6, 7). Several epidemiological studies have reported an inverse correlation between asthma incidence and chronic infection with the human gastric pathogen Helicobacter pylori (8–11), the causative agent of gastric ulcers, gastric lymphoma, and gastric adenocarcinoma. This association was strongest in young individuals with early-life asthma onset (9) and depended in part on the H. pylori virulence determinant CagA (8, 10). We have recently introduced a CagA+ H. pylori infection model that recapitulates the gastric preneoplastic histopathology of a subset of H. pylori–infected patients (12). In this model, mice that are experimentally infected during the neonatal period develop H. pylori– specific immunological tolerance and are protected against gastric immunopathology resulting from CagA+ infection in adults (12). Here, we have utilized models of allergic airway inflammation and hyperresponsiveness to examine a possible inverse association between H. pylori infection and asthma. Results and Discussion Experimental infection with H. pylori protects against allergic airway disease. To experimentally test the effects of H. pylori on OVA-induced allergic airway disease, C57BL/6 mice were infected with H. pylori at either 6 days or 6 weeks of age (i.e., as neonates or adults), sensitized with alum-adjuvanted OVA, and challenged with aerosolized OVA 4 weeks later to induce asthma-like symptoms. Infection with H. pylori significantly reduced airway hyperresponsiveness as evidenced by decreased airway resistance following methacholine challenge (Figure 1A) and alleviated the peribronchiolar and perivascular inflammation and goblet cell metaplasia that are hallmarks of asthma (Figure 1, B and C). The infiltration of immune cells into the bronchoalveolar lavage fluid (BALF) as well as the increase of eosinophils and concomitant relative decrease of alveolar macrophages in BALF was largely prevented in infected mice (Figure 1, D–F). Finally, the secretion of IL-5 into the BALF and the pulmonary infiltration of Th2 and Th17 cells as detected by flow cytometric analysis of lung single cell preparations were diminished in infected animals (Figure 1G and Supplemental Figure 1; supplemental material available online with this article; doi: 10.1172/JCI45041DS1). Most indicators of asthma were more strongly reduced in neonatally infected than in adult-infected mice (Figure 1, A–G), suggesting a continuum of protection that is inversely correlated with age at the time of infection. Interestingly, antibiotic eradication therapy resulting in efficient killing of the bacteria after the sensitization phase of our protocol abrogated asthma protection (Figure 1, A–G). To rule out that asthma protection in infected mice is due to their defect in generating a primary allergen-specific immune response, we compared OVA-specific responses in infected and uninfected mice. All mice generated similar OVA-specific IgE titers and splenocyte recall responses (Supplemental Figure 2), indicating that the infection status does not affect the primary responses to allergen. To verify our results in another model of allergic airway disease, we alternatively utilized house dust mite (HDM) allergen for sensitization and intranasal challenge. HDM- sensitized/challenged mice showed robust airway responses similar to those of OVA-treated mice (Figure 1, H-M). As observed in the OVA model, neonatally infected mice were protected against HDM-induced airway hyperresponsiveness as assessed by methacholine challenge (Figure 1H) and exhibited significantly less peribronchiolar and perivascular inflammation and goblet cell metaplasia than uninfected controls (Figure 1, I and J). Their bronchoalveolar inflammation, eosinophilia, and IL-5 and IL-13 secretion were clearly reduced (Figure 1, K–M). Mice infected as adults did not benefit from H. pylori in the HDM model (Figure 1, H–M). In conclusion, we show here that infection with H. pylori, especially early in life, is protective against asthma in mouse models of the disease. ___________________________________________________________________ Sardi News Sett.. ’11 CARCINOMA DELLA MAMMELLA: ALLARME IN SARDEGNA 165 CASI SU CENTOMILA La media nazionale è di 120. Sassari a quota cento Un'allarmante analisi nelle province di Cagliari, Sulcis, Oristano e del Medio Campidano di Mario Frongia Un messaggio che non lascia scampo: “Un quarto d’ora del vostro tempo ogni due anni può salvarvi la vita”. Bruno Massidda, 65 anni, cagliaritano e oncologo di fama, sul carcinoma mammario taglia corto: “E’ la neoplasia maligna più frequente nelle donne”. Il direttore della Oncologia medica dell’ateneo di Cagliari, nonché responsabile per l’Azienda mista Aou degli screening oncologici, illustra un tema delicato e feroce al tempo stesso: “I tumori in Sardegna? Da stare sempre allerta”. Le analisi più recenti dell’Istituto Superiore di Sanità indicano 842 nuovi casi di carcinoma della mammella femminile, con un’incidenza di 103 nuovi casi ogni 100 mila donne. Nel resto del Paese, siamo a 139 nuovi casi ogni 100 mila. “Da noi il dato standardizzato si stima in 78 nuovi casi ogni 100 mila donne, contro un dato nazionale di 93”. Roba da far tremare i polsi. Anche perché dal Registro tumori regionale diretto dall’anatomopatologo Gavino Faa, con dati basati sulle diagnosi istologiche di neoplasie maligne, si scopre chel’incidenza del carcinoma della mammella nella popolazione delle province di Cagliari, Oristano, Iglesias e Medio Campidano, è stata di 165 casi per 100 mila donne. “Il dato è superiore rispetto a quelli nazionali standardizzati (120 casi per 100 mila donne) e rispetto a quelli riportati dal Registro tumori di Sassari per il periodo 1998-2002 (100 casi per 100 mila donne)”. Numeri che per essere abbattuti, o quanto meno ridotti, necessitano di una prevenzione che incida in maniera forte sul popolo rosa. Massidda rilancia: “Con le cautele legate all’errore standard (+/- 38,55) i nostri dati indicano un’incidenza del tumore della mammella femminile nella popolazione sarda tendenzialmente maggiore di quella finora riportata”. In sostanza, se confermati dalle analisi epidemiologiche su una popolazione più vasta, la frequenza del tumore della mammella in Sardegna “non è dissimile da quella delle regioni del Centro-Nord”. Ed ecco il perché dell’accelerata degli screening oncologici, da parte dell’azienda guidata da Ennio Filigheddu. E non è tutto. “Sul picco d’incidenza del carcinoma della mammella, i dati evidenziano un progressivo aumento a partire dai 25-29 anni con un picco tra i 65 e i 69 anni. Le nostre ricerche - conferma il professor Massidda - evidenziano una incidenza già elevata tra i 35 e i 44 anni, con un picco in un’età molto più precoce, tra i 45 e i 54 anni”. In breve, si intuisce un aspetto: in Sardegna il tumore della mammella ha un’insorgenza precoce. Con possibili importanti implicazioni anche nell’impostazione delle strategie di prevenzione. E, in particolare, nell’individuazione della popolazione bersaglio per gli screening mammografici. “Ripeto, il riscontro di un rilevante numero di casi al di sotto dei 40 anni potrebbe suggerire, come è stato già colto nel piano di prevenzione redatto dal Servizio ad hoc dell’assessorato, un abbassamento di 10 anni dell’età della popolazione bersaglio, indicando come target delle campagne di screening, le donne di età compresa tra 40 e 59 anni”. A livello nazionale, questa popolazione comprende donne con età tra 50 e 69 anni, con esecuzione dell’esame ogni due anni. In Sardegna, il riscontro di un rilevante numero di casi al di sotto dei 40 anni suggerisce un abbassamento di 10 anni del target “bersaglio”. E non è tutto. I primi dati del Registro tumori indicano, inoltre, l’esistenza di uno specifico profilo di rischio delle donne sarde, caratterizzate da un più alto rischio genetico-familiare. Il che richiede progetti e ricerche sull’incidenza del carcinoma familiare della mammella. Al Policlinico di Monserrato, secondo quanto stabilito dalle linee guida del Piano regionale, dallo scorso luglio sono state effettuate oltre 500 visite. Un risultato positivo raccolto dagli specialisti che operano tra il reparto del San Giovanni di Dio e la radiologia sita a Monserrato. Ma la chiave di volta è unica e non ha vie d’uscita: la popolazione femminile va informata con chiarezza e tempestività. Va messa al corrente dei pro e contro. E, infine, presa per mano nel percorso preventivo che prevede la chiamata nelle strutture adeguate. Con un mantra: la mammografia può davvero salvare loro la vita. Come hanno capito centinaia di donne che si sono recate spontaneamente ai centri specializzati. Insomma, battaglia aperta a tutto campo. Per una sanità puntuale e capace di rispondere al meglio alle esigenze dei cittadini. In particolare, quando si ha a che fare con patologie che, se ignorate o trascurate, non lasciano scampo. Su questo fronte, l’Azienda mista di Cagliari ci prova con determinazione. “Anche perché i dati nazionali e internazionali dimostrano l’efficacia - aggiunge Bruno Massidda - della prevenzione secondaria con gli screening mammografici e una riduzione della mortalità nelle donne che partecipano allo screening che può arrivare al 50 per cento”. ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 9 ott. ’11 LE CURE A DOMICILIO AUMENTANO E FUNZIONANO Continuare a ricevere a casa l'assistenza necessaria dopo un incidente o un ictus, oppure se si soffre di una malattia cronica o non si è più autosufficienti. Potendo scegliere, gli italiani preferirebbero essere curati tra le mura domestiche. E, laddove sono presenti, le cure domiciliari funzionano davvero. A segnalarlo è un recente rapporto realizzato dall'Osservatorio sulle "Cure a Casa" della Fondazione Istud, in collaborazione con la Confederazione delle associazioni regionali di distretto (Card) e Cittadinanzattiva. All'indagine hanno partecipato più di duecento cittadini e i distretti sanitari di 15 Regioni, soprattutto del Centro Italia. Circa il 93% dei distretti interpellati dichiara di fornire assistenza domiciliare integrata, l'87% assicura dimissioni "protette" al paziente, cioè la continuità dell'assistenza gratuita dopo la fase acuta curata in ospedale e, nei distretti più virtuosi, uno su tre, si forniscono anche prestazioni complesse: dalle cure palliative in fase di fine vita all'assistenza ai malati oncologici e a chi ha una disabilità motoria o neurologica. «La casa rimane il luogo ideale in cui ricevere trattamenti medici, terapie o cure di riabilitazione da personale qualificato — riferisce Maria Giulia Marini, direttore dell'area sanità della Fondazione Istud —. I cittadini sarebbero disposti anche a pagare un contributo al Servizio sanitario pur di evitare il ricovero in ospedale». «Nel loro ambiente consueto i malati cronici e non autosufficienti stanno meglio, si sentono meno soli e si allevia così anche il peso della malattia e la sofferenza — aggiunge Francesca Moccia, coordinatrice del Tribunale dei diritti del malato-Cittadinanzattiva —. In un contesto di costante aumento degli anziani, e quindi delle patologie croniche correlate con l'invecchiamento, i cittadini non devono sentirsi abbandonati: per questo, quando serve, hanno bisogno di assistenza continua e di tutto il supporto necessario, anche psicologico». Non più pazienti da "trattare", quindi, ma da "prendere in carico" in base alle loro necessità. «Se fino a pochi anni fa per assistenza domiciliare s'intendeva il medico che fa la visita a casa o l'infermiere che va a somministrare la terapia, oggi in molti casi l'ospedale, quando deve dimettere il paziente, concorda le dimissioni con il servizio territoriale di cure domiciliari» sottolinea Marini. E a prendersi cura dell'assistito è un'équipe multidisciplinare, composta da medici, infermieri, operatori socio- sanitari, psicologi. «Come rileva il rapporto, accade sempre più spesso, non ancora dappertutto, che il distretto sanitario abbia un ruolo centrale nell'organizzare le cure a casa — conferma Gilberto Gentili, presidente di Card, che raggruppa le associazioni dei distretti —. Tuttavia, per facilitarle occorrono canali di comunicazione ancora più efficaci». Anche se le cure domiciliari si stanno diffondendo, secondo il rapporto sono ancora inadeguate in alcune regioni. «Il Nord e il Centro "viaggiano" più in fretta — afferma Gentili —, ma alcune regioni del Sud, come Puglia, Campania e Sicilia, stanno recuperando». Altre note dolenti segnalate dall'indagine riguardano la telemedicina, che aiuterebbe a seguire i pazienti a distanza (è attivata solo in un distretto su quattro); la carenza di personale, soprattutto di infermieri; la scarsa integrazione tra servizi sanitari e socio-assistenziali, confermata anche dall'assenza quasi totale di convenzioni tra distretti e Comuni per reperire assistenti familiari o badanti. Maria Giovanna Faiella