RASSEGNA STAMPA 30/10/2011 PARADOSSI DELLA VALUTAZIONE LE INSIDIE DELLA VALUTAZIONE DIETRO GLI INDICI BIBLIOMETRICI ATENEI SENZA MERCATO L'AURA PERDUTA DEGLI ATENEI SE IL FISCO SA CHE VAI ALL'UNIVERSITÀ GELMINI: NO A TASSE UNIVERSITARIE PIÙ ALTE IL BLACK BLOC DELLE TASSE UNIVERSITARIE UNIVERSITÀ E POLITECNIO DICONO ADDIO ALLE FACOLTÀ NON CHIAMATELI MINI-LAUREATI IL POLITECNICO PREMIATO A WASHINGTON IL DOPPIO VALORE DELLA CULTURA SE L’ITALIA IMPORTA STUDENTI CINESI I BARONI PADRONI DEL DIRITTO CONCORSI UNIVERSITÀ IL PROBLEMA NON SONO GLI STUDENTI VENTISEI RICERCATORI SARDI AL TOP NELLE UNIVERSITÀ PRESIDE DI FACOLTÀ: 3.347 € CONSIGLIERE REGIONALE 13.000 PAVIA; IN CORTEO I RETTORI DEI PIÙ ANTICHI ATENEI D' EUROPA RIFORMA DEL DOTTORATO: PUNTARE SU POCHE SCUOLE MA D'ECCELLENZA CAGLIARI: CALANO(- 45%) LE ASSENZE PER MALATTIA L’ULTIMO GIORNO DEL CACCIATORE OTZI NEUTRINI PIÙ VELOCI DELLA LUCE? ALLORA L'UNIVERSO NON HA SENSO UNIVERSITARI USA OBERATI DAI DEBITI STRESS DA LICEO CLASSICO? IL PEDAGOGISTA: «SI ESAGERA CON LA TEORIA: VA RIPENSATO» IL DIRITTO D'AUTORE? LO SALVERÀ LA NUVOLA PLAGIARI, MANUALE DI AUTODIFESA NATURE BENEDICE I CLIMATOLOGI MA SOLO SE SONO CATASTROFISTI... ========================================================= HARARI: LA SANITÀ MALATA SE LA SANITÀ CAMPANA SI AFFIDA AI CARABINIERI SCIENZE INFERMIERISTICHE: I NUORESI POCO TUTELATI» PER I TUMORI AL SENO L’OSPEDALE BUSINCO HA UNA NUOVA ARMA PROGETTO DEL BUSINCO: PREMIO NAZIONALE ALL'ASL AOUCA: OCULISTICA DALLA REGIONE 200 MILA EURO PER LA RICERCA CAPONE: OTTANTENNI, IL PERICOLO DELLE FRATTURE ASLNU: PIERO MESINA DIRETTORE SANITARIO ASLOR: BRUNO LACU SE NE VA DOPO NEANCHE TRE MESI NASCITE IN CALO NELL’ISOLA MA NEL SULCIS È BABY BOOM CROLLA LA QUALITÀ DELLA VITA 80MILA FAMIGLIE SULLA SOGLIA DELLA POVERTÀ SAN RAFFAELE DA SALVARE MA SERVE UNA RIVOLUZIONE MIRACOLI DELL'ASPIRINA: BATTE ANCHE IL CANCRO NELLA FLORA BATTERICA I SEGRETI DEI FARMACI INUTILI I CONTROLLI A TAPPETO SULL'AIDS IL PESO (ECCESSIVO) DEGLI ITALIANI IN 5 MILIONI OBESI LA DEPRESSIONE È ROSA, SONO DONNE TRE MALATI SU QUATTRO I COSTI SOCIALI DELL’ICTUS SEGUIRE IN DIRETTA IL RIPIEGAMENTO DELLE PROTEINE PASSI IN AVANTI NELLA PRODUZIONE DEL SANGUE SINTETICO 1 BAMBINO SU 200 E' A RISCHIO AUTISMO LA LEGGE DI STABILITA' PENALIZZA I MEDICI SPECIALIZZATI LA VICENDA DELLE DUE MAPPE CONCORRENTI IL «GENOMA» LE 1.700 MUTAZIONI IMPLICATE NEL TUMORE AL SENO TROPPI TEST RISCHIOSI SUL WEB PER L'ANEURISMA DELL'AORTA LA PREVENZIONE È UN SALVAVITA IL COLESTEROLO «VERDE» RUBA SPAZIO A QUELLO CATTIVO ========================================================= _______________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Ott. ‘11 PARADOSSI DELLA VALUTAZIONE di Roberto Casati Negli Stati Uniti la politica del «no-child-left-behind» ha impoverito l'offerta scolastica. In Cina le classifiche hanno danneggiato la ricerca Valutare è umano e in molti casi necessario, abbiamo bisogno di informazioni per poter agire (investire, decidere a quale scuola mandare i nostri figli, quali prodotti comperare, a quali studenti assegnare una borsa di studio, quali parlamentari eleggere, eccetera.) Ma la valutazione delle attività umane non è un elemento neutro, è un intervento che cambia lo stato delle cose, e delle cautele particolari devono venir adottate quando si valuta. Il dibattito degli ultimi mesi intorno alle agenzie di rating ruota in parte intorno, ai criteri utilizzati per la valutazione e agli eventuali conflitti di interesse, ma soprattutto sulle sue conseguenze a breve e a lungo termine. Declassare o promuovere un determinato prodotto finanziario contribuisce in modo sostanziale alla sua vita ulteriore. (E sul piano puramente ideologico, mi pare che anche un ultraliberale dovrebbe trovare quantomeno discutibile che il voto di un'agenzia di rating si sostituisca al mercato). Il fenomeno dell'influenza della valutazione sulla cosa misurata è però più ampio. Ecco una breve lista di sistemi di valutazione che hanno conseguenze importanti di cui il dibattito pubblico dovrebbe impadronirsi con meno timidezza. L'introduzione del No-Child-Left-Behind Act (2001) da parte della seconda amministrazione Bush ha introdotto una batteria di test di valutazione nelle scuole statunitensi che misurano prevalentemente i risultati scolastici nel leggere, scrivere e far di conto. L'intenzione di per sé non biasimabile era quella di premiare le scuole e gli insegnanti che conseguivano i migliori risultati. Sono stati però messi in evidenza diversi effetti collaterali: gli Stati abbassano gli standard per dare un'impressione di risultati migliori; le scuole privilegiano il teaching- to-test, l'insegnamento finalizzato a passare l'esame, e cancellano dal curriculum materie non coperte dai test, come storia e geografia, impoverendo culturalmente gli studenti e la società; i docenti in-segnano a risolvere problemi troppo simili a quelli degli esami e gli studenti non sono in grado di generalizzare. La classifica di Shanghai delle migliori istituzioni di ricerca e insegnamento nel mondo era nata nel 2003 con l'intenzione di comprendere il divario percepito tra le università cinesi e quelle del resto del mondo, ed è stata usata in primo luogo per razionalizzare l'attribuzione di risorse agli studenti cinesi che intendessero studiare all'estero. Ma ha scatenato una corsa alla conquista dei posti alti della classifica (le prime cento, o le prime duecento istituzioni?), con effetti collaterali degni di nota. Per esempio alcuni Paesi accorpano tra loro le università ritenute troppo piccole per raggiungere una massa critica di valori che rispondano ai criteri di Shanghai; gli amministratori e i direttori delle risorse umane si preoccupano della posizione in classifica e condizionano tendenzialmente la ricerca dei loro amministrati. I ricercatori sono misurati (e valutati) sulla base divari indici scientometrici: fattore d'impatto, fattore H, numero di citazioni, numero di pubblicazioni, varie classifiche delle riviste accademiche (con voti che ricordano quelli delle agenzie di rating). Sono stati documentati molti effetti collaterali della proliferazione degli indici: insorgere di comportamenti strategici come la frammentazione dei risultati per ottenere più pubblicazioni, conflitti di interesse nel peer reviewing in cui si cerca di imporre citazioni dai propri articoli, orientamento della ricerca verso temi che possono interessare le riviste ad alto fattore di impatto, non pubblicazione dei risultati negativi con conseguente ridondanza delle ricerche. La letteratura comincia a proporre dei correttivi più o meno radicali per evitare gli effetti collaterali che sono giudicati come controproducenti: dall'abolizione delle richieste statutarie di investire in prodotti finanziari a tripla A, all'esclusione di riviste come Nature e Science dai calcoli scientometrici; dalla proposta di affiancare sempre agli indici scientometrici le analisi qualitative che nascono dalla lettura degli articoli (come indicato dall'Académie des Sciences francese in un recente rapporto), alla sostituzione di valutazioni a tutto campo di un soggetto accademico o di ricerca con controlli casuali approfonditi. In tutti questi casi c'è ancora molto lavoro per una nuova epistemologia della misura. _________________________________________________________________ Il Manifesto 29 ott. ’11 RICERCA LE INSIDIE DELLA VALUTAZIONE DIETRO GLI INDICI BIBLIOMETRICI I numeri tossici che minacciano la scienza In Cina, l'inflazione di articoli alimenta una «bolla scientifica». Un esempio di un metodo di valutazione che vogliono importare in Italia Giuseppe De Nicolao* Numeri malvagi» è il titolo di un articolo di D. N. Arnold e K. K. Fowler, apparso lo scorso marzo nelle Notices of the American Mathernatical Society. I numeri in questione sono quelli degli indicatori bibliometrici usati per misurare l'impatto delle riviste scientifiche e degli articoli in esse pubblicati. Contando le citazioni degli articoli scientifici, si può ricavare non solo un rating delle riviste, il cosiddetto impact factor, ma anche un rating dei singoli ricercatori, costituito dal numero totale delle citazioni o dal più elabo-rato h- index. Finalmente dei ratings perfettamente oggettivi, capaci di premiare i meritevoli e impedire concorsi truccati? In realtà, esiste un vasta letteratura, che vede tra i suoi alfieri anche il premio Nobel per la chimica R. R. Emst, la quale mette in guardia dall'uso degli indicatori bibliometrici come unico criterio per valutare i singoli ricercatori ai fini del reclutamento e della carriera. L'articolo di Arnold e Fowler compie un salto di qualità. Non si limita a enunciare pericoli potenziali, ma svela i trucchi che consentono di scalare le vette dell'Olimpo bibliometrico attraverso il caso di Ji-Huan He, professore dell'Università di Shanghai e direttore del comitato editoriale dell' International Journal of Nonlinear Sciences and Numerical Simulation (Ijnsns). Nel 2010, l'h- index di JiHuan He ha raggiunto un ragguardevole 39, superiore al valore mediano per i premi Nobel per la fisica, stimato intorno a 35. Inoltre, negli anni 2006-2009 la rivista da lui diretta ha ottenuto il miglior impact factor della categoria Matematica Applicata. Concentrandosi sul 2008, Arnold e Fowler hanno scoperto che più del 70% -delle citazioni proveniva da pubblicazioni scientifiche soggette alla supervisione dello stesso Ji- Huan He o di altri membri del comitato editoriale di Ijnsns. Complessivamente, stimano che l' impact factor della rivista (pari a 8.91 nel 2008) fosse sovrastimato di un fattore sette. Anche l' h-index stellare di Ji-Huan He suscita perplessità. Per fare un esempio, è stato citato ben 353 volte in un singolo fascicolo della rivista Journal of Physics: Conference Series, un numero speciale curata dallo stesso 1i- Huan He. Il professore egiziano Mohamed El Naschie è a sua volta protagonista di un caso che ha coinvolto un colosso dell'editoria scientifica e la cui onda lunga è arrivata a toccare una delle più famose classifiche internazionali delle università. Già nel 2009, D. N. Arnold, allora presidente della prestigiosa «Society for Industrial and Applied Mathematics», aveva additato l'anomalia dei 307 articoli di El Naschie pubblicati nella rivista Chaos, Solitons and Fractals, diretta dallo stesso El Naschie. Sempre nello stesso anno, la casa editrice Elsevier rendeva note le dimissioni di El Naschie da direttore della rivista, successivamente rilanciata nel 2010 con un comitato editoriale interamente rinnovato. La prolificità scientifica di El Naschie ha influenzato persino la classifica delle università di Times Higher Education . Nella classifica 2010, l'università di Alessandria di Egitto si è piazzata al 147-esimo posto, guadagnandosi le congratulazioni di Times Higher Education. Ma ancor più clamorosamente, questa università si è classificata al quarto posto mondiale, davanti a Harvard e Stanford. Da subito, si veniva a sapere che lo straordinario risultato dipendeva dall'eccezionale produzione scientifica di un solo ricercatore, pubblicata in una sola rivista scientifica. Poche settimane dopo il New York Times rivelava che si trattava proprio di El Naschie e della rivista da lui diretta. La consapevolezza dei rischi di un uso meccanico degli indicatori bibliometrici si è estesa alla Cina dove, il 25 settembre scorso, l'agenzia Xinhua ha pubblicato un articolo intitolato «La bolla delle pubblicazioni minaccia il progresso scientifico della Cina», subito riprodotto integralmente sul sito dell'Accademia Cinese delle Scienze. La produttività scientifica cinese sta crescendo impetuosamente: secondo il database Scopus, dal 1996 al 2010, la Cina è passata dal nono al secondo posto per numero di articoli scientifici. Tuttavia, le citazioni degli articoli cinesi crescono ad un ritmo assai più lento, evidenziando un'inflazione di articoli di scarso impatto, una vera e propria «bolla scientifica». Se la produzione scientifica venisse depurata dagli articoli di scarso-valore, la crescita cinese ne uscirebbe drammaticamente ridimensionata. L'articolo dell'agenzia Xinhua riprende quanto già apparso su Nature nel gennaio 2010, in un articolo che prendeva spunto dal caso di due ricercatori della Jinggangshan University che avevano falsificato i risultati di 70 loro articoli apparsi su Acta Crystallographyca Section E. Le riserve nei confronti dei criteri di valutazione puramente numerici non vengono più solo dai singoli scienziati, ma sono fatte proprie anche dai vertici scientifici e politici. Gli indicatori bibliometrici diventano tossici quando vengono trasformati in obiettivi, mentre sono solo indizi, da usare con cautela e consapevolezza delle insidie che nascondono. E in Italia? Il ministro Gelmini e l'Anvur spingono proprio verso l'uso di formule automatiche basate su indici numerici. Corriamo così il rischio di seguire una moda che mostra già diverse crepe. _________________________________________________________________ Il Manifesto 29 ott. ’11 L'AURA PERDUTA DEGLI ATENEI La difesa dell'attuale università pubblica o le proposte di gestirla come una impresa lasciano inalterato il potere dei «baroni». Mentre la trasmissione del sapere è regolata secondo menù che hanno come unici piatti precarietà e dequalificazione. Una riflessione a partire da un volume del filosofo francese Pierre Macherey L università è più inoperosa che mai in Italia e nel mondo occidentale. Per «inoperosità» biso- gna intendere la distanza tra questa istituzione infrequentabile dalla logica economica e dall'impiegabilità sociale o professionale che hanno ispirato tutte le azioni riformatrici intraprese dalla destra o dalla sinistra nell'ultimo ventennio. È ormai emersa una separazione tra la sua finalità ultima, quella che per un paio di secoli è stata considerata la sua «essenza», e i mezzi adatti per incarnarla in saperi e comportamenti, in leggi o in una qualsiasi for- ma di utilità sociale o economica. Sono almeno tre i tentativi che hanno provato a dare forma, in primo luogo linguistica e poi politica, al buco nero in cui si è dissolta un'istituzione già ripiegata su se stessa, protetta da un recinto dove gli «accademici» continuano a ripetere cerimonie ritualizzate, ignorando irresponsabilmente che il diluvio è già arrivato e quella che li ha travolti è la fine di un mondo che continua a persistere solo per- ché provvede a versare uno stipendio a fi- ne mese. L'autogoverno dei «sapienti» Parliamo della tesi che difende l'«università pubblica» (la sostengono i sindacati, una parte dei movimenti studenteschi e la sinistra), proseguimo con quella che protegge l'ordine delle «corporazioni» dei veri padroni dell'università (i «baroni») e, infine, approdiamo alla tesi ultra-liberi- sta che considera l'università un'agenzia di collocamento per il lavoro precario e dequalificato e pretende che essa sia gestita come un'azienda privata (Confindustria, una parte del Pd e tutta la destra). Una sintesi forse troppo sbrigativa, ma necessaria per identificare il fondamento indiscusso che accomuna ipotesi così di- verse. Ciò che è in «crisi» è la mediazione filosofica esercitata dall'organizzazione universitaria per almeno tre secoli nella produzione e nella trasmissione dei saperi. Tutte le opzioni in campo cercano di restaurare il molo della mediazione una volta scomparsa la possibilità di realizza- re quella filosofica stabilita nel 1798 da Kant nel saggio sul «Conflitto delle facoltà». L'autore della Critica della ragion pura aveva assegnato alla filosofia il ruolo di interfaccia che, da un lato, assicurava l'auto-governo dei «sapienti» e l'esoterica libertà di ricerca della verità e, dall'altro lato, salvaguardava l'autorevolezza pubblica dell'università e la promozione delle competenze tra coloro che non svolgevano una ricerca «pura» ma si dedicavano alle professioni, all'industria o alle altre attività nella società. Oggi che il ruolo di mediazione svolto dalla filosofia è impraticabile, tutte le opzioni che cercano una soluzione alla crisi dell'università aspirano a prenderne il posto partendo tuttavia dagli stessi presupposti. Come la filosofia, e la sua ragion pura, anche la ragione imprenditoriale o quella che difende i valori costituzionali e il valore sociale della conoscenza sono fondate sulla rigida partizione tra pubblico e privato e sulla competizione tra Stato e mercato. Sin dalla nascita dell'università moderna la conoscenza è stata considerata come un bene da governare attraverso la riduzione della molteplicità dei saperi in una rigida gerarchia di potere. In questa cornice se Confindustria intende vinco- lare l'università al «mercato», i sindacati e la sinistra sì smarcano e desiderano tornare a vincolarla allo «Stato». Nessuna delle parti in conflitto considera che il problema resta fa mediazione che, in mancanza di interlocutori, è finita da tempo nelle mani delle «baronie». La desertificazione dell'università, e la neutralizzazione di ogni forma di contro-potere, ha permesso alle corporazioni di gestire l'università come una proprietà privata. Con risultati disastrosi, visto che la Crui ha contrattato con il Ministro Gelmini l'approvazione della sua «riforma» e, in cambio, non ha mai ottenuto il rifinanzia- mento del sistema universitario che era stato promesso. UN MONDO AL TRAMONTO Solo un errore di prospettiva potrebbe confinare questa situazione allo scenario italiano. In realtà, come scrive uno dei più raffinati filosofi francesi viventi, Pierre Macherey, che ha da poco mandato in stampa La parole universitaire (La Fabrique, pp. 343, euro 18), la fine della mediazione filosofica esercitata dall'università è già contenuta nelle premesse della sua storia moderna. La tesi del filosofo è presto riassunta: tutte le soluzioni per rimediare a questo vuoto discendono dal- l'idea dell'università come Alma Mater, cioè di un'organizzazione del lavoro intellettuale che federa numerose corporazioni accademiche in nome di un interesse generale, che può essere alternativamente quello dello Stato (o della «società»), oppure quello ispirato al «mercato». Rispetto al testo fondatore di Kant, al discorso pronunciato da Hegel quando salì in cattedra a Berlino nel 1818 o a quel-lo del «rettorato» di Heidegger nel 1933, il modello dell'Alma Mater non è più prati-cabile. La finanziarizzazione dell'economia, e la precarietà dominante nell'organizzazione del lavoro, hanno sconvolto anche la grammatica dei saperi e le loro modalità di apprendimento e di produzione. Lo Stato non può certo stabilire i contenuti della produzione scientifica, perché finirebbe per distruggere l'indipendenza dei ricercatori; non è però preferibile affidare l'università alle agenzie di rating che già hanno devastato i debiti sovrani; e non è nemmeno possibile credere nell'«autonomia» dell'accademia che nell'ultimo trentennio ha rafforzato le premesse dell'implosione dell'università. Macherey non è tuttavia un'iconoclasta e nemmeno un anacronistico riformatore che vorrebbe cancellare l'università attuale per tornare alle società dei letterati o delle corporazioni. Il filosofo francese ristabilisce un'antica verità: l'università è da sempre in crisi perché non corrisponde ad un ordine indistruttibile. Essa è invece una «cosa» mobile, o meglio un «rapporto socia-le» deperibile, storicamente e socialmente determinato da chi la frequenta e ne gode i benefici delle conquiste scientifiche e non solo da chi pensa di migliorare la propria posizione professionale, magari strumentaizzando i dati prodotti dalle multinazionali della valutazione come Elsevier o Sco-pus. Macherey giunge così al più urgente, e forse ancora impensato, problema politi-co del nostro tempo: è possibile creare una nuova istituzione a partire da quelle anti-che in rovina? E quali soggetti potranno sviluppare il potere costituente, visto che quelli esistenti condividono un'idea del go- verno che non è alternativa alla crisi, ma ne è la premessa? A questi interrogativi il filosofo francese non risponde, anche se pro-spetta una soluzione: la democratizzazione dell'università dipende dall'abolizione della didattica à la carte e della ricerca ri-dotta ad applicazione industriale; ma an-che dalla riabilitazione di una formazione progressiva, pluridisciplinare e separata da ogni finalità professionalizzante. Un gioco di specchi Per realizzare questa trasformazione, non basta l'aumento degli investimenti nella ri-cerca e nello sviluppo (tesi di Bankitalia condivisa dalla sinistra), né immaginare il «concorso perfetto» per risolvere il problema del precariato. L'università deve cessa-re di essere il luogo del corporativismo ad uso e consumo di chi è beneficiario dei suoi privilegi. Dalla sua innominabile mise-ria si può sfuggire solo rifondando l'idea di «autonomia», cambiando i rapporti di poteri all'interno degli atenei, così come nella società di cui l'università è specchio morta-le, ma pur sempre fedele. _________________________________________________________________ Micromega 25 ott. ’11 D’OORSI:ATENEI SENZA MERCATO Angelo D'Orsi Il testo che segue di Angelo D'Orsi appare nella sua forma integrale nell'ultimo numero di «MicroMega», dedicato all'«AltraItalia». È sull'università e la ricerca, cioè i settori che hanno visto forti e diffusi movimenti sociali contestare le proposte di riforma dell'università varate da governi di centrosinistra e di centrodestra. Il punto forte dell'analisi proposta dallo storico piemontese è la critica a una formazione basata su logiche mercantili che hanno caratterizzato le politiche statuali negli ultimi tre decenni per far tornare l'università e la ricerca luoghi in cui il sapere deve essere trasmesso per sviluppare attitudini critiche. Poco o nulla tuttavia viene detto sul fatto che l'università è diventata il luogo in cui si addestra alla precarietà e dove il sapere è già adesso commisurato, cioè impoverito per aderire alla domanda di forza lavoro a «bassa intensità di conoscenza». E poco dice del fatto che l'università e la ricerca hanno nella precarietà uno dei pilastri che consentono il loro funzionamento. È però un testo che ha il pregio di presentare proposte che possono incontrare l'interesse proprio di quei movimenti sociali che hanno caratterizzato l'università e la ricerca. E quindi un'occasione per riprendere il filo rosso della discussione sul presente e un auspicabile futuro. Le diverse riforme succedutesi negli ultimi anni, culminate nell'obbrobrio firmato dalla signora Gelmini (ma il vero autore è il contabile Tremonti), hanno prodotto un progressivo peggioramento, sotto ogni aspetto, della scuola, dell'università e della ricerca in Italia. Che questi tre comparti, che sono decisivi in qualsiasi comunità organizzata statualmente, siano ancora funzionanti, pur malamente, malgrado i formidabili colpi ricevuti, dimostra che non di improvvide «riforme» più o meno «complessive» essi avevano bisogno, ma di finanziamenti adeguati, di impegno del personale (e per scuola e università, anche del corpo studentesco), e, a monte, di serietà del ceto politico: il che significa disposizione a recepire le istanze provenienti da coloro — docenti, ricercatori, discenti, personale tecnico e amministrativo — che in quelle strutture vivono. O meglio, difficoltosamente sopravvivono. SEPOLTI DAL 3+2 La premessa implica dunque un azzeramento degli ultimi quindici vent'anni, con il conseguente tentativo di riparare un terreno calpestato e devastato da politici incolti, sovente rozzi, assecondati da gruppi o singoli docenti intesi a costruirsi o conservare nicchie di potere personale o di gruppo, sulla base di collusioni con centri di potere economico e finanziario che stanno cercando di allungare i loro tentacoli su un mondo che dovrebbe produrre innanzitutto sapere, sapere critico e «disinteressato», ossia non funzionale a ciò che il mercato richiede, che è sempre subordinato a logiche di mero profitto, a intenti predatori, animato da una «filosofia» pronta a confondere, non casualmente, ricerca e utilities. E vengo all'Università, non senza aver precisato che sarebbe auspicabile modificare la denominazione del ministero, reintroducendo l'aggettivo «pubblica», prima dei tre sostantivi che lo definiscono (ora Miur, ministero dell'Istruzione Università e Ricerca), poiché in politica i simboli contano e contano i messaggi indiretti. Con la reintroduzione di tale aggettivo sarebbe manifesto che un governo di vera alternativa intende occuparsi di formazione pubblica, ossia gestita dallo Stato o da enti pubblici, nell'interesse dalla maggioranza della popolazione che vive in questo paese. E se il privato, come sponsor, entrerà nei gangli del sistema scolastico, universitario e della ricerca, dovrà farlo alle condizioni che il pubblico stabilisce. In breve, un serio programma consiste nella totale cancellazione delle «riforme» devastanti, su ogni piano, che si sono succedute nel corso degli ultimi tre lustri circa, a partire dalla madre di tutte le sciagure universitarie, e scolastiche: la cosiddetta riforma Berlinguer (...). La cancellazione del sistema 3+2 (che, come ha impietosamente mostrato un caustico pamphlet di Gian Luigi Beccaria, è «uguale a zero») costituisce il punto essenziale di un programma che davvero vuole rilanciare l'università, il quale non può non configurarsi come un vero e proprio ritorno, ma non all'indietro, bensì al futuro, in quanto se non si correggono gli errori— gravissimi — del passato, non è possibile costruire un futuro e si andrà verso l'estinzione del sistema educativo e dell'intero comparto ricerca nel nostro paese. (...) La riforma Berlinguer è stata in vero ampiamente ripresa e continuata, nei suoi elementi più deteriori, dalla signora Letizia Moratti — fortunatamente infine scacciata dal regno milanese che il cavaliere di Arco- re le aveva donato — e in parte anche dai successori di costei, in una strabiliante continuità nella differenza, che ha finito per accumulare macerie su macerie: sotto quelle tonnellate di cemento, tubi di gomma, pietre, catrame, cavi di acciaio spezzati, giace la grande scuola italiana (...). La logica che dovrà guidare le nuove politiche per l'università e la ricerca dovrà essere del tutto estranea a quella attuale, mercantilistica e aziendalistica, fondata su un malinteso concetto di efficienza, sull'esiziale combinato disposto tra lassismo e didattocrazia (come l'ha chiamata Giorgio Bertone), tra la mitizzata «autonomia» (fasulla e insieme pericolosa) e il persistente burocratismo centralistico. La nuova università dovrà altresì rifiutare l'idea di un sistema, opportunamente aziendalizzato, che gerarchizza gli atenei, in modo che ogni classe, ogni individuo, ogni ambiente sociale abbia la «sua» università (...). La necessaria disciplina L'esame di maturità deve riguadagnare il suo significato di porta d'accesso all'età adulta e di verifica di un impianto culturale complessivo nel senso gramsciano (...): ossia «organizzazione, disciplina del proprio io interiore, presa di possesso della propria personalità, conquista di coscienza superiore, per la quale si comprende il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri» (così scriveva Gramsci nel gennaio 1916). Non certo un ritorno all'Ancubo maturità», ma un netto voltare pagina rispetto alla scandalosa faciloneria attuale (....). Da quella porta larga oggi escono studenti che per la gran parte «prova» l'iscrizione a una facoltà universitaria, spesso in modo casuale, senza una base sufficiente per affrontare alcun corso di studio, ponendosi così le basi per quel catastrofico tasso di abbandono per ovviare al quale (tale la giustificazione fornita a suo tempo) si giunse al famigerato 3+2: che viene chiamato laurea breve. Denominazione significativa, che sanciva il carattere classista (...) di un'università che avrebbe dovuto liquidare con una pseudolaurea i figli dei ceti subalterni, ove fossero riusciti a varcare le colonne d'Ercole delle accademie. (...) L'assimilazione della scuola -= dalle elementari alle università — all'azienda ha prodotto guasti epocali. Allora, sarà opportuno ribadire e precisare un punto fermissimo: la scuola, di ogni ordine e grado, deve formare, non deve produrre profitto. (...). Così come la ricerca non deve esser funzionale al mercato, ma piuttosto deve andare incontro ai bisogni della collettività: si fa ricerca scientifica per produrre conoscenza, che non sempre è direttamente e immediatamente «utile» a qualcuno, o fruibile dal mercato; la conoscenza, d'altronde, è utile in sé. (...) Dopo quel livello, dunque opportunamente riqualificato, gettando a mare ogni forma di «nuovismo» e di cialtroneria pseudo libertaria (ancora ci sovviene Antonio Gramsci, che irrideva alla «libertà di rimanere asini»), deve partire la formazione universitaria: formazione non obbligatoria, ma volontaria, che va incentivata, sicuramente, e facilitata potenziando soprattutto le strutture, rafforzando o creando ex novo istituzioni di sostegno allo studio, favorendo l'edilizia universitaria, e intervenendo sul mercato degli affitti nelle città e nelle zone universitarie del paese, attraverso tutti gli strumenti consentiti dalla legge. La babele dei corsi di studio I corsi di studio o di laurea dovranno essere drasticamente ridotti, risalendo quella china esiziale che si è percorsa a precipizio negli anni scorsi, parcellizzando il campo del sapere, seguendo la dannosa utopia della specializzazione precoce, sulla base, sempre, dell'idolatria del mercato: ossia formare i discenti non sulla base di un progetto culturale, ma cercando di intercettare di volta in volta le «esigenze» del mondo produttivo. Se questo è stato il presupposto della «nuova università» italiana, rovesciandolo potremo procede-re a un recupero non della «vecchia» ma di una università che abbia in sé la propria dignità e la propria ragion d' essere.11 percorso universitario dovrà riacquistare la sua forma a imbuto, cominciando, sia pure nelle scelte di area, dal generale per concludersi nello specifico. In tal senso, i corsi di studio dovranno essere unificati sulla base di un primo biennio comune, e con una successiva, progressiva, ma «dolce» specializzazione, nel seguente biennio. La durata dei corsi dovrà essere riportata al quadriennio, con le eccezioni per alcune facoltà particolarmente «pesanti», come giurisprudenza, scienze, medicina, ingegneria. Occorre tornare alla laurea unica, riqualificata in termini di programmi di studio, e di serietà degli accertamenti e delle verifiche. (...). RECLUTAMENTO DEI DOCENTI Qui si affaccia il problema dei problemi, per quanto concerne l'università: il reclutamento. Mi sono convinto, nella mia carriera di docente, che la cooptazione, fatti salvi certi principi generali, sia un buon sistema, anzi sia il sistema più ovvio e sensato nell'università. La storia accademica infatti ci insegna che solo attraverso la cooptazione si creano le «scuole», e che solo gruppi di allievi che fanno comunità con i loro maestri, diventando a loro volta maestri, sono in grado dì gareggiare virtuosamente tra loro. Se docenti mediocri reclutano allievi mediocrissimi, ne pagheranno il fio; anche in termini di perdita di capacità di attrarre discenti e dunque risorse. (...). Naturalmente occorrono dei criteri generali, che ciascun «gruppo disciplinare» indicherà in modo rigoroso, sulla base di indicazioni di massima del ministero, che garantiscano un'omogeneità di fondo, che non mortifichi tuttavia le specificità. Il peso delle esperienze formative diverse, i soggiorni in altre sedi e all'estero, l'attività di ricerca e quella didattica, le pubblicazioni (con una tipologia definita), e quant'altro. Cooptazione non si identifica con premiazione dei «candidati interni» ad ogni costo. Se sono capre, restino a brucare. (...) I ricercatori dovranno diventare una fascia docente a tutti gli effetti, con compiti ben individuati, doveri e diritti definiti, che lascino loro un congruo spazio per la ricerca, dunque con obblighi didattici ridotti rispetto alle altre due fasce. Nel concorso per professore associato, si terrà la lezione (col vecchio sistema del sorteggio e della scelta) e la discussione dei titoli; in quello per ordinario, rimarrà il solo esame delle pubblicazioni e dei titoli. Tre liste di idoneità, dunque, create da commissioni di concorso elette dagli aventi diritto, reintroducendo il principio che per ciascuna delle due fasce inferiori occorre la presenza di un esponente di quella fascia (...). Si collega al reclutamento, la questione importante della mobilità. Sono propenso a stabilire come obbligatorio un periodo di soggiorno in sedi universitarie, italiane o straniere, diverse da quella in cui ci si è formati Anzi, il ministero si dovrà impegnare a favorire con incentivi sostanziosi i docenti e con sostegni le facoltà per facilitare la mobilità interna. Rinunciando ad ogni tentazione di nomina dei rettori, vuoi dal centro (ministero), vuoi dalla periferia (consigli di amministrazione) è opportuno stabilire l'elettività di tali cariche. All'elezione dei rettori debbono concorrere, con il massimo di democrazia, tutte le componenti di ateneo. E gli statuti di ateneo devono essere stesi (o riveduti) con il concorso di tutti, compresi i «precari della ricerca», cui deve essere fornita al più presto una possibilità di stabilizzazione in base alle esperienze didattiche e di ricerca — ivi compresi i loro risultati, ossia le pubblicazioni — at-traverso i nuovi sistemi di reclutamento. Si deve inoltre investire nei dottorati di ricerca, ampliandone decisamente il numero e riequilibrando il rapporto tra facoltà umanistiche e scientifiche, cancellando l'obbrobrio del «dottorato senza borsa», favorendo anche l'ingresso di sponsor privati, ma senza concedere loro alcun titolo di indirizzo o scelta sul piano della ricerca, che.deve essere pensata in modo indipendente dal mercato. I privati potranno entrare come erogatori di borse e contributi di ricerca, che dovranno essere previsti per sostenere i giovani nel passaggio dal dottorato all'inserimento nel ruolo dei ricercatori. (...) Una democrazia sostanziale L'elezione del rettore, e di tutte le cariche gestionali e direttive degli atenei, dovrà essere il banco di prova della democrazia interna, ma anche del loro buon funzionamento. Occorre stabilire come obbligatorio il giudizio degli studenti sulla qualità della didattica, con un sistema di premi e sanzioni per i docenti migliori e peggiori, che incida anche sugli avanzamenti di carriera. Ma è necessario altresì aumentare il peso della rappresentanza studentesca nei consigli di facoltà, nel consiglio di amministrazione, nel Senato accademico, che deve rimanere il solo organo di, comando degli atenei nel suo seno il rettore sarà un primus inter pares. La regola dei due mandati, consecutivi o meno, deve essere non derogabile, per i rettori come per tutte le altre cariche (presidi, direttori di dipartimento e di istituti eccetera). Si dovranno, infine, stabilire forme di valutazione interna, e di controllo, del lavoro dei docenti e del personale amministrativo e tecnico: non si può tollerare impunemente che un docente salti le lezioni o gli esami o si autoriduca il monte ore o si faccia sostituire da persone non provviste dei requisiti sostanziali e formali. _______________________________________________________ Il Riformista 30 Ott. ‘11 SE IL FISCO SA CHE VAI ALL'UNIVERSITÀ Il redditometro : pare che nelle spese che saranno sotto il controllo del fisco entrino anche quelle per l'istruzione. Lì dentro finiscono tutte le spese che le famiglie affrontano per la scuola. Dall'asilo nido fino ai master post universitari. Si tratta di un'offesa nei confronti di tutte le famiglie che fanno figli. Lo Stato, invece di dare un aiuto, invece di fornire un servizio gratuito a chi ha un figlio piccolo e non può permettersi di stare a casa, usa le spese che le famiglie sostengono di tasca propria sostituendosi al famoso stato sociale per cercare di portarci via quel poco che rimane per campare. Invece di dare sostegni allo studio come nel resto d'Europa, come in Finlandia dove le università sono gratis, e i risultati si vedono, si usa l'istruzione come indicatore di una condizione di benessere alla pari dell'auto sportiva o della barca. ALTERSIZIO ZONZOVALD _______________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Ott. ‘11 GELMINI: NO A TASSE UNIVERSITARIE PIÙ ALTE Nessun aumento delle tasse universitarie. Parola del ministro Mariastella Gelmini che, interpellata dal Sole 24 ore, è categorica: «Non c'è e non ci sarà». Di fatto smentendo la previsione contenuta nella lettera all'Unione europea dove, alla voce, valorizzazione del capitale umano si dice, tra le altre cose, che «si accresceranno i margini di manovra nella fissazione delle rette di iscrizione, con l'obbligo di destinare una parte rilevante dei maggiori fondi a beneficio degli studenti meno abbienti». Un passaggio che ricorda la proposta avanzata da questo giornale nel manifesto per la crescita di fine luglio ma che il ministro dell'Istruzione non condivide: «Non ci sarà nessun aumento delle tasse - spiega - ma lotta agli sprechi e più trasparenza e omogeneità nei bilanci onde evitare di fare pagare il prezzo agli studenti che potranno usufruire di più servizi e borse di studio». Atea- verso l'attuazione entro fine anno della riforma dell'università e ravvio della fondazione per il merito. Con tempi più lunghi si tornerà sull'abolizione del valore legale della laurea. Che, per la responsabile del Miur, garantirà «una maggiore liberali7zazione» capace di valorizzare l'autonomia dei singoli atenei e «diminuire i poteri dello Stato centrale _______________________________________________________ Il Manifesto 30 Ott. ‘11 IL BLACK BLOC DELLE TASSE UNIVERSITARIE Da vent'anni le università italiane sono assaltate dai black bloc liberisti che sperano di supplire ai tagli dei fondi per gli atenei aumentando le tasse degli studenti e indebitando le loro famiglie. Una pattuglia del blocco nero deve avere conquistato anche Confindustria che qualche mese fa ha licenziato i «nove impegni per la crescita». In questo documento l'aumento delle rette universitarie viene considerato il volano per frenare il declino della ricerca. Un simile riconoscimento non poteva non avere un seguito e infatti ha conquistato il posto d'onore nella lettera che Berlusconi ha inviato all'Ue qualche giorno fa. Tra i punti qualificanti, si fa per dire, di questo testo c'è ancora lui, il ritornello delle tasse universitarie. Anche il ministro Gelmini non ha mai perso di vista l'obiettivo dei «riformatori» liberisti. E così, dopo avere tagliato il diritto allo studio dell'89%, ha rafforzato le basi dell'incubo neo-liberista per eccellenza: gli studenti devono indebitarsi per studiare e pagare gli interessi sui master che producono inoccupati. Pagare è sintomo di «qualità» e «responsabilità», il denaro è il nemico del 99% dei «fannulloni» e premierà la «meritocrazia» dell'1% a suon di cartelle esattoriali. Sarà così che sin dall'ultimo anno della scuola gli studenti busseranno alla porta del «fondo per il merito» che eroga le borse di studio per i «meritevoli e i non abbienti» e le poche risorse a disposizione finanzieranno i «prestiti d'onore». Mezzo Pd è stato conquistato dall'unico blocco nero ben accetto in società. Lo scorso maggio i senatori Ichino, Ceccanti, Marino, Morando, Rusconi, Tonini, Treu, Valditara per Fli e Rutelli per l'Api, hanno presentato un'interrogazione chiedendo un aumento delle tasse sul modello inglese. Anche la Crui ha fatto sentire una voce di saggezza. In un promemoria inviato al Ministro Gelmini prevede l'aumento delle tasse per contrastare gli effetti perversi dei tagli. Gli studenti italiani hanno un cappio al collo ed è per questo che continuano a protestare in piazza dell'Unità d'Italia a Trieste dove da due giorni hanno piantato le tende, oppure a Palermo dove venerdì hanno sfilato in 5 mila. Il loro futuro parlerà americano. Negli Usa, le tasse scolastiche sono raddoppiate in 10 anni e il debito medio per studente si aggira sui 28 mila dollari. Uno scenario terrificante contro il quale il 15 novembre si mobiliteranno sindacati, studenti e ricercatori. Chiederanno a Tremonti e al governatore di Bankitalia Visco (ma non alla Gelmini) un finanziamento straordinario di 9 miliardi per la ricerca Una ragionevole provocazione in attesa di un prevedibile diniego del blocco nero al potere. _________________________________________________________________ La Gazzetta del Mezzogiorno 24 ott. ’11 UNIVERSITÀ E POLITECNIO DICONO ADDIO ALLE FACOLTÀ Nei prossimi giorni l'approvazione delle norme fondamentali: nei consigli di amministrazione entrano anche i privati COSÌ NASCONO LE «SCUOLE» Con l'applicazione della riforma tutto íl potere va ai Dipartimenti LUCA BARILE La riforma Gelmini diventa operativa anche nei due atenei baresi. Sia l'Università e sia il Politecnico approveranno questa settimana i rispettivi nuovi statuti, praticamente la raccolta delle norme fondamentali interne che ridefiniscono l'organizzazione accademica per adeguarla alla legge che ha cambiato il sistema universitario italiano. Tra le novità più rilevanti ci sono la soppressione delle facoltà, tranne quella di Medicina che conserva la sua autonomia e la denominazione, il trasferimento delle attività didattiche (la gestione dei corsi di laurea) ai dipartimenti di ricerca, la riorganizzazione di questi ultimi (spariscono le ministrutture) e l'introduzione delle scuole, cioè degli organi di raccordo tra due o più dipartimenti con il compito di coordinarne l'attività didattica. Inoltre, viene istituita la figura del direttore generale, in sostituzione del direttore amministrativo, con un mandato triennale rinnovabile una sola volta, mentre il rettore resta in carica sei anni senza possibilità di essere rieletto. Soprattutto, la riforma cambia la composizione degli organi di governo degli atenei, ovvero il senato accademico e il consiglio di amministrazione, in particolare con l'ingresso, in quest'ultimo, dei privati e l'acquisizione di nuove funzioni, come l'istituzione e la soppressione dei corsi di laurea, che prima toccavano al senato. Muovendosi, poi, tra i paletti imposti dalla Gelmini, i due atenei cittadini ci hanno anche messo del proprio. L'Università, per esempio, ha previsto un consiglio di amministrazione di nove membri, mentre la legge prevedeva un massimo di undici, in cui siederanno due componenti esterni, ovvero il minimo previsto dalla stessa normativa, che verranno individuati con una selezione pubblica. I timori di chi paventava il rischio di una privatizzazione delle università, in questo modo, appare, dunque, meno incombente. Nella ripartizione dei seggi, poi, gli studenti sono riusciti ad assicurare la presenza di due loro rappresentanti, dopo aver rischiato di ottenerne solo uno, mentre altri quattro consiglieri saranno eletti tra i professori, i ricercatori ed il personale tecnico e amministrativo dell'Ateneo. Unico membro di diritto sarà il rettore, che presiederà l'assemblea. Lo stesso accade per il Politecnico, ma con un componente in più per la categoria dei docenti per complessivi dieci seggi, anziché nove. I due atenei discuteranno le bozze dei nuovi statuti domani e mercoledì, per quanto riguarda l'Università, con un doppio passaggio rispettivamente al senato accademico, che dà un parere, ed al cda che lo approva (entrambi con le attuali composizioni), mentre il Politecnico ha convocato entrambe le assemblee per domani. Alla vigilia della discussione, non si prevedono colpi di mano, in quanto i rettori, Corrado Petrocelli e Nicola Costantino, hanno organizzato i lavori preparatori in modo da coinvolgere le varie componenti delle due comunità accademiche. Per quanto riguarda il senato accademico, per esempio, l'Ateneo prevede un'assemblea di trentatre persone, mentre il Politecnico di diciannove, ed in particolare l'Università ha riservato, oltre i cinque rappresentanti degli studenti, anche un seggio ai dottorandi di ricerca. Per la prima volta, inoltre, la legge prevede la presenza dei direttori dei dipartimenti nei senati accademici. Dopo l'approvazione dei rispettivi consigli di amministrazione, i due atenei invieranno i propri statuti a Roma, al vaglio del ministero per l'Università, che se non troverà nulla da eccepire ne autorizzerà l'entrata in vigore. _________________________________________________________________ Il Sole34Ore 24 ott. ’11 NON CHIAMATELI MINI-LAUREATI Il 42% trova lavoro a un anno dal conseguimento del titolo triennale di Eugenio Bruno ( Che li si chiami lauree «mini», «brevi» o di «primo livello» cambia poco. La sostanza è che il mercato del lavoro comincia a non considerarle più "figlie di un Dio minore". Come dimostra una ricerca del centro di ateneo per la ricerca educativa e didattica (Cared) dell'università di Genova secondo la quale, a 12 mesi dal termine degli studi, il 42" dei laureati triennali 2009 risultava occupato. Lo studio condotto da Giunio Luzzatto del Cared e Roberto Moscati della Bicocca di Milano ha il merito di incrociare ove possibile le (fin qui non incrociabili) elaborazioni di Alma- laurea e del consorzio Stella. Portando a 63 il numero di atenei rappresentati e al 7o% la quota del campione censito rispetto a tutti i laureati triennali italiani del 2009. I due autori sottolineano come l'opinione pubblica sia spesso «indotta a pensare che riferendosi ai laureati di primo livello non si possa parlare di occupazione se non in casi molto particolari (professioni sanitarie). In realtà - scrivono - non è così». E qui citano il 42,1% di occupati a un anno dalla laurea, che scende al 27,5% se si guarda solo a chi non prosegue gli studi. Valori che tra l'altro risultano costanti rispetto al biennio precedente. E «tenuto conto della perdita generale di lavoro nel Paese in conseguenza della crisi - spiegano - ciò è un risultato positivo, anche a confronto con la caduta che vi è stata invece nei livelli occupazionali dei laureati magistrali». Il dato medio però non basta. Attingendo ai numeri della sola Almalaurea il dossier cimostra un quadro abbastanza variegato. Dove accanto ai picchi di Professioni sanitarie (81,7%), Educazione fisica (66,5%) e Insegnamento (60,3%) si trovano i valori bassi di Geo- Biologico (22,9%) e Ingegneria (24,5%). Con una media che, se si estrapola il campo medico, rimane comunque interessante poiché si assesta al 38 per cento. Questi numeri, dice Luzzatto al Sole 24 Ore, dovrebbero indurre le università «a rendere più vicine al lavoro le lauree di primo livello». Ad esempio «prevedendo degli stage per chi non vuole proseguire gli studi o aumentando la flessibilità curriculare per evitare che ci siano lauree che vanno meglio e altre peggio». Anche se il direttore di Almalaurea, Andrea Cammelli, invita a maneggiare con cura i dati sull'occupazione e a diffidare dalle medie che, per loro natura, «sintetizzano situazioni diverse». Specie «in un Paese che fa fatica a collocarsi sul fronte giovani». Nel frattempo alcuni atenei stanno provando ad attrezzarsi. È il caso di Bergamo che dal 2004 ha avviato un marketplace per gli stage in collaborazione con Confindustria. A illustrare i risultati dell'ateneo orobico è Piera Molinelli, prorettore delegato all'orientamento: «Pur non avendo corsi di laurea in professioni sanitarie noi siamo a145,1% di occupazione a un anno dalla laurea». Uno dei segreti - oltre a quello di poter lavorare su numeri piccoli e quindi più «governabili» - è lo svolgimento di tirocini o stage intra-curriculari: «Oltre il 7o% dei laureati triennali ne fa uno durante il corso di studi», conferma Molinelli. A favore della collaborazione tra aziende e università si pronuncia anche Alberto Meomartini. Il presidente di Assolombarda evidenzia come i laureati triennali siano apprezzati dalle imprese «perché arrivano al lavoro più giovani e questa è una caratteristica importante». Il punto è affermare le competenze rendendo i loro profili professionali compatibili con l'esigenza delle realtà produttive. Per Meomartini ci si può riuscire puntando sul «dialogo». Tra atenei e imprese e all'interno di queste ultime così da superare la convinzione diffusa che i laureati triennali siano «incompleti». Uno degli strumenti per adeguare gli skills dei laureati brevi è garantire la qualità degli stage. «E noi - ricorda Meomartini - abbiamo fatto un accordo in tal senso con tutte le università milanesi». _________________________________________________________________ Il Corriere della Sera 26 ott. ’11 IL POLITECNICO PREMIATO A WASHINGTON Il Politecnico di Milano prima di Stanford e Princeton. Due studenti di ingegneria gestionale hanno superato colleghi di prestigiose università nella «Best Undergraduate Paper Cornpetition 2011», gara organizzata dall'Intemational Atlantic Economie Society. Giacomo Saibene e Silvia Sicouri hanno vinto con un lavoro sugli effetti delle svalutazioni monetarie sulla crescita di Paesi i via di sviluppo. Dopo una selezione su 77 «papers», i quattro finalisti si sono sfidati il 22 ottobre a Washington. Ogni «squadra» ha illustrato il proprio lavoro davanti a professori ed esperti . Gli studenti del Politecnico hanno convinto più degli altri, portano a casa un assegno di 5oo dollari e la pubblicazione sull'Atlantic Economic Journal _______________________________________________________________ Il Sole34Ore 23 ott. ’11 IL DOPPIO VALORE DELLA CULTURA STRATEGIE DI LUNGO PERIODO di Walter Santagata Quando si vive una esperienza di crisi in campo culturale si impongono due scelte: ridefinire le priorità nazionali e avviare il ricambio della classe dirigente. Quando la crisi attanaglia la cultura e la sua politica si sente il bisogno di ripartire, di eliminare le duplicazioni inutili, di rimettere ordine nella scala delle priorità, di rifiutare i cosiddetti «tagli o risparmi lineari», che iniquamente trattano in modo eguale situazioni fortemente diseguali. Un gruppo dirigente si è compromesso in vecchie e inadeguate politiche: va cambiato, va ricreata una nuova direzione. In fondo questi due obiettivi: ridisegnare le priorità culturali nazionali e lavorare alla costruzione di una nuova classe di imprenditori culturali è l'ambizione del Forum che si svolgerà a Firenze nell'autunno del 2012 i cui temi saranno anticipati dal convegno «Produrre Cultura: patrimonio, paesaggio, industria creativa» che si terrà a Firenze il 29 ottobre 2011. La Fondazione Florens che ne è l'animatrice crede in questa sfida e si sta attrezzando con la mobilitazione di intellettuali e talenti culturali, di livello nazionale e internazionale. L'obiettivo prioritario della produzione di nuova cultura, e quindi della inevitabile importanza delle industrie creative, è caratterizzante di una visione matura del rapporto tra cultura e sviluppo economico sostenibile. È però anche il riconoscimento di un doppio valore della cultura: come motore della crescita economica, dei redditi e dell'occupazione e come fattore di miglioramento della qualità sociale. Da molti anni siamo alla ricerca di più efficienza nella gestione dei musei, dei siti archeologici come Pompei, delle orchestre sinfoniche, della lirica ,e del cinema. Alcune buone leggi, come la Legge Ronchey del 1993, hanno favorito buoni risultati. Anche l'arte contemporanea è oggi vista come sistema dal forte connotato di mercato. Tuttavia questa linea di condotta non ci basta più. Ci rendiamo conto che il valore della qualità sociale è qualcosa di superiore. Vogliamo che la nuova cultura prodotta non solo posizioni il nostro paese nello scacchiere della competizione internazionale, ma che favorisca l'inclusione sociale, consenta ai cittadini di realizzare più compiutamente i loro piani di vita, promuova il dialogo, la fiducia reciproca e la cooperazione. In una parola vogliamo che i nostri musei si trasformino in centri culturali dialoganti e attenti più alla alterità che a vecchie identità che generano barriere barriere sociali. Vogliamo che le nostre città diventino, come molte lo furono, città creative dove la qualità della vita è alta e nobile. Per queste ragioni, molto brevemente esposte, uno degli assi del futuro Forum riguarderà le industrie creative. Perché la creatività per la qualità sociale, come si è più volte argomentato nel Libro Bianco sulla Creatività in Italia da me diretto per il Ministero per i Beni e le Attività Culturali è uno dei punti di forza della nostra cultura antica e mediterranea. Perché le nostre industrie creative contano circa il 9% del Pil nazionale e occupano circa 2,5 milioni di persone. Perché il nostro Made in Italy è fatto di industrie creative e di qualità sociale. Alla base della manifestazione fiorentina vi saranno studi approfonditi su almeno tre settori delle industrie culturali e creative: la moda nella sua dimensione internazionale, la gastronomia e il cibo nella loro estensione nazionale, e il mondo del design industriale e dell'artigianato come si esprime nella realtà fiorentina. Sono tre settori della cultura materiale italiana che non solo non registrano arretramenti o pause critiche, ma costituiscono settori di grande successo internazionale e si affermano sempre più come facilitatori di una migliore qualità della vita. Produrre cultura in questi settori non è facile, perché la competizione internazionale è agguerrita, e perché a fondamenti estetici puri si sommano capacità manageriali, distributive e gestione dei diritti di proprietà intellettuale su beni simbolici da grande valore. Questa è la sintesi di un cambiamento delle politiche culturali italiane auspicato da molti e temuto da tanti. Ordinario di Scienze delle Finanze e di Economia della Cultura presso l'Università di Torino VERSO FLORENS 2012 _________________________________________________________________ Italia Oggi 25 ott. ’11 SE L’ITALIA IMPORTA STUDENTI CINESI DI GUIDOBALDO SESTINI L’import più curioso dalla Cina lo rea lizzano le università italiane. 5mila studenti, a una buona metà delle quali lo Stato italiano paga borse di studio, alloggi e mense. Proprio così, mentre gli atenei di mezzo mondo sovraccaricano gli studenti made in China di extracharge rispetto agli iscritti autoctoni, l'Italia si permette il lusso, non solo di assoggettarli alla medesima tassazione, ma spesso, in base al reddito familiare certificato in patria (senza parametrarlo al costo della vita cinese), di assisterli col nostro sistema di diritto allo studio. Fenomeno paradossale, i rampolli della ricca borghesia cinese sostenuti dalle tasse dell'Italietta declassata da Moody's, ma sancito dalla legge: gli studenti son tutti uguali. È il prezzo dell'internazionalizzazione dei nostri atenei, si potrebbe obiettare, uscendo dalla secche dell'economicismo. Il punto è che allora gli studenti in questione sono pochi: quota 5mila è stata raggiunta a partire dal 2006 mentre la Francia è già a 27mila Ora Mariastella Gelmini punta a sfondare, entro pochi anni, i 20mila studenti, come ha spiegato a Pechino la scorsa settimana il sottosegretario Giuseppe Pizza, a capo di una missione di quasi trenta università, organizzata da Uni-Italia, la nuova agenzia per l'internazionalizzazione dei nostri atenei, realizzata dalla Fondazione Italia-Cina di Cesare Romiti con i ministeri di Esteri e appunto Istruzione, cui si è poi aggiunta la Conferenza dei rettori-Crui. Gli atenei erano infatti presenti ai due importanti Expo dell'educazione di Pechino e di Shanghai, gli appuntamenti tradizionali delle migliaia di studenti cinesi che, ogni anno, prendono la via dell'Occidente, soprattutto Usa, Gran Bretagna ma anche Australia e Canada. Un gap tentativamente colinato con la nascita di Un-Italia appunto, sorta per studenti, a una buona metà delle quali lo Stato italiano paga borse di studio, alloggi e mense. Proprio così, mentre gli atenei di mezzo mondo sovraccaricano gli studenti made in China di extracharge rispetto agli iscritti autoctoni, l'Italia si permette il lusso, non solo di assoggettarli alla medesima tassazione, ma spesso, in base al reddito familiare certificato in patria (senza parametrarlo al costo della vita cinese), di assisterli col nostro sistema di diritto allo studio. Fenomeno paradossale, i rampolli della ricca borghesia cinese sostenuti dalle tasse dell'Italietta declassata da Moody's, ma sancito dalla legge: gli studenti son tutti uguali. È il prezzo dell'internazionalizzazione dei nostri atenei, si potrebbe obiettare, uscendo dalla secche dell'economicismo. Il punto è che allora gli studenti in questione sono pochi: quota 5mila è stata raggiunta a partire dal 2006 mentre la Francia è già a 27mila Ora Mariastella Gelmini punta a sfondare, entro pochi anni, i 20mila studenti, come ha spiegato a Pechino la scorsa settimana il sottosegretario Giuseppe Pizza, a capo di una missione di quasi trenta università, organizzata da Uni-Italia, la nuova agenzia per l'internazionalizzazione dei nostri atenei, realizzata dalla Fondazione Italia-Cina di Cesare Romiti con i ministeri di Esteri e appunto Istruzione, cui si è poi aggiunta la Conferenza dei rettori-Crui. Gli atenei erano infatti presenti ai due importanti Expo dell'educazione di Pechino e di Shanghai, gli appuntamenti tradizionali delle migliaia di studenti cinesi che, ogni anno, prendono la via dell'Occidente, soprattutto Usa, Gran Bretagna ma anche Australia e Canada. Un gap tentativamente colinato con la nascita di Un-Italia appunto, sorta per l'intraprendenza della fondazione di Romiti, sul cui lavoro la Farnesina e Viale Trastevere hanno messo il cappello volentieri ma offrendo semplicemente il riconoscimento e il supporto logistico (l'agenzia è ospitata nelle nostre ambasciate). Soldi pochissimi. Tant'è vero che il segretario generale, il bravo Alberto Ortolani, ex-industriale brianzolo voluto dallo stesso Romiti, s'affanna a trovare finanziamenti (lo start- up è avvenuto grazie a un co-finanziamento di Fondazione Cariplo) mentre le istituzioni partecipanti contribuiscono. Anche stavolta, a Pechino e Shanghai, gli studenti cinesi hanno fatto la fila agli stand del padiglione italiano, in cui erano presenti università blasonate e meno note, dalla Bocconi all'ateneo di Sassari. Con loro istituti parauniversitari come Naba e Ied che, specializzati in moda e design, ri- sultano gettonatissimi. A caccia dei talenti anche la Conferenza dei collegi di merito, le residenze universitarie riconosciute, dagli storici pavesi al Collegio di Milano. Ma non è certo che da noi arrivino i migliori, anche se mancano statistiche al riguardo. Un segnale negativo è il punteggio minimo di gao kao, l'esame ultra selettivo cui i cinesi devono sottoporsi per accedere all'università (il merito è forse l'ultimo retaggio comunista laggiù) che l'Italia chiede loro: 380 punti su 750, piuttosto generoso. I più bravi sono infatti ammaliati dalle sirene dei ranking internazionali, dal Times Higher education a quello della Jiao Tong University di Shanghai, notoriamente sensibili ai modelli anglossassoni e che collacono le migliori italiane oltre la 200ma posizione. A migliaia volano verso le università statunitensi (130 mila cinesi su 690 mila stranieri), britanniche e via scendendo le classifiche. Dove pure pagano, sostenuti da famiglie danarose, rette da capogiro, paragonate a 1.000-1.200 euro medi richiesti in Italia. _________________________________________________________________ L’Unità 25 ott. ’11 «I BARONI PADRONI DEL DIRITTO» CONCORSI, INCHIESTA SU 10 ATENEI Un'inchiesta nata dopo una segnalazione anonima. Riguarda i concorsi per ordinari e associati. Così - per i pm - i baroni delle Università italiane si dividevano i posti per i corsi di Giurisprudenza. IVAN CIMMARUSTI BARI Omertà e "guerre" intestine tra i vari gruppi per impadronirsi della gestione centrale dei concorsi negli istituti di diritto Pubblico di alcune facoltà di Giurisprudenza. Questo uno degli aspetti che sta emergendo dalle indagini dei sostituti procuratori della Repubblica di Bari, Francesca Romana Pirrelli e Renato Nitti. Un'indagine che ipotizza l'esistenza di un'associazione per delinquere tra docenti universitari ben ramificata tra le facoltà di Giurisprudenza di Bari, Milano, Bologna, Napoli, Reggio Calabria, Teramo, Messina, Macerata, Piacenza e Firenze, per pilotare i concorsi pubblici. Un'organizzazione piramidale che avrebbe lo stesso metodo rilevato dagli investigatori nelle indagini dell'Antimafia, ma alla cui base ci sarebbe una presunta corruzione dilagante gestita dai cosiddetti "baroni" delle università. Scambi di favori tra "luminari" del diritto, per inserire propri studiosi di legge nei vari dipartimenti e riceverne altri. I CARTEGGI SUI CONCORSI In realtà, però, non si tratterebbe di soli scambi di favore, ma di corruzioni gestite dalla presunta associazione per delinquere. Hanno rilevato gli , investigatori che i vari candidati vicini ai professori di riferimento ruoterebbero nelle varie università sulla base di accordi e intrecci tali da provocare, a loro volta, altri accordi ed altri scambi. Ventidue ad oggi gli iscritti nel registro degli indagati. Una lista che potrebbe aumentare dopo che i magistrati avranno studiato i carteggi acquisiti nelle ultime settimane dalle facoltà, che riguardano concorsi per ordinari, associati e borse di studio di diritto Costituzionale, Canonico e Pubblico applicato. Tra gli indagati figurano i baresi Aldo Loiodice, docente di diritto Costituzionale, e Gaetano D ammacco, ordinario di diritto Canonico ed Ecclesiastico alla facoltà di Scienze politiche. Poi c'è Roberta Santoro della facoltà di Scienze politiche, suo padre Innocenzo e Maria Luisa Lo Giacco, ricercatrice di diritto Ecclesiastico. I concorsi sui quali si indaga riguardano selezioni per posti di prima e seconda fascia, per ordinari e associati. Nel fascicolo, aperto per fatti avvenuti tra gli anni 2006-2011, i magistrati ipotizzano i reati di associazione per delinquere finalizzata a corruzione, abuso d'ufficio e falso ideologico. L'accusa ritiene di aver scoperto «una rete nazionale di gestione dei concorsi accademici». I 22 docenti coinvolti farebbero parte, sempre secondo gli inquirenti, di una sorta di «circoli privati», all'interno dei quali sarebbe stato deciso il destino di una decina di concorsi e degli stessi candidati. Come? Attraverso «accordi, scambi di favore e patti di fedeltà». INCHIESTA NATA NEL 2008 Una corruzione dilagante, raccontalo fonti investigative, in grado di azzerare le competenze dei cosiddetti «figli di nessuno», agevolando gli amici. L’inchiesta, nata nel 2008, è uno stralcio del procedimento sull'università telematica Giustino Fortunato di Benevento. Un esposto anonimo all'attenzione del pm Pirrelli, aveva denunciato che quattro bandi per ricercato-e all'università telematica di Benevento, erano stati attribuiti ancora priva che venissero eseguite le prove. Intercettando in questo procedimento sul docente di diritto Costituzionale di Bari, Loiodice (all'epoca rettore dell'università telematica) gli investigatori si sono imbattuti in alcune telefonate dal tono eloquente, in cui si discuteva animatamente su chi dovesse vincere alcuni concorsi, come scambio. Di qui lo stralcio e la nascita di un nuovo fascicolo che ha coinvolto 9 università italiane. Dalle intercettazioni, poi, sarebbe emersa la fitta rete di accordi. Gli investigatori delle Fiamme gialle hanno individuato incontri organizzati nel corso di congressi nazionali sul diritto, al quale partecipavano i vari 'baroni' col fine di segnalare i candidati che di volta in volta dovevano aggiudicarsi i concorsi nelle varie facoltà italiane. Agli atti, però, risultano altre intercettazioni tra diversi professori anche della Bocconi di Milano, dalle quali emergerebbe «una struttura simile ad un'associazione mafiosa», rivela un investigatore. Gelosie e invidie verso altri docenti che sarebbero riusciti a «piazzare» più amici in altre università e che avrebbe portato altri docenti a tentare di spodestare questi primati.• _________________________________________________________________ Il Manifesto 26 ott. ’11 UNIVERSITÀ IL PROBLEMA NON SONO GLI STUDENTI Sonia Gentili Le discipline umanistiche, lo dicono in molti e con intenzioni varie, sono troppo lontane dal mondo produttivo e dalle sue leggi, e inoltre sempre peggio apprese e praticate. Un articolo sull'ultimo domenicale del Sole24 ore affronta il problema come peggio non si potrebbe. Sostiene l'autore che i laureati in queste discipline sono troppi e mediocri; ciò avviene per la cupidigia delle università che vogliono accaparrarsi iscritti, a causa di studenti purtroppo non formati alla professione dal liceo e non incalzati da necessità economiche (in Italia ci sarebbe un «relativo benessere»!) che rimandano il problema del lavoro studiando. La cura proposta è quella di una bella selezione in entrata (non hai letto i "libri fondamentali" al liceo"? non hai recuperato con un anno di studio autonomo, preparatorio all'università? fuori!), previa riqualificazione delle materie umanistiche liceali, utile, questa, a forgiare «cittadini migliori». Pratiche e serie soluzioni, conclude l'autore, per medicare un'Italia piena di retorica più che di cultura. Riassunto il pezzo, sciolgo le ambiguità che la sua apparente schiettezza nasconde. Per cominciare: gli studenti sono troppi rispetto a cosa? Rispetto al mercato del lavoro, unica unità di misura su cui l'articolo tara la sua università ideale. Obietto: vogliamo studiare per occupare il posto che il mercato ci assegna oppure per apprendere ed elaborare un pensiero libero di modificare l'esistente? Studiare per scoprire, pensare e cambiare la realtà, e ammettere che questa potenzialità sia in tutti fino a contraria prova, è un percorso che comporta qualche sperpero, e che non ci renderà "produttivi" allo scoccare dei venti- tre anni? Beh, si tratta di un costo necessario, poiché volere persone già in possesso dei propri interessi a diciotto anni implica una concezione disumana degli individui (irrigiditi in una scelta e in un ruolo sociale dalla fine dell'adolescenza alla Morte) praticata nei modelli statua. i totalitari e come ultra capitalistici - in cui il singolo esiste solo in quanto parte di un ordine produttivo e sociale. Leggendo questa spaventosa proposta (buon liceo per tutti e università con sbarramento in accesso; selezione dei destini, su base quasi inevitabilmente censitaria, a diciott'anni) si ha la sensazione che il rigorismo confindustriale prepari la propria successione al pressappochismo berlusconiano, ma in nome degli stessi principi. Negli ultimi vent'anni l'università di massa ha dismesso il proprio fondamento politico di ideale democratico e si è ridotta ad un'ipotesi di mercato (lo studente come cliente dell'azienda università). Oggi questa università è riconosciuta fallimentare non rispetto ai propri contenuti culturali ma, appunto, rispetto al mercato che l'ha infeudata; poco produttiva sui grandi numeri, deve richiudersi sul proprio classismo originario e sulla "produzione di qualità": quella delle élites dirigenti. L'antiretorica (prosetta atticistica, ha mar a denti stretti, ecc.) che l'autore oppone al buonismo sentimentaloide del vecchio umanesimo è essa stessa una retorica, e non inedita: ricorda il rifiuto, nella Germania degli anni Trenta, del «fradicio sentimentalismo filisteo» in nome di una produzione di cittadini che rispondessero ai bisogni dello Stato. L'unica misura del troppo e del poco è, per l'autore dell'articolo, il mercato del lavoro: cioè quel mondo produttivo contro il quale un enorme numero di persone è sceso in piazza sabato 15 ottobre, per riprendersi il diritto di vivere secondo altre regole. Vogliamo discutere seriamente la natura dell'università e dell'umanesimo attuali? Allora diciamo subito che questi due elementi non sono determinati in alcun modo dal numero degli studenti in lettere, e reimpostiamo la discussione. * Università La Sapienza, Roma ___________________________________________________________________ Sardinews 28 ott. ’11 VENTISEI RICERCATORI SARDI AL TOP NELLE UNIVERSITÀ Cidu, Cocco, Giudici, Marrosu, Mureddu, Usai Sei docenti cagliaritani salgono in cima alle eccellenze nazionali di Mario Frongia Ernestina Giudici, preside della facoltà di Economia a Cagliari Psicologi, filosofi, economisti. Ma anche scienziati della terra, ingegneri, chimici e giuristi. Per chiudere con fisici, medici, aziendalisti e storici. Un quadro composito. Che mette in luce conoscenze storiche, epilessia, semantica e passa per l’hi tech, il teatro di Dioniso, le sintesi dei carbocicli, la biodiversità umana in Sardegna, i linfomi, i nano tubi di carbonio, le reti urbane di trasporto. E non è tutto. Tra gli altri argomenti, c’è spazio per potere e dominanza sociale, collisioni nucleari, Trattato di Lisbona, cellule staminali, emettitori ottici, numeri e Aristotele, articoli musicali e quotidiani, valvole protesiche nell’aorta. Ambiti e discipline in continua evoluzione. In uno scenario che premia gli specialisti dell’ateneo di Cagliari con un milione 288 mila 595 euro provenienti dal Miur, il ministero per l’università e la ricerca. E se si pensa che lo scorso anno la quota proveniente da Roma è stata pari a un milione e 141 mila euro, balza agli occhi un incremento interessante e proficuo. I numeri non necessitano di commenti. I ventisei ricercatori, sei dei quali capofila dei progetti su scala nazionale, si sono guadagnati una cospicua fetta dei Prin. L’acronimo è nitido: Promozione della ricerca scientifica e dell’innovazione. L’obiettivo, pure. Scienziati e studiosi dell’ateneo cagliaritano, pur in un contesto socioeconomico da brivido, combattono e procedono a testa alta. Creano e sviluppano idee progettuali che molto spesso si traducono in brevetti. Intensificano scambi e confronti culturali su base nazionale e continentale. Rafforzano la filiera didattica. Promuovono competenze e conoscenze utili al territorio. In breve, un passo avanti. Concreto e foriero di ulteriori prospettive. Un mosaico inerente sia la costruzione di figure professionali rapidamente spendibili sui mercati del lavoro, sia il rafforzamento della reputazione dell’università del capoluogo. A trarre le somme, il tessuto indispensabile per poter competere su più fronti. Di certo, una partita complessa. Irta di ostacoli e resa ancor più difficile da vincere per una serie di freni amministrativi e burocratici di vecchia e data. Tant’è. Il risultato al numero 40 di via Università è da applausi. E viene incassato con ovvia soddisfazione. I magnifici sei che reggono le sorti da coordinatori nazionali dei progetti sono Rosa Cidu, Pierluigi Cocco, Ernestina Giudici, Francesco Marrosu, Patrizia Mureddu e Gianluca Usai. La professoressa Cidu (Scienze della terra) si aggiudica 120 mila euro di finanziamento e coordina lo studio su “Fattori geochimici che controllano la dispersione dell’antimonio in acque che drenano siti minerari dismessi”. Pierluigi Cocco afferisce al dipartimento di sanità pubblica, dispone di 69.976 euro e lavora su “Eziologia dei linfomi in Sardegna”. Ernestina Giudici, preside di Economia, un Prin di 57.537 euro, dirige “la diffusione dell’innovazione e dinamiche in network in alcuni settori di rilevanza strategica presenti in Sardegna”. Ottantaseimila e 99 euro sono per Francesco Marrosu, capofila nazionale della ricerca su “Impiego del fenofibrato come terapia aggiuntiva nell’epilessia frontale notturna farmacoresistente”. Patrizia Mureddu, già pro rettore per la didattica, coordina il progetto “L’eredità di Dioniso: il testo teatrale, il dialogo filosofico, il romanzo” con un Prin di 33.195 euro. Infine, Gianluca Usai. Il fisico dispone di 83.858 euro e guida i ricercatori sul “Ripristino della simmetria chirale e il punto critico della Qdc: misure nella produzione di dileptoni in collisioni nucleari”. Un sestetto doc. Capace di guadagnare con i propri studi la credibilità nazionale e non solo. Gli altri venti docenti dell’ateneo che vengono finanziati con i fondi del Prin 2009 – a breve ci sarà il trasferimento dei fondi, e alla direzione Ricerca dell’ateneo sono in attesa dal ministero del Bando 2010 – sono Antonio Aniello (psicologia, quota parte di 36 mila euro), Gabriella Baptist (scienze pedagogiche e filosofiche, 18.262), Carla Maria Calò (biologia sperimentale, 51.480), Elisabetta Cattanei (filosofia e teoria delle scienze umane, 46.648), Rosa Cristina Coppola (sanità pubblica, 29.645), Anna Corrias (scienze chimiche, 70 mila), Gianfranco Fancello (ingegneria del territorio, 63.400), Giancarlo Filanti (scienze giuridiche e forensi, 33.784), Marco Giunti (filosofia e teoria delle scienze umane, 24 mila), Adolfo Lai (scienze chimiche, 70 mila), Pier Luigi Lecis (filosofia e teoria delle scienze umane, 35 mila), Vito Lippolis (chimica inorganica e analitica, 39.389), Andrea Melis (scienze economiche e aziendali, 23.765), Augusto Montisci (ingegneria elettrica ed elettronica, 45.337), Pier Paolo Pisano (scienze chimiche, 36.337), Alessandro Pisano (ingegneria elettrica ed elettronica, 42.801), Marco Pistis (neuroscienze “Bernard Brodie”, 42.148), Giorgio Querzoli (ingegneria del territorio, 34.400), Antonio Trudu (studi storici, geografici e artistici, 51.051) e Massimo Vanzi (ingegneria elettrica ed elettronica, 48.783). ___________________________________________________________________ Sardinews 28 ott. ’11 PRESIDE DI FACOLTÀ UNIVERSITARIA: 3.347 EURO UN CONSIGLIERE REGIONALE SUPERA I 13.000 C'è etica nelle retribuzioni a una classe politica pletorica e assenteista ina aula? di Marco Muscas Meno venti. Il Consiglio regionale, dopo un faticoso dibattito e mille distinguo, riduce il numero dei propri membri da ottanta a sessanta. Lo fa, probabilmente nel modo peggiore, perché non inserisce il taglio all’interno di alcuna riforma organica e solamente perché l’opinione pubblica e i giornali pressavano da qualche tempo sull’Aula di via Roma. Ma una domanda pressa su tutte: è lecito, è etico, che un consigliere regionale porti a casa, ogni mese, 13 mila euro mentre il preside di una facoltà universitaria (a Cagliari come a Bologna, a Sassari come a Milano) incassi poco meno di 3347 euro? È lecito, è etico che un consigliere regionale – che poco staziona in aula – incassi 13 mila euro e un associato di una qualunque facoltà arrivi al 27 del mese con 2400 euro? È lecito, è etico che un consigliere regionale incassi tutto quello che incassa? È qualunquismo? Il problema allora non è solo quello del numero (spopositato) di consiglieri regionali. Ed è statoil refrain dell’estate-autunno. Soprattutto il Consiglio, con una specie di ripensamento collettivo, decide di rivotare una legge dopo appena dieci giorni dalla decisione di rinviare la riduzione del numero dei consiglieri alla discussione di una legge statutaria. Cioè, un differimento a tempo indeterminato. Una scelta, arrivata a voto segreto con la contrarietà del centrosinistra ma con almeno quattro franchi tiratori, che aveva scatenato le polemiche sull’assemblea sarda, incapace di autoriformarsi e di rinunciare ad alcuno dei propri privilegi. Anche grazie alla mediazione della presidente del Consiglio, Claudia Lombardo, si è tornati indietro su quella votazione, varando un nuovo provvedimento che contenesse la riduzione. Il dibattito in aula Una legge che però non ha alcuna efficacia al momento, perché essendo il numero dei consiglieri dettato dallo Statuto sardo, ogni modifica deve passare per una legge di revisione costituzionale. Un procedimento speciale che prevede addirittura un doppio passaggio tra Camera e Senato, quindi sicuramente non in questa tormentata Legislatura nazionale, ma probabilmente alla fine della prossima. Se sarà esaminata. In pratica il Consiglio, a distanza di pochi giorni, ha ripetuto stancamente lo stesso dibattito. A parte l’opposizione di pochi come Claudia Zuncheddu o Radhouan Ben Amara, che contestavano il fatto che si trattasse di un taglio dei costi della politica, e invece principalmente di un taglio della rappresentatività democratica. Mario Diana, capogruppo del Pdl, ha parlato di “una spasmodica volontà da parte dei consiglieri di ridurre ai minimi termini la massima istituzione della Regione Sardegna. Continuiamo a farci del male e diamo le colpe al voto segreto”. Per Diana il problema “non è certo il voto segreto o un regolamento, che peraltro era stato già modificato nella scorsa legislatura con l’accordo di tutti i gruppi”. “Non possiamo mascherare le nostre incapacità e inefficienze con le accuse alla presidenza e al regolamento consiliare, non è tollerabile. La responsabilità non è del regolamento ma è nostra”. La replica del capogruppo Pd, Giampaolo Diana è stata incentrata sulla volontà di questa maggioranza di “ farsi del male; meglio operare perché, a partire dall’approvazione di questo provvedimento, metta il Consiglio regionale in condizione di svolgere una azione concretamente riformatrice. Subito dopo, però, bisogna occuparsi della legge elettorale, facendo tesoro delle raccomandazioni della presidenza dell’assemblea”. Il capogruppo del Pd ha attaccato duramente il centrodestra: “la maggioranza non è più in grado di governare, perché priva di spessore politico e programmatico. I conti della Regione per il prossimo anno, d’altra parte, certificano la bassa qualità dell’azione di governo, la responsabilità della giunta regionale, la sua incapacità e inadeguatezza”. Sulla legge taglia consiglieri, infine l’ha definita “condivisibile e non ipocrita, senza grandi giri di parole bisogna assumersi la responsabilità di una classe politica che vuole vivere vicino alla società che la esprime. Non si può pensare che gli unici costi invariati siano quelli delle istituzioni, ma il consiglio regionale deve fare la sua parte, e sarebbe auspicabile l’approvazione di un ordine del giorno che contenga anche indicazioni precise sulla legge elettorale (abolizione del listino, rappresentanza dei territori e di genere) da tradurre in atti concreti nel giro di poche settimane, non certo di mesi.” Un apporto significativo al dibattito è stato dato dall’assessore agli Affari generali, Mariolino Floris, nella sua duplice veste di amministratore e di consigliere di grandissima esperienza. Secondo Floris, infatti, tagliando venti consiglieri regionali la Sardegna risparmierà circa cinque milioni di euro ‘’per non parlare di commissioni e altre indennità’’. Floris ha aggiunto ‘’che occorrerà confrontarsi con i vertici parlamentari affinché il percorso di modifica statutaria possa concludersi’’ essendo necessario il doppio passaggio alle camere per la modifica dello Statuto sardo, che e’ legge Costituzionale. ‘’Il ruolo di garante - ha ipotizzato Floris - potrebbe essere assunto dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano’’. Floris ha detto, rivolto all’opposizione ‘’che le riforme si fanno insieme, mentre sui costi della politica ha detto che venti consiglieri regionali in meno faranno risparmiare quasi cinque milioni di euro facendo calare la spesa complessiva a 14.859.449,47 euro’’. Ma ha sottolineato la necessità di saper distinguere tra privilegio e costi per le attività politiche e legislative da preservare. La soddisfazione della Lombardo e lo “sgarbo” di Cappellacci “In un momento nel quale l’opinione pubblica guarda alle Istituzioni alla ricerca di risposte adeguate per la drammatica realtà che attraversa l’Isola, il Consiglio Regionale ha dato prova di grande maturità e senso di responsabilità con l’approvazione del testo che prevede la riduzione dei consiglieri. Il Parlamento sardo nel riesaminare, in tempi brevissimi, una antecedente determinazione nella quale non emergeva con chiarezza la propria volontà di procedere ad un ridimensionamento del corpo consiliare, ha fornito ai sardi una risposta inequivocabile, esaustiva e concreta”. È stato questo il commento della presidente del Consiglio regionale, Claudia Lombardo che aveva anche indirizzato ai consiglieri una lettera prima del voto, proprio per stimolarli a prendere una decisione in tal senso. Ma proprio nei giorni in cui, tanto faticosamente il Consiglio decideva di ridurre il numero dei propri rappresentanti, il presidente della Regione Ugo Cappellacci, con una semplice delibera, rinunciava alla proprio indennità. “In un momento difficile, come quello attraversato oggi dal Paese e dalla nostra Isola, è importante dare un segnale forte, concreto, significativo per dire che la politica vive fianco a fianco con i cittadini, non sopra di essi o sulle loro spalle. Occorre un messaggio chiaro per dire che le nostre preoccupazioni e le nostre aspirazioni sono le stesse vissute nel quotidiano dalle madri, dai padri, dagli studenti e dai lavoratori precari”. Anche sui tagli, quindi, continua la sfida a distanza tra i due presidenti del centrodestra. Voce per voce la busta paga dell'onorevole sardo In questa legislatura sono state apportate alcune modifiche, che hanno permesso di ridurre i benefit a disposizione dei nostri rappresentanti nell’Assemblea sarda. Che rimangono comunque notevoli. L’Indennità. Lo Statuto speciale della Sardegna, all’articolo ventisei, prevede che i consiglieri regionali ricevano un’indennità fissata con legge regionale. Tale indennità è determinata in base alla legge regionale n° 2 del 7 aprile 1966. Essa si rifà in gran parte alla legge n. 1261 del 31 ottobre 1965, che fissa l’indennità del componente la Camera dei Deputati in misura non superiore al trattamento complessivo massimo annuo lordo dei magistrati con funzioni di presidente di Sezione della Corte di Cassazione ed equiparate. In altre parole, l’indennità del consigliere segue quella del deputato, e quella del deputato segue lo stipendio dei magistrati. Il consigliere regionale sardo percepisce l’80% della indennità del deputato nazionale, corrisposta per 12 mensilità. L’importo mensile oggi percepito dal consigliere è pari a 4.435,33 euro netti. Dalla indennità lorda (9362,91 euro) vengono, infatti, detratte le ritenute previdenziali (euro 1.006,51), la quota per il fondo di solidarietà del Consiglio Regionale (euro 627,31), la ritenuta fiscale (euro 3.187,14), le addizionali IRPEF regionale e comunale (euro 106,62). La diaria viene riconosciuta nella misura di 4.003,11 euro mensili. Tale somma viene ridotta di 155 euro per ogni giorno di assenza dai lavori della Assemblea, e di 103 euro in caso di assenza dai lavori delle Commissioni. Le Spese di segreteria. A titolo di rimborso forfetario per le spese inerenti al rapporto tra eletto ed elettori, al consigliere è attribuita una somma mensile di 3.352 euro Per i consiglieri residenti a più di 35 km da Cagliari è corrisposta un’integrazione di 1.200,93 euro mensili. Consiglieri regionali sardi tra i più pagati d'Italia ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 26 ott. ’11 PAVIA; IN CORTEO I RETTORI DEI PIÙ ANTICHI ATENEI D' EUROPA DOMANI IN AULA MAGNA LA SOLENNE CELEBRAZIONE DELL' «ALMA TICINENSIS», Compie 650 anni l' Università voluta da Carlo IV PAVIA - Era il 27 ottobre 1361 quando per volere di Carlo IV del Lussemburgo, imperatore del Sacro romano impero, fu inaugurato il primo anno accademico dell' Università di Pavia, uno Studiorum generale di materie giuridiche e letterarie che avrebbe richiamato studenti da tutta Europa. A distanza di 650 anni, l' Alma Ticinensis Universitas è rimasto uno degli atenei più prestigiosi: oggi oltre a Pavia, ha sedi a Cremona e Mantova, ha nove facoltà, 103 corsi di laurea con 24 mila iscritti e 15 collegi universitari. Per celebrare degnamente l' evento, le più antiche università europee si incontreranno nel rito dell' apertura dell' anno accademico ( Initium Studii Papiensis ), domani alle 10 nell' Aula Magna, dopo un corteo cui parteciperanno una cinquantina tra rettori e delegati, accompagnati dalle note dell' orchestra accademica «Camerata de' Bardi». Dopo il discorso d' apertura del rettore Angiolino Stella e un' introduzione di Dario Mantovani, presente M.Jean-Louis Wolzfeld, ambasciatore del Lussemburgo (in onore del fondatore Carlo IV), seguiranno relazioni di Ivano Dionigi, rettore dell' Università di Bologna, Maria Helena Nazaré (presidente dell' European University Association) e Lino Pertile, direttore dell' Harvard Center for Italian Renaissance Studies. Al termine della cerimonia è previsto il saluto del presidente del Senato Renato Schifani, che visiterà poi nell' Aula Disegno la mostra «Raccontare l' Italia unita: le carte del Fondo Manoscritti». Tra oggi e domani, invece, il Coimbra Group (associazione tra le più antiche università europee) celebrerà qui il suo compleanno con un seminario sulla nascita dei collegi. «Abbiamo una grande tradizione - dice il rettore Stella - e abbiamo avuto grandi maestri, ma ora dobbiamo guardare al futuro vista la non grande condivisione di risorse. Abbiamo tanti bravi giovani, li formiamo, poi sempre più spesso sono costretti ad andar via dall' Italia e questo costituisce è un problema». «Noi - aggiunge il rettore - speriamo che la giornata di domani, con la partecipazione di così tanti esponenti del mondo accademico internazionale, serva anche stimolare l' attenzione del mondo politico, economico e sociale, sulla necessità di intervenire subito a sostegno delle università, altrimenti le conseguenze si vedranno nei tempi medio lunghi quando non ci sarà più niente da fare». Luigi Corvi RIPRODUZIONE RISERVATA Corvi Luigi ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 25 ott. ’11 RIFORMA DEL DOTTORATO, PUNTARE SU POCHE SCUOLE MA D' ECCELLENZA Caro direttore, in tutto il mondo, il dottorato di ricerca costituisce il livello più alto dell' istruzione universitaria. Ma come deve essere concepita e organizzata la formazione alla ricerca in una «società della conoscenza» in cui anche la competizione in questo campo è diventata planetaria? La riforma del dottorato che il ministero dell' Università e della ricerca ha predisposto e su cui sta raccogliendo i prescritti pareri cerca di rispondere indirettamente a questa domanda. Lo fa andando complessivamente nella direzione giusta? E lo fa in modo sufficientemente innovativo e coraggioso, capace di superare i difetti dell' attuale sistema introdotto oltre trent' anni fa? Guardando al dibattito europeo sulla formazione alla ricerca, si può rispondere «sì» alla prima domanda, ma probabilmente «no» alla seconda. I punti più qualificanti della riforma stanno nella necessità che i corsi di dottorato vengano preventivamente accreditati sulla base di una serie di requisiti. Si tratta di requisiti numerici (numero di borse a disposizione, di professori nel collegio docenti, ecc.) e qualitativi, che dovrebbero produrre sinergie e garantire che si tratti di percorsi di qualità. Nella stessa direzione vanno ulteriori criteri per la ripartizione dei fondi ministeriali per il dottorato di ricerca. Vi sono poi altri aspetti positivi, quali l' introduzione anche in Italia di dottorati in collaborazione con le imprese o di raccordi fra il dottorato e la specializzazione in area medica, sulla scorta di esperienze largamente diffuse all' estero e note rispettivamente come «professional doctorates» e percorsi di «MD/PhD». Perché allora questa riforma appare un po' timida, se rapportata al dibattito internazionale? Per ragioni di spazio mi concentrerò su un solo punto critico. Una formazione dottorale più strutturata e di qualità di quella attuale può essere offerta solo in ambienti scientifici di livello internazionale, dotati di risorse adeguate, capaci di attrarre (e di trattenere) i migliori talenti con incentivi sia economici sia di reputazione. Per questo in tutta Europa si punta a selezionare in ciascuna macroarea (Fisica, Economia, eccetera) poche grandi scuole di dottorato competitive a livello internazionale e a concentrare in queste le risorse, secondo il principio che non tutte le università possono offrire formazione dottorale in tutte le aree. La riforma del ministero va nella giusta direzione rispetto a questo obiettivo ma potrebbe mostrare più coraggio. Non è sufficiente richiedere che vi siano almeno 18 docenti nel collegio di dottorato e 6 posti finanziati in ciascun ciclo, per superare la frammentazione che rende difficile l' emergere di scuole di eccellenza in Italia. Soprattutto, la riforma non spinge con forza nella direzione in cui vanno i dottorati europei, che vengono incentivati a raggrupparsi appunto in Scuole per favorire lo scambio interdisciplinare e per consentire una certa autonomia operativa e anche finanziaria. Insomma, nell' impostazione del testo si intravvede la giusta idea che oggi la formazione alla ricerca può avvenire solo in poche grandi Scuole di dottorato, con risorse adeguate e concentrate in quelle sedi che in una determinata macroarea garantiscano un ambiente scientifico denso e di altissimo livello. Ma le soluzioni previste in concreto rischiano di non cambiare di molto la situazione di frantumazione attuale. Anche nella formazione alla ricerca, per diventare competitiva l' Italia deve non solo investire molto di più ma investire in modo più selettivo; e questa riforma potrebbe osare di più in questa direzione. Marino Regini Prorettore alla formazione post- laurea e all' internazionalizzazione Università degli Studi di Milano Regini Marino ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 ott. ’11 PROVINCIA, CALANO (- 45%) LE ASSENZE PER MALATTIA DOPO LA RIFORMA BRUNETTA In Sardegna il record va a Quartucciu Invariata la Regione Ma i sindacati non ci stanno: «Sono dati fasulli, i dipendenti pubblici non sono un popolo di assenteisti» ORISTANO. Improvvisamente, quest’estate i dipendenti della Provincia si sono ammalati di meno. A leggerla superficialmente verrebbe da commentare così la notizia diffusa nei giorni scorsi dall’agenzia giornalistica Ansa. «Sono in diminuzione a luglio e agosto, rispetto agli stessi mesi del 2010, le assenze per malattia dei dipendenti pubblici. In Sardegna, spicca la Provincia di Oristano, con -45%, tra le prime amministrazioni in Italia per la riduzione dell’assenteismo». Dato che emerge dai risultati di una rilevazione statistica commissionata all’Istat dallo stesso ministero per la Pubblica amministrazione e l’innovazione. Stime riferite al complesso delle amministrazioni pubbliche ad esclusione di Scuola, Università, Pubblica sicurezza e Vigili del fuoco, ma che qualcuno ha già interpretato come un risultato di quella riforma sulle assenze per malattia voluta tre amnni fa dal ministro Brunetta e varata fra le proteste dei sindacati. Riforma che prevedeva tra le altre cose, una riduzione dello stipendio che, nei giorni di malattia, è stato limitato al solo compenso base, cancellando quindi ogni trattamento accessorio che invece prima venivano comunque garantiti anche durante la malattia. A questa si è aggiunto il sensibile allungamento dell’arco di tempo in cui il dipendente pubblico deve farsi trovare a casa dal medico fiscale, cioè, dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 20. Ed è lo stesso Ministero a dare questa lettura: «Il monitoraggio conferma come la Legge 133/2008 abbia ridotto in misura significativa i giorni di assenza per malattia: a 38 mesi dalla sua approvazione, la riduzione media delle assenze per malattia procapite dei dipendenti pubblici è pari a circa -33,%. Interpretazione accolta però con scetticismo dai sindacati. «Dati fasulli, che comunque vanno esaminati con più attenzione. In ogni caso ci vuole cautela perchè così si rischia di bollare ingiustamente i dipendenti della Provincia come una manica di assenteisti pentiti e ciò non mi risulta». Il monitoraggio però rivela anche un’altra serie di dati interessanti. A luglio, tra i Comuni sardi, il calo maggiore di assenze per malattie è stato a Quartucciu con una riduzione delle assenze del -73,5%, mentre a Serramanna, la percentuale di assenze è balzata a +96,4%. Il Comune di Cagliari fa registrare un -10,2%, quello di Sassari -17,2%. Tra le amministrazioni provinciali, oltre a Oristano, spicca l’Ogliastra con un -21,7%, mentre alla Regione Sardegna c’è stata una riduzione del 16,7%. Ad agosto, tra i Comuni è stato quello di Sanluri a far registrare la maggiore riduzione (-69,6%), mentre la maglia nera va all’amministrazione di La Maddalena, con un aumento del 81,1%. Il Comune capoluogo, Cagliari, invece fa registrare un -23,6%. Tra le Province, sempre in testa Oristano (-45%), diminuiscono le assenze anche a Sassari (-8%), mentre rimane invariato il dato dei dipendenti della Regione Sardegna: -0,5% rispetto all’agosto del 2010. _________________________________________________________________ La Stampa 25 ott. ’11 L’ULTIMO GIORNO DEL CACCIATORE OTZI L'uomo dei ghiacci salì a 3200 metri e mangiò carne di stambecco e mele. Poi una freccia lo colpì a morte logo di Tisd(Alto Adige), inizio estate di 5300 anni fa: un uomo vigoroso, sui 45 anni, ha terminato la faticosa salita dal fondovalle. E' giunto sul crinale, a 3200 metri di quota, ha bevuto acqua di torrente, è ferito: la carne della mano destra, fra indice e pollice, è tagliata profondamente, fino all'osso. Non ci sono alberi, si ferma a riposare fra le rocce, mangia carne di stambecco, cereali, pezzi di foglie, mele, ali di insetti. Si sente al sicuro, ma una freccia lo raggiunge sotto la spalla destra, la cuspide di selce entra nelle carni, recide un'arteria vitale, provoca un'emorragia. Forse si alza, cade rovinosamente, forse qualcuno sopraggiunge e lo colpisce alla testa: lo troveranno con zigomo e testa fratturati, un trauma cranico che avrebbe potuto essergli fatale e che ha contribuito alla morte, con la ferita della freccia. L'arciere si avvicina, lo tira per girarlo, estrae l'asta della freccia (non la punta), forse per non farsi scoprire. Se ne va: era uno, erano molti? L'uomo resta lì cinquemila anni, con il suo berretto di pelo, i calzari, l'arco e quattordici frecce, l'ascia metallica che non ha potuto impugnare. E' Otzi, l'uomo del Similaun, la mummia dei ghiacci più famosa al mondo: le ultime ore sono state svelate da un centinaio di studiosi giunti a Bolzano da tutto il mondo per un convegno, hanno analizzato campioni di tessuto dello stomaco e del cervello prelevati lo scorso novembre. Erano medici ed esperti in nanotecnologie, antropologi e biochimici, archeologi e fisici, hanno espresso il verdetto: «Si è riposato, ha mangiato, l'hanno ucciso». Non è stato seppellito, perché non ci sono indizi di sepoltura, cumuli di pietra, alcuna forma di tomba. Otzi è morto dissanguato e per trauma cranico, in pochissimo tempo. Forse non sapremo mai chi erano o chi era l'aggressore, perché era lì, a 3200 metri di quota. Di sicuro si sa che lui non era un pastore (ecco un'altra nuova certezza). I ricercatori di Innsbruck Andreas Putzer, Daniela Festi e Klaus Oeggl hanno respinto una teoria diffusa dal '96, secondo la quale Otzi aveva portato il bestiame sui pascoli per l'estate: nell'età del rame non si praticava la transumanza delle greggi, che cominciò solo nell'età del bronzo, dal 1500 avanti Cristo. Ora le analisi continuano: l'uomo dei ghiacci non parla ma pone continue domande. Ha resistito all'ingiuria del tempo e degli uomini, il suo destino era di essere strappato al ciclo naturale della decomposizione, di superare i millenni bocconi, il naso schiacciato e la bocca contro la roccia, il labbro superiore leggermente rialzato. Lo rivediamo sanguinante: in meno di un minuto il suo destino si compie ma la sorte gli riserva ancora qualcosa, di far sognare altre generazioni. Il freddo l'ha conservato, ancora oggi qualcuno prende in considerazione la mummificazione per conservare il Dna, per tener viva la speranza di tornare in vita in futuro. Si fa di tutto, pur di non morire per sempre. Al contrario del Principe della notte, il Nosferatu di Herzog, che aveva il problema inverso: «La morte - tenta di spiegare a Jonathan Harker - non è il peggio, ci sono cose molto più orribili. Riesce a immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose...». PRIMAVERA DI 5300 ANNI FA TROVATO DEL POLLINE NELLO STOMACO Consistenti le novità sull'affascinante mistero Otzi: ora sì sa che non era in fuga, ma anzi ha consumato un pasto completo dai 30 ai 120 minuti prima di morire. Il cibo ingerito è stato chiaramente identificato al microscopio. Il botanico Klaus Oeggl ha trovato polline di carpino nello stomaco, il che fa supporre che sia morto in primavera e non in autunno, come si è creduto a lungo. Indagini nanotecnologiche su un campione di cervello hanno infine confermato che Otzi ha subito un trauma cranico, non si sa se causato da una caduta o da un colpo alla testa, che già di per sé avrebbe potuto essergli fatale e che ha contribuito alla morte assieme alla ferita causata da una freccia. VOGLIAMO SCOPRIRE CHI SONO I SUOI DISCENDENTI» Albert Zink Ricercatore Albert Zink dirige l'Istituto per le Mummie e l'Iceman dell'Eurac (Accademia europea di Bolzano). Direttore, sono importanti gli ultimi studi su Ótzi? «Sì, abbiamo gettato luce sullo scenario della sua morte: sappiamo che si sentiva rilassato, perché aveva mangiato abbondantemente, che non era in fuga e che non era un pastore, perché la transumanza iniziò solo nell'età del bronzo. E che non ci sono indizi di sepoltura, come qualcuno aveva ipotizzato. La sua posizione con il braccio in diagonale verso l'alto e la mancanza di cumuli di pietre o di elementi riconducibili a una tomba confuta questa teoria». Cos'è che non sappiamo ancora? «Molto: perché era lì? Era un cacciatore, certo, conosceva quel crinale ed era abituato a camminare in montagna: l'esame dello scheletro rivela problemi alla spina lombare, artrosi al ginocchio che cercava di combattere, come fanno a volte in Africa, con tatuaggi sugli arti, strisce parallele, croci... Non sappiamo se prima di morire si è mosso di qualche metro o se l'ha trasportato l'acqua del ghiacciaio. Non sappiamo chi era il suo nemico: uno solo, un gruppo? Lo aspettavano lassù? Sono arrivati dopo?». Cosa dobbiamo aspettarci dalle ricerche, in futuro? «Le tecniche si affinano, gli esami dei tessuti dello stomaco e del Dna sono all'inizio. Forse con il Dna potremo scoprire se ci sono parenti che sono rimasti nella zona, cos'è successo alla popolazione di cui faceva parte: è ancora presente, era nomade? O scopriremo qualcosa su altri agenti patogeni presenti nello stomaco. Altre cose non le sapremo mai, probabilmente: chi l'ha ucciso, perché, quanti erano. Forse in futuro faremo un altro scavo, intorno al punto in cui è stato trovato, per reperire altri "indizi"» _________________________________________________________________ TST 29 ott. ’11 NEUTRINI PIÙ VELOCI DELLA LUCE? ALLORA L'UNIVERSO NON HA SENSO Il "ko" dei fisici: "Violato il principio di conservazione dell'energia" BARBARA GALLAVOTTI Comunque vada questi neutrini più veloci ee della luce finiranno con il causare un mal di pancia a qualcuno. Ai loro scopritori, se si riveleranno banalmente lenti. E, in caso contrario, al fisico teorico e divulgatore Jim Al-Khalili, che si è detto pronto a mangiarsi i pantaloncini, se i risultati verranno confermati. Per non parlare dei bruciori che causerebbero al notissimo fisico italiano che ha giurato, in caso, di divorare una scarpa. A scatenare simili perverse fantasie culinarie non è un evidente errore fatto dall'esperimento «Opera» (quello che ha consentito di misurare la velocità dei neutrini dal Cern di Ginevra al Gran Sasso), perché dopo oltre un mese di attacchi serrati la sua analisi continua a resistere ai molti tentativi di farla crollare. Piuttosto, lo scetticismo è causato dal fatto che neppure il più fantasioso fisico teorico sembra essere in grado di conciliare l'esistenza dei neutrini superveloci con alcuni principi basilari e apparentemente irrinunciabili. E questo a dispetto di discussioni e incontri riservati nei quali le menti migliori del pianeta hanno con cesso ogni libertà alla loro immaginazione. Un colpo di mannaia a chi vorrebbe assistere a una epocale rivoluzione scientifica è stato dato dal Premio Nobel Sheldon Lee Glashow e da Andrew Cohen. Secondo i due fisici, se i neutrini andassero davvero più veloci della luce, allora lungo il tragitto dovrebbero perdere energia, emettendo un elettrone e un positrone (il positrone è una particella identica all' elettrone ma di carica opposta). Quindi, al Gran Sasso, dovrebbero arrivare neutrini con un'energia inferiore rispetto a quella posseduta al momento della partenza. Purtroppo, però, i dati di «Opera» non mostrano nessun indizio di un fenomeno del genere e niente risulta neppure dalle recenti osservazioni dell'esperimento «Icarus», un altro dei giganti a caccia di neutrini allestito ai Laboratori del Gran Sasso, a breve distanza da «Opera». D'altro canto, immaginare neutrini che viaggino più veloci della luce senza perdere energia significa, secondo Glashow e Cohen, contraddire il principio cardine della conservazione dell'energia e trovarsi di fatto in un universo sconosciuto e beffardo, nel quale non vale più nessuna delle regole alle quali pensavamo che ubbidisse. I teorici, insomma, si dibattono, oscillando tra la tentazione di immaginare l'inimmaginabile e il sospetto che sia meglio non sprecare tempo a spiegare un risultato che verrà smentito. Gli sperimentali, dal canto loro, continuano la caccia all'errore e la svolta potrebbe arrivare prestissimo. Fra le obiezioni all'esperimento c'è quella secondo cui i neutrini sembrerebbero arrivare prima semplicemente perché è prima che alcuni di essi partirebbero. Infatti, possono essere immaginati come passeggeri di un lunghissimo treno, i quali a un certo punto scendono dal loro vagone e cominciano a correre verso il Gran Sasso: i ricercatori assumono che i passeggeri siano in numero uguale in ogni vagone, ma, se fossero concentrati in testa, arriverebbero mediamente prima del previsto, perché a molti sarebbe risparmiato di percorrere la lunghezza del convoglio. Per rispondere a questa obiezione già dalla prossima settimana il Cern modificherà l'invio dei neutrini verso l'Italia, realizzando «pacchetti» più concentrati e distanziati (di fatto, «treni» con un unico vagone). Ad attendere le particelle nelle viscere del Gran Sasso non ci sarà più solo «Opera», ma un vero e proprio schieramento di esperimenti, che, oltre a «Icarus», comprende anche «Borexino» e forse «LVD» («Large Volume Detector»). Oltreoceano, i ricercatori del Fermilab di Chicago dovranno invece riesaminare i dati di «Minos»: un esperimento situato nel cuore di una miniera che già da tempo aveva misurato una velocità dei neutrini apparentemente anomala, seppure con un margine di errore tale da permettere ancora di pensare che non superasse quella della luce. Ora i fisici sottoporranno quel risultato a un'analisi accurata, correggendo eventuali errori sistematici di misura così da renderlo più preciso e in modo da capire se l'osservazione di «Opera» ha o meno una conferma che la renderebbe molto più forte. Tutti gli sforzi, insomma, sono concentrati per rimettere al loro posto le dispettose particelle, ma, se proprio non ci si riuscisse, allora non resterebbe che rassegnarsi all' idea di abitare in un Universo ancora tutto da capire. _________________________________________________________________ ItaliaOggi 28 ott. ’11 UNIVERSITARI USA OBERATI DAI DEBITI Che hanno raggiunto i mille mld di Dollari Gli studenti americani sono soffocati dai debiti: almeno mille miliardi di dollari (oltre 700 miliardi di euro), secondo le stime. E l'amministrazione Obama ha annunciato misure. In un paese in cui l'accesso all'università è considerato uno dei pilastri del sogno americano, l'aumento delle spese scolastiche, che dal 2000 sono quasi raddoppiate, rappresenta un incubo per la classe media. E la competizione fra le università non giova, anzi spinge gli atenei a spese enormi, per pagare stipendi alle stelle ai docenti e dotare i campus di infrastrutture sportive degne di un villaggio olimpico. Con la crisi poi sono diminuiti i fondi versati dagli stati alle università pubbliche e queste ultime hanno dirottato i mancati guadagni sulle rette scolastiche. Oggi quasi due terzi dei laureati sono indebitati dopo quattro anni di studi e il debito medio per studente si aggira intorno ai 23 mila dollari. Ma il conto può arrivare fino a 100 mila dollari per coloro che hanno fatto un master. Aumentano anche i casi di insolvenza: l'8,8% nel 2008, contro il 7,7% nel 2008, secondo gli ultimi dati pubblicati dal ministero dell'educazione. Le conseguenze dei default sono catastrofiche: il governo infatti può attaccarsi allo stipendio e ai versamenti per la sicurezza sociale. E poi un giovane indebitato sarà costretto a ritardare l'acquisto della sua prima auto, della sua prima casa e a rimandare anche la data del suo matrimonio. ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 27 ott. ’11 STRESS DA LICEO CLASSICO SI PRETENDE TROPPO DAGLI STUDENTI DI OGGI? IL DIBATTITO È LA SCUOLA SUPERIORE PER ECCELLENZA, MA C' È CHI SOSTIENE SIA SUPERATA, SEVERA E INUTILMENTE OSTICA I sacrifici per imparare il greco e il latino ROMA - Studia il greco, si dice, perché se vuoi fare il medico non c' è altro modo per raccapezzarsi con i termini tecnici. Porta pazienza con il latino, si aggiunge, perché così comprendi la radice delle parole italiane e se poi ti iscrivi a giurisprudenza hai già fatto un bel pezzo di strada. Luca Serianni, ordinario di Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma, ha fatto una prova: «Se dico dacriocistite posso star tranquillo che qualsiasi medico, anche digiuno di studi classici, saprebbe che quel termine indica un' infiammazione del sacco lacrimale. Mentre se chiedessi la stessa cosa a delle matricole di medicina, con il loro fresco diploma di liceo classico, non saprebbero orientarsi». Il professor Serianni l' esempio l' ha fatto durante un seminario sul liceo classico organizzato dalla Fondazione per la scuola della Compagnia di San Paolo. Una specie di celebrazione del liceo più liceo degli altri, nonostante tutto. Perché c' è chi dice che sia una scuola per nostalgici, chi pensa che sia destinata alla marginalizzazione e chi sostiene che il carico di lavoro sia inutile quanto spropositato. Al Manzoni di Milano, ad esempio, nelle ultime due settimane si è parlato di casi di stress da studio, di ragazze rimaste a casa perché schiantate dalla troppa pressione, ma la scuola ha smentito. Eppure i ragazzi (o i genitori?) che scelgono il classico sono in aumento. A settembre ha preso questa strada il 7,1% degli iscritti alle superiori, con livelli che sfondano la soglia del 10% al Sud, il record è in Sicilia, e scendono attorno al 5% in Lombardia e in Friuli Venezia Giulia. In generale, rispetto all' anno precedente, c' è una crescita dello 0,2%. Perché, se questa è la scuola più difficile o addirittura la scuola del passato? A guardare i risultati finali questo è il percorso che garantisce i voti migliori. Alla Maturità prende 100 e lode, il massimo, il 2,3% degli studenti del classico, contro lo 0,5 di quelli dello scientifico, lo 0,8% del linguistico, addirittura lo 0,1 degli istituti professionali. Mentre i 60, voto minimo per sfangarla, sono pochissimi: il 4,9% contro il 6,6% dello scientifico, il 12,5% del linguistico, addirittura il 13,4% degli istituti tecnici. È una scuola che funziona meglio oppure sono più preparati i ragazzi che la scelgono dopo l' esame di terza media? «Se i ragazzi rendono di più - dice Luciano Canfora, professore di Filologia classica all' Università di Bari - è anche perché questo percorso fornisce qualche arma in più a chi lo frequenta». Le armi in più, a suo giudizio, sono proprio il greco e il latino ma futuri medici o avvocati non c' entrano nulla: «Il cimento del tradurre da una lingua lontana è una ginnastica non intercambiabile con altri esercizi. Il salto dell' intuizione serve a tutti, molti matematici dicono che il modo migliore per imparare la loro materia sia proprio lo studio del greco». Vale la pena, dunque? In fondo il numero dei bocciati è più basso: il 4,2 per cento contro il 4,9% del linguistico, l' 8,3 delle vecchie magistrali, il 14,4 degli istituti tecnici. Ma è proprio quella strana coppia, latino e greco, a spaventare di più. Anche per i rimandati a settembre il classico è la scuola con i risultati migliori: solo il 21,5% degli studenti viene condannato ad un' estate di sacrifici, le altre scuole tendono tutte verso il 30%. Ma dipende da cosa bisogna studiare durante l' estate. Quattro volte su dieci chi al classico è stato rimandato a settembre deve «riparare» proprio latino o greco. E va bene il salto dell' intuizione, ma un agosto a suon di versioni non è esattamente il sogno dello studente medio. Lorenzo Salvia lsalvia@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA Salvia Lorenzo ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 27 ott. ’11 IL PEDAGOGISTA: «SI ESAGERA CON LA TEORIA: VA RIPENSATO» L' etichetta Spesso lo si sceglie per questioni di etichetta, come il pianoforte per le ragazze di buona famiglia Si sottovalutano le attività manuali ROMA - «In molti casi andare al liceo, anzi iscrivere il proprio figlio al liceo, è una scelta di distinzione sociale. Perché chi va al classico è di serie A, chi va allo scientifico è di serie B, poi ci sono le altre scuole di serie C e D, mentre chi va a lavorare è proprio fuori classifica». Giuseppe Bertagna insegna Pedagogia all' Università di Bergamo ed è stato consulente del ministro Moratti. Non crede, dunque, che gli studi classici siano più formativi di altri, che possano regalare una marcia in più? «Non c' è dubbio che il latino e il greco, se studiati per vocazione e non per obbligo, siano strumenti formativi formidabili. Ma questo è un ragionamento che vale per tutte le materie, anzi per tutte le attività umane. E invece molto spesso il classico viene scelto per una questione di etichetta, come il pianoforte per le ragazze di buona famiglia». Quindi c' è il rischio che il classico torni a essere una scuola di classe? «Non è un rischio ma la descrizione della realtà. Se una famiglia di operai sceglie di iscrivere il proprio figlio al liceo sa di dover affrontare un percorso di studio di un' altra decina di anni per poi cominciare a cercare un lavoro. Se invece quel ragazzo sceglie la formazione professionale sa che nel giro di tre anni avrà uno stipendio perché ormai ci sono mestieri che nessuno vuole più fare». Non è giusto che tutti puntino in alto? «Certo. Ma questo non vuol dire arrivare a quel disprezzo per le attività manuali che noi coltiviamo sistematicamente da 40 anni. Un tempo alle scuole medie c' erano le applicazioni tecniche, poi hanno preso il nome di educazione tecnica. Adesso è solo teoria, pochissima pratica. Avete idea di quanto potrebbe imparare un ragazzino coltivando a scuola un piccolo orto?». L. Sal. Salvia Lorenzo ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 29 ott. ’11 «IL DIRITTO D'AUTORE? LO SALVERÀ LA NUVOLA» Leonardo Chiariglione, il padre degli Mp3 O gni giorno sul web vengono scambiati miliardi di contenuti audio-video. In gergo tecnico i file che transitano da pc, smartphone e tablet si chiamano Mpeg: acronimo di Moving picture experts group. Il nome deriva dal gruppo di esperti mondiali che da un quarto di secolo stanno traghettando il vecchio mondo analogico verso quello digitale. Ma in pochi sanno che è merito della mente fervida di un italiano. Il torinese Leonardo Chiariglione. Grazie alla sua intuizione possiamo ascoltare le nostre compilation preferite su iPod e riproduttori Mp3. E guardare videoclip sul telefonino e filmati di YouTube sull'iPad. Lui ha messo a punto procedure e algoritmi per comprimere i file e poterli trasportare su Internet. È conosciuto più in ambito internazionale che nel nostro Paese. Nel 2000 viene inserito da Time, unico italiano, nei 25 personaggi più influenti del mondo digitale. Nato ad Almese, alle porte di Torino, si è prima laureato in ingegneria elettronica, poi ha ottenuto nel 1973 un dottorato in comunicazione all'Università di Tokyo. Ecco perché il giapponese compare tra le cinque lingue che parla correntemente. Segue poi una lunga carriera nei prestigiosi laboratori di ricerca dello Cselt (Centro studi e laboratori telecomunicazioni) del capoluogo piemontese. Ma come è nata la codifica Mpeg per i video e per gli audio (l'Mp3)? Noi lo abbiamo incontrato a casa sua, sulle colline della bassa Val Susa. Racconta: «L'idea mi è venuta a fine anni Ottanta, quando pc e multimedialità muovevano i primi passi. Ero convinto che nel mondo digitale di musica e immagini dovesse prevalere uno standard universale». Così nel 1988 una ventina di «cervelloni» provenienti da tutto il mondo si incontrano a Ottawa, in Canada e danno vita al primo gruppo di lavoro che pone le fondamenta dell'Mpeg. E come voleva Chiariglione, da allora presidente del comitato, partono col piede giusto. Ponendo i primi mattoni per lo sviluppo di uno standard aperto. Così, nel corso degli anni Novanta, nascono le diverse versioni dei formati (vedi glossario qui sotto). Insieme definiscono le regole che saranno poi usate dalle aziende di elettronica per veicolare i contenuti audio-video sui dispositivi digitali. Alla base degli studi troviamo una serie di algoritmi matematici da cui partire per scrivere i software di compressione. Con un solo obiettivo: «Ottimizzare la memoria occupata, quindi la banda di trasmissione e il tempo necessario per il download dal web. Mantenendo però la qualità della riproduzione confrontabile con quella dei cd». Alla fine ci riescono con un buon compromesso. Perché un brano musicale della qualità più elevata occupa 4-5 MegaByte di memoria per ogni minuto di riproduzione. Dell'immensa mole di lavoro realizzata dal gruppo Mpeg fino a oggi rimane un unico lato oscuro. I file scaricati generalmente mancano di un sistema per una funzionale protezione dei diritti d'autore. Ecco perché, a livello mondiale, quasi il 90 per cento dei contenuti scaricati da Internet e scambiati attraverso il peer to peer (P2p) risulta «piratato». Qui l'atteggiamento di Mr. Chiariglione è preciso. «I diritti d'autore digitali sono sacrosanti e vanno tutelati, come quelli analogici». Allora, che cosa si può fare per il futuro? Una ricetta lui la avrebbe. «Archiviare sul cloud i contenuti audio-video, con un sistema di cifratura comune». Così l'utente li può acquistare online e fruirne su tutti i dispositivi digitali in suo possesso. «A decriptare i contenuti sarà poi un microchip che riporta in chiaro musica e filmati». In pratica un mini-decoder da integrare all'interno dei riproduttori. Un sistema a basso costo che aiuterebbe i piccoli editori e gli autori a pubblicare direttamente le loro opere su Internet. Ma come è facile intuire le major mondiali fanno resistenza, perché cambierebbe in modo radicale il sistema di distribuzione. Oltre a questo il vulcanico Chiariglione, assieme al team di esperti, ha in fase di studio due nuovi standard audio. Il primo si chiama Usac, acronimo di Unified speech and audio coding. Rappresenta il futuro della radio digitale. Perché eliminerà l'inconveniente della riduzione di qualità sonora, quando nel corso di una trasmissione il parlato si sovrappone alla musica. «Poi abbiamo iniziato lo studio dello standard audio da applicare alle televisioni di grande formato a schermo piatto». Infatti gli esperti Mpeg stanno scrivendo le procedure perché i suoni vengano riprodotti in modo circolare, creando gli effetti speciali a cui siamo abituati nelle sale cinematografiche. «Sarà come avere 22 altoparlanti in salotto». Parola di Leonardo Chiariglione. Umberto Torelli ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 28 ott. ’11 PLAGIARI, MANUALE DI AUTODIFESA Una avvocatessa d'ufficio per il club dei copioni creativi di LUCA MASTRANTONIO I l plagio, reale o percepito, è oggi il reato più inflazionato nel mondo della cultura e dello spettacolo. Sia chiaro: l'appropriazione del lavoro altrui, come la contraffazione, ha sempre avuto corso e fatto scandalo. Già il poeta latino Marziale estendeva il termine «plagiarius» — colui che, per il diritto romano, rubava gli schiavi o vendeva per schiavi uomini liberi — a chi rubava versi altrui. La natura ambigua del termine, d'altronde, in Italia s'è risolta solo nel 1981, con l'abolizione del reato previsto dal codice Rocco, che indicava un assoggettamento psicologico. L'attualità e la risonanza del plagio oggi sono però cresciute esponenzialmente, perché in un mondo globalizzato e informatizzato aumentano circolazione e confronto tra i prodotti culturali. La Rete è grande, ma le maglie si stringono molto, soprattutto attorno ai pesci che l'industria culturale alleva in maniera intensiva, chiedendo di sfornare bestseller in poco tempo a troppi autori. Come Corrado Augias, che per confezionare il libro Disputa su Dio e dintorni ha copiato brani da Internet. Cosa succede se si viene beccati? In Germania il ministro Guttenberg s'è dimesso per una tesi di laurea scopiazzata. In Spagna lo scrittore Arturo Pérez-Reverte è stato condannato in primo grado a risarcire uno sceneggiatore per «prestiti non dichiarati». In Francia non tutti i casi finiscono in tribunale, ma suscitano dibattiti accesi. E in Italia? Si fa poco rumore, spesso per nulla. Il prestigio sociale di chi s'appropria del lavoro altrui è intatto: se ti va male, resti dove sei, come il filosofo Umberto Galimberti solo «ammonito» dall'università Ca' Foscari per eccesso di fonti non citate; se ti va bene, curi il Padiglione Italia alla Biennale, come Vittorio Sgarbi che anni fa mise la firma a un saggio su Botticelli che non aveva scritto. Le scuse, questo sì, sono spesso fantasiose. Sgarbi diede la colpa alla madre, rea di aver commesso un errore da «garzone di bottega». Melania Mazzucco, per i brani di Vita intrisi di Guerra e pace, parlò di reminescenze adolescenziali di Tolstoj. Qualcuno, invece, preferisce il silenzio. Come Tiziano Scarpa, che prima ancora di vincere un controverso premio Strega, è stato accusato di essersi ispirato troppo a Lavinia fuggita di Anna Banti per Stabat mater. Poi, è finito in tribunale perché l'autrice albanese Anila Hanxari si è sentita da lui saccheggiata. La francese Marie Darrieussecq si è difesa invece con clamore. Autrice del bestseller Troismi e di un paio di opere di narrativa accusate di plagio, ha scritto un saggio appena uscito in libreria per Guanda. In Rapporto di polizia (traduzione di Luisa Cortese, pagine 344, 20) sostiene che la caccia al plagio sia una paranoia poliziesca, figlia dell'idolatria tardo romantica per i concetti di originalità e autenticità, che ha consolidato una visione patrimoniale della letteratura. Poiché per Darrieussecq scrivere è ri-scrivere, il plagio non esiste. Viene brandito per calunniare, se non addirittura controllare e reprimere gli scrittori (come sotto il regime sovietico). A sostegno della sua tesi, analizza alcuni casi, da Freud a Zola, soffermandosi su Paul Celan e Mandel'stam. Entrambi i poeti, caduti in disgrazia a seguito di accuse di plagio, dopo ulteriori campagne diffamatorie finiscono male: il primo suicida, il secondo in un gulag. Il libro vuole essere un ordigno per disinnescare la «macchina mitologica» dell'accusa di plagio. La mossa suggerita è passare al contrattacco: criminale non è chi viene accusato di plagio, ma chi accusando qualcuno di plagio lo calunnia. Il pregio del saggio è nell'analisi di alcuni casi storici, nelle perizie testuali e nell'individuazione di schemi ricorrenti: l'autore di scarso successo accusa un collega noto, sulla base di tabelle comparative tra testi decontestualizzati, formulando un'accusa che si autoalimenta dopo essere stata mossa attraverso terzi, per dare scandalo. La Darrieussecq mette la sua autodifesa a disposizione di chi è accusato di plagio (o lo sarà in futuro). Il club del copia-e-incolla ha dunque la sua avvocatessa d'ufficio. Il libro, però, manca di un'igienica distinzione tra il caso personale che l'ha generato e i grandi nomi che, con la loro statura da giganti e i loro drammi, ridimensionano tono e portata della vicenda dell'autrice. Lei stessa, poi, si dice poco interessata al tema: ha scritto controvoglia il saggio, solo per dimostrare che «il plagio, di fatto, esiste solo se denunciato». Il plagio non esisterà, ma in coda al libro ci sono 26 pagine di riferimenti. S'è molto documentata, certo. E, forse, ha messo le mani avanti. _______________________________________________________ Il giornale 30 Ott. ‘11 NATURE BENEDICE I CLIMATOLOGI MA SOLO SE SONO CATASTROFISTI... AMBIENTALISMO A SENSO UNICO Gaffe del magazine scientifico Nell'ultimo editoriale si dà il «benvenuto» agli studi (compresi quelli non certificati) purché diano ragione alla tesi della rivista di Franco Battaglia II pensiero unico va forte anche nella scienza. La rivista Natureè tenuta in alta considerazione negli ambienti accademici. Ho sempre pensato immeritatamente, e gli editori fanno poco per farmi cambiare idea. Anzi, sembra che ce la mettano tutta per consolidare il mio convincimento. L'editoriale dell'ultimo numero invita gli scienziati a inviare articoli sul tema del clima: nulla di strano, direte voi. Peccato che esordiscano così: «sono benvenuti risultati di ricerca che confermino i cambiamenti climatici antropogenici». Nasce spontanea la domanda se per caso siano invece non graditi risultati di ricerca che sconfessano l'origine antropica dei cambiamenti climatici. A leggere il resto dell'editoriale pare di sì. Quelli di Nature sono fissati da anni e il perché lo spiegano nell'editoriale: le misure dalle stazioni di terra ci direbbero che il pianeta si sta riscaldando. Peccato che 1) quelle stazioni campionano meno del 30% della superficie delle terre emerse e trascurano la totalità della superficie degli oceani; 2) il 70% di esse sono situate in località non a norma, ad esempio in aree che negli anni si sono urbanizzate (ove gli aumenti di temperatura registrati nulla hanno a che vedere col clima); 3) le misure satellitari, da quando disponibili, non registrano alcun aumento di temperatura dell'atmosfera né sopra gli oceani né sopra le terre emerse; 4)1a teoria del riscaldamento globale antropogenico prevede che nella troposfera equatoriale a 101cm da terra si registri un riscaldamento almeno doppio di quello registrato a terra, ma le misure satellitari registrano, lassù, non un accentuato riscaldamento (men che meno doppio) ma un rinfrescamento! Insomma, la teoria del riscaldamento globale antropogenico fu, nella migliore delle ipotesi, un'ipotesi di lavoro, forse buona 30 anni fa, ma oggi sconfessata dai fatti. Uno dei tanti granchi presi dalla scienza. Succede: la scienza si muove su un terreno incerto, per lo più ignoto. È per questo che si chiama ricerca: ricerca di ciò che non si sa. Ma per qualche ragione, a differenza della maggior parte dei granchi, quello dei cambiamenti climatici antropogenici è evoluto in frode. Troppe carriere si sono consolidate su esso e troppo denaro vi è stato allocato. Talmente tanto che vi hanno potuto attingere laureati in agraria, filosofi, sindacalisti, avvocati e, naturalmente, politici: tutti esperti di clima. E tutti che invocano altro denaro perché siano foraggiate le loro improbabili attività. Lo spettro è ampio: c'è chi esegue calcoli con modelli numerici dalla dubbia attendibilità e chi intrattiene blog pettegoli sul tema. Il denominatore comune di questi parassiti è invocare l'impossibile, tipo la riduzione delle emissioni di CO2 del 20% entro 10 anni. Tutti costoro hanno ora un'altra cosa da fare per riempire le loro giornate: inviare articoli a Nature. Nell'editoriale che cito la rivista ha promesso di pubblicarli anche se i risultati presentati non hanno passato il vaglio che ogni risultato di ricerca dei settori che non sono il cambiamento- climatico-antropogenico deve superare. ========================================================= ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 24 ott. ’11 HARARI: LA SANITÀ MALATA NECESSITÀ DI UNA SVOLTA In sanità l' aria è pesante: ogni giorno si registrano difficoltà e disagi maggiori, anche in una regione come la Lombardia che ha investito moltissimo in questo settore. Tra ticket, manovre, tagli al personale e razionalizzazioni quasi quotidiane si cerca di arginare un unico problema: non ci sono più soldi. Il sistema è quasi tirato al massimo e comincia a non farcela più a far fronte alle aspettative dei cittadini. Ormai si paga, i ticket sulle prestazioni ambulatoriali ne sono la prova concreta e i costi che i cittadini devono sostenere non sono affatto noccioline, sono soldi veri. E c' è già chi mormora di un ticket anche sui ricoveri. Chi lavora in ospedale continua ad avere segnali che vanno in un' unica direzione: ridurre, tagliare, rinviare. Una situazione difficile da sostenere a lungo, soprattutto in un Paese da sempre abituato a un sistema welfare di sostegno, dove le polizze integrative e le assicurazioni private rappresentano oggi una parte minima del mercato (ma forse domani le cose potrebbero cambiare). Chi paga le tasse (e anche chi le evade) pretende di avere una sanità efficiente, che si faccia carico dei suoi problemi in tutte le fasi di malattia e a costi zero o minimi, ma così non è già più. Dal letto d' ospedale al ritorno a casa esiste un vuoto incolmato. I malati vengono dimessi sempre più precocemente, riducendo al minimo le degenze in corsia, ma il territorio non è ancora pronto a far fronte ai loro bisogni, dalla flebo, al prelievo, al controllo di una medicazione chirurgica. I diversi modelli che Regione Lombardia sta valutando, dalla riforma dell' assistenza domiciliare integrata ai reparti di cure intermedie per i malati in fase di convalescenza, sono ancora da testare e valutare sul campo. Il cittadino però intanto soffre, con i suoi problemi irrisolti, i ticket da pagare, le residenze per anziani che hanno rette che da sole fanno uno stipendio mensile. E chi ne soffre di più è la classe media, priva di assicurazioni e di esenzioni per reddito, e senza l' agio economico di poter sostenere spese significative senza battere ciglio. Anche i medici in questa situazione si sentono impotenti, schiacciati da un sistema che li vincola all' iperefficienza e a rispettare degenze sempre più brevi, ma privati delle risorse per qualsiasi cosa, cancelleria compresa. La parola d' ordine ora è «fare quello che si può con le risorse a disposizione, spendendo il meno possibile». Il malcontento è ormai concreto e, se le cose continueranno così, non potrà che crescere. Possibili soluzioni? Sì, la politica dovrebbe assumersi le sue responsabilità, è il momento delle scelte coraggiose che in passato non ha saputo fare. Chiudere i piccoli ospedali riconvertendoli, riorganizzare le reti cittadine, puntare sulle eccellenze ospedaliere sostenendo anche il territorio, riconsiderare l' organizzazione delle Asl. Così si risparmierebbe davvero, concentrandosi nuovamente su un modello regionale che molto ha dato in passato e i cui successi rischiano oggi di essere vanificati dalla crisi e da troppe disattenzioni dettate dalla politica nazionale. sharari@hotmail.it RIPRODUZIONE RISERVATA Harari Sergio ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 25 ott. ’11 SE LA SANITÀ CAMPANA SI AFFIDA AI CARABINIERI L CASO LA REGIONE MANDA UN GENERALE A NAPOLI E UN COLONNELLO A SALERNO. «BASTA GUARDARE LA GENTE DRITTA NEGLI OCCHI E MOSTRARE CHE LA LEGGE ESISTE» Caos e sprechi, due militari alla guida delle Asl Inefficienza e deficit Trentamila carte contabili non lavorate e doppie fatturazioni. «Se autorizzi l' acquisto di una cravatta ne comprano diecimila» NAPOLI - L' ultimo commissario borghese della Asl Napoli 1 gliel' aveva detto papale papale, prima di scappare a gambe levate tra minacce, contumelie e aggressioni quotidiane: «Caro mio, qua il fatto è militare!». E Stefano Caldoro l' ha preso alla lettera. Morale: in sei mesi un generale e un colonnello dei carabinieri hanno assunto pieni poteri nelle due aziende sanitarie più grandi della Campania - Napoli 1 e Salerno - due storiche voragini di malagestione che da sole producono più dell' 80 per cento del deficit. Una specie di golpe o uno spot? «Né l' uno né l' altro» replica da palazzo Santa Lucia il governatore che, essendo sopravvissuto ai tentativi di killeraggio del suo stesso partito (il Pdl cosentiniano) ha sviluppato la resistenza ai marosi di una cozza su uno scoglio: «Vede, noi abbiamo proprio un problema di legalità. Per dire, alla Asl Napoli 1 ci sono trentamila carte contabili non lavorate: il buio assoluto. Questa storia si trascina da anni, serve una mentalità d' azione, servono gli uomini dell' Arma, appunto. Intanto il deficit l' abbiamo dimezzato». Il primo degli uomini d' azione sta in un ufficio appena ridipinto di bianco all' estrema periferia napoletana, dentro un compound che sembra una metafora. «Situazioni di pericolo? Macché. Diciamo di... disturbo» celia spavaldo Maurizio Scoppa, generale fresco di pensione, ultimo incarico al comando della Ogaden mentre i carabinieri assestavano colpi mortali ai casalesi. I nuovi uffici della Napoli 1 sono qui alla Toscanella, zona ospedaliera, primo piano di tre palazzine tra pini e aiuole, garitta con inutile guardia giurata all' ingresso e... ventitré famiglie di terremotati del 1980 ancora abbarbicate saldamente ai tre piani superiori. Dalle finestre pendono panni stesi sopra le bandiere d' Italia e d' Europa, parabole tv e serrande sgangherate punteggiano i muri «non Asl», scrostati come uno se li immagina. La prima convivenza tra vecchio e nuovo, tra legge ed eccezione, comincia qua. «Sono arrivato ad agosto e s' è affacciato subito qualche capetto di questi sedicenti terremotati: bongiorno, generà ... Capisce il tono, no? Beh, io neanche l' ho fatto entrare. Questi hanno avuto varie assegnazioni di case popolari, ma non se vanno perché la Asl gli paga luce, acqua, Tarsu, hanno tutto gratis. Ho scritto al sindaco per chiedere che ce li spostino». E immaginiamo dunque una agevole trattativa fra De Magistris e il generale. «Senta, adesso quando esco qua fuori nemmeno si sentono strillare i bambini, abbassano il volume delle tv. A Napoli si può. Basta guardare la gente dritta negli occhi e mostrare che la legge esiste», sibila Scoppa mandando lampi gelati dalle pupille azzurre di napoletano anomalo. È alle prese con straordinari fuori controllo usati come premio a pioggia (7-8 ore al giorno in più per diecimila dipendenti: sicché il costo medio d' un dipendente in Campania è 62 mila euro l' anno, in Piemonte e in Lombardia meno di 50 mila), con doppie fatturazioni, con le famose «carte contabili non lavorate». «Ho trovato uffici dove si contabilizza tutto a mano, ottocenteschi... sa, è facile che una carta sparisca e un' altra emerga, in quel caos. La trasparenza sta nell' informatizzazione». Dicono che per dare ordini all' autista, seduto in macchina davanti a lui, chiami la segreteria; che abbia sbattuto fuori da una conferenza stampa i dipendenti della Asl («siete in orario di lavoro, filate!»); che abbia messo alla porta un parlamentare pdl in visita pastorale al Pellegrini: non vincerà il premio simpatia. «Ma funziona» dicono a palazzo Santa Lucia, dove rivendicano la caduta del deficit della sanità da 780 a meno di 300 milioni l' anno. «Ci vogliono i carabinieri» è il nuovo mantra di una trincea dove pure l' assessore alle Finanze è un generale (però Fiamme gialle: tremontiano , sussurrano). Maurizio Bortoletti, colonnello in aspettativa, ex Folgore, ex Dia, più giovane e meno marziale di Scoppa (forse anche più politico, era consigliere di Brunetta), è un torinese che parla mostrando slide della «sua» Asl, quella di Salerno, dove s' è insediato a marzo: «Ci usavano come bancomat: autorizzi l' acquisto di una cravatta e ne comprano diecimila. Adesso, guardi qua, per il terzo trimestre del 2011 siamo all' equilibrio di bilancio». Lo attaccano furiosamente sui giornali («Bortoletti bocciato dalla Regione», «Contestato il piano Bortoletti», «Non mortifichiamo i salernitani»), nemmeno lui è popolarissimo. Replica con altri numeri e una battuta infelice: «Inutile mettere semafori nella giungla perché le scimmie non li rispettano. Bisogna riportare la gente a sapere cosa è legittimo e cosa no». Tanto per andare sul sicuro, s' è scelto come braccio destro un vicequestore, Luigi Grimaldi. «Per carità, meglio questi che... Cosentino, mi verrebbe da dire» sospira Enzo Amendola, giovane e moderato segretario del Pd campano: «Non sto a dirle che il centrosinistra gli ha lasciato un eredità rose e fiori. Ma dopo 18 mesi mi aspetto altro, il dimezzamento del deficit che loro sbandierano non viene da una razionalizzazione, ma da tagli e abbassamento di livelli. I campani vanno sempre più a curarsi fuori... e questi generali sono la prova che Caldoro non ha classe dirigente». Quella che c' era, in verità, non ha retto. Achille Coppola, il predecessore di Scoppa alla Asl Napoli 1, è un bravo commercialista. Somiglia più ad Aldo Giuffrè che a Rambo. «Mi definisco un coraggioso pauroso» mormora con adorabile autoironia. Durante i sei mesi del suo mandato da «uomo braccato», è finito sui giornali perché ha mollato la sede (allora davanti ai tribunali) e s' è trasferito a lavorare in una stanza del carcere di Poggioreale, «tanto per stare tranquillo». Allora la Asl stava in affitto pur possedendo la sede della Toscanella (naturalmente i terremotati si sono allargati anche nell' ultima palazzina prima che il trasferimento fosse compiuto). Coppola provò a incidere il bubbone degli straordinari. «Mi sono trovato l' ufficio occupato da quattrocento persone, hanno preso a colpi di casco uno dei miei. Ero solo, mi telefonavano la notte, pigliati ' a scorta , dicevano». Ora Scoppa ha tagliato certe ditte di manutenzione con contratti irregolari, sicché drappelli di esagitati lo seguono ovunque, con bandiere e striscioni, «stai mettendo per strada cinquanta famiglie». Lui fa spallucce: «Piccoli disturbi». Carabiniere si nasce. «Io lo nacqui» dice. E infine sorride. Goffredo Buccini I numeri La nomina Il presidente della Regione Campania Stefano Caldoro sei mesi fa ha nominato il generale Maurizio Scoppa e il colonnello dei carabinieri Maurizio Bortoletti al vertice delle due aziende sanitarie più grandi della regione: la Asl Napoli 1 (sotto, nella foto Controluce) e la Asl di Salerno, due storici simboli della malagestione campana, che da sole producono più dell' 80% del deficit Napoli La Asl Napoli 1 è la più grande e indebitata azienda sanitaria d' Europa: 10 mila dipendenti, ha accumulato un deficit di 5 miliardi. Nell' elenco ci sono 400 milioni da corrispondere ai farmacisti di Napoli e provincia e 900 milioni attesi da 20 mesi dalle cliniche private. Da gennaio 2010 ci sono stati ritardi nei pagamenti degli stipendi e tra i provvedimenti c' è stata anche la decisione di non distribuire più gratis gli antitumorali Salerno Le Asl Salerno 1 avrebbe accumulato debiti pregressi per quasi 2 milioni di euro, con un debito giornaliero di 650 mila euro e una cifra mensile di 20 milioni di euro Buccini Goffredo ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 ott. ’11 SCIENZE INFERMIERISTICHE: I NUORESI POCO TUTELATI» Marcello Seddone: Loi legga la Costituzione UNIVERSITÀ. Polemica sulla graduatoria di Scienze infermieristiche Si spostano sul terreno della Costituzione le scudisciate del duello sull'Università nuorese. Dopo la replica di Caterina Loi, commissario del Consorzio, a Marcello Seddone, consigliere comunale di opposizione, quest'ultimo sfodera le sue carte e rilancia la tesi che «si sarebbe potuto fare di più per tutelare i concorrenti nuoresi, in un momento di grave difficoltà occupazionale». BOTTA E RISPOSTA Oggetto del contendere, sempre la graduatoria di Scienze infermieristiche che - aveva obiettato Seddone - «ha lasciato fuori praticamente tutti i candidati della provincia di Nuoro, rimasti a terra da reali prospettive di lavoro. La Loi aveva il dovere di tutelarli, visto che il polo didattico barbaricino è stato giustificato come volano di sviluppo per il territorio». Caterina Loi aveva rimarcato: «Due graduatorie separate avrebbero violato i principi di uguaglianza e imparzialità». Ma il concetto non convince Seddone: «Ringrazio il commissario perché mi ha indotto a riprendere in mano qualche nozione di diritto pubblico - scrive in una nota - senza la sua garbata risposta non avrei avuto modo di rinfrescare la memoria in merito all'articolo 3 della Costituzione, in termini di eguaglianza formale e sostanziale. Infatti lo Stato, oltre a evitare discriminazioni, deve impegnarsi a rimuovere anche gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana». LE ESPERIENZE Scomoda le esperienze d'oltremare: «Forse il preside di Medicina dell'Università di Udine ha pensato a questo articolo quando ha stabilito che per il corso di laurea in Ostetricia verrà redatta una graduatoria generale per la copertura di 5 posti e una destinata a coloro che hanno chiesto di partecipare come residenti nella provincia di Trento». E incalza: «E a Torino, su 50 posti per fisioterapista, tre erano per gli studenti della Valle d'Aosta. Ma chissà, forse i due rettori violano la Costituzione senza saperlo». Il consigliere torna anche sul dibattito relativo ad Amministrazione delle imprese. «Di uno si dice che è fatto per i nuoresi, per l'altro si plaude al fatto che 27 persone che avevano scelto Cagliari si trovano costrette a venire a Nuoro. Rischiamo di concentrare le risorse dateci dalla Regione in un corso a metà con Sassari e uno per ventisette infermieri che non volevano studiare qui. È un risultato di cui gioire?». Francesca Gungui ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 ott. ’11 PER I TUMORI AL SENO L’OSPEDALE BUSINCO HA UNA NUOVA ARMA CAGLIARI. Arriva dall’elettrochemioterapia una chance in più per il trattamento delle forme aggressive non operabili del tumore al seno. Una tecnica palliativa e non curativa utilizzata per la prima volta all’ospedale Oncologico ‘Businco’. La tecnica è stata presentata ieri dal direttore sanitario Sergio Marracini e dal responsabile dell’unità di diagnostica operativa Carlo Cabula: «È una nuova arma che non sostituisce le armi tradizionali dell’oncologia ma - spiega Cabula - è una possibilità in più che viene offerta agli oncologi nel trattamento di tumori molto aggressivi e recidivanti dove chemioterapia, radioterapia e chirurgia hanno esaurito le loro possibilità». L’elettrochemioterapia, utilizzata anche su carcinomi e metastasi, si avvale di impulsi elettrici in grado aprire dei canali che favoriscono la somministrazione del farmaco chemioterapico attraverso l’ingresso di speciali aghi nella massa tumorale. Tra i vantaggi la riduzione al minimo degli effetti collaterali, può essere ripetuta e preserva la funzionalità degli organi. Il primo caso in Italia sottoposto a elettrochemioterapia sul tumore mammario primitivo è stato trattato dal chirurgo Cabula nel giugno del 2009. Questo tipo di modalità ha consentito di ridurre e asportare la neoplasia. La paziente, non operabile dopo ventisei mesi non ha presentato segni di recidiva. In Italia sono quattordici i centri dotati dell’apparecchiatura per la elettrochemioterapia. L’unità di diagnostica operativa del Businco, all’avanguardia per il trattamento di tumori maligni alla mammella, è stata definita il centro di riferimento nazionale della elettrochemioterapia in senologia. Garantire una diagnosi sempre più precoce e abbattere i ‘viaggi della speranza’ sono solo alcuni degli obiettivi dell’unità che in due anni ha trattato trenta pazienti con recidiva cutanea multipla di cancro mammario e di melanoma. ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 ott. ’11 PROGETTO DEL BUSINCO: PREMIO NAZIONALE ALL'ASL Oggi la Asl 8 ritirerà il Premio Filippo Basile nel corso della cerimonia di premiazione che si svolgerà a Genova nell'ambito del convegno nazionale sulla formazione nella P.A. che vedrà la partecipazione dei rappresentanti di Ministeri, Regioni, Province, Comuni, Camere di Commercio e Università. L'ospedale oncologico Businco si è classificato al primo posto nella sezione Progetti del Premio Filippo Basile per la formazione nella P.A. 2011 con il progetto “Consulti multidisciplinari nella diagnosi e cura dei tumori: dalla teoria alla cura personalizzata“ avviato dalla direzione sanitaria e realizzato in collaborazione con l'Area Formazione. Il progetto ha ricevuto il primo premio assoluto nella sezione Progetti, oltre a un Premio speciale nell'ambito della Formazione in Sanità. Il prestigioso riconoscimento è stato assegnato al Businco soprattutto per il suo approccio innovativo nell'ambito sanitario e per la sua capacità di creare “formazione sul campo”, formando gli stessi operatori attraverso riunioni collegiali multidisciplinari e integrando così le conoscenze tra i vari professionisti. ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 ott. ’11 AOUCA: OCULISTICA DALLA REGIONE 200 MILA EURO PER LA RICERCA Ci sono più di duecentomila euro per la Clinica oculistica dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Cagliari. Il finanziamento, in arrivo dalla Regione, è destinato allo sviluppo di un progetto per lo studio delle malattie della retina e, in particolare, sulla degenerazione maculare essudativa, che rappresenta la principale malattia degli occhi nelle persone sopra i 50 anni. Nonostante i progressi in campo terapeutico, un numero rilevante di pazienti, affetti da questa patologia, va incontro a una perdita grave della vista, spesso a causa di una diagnosi tardiva. La fluorangiografia retinica è la metodica diagnostica più utilizzata e la più precisa per la diagnosi delle degenerazioni maculari. IL PROGETTO Si tratta di un progetto importante per mettere a punto una procedura diagnostica che consiste nella marcatura - con un mezzo di contrasto specifico per la retina - dei globuli rossi, necessaria per realizzare un nuovo tipo di fluorangiografia retinica. Il progetto è iniziato nel 2004 quando Enrico Peiretti, ricercatore della Clinica oculistica di Cagliari, ha iniziato a collaborare con Robert Flower, professore dell'Università del Maryland, e i ricercatori dell'Università di Urbino. Da allora la ricerca è andata avanti e dagli Sati Uniti è continuata nella Clinica oculistica di Cagliari con la stretta collaborazione tra Flower e Peiretti. Lo studio, voluto da Maurizio Fossarello, direttore della Clinica oculistica di Cagliari, ha visto una prima fase nel 2009 con il progetto pilota su un ristretto numero di pazienti della Clinica. LA REGIONE Dai risultati preliminari ottenuti, è possibile mettere in evidenza le fasi iniziali della malattia quando la terapia è sicuramente molto più efficace. Il progetto si è classificato fra i primi cinque finanziati dalla Regione, davanti a centinaia di altre ricerche presentate dai vari centri delle università sarde e sarà condotto interamente all'interno della Clinica oculistica, parte della Aou (Azienda ospedaliera universitaria) di Cagliari. ( lan. ol. ) ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 ott. ’11 CAPONE: OTTANTENNI, IL PERICOLO DELLE FRATTURE L'allarme lanciato da Antonio Capone, direttore della clinica Ortopedica dell'Università Basta inciampare nel filo del telefono o della tv per finire a terra e fratturarsi un femore. Danno lieve quando accade a una persona di mezza età, conseguenze catastrofiche, talvolta addirittura mortali quando la vittima è un anziano che supera gli 80 anni. «È un'epidemia», dice senza mezzi termini il professor Antonio Capone, direttore della Clinica ortopedica dell'Università di Cagliari. «Ogni anno in Italia ci sono centomila anziani che subiscono la frattura del femore: nei casi più gravi, il 20 per cento ha un'aspettativa di vita che non va oltre i 12 mesi, il 50 per cento perde invece totalmente la propria autonomia di movimento». La causa principale di queste fratture è l'osteoporosi, «una malattia silente che colpisce circa cinque milioni di persone in tutta Italia», dice ancora il professor Capone. I pazienti, di solito, la scoprono quando all'improvviso si rompono un braccio o il femore, senza un motivo apparente. L'allarme lanciato dal professor Capone nel corso del congresso “Le fratture da fragilità”, che si è svolto nei giorni scorsi al T Hotel, ha dimensioni imponenti. «Considerato il progressivo invecchiamento della popolazione, tra meno di dieci anni ci sarà un incremento esponenziale di queste fratture che raggiungeranno la cifra di oltre un milione l'anno. In Sardegna, poi, considerata l'alta percentuale di ultra ottantenni, tale cifra risulterà ancora più alta», spiega Capone. Il costo stimato, legato al trattamento e all'assistenza di questi pazienti è di «oltre due miliardi l'anno: un miliardo per i costi diretti dell'assistenza sanitaria, l'altro per i costi indiretti (ad esempio una badante)». La fragilità non è da intendersi soltanto a livello scheletrico, ma anche a livello psicologico. Non c'è dubbio, infatti, che quando la sofferenza fisica tende a diventare un'indesiderata compagna di viaggio, condurre una vita quotidiana normale diventa molto più difficile, anche negli atti più banali come mangiare, uscire e dormire. In questo modo, il dolore si accompagna a un malessere più profondo, un misto di angoscia, tristezza, depressione e paura. Dato questo quadro, è possibile fare qualcosa? «Sì, ma soltanto se si investe nella prevenzione», spiega ancora il professor Capone. «Serve una diagnosi precoce dell'osteoporosi e delle complicanze delle fratture». Il modello a cui si guarda è quello dell'Emilia Romagna «Dovremmo realizzare strutture multidisciplinari in cui si realizzi un percorso clinico assistenziale ben delineato dove lavorano insieme l'ortopedico (che tratta la frattura e decide la più adeguata terapia medica), il geriatra (che agisce sulle condizioni cliniche del paziente per ridurre le complicanze) e il fisiatra (che si occupa della riabilitazione)». Un sistema di questo tipo contribuirebbe ad abbassare il tasso di mortalità e ridurre notevolmente i costi. «Si tratta delle unità operative di orto-geriatria», spiega ancora Capone. «Un metodo che garantisce meno complicazioni dopo la frattura, una minore degenza ospedaliera e un maggiore recupero delle funzionalità del paziente». Mauro Madeddu ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 ott. ’11 ASLNU: PIERO MESINA DIRETTORE SANITARIO NUORO. Dopo sette mesi, ma da ieri l’Asl ha di nuovo un direttore sanitario. È Pietro Mesina, attuale direttore di Malattie infettive all’ospedale San Francesco. Come spiega una nota della stessa Azienda sanitaria, la nomina del nuovo dirigente completa il management della direzione generale guidata da Antonio Maria Soru, che conta già sul direttore amministrativo Mario Altana. Una nomina a sorpresa. Da mesi, negli uffici della direzione in via Demurtas e nelle strutture sanitarie nuoresi, si rincorrevano vari nomi. Pietro Mesina ha bruciato tutti al rush finale. «Ringrazio il direttore generale per la fiducia accordatami - ha commentato dopo la nomina annunciata ieri mattina - è mia intenzione profondere il massimo impegno in questo ruolo, operando insieme a tutta la dirigenza per il progressivo potenziamento e il miglioramento della struttura sanitaria e soprattutto per il bene degli utenti. In linea con quanto avviato dal direttore generale Soru già dalle prime fasi del suo insediamento, e di concerto anche con Mario Altana, il direttore amministrativo. Cambia la prospettiva ma il mio obiettivo prioritario rimane quello di dare risposte agli assistiti». Mesina è un medico noto. Le varie pesti ed emergenze che arrivano al mondo animale e coinvolgono gli umani - dalla trichinellosi alla febbre nel Nilo degli ultimi giorni - hanno portato in prima linea il servizio che dirige. Il nuovo direttore sanitario subentra a Salvatore Bruno Murgia, che ha ricoperto l’incarico fino allo scorso 31 marzo. ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 ott. ’11 ASLOR: BRUNO LACU SE NE VA DOPO NEANCHE TRE MESI Elia Sanna ORISTANO. Dopo soli tre mesi Bruno Lacu lascia l’incarico di direttore sanitario dell’Asl Dietro l’abbandono dell’importante incarico ci sarebero esclusivamente motivi personali legati alla professione medica dell’ex dirigente. Niente, quindi, di quanto diffuso in questi giorni da “Radio Asl” su presunti contrasti di carattere politico e organizzativo con il manager Mariano Meloni. «Dietro le mie dimissioni, che presenterò nei prossimi giorni - ha confermato Bruno Lacu - ci sono solo motivi personali legati alla mia attività e al proseguo della carriera professionale. Nessun problema, quindi, con il direttore Meloni, con il quale in questi mesi ho lavorato bene e in perfetta sintonia, tanto da raggiungere importanti e positivi risultati. Ritornerò alla mia originaria professione di ginecologo - ha concluso Lacu -. Un’attività che svolgo con passione da oltre trent’anni e che voglio ora proseguire». Mariano Meloni aveva nominato i nuovi direttori, Bruno Lacu come responsabile sanitario e Maria Giovanna Porcu come responsabile amministrativo, lo scorso 4 agosto. Una nomina arrivata dopo un vuoto durato alcuni mesi. Mariano Meloni, subito dopo la sua nomina, aveva infatti revocato i direttori in carica all’epoca: Nicola Orrù e Salvatorangelo Ponti, evidentemente a lui non graditi dal punto di vista politico. Le nomine di Lacu e Porcu erano arrivate dopo un lungo braccio di ferro all’interno del centrodestra. Problemi che potrebbero ora riaprirsi dopo l’addio di Bruno Lacu. ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 ott. ’11 NASCITE IN CALO NELL’ISOLA MA NEL SULCIS È BABY BOOM I record negativi in Gallura e a Oristano CAGLIARI. Cala ancora la natalità in Sardegna: nel 2011, secondo le proiezioni del professor Italo Farnetani dell’Università Milano-Bicocca, nell’isola nasceranno 370 neonati in meno rispetto al 2010, con un calo del 2,75%, più accentuato rispetto al dato nazionale che è del 2,26%. Ma i dati sardi per provincia non sono omogenei: a fronte di un crollo di nascite nelle province di Olbia-Tempio e Oristano, ci sarà un baby boom a Carbonia-Iglesias e nel Medio Campidano. Cagliari si riconferma come città dei fiocchi rosa. Questi dati saranno presentati da Farnetani, autore tra l’altro del libro «Da zero a tre anni» (Mondadori), in occasione della Settimana Neonatologica in corso al T Hotel di Cagliari sino a oggi. In Sardegna la diminuzione più consistente nel 2011, rispetto al 2010, ci sarà nella provincia di Olbia-Tempio, con un calo del 16,15%. Segue la provincia di Oristano con una diminuzione del 10,37%. Al terzo posto la provincia di Cagliari con un meno 5,42%. Più netto il calo nel comune capoluogo, dove la diminuzione prevista è dell’8,35%. La provincia in cui si avrà il maggior incremento di nati è quella di Carbonia-Iglesias: sarà del 12,01%. È interessante notare - rileva Farnetani - che nel comune di Carbonia l’aumento è più contenuto, più 4%, mentre a Iglesias è prevista una perdita netta del 12,19%. Questo dato conferma la tendenza rilevata in tutta la regione (ma anche in Italia) che le giovani coppie tendono ad allontanarsi dai capoluoghi di provincia e dai centri più grandi e a vivere nei piccoli comuni (come dimostra anche il dato di Cagliari). Un’ulteriore dimostrazione si ha con la provincia del Medio Campidano dove è previsto un incremento dell’8,87%, concentrato soprattutto nei piccoli centri. Altra conferma si ha nelle province di Sassari e Nuoro. Anche negli anni passati avevano presentato un incremento della natalità, quando c’era un calo generale dei nati, come è avvenuto in Italia dal 2005 a oggi. Anche allora fu notata una preferenza da parte delle giovani famiglie ad andare ad abitare nei piccoli centri di campagna e abbandonare i comuni capoluogo. Questa tendenza si rileva ancora oggi, a dimostrazione che si tratta di un fenomeno consolidato. A Nuoro infatti si stima un incremento del 4,15% nell’intera provincia mentre nel comune capoluogo l’incremento è presente, ma più ridotto: più 1,33%. A Sassari stesso andamento: un incremento dell’1,72% nell’intera provincia che si riduce allo 0,76% nel comune capoluogo. Infine nell’Ogliastra si prevede una stabilità del numero dei nati, che però ricordiamo si inserisce in una diminuzione della natalità dell’intera regione. Le giovani coppie in età fertile preferiscono i piccoli centri dove siano più facili gli spostamenti in auto e dove, in molti casi, le abitazioni hanno un costo minore. Comunque la natalità è un indicatore indiretto dell’andamento dell’economia reale e dei servizi sociali offerti. Le giovani coppie decidono di andare a vivere e fare figli nei posti ove ci sono maggiori possibilità di lavoro e una offerta di servizi sociali. La scelta di alcune giovani coppie di andare ad abitare nei grandi centri può essere dettata anche dal desiderio di andare ad abitare vicino alla famiglia dei genitori, per essere aiutati nella gestione dei figli. Nell’isola, come nel resto d’Italia, più del 50% dei giovani vanno ad abitare vicino ai genitori. Contrariamente alla media nazionale in cui nascono 106 maschi ogni 100 femmine a Cagliari è prevista un’inversione di tendenza con un maggior numero di femmine: nel 2011 saranno 114 ogni 100 maschi. Era già avvenuto nel 2000, nel 2001, nel 2002 e nel 2004, quando il rapporto è stato di 109,94 femmine rispetto a 100 maschi. Si tratta ormai di un fenomeno ormai consolidato dal punto di vista demografico, di cui sarà importante capire le cause che potrebbero anche fornire elementi di studio per capire la determinazione del sesso. (s.m.) ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 ott. ’11 CROLLA LA QUALITÀ DELLA VITA ALTRE 80MILA FAMIGLIE SULLA SOGLIA DELLA POVERTÀ Indebitamento insostenibile anche per classi sociali che si erano sempre sentite al sicuro UMBERTO AIME CAGLIARI. Chissà perché dal 2009 al 2010, in Sardegna, la povertà è scesa di quasi tre punti. All’Istat dicono che sia merito di qualche lavoro precario saltato fuori all’improvviso e della micro imprenditoria femminile pare cresciuta in fretta. Dunque, la povertà è diminuita, eppure non è così. Non è in atto nessun miracolo economico, non ci sono effetti da boom e non c’è ricchezza nelle case, per dare retta all’Istat, è stata la replica, secca e amara, del Consiglio regionale dell’economia e del lavoro, nel suo dossier su nuovi e vecchi poveri. Ha ragione, il Crel: basta guardarsi attorno, ascoltare il vicino e frugare nei portafogli, per capire che quel calo è soltanto una bolla statistica, gonfiata da un ottimismo irreale, incolore e insapore, come lo sono tutti i gas subdoli. Tutti sanno che è vero il contrario. Oggi va molto peggio di ieri, col Paese reale, Sardegna compresa, che vive, denuncia e grida ben altro da tempo. Questo: se è giusto che nell’isola le famiglie povere conclamate sono 117 mila su 634 mila, altre 80 mila vivono nel pantano o stanno per crollare. Vista la crisi, adesso basterebbe davvero un non nulla, qualunque imprevisto, persino un inaspettato conguaglio di luce o acqua, per far transitare ancora 200 mila persone dal limbo della quasi povertà all’inferno della disperazione assoluta. Inferno popolato, nel 2011, da 300 mila sardi, ovvero dagli zombi di questa ultima e maledetta società. Se ci fosse il trapasso, speriamo di no, da Olbia a Cagliari la percentuale dei nuclei sotto il limite di sopravvivenza - 992 euro al mese se sono in due, 1.617,71 in quattro - salirebbe ben oltre il 31 per cento. Ed è questo il dato che terrorizza più di altri, nel leggere l’indagine «La povertà e le politiche di contrasto», voluta e conclusa dal Crel. Dopo sei audizioni che sono servite a toccare con mano la realtà e sette riunioni, è stato il presidente, Tonino Piludu, a tirare le somme. «Il disagio - sono state le sue parole - è purtroppo molto al di là dell’asticella indicata dall’Istat. Noi adesso abbiamo la certezza che lo scivolare di molte famiglie verso l’abisso sia ormai un fenomeno inarrestabile, accelerato dal crack finanziario, che ha travolto o sta per farlo anche alcune delle classi sociali finora al sicuro». È vero, l’ultimo rapporto del Crenos, istituto di ricerca universitario, ha confermato che «la qualità della vita è in caduta verticale», con la provincia del Medio Campidano, il Sassarese e l’Oristanese in fondo alla classifica del dove si sta peggio. È un disastro, ma stavolta, almeno sui soldi, la colpa non può essere scaricata sulle istituzioni. Fra cantieri comunali, progetti di ogni tipo e piani straordinari per contrastare l’indigenza, dal 2006 al 2011 a livello regionale sono stati stanziati 475 milioni. «È una cifra enorme - ha detto ancora il presidente del Crel - con una spesa pro capite di 234 euro, che è la seconda più alta in Italia, davanti abbiamo solo il Friuli». Tanti soldi ma che purtroppo spesso sono stati investiti male, con interventi votati all’assistenzialismo, a tappare le falle dell’emergenza, e quasi mai «destinati ad accompagnare le famiglie fuori dal tunnel», ha detto Fabrizio Carta che per conto della Cisl fa parte del Crel. Col risultato che in assenza di un coordinamento fra i vari enti o fra gli assessorati regionali i 475 milioni sul tavolo hanno finito per «non incidere sulle situazioni drammatiche e neanche su quelle in cui invece sarebbe bastato un intervento di accompagnamento sociale ed economico per evitare il tracollo». È il caso delle famiglie sovra-indebitate, col reddito mensile ormai in ostaggio di finanziarie al consumo, prestiti con le banche e altre esposizioni che «nel totale hanno superato la soglia della sostenibilità, umana e contabile, del debito», è scritto nel dossier. Servirebbe, in questo caso, anche un fondo di garanzia, come quello pubblico-privato per le imprese, destinato a «sostenere urgenti piani di rientro e a riportare i nuclei familiari a rischio in un’area di sicurezza». È quell’area della speranza, che secondo il Crel deve prevedere immediatamente politiche attive del lavoro per chi da quel mercato è stato espulso o non c’è mai entrato, e anche interventi specifici: va risolta, ad esempio, la fame di case. Per poi alimentare quella che è stata sintetizzata dagli esperti come «un’indispensabile rete capillare di servizi» a favore delle famiglie, a cominciare dalla scuola per finire coi trasporti. Certo, è difficile parlare adesso di welfare, con lo Stato che cinico continua a tagliare proprio nel e sul sociale, ma il Crel sul tema ha proposto una contro-verità sacrosanta: «Non servono altre risorse, sono sufficienti quelle che ci sono. Bisogna però spenderle meglio, per contrastare in concreto la povertà». Poi subito dopo ci vorrebbe un nuovo modello di sviluppo giusto, equo ed etico, ma questo sì che sa di miraggio. _________________________________________________________________ Avvenire 29 ott. ’11 «SAN RAFFAELE DA SALVARE MA SERVE UNA RIVOLUZIONE» La parola del tribunale il nodo è il conflitto d'interessi DA MILANO LUIGI GAMBACORTA Una nuova Fondazione, con un nuovo nome, con poteri più forti del Consiglio di amministrazione con un nuovo collegio sindacale». Il futuro del San Raffaele è in tutti questi "nuovo", scritti nel piano concordatario e nel decreto dei giudici che lo hanno accettano. Dettagli, in apparenza, che segnano la fine di una storia, anche umana, avventurosa sin sull'orlo del fallimento. C'è un buco spaventoso di almeno 1.500 milioni, ma quel che resta è tanto di più: «Il San Raffaele è un brand (un marchio) di valore economico indubbiamente considerevole, un'impresa sanitaria di eccellenza anche nell'ambito della ricerca scientifica (finora esercitata, con una libertà d'azione da parte di medici e ricercatori così piena che sarebbe davvero deprecabile non potesse permanere tale anche in futuro)». E la proposta di salvataggio, «finalizzata alla salvaguardia delle migliaia di posti di lavoro, è stata finora l'unica, seria e garantita». E «sulla personale affidabilità e solvibilità degli investitori (Ior e Malacalza) non vi è alcuna ragione di dubitare». Alla Procura, che sin sulla soglia della camera di consiglio ha insistito per il fallimento il Tribunale spiega che la sua è «una funzione di osservatore imparziale sull'intera operazione». Questo non vuol dire che non ne abbia accolto i rilievi. A cominciare dal «velo d'ombra», per un potenziale conflitto di interessi. Questo perché Ior e Malacalza sono già nel nuovo Cda, e «il piano di salvataggio è stato disegnato in funzione e sulla falsariga dell'offerta "blindata" dagli investitori». In concreto, «non sembra fuor di luogo ipotizzare che si sia stato posto in essere un vero e proprio contratto con obbligazioni bilaterali, sia pure ancora non immediatamente produttivo di effetti». «Ma allo stato non si intravedono danni» per i creditori chirografari garantiti con un rimborso minimo del 52 per cento. Né per cosiddetti esclusi dalla cordata di salvataggio. Dimettendosi dal Cda, i professori Pini e Clementi hanno denunciato in Procura di essere stati emarginati, di «non aver potuto far tempestivamente coltivare una diversa e pur molto appetibile proposta d'intervento finanziario formulata da una charity di diritto statunitense». Il Tribunale non lo esclude, ma osserva che «in ogni caso (se l'offerta non è stata ventilata solo su carta da giornali), si può sempre invalidare il contratto preliminare, riaprendo al mercato (ad un'eventuale gara tra più offerenti) e passare all'acquisizione della neo-costituenda società». Ammissibile anche un altro dubbio, che «le stime di conguaglio dei beni da dismettere siano fatte al ribasso, o che gli assets da acquisire vengano fraudolentemente occultati». In questo caso, ricorda il Tribunale, si può «arrivare alla revoca dell'ammissione al concordato». Ma per ora «si tratta solo di dubbi, di eventualità». Spetterà risolverli in modo particolare, ai tre commissari (Rolando Brambilla, Salvatore Sanzo, Luigi Giovanni), che godono della fiducia della Procura. «In ogni caso, non è adesso, non è questa la sede in cui il Tribunale può decidere nella astratta contemplazione di un possibile rischio». Ora bisogna fare i conti con quello che c'è sul tavolo: i 250 milioni che Malacalza ha «garantito con una fideiussione bancaria e lo Ior, di fatto equiparabile a una banca, garantisce in proprio». Il piano dice anche quali attività non faranno più parte del core business. Dall'ospedale di Olbia, mai entrato in funzione, alle società Costa Dorata, Agricola, l'O asis Administracao in Brasile. Da dismettere anche alberghi e residence. «Del tutto estranea alla proposta concordataria anche l'Università "Vita e Salute" che con il San Raffaele, ha solo rapporti esterni di collaborazione». _________________________________________________________________ Il Giornale 29 ott. ’11 MIRACOLI DELL'ASPIRINA: BATTE ANCHE IL CANCRO LA SCOPERTA La ricerca inglese pubblicata su Lancet Il farmaco riduce il rischio di sviluppare tumori al colon, pure se si è predisposti geneticamente Enza Cusmai Tra un po' le metteranno l'aureola visto che fa «miracoli»: è un toccasana per febbre e influenza ma previene gli infarti, le trombosi e ora il cancro al colon. Parliamo di «Santa aspirina», quella polverosa pastiglietta bianca che nel mondo viene ingoiata a valanga: 40mila tonnellate ogni anno. E d'ora in avanti se ne consumerà ancora di più. Usando due aspirine al giorno per 25 mesi si previene il cancro al colon- rettale nel 63% delle persone ad alto rischio. Questa è infatti la conclusione a cui sono arrivati alcuni ricercatori della Newcastle University che hanno pubblicato sulla rivista Lancetuno studio molto dettagliato. Gli scienziati hanno studiato 861 persone in 16 paesi diversi tutte portatrici di sindrome di Lynch (la forma ereditaria di questo tumore) che hanno assunto due compresse da 300 milligrammi di aspirina al giorno o un placebo (cioè semplice amido) tra il 1999 e il 2005. Al 2010 i risultati: sono stati rilevati 19 nuovi casi di tumore del colon-retto in coloro che avevano preso l'aspirina e 34 nel gruppo sotto placebo. Nelle persone che avevano assunto aspirina per più di due anni - circa il 60% del totale - gli effetti sono stati ancora più pronunciati, con 10 casi di cancro nel gruppo con aspirina e 23 in quelli che hanno preso il placebo: una riduzione del 63%. Il successo della sperimentazione ha sorpreso persino il coordinatore della ricerca. Il professor Sir John Burn della University of Newcastle, ha affermando infatti che «i dati emersi sono pressoché impressionanti perché in effetti l'aspirina riduce il rischio del cancro». Positive le reazioni dei ricercatori anche in Italia. Alberto Bardelli, oncologo dell'Istituto di ricerca sul cancro di Candiolo, considera interessante l'indagine per la sua «ampiezza» ma non la trova del tutto innovativa. «Il beneficio dell'aspirina sul cancro al colon era già noto- spiega -. Questo lavoro insomma, dimostra in modo formale e su un ampio numero di pazienti quello che altri studi avevano già messo in evidenza». Come l'indagine condotta da Peter Rothwell e John Radcliffe dell'Hospital di Oxford. Anche i due ricercatori erano arrivati alla conclusione che l'aspirina può ridurre di un quarto le probabilità di sviluppare un tumore al colon e di oltre un terzo la sua gravità, quindi il pericolo di morte per questa neoplasia. Quello studio aveva coinvolto più di 14mila persone, tenute sotto osservazione per quasi 20 anni. Ed era emerso che chi assume l' aspirinetta regolarmente (in dosi da circa 75 milligrammi al giorno) per almeno sei anni ha un rischio ridotto del 24 per cento di ammalarsi e del 35 per cento di morire a causa del tumore. «Il farmaco però va assunto con cautela e solo dopo un'attenta valutazione del bilancio tra rischi e vantaggi - avevano precisano i ricercatori britannici - perché, com'è noto, può provocare sanguinamenti gastrointestinali e ulcere». Insomma, non ci sarà una prescrizione di massa dell'acido acetilsalicilico, ma potrebbe venire consigliato a chi è considerato a elevato rischio di sviluppare la neoplasia. Ma, nonostante le dovute cautele Bardelli consiglia: «In caso di predisposizione ereditaria io penso che una terapia con l'aspirina contro il cancro al colon- retto sia assolutamente da considerare». E non sono pochi i soggetti interessati. La neoplasia del colon-retto ereditaria è la causa principale di morte per tumore con circa 160.000 nuovi casi diagnosticati ogni anno nei soli Stati Uniti. Di questi, tra il 2 e il 7% è causato da una forma ereditaria della malattia chiamata sindrome di Lynch. In Europa vengono diagnosticati ogni anno circa 250.000 nuovi casi di tumore al colon-retto che corrispondono al 9% di tutte le tipologie di cancro. _________________________________________________________________ TST 29 ott. ’11 NELLA FLORA BATTERICA I SEGRETI DEI FARMACI dire che il 90% delle cellule nel nostro corpo non sono nostre? Eppure è così. Il tubo digerente, infatti, è popolato da una vastissima (sia per quantità che per composizione) flora batterica intestinale, composta da un numero di microrganismi pari a circa 10 volte il numero di cellule del corpo. Questa flora è coinvolta nei processi legati alla digestione, come ci accorgiamo dopo una cura di antibiotici: i nostri ospiti, infatti, ci aiutano a digerire i polisaccaridi e a sintetizzare vitamine. Con la loro presenza, inoltre, stimolano il sistema immunitario e agiscono come barriera protettiva contro i patogeni. Ma, al di là di questi aspetti, il ruolo della flora intestinale è ancora in gran parte inesplorato. Descriverlo significa spalancare prospettive del tutto nuove: un team dell' EMBL, specializzato in biologia computazionale e strutturale e diretto da Peer Bork, tenta di mappare e classificare il genoma dei batteri, con J l'obiettivo di analizzarne caratteristiche ed effetti. Il processo è lungo, ma i primi risultati sono confortanti. Se si sapeva che la mappa genica del microbioma di persone con specifiche malattie (come il morbo di Crohn) è diversa da quella di chi è sano, ora si punta ad andare oltre: un obiettivo è correlare alla composizione della flora intestinale il metabolismo dell'assunzione dei farmaci. Così si potrebbero fare decisivi passi avanti verso la «medicina personalizzata». Ma un altro tema è quello della dieta, studiando i rapporti tra i microorganismi che ci colonizzano e il «processamento» dei cibi. [u. F.] _________________________________________________________________ ItaliaOggi 27 ott. ’11 INUTILI I CONTROLLI A TAPPETO SULL'AIDS È la conclusione di una ricerca francese Non serve a nulla fare controlli a tappeto sull'intera popolazione per combattere l'Aids. A questa conclusione è giunta una ricerca francese condotta da AnneClaude Crémieux, dell'ospedale Raymond-Poincaré di Garches, nell'Ilede-France. Si tratterebbe di una spesa inutile per le casse sanitarie d'Oltralpe. Il lavoro è stato eseguito per conto dell'Agenzia nazionale di ricerca e lotta contro l'Aids e ha avuto come teatro 29 ospedali. Gli autori sottolineano che occorrerebbe invece focalizzare l'interesse sui gruppi più a rischio, cioè gli uomini omo-sessuali e persone originarie dell'Africa subsahariana. La Francia, affermano gli esperti, è un paese nel quale i casi di Aids non sono così numerosi, mentre vi sono gruppi a rischio ben identificati. Nell'ambito del test soltanto lo 0,14% del campione è risultato positivo al virus. Su queste 18 persone, sette erano omosessuali maschi e altri dieci eterosessuali originari dell'Africa subsahariana. La conclusione è che 18 persone su 13 mila sono troppo poche per diffondere il test anti- Aids su vasta scala. Il rischio, molto concreto, è che si sprechino inutilmente un sacco di munizioni. E, di questi tempi, i soldi pubblici devono a maggior ragione essere impiegati in maniera efficace. Tuttavia, dicono altri osservatori, è importante mantenere un presidio anche sulla popolazione complessiva: c'è anche chi, al di fuori dei gruppi a rischio, ha contratto il virus e neppure lo sa. ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 25 ott. ’11 NANOSENSORE LASER PER L' ANTIDOPING VEDE ANCHE LE MOLECOLE MESSO A PUNTO DALL' IIT E DAL BIONEM LAB Ci sono circostanze in cui anche una quantità trascurabile di una data sostanza - veleno, ormone, tossina o anticorpo - può fare una grande differenza. Poter rilevare la presenza di pochissime molecole, perché molto rare o perché presenti in bassissime concentrazioni, è uno degli obiettivi primari della biomedicina di oggi: sostanze inquinanti, proteine e acidi nucleici sono i candidati che subito vengono in mente, per la lotta al cancro e alle altre malattie che ci affliggono. Ma è ovviamente tutt' altro che semplice. Ecco che allora vengono in aiuto le nanotecnologie, cioè quelle metodologie che vanno al cuore della materia e ne studiano e ne controllano la struttura ultima al livello dei nanometri, cioè dei miliardesimi di metro o milionesimi di millimetro. Nella fattispecie si tratta di costruire un recipiente con una superficie assolutamente idrorepellente, perché irta di una molteplicità di nanopilastri che non fanno avvicinare la soluzione alla superficie vera e propria, in modo da non perdere nemmeno una goccia della preziosa soluzione contenente le molecole da rilevare, e di rivelare poi le molecole in questione con uno speciale nanosensore di nuova concezione capace di assottigliare al massimo un fascio di luce laser in modo da poter studiare anche la composizione chimica delle molecole in oggetto. Questo è l' argomento di un bellissimo lavoro condotto all' Istituto italiano di Tecnologia (Iit) di Genova in collaborazione con il Bionem Lab dell' Università della Magna Grecia a Catanzaro e pubblicato su Nature Photonics con Francesco De Angelis come primo nome e sotto la supervisione di Enzo Di Fabrizio. Con questo dispositivo in via di brevettazione si possono rilevare anche solo una decina di molecole in un millesimo di centimetro cubico e studiarne la composizione. Che tipo di molecole? Dipende. Si può trattare di tracce impalpabili di materiali inquinanti presenti nell' ambiente o negli alimenti, di sostanze psicotrope o di ormoni nel controllo antidoping, oppure di tracce infinitesime di dna in un procedimento forense. Ma le applicazioni che vengono per prime alla mente riguardano il campo della diagnostica precoce e della prevenzione delle malattie più subdole come il tumore o la sclerosi multipla. In questi casi è fondamentale rilevare per tempo tracce di marcatori proteici presenti solo in alcune cellule o nel sangue in modo da iniziare una terapia prima che il male raggiunga proporzioni più serie e minacciose. Nel caso dei tumori poi, se non si tratta di proteine, potrebbe trattarsi di particolari molecole di rna portanti una mutazione perniciosa e prodotte in piccola quantità nelle cellule che stanno per divenire tumorali. Distinguere queste molecole da tutte le altre consimili in un corpo intero può essere difficilissimo, ma poterle rilevare in uno specifico distretto corporeo sarebbe sicuramente di grande aiuto. In questa lotta le nanotecnologie sembrano essere l' arma vincente, sia che si tratti di nanosensori che di nanorobot che penetrino nelle cellule e compiano in sito il loro fantastico lavoro Boncinelli Edoardo ___________________________________________________________________ Corriere della Sera 29 ott. ’11 IL PESO (ECCESSIVO) DEGLI ITALIANI IN 5 MILIONI OBESI Sono aumentati dell'1,5 per cento MILANO — Altro che i buzziconi Remo e Augusta Proietti che s'avventano su un super piatto di spaghetti nel film «Dove vai in vacanza?» con Alberto Sordi e Anna Longhi. Era solo la fine degli anni Settanta e l'ago della bilancia non era un problema. Tempi passati. Nell'edizione speciale dell'«Italia in cifre», stilata dall'Istat in occasione dei 150 anni dell'Unità, è entrato di diritto l'italiano in crisi con il peso. Nel dossier, il sovrappeso e l'obesità sono considerati una voce degna di nota per capire le trasformazioni del Paese. «Cresce il numero di persone con indice di massa corporea superiore a 25 (l'asticella che delimita la normalità, ndr) — scrive l'Istat —. Se nel 1994 il 32,8% degli italiani era in sovrappeso e il 7,3% obeso, 15 anni dopo la percentuale è salita rispettivamente al 36% e al 10%». Le donne sono mediamente più magre degli uomini e, almeno per una volta, escono vincenti dalle statistiche: 37% contro 57%. In lotta con l'indice di massa corporea (Imc oppure Bmi in inglese), il rapporto tra il proprio peso espresso in chili e la statura indicata in metri al quadrato. È un (maledetto) numero che supera sempre più il range tra 18,5 e 24,9 utilizzato per definire i normopeso. Così in occasione dell'ultimo Obesity Day, il 10 ottobre, l'Associazione italiana di Dietetica e Nutrizione clinica, è tornata a lanciare l'allarme: «Se gli italiani con problemi di peso fondassero un partito vincerebbero le elezioni — era lo slogan della giornata —. Italiani sempre più poveri, sempre più grassi». Quelli con problemi sulla bilancia sono oltre 20 milioni, di cui 5 milioni di obesi (con un Imc superiore a 30). Solo rispetto al 2002 la loro percentuale è in crescita dell'1,5%. Ma è un problema che supera i confini nazionali dei Paesi. Nel 2002 gli extralarge che vivevano negli Usa erano il 34,9% contro il 46,3% attuale. Nel Regno Unito sono passati dal 20 al 25%. Persino in Brasile c'è una crescita dall'10,9% al 18,5% e in Cina dall'1,3 al 3,8%. Insomma: l'obesità è diventata una delle malattie più diffuse. È il motivo per cui l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha coniato il termine di «globesity». Di qui l'inchiesta pubblicata ieri dal Financial Times, il quotidiano della City, che mette sotto accusa le multinazionali del cibo e delle bevande. Nell'incontro sull'argomento, che si è svolto all'Onu il mese scorso, è rimbalzata la seguente domanda: come possono le aziende rappresentare contemporaneamente il problema e la soluzione allo stesso? Le multinazionali sono accusate non solo di indurre la popolazione a mangiare troppo e male, ma anche di influenzare le politiche sanitarie dei governi, con importanti finanziamenti ai partiti. Nel 2010 le industrie del cibo e delle bevande hanno dato ai Repubblicani più di 8 milioni di dollari, altri 4 ai Democratici. Insomma — è l'accusa del Financial Times — il potere di lobby esercitato sul Congresso americano rischia di condizionare drammaticamente le scelte in materia di politica sanitaria. Ma ci sono anche opinioni controcorrente. Storce il naso davanti alle statistiche Antonio Liuzzi, endocrinologo e primario di Medicina interna all'Auxologico di Piancavallo (Verbania), curatore del Rapporto sull'obesità in Italia: «È troppo riduttivo sostenere che una persona è malata solo sulla base dell'Imc — sostiene Liuzzi —. Bisogna prestare maggiore attenzione ai singoli casi, al di là dell'epidemiologia». Nel 2008 più di seimila italiani si sono sottoposti a interventi di chirurgia dell'obesità. «È una soluzione a cui si deve arrivare quando sono falliti percorsi tradizionali conservativi come la dietoterapia, l'assistenza psicologica e il cambiamento dello stile di vita — spiega Alessandro Giovanelli, primario dell'Istituto nazionale chirurgia dell'obeso, appena inaugurato all'interno dell'ospedale Sant'Ambrogio di Milano —. Non deve essere considerata una scorciatoia, ma una strada che assicura risultati duraturi nel tempo, sia per il calo di peso sia per il controllo delle malattie associate all'obesità (come il diabete e le patologie cardiovascolari)». La battaglia contro il girovita è destinata a continuare. Simona Ravizza sravizza@corriere.it ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 ott. ’11 LA DEPRESSIONE È ROSA, SONO DONNE TRE MALATI SU QUATTRO Congresso sulla salute mentale Un uomo depresso e una donna depressa hanno la stessa malattia? La risposta alla terapia farmacologica è identica nei due soggetti a parità di condizioni? E gli effetti collaterali sono gli stessi? A queste e altre domande hanno provato a dare risposta i più autorevoli specialisti di psichiatria in Italia, riuniti nei giorni scorsi alla Fiera di Cagliari per il primo congresso nazionale su “Differenze di genere e salute mentale”. «Aspetti culturali, genetici e ormonali», dice il professor Bernardo Carpiniello, direttore del Dipartimento di Psichiatria dell'Università, «determinano le caratteristiche delle malattie mentali». Gli esempi possono essere tanti. La depressione, patologia molto diffusa che coinvolge il 15 per cento della popolazione, colpisce in modo prevalente la donna ma non risparmia comunque l'uomo. La schizofrenia, invece, nell'uomo si manifesta almeno 3-5 anni prima che nella donna. GLI STUDI Perché tutte queste differenze? «Non esiste una risposta precisa», spiega il professor Carpiniello, organizzatore del congresso. «Le differenze di genere relative alla salute mentale, infatti, sono legate a diversi fattori, ciascuno dei quali contribuisce a spiegare il fenomeno». In Sardegna, così come avviene nel resto d'Italia, la depressione è una malattia più femminile che maschile. «Ogni quattro persone depresse tre sono donne. E le cause sono biologiche, culturali e psicosomatiche», spiega ancora Carpiniello. RISCHIO SUICIDIO Una delle ricadute sociali legate a questa malattia è il suicidio, che in Sardegna ha un'incidenza abbastanza elevata rispetto al resto del Paese. In novanta casi su cento, dietro il suicidio ci sono problemi mentali; nell'ottanta per cento dei casi questi problemi derivano dalla depressione. «Proprio sul tema del suicidio le differenze di genere sono ancora più evidenti», dice Carpiniello. «I tentativi di suicidio che vanno a segno sono 3-4 volte più frequenti negli uomini. Tra le donne, invece, dietro i tanti tentativi di suicidio, non c'è, spesso, una vera volontà di farla finita». Dunque, per quanto la depressione colpisca maggiormente le donne, sono, però, gli uomini a subire le conseguenze maggiori. Nei casi di depressione post parto, poi, il rischio di suicidio è abbastanza contenuto come il fenomeno dell'infanticidio: «È un evento rarissimo». Mauro Madeddu ___________________________________________________________________ Sanità News 28 ott. ’11 PRESENTATI A ROMA I RISULTATI DELL’INDAGINE SUI COSTI SOCIALI DELL’ICTUS L’Ictus Cerebrale è una catastrofe che può essere prevenuta e curata. Questo è il messaggio chiave della VII Giornata Mondiale contro l’ICTUS Cerebrale, che si celebra il 29 ottobre. L’iniziativa, targata World Stroke Organization (WSO), patrocinata dal Ministero della Salute, anche quest’anno promuove il tema “ONE IN SIX”: ogni sei secondi, nel mondo, una persona viene colpita da Ictus, indipendentemente dall’età o dal sesso ed 1 persona su 6 viene colpita dall’Ictus nell’arco della sua vita. L’Ictus è responsabile di più morti ogni anno di quelli attribuiti all’AIDS, tubercolosi e malaria messi insieme; costituisce la seconda causa di morte a livello mondiale e la terza causa di morte nei Paesi del G8. In Italia, l’Ictus è responsabile del 10-12% di tutti i decessi per anno, rappresenta inoltre la prima causa d’invalidità e la seconda di demenza con perdita di autosufficienza. Nel nostro Paese si verificano oltre 200.000 casi di Ictus ogni anno e ben 930.000 persone ne portano le conseguenze. L’Ictus non è soltanto una malattia dell’anziano (negli anziani di 85 anni ed oltre l'incidenza dell'Ictus è fra il 20 ed il 35%): circa 10.000 casi, ogni anno, riguardano soggetti con età inferiore ai 54 anni. La Federazione A.L.I.Ce. Italia Onlus, alla presenza dell’eminente neurologo internazione, co-fondatore della WSO, Vladimir Hachinski, oggi ha presentato alla stampa la sua campagna di prevenzione contro l’Ictus cerebrale: presso oltre 3000 farmacie nelle principali città italiane, è possibile effettuare gratuitamente il controllo della pressione arteriosa e della fibrillazione atriale, anomalia del ritmo cardiaco che colpisce 1 ultracinquantacinquenne su 4. La fibrillazione atriale causa circa 40.000 Ictus l’anno nel nostro Paese, ma con una costante prevenzione e un’attenta diagnosi precoce, si possono evitare ben 3 Ictus su 4, pari a 30.000 casi. Durante l’incontro stampa, inoltre, A.L.I.Ce. Italia Onlus ha presentato i risultati definitivi dell’indagine condotta sulla conoscenza dell’Ictus ed i costi che gravano sui malati di Ictus cerebrale, realizzata dall’Associazione in collaborazione con il Censis e l’Università degli Studi di Firenze, all’interno del progetto “Promozione dell’assistenza all’Ictus Cerebrale in Italia” finanziato dal CCM – Ministero della Salute. L’indagine ha analizzato i bisogni di assistenza e supporto delle persone colpite da questa malattia, oltre ai costi che vengono sostenuti dalle famiglie dei pazienti, con interviste mirate sulla conoscenza dell'Ictus cerebrale. L’impatto dell’Ictus in termini di riduzione dell’autosufficienza e di incidenza dei bisogni assistenziali risulta particolarmente gravoso, in particolare alla luce dei tagli alla Sanità previsti dalla Manovra Finanziaria approvata di recente. Nel complesso, il costo medio annuo a paziente con disabilità grave per famiglia e collettività, escludendo i costi a carico del SSN (quantificati ad oggi in circa 3,5 miliardi di euro/anno), è di circa 30.000 euro, per un totale di circa 14 miliardi di Euro/anno. Tale ammontare di 14 miliardi rappresenta il 78,8% del totale ed è distinto tra la riduzione di produttività relativa alla perdita di lavoro dei pazienti (26,2%) e quella principale legata all’assistenza prestata dai caregiver (52,6%), intesa come mancata produttività per chi ha perso il lavoro o lo ha ridotto e come monetizzazione delle ore di assistenza prestate per gli altri caregiver. Dall’indagine emerge dunque che il peso dell’assistenza ricade in maniera considerevole sulle famiglie e che esiste un peso più complessivo pagato dalla collettività: questo rende sempre più urgente e strategico l’avvio di una revisione dell’offerta di servizi e prestazioni, soprattutto sotto il profilo socio-assistenziale. “Nelle statistiche ufficiali, l’Ictus figura come la prima causa di disabilità tra la popolazione adulta/anziana, ma solo il 10% del nostro campione gli attribuisce questo infausto primato – ha precisato il Professor Domenico Inzitari, Professore in Neurologia presso il Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’Università di Firenze e coordinatore dell’indagine – e il 37,9% dichiara di non avere cognizione delle dimensioni del fenomeno”. La trombolisi, terapia molto efficace entro le prime 3/4 ore dalla comparsa dei sintomi, somministrata esclusivamente presso le Stroke Unit, unità specializzate nella diagnosi e nella cura tempestiva dell’Ictus, rappresenta una misura terapeutica fondamentale perché può ridurre in modo decisivo i danni dell’Ictus ed in particolare la disabilità a lungo termine. Ma solo il 26,2% del campione afferma di sapere cosa sia la trombolisi e soltanto il 15% dichiara di conoscere cosa sia una Stroke Unit e l’importanza di esservi ricoverato in tempi brevissimi. Per quanto riguarda lo studio condotto sui pazienti, i dati hanno messo in luce come il carico assistenziale ricada soprattutto sulle famiglie: i caregiver (i parenti prossimi che si occupano dei pazienti, per la maggior parte la moglie o una figlia) convivono con i pazienti nel 66,2% dei casi, comunque li vedono per 6,6 giorni a settimana, e prestano mediamente loro 6,9 ore al giorno di assistenza diretta. Il 55,7% dei caregiver intervistati ha dichiarato di non avere più tempo libero e nel 77,8% dei casi considerano peggiorata, o molto peggiorata la qualità della loro vita, a causa dell’onere assistenziale. Il 72,1% si sente stanco, e uno su quattro (il 24,8%) soffre di depressione. “La problematica dell’Ictus merita di essere affrontato con più attenzione - ha affermato l’ingegner Paolo Binelli – Presidente della Federazione A.L.I.Ce. Italia Onlus - Nel nostro Paese non si fa prevenzione e soltanto il 40 % delle persone colpite da Ictus arriva in ospedale entro le prime 3/4 ore. Una volta dimessi dall’ospedale, i pazienti non sanno poi cosa fare perché non esiste un percorso di riabilitazione e rieducazione continuativo che tenga conto del loro reinserimento occupazionale, sociale e familiare. La mancanza d’informazione fa sì che l’Ictus abbia conseguenze più gravi di quelle che già comporta. Se si facesse una corretta prevenzione, tenendo sotto controllo alcuni dei più importanti fattori di rischio, si potrebbe più che dimezzare il rischio Ictus e quindi decine di migliaia di Ictus potrebbero essere evitati ogni anno in Italia. L’obiettivo delle nostre iniziative è proprio quello di far emergere informazioni chiare e approfondite su questa patologia – ha continuato l’ing Binelli, combattendo quel senso di fatalismo che la circonda. E’ quindi molto importante realizzare campagne informative, che coinvolgano anche le fasce più giovani della popolazione e che veicolino le informazioni sull’Ictus nella maniera più corretta, mettendo le persone in grado di gestire questo aspetto della propria salute senza inutili allarmismi, ma anche con la necessaria serietà”. ___________________________________________________________________ Le Scienze 28 ott. ’11 SEGUIRE IN DIRETTA IL RIPIEGAMENTO DELLE PROTEINE Sulla rivista Science Il risultato dello studio rivela l'esistenza di una complessa rete di stati cinetici e strutturali intermedi, alcuni dei quali vengono prontamente corretti, prima di arrivare alla forma funzionale definitiva Manipolare una singola molecola proteica, afferrarne gli estremi per estenderla e per studiarne il processo di ripiegamento: non è fantascienza ma quanto sono riusciti a fare i fisici della Technische Universitaet Muenchen (TUM), aprendo una nuova finestra sulla vita delle cellule biologiche. Il risultato, riportato sulla rivista Science, rivela l'esistenza di una complessa rete di stati cinetici e strutturali intermedi, alcuni dei quali vengono prontamente corretti, prima di arrivare alla forma funzionale definitiva. Una migliore comprensione di questo processo è ritenuta essenziale per un migliore approccio, anche terapeutico, a patologie come Alzheimer e Parkinson. La sperimentazione si è focalizzata sulla proteina calmodulina, non implicata in queste gravi patologie, ma che riveste un ruolo importante in molti processi biologici. Le funzioni, così come i deficit funzionali delle proteine, sono in gran parte determinati dalla loro struttura. Mentre le analisi strutturali effettuate con i raggi X offrono istantanee del processo di ripiegamento, la spettroscopia di singola molecola, un approccio messo a punto da Matthias Rief e colleghi del dipartimento di fisica della Tuft, produce invece immagini che vanno a costituire una sorta di ripresa filmata. Sebbene si tratti di filmati molto sfocati, che in definitiva permettono di ricavare solo la lunghezza di una molecola, consentono ai ricercatori di studiare la dinamica dei processi di ripiegamento. In quest'ultimo studio sono state utilizzate pinze ottiche (optical tweezer), strumenti in grado di intrappolare minuscoli oggetti tra opposti fasci laser. Per tenere ferma la molecola di calmodulina, i ricercatori la hanno in primo luogo inserita tra due molecole di una proteina meccanicamente più rigida denominata ubiquitina. I residui dell'aminoacido cisteina e le estremità esterne della cisteina di questo sistema hanno permesso il legame con due "staffe" costitute da DNA, poi fissate a perline di vetro di un micrometro di diametro. Le staffe, e quindi la molecola di calmodulina tra di esse, possono così essere manipolate con le pinze ottiche. L'esperimento si svolge essenzialmente tirando un singolo estremo della molecola di calmodulina finché non si estende, diminuendo poi la tensione in modo che possa tornare a ripiegarsi. In questa fase, vengono condotte con estrema precisione le misurazioni della lunghezza della proteina, le forze meccaniche e i relativi tempi. Nonostante ciò, la molecola di calmodulina veniva mantenuta in condizioni non molto differenti da quelle presenti all'interno della cellula, ovvero una soluzione acquosa con una concentrazione di ioni calcio in grado di favorire il ripiegamento stabile. I risultati indicano che distinti sotto-domini della molecola di calmodulina si ripiegano indipendentemente mentre ancora interagiscono gli uni con gli altri, a volte cooperando e a volte interferendo tra loro. Lungi dall'essere un semplice processo a due stati, il ripiegamento della molecola di calmodulina ha luogo attraverso una complessa rete di cammini in quello che è detto il suo 'panorama energetico' ”, ha spiegato Rief. “Questa mappa di stati cinetici e cammini tra differenti forme ripiegate include binari morti e strutture intermedie che successivamente devono essere smantellate, prima che la proteina possa assumere una forma che le consenza la piena funzionalità.” (fc) ___________________________________________________________________ Sanità News 28 ott. ’11 PASSI IN AVANTI NELLA PRODUZIONE DEL SANGUE SINTETICO Un team di ricercatori delle Università di Edinburgo e Bristol, coordinati dal professor Marc Turner, ha sviluppato una tecnica che consente di prelevare cellule staminali adulte dal midollo osseo e farle crescere in laboratorio fino a trasformarle in cellule che sembrano e agiscono esattamente come i globuli rossi. Una volta raffinata la tecnica, il gruppo di scienziati spera di poter passare alle cellule prelevate da embrioni, o a cellule della pelle riprogrammate, invece delle cellule staminali adulte perche' possono crescere piu' rapidamente e in maggiori quantita' in laboratorio. Il sangue ottenuto in questo modo potrebbe aiutare a superare molti problemi legati alla donazione come le infezioni che si trasmettono accidentalmente (oggi i rischi sono ridotti con l'epatite A e C ma persistono con la vCJD, la forma umana del morbo della mucca pazza) e la scarsa disponibilita' di sangue. Per esempio, sarebbe possibile ottenere sangue di tipo '0 negativo', che e' posseduto solo dal 7% della popolazione mondiale ma che potrebbe essere usato per il 98% dei pazienti. ___________________________________________________________________ Sanità News 28 ott. ’11 1 BAMBINO SU 200 E' A RISCHIO AUTISMO In Italia 1 bambino su 200 è a rischio di autismo ma ci sono ancora troppi ritardi nell'individuazione del disturbo e terapie non idonee ad affrontarlo". Lo rende noto l'Istituto di Ortofonologia (IdO) - centro accreditato dal Sistema sanitario nazionale di terapia e ricerca per l'età evolutiva, operativo dal 1970, ed ente di formazione e aggiornamento per medici, psicologi e insegnanti - che propone quindi un approccio innovativo sia nella diagnosi che nella terapia per migliorare la qualità della vita dei bambini autistici e delle loro famiglie e per dimostrare che l'autismo è affrontabile con risultati soddisfacenti. Sarà questo, infatti, il tema al centro del convegno "Autismo infantile. La centralità della diagnosi precoce per un progetto terapeutico mirato", promosso dall'IdO in collaborazione con la Fondazione Telecom ed Edizione Magi e in programma sabato 12 novembre presso il Palazzo dei Congressi dalle ore 9 alle ore 17, nell'ambito dell'evento Diregiovani Direfuturo- Il Festival delle giovani idee. Una manifestazione di quattro giorni, dal 9 al 12 novembre, che porterà a Roma più di 30.000 ragazzi provenienti dalle scuole di tutta Italia. Perché anche i bambini autistici possano "Direfuturo", l'IdO presenterà al Festival, giunto alla sua terza edizione, i due progetti noti come "Tartaruga", attivo a Roma dal 2004, e "La centralità della diagnosi precoce nell'autismo infantile", co-finanziato dalla Fondazione Telecom Italia a marzo 2011. La prima iniziativa propone nel trattamento del disturbo autistico un approccio basato sulla motivazione, mentre la seconda coinvolge la scuola e i pediatri in percorsi di formazione finalizzati all'individuazione dell'autismo fin dalla più tenera età. "Ciò che è necessario - afferma il direttore dell'Ido Federico Bianchi di Castelbianco - è fare la diagnosi entro i tre anni. Prima ci si muove e meglio è - conclude - perchè si riesce ad intervenire quando il disturbo non si è ancora radicato". ___________________________________________________________________ Sanità News 27 ott. ’11 LA LEGGE DI STABILITA' PENALIZZA I MEDICI SPECIALIZZATI Nella legge di stabilità all’esame del Parlamento è stata introdotta una norma che azzera la possibilità per i medici specializzatisi negli anni '80 e '90 di presentare ricorso per non aver percepito alcuna retribuzione o una retribuzione non adeguata, come i loro colleghi europei, durante gli anni di formazione specialistica, a causa del mancato tempestivo recepimento delle direttive comunitarie. L'intento del legislatore con il riferimento all'art. 2947 del codice civile è quello di riportare la prescrizione del diritto dai 10 anni stabiliti dalle recenti sentenze della Cassazione a 5 anni, retrodatando la decorrenza dalla quale sarebbero derivati i diritti. Attualmente, dopo le sentenze della Cassazione, la data da cui decorre la prescrizione è il 27 ottobre 1999. "Un salto indietro - è il commento del Segretario Nazionale Anaao Assomed, Costantino Troise - che metterebbe una pietra tombale a tutti i ricorsi pendenti e futuri. Dopo il tentato "golpe" previdenziale estivo sui riscatti degli anni di laurea, assistiamo oggi ad un'altra manovra che mira a negare un giusto risarcimento per una palese violazione di una Direttiva Comunitaria applicata dallo Stato italiano con 20 anni di ritardo. Pur di mettere le mani nelle tasche dei medici il Governo non esita a manomettere il codice civile". (Sn) _________________________________________________ Sanità News 26 ott. ’11 SIU: TESTOSTERONE, TROPPO BASSO NEL 40% DEI MASCHI 0001 Il calo del testosterone, tecnicamente “ipoandrogenemia”, evento piuttosto frequente negli uomini over 50 ma sempre più diffuso anche a partire dai 40 anni, non causa solo i noti problemi sessuali, ma anche rischi di aumento dell’osteoporosi e delle malattie cardiovascolari. Si tratta di una problematica che per anni è stata considerata – oltre che un tabù – irrimediabile, irreversibile, e soprattutto ineluttabile. Niente di più falso. Le evidenze scientifiche suggeriscono che un riequilibrio dei livelli fisiologici del testosterone non solo ridà ‘fiato’ alla passione, ma è in grado di interferire positivamente con la progressione proprio di osteoporosi e malattie cardiovascolari. L’importante è evitare le soluzioni ‘fai da te’, che possono pregiudicare il futuro, oltre che rendere difficili poi interventi corretti. Se ne è parlato nell’ultima giornata del congresso nazionale della Società Italiana di Urologia, che si chiude con la cifra record di presenze: oltre 1200. “A partire dai 40 anni – spiega Vincenzo Mirone, ordinario di urologia all’Università Federico II di Napoli e Segretario Generale SIU – il testosterone subisce un calo di circa l'1% ogni anno: intorno ai 50 anni, e ancor di più a 60 anni e oltre, la quantità in circolo dell’ormone può essere talvolta talmente bassa da provocare i sintomi di un vero e proprio climaterio in versione maschile”. Una condizione di ipoandrogenemia si rileva infatti nel 10% della popolazione maschile di età compresa fra i 40 e i 60 anni e nel 30% nella fascia di età fra i 60 e gli 80 anni. “L’ipoandrogenemia a sua volta – prosegue il prof. Mirone – favorisce un quadro clinico caratterizzato da obesità, riduzione della massa magra, osteoporosi, aumento di patologie cardiovascolari, compromissione delle funzioni cognitive e quindi compromissione della qualità di vita. Il testosterone rappresenta dunque un ormone chiave non solo per la salute sessuale, ma anche e soprattutto per il benessere psico-fisico dell’uomo. Dunque è fondamentale intervenire appena si presentano sintomi sospetti, primo tra tutti il ‘calo’ del desiderio”. Le terapie a base di testosterone sono state viste, per oltre sessant’anni, con sospetto dall’intera comunità urologica. In particolare, la terapia sostitutiva con testosterone è stata a lungo ritenuta responsabile dell’insorgenza di cancro alla prostata. Un pregiudizio pesante, che ha condizionato il comportamento clinico di molti urologi nel mezzo secolo appena trascorso, ma che ormai appare assolutamente sfatato. Tanto che oggi si è ripreso ad intervenire in questo campo proprio alla luce di nuovi dati, in particolare in relazione ai fattori di rischio cardiovascolare. “Negli ultimi anni – aggiunge il prof. Mirone – l’attenzione medico- scientifica è stata rivolta con crescente interesse alla cosiddetta Sindrome Metabolica che mostra un’elevata prevalenza nella popolazione maschile soprattutto dopo i 60 anni e la sua incidenza è risultata in forte aumento negli ultimi anni. Risulta evidente la possibile associazione tra sindome metabolica e basso livello di ormoni sessuali (ipogonadismo), in crescente aumento, che va attentamente considerato in particolare dagli specialisti urologi o endocrinologi o dagli specialisti di patologie cardiovascolari. Per quanto riguarda gli uomini, quello che noi consigliamo è di non spaventarsi ed evitare assolutamente soluzioni apparentemente facili ma che possono creare problemi nel futuro. Una visita urologica può davvero chiarire ogni dubbio e risolvere il problema alla radice”. (Sn) _______________________________________________________ Corriere della Sera 30 Ott. ‘11 LA VICENDA DELLE DUE MAPPE CONCORRENTI IL «GENOMA» DIECI ANNI DOPO COME CI HA CAMBIATO LA VITA La vicenda delle due mappe concorrenti Il «genoma» dieci anni dopo Come ci ha cambiato la vita L'effetto più marcato per adesso è sulle diagnosi P rescrivere a un paziente l'analisi del suo intero patrimonio genetico così come si richiede un elettrocardiogramma o una risonanza magnetica? Perché no, almeno in prospettiva. Il caso di Debbie Jorde insegna: sua figlia Heather era nata con un labbro leporino, otto dita della mano, otto dita del piede e senza le palpebre inferiori, colpita da una rara malattia, la sindrome di Miller, talmente rara che i medici non pensavano fosse genetica, ma legata a mutazioni occasionali del Dna. E avevano assicurato alla mamma che il secondo figlio non avrebbe avuto problemi. Sbagliato. Il fratellino Logan, nato tre anni dopo, ne era affetto anche lui. Quando i ragazzi diventarono adulti, il secondo marito di Debbie, un genetista all'University of Utah a Salt Lake City, pensò di analizzare i genomi di madre, padre e dei due figli e scoprì il gene responsabile della malattia, chiamato DHODH (ha a che fare con la sintesi dei nucleotidi) e un'altra anomalia, nel secondo figlio, che lo predisponeva alle polmoniti. Se lo avessero saputo prima, avrebbe evitato terapie sbagliate. L'idea di leggere l'intero genoma di una persona è l'ultima frontiera di un lungo percorso, cominciato dieci anni fa con la pubblicazione della mappa genetica umana. L'anniversario invita, oggi, a ripercorrere le tappe di questa avventura e suggerisce una riflessione sulle ricadute pratiche del Progetto Genoma. Senza eccedere con l'entusiasmo (forse eccessivo all'inizio) e senza esagerare con le critiche (diffuse allora come ora), perché i vantaggi ci sono e sembrano crescere di importanza, anno dopo anno. La mappatura del genoma umano ha permesso di catalogare all'incirca 25 mila geni (molto meno dei 100 mila ipotizzati all'inizio) che determinano le caratteristiche fisiche di un individuo e il funzionamento del suo organismo. Fin qui tutto bene, ma si doveva fare un altro passo in avanti per capire quando i geni, attraverso le loro mutazioni, provocano malattie o predispongono al loro sviluppo. «Ci si è accorti — dice Paolo Vezzoni, ricercatore del Cnr all'Istituto Humanitas di Milano — che certi geni presentano polimorfismi, cioè variazioni, nei diversi individui (ogni individuo, infatti, ha la sua carta di identità genetica che lo rende diverso dagli altri sia nell'aspetto fisico che per le malattie di cui può soffrire). Bisognava andare a cercare questi polimorfismi» . È nato così il progetto HapMap, la mappa degli aplotipi (l'aplotipo è un insieme di variazioni, cioè di polimorfismi genetici): oggi, grazie a questo "atlante", è possibile mettere in correlazione determinati aplotipi con un'ampia gamma di malattie. Nel frattempo i ricercatori hanno dato vita allo studio del trascrittoma, del proteoma e dell'epigenoma (vedi glossario) tutt'ora in corso. La ricerca, dunque, ha fatto passi da gigante, sicuramente per quando riguarda le conoscenze scientifiche, ma, per ritornare alle ricadute pratiche, quali sono oggi i reali benefici per il paziente? «I vantaggi più importanti si sono avuti nel campo della diagnosi e della prognosi delle malattie genetiche semplici (provocate, cioè, dal difetto di un singolo gene, come la talassemia) — spiega Vezzoni —. Quando ha preso il via il Progetto Genoma, si conoscevano pochissimi geni di malattia; oggi, invece, abbiamo la possibilità di diagnosticare almeno 2.200 patologie monogeniche (in totale sono almeno 7mila, la maggior parte rare), anche se, purtroppo, tutto questo non si è ancora tradotto in un miglioramento delle cure (a parte certi tentativi di terapia genica, vedi articolo sotto)». Diverso è il discorso delle malattie complesse (determinate, cioè, da più geni, come il diabete, l'obesità, le malattie cardiovascolari e della possibilità di predirne il rischio attraverso l'analisi dei geni con i test genetici: è questa la medicina predittiva (vedi articolo a fianco). Altre due ricadute del Progetto Genoma: l'impatto dell'analisi genetica sulla prognosi della malattia (i maggiori progressi si sono fatti in oncologia) e sulla terapia, intesa come possibilità di scegliere il farmaco più adatto in base alla carta di identità genetica del paziente (un esempio è l'utilizzo di farmaci anti-Aids) o addirittura in base alla carta di identità della malattia (anche qui le novità più importanti riguardano i tumori le cui cellule hanno geni alterati rispetto a quelli di una cellula normale). «Parliamo di prognosi dei tumori — dice Paolo Vezzoni —. Prendiamo il cancro al seno: ci sono pazienti che hanno una ricaduta dopo due anni, altri che ce l'hanno dopo 20. Trent'anni fa si studiavano i recettori ormonali e, in base alla loro presenza, si stabiliva la prognosi. Adesso si va a cercare il gene "neu": se è amplificato (cioè fa un "superlavoro") nelle cellule tumorali, la prognosi è peggiore». Penultima "evoluzione" del Progetto Genoma: l'epigenetica, la possibilità cioè di capire come il lavoro dei geni viene condizionato da fattori esterni al Dna, soprattutto ambientali, che agiscono attraverso processi chimici, come la metilazione. «Oggi — dice Giuseppe Novelli, genetista all'Università Tor Vergata di Roma — abbiamo la possibilità di controllare, attraverso farmaci innovativi, certe condizioni di ritardo mentale legate alla metilazione di alcuni geni». L'ultima, è, come si diceva all'inizio, l'esame "personalizzato". abazzi@corriere.it _______________________________________________________ Corriere della Sera 30 Ott. ‘11 LE 1.700 MUTAZIONI IMPLICATE NEL TUMORE AL SENO Mille e settecento mutazioni del dna legate al tumore al seno: tante ne hanno trovate i ricercatori americani che hanno "letto" l'intero genoma delle cellule malate di cinquanta pazienti e lo hanno confrontato con quello delle loro cellule sane. «Il genoma del cancro — ha commentato il coordinatore del progetto, Matthew J. Ellis della Washington University di St. Louis — è qualcosa di incredibilmente complesso e questo spiega le difficoltà nel formulare la prognosi e nell'identificare le mutazioni che si manifestano soltanto nel tumore». Qual è il significato di queste ricerche? Ecco un esempio. Tutte le pazienti, cooptate nello studio, avevano recettori per gli estrogeni, che favoriscono la crescita del tumore, ed erano, quindi, candidate a una terapia con antiestrogeni, prima dell'intervento chirurgico, con l'obiettivo di ridurre la massa tumorale. I ricercatori, però, hanno scoperto che alcune rispondevano bene alla cura, altre no. E hanno trovato geni diversi nei due casi. Le prospettive che si aprono per la terapia personalizzata sono gigantesche. Già ora esistono test che valutando l'espressione di certi geni in certi tumori e suggeriscono le terapie: è questa la medicina personalizzata. «Per almeno un centinaio di farmaci oncologici oggi disponibili — commenta Giuseppe Novelli, genetista all'Università Tor Vergata di Roma — si richiede il test genetico del tumore». Passo successivo: il genoma "personalizzato" per ogni singolo malato: che nel caso di una trentanovenne con leucemia mieloide acuta ha permesso di trovare una mutazione non rilevata dai test standard e di cambiare in corsa il trattamento. _______________________________________________________ Corriere della Sera 30 Ott. ‘11 TROPPI TEST RISCHIOSI SUL WEB Allettanti, ma privi di senso e pieni di pericoli A desso è offline, ma fino a qualche tempo fa il sito scientificmatch.com vi prometteva la ricerca del partner ideale con un semplice test del Dna. Funziona, invece, warriorsroot.com, un indirizzo che promuove due analisi che vi dicono se diventerete campioni sportivi: uno è l'Athletic Test che valuta nove geni dello sport (legati alla forza muscolare, per esempio, o alla pressione sotto sforzo); l'altro è il Warrior test sul cromosoma maschile Y, il test dei guerrieri, che trova analogie fra chi si sottopone all'esame e individui preistorici vissuti almeno 60 mila anni fa, nati per combattere uomini o animali. Esagerazioni della genetica e troppa fiducia nella lettura del Dna? Probabilmente sì. Il business è gigantesco e online si trova di tutto. Leader mondiale del settore del "gene testing" è il sito 23andme.com (l'azienda creata da Anne Wojcicki, moglie del co- fondatore di Google, Sergey Brin): le offerte vanno dalla possibilità di conoscere il rischio di almeno un centinaio di malattie (fra cui obesità, schizofrenia, asma) fino all'esame delle preferenze per i cibi, con tanto di indicazioni per la dieta genetica personalizzata. Basta un campione di saliva. Costi? Meno di 200 dollari. Sono questi gli eccessi che derivano dall'aspetto più spettacolare del sequenziamento del genoma umano: l'accelerazione della tecnologia, oggi 50 mila volte più rapida rispetto a quella di dieci anni fa. E dalla riduzione dei costi: allora l'analisi di un genoma completo arrivava a 100 milioni di dollari, adesso a circa 15 mila. Se poi si esamina soltanto la parte codificante, cioè quella che fabbrica proteine, i costi si abbattono ancora. Ecco il perché del boom dei test. Ma sono attendibili? Limitiamoci a quelli per le malattie complesse che colpiscono l'80-90 per cento della popolazione adulta: diabete, Alzheimer, infarto, ictus, psoriasi e via dicendo. «Queste malattie complesse sono legate ai polimorfismi del Dna — spiega Bruno Dallapiccola, genetista all'Università La Sapienza di Roma —, cioè a sue variazioni rispetto al normale. A tutt'oggi abbiamo identificato 220 caratteri o malattie complessi e almeno 1.400 variazioni che li riguardano». È difficile, però, tradurre in pratica queste informazioni. Per esempio: la presenza, nel Dna, di una comune variazione, legata all'ipertensione arteriosa, aumenta di un punto la pressione. Poco. Quante ce ne vogliono perché la malattia si manifesti davvero? E quali sono queste variazioni? Ancora non si conoscono ed è per questo che diventa arduo predire il rischio di ipertensione con un test. La pressione commerciale, però, è forte, e l'offerta di check up genetici test è gigantesca ed è spesso diretta al consumatore. Non tutto, però, è da buttare, a patto che questi test vengano eseguiti in laboratori specializzati e siano interpretati da un medico. «I geni non sono tutto — ricorda Dallapiccola —. Nel passaggio dal genotipo (quello che sta scritto nel Dna) al fenotipo (cioè all'individuo in carne e ossa) bisogna considerare anche trascrittoma, proteoma, epigenoma e persino meta genoma (si veda l'infografica) che condizionano il lavoro dei geni». Ecco perché quello che dicono i geni va messo in relazione con altre caratteristiche di una persona. «Prendiamo il diabete di tipo 2: conosciamo 40 geni che spiegano il 20, 25 per cento dei casi. E il resto? — conclude l'esperto —. Nel diabete di tipo 1 ne conosciamo 40 che spiegano il 60 per cento dei casi. E il resto? È indispensabile allora considerare altri fattori di rischio che sono dettati dalla storia clinica dei pazienti: la presenza di casi di diabete in famiglia, per esempio, la dieta, il peso e via dicendo». Oggi i test più interessanti riguardano la previsione dei rischi cardiovascolari (in particolare la suscettibilità all'ictus) e della maculopatia dell'anziano, sempre da interpretare insieme ad altri fattori di rischio. La formula vincente per una buona medicina predittiva? Analisi genetica, sì, ma mai senza la clinica. _______________________________________________________ Corriere della Sera 30 Ott. ‘11 PER L'ANEURISMA DELL'AORTA LA PREVENZIONE È UN SALVAVITA Ben 12.500 ecografie effettuate e 10 mila telefonate per chiedere informazioni e scoprire eventuali fattori di rischio. Sono i numeri di «Un minuto che vale una vita», campagna della Società italiana di chirurgia vascolare ed endovascolare (Sicve) per la prevenzione dell'aneurisma dell'aorta addominale, partita a maggio 2010. L'aneurisma dell'aorta addominale è una dilatazione localizzata permanente di questa arteria, che ne indebolisce la struttura. La rottura dell'aneurisma causa 6 mila morti all'anno nel nostro Paese: in particolare, l'80% dei pazienti muore prima di arrivare in ospedale, dove la mortalità per gli interventi eseguiti in emergenza è del 50%. Rischio che si riduce invece al 3% quando il chirurgo vascolare può programmare l'operazione. La campagna ha consentito di individuare 850 pazienti sopra i 65 anni con aneurisma, di cui 120 operati subito perché il diametro dell'aorta superava i 5 centimetri e gli altri, con diametro dell'aorta di 3 centimetri, inseriti in un programma di follow up di 5 anni. Per questi risultati, la Sicve auspica uno screening a livello nazionale. _______________________________________________________ Corriere della Sera 30 Ott. ‘11 IL COLESTEROLO «VERDE» RUBA SPAZIO A QUELLO CATTIVO In questi ultimi anni sta diventando sempre più evidente che, accanto agli alimenti che possono aumentare i livelli di colesterolo nel sangue, ne esistono altri che avrebbero un ruolo protettivo. Fra questi, i fitosteroli, sostanze di origine vegetale con struttura simile al colesterolo, di cui sono ricchi soprattutto gli oli vegetali e la frutta a guscio, seguiti dai cereali da alcuni tipi di ortaggi e frutta come cavolini di Bruxelles, broccoli, cavolfiori, olive verdi e nere, frutti della passione. Che il contenuto in fitosteroli della dieta meriti attenzione lo conferma un recente studio condotto in Spagna su 85 adulti sani e pubblicato on line su Nutrition, Metabolism & Cardiovascular Diseases. In questa ricerca si è visto che all'aumentare dei fitosteroli introdotti con la dieta si riduceva l'assorbimento del colesterolo da parte dell'intestino e diminuiva in particolare il livello di colesterolo LDL ("cattivo") nel sangue. «La convinzione che i fitosteroli riducano l'assorbimento del colesterolo e la colesterolemia è ampiamente condivisa dalla comunità scientifica — commenta Adriana Branchi, responsabile del Centro studio e prevenzione dell'aterosclerosi della Fondazione Policlinico di Milano.— Ma se l'apporto di fitosteroli è basso, come quello abituale della popolazione occidentale circa 200-300 mg al giorno), l'effetto è però veramente modesto. Nello studio citato, la quantità di fitosteroli era molto più alta (circa il doppio) e per poter raggiungere questi livelli, la scelta degli alimenti deve essere particolarmente accurata. E se si vogliono ottenere cali decisamente significativi del colesterolo si devono assumere quantità di fitosteroli ancora maggiori, almeno 2 grammi al giorno. Con queste dosi, il colesterolo scende anche del 10-15%». «Aumentare il consumo di alimenti ricchi in fitosteroli è consigliabile — aggiunge Domenico Sommariva, vicepresidente della sezione lombarda della Società italiana per lo studio dell'arteriosclerosi — anche perché la maggior parte di questi alimenti, come gli oli, i semi, la frutta secca a guscio, sono ricchi pure di grassi mono e polinsaturi che contribuiscono a ridurre la colesterolemia, soprattutto quando vanno a sostituire altri grassi. Tuttavia, se questo può essere un accorgimento alimentare utile per tenere sotto controllo il colesterolo nella popolazione in generale, quando ci sono problemi di ipercolesterolemia, o di malattia arteriosclerotica, alle modifiche dietetiche è quasi sempre necessario associare farmaci ipocolesterolemizzanti». C. F.