RASSEGNA STAMPA 13/11/2011 VOTI ALLA RICERCA, PRIMI SEGNALI DI MERITOCRAZIA ALLE UNIVERSITÀ MIGLIORI FONDI PARI A QUELLI DEL 2010 UNIVERSITÀ, TREDICESIME E LABORATORI A RISCHIO IL RUOLO DEGLI ATENEI PER USCIRE DALLA CRISI IL NUOVO ANNO DELLE UNIVERSITÀ PARTE ALL'INSEGNA DEL VECCHIO PER L'ABILITAZIONE NAZIONALE OCCORRERÀ ASPETTARE IL 2013 ABILITAZIONE SCIENTIFICA, NO DEL CUN IL PASSAGGIO AI DIPARTIMENTI COMPLICA L'OFFERTA FORMATIVA I CONCORSI: UNA RIFORMA IPERPRESCRITTIVA GLI ATENEI COMMISSARIATI DALL'UE SORPRESA: IN CINA L'UNIVERSITÀ STA FALLENDO È SBAGLIATO BOCCIARE TUTTE LE UNIVERSITÀ ITALIANE» HARVARD GLI STUDENTI PIANTANO LE TENDE CONTRO L'UNIVERSITÀ D'ÉLITE LE UNIVERSITÀ AL GUINZAGLIO DI CONFINDUSTRIA LLOSA: COSÌ GLI STUDENTI ROSSI HANNO DISTRUTTO L'UNIVERSITÀ FONDI PER 40 RICERCATORI MA LA STATALE LI RIFIUTA IL RICERCATORE: COSÌ LA STATALE CI NEGA SPERANZE ISRAEL: MA LA LAVAGNA È MEGLIO DEL DIGITALE BERTAGNA: «MA I COMPUTER NON INVADANO LE AULE» UNIVERSITA’ TELEMATICA IN CUI SECOND LIFE E’ DOCENTE DI RUOLO CNR, E-LEARNING E' UN MERCATO IN CRESCITA CAGLIARI: OLTRE UN MILIONE PER 26 RICERCATORI CABRAS: DUEUNIVERSITÀ SONO TROPPE UNISS: GIÙ LE MANI DALL’UNIVERSITÀ CABRAS: DECIDIAMO LA QUALITÀ DELL’UNIVERSITÀ SASSARI SULL’UNIVERSITÀ: GIÙ LE MANI DALLA NOSTRA STORIA CAGLIARI: UNO SPIRAGLIO PER I FUORI CORSO CAGLIARI: CENTRALABS QUANDO IL LAVORO È IN 3D CAGLIARI: IL TESORO DIMENTICATO DELL'UNIVERSITÀ STANZE, SALASSO PER GLI STUDENTI UN GIOVANE SU DUE È SENZA LAVORO NELLE PALESTRE SARDE SOLO LAUREATI IN SCIENZE MOTORIE» SCOPERTE SCIENTIFICHE: SEMPRE MENO PER UNDER 30 QUANDO LA CUCINA CAMBIÒ LA NOSTRA EVOLUZIONE MCCARTHY, PAPÀ DELL'«INTELLIGENZA ARTIFICIALE» OLTRE CARTESIO, NASCE IL CERVELLO ARTIFICIALE CONTABILITÀ DELL'AFFETTO SE TROVI UN AMORE PERDI UN AMICO IL CHILO PERDE PESO SFIDA PER LA MISURA PERFETTA ========================================================= SASSARI: SI INDAGA SULL’INTRAMOENIA POLICLINICO :«È DEPRESSO» UNA PERIZIA SU SANTA CRUZ CANCRO: NON SARÀ PIÙ L'IMPERATORE DEL MALE CANCRO: QUANDO IL FARMACO È DI TROPPO CANCRO: CON LA DIAGNOSI MOLECOLARE SI GIOCA D'ANTICIPO CANCRO: LA SFIDA È ANCHE CON I VACCINI E GLI ANTICORPI CANCRO: È INIZIATA L'ERA DEI NUOVI FARMACI INTELLIGENTI CANCRO: NEI DIFETTI GENETICI LA CHIAVE PER LEUCEMIE E MIELOMI" CANCRO: LA TERAPIA DIVENTA SEMPRE PIÙ SU MISURA CANCRO, I FARMACI DALLA DOPPIA VITA LE DONNE CON CANCRO AL SENO DEVONO PAGARE IL FARMACO CAGLIARI: NUOVO FARMACO PER EVITARE IL BISTURI AI DIABETICI L’ANTI-ZANZARA CONTRO LA DENGUE PROGRESSI DELLA MEDICINA GRAZIE ALLA MATEMATICA ASPIRANTI MEDICI IN SERVIZIO A TORINO CONTAGIATI DALLA TBC CELLULARI: TUTTI INCURANTI DEI DATI REALI SINDROME DOWN: UN FARMACO METTERÀ LE ALI ALLA LORO MENTE DIETA ANTIGOTTA UNA NUOVA ERA PER LA CATARATTA GRAZIE AL LASER A FEMTOSECONDI MALARIA, L'ULTIMA FRONTIERA È UN FARMACO ITALIANO BIOETICA IL PROGRAMMA DEL VATICANO NON UTILIZZA GLI EMBRIONI I LIVELLI DI GLUCOSIO SONO MISURABILI UTILIZZANDO LE LACRIME CICLO MESTRUALE: I RISULTATI DI UNA RICERCA EFFETTI POSITIVI CONSUMO MODERATO DI ALCOL IN DONNE DI MEZZA ETA' RICONOSCERE LA COSCIENZA NELLO STATO VEGETATIVO PERMANENTE LE DUE ITALIE DELLA SANITÀ BYPASS PIÙ RISCHIOSO AL SUD L'ATTIVITÀ FISICA (SENZA ESAGERARE) MIGLIORA LE DIFESE OMS: ATTIVITÀ FISICA PROMOSSA SUL WEB SE IL PRIMO MEDICO È IL WEB PERSINO PER I TUMORI PER NAVIGARE SERVE UNA BUSSOLA GLI ITALIANI SOTTOVALUTANO I RISCHI DERIVANTI DAL COLESTEROLO ALTO PASSI IN AVANTI NELLA PRODUZIONE DEL SANGUE SINTETICO A.MANTOVANI «NOI MEDICI SIAMO COSTRUTTORI DI PONTI ========================================================= ______________________________________________ Il Sole24Ore 7 Nov. ‘11 VOTI ALLA RICERCA, PRIMI SEGNALI DI MERITOCRAZIA di Sergio Benedetto Con la registrazione del decreto del ministro da parte della Corte dei conti (28 ottobre 2o11) e l'approvazione del bando da parte del Consiglio Direttivo dell'Anvur (3 novembre 2o11) prende avvio uno dei più significativi esercizi di valutazione ex post della ricerca mai tentati nel mondo. La valutazione della qualità della ricerca (Vqr) 2004-2010 prevede la valutazione e classificazione in fasce di merito di oltre 2oomila prodotti di ricerca scentifica quelli pubblicati dai docenti e ricercatori delle università e dal personale degli enti di ricerca vigilati dal Miur. La valutazione sarà affidata ai4 gruppi di esperti della valutazione (Gev), composti da 450 esperti e presieduti da ricercatori eccellenti nominati dall'Anvur, che opereranno nelle diverse aree di ricerca utilizzando l'ausilio di esperti esterni (peer review) e di indicatori bibliometrici nelle aree dove il loro uso è consolidato e affidabile. La misura del grado di correlazione trai risultati ottenuti per via bibliometrica e tramite peer review consentirà di ricavare indicazioni preziose sulla validità dei due strumenti, il cui confronto relativo è oggetto di dibattiti accesi anche nel panorama nazionale a seguito delle notizie recenti sul decreto per l'abilitazione scientifica nazionale. La valutazione bibliometrica non sarà basata sull'impact factor delle riviste che ospitano un prodotto di ricerca, ma utilizzerà indicatori di impatto del singolo prodotto normalizzati in modi opportuni che sono attualmente in corso di definizione da parte dei Gev. L'Anvur aveva pubblicato sul proprio sito una versione provvisoria del bando a luglio 20ll, chiedendo alle strutture oggetto di valutazione di inviare commenti e proposte di variazioni, che sono arrivate numerose e hanno condotto alla versione definitiva del bando, migliorata grazie al contributo di molti. Oltre a consentire una analisi sulle potenzialità di ricerca del nostro paese, la Vqr 2004-2010 consentirà di destinare alle strutture la quota premiale del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), dall'anno 2013. Per consentire alle strutture di tenere conto, in autonomia, del contributo dei dipartimenti interni al risultato complessivo, la valutazione verrà estesa ai singoli dipartimenti. A questo proposito, è del tutto immotivata la preoccupazione relativa al fatto che la valutazione dei dipartimenti sarebbe subito resa obsoleta dai cambiamenti subiti dalla struttura dipartimentale delle università in seguito all'approvazione dei nuovi statuti. Infatti, l'attribuzione dei prodotti ai singoli ricercatori consentirà la ricostruzione della valutazione al livello dei nuovi dipartimenti, una volta che ne sia resa notala composizione. Nei prossimi mesi le università e gli enti di ricerca dovranno provvedere con tempestività alle richieste della Vqr, e ciò avviene in un momento nel quale gli adempimenti previsti dalla legge 240 e i problemi creati dalla riduzione dei finanziamenti dell'Ffo costituiscono altrettante fonti di difficoltà. L'Anvur ha coinvolto fm dall'inizio la conferenza dei rettori nella predisposizione della Vqr, ottenendo risposte pronte e responsabili, nella consapevolezza diffusa che il successo dell'iniziativa costituisce un gradino fondamentale per risalire la china e restituire alle nostre istituzioni di ricerca la piena dignità che meritano. Aldilà diana classifica delle strutture finali7zata alla distribuzione della quota premiale dell'Ffo, la Vqr consentirà, anche mediante l'esercizio dell'autovalutazione, di identificare i punti di forza e di debolezza delle strutture nelle aree di ricerca, un requisito fondamentale per studiare e mettere in atto azioni correttive e premiali interne. In conclusione, laVqr è uno dei tasselli di meritocrazia che si stanno faticosamente facendo strada in un paese appesantito da pratiche che per troppo tempo hanno privilegiato altri requisiti per la promozione e il successo. Gli attori coinvolti sono tanti, le università e gli enti di ricerca, i 450 esperti dei Gev, l'Anvur e il Consorzio Cineca che predisporrà le procedure informatiche necessarie. Per garantire il successo dell'iniziativa tutti dovranno collaborare esercitando pazienza nell'affrontare le difficoltà che si presenteranno e contribuendo a risolvere i problerni senza cedere alla tentazione di scaricarne sugli "altri" le responsabilità. Consiglio Diretti vo Anvur e Coordinatore Vqr 2004-2010 Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Nov. ’11 ALLE UNIVERSITÀ MIGLIORI FONDI PARI A QUELLI DEL 2010 Definito il decreto sul finanziamento ordinario Gianni Trovati MILANO Lima di qua, gratta di là, i "premi" alle università con gli indicatori più brillanti nella ricerca e nella didattica salgono fino a quota 832 milioni, e coprono il 12% del Fondo di finanziamento ordinario. In tempi di risorse scarse, però, i premi non rappresenteranno un aumento della dote statale complessiva, ma consentiranno agli atenei destinatari di non subire perdite rispetto agli anni scorsi; per le sedi che mostrano performance meno eccellenti, invece, l'assegno statale si assottiglierà, fino a fermarsi nei casi peggiori al 5,75% in meno rispetto all'anno scorso. Sono i numeri del decreto definitivo sulla distribuzione del Fondo di finanziamento ordinario alle università statali per il 2011, che il ministro Mariastella Gelmini ha firmato ieri e inviato alla Corte dei conti per la registrazione. Proprio la difficoltà di far quadrare i numeri fra l'esigenza di ampliare la quota premiale e quella di non far saltare i conti negli atenei in fondo alle graduatorie "meritocratiche" ha ostacolato il percorso del provvedimento, che nonostante i tentativi di accelerazione arriva al traguardo quando l'annodi competenza è praticamente finito. Tutto nasce dal fatto che il fondo ordinario 2011 non supera i 6,93 miliardi di euro, con una riduzione del 3,72% rispetto all'anno scorso. Per questa ragione, la «quota base» assegnata dal decreto a ogni ateneo è limata del 4% rispetto a quella ricevuta nel 2010, e la riduzione esclude solo L'Aquila, Camerino e Macerata grazie agli accordi di programma, e l'ateneo di Urbino impegnato nel processo di statalizzazione. Su questa base intervengono i "premi" per 832 milioni, distribuiti sulla base dei risultati ottenuti nella ricerca e nella didattica. Rispetto agli anni scorsi, cresce ancora il peso della ricerca, che indirizza ora il 66% degli incentivi (per un totale di 549 milioni di curo) e si basa soprattutto sui successi ottenuti dai docenti nei progetti di ricerca di interesse nazionale (valgono il 40% del punteggio) e sulla capacità di ottenere finanziamenti europei e internazionali (25%). Rispetto al 2010 scende al 20% l'incidenza delle valutazioni nazionali, che sono ferme al 2001/2003 mentre il nuovo ciclo sta scaldando i motori, e il restante 15% del giudizio è basato sui risultati ottenuti nei bandi del «Futuro in ricerca» (Firb). I risultati nella didattica, che distribuiscono 283 milioni, continuano a essere misurati sull'incidenza degli iscritti regolari e sul tasso di attività degli studenti in termini di crediti formativi ottenuti, perché gli indicatori sul successo occupazionale degli studenti e sulla loro valutazione dei corsi continuano a essere fermi ai box. Completano il quadro del finanziamento i 104 milioni destinati agli atenei «sottofinanziati», guidati da una formula che li rende di fatto proporzionali alla quota di incentivi ottenuti. Per evitare perdite eccessive agli altri, comunque, una clausola di salvaguardia vieta a qualsiasi ateneo di ottenere più soldi rispetto al 2010. Con il decreto sul fondo ordinario prendono il via anche 87 milioni per gli accordi di programma tra ministero e singoli atenei e 13 milioni per avviare il piano straordinario di reclutamento degli associati; le modalità di quest'ultima assegnazione sono affidate a un ulteriore decreto ministeriale. ____________________________________________________________ Il Messaggero 31 Ott. ’11 UNIVERSITÀ, TREDICESIME E LABORATORI A RISCHIO L'allarme dei tre atenei romani costretti a ridurre le attività e a chiedere l'anticipo delle rate agli studenti I rettori: lo Stato ha tagliato i fondi fino al 5% e non li ha ancora inviati, non sappiamo neppure su quanto potremo contare di ALESSANDRA MIGLIOZZI Le università pagheranno fino a fine anno gli stipendi e le tredicesime dei dipendenti? «Pensiamo e speriamo di sì». Usano espressioni cariche di dubbio i rettori della Sapienza e di Tor Vergata, che non nascondono però l'allarme-fondi. Non è solo una questione di tagli che sono intervenuti ad appesantire situazioni già preoccupanti. A mettere a rischio la serenità dei lavoratori c'è il forte ritardo nell'erogazione dei soldi statali per il 2011. Dovevano arrivare a luglio, aveva assicurato il ministro Mariastella Gelmini. Ad oggi non risultano pervenuti, ma, soprattutto non si sa ancora a quanto ammontino. Il ministero non ha comunicato la suddivisione per ateneo. «Si sa solo — spiega Luigi Frati, rettore della Sapienza — che il taglio potrebbe oscillare fra il 3 e il 5% rispetto alle risorse del 2010. Speriamo di far passare un Natale sereno ai nostri dipendenti. L'anno scorso, per poter pagare tutti gli stipendi, a causa dei ritardi nell'erogazione dei fondi, ho già dovuto rinviare di mesi alcune assunzioni». Stessa preoccupazione a Tor Vergata: «Faremo di tutto per pagare le tredicesime — spiega il rettore Renato Lauro — ma, ad oggi, abbiamo delle difficoltà». Nell'ateneo non hanno ancora avuto la copertura per pagare gli specializzandi di medicina per l'anno accademico 2010/2011. «Li abbiamo dovuti anticipare noi — dice ancora il rettore — si tratta di milioni che escono dalle nostre casse». Insomma, si naviga a vista, raschiando il barile e risparmiando su tutto. Con conseguenze anche per la vita degli studenti. A Tor Vergata quest'anno sono aumentate le tasse e sulla seconda rata è già stato chiesto un anticipo per fare cassa. Nelle facoltà che hanno laboratori, i ragazzi pagano un contributo extra (50 euro) per i materiali. I fornitori si pagano a rilento, si rinvia qualunque tipo di ristrutturazione che pure sarebbe necessaria. Proprio ieri Link, sindacato studentesco, ha segnalato che nella sede di Scienze ci sono buchi sul soffitto in alcune aule: in altre parole, quando piove entra l'acqua. A Tor Vergata si fanno tagli anche sulla comunicazione: il 50% in meno sulla pubblicità. Ridotte le spese di rappresentanza, vitali per far conoscere l'ateneo fuori, anche all'estero. Vietati straordinari extra al personale. Alla Sapienza hanno tarato al ribasso (un grado) i sensori che regolano gli impianti di riscaldamento. A lezione quando farà più freddo si andrà col cappotto. E si stringe la cinghia sulla «manutenzione di edifici e impianti. Ma le tasse, quelle, non le voglio toccare», spiega Frati. E anche a Roma Tre, infine, si sentono i tagli: biblioteche e laboratori hanno ridotto gli orari. ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 4 Nov. ‘11 IL RUOLO DEGLI ATENEI PER USCIRE DALLA CRISI Sassari «Città Universitaria» La cultura e l’innovazione come via d’uscita dalla crisi Per uscire dalla crisi la via più lunga, ma anche quella più sicura, pare quella della ricerca e dell’innovazione. Dobbiamo chiederci, però, alla vigilia del 450º anniversario dalla fondazione dell’Università di Sassari, se gli atenei sardi da soli possano riuscire a sviluppare il capitale umano nella misura richiesta dalla società della conoscenza. Occorre intanto mettere in campo politiche serie che rendano attraenti i nostri atenei, iniziando dal rendere le nostre città luoghi accoglienti per gli studenti. La presenza delle università a Sassari e Cagliari è pervasiva: elevato numero di studenti e docenti in rapporto alla popolazione, edifici universitari numerosi, ruolo centrale nella sanità locale. “Per molti aspetti - si legge nella programmazione strategica del Comune di Sassari - la nostra è una città dentro l’Università, piuttosto che un’Università dentro la città”. L’università deve sviluppare una visione strategica capace di contribuire a definire quell’immagine moderna di Sassari che si contrappone e si affianca alle tante tracce della sua storia centenaria. Legati all’idea di innovazione, i Poli Universitari, potrebbero rappresentare un’occasione di rinnovamento del sistema dell’insegnamento e della formazione. Bisognerebbe trasformare le sue sedi in moderni Poli Universitari concepiti come veri e propri “Complessi Polifunzionali per la Ricerca e la Formazione”. Luoghi dove “l’insegnamento e l’apprendimento, la cultura e la ricerca si completino con attrezzature integrate per l’inserimento dei giovani nel tessuto produttivo, per il dibattito e la trasversalità della cultura (spazi per convegni, aree per esposizioni-eventi), per la ricerca avanzata e la comunicazione (mediateca, biblioteca, cyberspace,...) per svago e tempo libero, per lo sport con moderne attrezzature, oltre a servizi di prima accoglienza per gli studenti locali e stranieri con residenze adeguate”. L’università tutta diverrebbe quindi una struttura in grado di migliorare la qualità della vita degli studenti. L’idea di riferimento è quella di Village, villaggi universitari, e non più di Campus. Negli ultimi anni gli urbanisti hanno dibattuto molto sul tema della “città compatta” come scenario del cambiamento, di pari passo nel nostro Paese si è tornati a porre attenzione al modello delle università urbane, “fisicamente e funzionalmente integrate con le città che le ospitano”, secondo un modello di tipo europeo che parrebbe più adeguato rispetto al modello anglo-americano del campus universitario, come struttura fisicamente isolata e autosufficiente. Pur essendo la città il migliore ambiente per lo sviluppo dell’economia della conoscenza, Sassari e Cagliari non riescono a costruire un buon livello di integrazione con la loro università: se, da un lato, non si riesce a offrire un livello minimo di servizi che garantisca il diritto di “cittadinanza universitaria” agli studenti, dall’altro non si riesce a vivere la presenza della università come occasione di sviluppo per la comunità. Come dimostra, drammaticamente, l’incapacità del Sassarese di usare l’ateneo come motore di sviluppo in risposta alla crisi che ci colpisce. Senza una gestione attenta, infatti, scelte che dovessero calarsi dall’alto su una realtà come Sassari (leggi Campus universitari), potrebbero causare reazioni contrarie. Viceversa, la rinascita del centro passa prima di tutto per la presa di coscienza del problema e il contributo di suggerimenti, soluzioni e impegno diretto che studenti, residenti, commercianti, pubblici esercenti, cittadini, organizzazioni che a diverso titolo vi risiedono, ed operano, possono dare. Perché i conflitti che si generano nel caso di decisioni pubbliche così influenti sulla vita della città possono trovare compensazione se gestite all’interno di percorsi di partecipazione. Per questo una seria politica di rigenerazione urbana capace di generare effetti significativi di rinascita del centro di Sassari, attraverso un impatto multidisciplinare: urbanistico, socioeconomico, dei servizi, della sicurezza e della viabilità, in maniera coordinata e sincronica. Simone Campus Consigliere comunale PD ______________________________________________________________ Italia Oggi 7 Nov. ‘11 IL NUOVO ANNO DELLE UNIVERSITÀ PARTE ALL'INSEGNA DEL VECCHIO DAL RECLUTAMENTO ALL'AMMINISTRAZIONE, MANCANO ANCORA I DECRETI DELLA RIFORMA GELMINI Pagine a cura DI BENEDETTA PACELLI A breve spegnerà la sua prima candelina ma, per riuscire a camminare da sola e, produrre effetti concreti, troppo tempo dovrà passare ancora. Sì, perché la riforma dell'università (legge 240/10) con la quale il ministro dell'istruzione Mariastella Gelmini punta a riformare i mali del sistema universitario, rimane, per ora, solo una dichiarazione di intenti. Poche le norme che hanno cambiato il volto degli atenei, a quasi un anno dalla sua approvazione (29/01/11), molte invece, quelle che, anche con la complicità di provvedimenti precedenti (uno su tutti il decreto ministeriale 17/10) hanno contribuito a gettarli nella confusione. Una cosa è certa: qualità, premio del merito, reclutamento, amministrazione finanziaria trasparente, possono aspettare. Per ora c'è solo da tenere sotto controllo l'approvazione dei provvedimenti ed evitare, per esempio, che questi si accavallino con la nuova formulazione degli statuti (basti pensare ai regolamenti per i nuovi ricercatori a tempo). Del resto la maggior parte dei provvedimenti è in fase di emanazione, alcuni sono alla firma del ministro e quelli dichiarati «in via di approvazione» hanno tipologie diverse, quindi percorsi specifici e pareri vincolati a una molteplicità di soggetti. E se, poi, ci sono i decreti regolamentari la cui tappa dal presidente della repubblica o dal Consiglio di stato è obbligata, ce ne sono altri che devono essere decisi di concerto con altri ministeri, dall'economia alla salute, fino al parere della Corte dei conti per la verifica della copertura finanziaria. Sono in totale 16 i provvedimenti pubblicati in Gazzetta Ufficiale e quindi circa 30 quelli che mancano all'appello. Nulla è impossibile certo, ma secondo parte del mondo accademico è difficile pensare, come annunciato dalla Gelmini, che tutto sarà pronto e confezionato entro fine anno Cosa è già a regime. Alla sua approvazione la riforma è stata, comunque, subito operativa per adempimenti prescrittivi. Uno su tutti la sostituzione del ricercatore a tempo indeterminato con due figure di ricercatore a tempo determinato, ma anche la riforma della governance degli atenei che doveva essere varata entro luglio o al massimo a fine ottobre nei ridisegnati statuti (solo 8 università hanno completato l'iter, in 39 aspettano l'approvazione del Miur e 32 non lo hanno ancora presentato). I nuovi organi di gestione più snelli e responsabilizzati saranno tenuti a produrre una contabilità economico-patrimoniale uniforme secondo criteri nazionali concordati tra Miur e Tesoro (il decreto è fermo alle commissioni parlamentari). Già modificato, invece, lo stato giuridico dei professori e dei ricercatori di ruolo: per la prima volta viene stabilito un riferimento uniforme per l'impegno dei professori per il complesso delle attività didattiche, di ricerca e di gestione, fissato in 1.500 ore annue di cui almeno 350 destinate a docenza e servizio per gli studenti. Per dare ai rettori, poi, la possibilità di sfruttare nuove economie di scala, la riforma permette agli atenei di fondersi tra loro o aggregarsi su base federativa al fine di evitare duplicazioni e costi inutili. Sulla carta sono in molti ad aver siglato patti o accordi di questo genere, ma in pratica poco è cambiato. L'introduzione di questa misura, potrebbe portare a diminuire le spese fisse, ma certo non risanerà i bilanci disastrati, visto che per la maggior parte i soldi che Roma gira alle facoltà finiscono quasi tutti negli stipendi di docenti e amministrativi (anche il dlgs sul dissesto finanziario è ancora alle commissioni parlamentari). Pubblicati invece in G. U. i decreti per gestire gli importi minimi per assegnisti e contrattisti di ricerca, con un nuovo minimo, pari a 19.367 euro, e anche i testi per assumere i ricercatori a tempo determinato per i primi tre anni (tipo A) o per il rinnovo dei successivi due (tipo B). Certo, resta da vedere se in attesa del provvedimento ministeriale gli atenei non avevano già provveduto a inserire questa norma negli statuti previgenti, essendo questo un regolamento di ateneo. ______________________________________________ Italia Oggi 7 Nov. ‘11 PER L'ABILITAZIONE NAZIONALE OCCORRERÀ ASPETTARE IL 2013 L'obiettivo di avviare i concorsi in autunno, annunciato nei mesi scorsi dal governo, si è rivelato impossibile perché i decreti attuativi hanno richiesto più tempo del previsto. Per far partire la macchina dei concorsi e quindi dell'abilitazione nazionale manca, infatti, all'appello l'ultimo, ma indispensabile, tassello normativo che dopo le ultime limature dovrà essere inviato al Consiglio di stato. Si tratta del provvedimento, contestato dal Consiglio universitario nazionale, in cui sono individuati i parametri di valutazione degli aspiranti all'abilitazione nazionale e dei docenti che faranno parte delle commissioni. Ma per vedere assunti i primi abilitati secondo le nuove norme stabilite dalla 240 si dovrà attendere per lo meno l'anno accademico 2012-13. Un problema non proprio trascurabile considerando non solo il blocco dei concorsi (risale al 2007 l'ultima tornata di bandi) ma anche i pensionamenti che colpiranno in futuro il corpo accademico: secondo l'ultimo rapporto del Comitato di valutazione, infatti, nei prossimi 5 anni andranno in pensione oltre 14 mila docenti sul totale di 57 mila. Del resto i numeri parlano chiaro: nelle università italiane i professori ordinari con più di 60 anni sono quasi il 50% (circa 7.800) e oltre 3 mila di loro (circa il 20% del totale) hanno più di 65 anni. Sono gli atenei meno giovani ad avere generalmente professori più anziani e l'età media dei professori ordinari passa dai 58 anni del 1998 ai 63 anni nel 2010. Soltanto il 15% dei professori ordinari ha un'età inferiore ai 51 anni (circa 1 su 7), mentre quelli con più di 65 anni sono circa il 6,5% e quelli con età superiore ai 60 anni sono il 23%. A questo si aggiunge un altro numero significativo: nel nostro paese ci sono i ricercatori più anziani d'Europa con un'età media trai 45 e i 50 anni e proprio tra di loro si registra una crescita delle uscite, gran parte per limite d'età, ma anche per dimissioni volontarie. Nel 2010 i pensionati sono stati 437 e le dimissioni 347 a fronte dei numeri del 2005, quando le uscite complessive sono state poco più di 200. Anche (ma non solo) per tamponare questa fuga ma, soprattutto, per alleggerire il ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato abolito dalla riforma universitaria era stato annunciato un provvedimento, con tanto di fondo ad hoc, per il reclutamento straordinario e far passare di ruolo, una volta ottenuta l'abilitazione nazionale, parte degli attuali ricercatori. Il provvedimento, impantanato da mesi nelle commissioni parlamentari, avrebbe dovuto spartire quella torta dei 13 milioni di caro per 1.500 posizioni. Ma tra i nodi da sciogliere c'è stato e c'è tutt'ora quello di escludere da questo reclutamento quegli atenei che utilizzano più del 90% dei fondi statali per pagare i dipendenti. Contro questa ipotesi i rettori, attraverso la loro conferenza, la Crisi, avevano chiesto che «la platea dei possibili fruitori del finanziamento straordinario venisse estesa a tutte le università, indipendentemente dal limite del 90%: si tratta di un fondo destinato a incentivare le assunzione di tutti i ricercatori a prescindere dalla loro collocazione». ____________________________________________________ Italia Oggi 2 Nov. ’11 ABILITAZIONE SCIENTIFICA, NO DEL CUN DI BENEDETTA PACELLI Il mondo universitario boccia il regolamento ministeriale sull'abilitazione scientifica nazionale. Il nuovo regolamento del ministero dell'università (applicativo della legge 240/11) «recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell'attribuzione dell'abilitazione scientifica nazionale per l'accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari», infatti, secondo l'ultimo parere del Consiglio universitario nazionale (Cun) così impostato, mette a rischio il nuovo sistema di abilitazione dei docenti delle università italiane. Secondo il Cun è «irragionevole» prevedere che nella valutazione di chi punta all'abilitazione nazionale da associato e ordinario siano prese in considerazione solo le pubblicazioni prodotte dopo l'ultima nomina ricevuta dal candidato, e non piace l'applicazione diffusa di indicatori bibliometrici non solo per valutare aspiranti associati e ordinari, ma anche per decidere chi può far parte delle commissioni giudicanti. Nel tentativo di costruire un meccanismo di giudizio il più possibile oggettivo, il ministero ha puntato sugli indicatori bibliometrici internazionali nei settori in cui sono diffusi e di parametri analoghi che l'Agenzia nazionale di valutazione è chiamata a costruire dove mancano e quindi per avere speranza di ottenere l'abilitazione i candidati dovranno raggiungere una valutazione superiore alla mediana ottenuta dal totale dei partecipanti al bando. Se da una parte dice ancora il Cun il regolamento ministeriale risulta incompleto, dall'altra diventa cavilloso. Nello stabilire gli «indicatori dell'impatto della produzione scientifica complessiva» (artt.4 e 5) da utilizzare nella valutazione dei titoli presentati dai candidati (ordinari e associati) o nella valutazione degli stessi aspiranti commissari, il regolamento contiene parametri tanto dettagliati da divenire una preselezione delle candidature. Tali indicatori si traducono nel prerequisito per la stessa concessione all'abilitazione ______________________________________________ Italia Oggi 7 Nov. ‘11 IL PASSAGGIO AI DIPARTIMENTI COMPLICA L'OFFERTA FORMATIVA Nel limbo dei decreti e dei regolamenti approvati e da approvare, per le università si tratta, comunque, di garantire il normale funzionamento. Che, di questi tempi, vuol dire innanzitutto mettere mano alla propria offerta formativa per il 2012/13 ed essere pronti a presentarla entro fine gennaio. E qui iniziano i guai. Perché per comporre le tessere del mosaico è necessario trovare la quadratura del cerchio tra i principi stabiliti dal decreto ministeriale 17/10 (che contiene i requisiti necessari e qualificanti per l'istituzione e l'attivazione dei corsi di studio) con quanto disposto della legge 240/10. Il primo provvedimento, infatti, interviene in maniera sostanziale sui requisiti di docenza e introduce ex novo alcuni requisiti organizzativi. II che vuoi dire che un corso per essere sostenibile deve avere un determinato numero di docenti incardinati, cioè di ruolo. Finora la verifica di questa proporzione avveniva attraverso la banca dati del Cineca (si tratta di un Consorzio interuniversitario per la gestione dei calcoli) tutt'ora impostata secondo la tradizionale struttura degli atenei suddivisi in facoltà. «Ora il problema», spiega Giuseppe Losco, prorettore all'università di Camerino, è capire «se la verifica dei requisiti del dm 17 deve esser fatta sulla base delle vecchie banche dati ancora impostate sul sistema delle facoltà, oppure sulle nuove norme contenute nei ridisegnati statuti che prevedono il superamento delle facoltà e l'incardinamento dei corsi di laurea in nuove strutture dipartimentali, diverse in numero e composizione». Questo, in sostanza, per Losco porta alla necessità per gli atenei di rivedere, a seguito dell'approvazione dei statuti, l'intero impianto formativo. Altrimenti le facoltà predisporrebbero oggi qualcosa che non saranno più in grado di gestire un domani perché non esisteranno più. Ecco perché dalla Conferenza dei rettori arriva la richiesta di effettuare la verifica dei requisiti a livello di ateneo almeno finché le nuove norme non entreranno pienamente a regime. Del resto, precisa ancora il prorettore, «man mano che verranno approvati cambieranno le strutture di riferimento che dovranno proporre i corsi di laurea». E le cose non finiscono qui. L'altro nodo da sciogliere riguarda infatti il conteggio dei ricercatori a tempo indeterminato (ad esaurimento) ai fini della sostenibilità degli stessi corsi di laurea. I ricercatori, infatti, regolamentati ancora dalle vecchie leggi Berlinguer e Moratti, secondo la nuova legge non valgono ai fini del conteggio della docenza ,e quindi molti corsi di laurea si troverebbero sprovvisti del congruo numero di docenti di ruolo. In questo senso, dice Losco, «gli atenei dovrebbero trovare un modo per trasformarli in professori aggregati e farli contare dal punto dei vista dei numeri e della sostenibilità dei corsi di laurea. Ma non è sufficiente che i Consigli di facoltà ottengono la loro disponibilità per un anno, devono richiederla e averla, così come prevede la legge, per l'intero triennio di programmazione. E poi trovare le risorse adeguate per pagarli». ______________________________________________ Italia Oggi 7 Nov. ‘11 I CONCORSI: UNA RIFORMA IPERPRESCRITTIVA «Una riforma iperprescrittiva, e questo è il suo peggior limite, ma che ridisegna l'intero sistema e questo è il suo miglior pregio. Ora, però, se non si vuole perdere un'altra generazione di giovani bisogna accelerare sulla messa in opera del suo punto nodale: il sistema dei concorsi». Parte da questi punti l'analisi che Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale, fa di quella riforma che con il suo organo consultivo del ministero, sta contribuendo ad assemblare pezzo dopo pezzo. Domanda. Questa riforma riuscirà a risollevare l'università dallo stato M cui si trova? Risposta. È una legge di sistema che disegna un nuovo scenario, però per vederne gli effetti bisognerà aspettare. Purtroppo non si può dimenticare che nell'ultimo decennio l'università è stata oggetto di norme che hanno puntato a riscriverne i profili funzionali e organizzativi. Queste, però, si sono talvolta sovrapposte le mie alle altre prima che le precedenti avessero trovato piena attuazione, fino all'attuale riforma D. Che comunque è un bel concentrato di decreti e regolamenti talvolta anche essi sovrapponibili. Riusciranno tutti i decreti a fare la riforma? R. Nessuno oggi può sapere se i pezzi che compongono la riforma riusciranno a diventare un unico puzzle. Si tratta di un provvedimento iper prescrittivo che deve essere regolamentato passo dopo passo, il che lo rende fragile. D. Uno dei punti cardine, è rappresentato dalle nuove modalità per salire in cattedra. Riusciranno a portare quell'acclamata trasparenza e meritocrazia nei concorsi? R. Intanto bisogna accelerare su questo punto e portare a casa una norma che consenta agli eccellenti ricercatori di esser valutati correttamente, dopo anni di blocco, ma anche ai commissari di essere responsabilmente giudici. Detto ciò la grande novità del reclutamento è il suo essere articolato in due momenti: abilitazione nazionale e chiamata dell'ateneo. È in questo secondo passaggio che si gioca la vera partita perché l'università si assumerà la precisa responsabilità di chiamare il professore migliore, con sanzioni che andranno a colpire i finanziamenti per l'ateneo che sbaglia la scelta del candidato. ________________________________________________ Il Manifesto 9 Nov. ‘11 GLI ATENEI COMMISSARIATI DALL'UE UNIVERSITÀ • Confindustria e Crui hanno firmato un protocollo d'intesa che anticipa i diktat europei Roberto Ciccarelli I rettori e gli imprenditori prevedono anche il dottorato in azienda e la liquidazione delle materie umanistiche O Rehn, il commissario europeo agli affari economici, in queste ore deve essere particolarmente impaziente per avere chiesto nella lettera al «bear Minister Tremonti» di confermare l'aumento delle tasse universitarie che era stato già assicurato la settimana scorsa dall'ex primo ministro in carica Berlusconi. E deve avere ancora in una qualche considerazione il ministro dell'istruzione Mariastella Gelmini per ribadire che bisogna fare qualcosa contro i «risultati insoddisfacenti dei test Invalsi». Il commissariamento in atto del Belpaese è talmente capillare da avere spinto lo scorso 4 novembre la Commissione europea a stimolare l'adozione di un programma per scuola, università e ricerca che ha il sapore di una ricetta a buon mercato. I commissari della Ue, e dell'Emi, sanno però che il loro programma è l'unico condiviso dalla politica italiana terrorizzata dai forconi dei mercati e che sarà senz'altro realizzato dal tanto invocato «governo tecnico» o da quello che nascerà dopo le annunciate elezioni. E altrettanto chiari sono i loro comandamenti: precarizzazione totale dei ricercatori, riorganizzazione degli studi in funzione delle esigenze usa-e-getta delle imprese; ruolo dell'agenzia di valutazione Anvur nel reclutamento dei docenti. Sono queste alcune delle otto azioni auspicate dal protocollo siglato due giorni fa dalla Conferenza dei Rettori (Crui) e dalla Confindustria. L'intesa ha sancito il progressivo esaurimento degli investimenti sulle materie umanistiche e su quelle teorico-scientifiche; la prevalenza delle ' lauree scientifico-tecnologiche per la loro presunta vicinanza al «mondo del lavoro»; la trasformazione del dottorato di ricerca in un apprendistato nelle aziende; il coinvolgimento della stessa Confindustria nella selezione di docenti e studenti. Non è la prima volta che la Crui diretta dal rettore dell'università di Viterbo Marco Mancini, di simpatie di sinistra, considera Confindustria l'interlocutore privilegiato della propria «azione riformatrice». Già prima dell'estate aveva inviato un promemoria agli esperti di viale dell'Astronomia dove si diceva soddisfatta dell'abolizione dei dipartimenti voluti dalla riforma Gelmini e non escludeva l'aumento delle tasse universitarie auspicate anche da otto docenti universitari e senatori del Pd (tra cui Pietro ]chino e Ignazio Marino) in un'interrogazione parlamentare presentata a maggio. La coincidenza tra il protocollo d'intesa con la lettera di sollecito inviata dai commissari liquidatori europei rende più chiaro il percorso che attende l'università: progressivo definanziamento compensato dall'aumento delle tasse, governance ad un tempo aziendalistica e accentratrice nelle mani dei rettori e della classe baronale. Elementi che torneranno utili per dare forma e sostanza all'universale consenso sul «piano di stabilità» che esiste tra il presidente della Repubblica Napolitano, le forze politiche e, in parte, quelle sindacali che si sono ridotti a chiedere maggiori finanziamenti per il «capitale umano» chiudendo gli occhi sulla dittatura dei baroni. Senza contare che il finanziamento della ricerca è un cavallo di battaglia della Bce di Mario Draghi (e di Bankitalia). Per tutto il resto, che è poi l'essenziale, ci penseranno la Crui e Confindustria. ll protocollo è una delega in bianco ai principali fautori del disastro della «riforma» Gelmini, ma può essere anche consideralo il risultato del ritiro dei movimenti, e della politica, dall'arena delle lotte per la conoscenza registrato nell'ultimo anno. Ne ha avuto sentore la stessa Gelmini che ieri si è presentata alla nona giornata della ricerca convocata da Confindustria da «ministro dí un governo dimissionario». In un discorso già sentito negli ultimi 3 anni, l'avvocatessa bresciana ha rivendicato la convergenza delle sue politiche con quelle degli imprenditori. «Avvicinare la ricerca alle imprese ha detto è un principio che va rafforzato». La stella polare mercatista ignora che la fine del governo Berlusconi rischia di cancellare la riforma universitaria e tutti i suoi decreti attuativi che sono arenati nelle commissioni. Solo l 4 su 45 decreti sono stati infatti pubblicati in Gazzetta Ufficiale. Gli altri rimbalzano da mesi tra gli organi dello Stato e quelli della comunità accademica. Solo 8 atenei (4 privati) hanno completato la riforma degli statuti, 39 ci lavorano ancora e 32 non hanno comunicato una bozza. Questo gesticolare a vuoto andrà perso con la fine del governo, oppure continuerà con il governo tecnico o con la nuova legislatura? Il protocollo Crui Confindustria è già una risposta. ________________________________________________ L’Espresso 17 Nov. ‘11 SORPRESA: IN CINA L'UNIVERSITÀ STA FALLENDO Minxin Pei Senza frontiere PER GLI OSSERVATORI OCCIDENTALI OCCASIONALI, IL PIÙ ALTO LIVELLO DI ISTRUZIONE DELLA CINA È UN'ULTERIORE CONFERMA DELLA CRESCITA INARRESTABILE DI QUESTO PAESE. OGNI ANNO, LE SUE UNIVERSITÀ E I SUOI COLLEGE IMMATRICOLANO CIRCA 7 MILIONI DI STUDENTI E SFORNANO UN MILIONE E MEZZO DI LAUREATI, DI CUI QUASI 800 MILA INGEGNERI (IN CONFRONTO AI 140 MILA CIRCA DEGU STATI UNITI). PECHINO HA INVESTITO INOLTRE MIUARDI DI DOLLARI NEI SUOI ATENEI PIÙ PRESTIGIOSI PER TRASFORMARLI IN CONCORRENTI DI NARVARO E DEL MIT. Ma dietro la facciata di questa ipercompetitività si cela una crisi profonda: il sistema cinese di istruzione superiore sta fallendo miseramente. In termini quantitativi, la Cina ha superato se stessa con la costruzione di nuove università a un ritmo senza precedenti. Ma la qualità lascia a desiderare. Da questo punto di vista, c'è una grande sproporzione fra le risorse stanziate e i risultati ottenuti. Solo due delle sue università (la Tsinghua e quella di Pechino) figurano fra le prime cento più importanti del mondo (rispettivamente al 58esimo e al 37esimo posto) secondo la graduatoria stilata dal quotidiano inglese "The Times". Il livello della maggior parte delle altre 2.300 è mediocre, se non decisamente scarso. Un dato tanto più sorprendente se si considera che Pechino, nella convinzione che il denaro può tutto, ha investito molto per trasformare le università cinesi in centri di eccellenza internazionali. Ignorando però che, senza modificare il sistema autocratico e burocratico che soffoca la libertà accademica e la creatività nei college universitari, la spesa crescente per l'istruzione superiore poteva produrre soltanto sprechi e corruzione. Diversamente da quelle occidentali, le università cinesi sono strettamente controllate dal Partito comunista al potere, sempre preoccupato che gli studenti possano essere influenzati da idee democratiche sovversive e mobilitati contro il regime. Ma visto l'attivismo politico che ha contraddistinto storicamente i campus universitari (come le manifestazioni di protesta di piazza Tiananmen nel 1989), questa paranoia non tende a svanire. Purtroppo, è la stessa paranoia politica che ha spinto il governo di Pechino a imporre un rigoroso controllo politico sulla libertà accademica nei college cinesi. Le principali vittime sono le scienze sociali e le discipline umanistiche. Agli studenti di queste materie vengono trasmesse idee false e distorte e i temi politici più scottanti sono tabù. Anche quelli delle facoltà scientifiche e di ingegneria non sono immuni da queste pressioni. E poiché solo i membri fedeli al partito possono ottenere alti incarichi amministrativi a prescindere dai loro meriti accademici, le università cinesi sono dominate da carrieristi senza capacità manageriali o prestigio professionale. Nel frattempo, si sono lanciate anche in dubbie attività commerciali e operano spesso a scopo di lucro. I professori sono più interessati a far soldi che non all'insegnamento e ciò ha dato vita a un sistema corrotto. In questi ultimi anni, le università cinesi hanno visto moltiplicarsi i casi di plagio e di frode. Particolare scandalo ha destato quello di un preside di un'importante facoltà di ingegneria che spacciava circuiti integrati Motorola contraffatti come una propria invenzione ed è riuscito a ottenere finanziamenti pubblici per circa 200 milioni di dollari. Le vittime innocenti di questo sistema sono le decine di milioni di giovani cinesi che ricevono un'istruzione scadente e non possono trovare lavoro dopo la laurea. I membri delle classi dirigenti, ovviamente, hanno altre possibilità. Mandano semplicemente i loro figli a studiare nelle migliori università occidentali. Negli Stati Uniti sono ormai oltre 130 mila e rappresentano il più ampio gruppo di studenti stranieri in questo Paese. Quasi tutti i rampolli dell'alta burocrazia cinese frequentano i principali college inglesi e americani. Questa crisi continuerà per lungo tempo. E poiché il Partito Comunista in Cina pone sempre la propria sopravvivenza al di sopra degli interessi del Paese, è disposto a sacrificare la qualità dell'istruzione in nome della sicurezza del regime. ________________________________________________ Libero 11 Nov. ‘11 È SBAGLIATO BOCCIARE TUTTE LE UNIVERSITÀ ITALIANE» La responsabile delle risorse umane alla Molmed smonta un luogo comune: «I giovani laureati in discipline scientifiche sono molto preparati» BEATRICE CORRADI Proposte concrete per rilanciare ricerca e innovazione. Le ha ribadite Confindustria questa settimana. «Non possiamo permettere che i ricercatori lascino il Paese senza farvi ritorno o che finiscano sui tetti per improbabili proteste», ha detto Diana Bracco, che ha proposto di favorire progetti strategici Sud-Nord e di dotare il Paese di un credito d'imposta strutturale. «La ricerca e l'innovazione sono strumenti indispensabili per la crescita di un'economia e necessitano di giovani che, accettando la sfida, si pongano al centro di un processo di rinnovamento», ha detto ancora la Bracco. Le occasioni, in questo momento, per trovare impiego nella ricerca in Italia sono in effetti molto rare. Libero Lavoro ha incontrato una di queste rarità: Molmed. Evolutasi dal 2000 da società di servizi ad azienda di sviluppo di biofarmaci, oggi è una società di biotecnologie mediche focalizzata su ricerca, svi luppo e validazione clinica di terapie innovative per la cura del cancro. Come racconta Cynthia Giuliani, direttore delle risorse umane, «oggi MolMed dà lavoro a 100 persone, tra dipendenti e collaboratori». Dottoressa Giuliani, chi sono i ricercatori che lavorano con voi? «Il nostro organico è altamente qualificato. L'80 per cento dei dipendenti ha almeno una laurea di solito quinquennale — e un terzo di loro è in possesso di ulteriori specializzazioni. Due terzi della popolazione aziendale, inoltre, è femminile». Siete alla ricerca di nuovo personale? «Quest'anno abbiamo inserito una decina di nuove persone in azienda, in seguito al rafforzamento della nostra struttura. Rimangono ancora scoperte alcune posizioni tecnico-operative». Qual è il vostro candidato ideale? «Un giovane che sia in possesso di una laurea in discipline scientifiche, ma soprattutto che abbia passione per la ricerca applicata. Il suo lavoro può fare la differenza per i pazienti». Che giudizio darebbe sulla preparazione universitaria dei giovani che incontra? «Le facoltà scientifiche offrono un'ottima base di conoscenze ai giovani. Sono stati di recente inseriti ulteriori aspetti pratici accanto a quelli teorici, e questo non può che essere un bene. Bisogna imparare a "mettere le mani in pasta" ben prima di arrivare in azienda. A noi spetta poi il compito di integrare al meglio le loro conoscenze, attraverso stage e tirocini, aumentandone l'interazione diretta con il lavoro». Incontra spesso giovani fuori corso? «Non così spesso: abbiamo assunto giovani che hanno, 25, 26 anni. Sono figure poco richieste nel nostro Paese, che trovano pochi sbocchi lavorativi in azienda. Molti di loro si dedicano alla carriera universitaria, la nostra è una delle pochissime aziende in Italia che si occupa di ricerca e sviluppo nel biotech». È così scarso come si scrive il peso che il nostro Paese dà alla ricerca e allo sviluppo? «Purtroppo sì. Per creare innovazione in medicina il processo è molto lungo, servono investimenti forti. E da anni non si è disposti ad affrontare questo discorso e a sostenerlo». Ma dal punto di vista occupazionale che strumenti utilizzate per l'ingresso nel mondo del lavoro? «A volte si parte con uno stage. Se il progetto è ben delineato, ci avvaliamo invece di contratti a tempo. Il nostro è un ambiente molto stimolante, di scambio di conoscenze. Cerchiamo sempre di favorire la crescita interna nel percorso di carriera». Migliorerebbe il tirocinio? Qualche cosa si è mosso con la recente riforma... «Sì, anche se si rischia di escludere dalla possibilità di un tirocinio una gran parte dei giovani. E in un settore come il nostro non è certo un bene per loro. Servono poi meno burocrazia e più flessibilità nei contratti. Solo così sarà possibile rilanciare l'occupazione». ________________________________________________ Il Manifesto 11 Nov. ‘11 HARVARD GLI STUDENTI PIANTANO LE TENDE CONTRO L'UNIVERSITÀ D'ÉLITE Andrea Marinelli NEW YORK Le prime avvisaglie di rivolta ad Harvard si erano avute la settimana scorsa, quando settanta studenti del primo anno avevano abbandonato per protesta la lezione introduttiva del professore Gregory Mankiw, noto economista conservatore e consigliere prima di George W. Bush e ora del candidato favorito alle primarie repubblicane Mitt Romney. Poi mercoledì notte gli studenti di Harvard hanno deciso di dare una nuova voce alle proteste e di unirsi al movimento degli indignati, piantando decine di tende sul prato dell'università, all'ombra della statua del fondatore John Harvard. I ragazzi del prestigioso ateneo di Cambridge, Massachusetts, sono scesi in strada per manifestare contro quello che ritengono uno squilibrio crescente nella distribuzione della ricchezza negli Stati uniti e contro le presunte responsabilità della loro università, regno dell'élite americana e culla di banchieri, capitani d'industria, otto presidenti e settantacinque premi Nobel. Fra i corridoi di Harvard sono cresciuti e si sono affermati simboli dell'America come John Fitzgerald Kennedy, John Adams e Frankiln Roosevelt. Nonostante fosse stata annunciata con numerosi volantini, la protesta è iniziata con scontri non violenti fra la polizia del campus e i manifestanti. Gli agenti bloccavano gli ingressi per impedire l'accesso agli estranei mentre gli studenti, sventolando il tesserino universitario, cercavano di entrare nell'Harvard Yard, dieci ettari di prato che abbracciano l'università. Dopo aver marciato per le strade del campus e aver bloccato il traffico, gli indignati di Harvard sono infine riusciti a raggiungere il prato principale e piantare le tende. Studenti, professori, dipendenti dell'università e membri della comunità hanno inaugurato l'occupazione con un'assemblea generale. «Questo paese fu fondato sulla libertà di parola, di assemblea, di religione e di stampa», ha spiegato alla folla Timothy McCarthy, ex studente e attualmente lettore universitario. «Stanotte il paese sembra negare le libertà fondamentali». Le richieste dei manifestanti, in linea con il movimento nazionale, cercano di aprire una discussione sul ruolo dell'università, simbolo del privilegio e della disuguaglianza, nel paese e nel mondo. «Vogliamo un'università per il 99%, non un'azienda per l'1%», hanno spiegato gli organizzatori del rally all' Harvard Crimson, il quotidiano universitario. «Se Harvard è un luogo che produce persone di potere, allora deve essere un'istituzione dove il benessere pubblico è più importante del profitto privato», ha insistito ancora McCarthy. Dello stesso avviso è Sandra Korn, studentessa e redattrice del Crimson. «Harvard è stata coinvolta nel sistema di corruzione e avidità aziendale». Riflette il settimanale The Atlantic. «Harvard è un luogo dove è difficile rappresentare gli interessi del 99 per cento. Ma certamente non tutti gli studenti sono i ricchi figli dell'i per cento, Harvard ha infatti il record di borse di studio concesse e dal 2004 ha promosso intensivamente la diversità socioeconomica nel campus. La generosità dí Harvard non sarebbe però possibile senza l'aiuto della Harvard Corporation», la più antica azienda d'America, fondata il 9 giugno 1650. 132 miliardi di dollari di donazioni rendono Harvard la seconda istituzione no profit più ricca al mondo, alle spalle della Chiesa Cattolica. ________________________________________________ Il Manifesto 11 Nov. ‘11 LE UNIVERSITÀ AL GUINZAGLIO DI CONFINDUSTRIA Sonia Gentili Il 7 novembre 2011 la Conferenza dei Rettori delle università italiane ha firmato con Confindustria un accordo articolato in otto azioni «per il rafforzamento del rapporto tra Università e Impresa» (il testo completo su www.crui.it). Ma più correttamente si potrebbe dire che Confindustria si è comprata l'università pubblica per farne un grande politecnico al servizio delle imprese (punto l: per aumentare le «lauree tecnico scientifiche» ci sarà un «Piano lauree scientifiche» di «Confindustria, Miur e Conferenza nazionale presidi di Scienze»), far svolgere i dottorati di ricerca presso aziende a fini produttivi (punto 4: «dottorato di ricerca in-executive per l'industria») e controllare il reclutamento dei docenti (punto 6: Confindustria «offre collaborazione» per «individuare i metodi di riconoscimento della qualità di docenti e ricercatori»). «Il Sole 24ore», che considera l'accordo un'efficace risposta alla crisi, a ottobre aveva promosso un «dibattito» attorno alla proposta di ridurre l'area umanistica e puntare sulle facoltà tecnico-scientifiche (Vittorio De Marchis, Domenicale del «Sole 24 ore», 23 ottobre). Il «dibattito» serviva a travestire da politica culturale l'esistente — confrontate i finanziamenti ai Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (Prin) di ambito scientifico con quelli umanistici sul sito prin.miur.it! Una vera politica culturale implicherebbe un progetto etico in funzione del quale organizzare le risorse economiche, ma questo piano di riflessione è ignoto a Confindustria e Crui, che, senza aver ricevuto alcuna delega in merito, si arroga il diritto di vendere la ricerca pubblica. Chi vuole una cultura che sia frutto esclusivo delle esigenze del mondo produttivo? Non dovrebbe volerla neanche il mondo produttivo, poiché le scienze «dure» avanzano anche grazie alla loro dimensione filosofica. Studiare per cambiare la realtà è 'un percorso non interamente tramutabile in «produzione», ma necessario; l'intelligenza non può essere coltivata solo in quanto parte di un ordine produttivo e sociale, pena la sua atrofia: questo vale per le matematiche come per la filosofia. Il fatto è che negli ultimi vent'anni l'accesso all'università ha smesso di es sere un ideale democratico e si è ridotto a un'ipotesi di mercato; oggi il mercato taglia i rami secchi dei saperi che non producono beni materiali. Cosa ha voluto concretamente il mercato negli ultimi due anni? Ha ridotto il numero delle università statali (riforma Gelmini) e ha permesso che poco serie e molto lucrose università «telematiche» private (come eCampus di Francesco Polidori, fondatore del Cepu) con una semplice richiesta possano essere parificate a quelle pubbliche (decreto Gelmini per la programmazione 2010-2012, art. 6, punto c); tenta di aumentare a 10.000 euro e più le tasse universitarie e di introdurre il prestito d'onore di stampo anglosassone, che rende lo studente economicamente debitore della formazione ricevuta (proposta presentata il 18 maggio 2011 da senatori Pd Marino e Treu], Api [RUTELLI], dal finiano Valditara e altri), sistema che negli Stati Uniti ha fortemente incrementato il debito pubblico. Nel sito dell'Istituto di Alti Studi di Lucca Imt (fondazione di Marcello Pera), si legge che il prestito d'onore «sostanzia e rende effettivo il concetto di diritto allo studio»: non si tratterebbe di un diritto garantito dalla Costituzione italiana, senza bisogno di transazioni economiche aggiuntive? Il mercato continua a proporci un'economia di rapina, e la cultura, umanistica e non, dovrebbe diventarne un riflesso? La cultura non è tale se non è libera; una società che vuole una piccola riserva di umanisti impegnali nella conservazione autoreferenziale di saperi già decretati inutili e una massa di tecnici delle, scienze dure acriticamente dediti alla «produzione» materiale non può generare alcuna forma di cultura. Gli orrori atomici e concentrazionari del '900 ci hanno insegnato che la ricerca non può vendersi a padroni economici o politici nascondendosi dietro la propria presunta neutralità, poiché la scienza, se priva di radicamento e di responsabilità sociale, è regresso e morte. ________________________________________________ Libero 12 Nov. ‘11 I saggi di Mario Vargas Llosa LLOSA: COSÌ GLI STUDENTI ROSSI HANNO DISTRUTTO L'UNIVERSITÀ EMANUELA MEUCCI «Basta passare davanti a quelle facciate imbrattate in cui si concentrano più strafalcioni ortografici che idee, per scoprirlo all'istante. La politicizzazione, che ha trasformato i chiostri in monumenti alla sporcizia e al degrado, li ha anche logorati intellettualmente». Ecco come nel 1979, in una delle fasi più acute delle occupazioni e delle proteste studentesche che infuriavano in Italia, il premio Nobel Mario Vargas Llosa descriveva lo stato dell'università pubblica, tanto in Italia quanto in Sud America, nel saggio Riflessioni su una moribonda, appena pubblicato nel nostro Paese all'interno della raccolta Gioco senza regole (Edizioni Scheiwiller, pp. 270, euro 18). Il saggio si trova proprio alla fine del volume che ripercorre l'evoluzione del pensiero di Vargas Dosa. Lo scrittore, simpatizzante di Fidel Castro negli anni '50, abbandonò presto l'ideologia comunista. «L'intellettuale di sinistra ha finito per convincersi che, in un pianeta a tal punto segnato dalla violenza sociale, sia reazionario, nonché ipocrita, condannare la violenza individuale con cui i gruppi più radicali tentano di combattere questa violenza. (...) L'intellettuale di sinistra, nel vecchio e nel nuovo mondo, non vede altra alternativa che approvare, "cercare di capire" o restare in silenzio di fronte al terrorismo», spiega. Se il conformismo domina la cultura, finisce per distruggere anche l'università. Ma da dove nasce la riflessione di Vargas Llosa? Daun convegno organizzato all'università di Torino alla fine del 1967. Una volta arrivato davanti alla facciata dell'ateneo lo spaesato scrittore scopre che le aule sono occupate da una settimana. Proprio quando sta per tornare sui suoi passi, dal portone sbarrato esce una seducente professoressa che «sembrava uscita da un concorso di bellezza. Si rivolse subito a me: ero io il dirigente rivoluzionario sudamericano? Le spiegai che ero a malapena un romanziere peruviano. Nel comitato si diffuse allora lo sconcerto». Mentre Vargas Llosa era convinto di dover tenere una seria lezione sul romanzo sudamericano, il pubblico si aspettava di ascoltare il racconto delle esperienze di un "compagno" arrivato dall'altra parte dell'Oceano. Per non deludere il pubblico, al futuro premio Nobel rimase un'unica possibilità: «Adottare la suggestiva identità di un dirigente universitario latinoamericano venuto a condividere la propria esperienza con i colleghi italiani». «Poiché il mio uditorio non sembrava avere la minima idea di cosa fosse stato il movimento per la riforma universitaria in America Latina», continua divertito l'autore, «non mi linciarono. Furono persino gentili». Se in quell'occasione ignoranza e furore ideologico impedirono agli studenti di vedere la realtà, secondo Vargas Llosa questi mali hanno finito per corrompere tutto il sistema universitario. Nelle pagine dell'autore, scritte più di trent'anni fa, si ritrovano gli stessi problemi che occupano ancora oggi le pagine dei giornali. Agli allievi si chiede sempre meno, tanto da abolire gli obblighi di frequenza e aiutare più i fannulloni che gli studenti-lavoratori. Le rette sono troppo basse, e i docenti migliori scappano verso gli atenei privati, che garantiscono stipendi alti e strumenti d'eccellenza. Il vero male degli atenei non è l'elitarismo, ma l'abbassamento degli standard. Come se fosse meglio crescere giovani tutti ugualmente ignoranti, piuttosto che investire su una minoranza di studenti brillanti. Tutti guasti provocati dalla politica. «L'università», spiega Vargas Llosa, «si è trasformata in un teatro in cui mettere in cena la rivoluzione, con tutto l'armamentario connesso: lo sciopero generale, la lotta di classe, la distruzione dei gruppi dominanti, la dittatura del proletariato, le purghe e l'instaurazione del dogmatismo ideologico. Questo gioco, che fuori dai chiostri ha avuto conseguenze politiche irrisorie, è stato tragico per l'università». «Come molti altri», conclude l'autore, «anche io ho contribuito nel mio piccolo a demolire l'università peruviana. Lo ricordo perché sia chiaro che queste critiche non sono esenti da una buona dose di autocritica». _________________________________________________ Corriere della Sera 8 Nov. ‘11 FONDI PER 40 RICERCATORI MA LA STATALE LI RIFIUTA LO SCONTRO SOLDI SOLO PER MEDICINA, MALUMORE NELLE ALTRE FACOLTÀ Il Senato boccia la proposta, raccolta di firme tra i docenti Ci sono i soldi, ma l' università non assume i ricercatori, alla faccia dello slogan che il 23 novembre 2010 sventolava su un lenzuolo davanti al Rettorato di via Festa del Perdono: «Senza ricerca e formazione il futuro è un' illusione». La Generazione contro la Riforma Gelmini è salita sui tetti, ha assediato Montecitorio e occupato le piazze d' Italia: un anno dopo, la Statale ha i fondi per assumere 40 ricercatori, ma non lo fa e rinuncia a incassare da banche e altre istituzioni private oltre 4 milioni di euro. Il motivo? I finanziamenti, essendo stati ottenuti solo da Medicina, infastidiscono le altre facoltà. La decisione è stata presa dal Senato accademico. Per contestarla è partita una petizione mai vista nell' ateneo tra baroni, docenti e ricercatori. La vicenda è ricostruita proprio in una lettera che gira tra i quasi 400 docenti di Medicina per raccogliere adesioni. I (primi) firmatari sono Luciano Gattinoni (alla guida del Dipartimento di Anestesiologia, Terapia intensiva e Scienze dermatologiche) e da Pier Alberto Bertazzi (al timone del Dipartimento di Medicina del Lavoro). «Abbiamo preso atto della decisione del Senato accademico di assegnare in totale ai nuovi 7 Dipartimenti 12 ricercatori a bilancio dell' Ateneo - si legge nel documento -. A questi si aggiungono 14 ricercatori cofinanziati a fronte di possibili 40 cofinanziamenti ». In gioco ci sono i contratti triennali per ricercatori, una nuova formula prevista dalla riforma Gelmini. Ogni assegno vale 156 mila euro a triennio. «La decisione di limitarne drasticamente il numero ha due motivazioni - continua la lettera -. Il primo: evitare che l' Università debba farsi carico, dopo i primi tre anni cofinanziati, dell' ulteriore contratto triennale (anche se non esiste alcun obbligo all' automatica stabilizzazione dei ricercatori cofinanziati , ndr ). Il secondo: i finanziamenti, essendo stati ottenuti solo dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia, creano squilibri e conseguenti malumori nelle altre facoltà. (...) Ma quanto ottenuto dalla facoltà di Medicina dovrebbe rappresentare uno stimolo per le altre facoltà alla ricerca di fondi, anziché essere motivo di irritazione, considerando lo spirito della legge 240». Di qui la richiesta, rivolta con forza al Senato accademico, di tornare sui suoi passi: «Il compito primario dell' Università è di ampliare il bacino di selezione dei migliori, non di ridurlo». Ma il rettore Enrico Decleva si difende: «È una scelta di prudenza e razionalità - spiega -. Fare un contratto triennale a ricercatori che poi difficilmente potranno essere confermati in università gli anni successivi è molto cinico». È meglio che la speranza di un futuro in università venga stroncata all' inizio o avere una chance? Di questi tempi è difficile dare una risposta. Simona Ravizza sravizza@corriere.it **** Risorse & polemiche Lo stanziamento Il Senato accademico dell' Università Statale ha deciso di assumere solo 14 ricercatori rispetto ai possibili 40 cofinanziati con 4 milioni di euro tra fondi statali e risorse messe a disposizione da banche e altre istituzioni private La rivolta Al via una raccolta di firme tra docenti e ricercatori per chiedere di rivedere la decisione La difesa Il rettore Enrico Decleva (foto) parla di una scelta prudente: «Difficilmente i ricercatori potranno essere confermati» Ravizza Simona _________________________________________________ Corriere della Sera 9 Nov. ‘11 IL RICERCATORE: COSÌ LA STATALE CI NEGA SPERANZE DOPO LA RINUNCIA A OLTRE 4 MILIONI PER LE ASSUNZIONI «L' università rischia di tarparci le ali». Matteo Sacchi, 29 anni, è stato nel team di medici che nel luglio 2010 ha eseguito il primo trapianto in Europa di cornea artificiale su una bebè di 10 mesi. Il suo sogno è diventare ricercatore. Di qui l' amarezza per la decisione del rettore Enrico Decleva e del Senato accademico di rinunciare ai 4 milioni messi a disposizione da banche e privati per finanziare i contratti triennali di ricerca - previsti dalla riforma Gelmini - a 40 giovani. È una scelta contestata dagli stessi docenti universitari che - come raccontato ieri dal Corriere - hanno fatto partire una raccolta di firme mai vista nell' ateneo. «I soldi ci sono. Ma è stata presa la decisione di non utilizzarli per non far nascere malumori nelle facoltà che, diversamente da Medicina, non riescono a ottenere finanziamenti - spiega Sacchi -. Ma è una scelta che rischia di penalizzare le aspirazioni di chi, come me, desidera dimostrare le proprie capacità». Il rettore Enrico Decleva ha difeso la decisione di attivare solo 14 contratti di ricerca contro i 40 che i fondi a disposizione consentirebbero con la motivazione di non volere deludere le aspettative dei ricercatori, a rischio di licenziamento dopo i tre anni. «Ma l' università deve aiutarci ad avere più chance, non toglierci quelle che potremmo avere almeno con i contratti triennali, importanti proprio per permetterci di restare a fare ricerca - incalza Sacchi -. Sono sicuro di interpretare anche il pensiero dei miei coetanei, oltre che dei docenti universitari impegnati nella raccolta di firme». S. Rav. Ravizza Simona ______________________________________________ Avvenire 9 Nov. ‘11 ISRAEL: MA LA LAVAGNA È MEGLIO DEL DIGITALE Dibattiti Scuola, fa discutere un'inchiesta in Usa: si preferiscono i libri all'informatica. L'opinione dell'esperto Giorgio Israel DI GIORGIO ISRAEL Da tempo si parla di una ripresa di interesse per l'insegnamento del latino negli Stati Uniti e del fatto che, dopo la corsa all'informatizzazione delle scuole, si manifesta la tendenza inversa. La notizia diventa clamorosa se, come informa il "New York Times", le scuole che fanno tale scelta sono frequentate dai figli di manager della Silicon Valley al vertice dell'industria informatica: Apple, Google, Yahoo, Hewlett-Packard. In queste scuole, insegnanti e famiglie aderiscono a un'impostazione in cui dominano lavagne, gessi colorati, scaffali di libri ed enciclopedie, matite, penne, in cui la tecnologia è proscritta e gli insegnanti come l'ingegnere informatico Cathy Waheed insegnano le frazioni dividendo torte. Secondo Paul Thomas, «un approccio parsimonioso alla tecnologia favorisce l'apprendimento» perché «insegnare è un'esperienza umana e la tecnologia è una distrazione mentre abbiamo bisogno di "literacy", "numeracy" e pensiero critico». Secondo il genitore Pierre Laurent, che ha lavorato presso Intel e Microsoft, quel che conta è «il rapporto con il maestro e con i compagni». E anche gli alunni applaudono: Finn Heilig, 10 anni, è entusiasta di poter verificare i propri progressi nella scrittura manuale. Del resto, le scuole Waldorf vantano di aver fatto entrare il 94% dei propri studenti nei college e nelle università più prestigiosi. Secondo Alan Eagle, un genitore superesperto di tecnologie informatiche presso Google, «l'idea che un'applicazione o un iPad possa insegnare meglio ai miei figli l'aritmetica o a leggere, è ridicola». Ha indiscutibilmente ragione. Chi crede che la matematica si possa insegnare con i computer non sa di cosa parla. I successi della tecnologia poggiano tutti su teoremi di matematica mentale, quelli che un computer non può dimostrare. Il teorema di Pitagora è uno dei teoremi più importanti della matematica anche perché mostra che esistono grandezze geometriche incommensurabili, cioè non riducibili a rapporti tra multipli di una comune unità di misura: insegna che la radice quadrata di 2 è un numero con infiniti decimali che si susseguono senza ordine definito, un numero "irrazionale". Il celebre matematico Clifford Truesdell osservò che «un calcolatore può fare, prima di rompersi, solo un numero finito di calcoli» e quindi saprà calcolare quel numero solo fino a un certo punto: «indipendentemente dal numero di decimali che un calcolatore potrebbe tirare fuori, ne rimarrebbero sempre di più, milioni e miliardi e trilioni di volte la sua massima capacità». Al contrario, uno studente potrà dimostrare mentalmente, come i Greci più di duemila anni, che quel numero è irrazionale. E invece materia di discussione se l'ausilio dello schermo per la grafica geometrica, e per altre funzioni sussidiarie, sia utile. Purché il confronto culturale sia aperto. Il liberismo americano non è il paradiso le scuole di Silicon Valley costano un occhio della testa ma è un vantaggio che la scelta metodologica sia libera. Anche in un sistema centralizzato come il nostro vi è libertà se vale il principio che le uniche direttive riguardino i contenuti indispensabili e non il metodo, affidato soprattutto all'insegnante. Ma ora si vuole rovesciare l'approccio: prescrizioni metodologiche strette, disinteresse per i contenuti, insegnante come "facilitatore". E allora il sistema degenera nel dirigismo statalista gestito per via amministrativa, soprattutto se la politica è debole, anche culturalmente. Una legge del 2008 dispone che i libri di testo siano in forma digitale. È legittimo pensare che questo significhi soltanto trasferire i libri in veste informatica e non approfittarne per imporre di straforo una nuova didattica. Invece l'amministrazione ha tracimato, formulando un piano di Editoria Digitale Scolastica che contiene scelte di contenuto che incidono pesantemente sul modo di insegnare la matematica, l'italiano, le scienze e la musica. Si parla di realizzare «attività di edutainement e/o di ambienti immersivi tridimensionali finalizzate a potenziare le abilità di negoziazione ed i lavori di gruppo, le capacità di pensiero strategico» e via sproloquiando. E, come se non bastasse, si parla di introdurre niente meno che «attività video ludiche (giochi di ruolo, giochi di strategia)»!... La burocrazia ministeriale giustifica queste scelte "rivoluzionarie" parlando di «riflessione culturale e scientifica sull'introduzione e sul valore aggiunto dell'editoria scolastica digitale nella prassi dell'insegnamento apprendimento». Quando si sarebbe svolta tale riflessione salvo che in certi incontri di indottrinamento tra chi la pensa allo stesso modo e come sarebbero maturate simili scelte, non è dato sapere. E si tratta di scelte imposte per via burocratica all'intero sistema dell'istruzione. Comunque la si pensi nel merito non si può che guardare con raccapriccio all'imposizione amministrativa di una didattica di stato dei videogiochi. Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. Per i docenti e i genitori americani usare meno le nuove tecnologie favorisce l'apprendere: e in Italia che succede? ______________________________________________ Avvenire 9 Nov. ‘11 BERTAGNA: «MA I COMPUTER NON INVADANO LE AULE» Nessuna demonizzazione, piuttosto «siamo noi a porre una sfida alle nuove tecnologie». Capovolge la prospettiva della questione Giuseppe Bertagna, ordinario di Pedagogia generale all'Università degli studi di Bergamo e più volte consulente del ministero della Pubblica Istruzione. «Scolasticamente parlando spiega è perdente dire che le nuove tecnologie sono il demonio». Ma non si può neppure assistere a «una invasione di questi nuovi strumenti» in modo passivo. E allora «si pone la sfida queste tecnologie perché sappiano davvero mettersi al servizio dell'educazione e sia in grado di valorizzare gli aspetti qualitativi del rapporto educativo». Insomma un passaggio che «va governato» e «non vissuto con rigetto». Ma sono le nuove tecnologie, secondo Bertagna, in qualche modo a dover dimostrare di essere «strumenti capaci di entrare nel rapporto educativo, così come avvenuto per gli altri strumenti utilizzati nell'azione educativa»: il libro, la penna, la lavagna, per fare qualche esempio. «Il vero problema è che occorre aiutare i ragazzi a comprendere che esiste una realtà fisica e una realtà virtuale, ognuna con dei vincoli». Un esempio? «Con un computer è possibile realizzare un disegno anche al di là della realtà. Ma se poi si pensa di realizzare l'oggetto materialmente occorre sapere che esistono vincoli fisici nella costruzione». È dunque «l'uso critico» degli strumenti la vera sfida che il mondo dell'educazione pone alle nuove tecnologie. La realtà virtuale, «non permette aggiunge Bertagna di avere una propria identità reale, che è indispensabile per creare un rapporto. E il tema dell'identità è importante approcciando questi strumenti». Insomma «non una scuola in competizione con i computer e l'informatica», ma capace di «porre anche questo strumento accanto agli altri già in uso». Spazio al nuovo «senza buttare via o eliminare quanto utilizzato fino ad ora». (E.Len.) ______________________________________________ Repubblica 7 Nov. ‘11 UNIVERSITA’ TELEMATICA IN CUI SECOND LIFE E’ DOCENTE DI RUOLO IL CONSORZIO NETTUNO, CHE RAGGRUPPA 40 ATENEI ITALIANI E ALCUNI SOCI PRIVATI, SPERIMENTA NUOVI METODI DI INSEGNAMENTO USANDO LE FRONTIERE DELLA TECNOLOGIA: UNA PIATTAFORMA DIDATTICA IN SEI LINGUE PER UNA SERIE DI INIZIATIVE INTERNAZIONALI Laura Kiss Grazie alla tecnologia a distanza e ad un accordo siglato con il governo del Marocco, l'Università Telematica Internazionale Uninettuno ha lanciato un programma per l'alfabetizzazione in lingua araba degli immigrati marocchini in Italia. I bambini marocchini che frequentano le scuole italiane, così come i loro genitori residenti in Italia, potranno imparare a leggere e scrivere grazie al corso a distanza "Imparo l'Arabo. Il Tesoro delle Lettere", un progetto pedagogico ideato dal rettore della UniNettuno, Maria Amata Garito, per anni titolare della cattedra in psicologia delle tecnologie alla Sapienza, che grazie agli ambienti creati su Second Life e alla contestualizzazione delle parole con gli oggetti di uso quotidiano, permette un apprendimento della lingua facile e veloce attraverso Internet e televisione. Per collaborare con il Paese mediorentale alle prese con un serio problema di analfabetismo, già dal 2009 UniNettuno eroga "Imparo l'Arabo", trasmesso sulla rete nazionale marocchina Snrt da Rai Nettuno Sat (visibile in chiaro in Europa e in Africa), e dal prossimo gennaio anche da Rai Due.11corso ha contribuito a ridurre il tasso di analfabetismo, risultato che ha indotto il ministero delle Comunità marocchine all'estero, con l'appoggio dell' ambasciata, a ideate un progetto per rafforzare negli immigrati marocchini in Italia il legame con la cultura d'origine. Ora verranno creati centri di formazione sul territorio italiano con le tecnologie per l'insegnamento a distanza. "L'UniNettuno, nata da un network di 40 università e dalla Rai che dal 1992 erogava video lezioni in tv, è oggi l'unica università italiana a distanza che conferisce diplomi dí laurea riconosciuti sia in Italia che in gran parte del bacino Mediterraneo", spiega il rettore Garito. Uninettuno prosegue la sua crescita anche in Italia. Quest'anno Telecom, grazie ad un accordo con tutte le sigle sindacali, si è rivolta ad essa per il miglioramento educativo del personale é oggi vi studiano circa 2000 dipendenti. L'università dispone di una piattaforma tecnologica in 6 lingue (inglese, francese, italiano, arabo, greco e polacco), conta studenti da oltre 40 nazioni e offre corsi di laurea in 4 lingue (inglese, francese, italiano e arabo), e master universitari anche in polacco, greco e russo. Inoltre, nell'ambito del progetto europeo Med Net'U (Mediterranean Network of Universities), finanziato dalla Commissione Europea perla creazione diuna Università Euromediterranea a distanza, l'università conta oggi più di 12.000 studenti, ha costruito un network tecnologico con 11 centri di produzione e3 I poli tecnologici in 11 Paesi del Mediterraneo. ______________________________________________ Ansa 9 Nov. ‘11 RICERCA: CNR, E-LEARNING E' UN MERCATO IN CRESCITA (NOTIZIARIO SCIENZA E TECNICA) ROMA, 9 NOV L'e-learning e' in continua espansione, tanto che solo nel 2010 il mercato statunitense in questo settori e' stato pari a 18 miliardi di dollari, e nel 2015 se ne stimano 25. In Europa il prossimo futuro prevede una crescita del 6% in Occidente e del 24% in Europa orientale. In Asia e' prevista una crescita del 30% e in Africa del 18%. Sono i dati presentati dall'Istituto di Tecnologie Didattiche del Centro Nazionale per le Ricerche (Cnr) e risultato del progetto STEEL (Sistemi, Tecnologie abilitanti EmEtodi per la formazione a distanza), un sistema di e- learning per la formazione a livello universitario e superiore, basato su un modello multimediale che prevede una piattaforma tecnologica integrata satellitare-terrestre. Si tratta di un esperimento di formazione a distanza nell'ambito di un'università telematica, in cui i docenti sono stati formati per favorire l'introduzione dei metodi e degli strumenti proposti. "L'e- learning e' stato identificato come una delle cinque aree strategiche per lo sviluppo dell'Information society nell'Unione Europea", ha spiegato Rosa Maria Bottino, direttore dell'Istituto per le Tecnologie Didattiche, "tanto che il National centre for technology innovation dell'American institute for research, l'inserisce fra le dieci innovazioni piu' significative dei prossimi venti-trent'anni". _________________________________________________ L’Unione Sarda 3 Nov. ‘11 CAGLIARI: PREMIO AI PROGETTI, OLTRE UN MILIONE PER 26 RICERCATORI UNIVERSITÀ. Fondi del Ministero Sono 26 i ricercatori dell'ateneo cittadino premiati dal Ministero dell'università e della ricerca per i loro progetti. In via Università sono arrivati 1.288.595 euro dal Prin (Promozione della ricerca scientifica e dell'innovazione) 2009. Tra i 26 premiati, 6 sono docenti coordinatori nazionali dei progetti. Rosa Cidu (Scienze della terra): 120.000 euro per studiare i «Fattori geochimici che controllano la dispersione dell'antimonio in acque che drenano siti minerari dismessi». Pierluigi Cocco (Dipartimento Sanità pubblica): 69.976 euro per «Eziologia dei linfomi in Sardegna». Ernestina Giudici (preside Economia): 57.537 euro, dirige «la diffusione dell'innovazione e dinamiche in network in alcuni settori di rilevanza strategica presenti in Sardegna». Francesco Marrosu, capofila di «Impiego del fenofibrato come terapia aggiuntiva nell'epilessia frontale notturna farmacoresistente» ha 86.099 euro. Patrizia Mureddu (già pro rettore didattica) coordina «L'eredità di Dioniso: il testo teatrale, il dialogo filosofico, il romanzo» con 33.195 euro. Gianluca Usai (fisica): 83.858 euro per il «Ripristino della simmetria chirale e il punto critico della Qdc: misure nella produzione di dileptoni in collisioni nucleari». Gli altri 20 docenti finanziati sono Antonio Aniello (psicologia, 36.000 euro), Gabriella Baptist (scienze pedagogiche, 18.262), Carla Maria Calò (biologia sperimentale, 51.480), Elisabetta Cattanei (teoria delle scienze umane, 46.648), Rosa Cristina Coppola (sanità pubblica, 29.645), Anna Corrias (scienze chimiche, 70.000), Gianfranco Fancello (ingegneria del territorio, 63.400), Giancarlo Filanti (scienze giuridiche e forensi, 33.784), Marco Giunti (filosofia e teoria delle scienze umane, 24.000), Adolfo Lai (scienze chimiche, 70.000), Pier Luigi Lecis (filosofia e teoria delle scienze umane, 35.000), Vito Lippolis (chimica inorganica e analitica, 39.389), Andrea Melis (scienze economiche e aziendali, 23.765), Augusto Montisci (ingegneria elettrica ed elettronica, 45.337), Pier Paolo Pisano (scienze chimiche, 36.337), Alessandro Pisano (ingegneria elettrica ed elettronica, 42.801), Marco Pistis (neuroscienze “Bernard Brodie”, 42.148), Giorgio Querzoli (ingegneria del territorio, 34.400), Antonio Trudu (studi storici, geografici e artistici, 51.051) e Massimo Vanzi (ingegneria elettrica ed elettronica, 48.783). _________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 Ott. ‘11 CABRAS: «DUE UNIVERSITÀ SONO TROPPE» BARADILI. «In Sardegna non è più tempo di due università distinte». Lo ha detto il senatore Antonello Cabras alla conferenza programmatica del Pd. «Non scelgo tra Cagliari e Sassari - ha aggiunto - perché bisogna innanzitutto pensare a studiare un sistema fondato sulla qualità». Cabras ha sollevato la questione nell’ambito di un ragionamento sul debito pubblico dell’Italia. Commentando le relazioni dei gruppi di lavoro, ha spiegato: «Vanno bene, è un primo passo, ma prima di cercare le soluzioni bisogna fare delle scelte individuando le priorità. C’è infatti l’esigenza di condividere la condizione in cui ci troviamo come Paese. Il debito riduce gli spazi di democrazia, riduce la libertà perché impedisce di fare le scelte che vorremmo. Siamo una forza di governo e dobbiamo fare proposte di governo concrete, realizzabili e quindi credibili, in modo da distinguerci da chi fa promesse». Insomma, senza criticare apertamente i contenuti forse eccessivamente rivendicazionisti della Conferenza programmatica (comunque al suo primo appuntamento), Cabras ha predicato realismo. E in questo ambito ha suggerito riflessioni scomode, come quella sulle università sarde. O sulla sanità: «Per fortuna ora è di nostra esclusiva competenza, ma tocca a noi recuperare risorse senza ridurre l’assistenza ma solo gli sprechi». (f. per.) _______________________________________ L’Unione Sarda 2 Nov. ‘11 SASSARI. Non si placano le polemiche politiche sul futuro dell’alta formazione nell’Isola «GIÙ LE MANI DALL’UNIVERSITÀ» Scanu e Bruno (Pd) contro l’ipotesi di fusione con l’Ateneo di Cagliari «L’Università di Sassari non si tocca. Una fusione sarebbe forzosa e burocratica. I due Atenei sardi hanno una lunga storia: quello di Sassari proprio quest’anno festeggia i 450 anni». Lo sostengono in un comunicato il senatore Gian Piero Scanu e il capogruppo in consiglio regionale Mario Bruno del Partito democratico. Che così rispondono alle polemiche dei giorni scorsi sul futuro dell’Ateneo. «Questa è una caratteristica di molte Università italiane - aggiungono i due rappresentanti politici - un pò come è per i distretti industriali, essi sono distribuiti sul territorio e si rifanno spesso a tradizioni antiche: tanto per dire una regione come le Marche, più o meno con gli stessi abitanti della Sardegna, ma molto meno estesa, ha tre Atenei, di cui due storici». E ancora: «La storia è importante, specie per l’alta formazione e per la cultura. C’è in più il fatto che gli Atenei di Sassari e Cagliari hanno un fortissimo legame con i territori, anzi in alcuni casi, come ad esempio è avvenuto per la Facoltà di Architettura di Alghero, sono un fattore importante di sostegno allo sviluppo locale». Non solo: «È importante che si sviluppino le aperture internazionali, si crei un ambiente di apprendimento ricco e cosmopolita, obiettivo per cui le varie “specialità” culturali di ricerca e storiche dei due Atenei rappresentino un punto di forza». In conclusione: «La diversità non può ovviamente voler dire mancanza di collaborazione e di definizione di visioni e strategie comuni; molto di più di può fare per razionalizzare e mettere in comune servizi e proposte formative, specie nel campo della formazione permanente a distanza, o per coprire settori importanti che necessitano di una dimensione di cooperazione regionale (alla Sardegna servirebbe un corso di design). Rafforzare il sistema dell’alta formazione in Sardegna passa dunque per la diversità e per il rafforzamento della cooperazione». __________________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 Nov. ‘11 CABRAS: DECIDIAMO NON IL NUMERO MA LA QUALITÀ DELL’UNIVERSITÀ PER I GIOVANI DELL’ISOLA ANTONELLO CABRAS SENATORE PD Le reazioni seguite alla discussione nell’ambito della conferenza di Baradili del Pd meritano un commento. Leggo preoccupazioni e sottolineature comprensibili e segnalano l’ansia che accompagna l’incertezza del nostro tempo sul futuro. In fondo se si riflette oggi tutti sentono a rischio la propria condizione, le differenze stanno negli strumenti di cui si può disporre per difendersi dalle aggressioni. La nostra riflessione, ricca di apporti, parte dalla consapevolezza che nulla sarà come prima. Il principio della spesa storica cardine ingiusto sul quale si sono fondati finora tutti i bilanci pubblici è caduto con l’introduzione nella legge del metodo della revisione della spesa. Il compianto ministro Padoa Schioppa, al quale va il merito di averla per primo proposta durante l’ultimo governo Prodi, la indicava come unica soluzione ragionevole ed equa per avviare un processo reale di riduzione della spesa pubblica, unica strada per aggredire il peso del debito senza limitare la crescita economica. Liberare risorse verso nuovi obiettivi più adeguati al tempo e alla domanda di sviluppo di oggi, senza ricorrere al debito e consapevoli che nella necessaria prospettiva di riduzione della pressione fiscale non esiste altra strada per reperire nuove risorse pubbliche per sostenere il sistema. Nei principali titoli del bilancio pubblico ad ogni livello si parte da zero e si ricostruisce la nuova spesa, nell’architettura della pubblica amministrazione, così come nella rappresentanza politica e nel governo, nella sanità che teniamo a mantenere universale, come nel sostegno alla ricerca e formazione. Una parte considerevole delle nuove risorse emergerà da una differente e qualitativamente più adeguato uso delle vecchie. La Sardegna ha scelto, in modo lungimirante secondo il mio punto di vista, di farsi carico della sanità quando ha preteso di trattenere la gran parte dell’ammontare della fiscalità prodotta nell’isola, questo le assegna il compito di razionalizzare e meglio spendere le sue risorse. In questa direzione si andrà anche negli altri settori della vita pubblica, sarà sempre più il parlamento sardo a decidere come spendere e per quali obiettivi. La discussione è appena agli inizi, ma richiede partecipazione democratica e decisioni. Non è più tempo per avere due politiche una per l’opposizione e un’altra per il governo. In questa prospettiva le invarianti saranno per forza di cose ridotte al minimo, per questo è prudente e ragionevole farsene una ragione, mettere la testa sotto la sabbia non aiuterà. Sarebbe un danno per la parte più debole e di conseguenza meno attrezzata per difendersi. In definitiva non è il numero, ma come sarà l’Università del futuro per i giovani sardi, su questo dobbiamo interrogarci. Il ricordo di quando vivere alla casa dello studente di “Sa duchessa” significava entrare in contatto con la migliore gioventù della nostra Sardegna, mi aiuta ad avere una grande fiducia nella nostra capacità non solo di tenere presente che Sassari ha una lunga storia, ma anche di quanti ingegneri di tutta l’isola si son formati come me nella scuola sarda a Cagliari e di quanti altri, sempre di ogni provincia, in altre discipline nell’ateneo sassarese. ___________________________________________________ La Nuova Sardegna 31 Ott. ‘11 SASSARI SULL’UNIVERSITÀ: GIÙ LE MANI DALLA NOSTRA STORIA SASSARI. Le dichiarazioni di Antonello Cabras sulle università sarde non sono piaciute a nessuno. Il sindaco di Sassari Ganau: «Non basta una motivazione economicista per azzerare quattro secoli di storia». «Macché debito pubblico l’obiettivo è cancellare l’università di Sassari» PASQUALE PORCU Sassari. Tra qualche giorno i 450 studenti più meritevoli dell’Università di Sassari riceveranno 450 iPad: uno a testa. 450, quanti sono gli anni che compie nel 2011 l’ateneo. Sassari è l’università più antica della Sardegna. Ma il senatore Antonello Cabras forse non lo sa. «In Sardegna non è più tempo di due università distinte», aveva detto sabato il senatore Antonello Cabras alla conferenza programmatica del Pd di Baradili. «Non scelgo tra Cagliari e Sassari - aveva precisato - perché bisogna innanzitutto pensare a studiare un sistema fondato sulla qualità». Cabras ha sollevato la questione nell’ambito di un ragionamento sul debito pubblico dell’Italia. E dal momento che il Pd, diceva Cabras, si sente forza di governo, il partito deve avanzare proposte degne di una forza di governo. Ma quella dichiarazione non è piaciuta, anzi ha immediatamente scatenato una serie di reazioni. Il presidente dell’amministrazione provinciale di Sassari ritiene, per esempio, che dietro giustificazioni di carattere economico si intraveda il vecchio tentativo di cancellare strutture e risorse importanti del Nord Sardegna per concentrarle su Cagliari. Il tentativo, insomma, sarebbe quello di cancellare l’ateneo turritano per fare una sola università sarda a Cagliari. «L’università di Sassari non si tocca- ha detto Alessandra Giudici- e la difenderemo con le unghie e con i denti. Non permetteremo che il nostro territorio venga ulteriormente desertificato sul piano delle risorse sia materiali che culturali». «Non so quale ragionamento abbia portato il senatore Cabras a fare quel ragionamento- ha commentato il sindaco di Sassari, Gianfranco Ganau - In Sardegna esistono due università ciascuna delle quali ha costruito nei secoli prestigio e specificità culturali e scientifiche. Le due università possono convivere tranquillamente e non basta una motivazione economicista per azzerare oltre quattro secoli di storia. Il risparmio dei costi è legittimo ma non a danno dell’università di Sassari. Una cosa, è risparmiare, altro è cancellare un’ateneo. No, questo sarebbe inaccettabile». Il rettore dell’università di Sassari, Attilio Mastino, stenta a credere che quella del senatore «sia stata l’unica idea brillante emersa dalla conferenza programmatica del Pd a Baradili». L’università turritana, ribadisce il rettore, «è una risorsa importante del nostro territorio che non può essere perduta». E inoltre la competizione tra i due atenei è un vantaggio poichè stimola la crescita delle due università. «Non dimentichiamo poi che la nostra università compie quest’anno 450 anni - dice Attilio Mastino- e con quella di Cagliari, siamo tra le più antiche di tutta l’Italia meridionale. Sassari e Cagliari, poi, sono da tempo importanti finestre su tutto il Mediterrano». «Non dimentichiamo poi - ricorda il professor Mastino - le due università sono a una distanza di più di duecento chilometri e sono al servizio di un intero territorio regionale. Non credo che nel resto dell’Italia esistano due sedi universitarie più distanti delle nostre. Il problema vero è, semmai, che abbiamo pochi laureati. Se vogliamo aiutare l’economia della nostra regione dobbiamo far aumentare e non far diminuire il numero dei laureati sardi». «Il debito pubblico nel nostro Paese esiste - ammette Mastino- e anche per questo da tempo abbiamo avviato una collaborazione con Cagliari per razionalizzare le risorse a nostra disposizione. Entrambi gli atenei hanno approvato i rispettivi statuti e siamo impegnati a confrontarci per evitare sprechi e attivare sinergie con una piattaforma comune che ci consenta di trovare soluzione ai problemi. In una parola, vogliamo fare sistema perchè siamo convinti che le due università insieme possano dare un importante contributo al futuro dell’isola». Le parole di Attilio Mastino sono in sintonia con quelle del rettore dell’università di Cagliari, Giovanni Melis. «E’ vero- dice Melis- più di quattro secoli di storia universitaria in Sardegna non si possono ignorare. Esistono le condizioni per tenere in piedi i due poli, a Cagliari e a Sassari. Da tempo esiste un dialogo tra i due atenei per arrivare a una sorta di federazione o comunque per realizzare sinergie comuni. In diversi campi, ormai, tra noi e l’università di Sassari abbiamo programmi comuni che vanno dall’orientamento al trasferimento tecnologico». Una storia cominciata quattrocentocinquanta anni fa SASSARI. L’Università degli Studi di Sassari è un ateneo pubblico che conquistò la sua identità giuridica nel 1617, per prima in Sardegna (a Cagliari i corsi sarebbero stati aperti nel 1626). Oggi l’ateneo conta dodici facoltà. Fiore all’occhiello dell’Università di Sassari è il Centro di eccellenza per lo sviluppo della ricerca biotecnologica e per lo studio della biodiversità della Sardegna e dell’area mediterranea. La nascita dell’ateneo sassarese è legata alla figura di Alessio Fontana, che nel 1558 lasciò i suoi beni alla municipalità per l’istituzione di un collegio di studi. Tuttavia il re Filippo III concesse lo statuto di Università regia solo il 9 febbraio 1617, con la consacrazione di Sassari a prima Università regia. Nel 1765 fu approvato un regolamento interno col riconoscimento di 4 facoltà: Filosofia ed Arti, Teologia, Giurisprudenza e Medicina; con uno scambio culturale vennero trapiantati docenti piemontesi avviando l’ateneo sassarese verso una cultura europea e ampliando la ricerca scientifica. _________________________________________________ L’Unione Sarda 11 Nov. ‘11 CAGLIARI: UNO SPIRAGLIO PER I FUORI CORSO Basta dare un esame entro il 30 aprile per non perdere quelli sostenuti Un incontro tra gli universitari e Melis deciso dopo l'interrogazione di un consigliere regionale Uno spiraglio per gli studenti universitari in decadenza : l'incontro tra una rappresentanza di questi e il rettore Giovanni Melis, sollecitato da un'interrogazione del consigliere regionale dell'Idv Adriano Salis, ha aperto uno spiraglio interessante: gli studenti che rischiano la decadenza hanno una finestra aperta sino al 30 aprile. Sarà quel giorno che verrà effettuata la valutazione di “studente attivo”. Di questa categoria, faranno parte quegli universitari che avranno sostenuto e superato un esame negli ultimi due anni accademici o che ne avranno superato uno entro il 30 aprile. Sempre con riguardo alla categoria degli “attivi”, la scadenza del 30 aprile 2012 verrà prorogata di un ulteriore anno, andando a concludersi alla data del 30 aprile 2013. Fermo restando che, se a quest'ultima data gli esami sono stati completati, lo studente usufruirà di ulteriori sei mesi per la compilazione della tesi. Se invece avrà ancora pochi esami da sostenere usufruirà di un ulteriore anno per concludere il percorso, periodo nel quale deve essere compilata anche la tesi di laurea. Per quanto riguarda invece gli studenti inattivi (in quanto già fermi da più di due anni e che per le ragioni più disparate non riusciranno comunque a sostenere esami prima del 30 aprile), si procederà ad una distinzione: coloro ai quali mancheranno pochissimi esami più la tesi, usufruiranno comunque di un anno di proroga, gli altri dovranno invece valutare di effettuare il passaggio ai nuovi ordinamenti entro il 28 febbraio. La definizione esatta del numero di esami mancanti per poter usufruire della proroga verrà decisa il 14 novembre in sede di Consiglio. _________________________________________________ L’Unione Sarda 11 Nov. ‘11 CAGLIARI: CENTRALABS QUANDO IL LAVORO È IN 3D Nasce Centralabs per la ricerca del futuro UNIVERSITÀ. Simulatori di trasporto: diventà realtà un'idea del 1983 Si può verificare quanto rumore fa un frullatore o un motore supersonico, quali cartelli stradali distraggono quando si è alla guida o simulare tutte le condizioni in cui lavorano gli addetti delle gru del porto. Sono solo alcune delle sperimentazioni che si possono fare nel Centralabs, i laboratori di ingegneria meccanica e dei trasporti nati nella Cittadella universitaria di Monserrato. Un sogno che il suo ideatore, Paolo Fadda, professore di ingegneria dei trasporti ed ex presidente dell'Autorità portuale di Cagliari, coltivava dal lontano 1983 e che solo oggi realizza. IL CENTRALABS Il Centralabs è un consorzio a responsabilità limitata tra le università di Cagliari e Sassari, la camera di commercio cittadina e una serie di aziende di trasporti: la Cict (che gestisce il porto canale), l'Arst, la Grendi, la Convesa e la Mast. Al di là delle sigle, quello che conta è che «il Centralabs è un soggetto rappresentativo di eccellenze scientifico nel campo dei trasporti», spiegano Fadda e Francesco Ginesu, ordinario di ingegneria meccanica. IMPRESE E RICERCA Il perché è presto detto. I laboratori permettono la collaborazione pratica tra imprese e università: «un'azienda può presentare il suo progetto scientifico e utilizzare gli spazi fisici e informatici (anche secretati) del Centralabs, impiegare nelle sperimentazione studenti, laureandi e dottorandi di ingegneria, quindi con costi concorrenziali rispetto al mercato». Il vantaggio per l'università è il cofinanziamento delle ricerche e, soprattutto, «dare sbocco lavorativo a giovani ingegneri, che saranno valutati dalle aziende in fase di sperimentazione». Tra i vari laboratori c'è la camera anecoica, una stanza completamente insonorizzata, tra le più grandi d'Europa, che serve per certificare il rumore di ogni apparecchio e un'innovazione mondiale in campo di trasporti: il Chameleon. IL CHAMELEON Si tratta di un simulatore tridimensionale di una cabina di una gru per la movimentazione dei container. La novità assoluta è che «questo è l'unico trasportabile esistente al mondo», perché è esso stesso allestito in un container. Una rivoluzione. «Per fare un esempio, per formare i gruisti il Marocco non dovrà più inviarli a Singapore. Ma attendere da Cagliari l'arrivo del Chameleon». Oltre alla formazione, serve «a migliorare la produttività dei gruisti» e a «testare i loro livelli di stress». Insomma, a progettare la cabina ideale per evitare problemi fisici ai tecnici e a fare in modo «che dai 24 container l'ora che si movimentano a Cagliari, si passi ai 30 di Rotterdam». Mario Gottardi _________________________________________________ L’Unione Sarda 10 Nov. ‘11 CAGLIARI: IL TESORO DIMENTICATO DELL'UNIVERSITÀ Finanziato nel 1992, l'Archivio storico dell'ateneo è ancora chiuso L'INCHIESTA. La responsabile Luisa D'Arienzo limita l'accesso alla struttura: «Rubato del materiale» «Sono state avanzate ripetute richieste, purtroppo non accolte» da chi continua a tirare in ballo «i soliti problemi di carattere logistico, per accedere all'Archivio storico dell'Università di Cagliari». Così scrive il giornalista Walter Falgio nel suo recente volume Libro e Università nella Sardegna del '700 . Infatti, il luogo che conserva i faldoni con i documenti che permettono di ricostruire la storia della principale istituzione culturale sarda, non è mai stato aperto. E questo nonostante i finanziamenti pubblici per il riordino e l'apertura al pubblico siano stati stanziati nel lontano 1992 e affidati alla professoressa Luisa D'Arienzo. La paleografa detiene le chiavi e decide, a sua discrezione, chi possa avere o meno il privilegio dell'accesso al “tesoro” che permette di indagare su almeno tre secoli di cultura isolana. IL MURO DI GOMMA La nota critica di Falgio è solo l'ultima di una lunga serie. Prima di lui già autorevoli storici come Antonello Mattone e Italo Birocchi, si erano scontrati con questo muro di gomma. «È assurdo che un bene così importante per la storia culturale della Sardegna non sia fruibile», denuncia Mattone, che ha curato la pubblicazione di due volumi di circa 800 pagine sulla Storia dell'Università di Sassari . Resa possibile perché, a differenza del cagliaritano, l'archivio dell'ateneo sassarese è riordinato e, soprattutto, aperto al pubblico. Un lavoro al momento impossibile realizzare nel capoluogo sardo. Per farlo «servirebbero gli acta graduum (i registri dei laureati, ndr ) e i carteggi tra ateneo e ministero», spiega Mattone. Tutti documenti preziosi accessibili, però, solo a pochi eletti. L'ORIGINE DELLO SCANDALO Luisa D'Arienzo è direttore dell'Archivio dal 1992, anno in cui le è stato dato anche l'incarico di riordinare i faldoni e compilare gli inventari per la successiva apertura al pubblico delle stanze del piano terra di via Università. Tutto finanziato con soldi pubblici, provenienti sia dall'ateneo, sia dalla Regione. Quantificare la cifra degli stanziamenti è stato impossibile. I funzionari delle due istituzioni non sono stati in grado di fornire dati in merito. «È passato troppo tempo», si giustificano. L'affidamento, dunque, avviene agli albori del lungo “regno” di Pasquale Mistretta, terminato due anni fa. LE RAGIONI DELLA CHIUSURA L'ex rettore spiega che «i documenti dell'Archivio sono ordinati da almeno dieci anni. I faldoni sono negli scaffali, mentre quelli che non ci stavano sono nei tavoli e in terra». Insomma, i locali sono troppo piccoli per contenere tutto il materiale, «ma non ce ne erano altri da destinare a quell'uso», specifica Mistretta. Che sottolinea come «a parte qualche laureando in lettere (la facoltà della D'Arienzo, ndr ) è stato fatto entrare qualche ricercatore. Ma non c'è mai stata una richiesta tale da giustificarne un'apertura a orario pieno». Però i finanziamenti sono arrivati perché l'Archivio aprisse. E, in ogni caso, se è già riordinato perché non si procede alla sua apertura? «Bisognava avere dei locali appositi, che non c'erano, e pagare del personale specializzato, per cui mancavano fondi. L'Archivio è importante ma avevo altre priorità: la biblioteca di Economia, l'orto botanico, il policlinico di Monserrato», spiega Mistretta. La professoressa D'Arienzo giustifica la sua parsimonia nel far accedere ricercatori nell'Archivio: «Quando si è facilitato l'accesso ai documenti certi materiali non sono più tornati. E poi i locali non sono adatti per essere aperti al pubblico». Insomma, ci si scontra sempre con «i soliti problemi di carattere logistico». Nonostante l'importanza che rivestono quei documenti e il fatto che siano passati vent'anni. Mario Gottardi IL RETTORE: «APRIRÀ PRESTO» Uno spiraglio di luce alla fine di un tunnel lungo vent'anni si inizia a vedere. È la stessa direttrice dell'archivio a spiegarlo. «Abbiamo digitalizzato tutti i documenti. L'archivio è in fase avanzata di sistemazione. Lo renderemo pubblico in un paio di mesi», afferma Luisa D'Arienzo. Il rettore Giovanni Melis invece non preferisce sbilanciarsi sui tempi, ma conferma che «stiamo facendo uno sforzo perché il materiale divenga fruibile al più presto. Siamo in attesa che la biblioteca universitaria (che dipende dal ministero dei Beni culturali e non dall'ateneo, ndr ) restituisca all'ateneo una parte dei locali di cui usufruisce». Ma oltre dello spazio fisico, un archivio ha necessità di personale specializzato. Per questo Melis ha attivato una collaborazione con la Soprintendenza archivistica per la Sardegna. «Ho chiesto al Consiglio di amministrazione di valorizzare questo patrimonio dell'Università», sottolinea il rettore. Insomma, le intenzioni dell'attuale “magnifico” sono quelle di velocizzare i tempi, «inizialmente rendendo pubblici una parte dei documenti, in vista di un luogo definitivo dove sistemarli definitivamente». Dunque sembra che l'archivio sia diventata una priorità dell'ateneo. Anche se, prima di esultare, bisognerà vederlo aperto. Dopo vent'anni di attesa, una dose di scetticismo è più che giustificata. (m. g.) _________________________________________________ L’Unione Sarda 9 Nov. ‘11 STANZE, SALASSO PER GLI STUDENTI Una media di 270 euro al mese, solo Napoli è più cara UNIVERSITÀ. I risultati dello studio di un sito specializzato nell'affitto di camere In vetta ci sono le grandi città e quelle che ospitano atenei storici. Ma Cagliari si piazza subito dietro: Napoli a parte, è il centro del Meridione dove sono più alti gli affitti per le stanze. A stabilirlo è uno studio di easystanza.it, sito specializzato proprio nella ricerca e nell'offerta di stanze per gli studenti universitari. A Cagliari si spendono mediamente 270 euro mensili per una camera, una cifra decisamente alta se paragonata a quanto si spende a Palermo e Lecce (mediamente 180 euro). Le città con gli affitti più alti sono Milano e Roma che hanno una media di 450 euro al mese. A ridosso, le sedi di due università toscane, Firenze e Siena, nelle quali si pagano rispettivamente 380 e 340 euro al mese. Leggermente meno care, le città dell'Emilia Romagna (sopra i 300 euro) mentre Napoli guida la poco onorevole classifica nel Sud Italia: nel capoluogo campano servono circa 300 euro al mese per avere una camera. Quindi, Cagliari, con i suoi 270 euro mensili, si colloca immediatamente dopo. E risulta decisamente meno economica dell'altra sede universitaria isolana: a Sassari il prezzo medio per l'affitto è di 210 euro. In realtà, l'anomalia è proprio quella cagliaritana. Basta dare un'occhiata ai prezzi medi in altre città del Centro sud: Bari (250 euro), Catania e Messina (200 euro), Ancona (220 euro). Addirittura alcune università storiche risultano più economiche di Cagliari: a Perugia e Padova l'affitto medio è di 250 euro. A far saltare verso l'alto i prezzi, forse, un aspetto: mentre in quasi tutta Italia, gli affitti sono destinati a studenti, Cagliari ha una tra le percentuali più alte (il 29%) di lavoratori che vivono in stanze. ( mar.co. ) ________________________________________________ L’Unione Sarda 6 Nov. ‘11 NELLE PALESTRE SARDE SOLO LAUREATI IN SCIENZE MOTORIE» In Sardegna ci sono oltre duemila diplomati Isef e, ad oggi, 484 laureati in Scienze motorie. Ma solo una parte trova lavoro a causa della mancanza di norme che impongano alle strutture pubbliche o private di avvalersi della loro collaborazione. Parte da questa esigenza di regolamentazione l'iniziativa legislativa di tre consiglieri di Sinistra ecologia e libertà a cui si è unita Claudia Zuncheddu (Indipendentistas). Una proposta di legge, simile a un'altra presentata dai Riformatori sardi, che mira non solo a tutelare i professionisti delle Scienze motorie ma anche la popolazione generale giacché lo sport è elemento fondamentale per il mantenimento della salute e la prevenzione di molte malattie. «Chi, durante gli allenamenti, viene seguito da personale non specializzato, magari preparato solo grazie a corsi di poche ore come quelli organizzati da alcune federazioni, rischia molto», ha detto Giorgio Cugusi, primo firmatario della proposta di legge, ieri mattina durante la presentazione della proposta davanti a centinaia di studenti e dottori in Scienze motorie. «Le conoscenze fisiologiche o patologiche che fornisce il corso di laurea sono fondamentali per affrontare problemi complessi che riguardano non solo la preparazione fisica ma anche la rieducazione o il mananagement dello sport». Nella maggior parte delle regioni italiane esiste già da tempo una legislazione regionale che regolamenta la professione dei tecnici sportivi, degli insegnanti di educazione motoria e dei gestori delle palestre private e riserva l'esercizio ai diplomati Isef e ai laureati in Scienze motorie e dei gestori delle palestre. In Sardegna, al contrario, quasi tutto è lasciato all'improvvisazione, nonostante la prevenzione sia considerata, sulla base di studi dell'Organizzazione mondiale della sanità e di delibere della Giunta regionale, la strada migliore per prevenire malattie e migliorare la qualità della vita. «Applicando questi principi riusciremmo anche a garantire una diminuzione dei costi della sanità pubblica», ha detto Luciano Uras (Sel), che ha sottolineato l'aumento degli anziani. «Più li teniamo in salute più risparmiamo». Anche per questo servono professionisti. (f.ma.) _________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 Nov. ‘11 UN GIOVANE SU DUE È SENZA LAVORO L’indice di povertà supera il 24 per cento, siamo all’emergenza Il segretario della Cisl Gavino Carta: «Infrastrutture, istruzione, coesione sociale per uscire dalla crisi» VANNALISA MANCA SASSARI. Il territorio è ormai da tempo sotto la soglia di emergenza. Gli indicatori sono drammatici. Cresce la povertà, con un indice che supera il 24 per cento; un giovane su due non ha un lavoro; i disoccupati sfiorano le 50mila unità, mentre sono oltre 23.000 i cosiddetti inoccupati, quelli che il lavoro l’hanno cercato e non l’hanno mai avuto neppure per un’ora, oppure la loro attività è da annoverare nelle statistiche del lavoro nero. Un territorio che non vede prospettive, dove si registra una contrazione degli investimenti, con un’industria ormai evanescente, un’agricoltura che arranca, le banche che finanziano sempre meno le intraprese, l’edilizia che in due anni ha perso il cinquanta per cento degli addetti. Cassa integrazione e mobilità sono spesso le poche entrate di molte famiglie. Un contesto di crisi che trascina inevitalmente nell’incertezza anche il settore terziario, su cui si è da sempre basata l’economia di Sassari; non ci soldi, la moneta non gira, i consumi si contraggono, i negozi chiudono. Tutto cade in un vortice pericoloso, da cui non si riesce a intravedere una luce. Il quadro è piuttosto deprimente. E il territorio si ribella. Venerdì prossimo i sindacati territoriali Cgil, Cisl, Uil chiamano a raccolta lavoratori, disoccupati, pensionati, giovani e donne per lo sciopero generale della Sardegna. Per protestare contro le misure economiche inique del governo e contro la Regione che non si è mostrata in grado di affrontare la gravità della situazione sarda. Secondo le ultime rilevazioni del Centro Servizi per il lavoro di Sassari, il nostro territorio registra un totale di 48.521 disoccupati, 25.495 maschi e 23.026 femmine; un totale di 23.604 inoccupati, di cui 8.219 maschi e circa il doppio di femmine (15.385). E ancora, sono 4329 i lavoratori in mobilità e 1081 i cassintegrati in deroga. «Sono dati allarmanti - commenta Gavino Carta, segretario generale della Cisl di Sassari -. L’area di crisi, quella che una volta veniva indicata come triangolo industriale Sassari-Alghero-Porto Torres, non riesce a trovare sbocchi. Non si sono creati i presupposti per dare un futuro ai nostri giovani. Basti pensare che a Sassari il tasso di disoccupazione giovanile, dati Istat, è del 49,9 per cento per ragazzi tra i 15 e i 24 anni e del 17,2 per cento per i 25/34enni. Un record negativo che peggio di noi vede il Sulcis Iglesiente. Significa che la politica è distante anni luce dalla realtà in cui si trovano le famiglie spesso monoreddito che hanno in casa figli laureati o comunque con alta scolarizzazione che cercano inutilmente un’occupazione». A questi si aggiungono i giovani che non hanno fatto alcun percorso di formazione e istruzione e che denunciano il loro disagio sociale. «Noi chiediamo un patto per il lavoro giovanile; qui non ci sono prospettive - dice ancora Gavino Carta -. I ragazzi sono disorientati, quando possono vanno via e non possiamo recriminare se non ritornano per mettere al servizio di questo territorio la loro professionalità». Occorrono misure adeguate per contrastare il fenomeno e disegnare un futuro. «Il piano straordinario per il lavoro, varato dalla Regione, è rimasto lettera morta - commenta ancora Gavino Carta -. Dalle nostre parti l’unico progetto di cui si parla è quello della chimica verde. Vedremo, ma non basta. Le infrastrutture cedono: alla fine del prossimo anno il 1º e 2º gruppo della termocentrale di Fiume Santo saranno spenti, sessanta persone andranno in Cig e altrettante dell’indotto saranno fuori produzione. Nel frattempo, manca un sistema di regole e di garanzie sul piano energetico e resta l’incerto sul quinto gruppo che E.On dovrebbe costruire». A questo si aggiunge Trenitalia che non investe, che non realizza il dente d’attracco merci a Porto Torres, causando disagio nei trasporti con costi superiori del 20 per cento rispetto a quelli dove la ferrovia funziona. C’è ancora altro nella crisi del territorio: si chiama sanità pubblica e privata e assistenza sociale. La scure dei tagli si abbatte anche su questi settori delicati e intanto si dibattono nell’incertezza strutture socio-sanitarie di eccellenza come il «San Giovanni Battista» di Ploaghe. Insomma, infrastrutture, istruzione e coesione sociale: senza questi elementi fondamentali è davvero difficile superare la crisi. Investire nel welfare, correggere le distorsioni del mercato: «Uno Stato che non pensa agli ultimi, ma soltanto ai primi - commenta amaro il segretario della Cisl - cancella il Paese dalle sue scelte». _________________________________________________ Le Scienze 10 Nov. ‘11 SCOPERTE SCIENTIFICHE: SEMPRE MENO PER UNDER 30 L'immagine del giovane scienziato che raggiunge risultati di eccellenza è sempre più legata al passato, secondo uno studio che ha analizzato statisticamente l'età a cui i vincitori di premi Nobel hanno ottenuto i loro risultati nel campo della fisica, della chimica e della medicina tra il 1901 e il 2008. Dopo i primi decenni del Novecento, i dati mostrano un costante incremento dei valori medi I maggiori risultati nel campo della chimica, della fisica e della medicina vengono di solito ottenuti da ricercatori giovani, di età inferiore a 40 anni. O almeno così accadeva fino a pochi anni fa, perché ultimamente questa tendenza non si sta più manifestando. Ad affermarlo è un nuovo studio in cui è stato analizzato un insieme completo di 525 vincitori di Premi Nobel tra il 1901 e il 2008, dei quali 182 in fisica, 153 in chimica e 190 in medicina. Grazie a un'estesa ricerca storica e biografica, sono stati determinate le età in cui sono stati raggiunti i risultati premiati. I dati indicano che prima del 1905, circa i due terzi dei vincitori avevano condotto le ricerche premiate prima dei 40 anni e il 20 per cento prima dei 30. Per contro, negli anni 2000, quasi nessun grande risultato scientifico è stato raggiunto prima dei 30 anni. In fisica, in particolare, avanzamenti di rilievo sono stati ottenuti prima dei 40 anni solo nel 20 per cento dei casi, e in chimica mai prima di quella soglia di età. Un caso esemplare è quello di Einstein, che aveva 26 anni nel 1905, il suo Annus mirabilis, in cui pubblicò sei lavori, tra cui quelli sull'effetto fotoelettrico, il moto browniano e la relatività speciale. “L'immagine del giovane e brillante scienziato in grado di raggiungere risultati di eccellenza è sempre più legata al passato”, ha spiegato Bruce Weinberg, professore di economia della Ohio State University e coautore dello studio apparso sulle pagine dei “Proceedings of the National Academy of Sciences”. “Oggi, l'età media a cui i fisici svolgono le loro ricerche per è di 48 anni, solo raramente prima dei 30”. Secondo i ricercatori lo spostamento cronologico riguarda i lavori sia teorici sia sperimentali, e sarebbe legato al tempo richiesto attualmente per ricevere un'istruzione scientifica e per cominciare la propria carriera. Precedenti studi hanno sottolineato le differenze nei picchi di produttività scientifica tra le diverse discipline, assumendo che tali differenze fossero stabili nel tempo, ha aggiunto Weinberg. Questo studio mostra invece come le differenze tra le discipline siano in realtà trascurabili se confrontate con le differenze che si evidenziano confrontando diverse epoche storiche. Il caso più interessante, ha sottolineato Weinberg, è quello della fisica, disciplina in cui nei primi decenni del Novecento si è avuto un notevole incremento della percentuale di giovani scienziati che hanno prodotto lavori premiati con il Nobel, che per gli under 30 ha raggiunto il 31 per cento nel 1923 e per gli under 40 ha toccato il 78 per cento nel 1934. Per entrambe le fasce di età, la percentuale è poi diminuita gradualmente nel resto del secolo. _________________________________________________ Le Scienze 08 Nov. ‘11 QUANDO LA CUCINA CAMBIÒ LA NOSTRA EVOLUZIONE L'introduzione della cottura dei cibi, e della carne in particolare, avrebbe avuto un ruolo di primo piano nel garantire la grande disponibilità energetica necessaria allo sviluppo corporeo e cerebrale dei nostri più antichi antenati. Una nuova ricerca ha mostrato infatti che la carne cotta fornisce all'organismo più energia di quella cruda, un risultato di interesse anche per la dietologiaLa scoperta della cottura della carne avrebbe avuto un ruolo decisivo nell’evoluzione dell’uomo. A sostenerlo è uno studio condotto da ricercatori della Harvard University che lo illustrano in un articolo pubblicato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences", in cui si dimostra che la carne cotta fornisce più energia della carne cruda, e che la cottura ha avuto un ruolo chiave nell’indirizzare l'evoluzione dell'uomo. Anche se i nostri antenati mangiavano carne già 2,5 milioni di anni fa, non avevano la capacità di controllare il fuoco, e la consumavano cruda, probabilmente dopo averla pestata con strumenti in pietra. Circa 1,9 milioni di anni fa, tuttavia, si verificò un improvviso e drastico cambiamento. Il corpo dei primi umani divenne più grande, il cervello aumentò di dimensioni e complessità e si manifestò un adattamento a percorrere lunghe distanze. Finora la teoria generalmente accettata ipotizzava che questi cambiamenti fossero dovuti a un deciso aumento della carne nella dieta. Alcuni anni fa, tuttavia, Richard Wrangham della Harvard University aveva avanzato l’ipotesi che un ruolo di primo piano l’avesse avuto l'innovazione rappresentata dalla cottura. Ora, questo nuovo lavoro ha fornito prove concrete a sostegno dell’ipotesi. Anche se studi precedenti avevano esaminato gli aspetti specifici di ciò che accade durante il processo di cottura, ha detto Rachel Carmody, prima firmataria dell’articolo, "sorprendentemente, non esisteva alcuna ricerca che ne avesse esaminato gli effetti netti: c’erano frammenti di studi che non si riusciva a integrare in modo uniforme. Sapevamo che diversi meccanismi potevano essere in gioco, ma non sapevamo come combinarli". Per esaminare direttamente questi effetti, i ricercatori hanno nutrito per 40 giorni due gruppi di topi con una serie di diete a base di carne o patate dolci preparate in quattro modi: crudo e intero, crudo e pestato, cotto e intero, e cotto e pestato. Durante ciascuna dieta, i ricercatori hanno monitorato i cambiamenti di massa corporea di ogni topo e la quantità di esercizio che compiva. I risultati, ha detto le Carmody, hanno mostrato chiaramente che la carne cotta permette di ottenere una maggiore quantità di energia rispetto a quella cruda. Il lavoro di Carmody non ha riflessi solamente sulla nostra conoscenza degli albori dell'evoluzione umana, ma mette in questione il ricorso alla mera indicazione delle calorie come strumento di valutazione del potere energetico di un cibo: "Questo sistema si basa su principi che non riflettono la disponibilità di energia in vivo", ha osservato la Carmody. "Anche se misura ciò che è stato ingerito, il sistema gastrointestinale umano comprende tutta una serie di batteri, che metabolizzano alcuni dei prodotti alimentari a proprio vantaggio. Il sistema non discrimina, cioè, tra il cibo che viene metabolizzato dall’uomo o dai batteri, e vi sono sempre più dati che suggeriscono che i batteri prelevano una porzione abbastanza signifiativa del cibo che mangiamo." università sanità medicina ____________________________________________________________ Il Danaro 3 Nov. ’11 OLTRE CARTESIO, NASCE IL CERVELLO ARTIFICIALE CRISTIAN FUSCHETTO Da par suo, il neurologo Antonio Damasio ha già diffuso il sospetto, ma se quest'impresa riesce per davvero avremo la prova definitiva: Cartesio aveva torto marcio. Materia bruta e materia pensante sono la stessa cosa, o meglio, la res cogitans nasce dalla res extensa e s'illude chi continua a voler credere che il pensiero sia appannaggio di una eterea dimensione spirituale. Riprodurre l'organo del pensiero vuol dire questo e molto, molto altro. Il prometeico obiettivo è fissato per il 2023. La posta in gioco, se non l'aveste ancora capito, è quella di creare un cervello artificiale. "L'impresa è senz'altro ambiziosa, ma non impossibile se guardiamo alla velocità con cui è cresciuta la potenza di calcolo negli ultimi anni", spiega Enrico Macii, docente di circuiti elettronici al Politecnico di Torino, che insieme a una squadra composta dai migliori esperti europei in informatica, neuroscienze, robotica, medicina e bioetica partecipa all'Human Brain Project. A coordinarli è Henry Markram, docente presso il Brain Mind Institute dell'École Polytechinque Fédérale di Losanna, autore negli ultimi anni di una serie di esperimenti diretti a tradurre in linguaggio informatico il funzionamento di un frammento di diecimila neuroni della corteccia cerebrale di un topo. "Certo — ammette Macii — il paragone tra questi diecimila neuroni e i cento miliardi di neuroni che costituiscono il nostro encefalo sembrerebbe azzerare qualsiasi margine di successo, eppure non è così". La chiave di volta sta nei computer di nuova generazione. "Non useremo un singolo computer, ma un cluster di supercalcolatori collegati fra loro". L'Human Brain Project è in corsa per aggiudicarsi il colossale finanziamento di un miliardo di curo che l'Unione Europea ha promesso in dieci anni, nell'ambito del programma Fet (Future and Emerging Technologies) Flagships Initiative, ai due progetti di ricerca più importanti e lungimiranti del continente. I risultati si sapranno la prossima estate e il clima, nella comunità scientifica europea, si fa giorno dopo giorno più teso. Del resto è dai tempi del Progetto Manhattan o della conquista dello spazio che non si sente parlare di progetti scientifici di questa portata. Comprendere e imitare il funzionamento del cervello permetterebbe una radicale rivoluzione delle tecnologie dell'informazione, attraverso la progettazione di computer, robot e sensori letteralmente molto più intelligenti rispetto a quelli attuali. "Potremo realizzare macchine capaci di interagire con le persone — spiega il docente del Politecnico di Torino — utilizzabili nell'apprendimento, nelle cure o nell'accudimento di disabili e anziani". Ma riprodurre artificialmente il cervello significa innanzitutto poter disporre di un modello perfetto per comprendere le cause delle patologie neurologiche e psichiatriche e quindi sperimentare nuove cure. Aldilà di fantasmagorici scenari alla Blade Runner, l'Human Brain Project serve prosaicamente anche a questo: rendere più facile la ricerca su nuove cure, limitando, grazie a simulazioni, ? la sperimentazione animale ed umana. Altri aspetti del progetto riguarderanno i cosiddetti calcolatori neuro morfologici, supercalcolatori caratterizzati da bassi consumi energetici, elasticità, robustezza, nuove tecniche di immagazzinamento e, dulcis in fundo, problem solving adattativo e sistemi autoriparanti. L'Italia avrà un ruolo di primo piano. Oltre al Politecnico torinese, che avrà un ruolo centrale proprio nello sviluppo di circuiti digitali neuromorfologici, sono coinvolti: Il Lens (Laboratorio europeo di spettroscopie non lineari) e l'Università di Firenze, fornendo le proprie competenze nei settori della biofotonica e della microscopia ottica applicata alle neuroscienze; il Brain Connectivity Center dell'Università di Pavia, che avrà il compito di sviluppare il primo modello computazionale realistico del cervelletto; l'Istituto di Biofisica di Palermo, che metterà a disposizione del progetto le proprie competenze sui modelli di reti neuronal e le simulazioni delle connessioni sinaptiche; l"Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr, tra gli enti più avanzati nel campo della Robotica e dell'Artificial Life. Non resta che incrociare le dita e sperare che l' Ue decida di segnare la nuova era del Cogito ____________________________________________________________ L’Unità 1 nov. ’11 MCCARTHY, PAPÀ DELL'«INTELLIGENZA ARTIFICIALE» Morto l'inventore della disciplina che dagli anni '50 elabora software per i calcolatori. Ricevette grandi finanziamenti TERESA NUMERICO tnumerico@mclink.it I morto a 84 anni, John McCarthy. Una delle voci più creative e originali dell'Informatica. Aveva inventato il termine «intelligenza artificiale» (Ia) nel proporre una scuola estiva al Dartmouth college nel 1955. L'incontro si tenne nell'estate successiva e viene considerato l'atto di nascita della disciplina che si occupa di elaborare software intelligenti per i calcolatori. Lo avevo incontrato a un convegno 5 anni fa, era un uomo curioso e aperto alle posizioni altrui. RICERCA DI SUCCESSO Un nome non è solo una parola è un apertura di spazi mentali, una metafora, un programma di studi e un viatico per i finanziamenti, se la scelta è suggestiva. L'intelligenza artificiale fu un'area di ricerche di grande successo e negli anni '60 e '70 del secolo scorso, drenò molte risorse a cui non sempre corrisposero risultati adeguati. L'agenda del settore era del resto da brivido: simulare la capacità umana di produrre un ragionamento, o cercare di rappresentare la conoscenza di senso comune nei programmi per prendere decisioni intelligenti, l'ambito preferito da McCarthy. Ma definire il senso comune non era cosa semplice. McCarthy era convinto che l'intelligenza potesse essere descritta come «la parte computazionale dell' abilità di ottenere risultati nel mondo», definizione non necessariamente condivisibile. Il piano di ricerca proseguiva adottando tecniche di formalizzazione provenienti dalla logica che, pur offrendo garanzie di correttezza peri ragionamenti, non sono efficienti nei programmi di computer, in quanto fanno esplodere la complessità dei calcoli anche nel caso di problemi giocattolo, col risultato di ottenere conclusioni piuttosto banali a fronte di un notevole sforzo computazionale. Fu su questo empasse che si misurò la crisi del settore dalla fine degli anni '80. Per realizzare il compito di rappresentare la conoscenza McCarthy inventò il Lisp (List Processing), uno dei linguaggi di alto livello più usati di tutti i tempi. Esso costituiva una completa rivoluzione nell'idea del software, perché non era basato su numeri, ma su espressioni simboliche e poteva quindi riflettere meglio alcune caratteristiche del linguaggio naturale e rappresentò una delle fonti di ispirazione per small-talk il primo linguaggio object oriented. Il contributo di McCarthy all'informatica non fu limitato all'intelligenza artificiale. Mentre era all'Mit, nel 1959, inventò il concetto di «time-sharing», che consisteva nella possibilità che diversi utenti potessero usufruire delle capacità di elaborazione della macchina, pur senza interagire direttamente con essa. L'idea, ripresa e realizzata su larga scala da un ufficio dell' agenzia governativa Arpa, sotto la guida di un altro personaggio chiave, Joseph Licklider, segnò il primo capitolo del computer come strumento di comunicazione. McCarthy, da visionario quale era, intravide, cioè, uno degli esiti più attuali delle tecnologie digitali, il cloud computing. Tuttavia per lui facilitare l'interazione con i dispositivi era solo strumentale, serviva per migliorare le potenzialità di costruzione di software intelligenti. Quando si trattò di scegliere tra time sharing e Intelligenza artificiale andò dove lo portava il cuore, a fondare il labora-torio di Stanford.* ____________________________________________________________ Il Giornale 2 Nov. ’11 ATTENTI ALLA CONTABILITÀ DELL'AFFETTO SE TROVI UN AMORE PERDI UN AMICO LO STUDIO I rapporti sociali all'epoca di Facebook Secondo la ricerca di un antropologo inglese il cervello umano non sa gestire più di 150 relazioni. Comprese quelle via internet Massimo M. Veronese ? Chi trova l'amore perde un tesoro. E su facebook l'amicizia è vera come Giuda. Due verità scientifiche in un colpo solo, certificate da Robin Dunbar, professore di Antropologia evolutiva all'università di Oxford. Non c'era bisogno che ce lo dicesse. Sarà che l'amico, appena spunta lei, si sente tradito come fosse un amante, sarà che il tempo per far bisboccia insieme si restringe, sarà che la nuova fiamma ti guarda con gli stessi occhi affettuosi con cui Carla Bruni fissava Rachida Dati, ma l'amicizia, in genere, finisce dove comincia un amore. Sempre a dar retta al prof che nella sua ultima lezione all'università Bicocca di Milano ha spiegato che «quando inizia una storia d'amore si perde almeno un amico e un parente: mentre però il parente con il tempo ti perdona e lo recuperi, l'amico no, lo perdi per sempre». Tra tutte l' antropologo sceglie la scusa del tempo. Non ne abbiamo per tutti. E il nostro cervellino, con tutte le sue fantasie, alla fine è meno capiente di un cineforum. Dunbar spiega, appunto, che il nostro cervello è sopravvalutato come Diego Forlan, è in grado di gestire cioè fino ad un massimo di 150 amici, o meglio, «150 tipi di relazioni: gli amici più stretti sono solo cinque, poi c'è un nucleo un pò più largo di quindici con cui si ha una relazione importante ma meno intensa. Centocinquanta è il numero limite che ci permette di essere altruisti e provare un senso di obbligazione verso gli altri». Quindi chi ha più di mille amici su facebook è inutile che se la tiri, quelli sinceramente interessati ai suoi post non arrivano a dieci. «Ecco anche perchè ai matrimoni è comune che si invitino 150 persone», singolare modo di provare scientificamente una tesi. E anche su questo ci sarebbe da dire. Perchè anche tra amici, quei pochi, ci teniamo in contatto con sms, e-mail, social network, mi piace, non mi piace più, ma alla fine, stringi stringi, non ci si dice niente. Ci si incontra senza vederci, ci si parla senza sentirci, ci si ama senza toccarci. Si preferisce gli appuntamenti su Internet alla birra con gli amici, sono le nuove tecnologie, più che la nuova fidanzata, a disegnare, costruire, plasmare i rapporti con gli altri. É cambiato il modo in cui le persone si incontrano, si mettono insieme, lavorano, comprano, chiacchierano, creano. E i rapporti che nascono durano quanto un messaggio su twitter. Le parole, le emozioni, quelle vere, dovrebbero passare dagli sguardi, da tutte quelle cose che il tempo non ci regala mai, vittima, almeno così ci piace credere, del logorio della vita moderna. E il tempo è il complice perfetto di tutte le scuse. Per il Prof i rapporti di amicizia con il tempo si perdono, si rovinano gradualmente, mentre quelli coni familiari sono più stabili e duraturi, anche se «possono terminare anche questi in modo drammatico con rotture decennali». Sarà, ma se è per questo la tecnologia ha anche cambiato il modo di rompere una relazione, d'amore o d'amicizia che sia. Possiamo eliminare un amico o un amante cancellando un'e-mail, ignorando un sms, smettendo di parlare. Sconnettendo la relazione. Ma in un mondo così fluido le attrazioni fatali possono perdere velocemente il loro potere magnetico e l'amico tornare di moda prima ancora di passare. E quello che fa di un amico un buon amico, sempre per il Prof, sono cinque cose: avere gli stessi interessi, gli stessi tratti di personalità, provenire dalla stessa città, parlare la stessa lingua o dialetto, avere un'istruzione simile e soprattutto avere un senso dello humour simile. Quasi mai le caratteristiche che cerchi in una nuova fidanzata. Chi trova l'amore perde un tesoro, ma non per sempre. Perchè come dice il saggio: c'è bisogno di due persone per fare una relazione, ma ne basta una per romperla. ____________________________________________________________ Repubblica 3 Nov. ’11 IL CHILO PERDE PESO SFIDA TRA SCIENZIATI PER LA MISURA PERFETTA Il lingotto di platino e iridio conservato a Sèvres misura 50 microgrammi in meno rispetto a un secolo fa Due alternative ispirate a una costante della fisica competono tra loro per restituire precisione al campione ELENA DUSI Sarà un segno della magrezza dei tempi, ma neanche il chilo oggi pesa più un chilo. Il lingotto di platino e iridio conservato a Sèvres, cui si ispirano tutte le bilance del mondo, ha misteriosamente perso 50 microgrammi nel giro di un secolo. È l'equivalente del peso di un granello di sabbia e non influirà sui conti della nostra spesa. Ma basta a scombussolare i sistemi di misura nei laboratori e nelle missioni spaziali che hanno bisogno di calcoli di precisione. Per ponderare il problema e restituire al chilo il peso perduto, i metrologi di 55 paesi si sono riuniti a Parigi alla fine di ottobre, in una conferenza organizzata dal Bureau intemational despoids et mesures. «Non sappiamo quale sia la causa della perdita di peso. Forse dipende da una trasformazione chimica delmateriale di cui è fatto il campione», spiega Alberto Carpinteri, presidente dell'Istituto nazionale di ricerca metrologica, di ritorno dalla conferenza francese. Anche se la decisione definitiva è stata rimandata alla prossima conferenza del 2014, quest'anno a Parigi sono state ridotte a due le alternative per ridare al chilo le sue certezze. Da un lato, recita la risoluzione finale di Parigi, si potrebbe derivare la nuova definizione di chilo dalla costante di Planck, un valore tratto dalla meccanica quantistica. Dall'altro si potrebbe ancorare la misura aggiornata a un multiplo della massa dell'atomo di silicio. Entrambe le soluzioni sono gradite ai metrologi perché aggancerebbero il nuovo chilogrammo a una costante della natura anziché aun oggetto concreto, un lingotto metallico creato nel 1879 nel distretto dei gioiellieri di Londra, che resta naturalmente deperibile anche se conservato a temperatura costante sotto tre teche di vetro. Il campione di Sèvres si trova in un caveau con tre serrature le cui chiavi sono in mano a tre persone. Il cilindro composto da platino per il 90% e da iridio per il restante 10% viene manipolato solo con guanti immacolati ed è uscito dal forziere 10 volte in 100 anni. «La misurazione di queste costanti della natura però - avverte Carpinteri - potrebbe non essere così precisa, né siamo sicuri che il loro valore sia uguale in tutti i punti dell'universo. Abbandonando il campione attuale rischiamo di liberarci di una convenzione solo per adottarne un'altra, senza approdare in realtà a un punto fermo». Nella risoluzione di Parigi l'incertezza del "chilo di Planck" è stimata in 44 microgrammi. Il chilo è l'ultima unità di misura ancora legata a un campione primario: un prototipo che viene donato e spedito laddove ce ne sia bisogno (attualmente nel mondo esistono un'ottantina di copie del chilo di Sèvres in altrettanti istituti di metrologia nazionali). Anche il prototipo del metro, realizzato in iridio e in platino, davatalmente tanti grattacapi ai metrologi conte sue variazioni di lunghezza da essere abbandonato nel 1960, per essere sostituito dall'astratto concetto di "spazio percorso dalla luce nel vuoto in un 300milionesimo di secondo". Prossimamente, promettono i metrologi del Bureau, il restyling riguarderà anche le definizioni dikelvin, mole e ampere. Quest'ultimo contiene addirittura nella sua definizione una condizione impossibile, quella di un filo conduttore di lunghezza infinita. «Sarà il rinnovamento più significativo dalla rivoluzione francese» spiega a Le Monde Terry Quinn, direttore emerito del Bureau, riferendosi all'epoca (quella napoleonica) in cui un cubo di dieci centimetri pieno di acqua venne scelto come il primo, storico, campione del chilo. PLANCK La nuova definizione di chilo potrebbe essere legata alla costante di Planck, un valore della meccanica quantistica. Resterebbe un'incertezza di 44 microgrammi SILICIO La seconda ipotesi che è allo studio è di ridefinire il chilo come un multiplo della massa di un singolo atomo di silicio. Ma neanche questa misurazione è facile da ottenere NUOVA MISURA L'ultima conferenza dell'Ufficio internazionale dei pesi e delle misure non ha trovato un accordo e si riunirà in Svizzera per prendere la decisione finale ========================================================= _________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 Nov. ‘11 SASSARI: SI INDAGA SULL’INTRAMOENIA Troppe prestazioni in regime privato a scapito dell’assistenza pubblica LUIGI SORIGA SASSARI. Il primo capitolo dell’inchiesta dei lettori sui problemi della sanità, incentrato sui tempi di attesa per la prenotazione degli esami, ha suscitato già diverse reazioni e numerose persone hanno segnalato i primi disservizi. Da alcuni messaggi pervenuti al sito e via sms emerge un aspetto che merita di essere approfondito: la gestione dell’intramoenia. Si tratta di quelle prestazioni in regime privato che gli specialisti svolgono appoggiandosi ai macchinari e ai locali delle strutture pubbliche. La domanda che un lettore si pone è più che lecita: come mai se prenoto un esame passando per il Cup mi rimandano a cinque mesi, e se invece mi rivolgo direttamente al medico, pagando di tasca mia, quell’esame si libera nell’arco di una settimana? In fondo lo specialista è lo stesso, la struttura ospedaliera dove si svolge la prestazione è la stessa e anche il macchinario è lo stesso. Ciò che cambia è chi paga e chi riceve i soldi. Questa volta a sborsarli per intero è il paziente e a intascarli per una parte è l’ente sanitario e per l’altra è il medico. Il fatto che il direttore generale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Sandro Cattani abbia ordinato un’indagine interna per verificare il corretto funzionamento dell’istituto dell’intramoenia, è significativo: «Mi risultano alcuni casi in cui certe apparecchiature diagnostiche vengono utilizzate più in regime privato che pubblico. Voglio vederci chiaro». Se questa compenetrazione tra pubblico e privato dovrebbe servire a migliorare il servizio reso al cittadino, con un ventaglio di prestazioni più ampio nell’arco della giornata, il meccanismo si presta però a distorsioni. Potrebbe capitare che l’attività privata non diventi complementare a quella pubblica, ma che prenda il sopravvento. Eppure le regole sull’intramoenia sono categoriche: non deve essere in contrasto con le finalità sanitarie dell’Asl, deve essere svolta al di fuori degli orari di lavoro istituzionale e non deve superare le prestazioni erogate in regime di assistenza pubblica. Ma non sempre questi dettami vengono rispettati e l’intramoenia invece di garantire maggiore opportunità assistenziale ai pazienti, finisce per garantire maggiore opportunità di guadagno per gli specialisti. Il sospetto dunque è lecito: i tempi di attesa lunghi della sanità pubblica potrebbero fare comodo a chi effettua anche prestazioni rese in privato, perché le liste infinite dirottano numerosi pazienti sulle prestazioni a pagamento. Quindi nell’intramoenia potrebbe esserci un conflitto di interessi di fondo, dato che chi opera nell’ospedale la mattina e poi svolge nel pomeriggio gli esami a pagamento, è lo stesso camice. «Nel nostro piano di riorganizzazione - spiega ancora Cattani - c’è la realizzazione di un centro unico di ecografia e un centro unico di endoscopia. In questo modo i macchinari verrebbero accorpati in un solo locale e l’utilizzo sarebbe più controllato». Infine un ultimo dubbio: come mai le liste di attesa sono più lunghe proprio su quel tipo di prestazioni che arricchiscono la medicina privata? Perché i laboratori nel pubblico macinano a pieno regime mentre è difficile fissare una visita oculistica o cardiologica? Le segnalazioni dei lettori, anche su quest’aspetto dell’intramoenia, possono servire a denunciare abusi e a migliorare il regime assistenziale pubblico. _________________________________________________ L’Unione Sarda 8 Nov. ‘11 POLICLINICO :«È DEPRESSO» UNA PERIZIA SU SANTA CRUZ POLICLINICO. Il processo L'ex direttore di Anatomia patologia del Policlinico universitario Giuseppe Santa Cruz è depresso al punto che non sarebbe in grado di affrontare coscientemente il processo in cui è accusato di rifiuto di atti d'ufficio, interruzione di pubblico servizio, abuso d'ufficio e violazione di domicilio. «Soffre di uno stato d'ansia profondo che scatena in lui attacchi di panico continui e frequenti». È il quadro clinico che emerge dalla consulenza di parte depositata ieri dalla difesa del professore e che ha convinto i giudici della prima sezione penale del Tribunale a chiedere per l'imputato un accertamento di natura psichiatrica. Il perito del collegio, che riceverà l'incarico all'udienza del 14 novembre, dovrà, appunto, accertare se Santa Cruz sia capace o meno di stare in giudizio. Un colpo di scena che ha impedito di interrogare i tanti medici citati per l'udienza di ieri dai pm Gaetano Porcu e Daniele Caria. Se ne riparlerà dopo la perizia. La battaglia all'interno di Anatomia patologica, andata avanti dal 2002 al 2007, viene rievocata davanti ai giudici molti anni dopo i fatti costati il rinvio a giudizio a Santa Cruz (difeso da Francesco Onnis e Raffaello Spano). Sul banco degli imputati ci sono anche la figlia Rosa Santa Cruz (concorso in abuso d'ufficio), alla quale il padre aveva affidato l'incarico di responsabile dei laboratori di biologia, i medici Davide Matta e Stefano Angius e il tecnico Antioco Angelo Casula (violazione di domicilio): il 26 gennaio 2007 si sarebbero introdotti clandestinamente nel laboratorio di Tossicologia forense dove avevano effettuato riprese con una telecamera. L'inchiesta era scattata dopo la denuncia dell'ex direttore di Chirurgia Nanni Brotzu, sentito come teste alla prima udienza: «Ci veniva negata l'analisi dei reperti durante gli interventi chirurgici - aveva detto in aula -, il servizio non era mai decollato e la mia impressione è che Santa Cruz non avesse alcun interesse perché voleva lavorare in Medicina legale dov'era stato trasferito dal Rettore Mistretta ma il Tar aveva annullato quel provvedimento». ______________________________________________ Tst 9 Nov. ‘11 CANCRO: NON SARÀ PIÙ L'IMPERATORE DEL MALE Contro il cancro non c'è l'arma perfetta ma la ricerca sta rivoluzionando le cure GABRIELE BECCARIA Professor Pier Paolo Di Fiore, lei è uno dei maggiori oncologi italiani, impegnato nelle . ricerche d'avanguardia contro «l'imperatore del male», come è stato ribattezzato il cancro nel best-seller di Siddhartha Mukherjee della Columbia University. La domanda delle domande: lo sconfiggeremo? «La risposta paradossale è: mai, nel senso che continueremo ad ammalarci di cancro. Ma arriverà il giorno in cui non sarà mai più una malattia mortale e già oggi non lo è in un'alta percentuale di casi». E cosa diventerà? «Cominciamo con il dire che batterlo sarà un processo lungo, equivalente a quello del cubetto di ghiaccio in un bicchiere d'acqua. E' difficile identificare l'istante in cui svanisce». E quindi come riusciremo a identificare quel momento? «All'idea che arriveremo a una serie di "pillole magiche" per guarire non credo molto. Sono convinto, però, che nei prossimi 10 anni ridurremo ulteriormente e in modo sostanziale la mortalità e che per molti tipi di cancro cronicizzeremo la malattia. Così il paziente morirà con il tumore, ma non più a causa del tumore stesso». Sono passati 10 anni dalla decifrazione del Genoma e ci si aspettavano cure rivoluzionarie: dove sono? «Che ci fossero grandi speranze è ovvio, ma i risultati sono addirittura superiori a ciò che potevamo ragionevolmente attenderci: è vero sia sul versante delle conoscenze sia su quello delle applicazioni». Iniziamo dalle applicazioni: quali sono? «Siamo in grado di ottenere sia le foto molecolari dei tumori, che ci fanno capire come ognuno sia diverso, permettendo di classificarli secondo nuovi criteri, sia le foto molecolari dei pazienti, il "profiling"». Cosa cambia per un malato? «La medicina si umanizza, perché diventa più personalizzata: la malattia non è un elemento estraneo, ma il risultato di un rapporto unico tra individuo e tumore. Tanto più capiamo come ognuno di noi è diverso dagli altri in termini molecolari tanto più ci avviciniamo a una terapia efficace». Un esempio concreto? «Ciascuno risponde in modo differente a uno stesso trattamento e, quindi, iniziamo ad avere la possibilità di effettuare terapie più mirate: è la frontiera della farmacogenomica». Come funzionano queste medicine? «Sono farmaci che colpiscono specificamente l'alterazione genetica della cellula neoplastica: assomigliano più a un laser che a una mazza ferrata e quindi sono anche meno tossici». Purtroppo, però, sono ancora pochi: perché? «E' vero: il progresso è lento. Prima di tutto è difficile portare sul mercato nuovi farmaci, dato che ci vuole una quindicina d'anni dalla fase iniziale di ricerca. In secondo luogo si è scoperto che esistono tumori molecolarmente più "semplici", causati da una o due alterazioni genetiche, come le leucemie, ma che molti altri alla mammella o alla prostata sono complessi, dovuti a decine di alterazioni, organizzate in scala gerarchica. Il problema è capire quali "comandano" le altre, altrimenti il tumore trova la via per sfuggire ai trattamenti». Qual è il farmaco-simbolo del nuovo approccio? «Il farmaco molecolare per eccellenza è il Glivec: colpisce con successo l'alterazione della leucemia mieloide cronica, vale a dire una proteina, la BCR-ABL, e ha cambiato completamente la prognosi di questa malattia». Il titolo della giornata dell'Airc è «la ricerca corre» e un articolo di «Nature» racconta ('«assalto decisivo» al cancro: molti però pensano che si pecchi di ottimismo. «Ci vuole realismo: di "assalti" in 30 anni ne abbiamo fatti molti e nessuno è stato decisivo, ma ogni volta abbiamo migliorato la situazione. Il problema base è quello della ricerca, l'altro campo trasformato dalla decifrazione del Genoma: ci addentriamo in territori non mappati e non sappiamo ciò che ci aspetta, ma, se analizziamo le curve di sopravvivenza, i successi sono significativi». In percentuale? «Quarant'anni fa la leucemia acuta dell'infanzia era mortale nel 95% dei casi, mentre oggi si cura per il 90%, e per fare un altro esempio il tumore della mammella ha un tasso di guarigione dell'80- 85%. Questi risultati si ottengono con una combinazione: dal miglioramento della chirurgia all'affinamento delle tecniche chemio e radio, oltre alle terapie farmacologiche e alla prevenzione». Chi ce la fa e chi no? «Oggi un paziente su due ce la fa. Il problema è che uno su quattro si ammala di cancro». Di più che in passato? «Ci si ammala di più e la causa preponderante è l'età. Paradossalmente, essere colpiti dal cancro non è facile: ogni cellula deve accumulare sette-otto alterazioni per diventare tumorale e la probabilità che si verifichino tutte nella stessa cellula è bassa, ma, avendone l'organismo all'incirca un trilione, anche una possibilità bassissima diventa consistente. Inoltre, dato che è un processo cumulativo, tende a essere più frequente proprio con l'età: i tumori sono il prezzo che paghiamo per una vita lunga». L'evoluzione non ci ha programmati per la vecchiaia? «Quando si oltrepassa il periodo fertile, l'evoluzione ci abbandona a noi stessi: le difese naturali contro il cancro sono il sottoprodotto di altre difese, sviluppatesi per ragioni diverse». La medicina è adeguata alla nuova guerra anticancro? «Sta già cambiando. La novità è la "medicina dei sistemi": si lavora in team, integrando quantità sempre maggiori di conoscenze che nessun singolo potrebbe gestire». E i medici? Dovranno tornare a scuola? «Dovremo formare specialisti dotati di un vocabolario comune, capaci di lavorare in squadra e trasformare sempre più la ricerca in terapie efficaci». ______________________________________________ Tst 9 Nov. ‘11 CANCRO: CON LA DIAGNOSI MOLECOLARE SI GIOCA D'ANTICIPO CON LA DIAGNOSI MOLECOLARE SI "VEDE" LA MALATTIA IN ANTICIPO Le spie d'allarme nei geni: un esempio? Il tumore al polmone UMBERTO VERONESI a prevenzione è lo strumento con cui, a partire dagli Anni 80, siamo riusciti ad ottenere la riduzione della mortalità per tumore, invertendo il trend storico di questa malattia. Oggi si conferma ancora di più come strada maestra, perché la decodifica del DNA, 10 anni fa, ha offerto speranze concrete di poter raggiungere una diminuzione più forte, non solo delle morti per tumore, ma anche del peso fisico e psicologico della malattia. Abbiamo imparato ad applicare le conoscenze genetiche alla diagnosi per arrivare ad intercettare la malattia prima che si manifesti nelle sue forme iniziali. E' nata così la diagnosi molecolare che si sta delineando come una rivoluzione nella ricerca oncologica legata al DNA, paragonabile a quella della terapia. La strategia è ben chiara: poiché il tumore è l'esito finale di un processo ampio e silente (che noi chiamiamo la lunga notte del tumore), causato all'origine dalla mutazione di uno o più geni, tracce di questi geni mutati si dovrebbero trovare nell'organismo prima che il processo si completi e la malattia si manifesti. Siamo andati così alla ricerca di frammenti di geni anomali nei liquidi biologici e in alcuni casi li abbiamo già trovati, scoprendo così spie d'allarme preziosissime per anticipare la diagnosi. Da vari studi emerge che nelle prime fasi della formazione del tumore del polmone alcune cellule mettono in circolo frammenti genetici specifici (miRNA, microRNA), anche diverso tempo prima che il più avanzato strumento di «imaging» oggi disponibile (la Tac Spirale a basso dosaggio) riesca ad individuarne il nodulo. Inoltre l'analisi di questi frammenti potrà un distinguere quei tumori che non tendono ad infiltrare altri organi da quelli che, invece, tendono per loro natura a dare metastasi. Con un semplice esame del sangue, quindi, possiamo già ottenere indicazioni fondamentali per l'approfondimento della diagnosi e l'orientamento della cura del tumore l'«imaging» sia una strategia diagnostica superata o superabile. Al contrario, le informazioni molecolari integrate alle tecnologie avanzate hanno ampliato e reso più precisa la sua sfera d'azione. Con gli apparecchi di ultima generazione siamo in grado di «vedere» non solo la morfologia (cioè la forma) delle cellule, ma anche le loro attività e le loro funzioni, che ci segnalano la natura benigna o maligna. Per esempio, nella colonscopia virtuale è possibile vedere il tipo di tessuto che compone un piccolo rilievo della mucosa per capire immediatamente qual è la sua natura. Inoltre raggi X, ecografia e risonanza magnetica sono oggi potenzialmente in grado di rilevare le modifiche indotte dall'inizio del processo di proliferazione tumorale, quando le cellule cominciano a dividersi in modo anarchico, e di individuare, dunque, i tumori prima che diventino una «massa», seppur di dimensioni millimetriche. Queste nuove applicazioni al momento sperimentali di tecniche note non si ottengono con una variazione dei dosaggi (per esempio non si aumenta la quantità di raggi X nella radiografia), ma con una lettura più completa delle informazioni: fino a ieri riuscivamo a leggere solo una piccola parte dei dati che ottenevamo, mentre oggi il nuovo calcolo informatico e le nuove conoscenze molecolari ci permettono di decodificarne molti di più. E in futuro la diagnosi potrà essere ulteriormente anticipata e migliorata nell'accuratezza dall'utilizzo delle nanotecnologie. Con questo termine intendiamo le strutture e i materiali progettati nell'ordine di grandezza di atomi e molecole, vale a dire di una misura inferiore ai 100 nanometri (un nanometro è pari alla milionesima parte di un millimetro). La nostra mente quasi si perde di fronte a queste misure infinitesimali, ma riusciamo a intuire a quale livello di dettaglio possiamo arrivare nell'identificare qualsiasi anomalia o lesione iniziale e sappiamo che la fortissima anticipazione della diagnosi che ne deriva può essere risolutiva in un'alta percentuale di casi. Ci troviamo quindi di fronte ad un prospettiva che lascia spazio ad un realistico ottimismo sul futuro della lotta al cancro. ______________________________________________ Tst 9 Nov. ‘11 CANCRO: LA SFIDA È ANCHE CON I VACCINI E GLI ANTICORPI ALBERTO MANTOVANI L’idea di utilizzare le armi immunologiche contro il cancro risale alle origini della medicina moderna. Cento anni or sono uno dei pionieri della medicina, Paul Ehrlich, sognava di usare gli anticorpi per curare i tumori. Questi sono gli anni in cui il sogno sta diventando realtà. L'utilizzo degli anticorpi, in particolare grazie alla tecnologia che ha reso possibile produrre in modo illimitato anticorpi dotati di grande specificità (i monocolonali), ha rivoluzionato la diagnostica del cancro, rendendola più accurata e permettendo di identificare sottotipi di tumore differenti. Classificare con maggiore precisione i tumori consente dì trattarli in modo più mirato, a seconda delle loro caratteristiche, somministrando ad ogni paziente la cura più adatta alla specificità della sua malattia. Non solo. L'impatto degli anticorpi monoclonali è enorme anche in ambito terapeutico. Il loro utilizzo contro leucemie e linfomi, ma anche contro tumori solidi come quello della mammella e del colon ha cambiato la vita dei pazienti e ci auguriamo la migliori sempre di più, considerato che trai nuovi farmaci in sperimentazione uno su tre è un anticorpo. Un altro componente del sistema immunitario che, almeno in parte, abbiamo imparato ad utilizzare contro il cancro sono le cellule. Oggi siamo capaci di prelevarle, farle crescere, «educarle» e poi reinfonderle nei pazienti con un fine preciso. Il cancro elude le nostre difese immunitarie non solo addormentandole, ma anche corrompendole e rendendole complici del suo sviluppo. Una delle linee di ricerca contro il cancro, sostenute anche da Airc nel nostro Paese, studia il modo in riattivare le difese addormentate dal cancro o addirittura corrotte per aiutarne la crescita. Le terapie cellulari basate sia su cellule rieducate sia su cellule ingegnerizzate, ossia dotate della specificità degli anticorpi nel riconoscere il bersaglio cancro stanno muovendo i primi passi in clinica con risultati incoraggianti: recentemente, ad esempio, nei tumori del sistema emopoietico. La speranza è che questo siano ì primi dì una storia di passi avanti, proprio come è accaduto con gli anticorpi. Ancora, contro il cancro abbiamo imparato ad utilizzare i vaccini, forse l'arma immunologica per eccellenza. Sono già in uso clinico quello contro l'epatite B, efficace per prevenire la quota di cancri del fegato causati dal virus dell'epatite B, e quello contro il Papilloma virus (HPV, Human Papilloma Virus), che provoca il tumore della cervice uterina ed è probabilmente coinvolto anche in alcune neoplasie della gola. In particolare, il vaccino contro l'HPV costituisce un grande passo avanti per la salute delle donne. Questo virus, infatti, causa ogni anno circa 250 mila morti nel mondo e circa 400 mila nuovi casi di cancro alla cervice dell'utero, il secondo tipo di tumore femminile più diffuso dopo quello della mammella. Il Papilloma Virus è un flagello per i Paesi ricchi, dove colpisce le fasce meno abbienti che ricorrono meno agli strumenti di diagnosi precoce come il Paptest. Ed è un flagello soprattutto per i Paesi poveri come America Latina e Africa, nella cui parte subsahariana il cancro della cervice uterina è la prima causa di anni di vita persi per le donne giovani. Indispensabile, quindi, da una parte condividere il vaccino anti-HPV a livello globale, dall'altra sensibilizzare le giovani donne sull'importanza del vaccino: la campagna vaccinale, ad esempio nel nostro Paese, al momento non ha avuto il successo auspicato. E se alcuni vaccini preventivi contro il cancro sono ormai realtà, la frontiera è rappresentata da quelli terapeutici. Vaccini basati sull'identificazione e il riconoscimento, da parte del sistema immunitario, di strutture presenti sulla cellula tumorale e sull' utilizzo di cellule sentinella capaci di riattivare la risposta immunitaria (le cellule dendritiche: questo, non dimentichiamolo, è l'anno del Premio Nobel a Ralph Steinman, che le scoprì nel 1973). Per ora è una speranza, ma su di essa si sta lavorando in tutto il mondo, compresa l'Italia, anche grazie alla lungimiranza della politica di sostegno alla ricerca di Airc. Le armi immunologiche stanno dunque dando un contributo fondamentale alla lotta contro il cancro, affiancando e complementando gli approcci terapeutici tradizionali costituiti da chirurgia, chemio e radioterapia. Così, se da una parte la complessità del sistema immunitario e del suo ruolo contro i tumori ha costituito una difficoltà ed una sfida per i medici ed i ricercatori, dall'altra parte però ha aperto e sta aprendo una grande varietà di strategie terapeutiche innovative. Ora, e per il futuro, si tratta di sviluppare con rigore tutto il potenziale di immaginazione che la ricerca e la tecnologia consentono. ____________________________________________________________ Espresso 10 Nov. ’11 CANCRO: QUANDO IL FARMACO È DI TROPPO Di ROBERTO SATOLLI Le cure contro il cancro costano sempre più care: nell'ultimo decennio il costo è più che raddoppiato (e sono in arrivo nuovi farmaci il cui prezzo può essere dieci e più volte superiore ai precedenti). Sono soldi spesi sempre bene? Un corposo rapporto pubblicato su "Lancet Oncologyn lancia un sasso che farà discutere. Un gruppo di esperti londinesi guidato da Richard Sullivan del King's Collego, sostiene che buona parte di queste preziose risorse viene impiegata (sprecata?) nelle ultime settimane di vita, quando non è più il tempo di cercare una guarigione e un significativo prolungamento, ma si dovrebbe puntare solo a mantenere buona la qualità della vita che resta. Questo è frutto di una cultura medica dell'eccesso, che non è condivisa in realtà da malati e familiari, quando sono ben informati sulle prospettive e sulle possibili opzioni. Secondo gli esperti londinesi, il costo di 5 miliardi di sterline l'anno si avvicina ormai al limite della sostenibilità anche per un paese ricco come la Gran Bretagna. Pochi giorni fa la casa farmaceutica Roche (che produce fondamentali rimedi contro il cancro) ho annunciato che non fornirà più farmaci agli ospedali greci, che da quattro anni sono in ritardo sui pagamenti. Più rapidamente di quanto non si pensi si può arrivare a dover rinunciare a cure essenziali per tutti i malati per pura e semplice insolvenza, oppure si può scegliere consapevolmente di rinunciare solo agli sprechi della 'cultura dell'eccesso". ______________________________________________ Tst 9 Nov. ‘11 CANCRO: È INIZIATA L'ERA DEI NUOVI FARMACI INTELLIGENTI I Successi delle molecole contro il cancro al seno GLANTNA MILANO Il nemico è eccezionale, in quanto a imprevedibilità e insidia. Ma l'arsenale per annientarlo si è arricchito. Una svolta nelle terapie antitumorali viene dalla biologia molecolare, che ha permesso di scoprire i «segreti» del tumore e, attraverso le caratteristiche genetiche, di predirne l'aggressività, mettendo a punto terapie mirate che colpiscono l'esatto bersaglio. «C'è un modo nuovo di fare ricerca: partendo dal difetto genetico che porta al cancro, si progettano farmaci per contrastarlo spiega Francesco Perrone, responsabile dell'Unità sperimentazioni cliniche dell'Istituto nazionale tumori di Napoli -. È una rivoluzione concettuale». Aver individuato i recettori delle cellule tumorali nel cancro alla mammella ha significato per esempio mettere a punto il trastuzumab (Herceptin è il nome commerciale), che blocca I'Her-2, l'oncogene che conferisce particolare aggressività a questo tumore. Insieme o in sequenza alla chemioterapia, per le donne operate al seno e con tumori Her-2 positivi, il farmaco «intelligente» dimostra di funzionare. «I dati sul "Journal of Clinical Oncology" dicono che a distanza di 4 anni dalla diagnosi di cancro l'aggiunta di trastuzumab alla chemio incrementa del 6% la probabilità di sopravvivenza e del 12% quella di non avere una recidiva». Sembrano numeri picco li, ma non lo sono: in Italia ogni anno 7 mila donne svilup pano un cancro al seno Her-2 positivo. E in pochi anni l'arsenale delle molecole «intelligenti» si è arricchito: imatinib, bevacizumab, gefitinib, erlotinib, sorafenib, sunitinib (Glivec, Avastin, Iressa, Tarceva, Nexavar, Sutent sono i nomi commerciali), per citarne alcune. Ciascuno di questi farmaci è stato sperimentato in diversi tipi di cancro. Ma quanto sono giustificate le speranze? «Come sempre accade, all'entusiasmo iniziale segue un periodo in cui emergono i limiti. Sappiamo che la maggior parte di questi farmaci funziona bene solo in piccoli sottogruppi di pazienti, ma in tanti altri no. In alcuni casi con un guadagno medio di pochi mesi di sopravvivenza, in altri solo con un rinvio del momento della progressione. E' comunque un successo, ma non grande quanto speravamo», risponde Perrone. Spesso è difficile prevedere quali pazienti trarranno un reale vantaggio. Vale, per esempio, per i farmaci antiangiogenetici, come il bevacizumab, che possono essere utilizzati in varie forme di cancro, ma per i quali non vi è alcun modo «intelligente» di prevedere a priori chi ne trarrà giovamento. Sono prodotti che bloccano lo sviluppo di vasi che portano sangue al tumore e lo nutrono. «La FDA, l'agenzia federale Usa, ha ritirato dopo alcuni anni l'approvazione per il bevacizumab nei tumori della mammella racconta Perrone -. Farmaco, comunque, che funziona abbastanza nei tumori metastatici del colon-retto, ma meno bene in quelli del polmone, soprattutto se associato ai chemioterapici più frequentemente usati in Italia». Nei prossimi anni si pensa di usarlo nei tumori dell'ovaio, ma bisognerà capire con quale impatto nella clinica: come terapia adiuvante, il bevacizumab è stato studiato per ora solo nei tumori dell'intestino e con risultati deludenti. Per gefitinib e erlotinib, invece, si era ipotizzato che i risultati migliori si ottenessero in pazienti con particolari caratteristiche genetiche. «L'ipotesi si è risultata vera: entrambi funzionano bene nei pazienti con un cancro del polmone avanzato, se c'è un'alterazione genetica: la mutazione del recettore per il fattore di crescita epidermico EGFR, rilevato in poco più del 10% dei malati. In prima linea, la mutazione è cruciale, poiché, come ha dimostrato il mio team, la chemioterapia resta il trattamento più efficace nei ca si senza mutazione». Il rovescio della medaglia dei nuovi farmaci sono i prezzi elevati. Tra gli specialisti si è aperto un dibattito sul rapporto costi-benefici, ma per un malato è difficile entrare nella logica delle statistiche: il paziente sa che c'è una nuova terapia e la chiede. «E' giusto. Ma la soluzione è semplice: ci si deve fidare del medico e il medico deve rispettare le indicazioni registrate. Così non si delega al singolo paziente (ma neanche al singolo medico) la responsabilità di scelte che devono essere fatte altrove. E poi è poco prudente, oltre che culturalmente e socialmente discutibile, suggerire trattamenti per indicazioni diverse da quelle per le quali vi sono evidenze forti». Il problema dei costi è comunque reale. Un esempio? «Si discute di un farmaco per il melanoma, l'ipilimumab, che negli Usa costa 120 mila dollari per un ciclo completo. Più del doppio di un anno di trastuzumab». Se la Gran Bretagna ha già reso noto che non lo renderà disponibile, tra le soluzioni proposte c'è quella che prevede che il pagamento alle case farmaceutiche sia vincolato alla reale efficacia della cura». 11 tema è controverso, ma i progressi continuano. Da genetica e genomica conclude Perrone ci si aspetta «un progresso nel predire sensibilità e resistenza di un tumore ai farmaci. Abbiamo a che fare con un nemico diventato "intelligente" prima che lo diventassero le terapie. La risposta non può che essere la ricerca per capire le cause dei fallimenti e trovare nuove soluzioni». ______________________________________________ Tst 9 Nov. ‘11 CANCRO: NEI DIFETTI GENETICI C'È LA CHIAVE PER COLPIRE LEUCEMIE E MIELOMI" Le guarigioni per alcune forme salgono all'80% VALENT1NA ARCOVIO Se c'è un campo che più di tutti può rivelare gli eccellenti risultati raggiunti grazie alla ricerca oncologica quello è l'ematologia. E' in questo settore, infatti, che i progressi in laboratorio riescono ad arrivare in tempi rapidi al letto dei pazienti. «In 30 anni abbiamo fatto dei progressi straordinari e grazie al contributo dell'Airc molti altri sono in dirittura di arrivo», sottolinea Robin Foà, direttore del Centro di Ematologia dell'Università Sapienza di Roma. Professore, quando si • parla di ematologia, si parla anche di tumori liquidi: che cosa sono esattamente? «Sono essenzialmente le patologie oncologiche del sangue, leucemie, mielomi e linfomi. Sono patologie che interessano un po' tutte le fasce d'età». Diagnosi o terapia, dove sono stati registrati i maggiori sviluppi? «In entrambe, anche perché sono due aspetti correlati. La diagnosi infatti è fondamentale e deve essere quanto più precisa e rapida. Solo così possiamo disegnare terapie mirate a misura del paziente. Oggi la diagnosi arriva quasi in tempo reale e questo favorisce la prognosi della malattia». Come? «Alla diagnosi si arriva attraverso il lavoro di tanti laboratori che agiscono ín modo complementare. C'è quello specializzato in morfologia, in immunologia, in citogenetica, in biologia molecolare e così via. Nella diagnosi di un tumore del sangue è infatti fondamentale capire non solo con che tipo di tumore abbiamo a che fare, ma anche identificare nell'ambito di una determinata patologia il sottotipo di cui fa parte per mettere a punto terapie più individualizzate e quindi più efficaci». Può farci un esempio? «Oggi non basta diagnosticare una leucemia. Bisogna andare più a fondo e per esempio identificare i difetti genetici che possono essere alla base della malattia. In questo modo oggi per diverse patologie sappiamo dove e come intervenire». Se servono così tante analisi, non sarà facile coordinare tanti laboratori diversi? «E invece lo facciamo e pure molto bene. In Italia ci sono molti centri di riferimento, anche se la Sapienza è leader nel settore. Coordinarsi tra la clinica ed i laboratori per noi è diventata una routine. Da anni esiste una rete di collaborazioni, studi cooperatori per bambini ed adulti, che ci permettono di analizzare in modo approfondito ed uniforme gli stessi campioni, e di usare gli stessi protocolli di terapia». In che modo è cambiata la prognosi della malattia? «Rispondo con un esempio: 30 anni fa la leucemia acuta linfoblastica (LAL), il tumore più frequente nei bambini, aveva un tasso di guarigione del 20-25%. Oggi parliamo di percentuali di guarigione intorno all'80%. Mi sembra un salto in avanti davvero notevole». E' un caso isolato o ce ne sono altri? «Ci sono molti altri esempi in cui la ricerca ha avuto un peso determinante: nella leucemia acuta promielocitica ha permesso di allargare le nostre conoscenze e di migliorare la terapia. Questa leucemia può indurre gravi alterazioni della coagulazione che possono essere rapidamente fatali. Da qui il nome improprio di leucemia fulminante. Abbiamo compreso che alla base della malattia c'è un' alterazione genetica e che, con una diagnosi in tempo reale, possiamo sottoporre il paziente all'azione di un agente differenziante, l'acido retinoico, che, associato alla chemioterapia, porta alla remissione della malattia. Il primo esempio in oncologia di terapia intelligente, mirata a correggere un difetto specifico della patologia». Queste terapie mirate hanno sostituito la necessità di trapianti di staminali? «Nella leucemia mieloide cronica (LMC), ad esempio, ora il trapianto si fa solo di rado. Lo sviluppo dei cosiddetti inibitori delle tirosin chinasi (TKI) ha segnato una svolta fondamentale. Dopo aver individuato la particolare alterazione genetica di questo tumore, negli anni abbiamo osservato come il trattamento con TKI sia in grado di migliorare profondamente la prognosi dei pazienti con LMC, riducendo moltissimo l'uso del trapianto. L'utilizzo clinico dei TKI sta anche rivoluzionando il trattamento di pazienti con LAL portatori della stessa alterazione genetica». Quando parliamo di remissione della malattia significa che il paziente è guarito completamente? «In ematologia il termine remissione non significa automaticamente guarigione. Ma ora per diverse patologie possiamo "fotografare" le cellule malate ed effettuare un monitoraggio attento della malattia residua minima con tecniche immunologiche e molecolari, e modulare così le terapie». Oggi, invece, che cosa bolle in pentola nei laboratori? «Ora ci si concentra sulle caratteristiche dei tumori linfoidi» «Nonostante in Italia la ricerca sia penalizzata, portiamo avanti un ambizioso progetto che potenzialmente potrà portare a sostanziali avanzamenti nella diagnosi, prognosi e terapia dei tumori linfoidi: l'Aire ha praticamente rivoluzionato il nostro modo di fare ricerca e abbiamo potenziato la rete di collaborazioni e lavoriamo all' analisi delle caratteristiche genetiche di diverse neoplasie linfoidi, con il fine di disegnare nuove terapie mirate. Lo sforzo del team con ricercatori di Roma, Perugia, Bologna, Novara e Torino ha già permesse di ottenere importanti risultati, che sono stati pubblicati su prestigiose riviste». ______________________________________________ Tst 9 Nov. ‘11 CANCRO: LA TERAPIA DIVENTA SEMPRE PIÙ SU MISURA Si. analizzano i complessi meccanismi delle metastasi e dell'angiogenesi ELISA FRISALDI La ricerca oncologica si proietta sulla «tailored therapy», la tera pia calibrata sul tipo di tumore, e i trattamenti più efficaci prevedono l'uso combinato di farmaci diversi, somministrati insieme o in successione. Lo spiegano Elisabetta Dejana, direttrice del laboratorio di Biologia Vascolare dell'IFOM (Istituto FIRC di Oncologia Molecolare), e Paolo Comoglio, direttore Scientifico dell'FPO Istituto per la Ricerca e la Cura del Cancro di Candiolo. «Lo studio sull'uomo ci mette di fronte a una complessità maggiore rispetto ai modelli di laboratorio», spiega Dejana. E l'attenzione punta anche su metastasi e angiogenesi, i meccanismi biologici che consentono alle cellule maligne dì staccarsi dal tumore originario e generarne altri (nel primo caso) e di creare un proprio sistema vascolare grazie a cui ricevere nutrimento (nel secondo caso). «I trials clinici che associano la terapia antiangiogenica e quella antimetastatica sono in corso e tra un paio d'anni valuteremo i risultati», sottolinea Comoglio. Se, infatti, la maggior parte dei farmaci usati nelle sperimentazioni ha ottenuto l'approvazione di agenzie come Fda ed Emea, l'obiettivo è individuare quali sono le combinazioni più efficaci. Nel mirino ci sono i fattori di crescita coinvolti nella formazione dei vasi sanguigni, tra cui VEGF (Vascular endothelial growth factor) e PDGF (Platet derived growth factor), oltre a efrine e semaforine, e i geni deputati al controllo dei processi metastatici, i «master», tra cui l'oncogene Met. La scelta del trattamento più efficace va cercata tra l'enorme quantità di dati prodotta dalle analisi molecolari fatte sul singolo paziente. A oggi alcune delle domande-chiave per arrivare alla risposta sono: quali fattori di crescita sono più espressi? Conviene bloccare la formazione dei vasi sanguigni o in certe fasi potenziarla? Il gene Met è mutato o no? «In certe condizioni dice Dejana non è sufficiente bloccare il fattore di crescita vascolare più espresso. La sua assenza può determinare una reazione a catena, in seguito alla quale altri intervengono a sostituirlo. E, inoltre, anche se sembra un controsenso, nel caso di tumori aggressivi la cura può comprendere l'iniziale stabilizzazione dei vasi sanguigni, condizione indispensabile affinché i chemioterapici riducano la massa tumorale. Solo in un secondo tempo il blocco della vascolarizzazione può indurre un'ulteriore riduzione della neoplasia». D'altra parte, «la metastasi non è un'alterazione del metabolismo cellulare, ma una risposta fisiologica delle cellule staminali del cancro alle variazioni dell'ambiente sottolinea Comoglio -. Le staminali del cancro sono probabilmente le uniche in grado di formare metastasi. Anche se qualunque tumore rilascia ogni giorno milioni di cellule, si tratta di cellule adulte, derivate dal differenziamento delle staminali del cancro e non in grado di formare colonie autonome». Ciascun tumore com'è noto può essere invasivo o metastatico. Nel primo caso infiltra i tessuti e induce l'angiogenesi, circondandosi di nuovi vasi sanguigni. Nel secondo caso sfrutta il sistema circolatorio o i vasi linfatici. «L'oncogene Met spiega Comoglio controlla il processo metastatico in due modi. Quando è espresso nella forma non mutata, fa in modo che le cellule tumorali, sofferenti per la carenza di ossigeno o per i farmaci, migrino verso condizioni più favorevoli. Quando è in forma mutata (in una frazione tra 1'1 e il 3%), è il diretto responsabile della malattia. In questi casi il trattamento farmacologico, mirato la causa primaria, sembra dare buoni risultati». E il futuro cosa riserva? Lo «screening» dei pazienti sulla base delle mutazioni diventerà standard (queste analisi preliminari sono già disponibili all'IRCC di Candiolo). Intanto, all'IFOM, si studiano gli «zebrafish»: questi pesciolini, che producono larve trasparenti, sono stati modificati geneticamente in modo da rendere fluorescenti i vasi sanguigni e seguirne lo sviluppo. «I farmaci antiangiogenesi entrano nelle larve e bloccano la formazione dei vasi racconta Deiana così indaghiamo i nuovi trattamenti». _________________________________________________ Corriere della Sera 11 Nov. ‘11 CANCRO, I FARMACI DALLA DOPPIA VITA RICERCA IL PROGETTO FINANZIATO DALL' AIRC. DOMANI AL QUIRINALE LA NUOVA CAMPAGNA PER LA RACCOLTA DI FONDI Un nuovo «cocktail» per il tumore al colon, i test a Milano Heracles È uno dei progetti dell' Associazione italiana per la ricerca grazie al 5 per mille MILANO - Esistono farmaci approvati per un tumore che possono funzionare anche su altri. E viceversa. Una «doppia vita» che apre nuove prospettive. Tutto dipende dai geni delle cellule malate, tutto dipende dalla persona malata. E la ricerca corre veloce nella nuova cultura del laboratorio al letto del malato. Anche in Italia, e senza dover «emigrare». Domani la scienza internazionale leggerà di una scoperta che apre nuove prospettive per i malati di cancro al colon resistenti ai biofarmaci «intelligenti» approvati per loro. Questi malati, un 30 per cento, hanno un tipo di «gene» tumorale che risponde invece a medicinali in uso per altri cancri: al seno e allo stomaco. Un «cocktail» che sarà sperimentato sui pazienti già da marzo-aprile 2012, tempi burocratici permettendo, al Niguarda Ca' Granda di Milano, dove c' è la «mente» clinica del progetto Heracles (così si chiama lo studio). La novità è importante perché riguarda un big killer che ogni anno colpisce un milione di persone nel mondo. E per questo divulgata da domani su Cancer Discovery , rivista dell' American association for cancer research . Articolo di un team multicentrico italiano guidato da Paolo Comoglio, direttore scientifico dell' Istituto di ricerca sui tumori di Candiolo (Torino). Tra le firme Andrea Bertotti, Livio Trusolino, Alberto Bardelli, Enzo Medico, Anna Sapino e Salvatore Siena (oncologo clinico dell' ospedale Niguarda Ca' Granda). Silvia Marsoni (Candiolo) ha coordinato la fase preclinica. In pratica è la vittoria della nuova cultura della ricerca: dal letto del paziente al laboratorio, dalla farmacogenomica di nuovo al letto del paziente. Nuova cultura che corre veloce: dopo un solo anno dall' ipotesi iniziale già si può sperimentare la soluzione. E che porta a una considerazione: il farmaco oggi è sempre più dipendente dal paziente e non dalla malattia. E non può più essere «etichettato» burocraticamente. Le agenzie che approvano i nuovi farmaci ne devono tener conto. Così come i governi che, quando si tratta di tagliare come in questo periodo di grave crisi, colpiscono ricerca e sanità. Sono anche le paure dei malati (indagine Censis-Favo). Per fortuna la scienza va avanti comunque. Per spiegare l' insuccesso delle cure sul colon, i ricercatori italiani hanno messo a punto un sistema innovativo che valuta contemporaneamente le caratteristiche molecolari di ciascun tumore e la reazione ai farmaci. Così è stata identificata un' anomalia genetica, l' amplificazione dell' onco-gene Her2, presente nel 30% dei tumori «resistenti». Studiata sui topi di laboratorio, ha portato a un test per scoprire i malati «Her2» (sperimentazione già partita) e alla nuova cura con «vecchi» farmaci. Molecole dalla doppia vita. Spiega Siena: «Il trastuzumab e il lapatinib , biomedicinali usati per la mammella e il carcinoma gastrico, agiscono nei malati al colon-retto "resistenti"». Un «cocktail» di farmaci molecolari già disponibili per l' appunto nell' armamentario terapeutico corrente. La velocità della pipeline di ricerca, un solo anno in tutto (due anni prima del previsto), lo si deve anche ai fondi. Heracles è un progetto 5 per mille dell' Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc). E il valore «della velocità della ricerca» è il tema della Giornata Airc che avrà il clou domani al Quirinale con la benedizione di Giorgio Napolitano. Lo stesso tema animerà tutti gli appuntamenti previsti (oggi e domani) per creare cultura della ricerca. In Rai, nelle università, ma soprattutto nelle scuole superiori secondarie italiane. Il nuovo obiettivo Airc: favorire una didattica che preveda il coinvolgimento attivo degli studenti. Mario Pappagallo **** Iniziative Gli studenti Oggi e domani i ricercatori Airc incontreranno i ragazzi di 60 scuole secondarie, gli studenti di Politecnico e Università di Milano, quelli della Sapienza a Roma e della Federico II a Napoli In tv Maratona Rai per la raccolta fondi e per la divulgazione scientifica all' interno di trasmissioni tv e radio. Madrina Antonella Clerici (foto) Pappagallo Mario _________________________________________________ Corriere della Sera 12 Nov. ‘11 LE DONNE CON CANCRO AL SENO DEVONO PAGARE IL FARMACO ROMA — Malate di cancro al seno costrette in alcune Regioni a pagare un farmaco. In particolare si tratta della differenza tra il costo del Tamoxifene, stabilito dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), e il prezzo deciso da alcune case produttrici. Questa medicina è indispensabile per la terapia ormonale, cura che bisogna seguire per 5 anni dopo una mastectomia. Il caso è stato denunciato dall'Associazione Dossetti dopo avere ricevuto lamentele e segnalazioni da parte di molte pazienti. Tra loro c'è il caso sollevato in Lombardia da Raffaella Malchiodi, che a soli 33 anni, dopo una mastectomia, è titolare del codice di esenzione «048» per i pazienti oncologici. «Fino a settembre — racconta — per il Tamoxifene non pagavo nulla, ma giorni fa medico e farmacista mi hanno detto che non è più così». Dopo essersi confrontata con altre donne con la sua stessa patologia, «ho scoperto che la situazione è comune in altre Regioni — sottolinea la malata —. In alcuni casi il Tamoxifene è gratuito, in altri si paga il ticket (generalmente tra 3 e 5 euro a scatola)». Valutazioni condivise da Pier Luigi Bartoletti, segretario dei medici di famiglia del Lazio (Fimmg): «Purtroppo la colpa è dell'Aifa che applica dei prezzi di riferimento seguendo una media europea, senza però controllare se poi le case farmaceutiche rispettino questi prezzi». Così la malata finisce per pagare una sorta di «ticket occulto» sborsando una differenza che varia da 2,31 a 3,80 euro a confezione: a conti fatti in 5 anni, il costo si aggira sui 300 euro a paziente. «È assurdo — commenta Corrado Stillo dell'Associazione Dossetti — che donne con tumore al seno si sentano richiedere in farmacia il pagamento del ticket su un farmaco indispensabile». Ma ci sono anche altre medicine, come la molecola Micofenolato mofetile (antirigetto), sui quali la differenza di prezzo è molto più pesante per le tasche dei contribuenti (40 euro a scatola). Stesso discorso per l'Olanzapina, che cura gravi disturbi mentali (la differenza è di 20-30 euro a confezione). Ma lunedì uscirà la nuova lista Aifa: vedremo se i prezzi cambieranno. Francesco Di Frischia _________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Nov. ‘11 NASCE A CAGLIARI NUOVO FARMACO PER EVITARE IL BISTURI AI DIABETICI Efficace contro le piaghe, consente di non amputare mani e piedi VEDI LA FOTO di Lucio Salis Nuovo farmaco per evitare le complicanze più gravi del diabete: piaghe, piede diabetico e dialisi per insufficienza renale. Lo ha messo a punto un'équipe di studiosi dell'università di Cagliari: Giovanni Brotzu, già ordinario di Chirurgia vascolare, Giovanni Biggio, titolare della cattedra di Neuropsicofarmacologia, Anna Fadda, docente nel dipartimento farmacochimico e tecnologico e la dottoressa Nicoletta Maxia, nota per l'attività nel campo della procreazione assistita. Il medicinale fa parte di una terapia della microcircolazione che consente di curare, in molti casi, le conseguenze più terribili del diabete, come l'amputazione degli arti e di evitare, o rinviare, la dialisi. Già sperimentata sui topi da laboratorio, si è dimostrata efficace anche su una trentina di pazienti che rischiavano di perdere piedi e mani. Dopo questa prima fase, si passerà a una sperimentazione sistematica presso l'ospedale Brotzu, di Cagliari, grazie a una convenzione (che sta per essere firmata) fra gli autori della scoperta e Fase, società creata dalla Regione. Sullo stesso fronte, è in corso la pratica per il riconoscimento della nuova terapia da parte dell'Istituto superiore di Sanità e la procedura per brevettarla in Italia e all'estero. Nel frattempo, manifestano interesse anche due case farmaceutiche, una italiana, l'altra multinazionale. Se tutto procederà senza intoppi, il preparato potrebbe entrare in commercio nel giro di un anno e mezzo circa. Promotore della ricerca, è il professor Giovanni Brutzu, figlio d'arte. Il padre, il grande scienziato Giuseppe Brotzu, ha scoperto una nuova classe di antibiotici, le cefalosporine (ed è stato presidente della Regione e sindaco di Cagliari). L'ex docente di Chirurgia vascolare si sta invece dedicando da tempo allo studio delle complicanze del diabete, legate ai problemi di microcircolazione che, a volte, richiedono l'intervento, radicale, del chirurgo. Secondo il professore, il bisturi si potrebbe spesso evitare grazie a un farmaco che assicura l'afflusso del sangue negli arti compromessi. La malattia infatti, attacca le cellule endoteliali che ricoprono il reticolo di vene, arterie e capillari del sistema circolatorio. In particolare, riduce il calibro dei capillari, impedendo il passaggio dei globuli rossi che non riescono più a nutrire i tessuti. Da qui la formazione di piaghe e cancrene che finiscono per danneggiare irrimediabilmente gli arti. E che Il medico tenta di curare con opportune terapie. «Esiste già un farmaco - tiene a precisare Brotzu - impiegato per raggiungere questo obiettivo: la PGE1, appartenente alla famiglia delle prostaglandine. Quando raggiunge le cellule endoteliali, le riattiva, fino a farle tornare normali. Peccato però che sinora abbia dimostrato un'efficacia limitata. Infatti, una volta iniettato in vena e raggiunti i polmoni, si degrada, per il 90 per cento, nello spazio di un minuto». Il problema era quindi fare arrivare la PGE1 alle cellule mantenendone al massimo l'efficacia. Gli studiosi cagliaritani ritengono di esserci riusciti, creando una sorta di "veicolo", in grado di trasportare il farmaco in tutto il reticolo dei capillari. «Grazie all'intervento della professoressa Fadda, (che ha curato gli aspetti fisico - chimici della ricerca) abbiamo inserito la PGE1 all'interno di liposomi (micro-palline di un grasso chiamato fosfatidilcolina) e a farlo depositare nelle cellule endoteliali dei capillari. Il risultato è stato positivo». I ricercatori lo hanno potuto constatare seguendo lo sviluppo delle cellule coi liposomi con l'ausilio di attrezzature dell'università, come il microscopio elettronico a scansione, in grado di ingrandire 35 mila volte un reperto (per il resto, lo studio è andato avanti anche grazie al contributo finanziario del professor Brotzu). Inizialmente, la terapia "liposoma PGE1" è stata sperimentata (con successo) su ratti da laboratorio preventivamente fatti ammalare di diabete. In quella fase è emerso che il nuovo composto è efficace e non tossico. Successivamente, è stato somministrato ad alcuni pazienti, «casi disperati candidati alla sicura amputazione di arti. E abbiamo accertato che nei diabetici il trattamento previene non solo le piaghe, ma anche l'insufficienza renale. La ripresa della circolazione del sangue rallenta, quantomeno, il deterioramento del rene e ritarda il ricorso alla dialisi». Il professor Brotzu ha trattato finora una trentina di casi, ma quello che lo ha colpito di più è stato «un paziente di 84 anni, con gli arti devastati dalle ulcere, che non camminava, non parlava, stava a letto o in sedia a rotelle, praticamente intrasportabile. E soprattutto, non ragionava più. L'ho curato, eccezionalmente, a casa sua. L'ho sottoposto al trattamento tre volte. Ora cammina, mangia, parla. I parenti mi hanno detto che è stato in grado di fare, da solo, la denuncia dei redditi». L'effetto del nuovo preparato sulla circolazione sanguigna nel cervello è un campo ancora tutto da esplorare, che il professor Biggio conta di approfondire: potrebbe infatti riservare sviluppi interessanti. Per ora, sulla ricerca non ci sono dati ufficiali, ma le rilevazioni effettuate dal professor Brotzu lasciano bene sperare: la nuova terapia si sarebbe rivelata efficace in circa l'80 per cento dei casi. Con un gradualità di risultati, in base alla gravità dello stato dei singoli pazienti. Il metodo per praticarla è simile a quello impiegato sinora per somministrare la PGE1, ma prevede tempi più brevi: «Col sistema tradizionale, infatti, venivano praticate 28 infusioni della durata di 6 ore. Il nuovo preparato è invece iniettato con 5 infusioni, una volta alla settimana. Con risultati decisamente positivi. Sempre riguardo alla durata, nei casi gravissimi si possono fare due trattamenti all'anno, negli altri ne basta uno». Si tratta di valutazioni effettuate sulla base delle esperienze pratiche del professore. Dati ancora più precisi si potranno avere una volta completato il programma di sperimentazione ufficiale al Brotzu (prima su volontari sani, poi su pazienti) e quando arriverà l'approvazione dell'Istituto superiore di Sanità. Tutte scadenze che precederanno l'arrivo del nuovo preparato nelle farmacie, per il quale il professor Brotzu non prevede tempi molto lunghi. CURA LE MALATTIE RARE In corso la pratica di brevetto in Italia e all'estero VEDI LA FOTO Non è solo sulle complicanze del diabete che il metodo di cura scoperto dal professor Giovanni Brotzu e dai suoi colleghi si è rivelato efficace. L'ex titolare della cattedra di Chiururgia vascolare infatti sostiene che con il liposoma PGE1 si può affrontare anche il morbo di Burger, malattia cronica che colpisce uomini e donne alla gambe e alle mani. Si tratta di un processo infiammatorio che comporta l'occlusione di vasi medio piccoli, con grave sofferenza dei tessuti. Una malattia rara, «anzi orfana - precisa Brotzu - perché riguarda appena cinque persone ogni centomila abitanti e non è curabile con una terapia definita. E' una malattia congenita, piuttosto diffusa fra la popolazione magrebina. In Sardegna si riscontrano alcuni casi solo nel Sulcis e nella zona di Arbatax, dove risulta ci siano stati insediamenti arabi. Il più importante centro di ricerca si trova invece in Egitto, al Cairo». L'approccio verso il morbo di Burger dovrebbe essere comunque simile a quello previsto dal professor Brotzu per le complicanze del diabete. Il composto da lui studiato dovrebbe infatti restaurare e favorire la ricrescita di cellule epiteliali nei vasi più piccoli e rigenerare i tessuti scarsamente irrorati di sangue. Anche nei casi di diabete (di tutti i tipi) il liposoma PGE1 ha dimostrato la sua efficacia nelle complicanze che riguardano gli arti, con ulcerazioni di vario grado che possono portare fino ad amputazioni. (l. s.) ____________________________________________________________ Italia Oggi 2 Nov. ’11 L’ANTI-ZANZARA CONTRO LA DENGUE Quella artificiale neutralizza il virus La zanzara Aedes aegyptl Si chiama Aedes aegypti ed è la zanzara portatrice del terribile virus della dengue, che a livello mondiale infetta da 50 a 100 milioni di persone ogni anno. Ora ne è stata creata una versione transgenica, la cui discendenza è destinata alla morte. Gli esperti hanno condotto esperimenti per capire se le zanzare nate in laboratorio, una volta accoppiate con quelle selvagge, siano in grado di ridurre il numero di insetti portatori della malattia. Alle zanzare transgeniche è stato somministrato un particolare antibiotico, la tetraciclina, che permette loro di mantenersi in vita, ma che condanna inevitabilmente alla morte i loro discendenti. Le prove hanno dimostrato che il 56% delle zanzare transgeniche, rispetto a quelle vere, ha avuto successo nell'attività riproduttiva. I ricercatori hanno evidenziato che la differenza non è così importante perché il comportamento degli insetti artificiali è stato molto positivo. Quanto al rischio che questo metodo apra la strada allo sviluppo di una specie concorrente di zanzare, in passato le campagne di polverizzazione del Ddt non hanno provocato grandi sconvolgimenti tra le specie di insetti e ciò è rassicurante. In zone come la Florida, dove coesistono Aedes aegypti e un'altra zanzara vettore, Aedes albopictus, bisognerà combattere entrambe le popolazioni. ____________________________________________________________ Libertà 2 Nov. ’11 PROGRESSI DELLA MEDICINA GRAZIE ALLA MATEMATICA La studiosa Liliana Ironi ai Mercoledì della Scienza: «Grandi prospettive dalle tecniche di simulazione» Iss Viviamo in una società complessa, in una struttura sempre più articolata dove le componenti di ogni sistema interagiscono in varie direzioni, verso l'interno ma soprattutto verso l'esterno. Difficile regolamentare questi aspetti, servono strumenti e competenze specialistiche in parte illustrate nell'ultima conferenza de "I Mercoledì della scienza" da Liliana Ironi dell'Istituto di matematica applicata e tecnologie informatiche (Imati) del Cnr di Pavia. In "Modelli matematici di sistemi complessi e applicazioni in campo bio-medico" Ironi - piacentina, laurea in matematica a Pavia, dal 2001 dirigente di ricerca all'Imati, autrice di interessanti saggi e coordinatrice di progetti a scala anche europea - ha sottolineato l'importanza di tali studi. L'approccio modellistico dai tradizionali ambiti (fisica, ingegneria, chimica ...) si è oggi esteso ad altri di interesse collettivo come meteorologia, economia, biologia, medicina, infrastrutture, sociologia, linguistica. Aumentata potenza di calcolo e più raffinate tecniche di simulazione permettono poi simulazioni talmente realistiche da poter essere considerate complementi o sostituti o «unica rappresentazione possibile di test non ripetibili». Colpisce la complessità di questi fenomeni: «comportamenti non lineari o fenomeni aleatori, coesistenza di scale multiple, elevato numero di componenti e molteplicità di interconnessioni, incompletezza della conoscenza dei meccanismi di base che li governano». Bisogna intervenire con analisi, formulare modelli, simulare quantità o numeri, validare, interpretare i dati e costruire strategie ad hoc. Nei sistemi complessi bisogna poi considerare le "proprietà emergenti" poiché «il comportamento globale non risulta dalla semplice somma dei comportamenti locali ma si assiste alla comparsa di comportamenti imprevisti e spesso sorprendenti che emergono spontaneamente dalla dinamica interna del sistema quando un dato "parametro di controllo" attraversa certe soglie critiche». Le prospettive sono davvero imprevedibili: «si pensi al potenziale impatto che lo studio approfondito di reti di regolazione genica - tramite numerosi esperimenti simulati, anche in situazioni critiche, dei loro modelli matematici - potrà avere nel settore della biologia molecolare, in campo medico, farmacologico e ingegneristico». Prossimo appuntamento per "I Mercoledì della scienza" il 9 novembre, auditorium via S. Eufemia 12, ore 17.30, dove Federico Bassetti dell'Università di Pavia illustrerà "I grafi aleatori e le reti di interazione nel mondo reale". _________________________________________________ Corriere della Sera 13 Nov. ‘11 ASPIRANTI MEDICI IN SERVIZIO A TORINO CONTAGIATI DALLA TBC Quattro casi, inchiesta della Procura Casi di tubercolosi tra gli studenti di medicina che frequentano i reparti. I cosiddetti interni. Tre, forse quattro. Due recentissimi. E' accaduto a Torino. Una ragazza è attualmente ricoverata all'Amedeo di Savoia. Un caso si sarebbe verificato l'anno scorso, altri tre quest'anno. Tutti tra gli studenti del IV anno, canale A. Università degli studi di Torino. L'ultima studentessa, la cui infezione sarebbe stata scoperta un paio di settimane fa, aveva frequentato le corsie dell'ospedale Molinette. Si sarebbe infettata a luglio. Ma possono gli studenti di Medicina girare nei reparti ospedalieri senza essere stati prima sottoposti a controlli tipo il test per verificare proprio la Tbc? Sembra proprio di sì. E non solo a Torino. Un rapido tam tam conferma che è così un po' ovunque, nonostante una circolare del ministero della Salute del 2009 avesse sollecitato test e controlli per gli studenti equiparandoli ai lavoratori. Negli ultimi anni è venuta meno la saggia prassi di test e vaccinazioni a cui obbligatoriamente venivano sottoposti gli aspiranti medici al momento dell'immatricolazione, quando l'accesso a Medicina era addirittura aperto a tutti. E quando comunque esisteva, per i maschietti, anche il controllo della visita di leva. Test a tutela della salute degli studenti, ma anche a tutela dei pazienti ricoverati dal rischio di un contagio «veicolato» dal peregrinare degli aspiranti camici bianchi. Tutto ciò si chiama prevenzione. E sorprende che proprio a Medicina venga meno la sua declinazione. Negli altri Paesi, dall'Europa agli Stati Uniti, perfino gli studenti italiani che frequentano con Erasmus devono essere sottoposti a tutti i controlli. Ma nessuno si è mai chiesto perché in Italia non accade lo stesso? Futuri medici cresciuti senza la cultura della prevenzione. Immuni per statuto. Per burocrazia. Dopo il caso dell'infermiera della maternità del Gemelli di Roma, sarebbe stato opportuno alzare l'allerta in tutti gli ospedali italiani, soprattutto in quelli scuola di Medicina. Invece così non è stato, e nemmeno di fronte all'evidenza. Come all'Università di Torino, dove per una reazione si è dovuto aspettare l'ultimo caso. Il più grave. Su Facebook, circa una settimana fa, nel gruppo degli studenti di medicina torinesi (MediTo) è comparsa una circolare del consiglio di corso di laurea di questo tenore: «Gent.mo studente... si comunica che per gli studenti afferenti al IV anno can. A è imposta un'interruzione del periodo di tirocinio dal 14/11/2011 al 20/01/2012. Tale interruzione è motivata da un controllo sanitario a scopo cautelativo...». Segue una serie di commenti da cui emerge la conoscenza della situazione. Soprattutto quello della ventiduenne che tossiva sangue. Il caso di poco precedente tossiva da tempo senza che a nessuno venisse un qualche sospetto. Non serviva certo la Tac per le diagnosi. Tubercolosi dimenticata che forse sarebbe il caso di ricordare. Il destino della studentessa? Una cura con più antibiotici (3-4) per almeno nove mesi, che possono arrivare anche a due anni nel caso di bacilli resistenti. Sperando che non ci siano complicanze. Nel comunicato del corso di laurea in Medicina di Torino la tubercolosi non è minimamente menzionata. E, va rilevato, che la sospensione sembra un po' tardiva. Parte da domani. La procura di Torino ha aperto un'indagine, chiedendosi anche come mai non fosse pervenuta alcuna segnalazione alla magistratura. Il procuratore Raffaele Guariniello ha ipotizzato il reato di lesione personale colposa. Per ora a carico di ignoti. Gli studenti tirocinanti sono equiparati ai lavoratori e come tali si parla di malattia professionale. È stato poi appurato che questi studenti hanno frequentato reparti a rischio: medicina interna ed ematologia, venendo a contatto anche con malati immunodepressi. Molte le domande a cui si stanno cercando risposte. Se alcuni casi (almeno due individuati) si sono verificati già prima di ottobre perché si è fatto finta di nulla? Non è che si è cercato di nascondere i casi? Basta il test della tubercolina come controllo preventivo? Sono state raccolte informazioni sullo stato di salute degli studenti al momento dell'accesso a Medicina? Domande che sarebbe stato meglio porre prima di vedere una giovane ventiduenne tossire sangue. Mario Pappagallo ____________________________________________________________ Tempi 2 Nov. ’11 CELLULARI: TUTTI INCURANTI DEI DATI REALI di Paolo Togni La notizia non ha avuto risalto ma è uscita un'indagine del British Medical Journal che dimostra che chi fa uso da sempre del cellulare ha le stesse probabilità di ammalarsi di cancro di chi non l'usa mai NEL DISINTERESSE DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE, gli iettatori catastrofisti ancora una volta sono stati smentiti. Un'indagine dell'Istituto di epidemiologia dei tumori di Copenaghen, condotta per 18 anni su oltre 350.000 persone, e pubblicata dall'autorevolissimo British Medical Journal, ha dimostrato che chi fa uso da sempre del cellulare ha le stesse probabilità di ammalarsi di cancro di chi non l'usa mai: non c'è dunque alcuna relazione tra l'uso 3, di telefonini e il rischio di contrarre il tumore al cervello. La notizia non ha avuto grande risalto, come non ne ha avuta qualche tempo fa quella sull'indagine che dimostrava l'assenza di nocività degli inceneritori, la classifica dell'Oms che determina l'equivalenza tra il rischio di tumore determinato da radiazioni non ionizzanti (per gli imbecilli "elettrosmog") e quello determinato dal caffè, i dati che dimostrano come gli ogm non siano dannosi e via dicendo. Incuranti dei dati scientifici acquisiti e conclamati, oltre agli ambientalisti di mestiere, che almeno ci mettono insieme il pranzo con la cena, anche individui impressionabili, giornalisti deboli di mente e di cultura, e magistrati ignoranti continuano a seguire suggestioni piuttosto che risultati scientifici, panzane piuttosto che verità, imbecillità piuttosto che cose serie. È evidente a tutti coloro che non abbiano gli occhi chiusi alla verità il danno determinato da un simile atteggiamento, che si concretezza soprattutto in cose decise sulla spinta a non fare le cose utili e giuste, e a fare quelle inutili e sbagliate, e che è soltanto l'inizio di un processo tra negativo e farsesco. Quello che - per fare un esempio - porta un comune di Roma che dice di non avere soldi per ripulire i tombini delle fogne a spendere centinaia di migliaia di euro per offrire un megafono al grande produttore e venditore di aria fritta Jeremy Rifkin, prototipo dei tromboni inconcludenti e grande affabulatore degli ignoranti. Nella società della comunicazione, dicono, chi non compare non è: si tratta di un'affermazione per metà falsa, valida solo per coloro che ritengono che il valore dell'esistenza sia misurato dalla popolarità e dal successo sociale. Non è così per chi ritiene che siano altri i valori e gli obiettivi della vita: innanzitutto impegnarsi per il bene comune, che non può avere base diversa dalla verità, e che può essere perseguito solo in un contesto di comportamenti e atti eticamente corretti e umanamente accettabili. Comunque nella società della comunicazione noi, grazie a Tempi, ci siamo. E ci resteremo, anche. tog ipaolo@g maitcom ____________________________________________________________ Avvenire 3 Nov. ’11 SINDROME DOWN: UN FARMACO METTERÀ LE ALI ALLA LORO MENTE Usa, allo studio cure rivoluzionarie. Ma è lotta contro il tempo DA NEW YORK ELENA MOLINARI William Mobley, presiden- te del dipartimento di scienze neurologiche dell'Università della California a San Diego, ha un sogno. Un dottore riceve una coppia che ha appena ricevuto la diagnosi prenatale di sindrome di Down per il figlio che aspetta. «So che siete confusi e preoccupati — dice loro il medico — ma la scienza ha fatto progressi enormi negli ultimi anni. Vi assicuro che vostro figlio nascerà bene, non avrà malattie cardiache, lascerà l'ospedale velocemente, crescerà, andrà a scuola con gli altri bambini, andrà all'università, troverà lavoro, guiderà una macchina e si sposerà. E non si dovrà mai preoccupare di avere il morbo di Alzheimer. Penso che dobbiate saperlo prima di prendere una decisione». Mobley e le decine di altri scienziati americani alla ricerca di medicinali che migliorino la vita di bambini e adulti Down sono convinti che non sia fantascienza. Perché la ricerca negli Stati Uniti non è mai stata così vicina a produrre una terapia che aiuti le 350 mila persone affette dalla sindrome nel Paese a vivere più a lungo e con meno problemi di salute. Ma i ricercatori devono muoversi alla svelta. La loro sfida è produrre risultati prima che la sindrome di Down scompaia per sempre dai Paesi sviluppati. In un laboratorio di San Diego, non lontano da quelli dell'équipe di Mobley, infatti, altri scienziati studiano da tempo e con altrettante intensità la trisomia 21. Nel loro caso non con lo scopo di curarla, bensì di diagnosticarla. Per circa 1900 dollari intendono offrire ai futuri genitori la certezza che il nascituro sarà o non sarà "normale". Il loro lavoro è già sfociato in un test che sarà in commercio negli Stati Uniti da lunedì prossimo e permette di identificare la sindrome di Down durante il primo trimestre di gravidanza. Stando alla società che lo ha sviluppato, la Sequenom, l'esame del sangue è corretto nel 98,6 per cento dei casi, e senza i rischi connessi a pratiche invasive come l'amniocentesi o la villocentesi. Se questi numeri saranno confermati (la stessa società nel 2009 era stata travolta da uno scandalo dopo aver falsificato i risultati di un simile studio) si tratterebbe di un metodo più accurato e precoce di quelli offerti finora e che, la storia dei test prenatali insegna, porterebbe a un drastico aumento degli aborti di feti Down. Il tasso di interruzioni di gravidanza per motivi cosiddetti "terapeutici" (dopo l'identificazione di abnormalità nel feto) si impenna infatti all'indomani dell'introduzione di ogni nuovo strumento diagnostico. Questa volta la decimazione della popolazione Down coinciderebbe con la concreta possibilità di una vita indipendente e dignitosa per chi è affetto dalla sindrome. L'annuncio della commercializzazione del test della Sequenom ha già compromesso la ricerca di Mobley e dei suoi colleghi. Da quando i nuovi esami prenatali hanno raggiunto la fase finale di sviluppo, i finanziamenti per i loro studi si sono quasi prosciugati. I contributi arrivati dall'Istituto nazionale per la salute — un'agenzia governativa americana — sono crollati a 16 milioni di dollari. La ricerca per la fibrosi cistica, che colpisce meno di un decimo della popolazione Down, ha ricevuto 68 milioni. Ma la squadra dell'Università di San Diego non si è arresa. Per raccogliere fondi ha cominciato a presentare alle agenzie governative e alle società farmaceutiche la sua ricerca come complementare a quella sul morbo di Alzheimer — una malattia che le persone Down spesso manifestano nel corso della loro vita. «Siamo così vicini — spiega Mobley. — Ora sappiamo come funziona il cervello di una persona Down. Sappiamo quale gene e quali recettori sono responsabili dell'inibizione dei contatti all'interno dell'ippocampo, che rendono la funzione cerebrale poco attiva, e sappiamo che possiamo cambiare queste funzioni. Non è nemmeno necessario ricorrere a terapie genetiche. Abbiamo bisogno solo di molecole, di enzimi assumibili per bocca». Molti già esistono. Attualmente negli Stati Uniti ci sono cinque test clinici in corso, tesi a valutare la capacità di medicinali in commercio di migliorare le funzioni intellettive delle persone Down. Il più avanzato, condotto da Alberto Costa in Colorado (si veda intervista in questa pagina), ha raggiunto la fase quattro, che analizza l'efficacia sulle persone, dopo aver dato risultati positivi sulle cavie da laboratorio. Il test più recente è stato invece annunciato dalla Roche nelle ulti me settimane. Il gigante svizzero ha reclutato 33 partecipanti per indagare sulla possibilità che una medicina usata per l'Alzheimer, la RG1662, riduca i difetti cognitivi associati alla trisomia 21. L'interesse di una delle più grandi società farmaceutiche del mondo ha dato speranza ai ricercatori, che sono a disagio di fronte alla mancanza di un dibattito sulle implicazioni dei nuovi test prenatali. «È importante comunicare che ci sono molti tipi di disordini genetici identificabili in utero e che una diagnosi di Down non è una condanna — spiega Craig Garner, dell'Università di Stanford — molti bambini Down prosperano, e così le loro famiglie». Nel mondo della genetica, come all'interno delle associazioni delle famiglie di persone Down, cresce infatti il timore che a offrire i nuovi esami sarà personale non al corrente dei passi avanti della ricerca. E i genitori riceveranno solo una serie di informazioni allarmanti. «Potremmo trovarci — conclude Garner — di fronte all'ultima generazione di bambini Down negli Usa». Una terapia per migliorare la vita di bambini e adulti Down è ormai alle porte. Ma nuovi test prenatali precoci potrebbero causare un forte aumento degli aborti «terapeutici» FINANZIAMENTI QUEI MILIONI DI DOLLARI INVESTITI NEI TEST PRENATALI, E LE BRICIOLE ASSEGNATE ALLA RICERCA Nessun genitore di un bambino o di una ragazza con la sindrome di Down desidera "cambiare" il proprio figlio. Ma tutti li vorrebbero aiutare a essere più indipendenti. Le associazioni americane delle famiglie di persone Down da anni guardano con un misto di speranza e paura alla ricerca di una "cura" per i loro cari. Molti di loro non pensano che i loro figli siano malati, solo diversi. Un sondaggio condotto di recente in Canada fra famiglie con un membro affetto da trisomia 21 ha mostrato ad esempio che il 27 per cento non vorrebbe somministrare ai propri cari un medicinale di tipo psichiatrico, che abbia il potenziale di alternarne il comportamento. Un dato sorprendente per ricercatori appassionati come Alberto Costa o come William Mobley, che hanno dedicato la loro vita a migliorare la qualità dell'esistenza delle persone affette dalla sindrome. Il punto sul quale sia la ricerca sia le famiglie si trovano del tutto d'accordo è invece quello dei test prenatali. L'idea stessa che le società di biotecnologia investano milioni nello sviluppo di esami che portano a maggiori aborti di bambini Down manda su tutte le furie Cathy McMorris-Rodgers, deputata repubblicana della Camera Usa, che ha un bambino di quattro anni nato con la sindrome. «Quei soldi potrebbero essere usati per la ricerca di medicinali rivoluzionari — spiega — o per creare maggiori strutture di supporto per bambini come il mio. Che le società farmaceutiche cerchino profitti è scontato. Ma gli Stati e le agenzie governative, come l'Istituto nazionale per la salute, dovrebbero avere altre p. priorità nel distribuire i loro fondi». ____________________________________________________________ Espresso 10 Nov. ’11 DIETA ANTIGOTTA COLLOQUIO CON LEONARDO PUNZI L'antica maledizione dei re e dei papi, quasi dimenticata fino ai nostri giorni, è tornata d'attualità: la gotta, la malattia infiammatoria causata dall'accumulo di acido urico a livello delle articolazioni, interessa oggi oltre 8 milioni di persone nel mondo, un milione solo in Italia. Si stima che l'alimentazione incida per il 15.20 per cento sui livelli di acido urico. Cosa mangiare, allora per tenere sotto controllo la malattia? Lo abbiamo chiesto a Leonardo Punzi, professore al dipartimento di Reumatologia del Policlinico di Padova. Professore, quali cibi sono da evitare? «In cima alla lista c'è la birra, che ha un contenuto molto elevato di una purina, precursore dell'acido urico; poi vi sono i superalcolici e le bibite dolcificate con fruttosio, che abbassa la capacità dell'organismo di eliminare l'acido. Con il bollino giallo, invece, carne rossa, selvaggina, pesci grassi e crostacei». Chi è vegetariano può star tranquillo? «l legumi contengono puríne, ma in quantità inferiori rispetto alla carne, e non sembrano aumentare il rischio di gotta. A chi già presenta la malattia si consiglia di accompagnarli con i farinacei, che riducono l'assimilazione dei precursori dell'acido urico. Anche alla frutta bisogna fare attenzione: arance, mele, pere e ananas, per esempio, hanno un contenuto molto alto di fruttosio. Si, invece, al kiwi e al melograno». Quali alimenti, al contrarlo, favoriscono l'eliminazione delle purine? «Il caffè, che sembra agire a livello renale. Il latte scremato e i latticini a minor contenuto di grassi, come la ricotta vaccina, invece, sono da preferire per il loro effetto drenante». ____________________________________________________________ La Stampa 31 Ott. ’11 UNA NUOVA ERA PER LA CATARATTA GRAZIE AL LASER A FEMTOSECONDI NIENTE PIÙ BISTURI O LAME MA LA POSSIBILITÀ DI INTERVENIRE UNA VOLTA SOLA. ANCHE PER L'ASTIGMATISMO E LA PRESBIOPIA U na delle grandi novità della moderna oftalmologia, di cui si è par lato nel corso del Congresso -Videocatarattarefrattiva”, appena conclusosi a Milano presieduto da Lucio Buratto, è certamente l'introduzione dell'impiego del laser nell'intervento di cataratta. Finora erano disponibili bisturi ed ultrasuoni, oggi entra con potenzialità straordinarie il laser: cioè un fascio di luce sostituisce il bisturi e apre una nuova era nel trattamento di questa patologia. Prodigio della nanotecnologia, il laser a femtosecondi è dotato di un tomografo a coerenza ottica (OCT), un sistema che esegue un controllo fotografico (una specie di TAC ad alta definizione) in real time dello spessore della cornea, della dimensione e forma del cristallino e della posizione della capsula del cristallino da incidere. In questo modo. il chirurgo opera avendo in tempo reale un controllo dell'azione del laser che consente la massima precisione di esecuzione e di sicurezza: una rivoluzione chirurgica rispetto al bisturi. «Questo laser - spiega proprio Buratto -, è in grado di tagliare tessuti con una precisione impensabile per la mano del miglior chirurgo; un traguardo che elimina bisturi o lame metalliche per tagliare, alla profondità ed allo spessore desiderati, la cataratta. Oltre alla maggior affidabilità chirurgica il nuovo laser permette, duran te lo stesso intervento di cataratta, di correggere anche l'astigamatismo e nella stessa seduta, con l'inserimento di vari cristallini, multifocali e accomodativi. anche la presbiopia». Insomma, si toglie la cataratta e si può eliminare l'uso di occhiali. Già approvato per lo specifico impiego nella chirurgia della cataratta dalla Food and Drug Administration (FDA) e dotato del marchio CE per l'utilizzo in Europa, il laser a femtosecondi acquista una importanza fondamentale, soprattutto in un Paese come l'Italia dove l'aspettativa di vita ha superato mediamente gli 80 anni e i pazienti di cataratta (disturbo specificamente senile) raggiungono ogni anno i 450 mila. AS ____________________________________________________________ La Stampa 31 Ott. ’11 MALARIA, L'ULTIMA FRONTIERA È UN FARMACO ITALIANO LA NUOVA TERAPIA HA DIMOSTRATO UN'ALTA PERCENTUALE DI GUARIGIONE, SUPERIORE AL 95%, E UNA SIGNIFICATIVA RIDUZIONE DEI TASSI DI REINFEZIONE H a un nome difficilis- simo da pronunciare — Diidroartemisinina/ piperachina (DHA/PQP) — ma per gli esperti riuniti a Barcellona al r congres- so sulla medicina tropicale rappresenta la nuova fron- tiera nella lotta contro la malaria. Il trattamento, che ha recentemente ottenuto parere positivo da parte del Comitato dei medicinali di uso umano dell'Agenzia Europea del Farmaco (EMEA), è ora in attesa di approvazione da parte della Commissione Europea. La nuova terapia, una combinazione in dose fissa composta da diidroartemisinina e piperachina, a base di artemisinina, frutto della ricerca italiana di Sigmatau e sviluppata in partnership con Medicines for Malaria Venture (MMV), si è dimostrata altamente efficace nel trattamento della malaria non complicata negli adulti e nei bambini, con un facile regime di somministrazione. Sono infatti solo tre compresse al giorno nell'arco di tre giorni. Gli studi hanno coinvolto più di 2.700 pazienti in Africa (Burkina Faso, Zambia, Kenya, Mozambico e Uganda) e in Asia (Thailandia, India e Laos), compresi oltre mille bambini africani tra i 6 mesi e i 10 anni di età, tutti con malaria non complicata da Plasmodium falciparum e trattati con la combinazione diidroartemisinina/ piperachina (DHA/PQP). La malaria è la seconda malattia infettiva al mondo per morbilità e mortalità con circa 250 milioni di nuovi casi registrati ogni anno e 880 mila decessi principalmente nell'Africa subsahariana, l'85% dei quali bambini di età inferiore ai 5 anni. La maggior parte dei casi di malaria e dei decessi ad essa legati si sono registrati in Africa, rispettivamente il 78% e il 91%, e l'area più duramente colpita è quella sub-sahariana. Per quanto riguarda la malaria d'importazione, invece, la maggior parte dei casi sono segnalati in Euro pa occidentale. Ogni anno, all'interno dell'Unione Europea vengono segnalati tra i 10.000 e i 12.000 casi. Secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in alcune zone dell'Europa Occidentale, e precisamente in Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito, tra il 2000 e i12010 si sono registrati circa 93mila casi di malaria, la maggior parte dei quali causati da Plasmodium falciparum, la specie più mortale tra le cinque che causano la malaria. Nello specifico, la Francia è la nazione più colpita con 56.638 casi, seguita dal Regno Unito con 19.132, dalla Germania con 7.581. dall'Italia con 5.881 (dati disponibili solo fino al 2007) e dalla Spagna con 3.755 casi. di Lapo Sermonti _________________________________________________ Corriere della Sera 9 Nov. ‘11 BIOETICA UN CONVEGNO, POI IL PAPA RICEVERÀ GLI SCIENZIATI. IL PROGRAMMA NON UTILIZZA GLI EMBRIONI Il Vaticano e le staminali adulte Un milione di dollari alla ricerca Accordo con una società farmaceutica, i fondi da benefattori L' accordo Gianfranco Ravasi È stato firmato dal pontificio consiglio della Cultura e avrà la durata di cinque anni «Non siamo nell' epoca dei Papi-mecenati, ma queste sponsorizzazioni hanno un valore etico» CITTÀ DEL VATICANO - Il cardinale Gianfranco Ravasi cita un libro di Susan Sontag, La malattia come metafora , perché «quando si parla di malattie la questione non è mai solo biologica o tecnica ma simbolica, la medicina rigenerativa e la ricerca sulle staminali sono discipline di confine e pongono problemi etici, teologici, richiedono un approccio culturale globale...». La premessa è significativa perché non era mai accaduto che il Vaticano, in questo caso il pontificio consiglio per la Cultura, firmasse una «partnership» con una società biofarmaceutica privata - attraverso due rispettive fondazioni no profit - a sostegno di un programma scientifico: con un milione di dollari garantiti «grazie a benefattori» dalla fondazione vaticana per sostenere la causa della ricerca sulle cellule staminali adulte. Stamattina, nell' aula nuova del Sinodo, si vedrà il primo effetto dell' accordo: un congresso internazionale (titolo: «Cellule staminali adulte: la scienza e il futuro dell' uomo e della cultura») al quale per tre giorni parteciperanno una trentina di relatori e 350 scienziati, vescovi, diplomatici, politici e intellettuali. All' iniziativa la Santa Sede partecipa anche con il pontificio Consiglio degli operatori sanitari e l' Accademia per la vita. Sabato, ha spiegato il cardinale Ravasi, i partecipanti saranno ricevuti in udienza da Benedetto XVI e il Papa interverrà sulla questione. Questione delicatissima, specie per il mondo cattolico. Le cellule staminali possono essere «riprogrammate» in modo da sostituire tessuti o parti di organi compromessi dalla malattia. Le più «riprogrammabili», perché meno differenziate, sono in genere considerate quelle prelevate dagli embrioni umani. Ma la «manipolazione» e «distruzione» di embrioni umani è inaccettabile e «moralmente illecita» per il Papa e la Chiesa: l' embrione umano «ha fin dall' inizio la dignità propria della persona». Di qui il sostegno ai programmi alternativi che studiano la «riprogrammazione» delle staminali adulte - presenti ad esempio del midollo spinale -, ritenuto più promettente dagli scienziati che lo studiano. Un sostegno che arriverà sabato dallo stesso Benedetto XVI e che la Santa Sede, sotto il suo pontificato, ha già messo nero su bianco nel 2008 con l' «istruzione» della Congregazione per la dottrina della fede Dignitas personae : «È da incoraggiare l' impulso e il sostegno alla ricerca riguardante l' impiego delle cellule staminali adulte, in quanto non comporta problemi etici». L' accordo è stato firmato dalla fondazione «Stem for Life», della società biofarmaceutica statunitense «NeoStem», e dalla fondazione «Stoq» (Science, Theology and the Ontological Quest) del pontificio consiglio per la Cultura presieduto da Ravasi. Il milione di dollari garantito dal Vaticano e «messo a disposizione da benefattori» servirà a sostenere l' attività delle due fondazioni per promuovere la ricerca sulle staminali adulte e diffonderne le ragioni oltre la comunità scientifica, una «partnership esclusiva di cinque anni» che debutta con il convegno. A presentarlo, ieri, sono arrivati pure la dottoressa Robin Smith, amministratore delegato di NeoStem («In un prossimo futuro saremo in grado di ricostruire tessuti danneggiati e riparare organi come il cuore») e l' ex ministro Usa della Sanità, Tommy Thompson. «La conferenza si dividerà in una sorta di trittico: gli aspetti scientifici, quelli bioetici e infine una riflessione sugli aspetti culturali, filosofici e teologici, e sull' impegno educativo», spiega il cardinale Ravasi. Il tutto in linea con il «Cortile dei gentili», l' iniziativa del consiglio guidato da Ravasi per «dialogare con la cultura e quindi anche con la scienza contemporanea». E le «partnership» con società private, le sponsorizzazioni? Non è strano, per la Santa Sede? Il cardinale Ravasi sorride: «La sponsorizzazione fa parte di una traduzione gloriosa, il mecenatismo. Del resto, la ricerca in questo campo richiede impegni economici significativi. Oggi abbiamo certo molte più difficoltà a investire rispetto ai Papi mecenati del passato, ma possiamo avere dei sostegni, purché la selezione sia attenta: è difficile trovare un' istituzione con uno "statement" etico così chiaro, altri soggetti lavorano parallelamente anche sulle staminali embrionali». Gian Guido Vecchi **** Occhi Le sperimentazioni Cervello null Cuore Midollo Le staminali al momento vengono impiantate per curare le lesioni alla cornea. Ricercatori canadesi sono riusciti a far rigenerare cellule staminali umane trapiantate nella retina di topi e pulcini Nel 2005 è stato fatto il primo trapianto di staminali nel cervello umano. La sperimentazione è stata eseguita per curare l' Alzheimer e il Parkinson Le staminali vengono iniettate nel tessuto cardiaco danneggiato di pazienti colpiti da infarto Difficoltà sono emerse dall' impossibilità di «controllare» i processi rigenerativi Le cellule staminali adulte vengono utilizzate anche per combattere la sclerosi multipla, a parte la possibilità di ricreare cellule chiave della linea del sangue nel caso di gravi patologie del midollo osseo Vecchi Gian Guido _________________________________________________ Sanità News 11 Nov. ‘11 I LIVELLI DI GLUCOSIO SONO MISURABILI UTILIZZANDO LE LACRIME Misurare la glicemia nel sangue utilizzando una lacrima anziche' una goccia di sangue.E' quanto promette di fare un dispositivo, messo a punto nel Dipartimento di Chimica dell'Universita' del Michigan, Usa, da un gruppo di ricercatori guidati da Mark Meyerhoff, che in futuro potrebbe essere utilizzato dai pazienti affetti da diabete di tipo 2 per tenere sotto controllo la malattia. La notizia è riportata dall'Analytical Chemistry, la rivista dell'American Chemical Society. Il nuovo dispositivo, spiegano i ricercatori, potrebbe rappresentare una soluzione per quei pazienti affetti da diabete che provano fastidio nel pungersi il dito per ottenere la goccia di sangue da utilizzare negli attuali test per il controllo della glicemia _________________________________________________ Sanità News 10 Nov. ‘11 CICLO MESTRUALE: I RISULTATI DI UNA RICERCA EFFETTUATA SULLE DONNE Presentati i risultati di una ricerca realizzata da Demoskopea, per conto dell’Azienda Farmaceutica Gedeon Richter (leader in ginecologia), sul rapporto che la donna ha con il proprio corpo durante la sua vita e sul ruolo chiave che deve avere la figura del ginecologo, come medico di riferimento. L’indagine ha visto coinvolte 1001 donne su tutto il territorio nazionale in un’età compresa dai 18 anni ai 50 (età fertile). Dalle risposte delle intervistate è emerso come la prima volta del ciclo mestruale sia caratterizzata per lo più dall’imbarazzo (60%), sensazione che ha riguardato soprattutto le più mature che all’evento sono giunte con poche informazioni e per lo più di origine non istituzionale (amiche, parenti e non medici). Solo 4 donne su 10 lo vivono “senza farci caso”, mentre risulta evidente come il ciclo abbia ripercussioni sulla vita sociale: riduce l’efficienza lavorativa (45%), incide sull’attività sportiva (63%) e quella sessuale (85%). La sensazione di fastidio legata al ciclo mestruale è dovuta più che a uno stato doloroso, ad un malessere diffuso che si manifesta con emicrania, sensazione di stanchezza, malumore. ’E’ compito del ginecologo sfatare falsi miti e tabù sulla mestruazione, come ad esempio quello che la donna debba star lontana dalla cucina durante il ciclo, per aiutarla a migliorare il rapporto con il ciclo mestruale, anche attraverso la scelta contraccettiva ormonale. Le donne ritengono la pillola il metodo più efficace, ma poche sanno che aiuta a ridurre il dolore del ciclo e i sintomi che inteferiscono con la qualità della vita.’ Dichiara Rossella Nappi, Professore Associato Clinica Ostetrica e Ginecologica Policlinico San Matteo Università degli Studi di Pavia. Molto conosciuti i metodi di contraccezione, le giovani sono più vicine agli anticoncezionali di ultima generazione (anello e cerotto) mentre le donne più adulte privilegiano i metodi naturali: preservativo e pillola, oltre che essere i metodi più noti, sono considerati anche i più efficaci, al contrario di spirale, diaframma, anello e cerotto. Le informazioni sulla contraccezione e la gravidanza sono elevate (92%), ma differiscono in base all’età: le giovani si rivolgono a canali più informali e meno coinvolgenti come le amicizie e Internet, le donne mature fanno ricorso al ginecologo. Nel caso di gravidanze poi, sembra essere ormai consuetudine continuare la vita di sempre con un occhio però a controlli mirati e costanti e a pratiche di vita più regolari. ’Mi preme sottolineare un dato emerso dalla ricerca, quello che ancora troppe donne ritengono di poter diventare madri fino a 50 anni, ma non sanno che la fertilità si riduce drasticamente gia’ 10 anni prima della data dell’ultima mestruazione ed è quindi opportuno anticipare la maternità’. Spiega Rossella Nappi. La fine del ciclo è vissuta dalle ultraquarantenni come una liberazione: ma anche la menopausa, che arriva intorno ai 51 anni, si manifesta non senza problemi. Per l’80% delle donne si presentano disturbi come vampate di calore, aumento di peso e sudorazione improvvisa. La mancanza di informazioni riguardo al tema interessa la maggioranza del target: solo il 20% circa dichiara di avere sufficienti informazioni. In quest’ambito le informazioni sono attese soprattutto da parte del ginecologo, anche perché, con l’approssimarsi della menopausa, la relazione con questa figura può vantare un rapporto di lunga durata che porta ad instaurare una certa confidenza con il proprio medico. E il ginecologo? La maggior parte delle intervistate ha dichiarato di far visita al ginecologo almeno una volta l’anno, vivendo l’appuntamento in modo sereno, anche se per le più giovani il rapporto deve ancora consolidarsi e risultare meno problematico. Non a caso dal proprio ginecologo si aspettano un approccio amichevole e riservato allo stesso tempo. Le più mature appaiono invece più disincantate nella relazione con il ginecologo, al quale si rivolgono volentieri per avere informazioni che però devono essere chiare, ben argomentate e proposte con la delicatezza che i temi affrontati richiedono. ’Il ginecologo è il medico amico della donna e della femminilità nell’intero arco della vita riproduttiva, dalla prima mestruazione al tempo della menopausa ed oltre. E’ un dato confortante sapere che la donna di oggi ha nel 75% dei casi un rapporto sereno e di confidenza con il proprio ginecologo, lo incontra almeno 1 volta all’anno e si confronta con lui già nell’adolescenza, l’importante è che sappia mettere la donna a proprio agio.’ Conclude Rossella Nappi. _________________________________________________ Sanità News 10 Nov. ‘11 EFFETTI POSITIVI DEL CONSUMO MODERATO DI ALCOL NELLE DONNE DI MEZZA ETA' Le donne di mezza età che bevono un bicchiere di vino al giorno hanno il 50% di possibilità in più di invecchiare in buona salute. A sostenerlo è uno studio pubblicato su PLoS Medicine da un gruppo di ricercatori statunitensi dell'Harvard School of Public Health secondo i quali le signore che bevono poco e spesso hanno maggiori possibilità di difendere il proprio organismo da malattie cardiache, diabete, declino cognitivo e altri disturbi mentali e fisici durante la terza età rispetto alle astemie o a coloro che consumano alcol una o due volte a settimana. Lo studio è stato condotto su 13.894 infermiere: i ricercatori hanno dimostrato che le donne che bevono regolarmente modiche quantità di alcolici hanno maggiori possibilità di invecchiare bene rispetto alle bevitrici occasionali e alle astemie. Hanno così rilevato che le donne con un'età media di 58 anni che bevono tra i 5 e i 15 grammi di alcol al giorno (una birra da 330 ml, un bicchiere di vino da 125 ml e un bicchierino di superalcolico ne contengono circa 12) per 3-7 volte a settimana - ma i risultati migliori si ottengono con 5-7 volte - hanno il 50% di possibilità in più di invecchiare «al massimo» rispetto a coloro che bevono solo una o due volte a settimana e alle astemie. E lo stesso è stato rilevato per le donne che consumano regolarmente anche ridotte quantità di alcol, pari a circa 5 grammi al giorno, per più di tre volte a settimana, mentre anche in questo caso bere una o due volte a settimana non provoca alcun miglioramento. ''Abbiamo rilevato - spiega Qi Sun, che ha condotto lo studio - che un consumo regolare leggero o moderato di alcol può migliorare la salute delle donne in età avanzata'' (Sn) _________________________________________________ Le Scienze 10 Nov. ‘11 RICONOSCERE LA COSCIENZA NELLO STATO VEGETATIVO PERMANENTE In anni recenti si è scoperto che alcuni pazienti in stato vegetativo permanente possono avere ancora un certo grado di coscienza. Per identificarli era però necessario ricorrere alla risonanza magnetica funzionale, costosa e spesso non disponibile. Ora è stato messo a punto un test che permette una corretta diagnosi con una tecnica molto più economica e maneggevole Un test portatile che consenta di diagnosticare in modo più semplice e meno costoso i pazienti in stato vegetativo permanente che hanno ancora coscienza, ma che non hanno i mezzi per esprimerla. A metterlo a punto sono stati ricercatori del Coma Science Group dell’Università di Liegi in collaborazione con ricercatori della London University of Western Ontario e dell’Università di Cambridge che pubblicano i risultati del loro studio su "The Lancet”. Nel 2009, Steven Laureys, coordinatore di questa ricerca, e colleghi, avevano già dimostrato che il 40 per cento dei cosiddetti pazienti in stato vegetativo permanente avevano ricevuto una diagnosi non accurata, poiché in realtà avevano mantenuto un certo grado di coscienza. Sulla scia di questo studio l'Ospedale universitario di Liegi aveva prescritto l'uso obbligatorio di una scala per la valutazione dello stato di coscienza appositamente progettata (la cosiddetta coma recovery scale). Nel 2010, i ricercatori del Coma Science Group e i colleghi di Cambridge hanno poi mostrato che era addirittura possibile comunicare con pazienti in stato vegetativo permanente attraverso strumentazioni basate sulla risonanza magnetica funzionale (fMRI). Grazie a essa è infatti possibile rilevare tracce di coscienza e perfino comunicare con il paziente controllando la presenza a livello di attività cerebrale di una adeguata risposta a un compito suggerito dal valutatore, senza affidarsi all’osservazione della risposta muscolare. Scientificamente rivoluzionario, il ricorso alla risonanza magnetica funzionale nella valutazione del coma è comunque molto costoso, e non tutti gli ospedali hanno la possibilità di sfruttarla: Il nuovo test dovrebbe cambiare questa situazione. "I medici di regola chiedono al paziente di rispondere a un semplice comando, per assicurarsi che il paziente sia cosciente. Quando si ottiene una risposta, tutto va bene, ma se non si riesce a rilevare una risposta ciò non significa necessariamente che il paziente sia incosciente. A volte non può muoversi perché gli infortuni hanno colpito i nervi, il midollo spinale o il cervello”, spiega Laureys. “Nel nostro nuovo test, chiediamo ancora ai pazienti di muovere la mano o il piede, ma non ci affidiamo più della risposta muscolare: misuriamo direttamente l'attività della corteccia motoria usando l'elettroencefalografia (EEG), un metodo più economico, utilizzabile in tutti il centri ospedalieri.” “Ciò significa che questo test portatile può essere effettuato in tutti i centri sanitari e anche a casa!”, ha commentato Camille Chatelle, uno degli autori dello studio. _________________________________________ Corriere della Sera 31 Ott. 2011 LE DUE ITALIE DELLA SANITÀ BYPASS PIÙ RISCHIOSO AL SUD IL RAPPORTO STILATO DAL MINISTERO E ANCORA NON PUBBLICO: LE DISPARITÀ SU CESAREI E INTERVENTI AL FEMORE La «classifica» riservata: sotto esame 1.470 strutture Il parto chirurgico Nel Meridione praticato anche su 8 donne ogni 10. La clinica piemontese dove raggiunge il 90% ROMA - Dove si cura meglio l' infarto? Un buon centro per l' artroscopia del ginocchio? Il numero uno nella chirurgia del tumore polmonare? La risposta è nella classifica online degli ospedali italiani, pubblicata su Internet con lettura riservata agli addetti ai lavori. Studio immane del ministero della Salute realizzato da Agenas, l' agenzia per i servizi sanitari regionali diretta da Fulvio Moirano. Migliaia di dati, la fotografa dell' attività di circa 1.475 strutture tra pubbliche, private e convenzionate. I numeri mostrano la solita Italia a due marce. Il centro nord in generale più efficiente del centro sud. In alcuni centri di Piemonte o Lombardia si può essere operati di bypass con un rischio di mortalità sovrapponibile a 0. In certi ospedali siciliani il rischio sfiora il 10%. Ma anche nell' ambito di una stessa Asl esistono situazioni in bianco e nero. La possibilità per una persona anziana di essere operata al femore entro 48 ore dal trauma (tempo considerato ottimale per ridurre le complicanze) oscillano tra il 2% in provincia di Frosinone e l' 80% a Firenze e dintorni. Metodo Il lavoro fa parte del Programma nazionale esiti. L' edizione 2005-2009 è stata consegnata la scorsa estate alle Regioni. Si sta riflettendo sull' opportunità di renderlo pubblico. Per ora solo i tecnici hanno ricevuto codici personali per entrare nelle pagine dell' apposito sito web. Le «pagelle» costituiscono uno strumento per eliminare inefficienze e percentuali fuori norma. Il Lazio, ad esempio, ha già avviato la fase di correzione e si è avvantaggiato pubblicando autonomamente il rapporto 2010. Hanno intrapreso un percorso di riorganizzazione Toscana, Veneto e Sicilia. I responsabili di Agenas hanno fatto il giro d' Italia per confrontarsi con Regioni e società scientifiche. L' analisi si basa sulle schede di dimissione ospedaliera, quelle che raccontano la storia di un ricovero. Esaminati 47 indicatori corrispondenti ad altrettante prestazioni, dal bypass aortocoronarico alla colecistectomia laparoscopica, dall' ictus allo scompenso cardiaco, dall' infarto a interventi chirurgici non oncologici. Si tratta di attività accreditate dalla letteratura internazionale per diagnosticare l' efficienza dei servizi sanitari. Risultati Alcune delle pagine più significative riguardano la mortalità a 30 giorni dall' intervento per bypass. La media italiana è del 2,2% (poco più di due pazienti su 100 muoiono a un mese dall' operazione). Nel 2009 circa 30 ospedali non hanno superato la soglia dei 50 bypass all' anno mentre il volume considerato accettabile per la sicurezza del malato è di 200. Sono davvero troppe invece le cardiochirurgie che marciano a scartamento ridotto dal punto di vista dell' attività. Tra le eccellenze il Monzino di Milano, la Poliambulanza di Brescia, le Molinette a Torino. Al di sotto dell' 1,5% il Sacco di Milano, gli ospedali Riuniti di Bergamo, il Careggi di Firenze, il San Camillo Forlanini di Roma (con 0,79%), l' Ismett di Palermo. La mortalità sale al sud, è superiore al 5% a Salerno, al Monaldi di Napoli, presso la casa di cura San Michele (Caserta, quasi 8%), al Papardo di Messina ma anche in alcune grandi aziende universitarie romane. Frattura di femore: in un anziano il trattamento ritenuto ottimale è l' intervento al massimo entro 2 giorni. La tempestività riduce il pericolo di complicanze. Opportunità negata in decine di ospedali del sud dove appena 5 pazienti su 100 vengono operati rispettando le linee guida internazionali. Ma anche a Milano (Niguarda, San Paolo) si scoprono ritardi sorprendenti che dipendono dall' organizzazione. Le aziende sono corse ai ripari. Nel Lazio a fine 2009 è stata introdotta una nuova modulazione di tariffa. Il rimborso è tanto più alto quanto minore è l' attesa del paziente con femore fratturato. In Toscana questo indicatore rientra nella tabella di valutazione dei manager in fase di eventuale riconferma. Tra le prestazioni sentinella non potevano mancare i parti con taglio cesareo primario (primo figlio). E qui la forbice è davvero ampia. Si va dalle percentuali virtuose del Buzzi (Milano), ospedali Riuniti (Bergamo), casa di cura per il Bambino (Monza) dove meno di 10 donne su 100 partoriscono con la chirurgia. A realtà del sud che potrebbero essere definite vere e proprie fabbriche di cesarei. Case di cura private dove 8 donne su 10 ricevono il taglio probabilmente senza criteri di appropriatezza, solo perché vantaggioso sul piano della remunerazione. La Campania si distingue con percentuali decisamente straordinarie, in negativo. Ci sono però esempi estremi anche in Piemonte. Presso la clinica Sedes Sapientiae il cesareo è scontato (9 volte su 10). Uso dei dati Si sta discutendo sull' uso dei dati. È opportuno, ci si chiede, metterli a disposizione della comunità oltre che dei decisori? È stato analizzato in un documento l' impatto socio economico sulla popolazione. Vantaggi: il cittadino potrebbe entrare in possesso di informazioni utili per orientare le sue scelte. Ricadute negative: sarebbe discriminato chi non possiede Internet. Dunque i meno abbienti e bisognosi di buona sanità. Non solo. Per tutti ci sarebbero difficoltà nel comprendere correttamente le informazioni. Uno dei possibili impedimenti potrebbe consistere nello scarso senso di fiducia del cittadino sull' obiettività dei risultati. Dunque l' uso potrebbe essere riservato ai medici di famiglia e sarebbero loro a indirizzare i pazienti verso questa o quella struttura. Anche qui esistono pro e contro. Terza ipotesi: sì alle classifiche liberamente consultabili purché rielaborate in una forma di più facile lettura. Margherita De Bac mdebac@corriere.it **** IL COMMENTO di Luigi Ripamonti nelle Idee&opinioni De Bac Margherita ________________________________________ Corriere della Sera 6 Nov. ‘11 L'ATTIVITÀ FISICA (SENZA ESAGERARE) MIGLIORA LE DIFESE Nel nostro Paese siamo ancora troppo sedentari L'attività fisica ha un'azione positiva sul sistema immunitario, che si traduce in una riduzione del rischio di malattie cardiovascolari, diabete, malattia polmonare cronico ostruttiva, cancro del colon e della mammella, demenza e depressione. Il meccanismo di fondo di questo beneficio così diffuso è la riduzione dello stato di infiammazione dell'organismo. Un livello cronico di infiammazione, infatti, è verosimilmente alla base di queste condizioni patologiche: la riprova è la presenza di alti livelli nell'organismo di sostanze, come l'interleuchina-6 e la proteina C- reattiva, mediatori dell'infiammazione. «L'esercizio ha un'azione antinfiammatoria e quindi, a lungo termine, un'attività fisica regolare può proteggere contro lo sviluppo di malattie croniche» dice Michael Gleeson della School of sport, exercise and health sciences della Loughborough University inglese, che con alcuni collaboratori ha pubblicato su Nature reviews/Immunology una revisione sull'argomento —. L'esercizio può essere usato come una forma di trattamento per migliorare i sintomi di molte di queste condizioni». «Le raccomandazioni fondamentali per uno stile di vita sano sono riassumibili in tre numeri: 0-5-30. Ossia, 0 sigarette, 5 porzioni di frutta o verdura fresca al giorno e 30 minuti di esercizio fisico moderato quotidiano — ricorda Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'Istituto Clinico Humanitas di Milano —. L'attività fisica aiuta a prevenire i tumori in modo sia diretto sia indiretto. Direttamente, perché contribuisce al buon funzionamento del sistema immunitario, mantenendo l'equilibrio tra i freni e gli acceleratori che costituiscono uno dei meccanismi di azione delle nostre difese. Indirettamente, perché l'attività fisica aiuta combattere il sovrappeso: il tessuto adiposo non è infatti un semplice deposito di grasso, ma è ricco di cellule immunitarie come i macrofagi, che producono mediatori dell'infiammazione, i quali svolgono un ruolo importante nello sviluppo di alcune patologie, quali il diabete dell'adulto, le malattie cardiovascolari e il cancro». C'è però un limite di attività fisica oltre il quale le funzioni di difesa immunitaria dell'organismo tendono a diminuire invece di aumentare. In un certo senso si può dire che la risposta del sistema immunitario sia bifasica: c'è un miglioramento fino a un certo livello di attività fisica, ma se si va oltre subentra un peggioramento. È il fenomeno che si osserva negli atleti professionisti, che proprio a causa dei loro lunghi allenamenti risultano più sensibili, ad esempio, alle infezioni delle prime vie respiratorie. «L'azione bifasica non ci sorprende, perché è intrinseca al modo di funzionare del sistema immunitario, fondato sul bilanciamento tra freni e acceleratori — commenta Mantovani —. L'immunità, fondamentale per il funzionamento delle nostre difese, in quantità eccessiva o nel momento sbagliato è essa stessa causa di danno. L'esempio più clamoroso è lo shock settico, che porta alla morte perché scatena una risposta immunitaria violentissima e incontrollata». Ma qual è il limite oltre il quale non bisognerebbe andare? «Difficile dare indicazioni quantitative, vale sempre il buon senso — dice ancora Mantovani —. I dati che mostrano una correlazione tra esercizio fisico e soppressione delle difese immunitarie si riferiscono ad atleti professionisti, dunque a persone che svolgono questo tipo di attività in modo intenso. Ciò non significa che chi ha la buona abitudine di andare in palestra o a correre alcune volte a settimana debba prendere tali dati come un invito a smettere. Al contrario, deve considerarli un invito a continuare con saggezza e moderazione la propria attività fisica». La ricerca sta anche cercando di stabilire attraverso quali fini meccanismi biologici l'inattività fisica aumenti il livello di infiammazione presente nell'organismo, ma certamente sono importanti l'incremento della quantità di grasso presente nell'organismo, l'ingrossamento delle singole cellule adipose e la loro infiltrazione da parte di cellule tipiche dell'infiammazione, come i macrofagi M1 e cellule T attivate. Il tessuto grasso infiammato per la presenza di queste cellule produce le adipochine, sostanze che diffondono un'infiammazione cronica e di basso grado negli altri tessuti. Ne conseguono fenomeni molto negativi, come la resistenza all'azione dell'insulina (che favorisce il diabete), lo sviluppo di tumori, la degenerazione del tessuto nervoso e l'aterosclerosi. Danilo di Diodoro Salire le scale è già un buon allenamento P er godere dei benefici dell'attività fisica non è necessario strafare. Secondo le Physical activity guidelines for americans, ad esempio, è sufficiente che un adulto faccia attività fisica moderata per almeno due ore e mezzo la settimana; oppure svolga un'ora e un quarto di vigorosa attività aerobica la settimana. L'attività può anche essere spezzettata in episodi di almeno dieci minuti l'uno e possibilmente va "spalmata" nell'arco di tutta la settimana. Per chi vuole fare di più, si può arrivare a cinque ore settimanali di attività fisica moderata o a due ore e mezza di attività intensa, o anche a una combinazione tra questi due diversi regimi. Opportune anche almeno un paio di sedute settimanali di rafforzamento dei principali gruppi muscolari. Ma non c'è necessariamente bisogno di frequentare palestre e centri sportivi per raggiungere questi obiettivi. Visto che molte persone dichiarano di non avere tempo a disposizione da dedicare al movimento, sono stati effettuati diversi studi che hanno dimostrato come sia possibile aumentare il proprio livello di attività fisica fino a poterne trarre benefici, anche semplicemente modificando alcune semplici abitudini. Camminare per andare al lavoro è un ottimo esempio di attività fisica per la quale non c'è bisogno di indossare tuta e scarpe da ginnastica e di individuare uno specifico spazio della giornata. Molta attenzione stanno ricevendo anche le scale, soprattutto quelle che ci sono nei posti di lavoro, tanto che sono nati veri e propri programmi di promozione del loro uso. «Fare le scale sul posto di lavoro è stato associato a numerosi benefici per la salute, incluso un minor rischio di malattie cardiovascolari — dice la professoressa Ellinor Olander dell'Applied research centre in health and lifestyle interventions della Coventry University inglese, primo autore di un articolo su questo argomento pubblicato sul Journal of Environmental Psychology —. Le scale sono disponibili in molti posti di lavoro e un aumento del loro utilizzo è al momento un vero e proprio obiettivo di salute pubblica». Già in molti uffici inglesi sono stati varati programmi di incoraggiamento all'utilizzo delle scale invece che dell'ascensore, con risultati variabili, a seconda anche del livello di disponibilità degli ascensori e di affollamento nelle scale. Naturalmente, l'adesione migliore si è registrata per la discesa, mentre per la salita, com'è facile immaginare, l'ascensore impera. D. d. D. _________________________________________________ Corriere della Sera 13 Nov. ‘11 OMS: ATTIVITÀ FISICA PROMOSSA SUL WEB La «prescrizione» viene dall'Organizzazione mondiale della sanità: per stare bene un adulto, giovane o anziano che sia, dovrebbe camminare di buon passo per almeno 2 ore e mezzo la settimana. In Italia, però fa sport solo un terzo degli adulti, quasi un altro terzo è abbastanza attivo, tutti gli altri sono decisamente sedentari. Come promuovere, allora, l'attività fisica? Una buona risposta la fornisce «Azioni», un'iniziativa nata in Emilia Romagna e poi diffusasi a livello nazionale. Il suo sito (www.ccm-network.it/azioni/), collocato all'interno del portale del Ccm (Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie), si rivolge a istituzioni sanitarie e sportive, scuole, agenzie per il tempo libero, ma anche direttamente a tutti i cittadini. Interessante, proprio per i «non addetti ai lavori», la sezione «i numeri», in cui si spiegano i rischi della sedentarietà, si indicano le Regioni italiane in cui è più diffusa e, soprattutto, si chiarisce quanta attività fisica andrebbe fatta. Su YouTube è presente anche Azioni webTv, il canale video per diffondere ulteriormente l'iniziativa. ___________________________________________________ Corriere della Sera 6 Nov. ‘11 PER NAVIGARE SERVE UNA BUSSOLA di UMBERTO VERONESI Internet ha aperto orizzonti di comunicazione impensabili fino a pochi anni fa ed è divenuto, con la diffusione dei social network, motore dell'evoluzione culturale: offrendo a ogni persona, ovunque si trovi, la possibilità di interagire con il resto del pianeta, ha inaugurato l'era della partecipazione individuale. In medicina la Rete ha accompagnato il tramonto del paternalismo, a favore di una nuova relazione medico- paziente in cui il cittadino informato condivide le scelte di cura e partecipa alla tutela della sua salute. Internet è importante prima di tutto nella prevenzione, per sensibilizzare la popolazione sui comportamenti a rischio e sui corretti stili di vita, e indirizzarla alla diagnosi precoce. Oggi svolge un ruolo anche nella scelta del percorso di cura dopo la diagnosi: invece di basarsi sul "sentito dire", ricorrendo al parere, spesso contraddittorio e carico di emotività di amici o conoscenti, chi si trova nel dubbio, tramite il web, può accedere a informazioni razionali. È quello che abbiamo voluto fare creando Sportello Cancro, la prima guida online per il paziente oncologico. Oltre a offrire informazioni sullo stato dell'arte della ricerca e della cura dei principali tipi di tumore, il servizio contiene indicazioni obiettive sugli ospedali italiani, sulle loro attrezzature e il loro staff, e indica quelli che offrono le competenze migliori e le tecniche più avanzate in campo oncologico, in base a criteri universali. Il problema del web è infatti che, navigando, corriamo il rischio, nell'impossibilità di verificare le fonti, di muoverci in una sorta di "far west", dove l'informazione scientifica ha lo stesso peso di quella che si spaccia per scientifica ma che di scientifico non ha nulla. E così può accadere che il bisogno di speranza della persona angosciata dalla malattia la renda facile preda di millantatori che promettono ricette miracolose. Purtroppo non c'è filtro su web al desiderio di autopromozione dei proponenti. Che fare? Una formula sicura non c'è, ma in generale occorre diffidare delle soluzioni troppo facili, offerte da enti o persone non scientificamente riconosciute. Se è vero che per navigare non sempre è necessaria una rotta, ci vuole però almeno una bussola. La bussola per navigare in Internet è la coscienza individuale, l'autonomia di pensiero e la propria capacità razionale, strumenti essenziali per non farsi ammaliare da ogni canto di sirena. SE IL PRIMO MEDICO È IL WEB PERSINO PER I TUMORI Il problema rimane l'affidabilità delle fonti L a reazione è quasi sempre la stessa: «Devo saperne di più». Non appena si scopre di avere a che fare con un tumore la necessità d'informazioni è immediata: che tipo di cancro è? Dove curarsi al meglio? Quali sono le terapie da affrontare? Si può guarire? Uno schema che, stando alle più recenti statistiche, si è probabilmente ripetuto nel solo 2010 ben 13,3 milioni di volte. Tanti sono i nuovi casi di tumore registrati al mondo lo scorso anno, di cui oltre 250mila in Italia. Uno dei modi più veloci per trovare le risposte è tornare a casa e accendere il computer. «Internet, Facebook, Youtube, LinkedIn, Twitter possono aiutare e sono un potentissimo mezzo per lo scambio di notizie — dice Gordon McVie, ideatore e responsabile diecancerHub, una piattaforma gratuita presentata al Congresso della Società europea di Oncologia medica di Stoccolma come il primo social network su misura per il "pianeta cancro" —. Se i malati vogliono sapere, vuol dire che non ricevono dai medici risposte sufficienti». Secondo quanto riportato nell'Annuario Scienza e Società 2011 di Observa, un italiano su 5 fra i 16 e i 74 anni usa Internet per cercare indicazioni mediche, «ma la maggior parte (il 60%) trova difficile valutare l'affidabilità delle informazioni trovate sul web» spiega Massimiano Bucchi, fra i curatori dell'indagine. Il problema, infatti, sta tutto qui: pescare in rete siti attendibili e aggiornati. Stando ai dati di un sondaggio dell'Università La Sapienza di Roma (condotto nel 2010 nell'ambito di un progetto del ministero della Salute), Internet è ormai diventato un sostituto del medico di famiglia per 6 utenti su 10. Negli oltre 2300 questionari compilati online il 58% degli intervistati ha dichiarato di rivolgersi prima alla rete che al medico di base in caso di problemi di salute. Si cercano (e si trovano più rapidamente) notizie sulla malattia propria o di un familiare, su terapie ed effetti collaterali; informazioni sugli ospedali, recapiti per prenotare visite, nomi di medici e specialisti; infine, indicazioni su prevenzione e corretti stili di vita. E al primo posto dei desideri degli utenti ci sono le "pagelle" di Asl e ospedali, richiesti dalla metà del campione. I più propensi all'uso di Internet per la ricerca di notizie sulla salute sono le donne, i giovani e i soggetti con un livello socio- economico medio-alto. Anche dall'Indagine su cancro e informazione dell'Associazione italiana malati di cancro (Aimac) emerge il bisogno dei malati di sapere di più sull'iter diagnostico e terapeutico, sugli effetti collaterali, sul tipo di neoplasia. Necessità che potrebbero essere colmate da un buon dialogo con l'oncologo. Quando si tratta di comunicazione fra medico e paziente, infatti, moltissimo può e deve essere migliorato. Diversi sondaggi hanno dimostrato che, scioccati dalla notizia di avere un tumore, i malati capiscono meno della metà di ciò che viene detto loro durante i primi colloqui. «Noi oncologi stiamo imparando a modificare il nostro atteggiamento — dice Marco Venturini, presidente dell'Associazioni italiana di oncologia medica —. Prima era frequente che ci chiedessimo: "perché il paziente vuole una seconda opinione, che cosa c'è che non va nella mia?", oppure: "sono certo che malato e familiari hanno compreso quello che ho appena detto, che bisogno hanno di altre spiegazioni?". Ora abbiamo capito che molte domande restano senza risposta perché vengono in mente al paziente solo dopo aver parlato con lo specialista, perché il tempo a disposizione è poco, oppure perché il malato "non vuole disturbare"». E così i pazienti chiedono e si confrontano sempre di più su Facebook o Twitter e la questione, molto dibattuta, è se ciò che trovano possa essere attendibile. Sarebbe, in fondo, come fidarsi delle risposte che si ottengono dal vicino di casa o dal collega di lavoro. «Che però ci sono già passati, sanno come destreggiarsi, hanno riferimenti utili da darti» ha raccontato a Stoccolma Gilles Frydman, pioniere delle comunità mediche online e fondatore nel 1995 dell'Association of Cancer Online Resources (Acor). La sua storia è il tipico esempio di quanto avviene ogni giorno: in quell'anno a sua moglie fu diagnosticato un tumore del seno. Dopo aver ricevuto la notizia, Frydman si precipita sul web alla ricerca di informazioni. Trova un gruppo di discussione gestito da pazienti e familiari dove gli spiegano che il tipo di carcinoma di sua moglie non è aggressivo, che non c'è fretta e gli suggeriscono di rivolgersi a un centro specializzato. Ottiene così nomi, riferimenti, numeri di telefono. Happy end: la moglie è guarita solo con un intervento chirurgico mini- invasivo e lui ha creato Acor, che ama definire il portale della "saggezza condivisa". Serve però che ci sia controllo su quanto viene pubblicato, che gruppi e singole persone siano seri, che i contenuti siano sicuri. «In questi anni ho scoperto — ha detto Frydman — che le persone toccate dal cancro si specializzano sulla loro patologia e arrivano a livelli di conoscenza scientifica elevati. Così siamo in grado, nelle nostre communities, di parlare con un linguaggio comprensibile a tutti. E i moderatori di ogni gruppo, quasi tutti sopravvissuti al cancro, vigilano quotidianamente sui contenuti». LE COMUNITÀ VIRTUALI SONO UTILI MA SOLTANTO QUANDO SONO GARANTITE Dopo la dimissione dall'ospedale, pazienti e familiari restano soli, con la necessità di gestire gli effetti collaterali delle terapie o le conseguenze di un intervento chirurgico. La tentazione di cercare risposte su internet è irresistibile e, in questo contesto, i social network come Facebook o le varie "comunità virtuali" possono essere potenti mezzi per distribuire informazioni. Che si rivelino fonti di consigli efficaci, o pericolosi veicoli di notizie fuorvianti e dannose dipende soprattutto da chi li gestisce. Lo dimostra uno studio — presentato a Washington al Congresso annuale di Gastroenterologia, da ricercatori americani della Mayo Clinic — che ha coinvolto 65 pazienti trattati per un tumore dell'esofago. «È difficile per le persone a cui viene diagnosticata questa forma di cancro trovare informazioni utili ad affrontare l'iter di cure che li aspetta — ha spiegato l'autore, Herbert Wolfsen —. Per questo, nel 2008 abbiamo deciso di creare un gruppo su Facebook dove pazienti e familiari possono condividere le proprie esperienze. E dove si danno notizie corrette, ma dal punto di vista e con il linguaggio dei malati». Non a caso la stragrande maggioranza dei discorsi ruota intorno alle soluzioni pratiche per convivere con le conseguenze post-operatorie e i disturbi che, per chi è stato curato di carcinoma esofageo, riguardano soprattutto dieta, nutrizione e difficoltà a deglutire. La community si è rivelata un successo: è come una piazza di un piccolo paese in cui si trova sempre qualcuno con cui fare due chiacchiere per sentirsi meno soli. E persino meglio, perché chi incontri ha i tuoi stessi problemi e qualche consiglio utile per risolverli. Il tutto "sorvegliato" però da medici. «Il passaparola sul web è già una realtà — conclude Elisabetta Iannelli, presidente dell'Associazione italiana malati di cancro (Aimac) —. Soprattutto quando si torna a casa dopo il ricovero, i dubbi e le questioni pratiche da risolvere sono moltissime. Raggiungere l'oncologo, specie in tempi brevi, non è semplice. Accendere il computer e cercare risposte è facile, specie se trovi chi condivide la tua condizione. Il vero problema è che ci sia una garanzia sulla qualità di quanto viene pubblicato in rete. Che ci siano supervisori, non necessariamente medici, che vigilano perché quanto riportato abbia fondamento scientifico. Altrimenti il pericolo d'incappare in bufale o, peggio, in approfittatori senza scrupoli è molto alto». ________________________________________________________ Sanità News 4 Nov. ‘11 GLI ITALIANI SOTTOVALUTANO I RISCHI DERIVANTI DAL COLESTEROLO ALTO Il colesterolo e' il big killer del cuore ma gli italiani sembrano ignorarlo. Non lo misurano neppure. E non sanno cosa rischiano. L'allarme viene dagli esperti Alberico Luigi Catapano (Professore Ordinario di Farmacologia all'Universita' degli Studi di Milano e Presidente Eletto della Societa' Europea Aterosclerosi) e Claudio Borghi (Professore Ordinario di Medicina Interna all'Universita' degli Studi di Bologna) in occasione della conferenza stampa di presentazione di nuovi scenari terapeutici nella lotta al colesterolo alla luce dei risultati dello SHARP (Study of Heart And Renal Protection). In Italia ogni ora 26 persone vengono ricoverate per un problema di aterosclerosi coronarica e per malattie ischemiche del cuore, 14 persone hanno un infarto e 25 persone muoiono per un problema cardiaco. Non da' sintomi, non da' campanelli d'allarme eppure il colesterolo, e' tra i fattori di rischio per il cuore uno dei piu' temibili ma anche tra i piu' trascurati dagli italiani. C'e' chi non lo valuta proprio e chi pensa che per fronteggiarlo basti una piccola correzione nell'alimentazione. ''E' un triste destino che il colesterolo condivide anche, per esempio, con l'ipertensione. E' un problema culturale - dice Alberico Luigi Catapano - il medico e il paziente devono convincersi che la riduzione deve essere prolungata nel tempo (idealmente per il resto della vita una volta iniziata la terapia) e che solo cosi' si possono ottenere i benefici attesi''. ''Lo studio SHARP ha dimostrato due aspetti fondamentali - continua Catapano- in soggetti ad alto rischio di eventi cardiovascolari, quali sono i soggetti con danno renale cronico (CKD) o in dialisi sostitutiva della funzione renale, la terapia ipolipemizzante risulta altamente efficace nel ridurre gli eventi aterosclerotici; inoltre in soggetti politrattati e 'fragili' questo approccio terapeutico non evidenzia, nell'ampia popolazione studiata, alcun segno di aumento degli eventi avversi dovuti alla terapia ipolipemizzante''. Dunque, se la terapia in associazione si e' dimostrata cosi' efficace per pazienti difficili come quelli nefropatici a maggior ragione la lezione si applica a pazienti meno complessi. Ma il colesterolo non preoccupa gli italiani: nel nostro Paese ben 20 persone su cento, oltre i 18 anni di eta', non si sono mai controllati. I piu' indisciplinati sono i sardi (quasi 30 persone su cento ignorano gli esami per il colesterolo), i meno distratti sono gli emiliano-romagnoli (12,5 per cento). Nel nostro Paese per malattie del sistema circolatorio sono morte 225.588 persone (vale a dire 25 ogni ora), e di questi decessi 75.514 sono imputabili a malattie ischemiche del cuore. In un solo anno i ricoveri legati ad aterosclerosi coronarica e altre malattie ischemiche del cuore sono stati 230.065. Il Progetto Cuore dell'Istituto Superiore di Sanita' calcola che il 21% degli uomini e il 23% delle donne sono in ipercolesterolemia con un valore totale di colesterolo superiore a 240. E indica come 'border line' il 37% degli uomini e il 34% delle donne. ___________________________________________________________ Sanità News 4 Nov. ‘11 PASSI IN AVANTI NELLA PRODUZIONE DEL SANGUE SINTETICO Un team di ricercatori delle Università di Edinburgo e Bristol, coordinati dal professor Marc Turner, ha sviluppato una tecnica che consente di prelevare cellule staminali adulte dal midollo osseo e farle crescere in laboratorio fino a trasformarle in cellule che sembrano e agiscono esattamente come i globuli rossi. Una volta raffinata la tecnica, il gruppo di scienziati spera di poter passare alle cellule prelevate da embrioni, o a cellule della pelle riprogrammate, invece delle cellule staminali adulte perche' possono crescere piu' rapidamente e in maggiori quantita' in laboratorio. Il sangue ottenuto in questo modo potrebbe aiutare a superare molti problemi legati alla donazione come le infezioni che si trasmettono accidentalmente (oggi i rischi sono ridotti con l'epatite A e C ma persistono con la vCJD, la forma umana del morbo della mucca pazza) e la scarsa disponibilita' di sangue. Per esempio, sarebbe possibile ottenere sangue di tipo '0 negativo', che e' posseduto solo dal 7% della popolazione mondiale ma che potrebbe essere usato per il 98% dei pazienti. _________________________________________________ Corriere della Sera 13 Nov. ‘11 A.MANTOVANI «NOI MEDICI SIAMO COSTRUTTORI DI PONTI Così superiamo le trincee dei conflitti» ALBERTO MANTOVANI: CON IL VACCINO SALVATI 5 MILIONI DI BIMBI IN 10 anni «L a medicina come strumento che costruisce ponti». Ponti di pace. L'immunologo dell'Università degli studi di Milano e direttore scientifico dell'Istituto Humanitas di Rozzano, Alberto Mantovani, è lo scienziato chiamato a riflettere sul ruolo che i camici bianchi hanno come messaggeri di pace nel mondo. Anzi. Come promotori, con la loro azione e con i loro risultati, di un'umanizzazione che contrasta gli interessi di chi soffia sul fuoco della guerra. Alla terza edizione della conferenza mondiale Science for Peace, Mantovani rilancerà lo stesso accorato appello già amplificato a livello internazionale dalla rivista Nature Immunology: «Non siano i bambini del mondo a pagare il prezzo della grave crisi economica». La pace deve partire dalla salvaguardia di chi nasce senza bandiere, né ideologie, né religioni, né appartenenze tribali. I bambini nascono amici, fratelli. Nascono così e così andrebbero salvaguardati il più a lungo possibile. E questo è valido sia su scala «macro», ossia a livello di iniziative globali di tutela della salute, sia su scala «micro» ossia locale. «Ecco il primo grande ponte — entra nel merito Mantovani —: la salute infantile. Due milioni di bambini muoiono ogni anno al mondo perché non hanno accesso alle vaccinazioni. Ad affrontarlo con successo è Gavi (Global alliance for vaccines and immunization), un ponte per la pace su scala "macro" in prima linea da 10 anni in questa battaglia. Un'alleanza mondiale tra istituzioni pubbliche e privati che opera con l'obiettivo di migliorare la salute nei Paesi più poveri, accelerando la somministrazione di vaccini nuovi e sottoutilizzati e potenziando i servizi sanitari locali. Ne fanno parte governi donatori tra cui l'Italia, che partecipa in modo generoso e creativo, Paesi poveri, l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), le Nazioni Unite con il loro braccio per l'infanzia (l'Unicef), la Banca mondiale, produttori di vaccini degli Stati industrializzati e di quelli in via di sviluppo, istituzioni tecniche e di ricerca, Ong, la Fondazione Bill&Melinda Gates, personalità autorevoli che si sono distinte per la loro attività filantropica. Gavi ha salvato la vita a circa 5 milioni di bambini in 10 anni ed è stato strumento di pace in Paesi come il Mozambico. Gestisce fondi per circa un miliardo di dollari all'anno». E, in effetti, proprio i conflitti bellici sono uno dei motivi per cui non si riesce mai a raggiungere l'ultimo villaggio, quell'ultimo villaggio obiettivo dei medici per eradicare per esempio malattie come la Polio. O come la malaria che colpisce ogni anno 220 milioni di abitanti del pianeta, uccidendone quasi un milione. «Quasi metà della popolazione mondiale è a rischio malaria — ribadisce l'immunologo milanese — e risolverla è obiettivo di pace. Questo è un anno di speranze perché ci sono i risultati positivi della sperimentazione in fase III di un vaccino che se confermati promettono un'importante risposta al problema. Un vaccino frutto della ricerca militare statunitense. E c'è un nuovo farmaco efficace, le artemisine della cinese Tu Youyou che ha ricevuto il premio Lasker Award, il più alto riconoscimento nel mondo della medicina. Ricevuto dagli americani con cui il suo Paese era in guerra nel 1967, anno in cui Youyou cominciò le ricerche nei segreti della medicina tradizionale cinese di un antimalarico che proteggesse gli alleati vietnamiti». E i piccoli ponti? Le «micro» azioni locali? «Non meno importanti». Mantovani ricorda il medico israeliano Eitan Kerem, scopritore del gene della fibrosi cistica, e il suo progetto Gaza. Un centro di cura per i bambini, dove si forma personale medico e paramedico palestinese. «Anche nei momenti più critici è un ponte che non è stato mai interrotto. Dice Kerem: "I bambini quando nascono non sono né palestinesi né israeliani, sono bambini e basta"». Mario Pappagallo