6 Febbraio 2012 UNIVERSITÀ, LA VITTORIA DEI FUORI CORSO VIETATO ROTTAMARE I FUORICORSO TRENTA MILIONI PER IL CENTRO SERVIZI UNIVERSITARIO A MONSERRATO NUOVI LAVORI NELLA CITTADELLA UNIVERSITARIA MONSERRATO, ODONTOIATRIA NELLA SEDE DELL'EX CRIES CAGLIARI: ALLOGGI STUDENTI, SI PARTE L' OCSE ALLE UNIVERSITÀ: «TASSE TROPPO BASSE CHI PUÒ PAGHI DI PIÙ» ECCO PERCHÉ VALE LA PENA LAUREARSI NEGLI ATENEI DEL SUD CONCORSI PER 50 MILA RICERCATORI UNIVERSITÀ, IL PASSATO E IL FUTURO I BARONI MAFIOSI DELLA RICERCA SPENDING REVIEW ANCHE PER ENTI LOCALI E UNIVERSITÀ RICERCA E SALUTE, UN PAESE ANCORA DIVISO IN DUE PARTI LA GRANDE FUGA DALLE BUSINESS SCHOOL EUROPEE IL MAGO ITALIANO DEGLI ALGORITMI CHE È PRONTO A SFIDARE GOOGLE LE LINGUE SALVATE DALLA RETE LE LINGUE INVENTATE DALLA RETE LA POLITICA SEPARATA DALLA SCIENZA UN LIMITE DI VELOCITÀ PER I COMPUTER QUANTISTICI ========================================================= MEDICAL DEVELOPMENT: CAGLIARI SI ALLEA CON STOCCOLMA E CRACOVIA IN UN ATLANTE RUSSO LE CERE DI SUSINI-BOI AOUCA:ANCHE L’ISOLA AVRÀ IL CENTRO SUI FARMACI AOUCA:IL REFERTO SI RITIRA AL CENTRO COMMERCIALE INUTILE INVESTIRE PER RIDURRE I TEMPI NELLA SANITÀ BIOETICA: SIAMO PRONTI ALLA PILLOLA DELLA MORALITÀ? MEDICI, LO SPRECO MILIONARIO DELLE ETICHETTE SALVA PRIVACY NUORO: SIMANNU, IL FUTURO DELLA MEDICINA È QUI QUALI ESAMI PER LA MAMMELLA LO SCREENING È DANNOSO: ALLE DONNE RACCOMANDO LA SOLA AUTOPALPAZIONE» CAGLIARI: APPELLO DEGLI ONCOLOGI: PREVENZIONE FONDAMENTALE CONTRO LE RESISTENZE DEL GLIOBLASTOMA SASSARI: TUMORE DELLA PROSTATA: NUOVE FRONTIERE CON LA BRACHITERAPIA NEL CANCRO DELL'OVAIO BRCA1 E 2 AIUTANO LA PROGNOSI MASCHI E FERTILITÀ, RISCHIO CELLULARI PIATTI ALL'AZOTO E BISTECCHE DALLE STAMINALI ZUCCHERO PERICOLOSO COME L'ALCOL LE PAROLE NELLA MENTE: DAL SUONO AL SEGNALE NEURALE LE TRACCE CEREBRALI DEL RISCHIO DI DIPENDENZA LE TRACCE CEREBRALI DEL RISCHIO DI DIPENDENZA DUECENTOMILA ITALIANI SOFFRONO DI MALATTIE CRONICHE DELL’INTESTINO L'EUROPA E IL FENOMENO DELLE DEMENZE PAESI «PER VECCHI» NON SOLO «DI VECCHI» QUANDO LEIBNIZ E STAHL LITIGAVANO SULLA DEFINIZIONE DI «VIVENTE» LA CITTÀ PIÙ CARDIOPROTETTA D'ITALIA C'È PERSINO IL POLLICE DA SMARTPHONE IL MODO GIUSTO PER USARE IL TABLET ========================================================= __________________________________________ L’Unione Sarda 4 Feb. ‘12 UNIVERSITÀ, LA VITTORIA DEI FUORI CORSO Il Consiglio di Stato cancella le scelte dell'Ateneo: cade la decadenza dagli studi del 30 aprile VEDI LA FOTO Il Consiglio di Stato ha scritto il capitolo finale della lunga battaglia che ha opposto gli studenti da tempo fuori corso al rettore di Cagliari che, attraverso un apposito decreto, ne aveva disposto la decadenza. La decisione cancella quindi una precedente sentenza del Tar (che aveva rigettato il ricorso degli universitari) e rimette in corsa per il titolo tutti quegli studenti che, entro il prossimo 30 aprile, avrebbero altrimenti visto spegnersi la speranza di essere un giorno laureati. LA SENTENZA I giudici fondano la riforma della sentenza del Tar sul fatto che il principio di autonomia di cui ciascun Ateneo si serve per stendere il proprio regolamento didattico non può superare o integrare le disposizioni di carattere nazionale previste per l'Università. Di più: il decreto è stato adottato in violazione dei principi di condivisione democratica: «Il meccanismo - sottolinea l'estensore della sentenza - non può prescindere dalla ricerca del consenso della popolazione studentesca». «Il Consiglio di Stato - aggiunge poi l'avvocato Mauro Barberio che insieme ai colleghi Stefano Porcu e Carlo Tack ha rappresentato gli ormai ex “decadenti”, ha anche avvalorato la tesi secondo cui le norme adottate dall'Università non possono essere retroattive e quindi modificare le regole vigenti all'atto dell'iscrizione». GLI STUDENTI Soddisfazione tra gli studenti che hanno presentato il ricorso. Pierpaolo Batzella, primo firmatario e animatore della pagina Facebook “Nodecadenzastudi”, sottolinea: «È stato finalmente dichiarato illegittimo un decreto che, attraverso lo spauracchio della decadenza, ha ingiustamente costretto molti studenti a cambiare il proprio percorso di studi» e quindi a rinunciare alle proprie aspirazioni. «Ora penseremo solo a completare la carriera conseguendo questa agognata e sofferta laurea, che da oggi avrà per noi ancora più valore». Roberto Mura, rappresentante in Senato accademico per la lista “Uniti e liberi”, aggiunge: «Ci siamo opposti sin dall'inizio a questo provvedimento e in ogni sede abbiamo ribadito la nostra contrarietà. Ora si tratta di garantire che la sentenza venga attuata. Restiamo in ogni caso a disposizione di tutti gli studenti per qualsiasi chiarimento». IL RETTORE Giovanni Melis non entra nel merito della sentenza del Consiglio di Stato che annulla il suo decreto: «Ad oggi nessuno è stato dichiarato decaduto», sottolinea il rettore, «l'obiettivo del regolamento è sempre stato quello di stimolare gli studenti iscritti fuoricorso da anni a riprendere con regolarità gli studi». Tale obiettivo può dirsi ampiamente raggiunto perché «millecinquecento studenti, potenzialmente decadenti, concluderanno il proprio corso di laurea entro l'anno. Valuteremo il dispositivo della sentenza per comprendere come si possa continuare a garantire un efficiente servizio didattico su corsi che, anche per effetto delle varie riforme ministeriali, non sono più attivi da oltre un decennio». Manuela Arca __________________________________________ La Nuova Sardegna 4 Feb. ‘12 VIETATO ROTTAMARE I FUORICORSO CAGLIARI. Gli studenti in ritardo con gli esami finiti fuoricorso anche da anni non devono perdere il diritto di arrivare alla laurea in quello stesso corso di studi: è il Consiglio di Stato a stabilirlo, accogliendo il ricorso in appello presentato dagli avvocati Mauro Barberio e Stefano Porcu per conto di 202 giovani che in base al regolamento sulle carriere emanato dall’università di Cagliari il 28 maggio 2010 rischiavano di non prendere l’agognata pergamena. I giudici del Tar avevano dato ragione all’ateneo, riconoscendogli l’autonomia nella scelta delle regole di carriera studentesca e la necessità di non tenere aperti corsi di studi in fase di esaurimento in attesa dei ritardatari. Ma i giudici amministrativi supremi - la sesta sezione di palazzo Spada, relatore Giulio Castriota Scanderberg, presidente Luigi Maruotti - ieri hanno ribaltato la decisione cancellando in un colpo solo il regolamento impugnato, le delibere di approvazione del Senato accademico e quella del consiglio di amministrazione. A disincentivare le «lungodegenze» universitarie ritorna quindi in funzione la sola norma prevista dall’ordinamento italiano, che stabilisce la decadenza degli studenti che non abbiano sostenuto esami per otto anni consecutivi. Gli altri, poco alla volta, potranno avanzare verso la laurea senza trovarsi di fronte a una porta chiusa. Ma vediamo quali sono state le posizioni contrapposte finite all’esame dei giudici amministrativi dei due gradi. L’università di Cagliari aveva previsto la decadenza dai corsi di studio per le varie categorie di studenti iscritti in periodi diversi: in un caso avrebbero perso il diritto a concludere il corso se non avessero terminato gli esami entro un numero di anni pari al doppio della durata normale, in un altro entro il 30 aprile 2012 e in un altro ancora nel triplo degli anni previsti. La ragione dell’ateneo: attuare sino in fondo la riforma, dismettendo i corsi considerati esauriti. Se i giudici del Tar hanno valutato come legittime queste norme perchè ancorate all’autonomia degli atenei, i magistrati d’appello hanno osservato che «detta autonomia non può esorbitare dai principii generali fissati nell’ambito del regolamento attuativo» legando le scelte dell’università di Cagliari - e di tutte le altre - a una «cornice normativa generale». In pillole: il regolamento cui si sono opposti i 202 studenti sardi «non ha una base giuridica nella normativa nazionale» ma al contrario in base alle leggi in vigore «le università devono assicurare la conclusione dei corsi di studio e di rilascio dei relativi titoli secondo gli ordinamenti didattici previgenti agli studenti già iscritti alla data di entrata in vigore dei regolamenti stessi». Come dire che le regole non si possono cambiare quando la partita è già cominciata. Infatti - scrivono i giudici nelle ultime righe della sentenza - le «disposizioni regolamentari impugnate vanno annullate erga omnes ma nelle sole parti che risultano di pregiudizio per i ricorrenti di primo grado». Sembra di capire che l’Università potrà stabilire regole nuove, in linea con quelle statali, per gli studenti che si iscriveranno da ora in poi. Sulla sentenza il rettore Giovanni Melis ha osservato che «ad oggi nessuno è stato dichiarato decaduto. L’obiettivo del regolamento è sempre stato quello di stimolare gli studenti iscritti fuori corso da anni a riprendere con regolarità gli studi. Tale obiettivo può dirsi ampiamente raggiunto: ad oggi, infatti, 1.500 studenti, potenzialmente decadenti per effetto delle norme introdotte, concluderanno il proprio corso di laurea entro l’anno. Valuteremo il dispositivo della sentenza - aggiunge il rettore - per comprendere come si possa continuare a garantire un efficiente servizio didattico su corsi che, anche per effetto delle varie riforme ministeriali, non sono più attivi da oltre un decennio». (m.l) __________________________________________ L’Unione Sarda 4 Feb. ‘12 TRENTA MILIONI PER IL CENTRO SERVIZI UNIVERSITARIO A MONSERRATO Il Consiglio di amministrazione dell'Università ha approvato l'avvio dell'iter che porterà alla realizzazione della nuova “spina” dipartimentale della Cittadella universitaria di Monserrato. I nuovi edifici ospiteranno il Centro servizi di ateneo per la ricerca (Cesar) e i laboratori medico-scientifici. «Siamo in linea con il Piano strategico presentato con il programma elettorale», ha spiegato il rettore Giovanni Melis. «Il finanziamento atteso ammonta a circa 30 milioni di euro e i lavori dovrebbero essere ultimati entro tre anni». A progettare l'opera lo Studio professionisti associati dell'ingegner Aldo Vanini e dell'architetto Massimo Faiferri. Ieri in Cda è stato presentato il progetto preliminare del complesso edilizio. «La data odierna è storica - ha aggiunto il dirigente dell'Ateneo Antonio Pillai - perché si tratta di una iniziativa che implica il ripensamento di tutti gli spazi che si libereranno in città, compreso l'edificio della Clinica Macciotta che entro l'anno sarà liberato per effetto del completamento del blocco Q a Monserrato, e il San Giovanni di Dio». __________________________________________ La Nuova Sardegna 5 Feb. ‘12 NUOVI LAVORI NELLA CITTADELLA UNIVERSITARIA Sì al centro ricerca CAGLIARI. Passo avanti per la Cittadella universitaria di Monserrato. Il consiglio di amministrazione dell’ateneo ha approvato ieri mattina l’avvio dell’iter che porterà alla realizzazione della nuova spina dipartimentale della Cittadella. I locali ospiteranno il Centro servizi di Ateneo per la ricerca (Cesar) e i laboratori medico scientifici che attualmente si trovano ancora in alcuni punti della città. «Si tratta di un progetto - ha spiegato il rettore Giovanni Melis - cofinanziato dal piano per il sud. Contiamo che le risorse previste arrivino, altrimenti si procederà a lotti funzionali. Con questi interventi siamo in linea col piano della campagna elettorale: si razionalizzano così le strutture didattiche e di ricerca superando l’attuale dispersione in numerosi edifici». __________________________________________ L’Unione Sarda 2 Feb. ‘12 MONSERRATO, ODONTOIATRIA NELLA SEDE DELL'EX CRIES Domani in Consiglio il via libera definitivo per portare l'Università in centro. La seduta di domani, alle 17 nel Municipio di piazza Maria Vergine, segna l'ufficializzazione del protocollo d'intesa tra Comune e Ateneo cagliaritano. Il Consiglio avrà il compito di "autorizzare" l'Università e l'Azienda ospedaliera universitaria all'utilizzo dei locali dell'ex Cries. Al confine tra Monserrato e Selargius, a Paluna, proprio nell'edificio che sarebbe dovuto diventare una scuola grazie ai finanziamenti della legge Falcucci, sorgerà la sede della facoltà di Odontoiatria. I nuovi dentisti si formeranno proprio in città e la nuova "clinica" sarà anche sede di ambulatorio. Saranno proprio il rettore dell'Ateneo, Giovanni Melis, e il direttore generale del Policlinico, Ennio Filigheddu, a illustrare al Consiglio i programmi futuri delle due importanti istituzioni. Oltre ai lavori in corso nei locali della cittadella universitaria - strutture didattiche e scientifiche - il Policlinico è pronto a completare la costruzione della facoltà di Odontoiatria, nell'ex Cries. (s.se.) __________________________________________ La Nuova Sardegna 12 Gen. ‘12 ALLOGGI STUDENTI, SI PARTE Bando d’appalto per il campus di viale La Plaia CAGLIARI. La corsa a non perdere i 35 milioni di euro già nelle casse della Regione è servita: in questi giorni è stato pubblicato il bando della gara d’appalto per costruire il primo lotto della nuova casa dello studente, 240 posti letto più servizi vari lungo viale La Plaia nell’ex semoleria. Nella storia minore della città questo appalto ha un suo posto significativo: nasce da una volenterosa quanto inedita collaborazione tra Comune, Regione ed Ersu, mette in gara un’opera attesa da migliaia di studenti fuorisede, offre un’opportunità interessante di progettazione per i professionisti anche sardi e di lavoro per le imprese. L’appalto integrato complesso del bando ricalca infatti quello che un tempo si chiamava appalto concorso: si vince la gara per elaborare il progetto definitivo sulla base del preliminare presentato dal committente Ersu nel capitolato e da questo discende che il gruppo vincitore si fa carico anche del progetto esecutivo, quello necessario per aprire i cantieri. Come si ricorderà il campus di viale La Plaia è stato uno dei temi su cui l’ex sindaco Emilio Floris si era giocato il buon rapporto con la sua maggioranza in consiglio comunale e, ancora, il centrodestra cagliaritano l’aveva utilizzato come terreno per combattere la guerra politica a favore di Tuvixeddu contro il centrosinistra della Regione di Soru. Un tempo definitivamente tramontato: la Regione ha emanato le linee guida per l’Ersu sulla residenzialità studentesca (26 luglio 2011), il Comune di Cagliari ha aperto la discussione sull’accoglienza agli studenti, l’ufficio tecnico dell’Ersu ha lavorato sodo per rivisitare l’accordo di programma tuttora vigente tra Regione e Comune che si basava, però, su progetti da ricalibrare: negli ultimi anni, infatti, sono cambiate le leggi e le disponibilità finanziarie. Dai mille posti letto soglia minima stabilita per il complesso di viale La Plaia dalla legge regionale 4 del 2006 si è scesi al numero minimo di 500 nel 2009 con un provvedimento collegato alla finanziaria regionale. I soldi in cassa, infine, non erano abbastanza per costruire tutti e 500 i posti (che sono poi quelli complessivi della casa dello studente una volta finita) e quindi è stato necessario dividere in lotti il progetto interamente riveduto. Le offerte per partecipare alla gara dovranno arrivare entro il 27 aprile prossimo. Il progetto preliminare è per due caseggiati disposti a «L» affacciati uno su viale La Plaia e l’altro che guarda al parco ferroviario dove saranno ricavate le stanze per gli studenti e poi si prevedono altri edifici per biblioteca, archivi, mensa, palestra e auditorium. Nel bando non si considera il silos: bene vincolato, è forse il primo edificio in cemento armato costruito a Cagliari, presenta ancora tracce del Liberty del tempo, la struttura rende difficile un riuso e quindi l’ipotesi resta quella di restaurarlo e trasformarlo in un contenitore in cui conservare i libri e poi affiancarlo con sale di lettura. Infine: quanto tempo ci vorrà perché il primo studente ci possa entrare? La risposta è rinviata al giorno in cui i vincitori si saranno aggiudicati la gara. (a.s) __________________________________________ Corriere della Sera 1 Feb. ‘12 L' OCSE ALLE UNIVERSITÀ: «TASSE TROPPO BASSE CHI PUÒ PAGHI DI PIÙ» Una fotografia del sistema universitario lombardo e delle sue interazioni con le imprese e le conseguenti raccomandazioni dell' Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Il progetto, finalizzato ad analizzare l' impatto delle università sullo sviluppo regionale, è stato presentato ieri: a un' autovalutazione degli atenei sono seguite visite di esperti Ocse per formulare 41 indicazioni per il governo nazionale, regionale e per le università. Fra le raccomandazioni Ocse «la necessità di rafforzare il trasferimento tecnologico con il mondo dell' impresa e delle istituzioni». E uno dei temi sviluppati alla conferenza di Eupolis (l' Istituto per ricerca e formazione della Regione, che ha coordinato il progetto) è stato quello delle tasse universitarie. «Sono scandalosamente basse in Italia, un' eccellenza come il Politecnico costa come un asilo - ha commentato Carlo Secchi (foto) , senior professor ed ex rettore Bocconi -. Gli studenti più abbienti dovrebbero pagare di più, per poter aumentare borse di studio e aiuti per quelli a baso reddito. Il servizio pubblico chi può lo deve pagare». F. C. RIPRODUZIONE RISERVATA Cavadini Federica __________________________________________________________ Il Mattino 2 Feb. ‘12 ECCO PERCHÉ VALE LA PENA LAUREARSI NEGLI ATENEI DEL SUD Gianmaria Palmieri* Intervengo sul tema I dell'abolizione del valore legale della laurea e sulla questione se ancora valga la pena studiare presso un'Università del Sud. Con riferimento al primo tema, confesso che non ho ancora compreso quali vantaggi potrebbero derivare dalla abolizione del valore legale della laurea. Francamente, sono convinto che si tratterebbe di un provvedimento controproducente, sia sul piano della formazione, sia sul piano della valorizzazione del merito. D'altra parte il riconoscimento del valore legale, contrariamente a quanto pur autorevolmente si dice (vedi l'intervento del ministro Giarda sul «Mattino» di ieri), non rappresenta certo un unicum italiano. Basti osservare quanto prevedono i sistemi tedesco, francese e spagnolo, con riguardo all'accesso alle professioni. La rimozione del presupposto della laurea per l'accesso a professioni o carriere alleggerisce il percorso formativo, disincentivando lo studio di quelle materie indispensabili alla formazione di una professionalità responsabile, ma non al superamento di una prova selettiva di un concorso o di un bando di assunzione. Sotto il secondo profilo, è quanto meno ingenuo credere che l'abolizione del valore legale del titolo e del voto di laurea favorisca il merito, consentendo una valutazione più oggettiva di un candidato ad un posto di lavoro o ad una funzione pubblica. A me pare evidente il contrario. Lo slogan «non conta il pezzo di carta ma la preparazione effettiva» è apparentemente persuasivo. Tuttavia, si rivela molto poco convincente se si considera che il «pezzo di carta» costituisce un traguardo cui si giunge dopo trenta-quaranta esami sostenuti nell'arco, se si procede senza intoppi, di tre-cinque anni. Come ri-tenere dunque il diploma di laurea meno affidante di una singola prova selettiva rimessa alla discrezionalità, e talvolta purtroppo agli abusi, di una singola Commissione? E vengo alla seconda questione. Vale la pena laurearsi al Sud? Se si prestasse fede a quanto oggi comunemente si legge e si ascolta, la domanda non avrebbe nemmeno motivo di essere posta, tanto scontata appare la risposta. Le valutazioni degli Atenei operate dal Ministero collocano infatti i nostri in posizioni a dir poco di rincalzo. Il discor-so dovrebbe essere dunque chiuso. I dati della realtà, tuttavia, delineano un quadro diverso, che smentisce i luoghi comuni e che dimostra come valga ancora la pena laurearsi nei nostri Atenei, i cui standard qualitativi si uniformano in media a quelli del resto del Paese. Nei più rigorosi concorsi pubblici le posizioni di vertice, ancora oggi, sono occupate da un numero ragguardevole di laureati provenienti dalle università meridionali, che pur sono richiestissimi dalle imprese private ove muniti di adeguata specializzazione. E non è casuale che alcune tra le più rinomate e pubblicizzate Università private si avvalgano di tantissimi docenti di ruolo nelle Università del Sud. __________________________________________________________ Il Manifesto 31 Gen. ‘12 CONCORSI PER 50 MILA RICERCATORI Roberto Ciccarelli• Cinquantamila concorsi per i ricercatori universitari entro il 2018, rifinanziamento del diritto allo studio, ritiro dei tagli ai fondi di atenei. La Flc-Cgil chiede al governo Monti lo stanziamento straordinario di 2,5 miliardi di euro per l'università e I miliardo per gli enti di ricerca. Il progetto è stato presentato ieri da Domenico Pantaleo, segretario generale Flc-Cgil, per affrontare la doppia emergenza che gli atenei affronteranno nei prossimi mesi. In primo luogo, c'è l'ingorgo prodotto dalla riforma Gelmini che ha messo nello stesso calderone i ricercatori strutturati (24.939) e quelli precari (25.204). La legge crea le condizioni per una «guerra» tra ricercatori e precari che si contenderanno un posto da professore. Poi c'è il blocco delle assunzioni che, insieme al ritardo dell'approvazione del decreto sull'abilitazione nazionale alla prima e alla seconda fascia di insegnamento, rischia di espellere due generazioni di precari dall'università. Visto che i tempi dell'abilitazione si allungano olte misura, Flc propone di procedere immediatamente al reclutamento di 30 mila ricercatori a tempo determinato («di tipo B», la famosa tenure track) e 20 mila nuovi professori associati. «In questo modo - spiega Francesco Sinopoli, segretario nazionale della Flc - ci sarebbe un ricercatore ogni venti studenti, secondo quella che è la media Ocse e si risolverebbe l'assurdo prodotto da questa legge che crea due tipi di ricercatori precari: solo uno potrà essere assunto». Il reclutamento straordinario, insieme alla cancellazione del taglio di 1,3 miliardi al fondo per gli atenei imposto dal governo Berlusconi e accettato da Monti, è necessario per invertire il calo dei docenti che passerà, entro il 2018, dagli attuali 62.700 a poco più di 44 mila, collocando il nostro paese agli ultimi posti tra i paesi avanzati. «Un solo dato può far capire il dramma che stiamo vivendo - aggiunge Pantaleo - in Germania solo i docenti sono all'incirca 170 mila. Se non invertiamo questa tendenza, l'università tornerà ad essere un'istituzione riservata a poche élite, com'era prima del 1968». Nel ventaglio delle proposte per «ricostruire l'Italia», Flc ha inserito una serie di misure che prevedono il rifinanziamento del diritto allo studio (oggi fermo a 98 milioni di euro, in Germania è a quota 1,4 miliardi), la scuola e gli enti di ricerca. «Per questi ultimi - continua Pantaleo - riteniamo indispensabile un miliardo di euro che servirà ad incrementare il loro fondo annuale e anche a stabilizzare i precari». Fortemente contraria all'abolizione del valore legale del titolo di studio («scompone l'omogeneità del sistema universitario e produrrebbe un sistema diviso tra chi ha risorse e chi non le ha»), Flc propone anche di «introdurre il meccanismo della chiamata diretta», un'idea che potrebbe rivoluzionare il sistema dei concorsi. «Il governo Monti - conclude Pantaleo - ha un'attitudine ad ascoltare, ma non a confrontarsi. Francamente non vedo un'inversione di tendenza rispetto a quello precedente». __________________________________________________________ Il Manifesto 2 Feb. ‘12 UNIVERSITÀ, IL PASSATO E IL FUTURO Giuliano Volpe Da alcuni mesi i temi relativi al mondo dell'Università sono al centro del dibattito e conquistano le prime pagine dei giornali. Questa attenzione è un bene, perché è solo attraverso una nuova centralità dell'alta formazione, della ricerca e dell'innovazione che il nostro paese, con preoccupante ritardo rispetto ad altri, può recuperare slancio. Non poteva forse essere altrimenti con un Consiglio dei Ministri presieduto e composto da tanti rettori e da professori universitari. Francesco Profumo è persona seria, di grande competenza e disponibile al confronto. Il paragone con il recente passato segna, quindi, un progresso straordinario, soprattutto dopo una stagione di delegittimazione sistematica, al quale contribuiva non poco una ministra che ha brillato per incompetenza. Ma queste indubbie doti possono trasformarsi in armi ancora più `pericolose' per affermare solo una certa idea di università, modellata sull'esperienza, importante ma settoriale, dei politecnici, su una netta differenziazione tra università di serie A, B e C, tra università di ricerca e università di insegnamento: un modello che a più riprese emerge nelle dichiarazioni del Ministro, ben supportato in questo da vari giornali, primi fra tutti il Sole 24 Ore e il Corriere della Sera. Sostanzialmente si tratta del modello di una università di élite, prevalentemente pensata per alcuni atenei del centro-nord e fondata sulla maggiore disponibilità di risorse finanziarie Profumo, del resto, è stato tra i principali ispiratori di Aquis, l'associazione di alcune università autodefinitesi di qualità che alcuni anni fa ha inferto il primo dura colpo alla coesione solidale del sistema universitario italiano, tra i suggeritori della legge `Gelmini e dei parametri per l'assegnazione 'premiale' che in questi ultimi anni, nel quadro di un generale sotto finanziamento delle università, hanno tolto risorse ad alcune università; prevalentemente meridionali, trasferendole ad altre, prevalentemente settentrionali. Il dato è fin troppo evidente anche nel' l'assegnazione del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) del 2011, effettuata dal Ministro nello scorso mese di dicembre. Come abbiamo sottolineato, con i colleghi rettori delle sei università di Puglia, Basilicata e Molise riunite in un progetto di Federazione (UniSei, Università dei Sud Est d'Italia), in una lettera aperta al Ministro Pro fumo, sull'assegnazione dei fondi `premiali', tra i 27 atenei centro-meridionali solo 2 appaiono, peraltro piuttosto marginalmente, 'virtuosi', mentre tra le 27 università del centro-nord ben 23 rientrano in questa `fortunata' categoria. Se non vogliamo ricorrere ad interpretazioni `antropologiche' di stampo leghista, è evidente che c'è qualcosa che non va nel sistema. La risposta sta forse in un meccanismo segnato da una delle più assurde ed inique sperequazioni di questo paese, che tratta in maniera profondamente diversa i cittadini studenti a seconda dell'università scelta. Il finanziamento pubblico alle università, consolidatosi negli anni, spesso anche grazie a rapporti privilegiati di certe realtà con il potere politico, vede, infatti, assegnazioni profondamente diverse alle università in relazione al numero degli studenti iscritti: da un massimo di 6.500 euro per studente ad un minimo di poco più di 2.200 euro (dati 2010). Un paese che si accalora quotidianamente nel calcolo dello spread tra btp e bund, non si accorge di ben altri più drammatici spread che penalizzano studenti teoricamente con uguali diritti. È illuminante la distribuzione geografica degli atenei rispetto alla media nazionale: dei 27 atenei sovra finanzati solo 8 hanno sede al centro-sud, e, naturalmente, dei 27 atenei sottofinanziati solo 8 sono del centro-nord. Se sovrapponiamo queste due liste, emerge chiaramente che alcune Università non sono sovrafinanziate perché "virtuose", ma risultano "virtuose" proprio in quanto sovrafinanziate! Con questa analisi non voglio affatto scatenare una guerra tra Università. Anzi. Vorrei solo segnalare una situazione di grave iniquità da risolvere al più presto, attraverso un processo perequativo che non ne danneggi nessuna, ma, al contrario, garantendo una crescita dell'intero sistema universitario nazionale, ricco di tante specificità e diversità, con università di antica tradizione e università giovanissime spesso nate in territori difficili e depressi, università specialistiche e università generaliste, università con o senza le facoltà di Medicina e i Policlinici e università con importanti settori umanistici, che costituiscono una straordinaria risorsa del paese, riconosciuta a livello mondiale, che rischiamo di distruggere in un improbabile confronto con gli ambiti tecnologici tipici dei politecnici. Un confronto corretto non può prescindere dalle tante specificità, dalle diverse missioni di ciascuna università e da un'attenta analisi del contesto in cui ogni ateneo opera. Lasciando da parte le discussioni alquanto sterili sulla falsa questione del valore legale del titolo di laurea, che ritorna periodicamente ed ha occupato grande spazio negli ultimi giorni (l'ex sottosegretario Luciano Modica ha ben spiegato su Europa del 26/1 le ragioni per cui si tratta di un problema posto male) e che anche il governo Monti ha deciso di ridimensionare, vorrei richiamare l'attenzione sulla vera partita che si giocherà nei prossimi mesi che riguarda due questioni, tra loro intrecciate, dalle quali dipende il futuro dell'intero sistema universitario: la revisione del sistema di finanziamento pubblico e l'accreditamento delle sedi universitarie e dei corsi di studio. Abbiamo visto quanto sia iniquo l'attuale sistema di finanziamento. Attualmente ogni università viene considerata 'virtuosa' sulla base del rapporto tra due fattori: il Ffo e il costo del personale, che non deve superare il 90% del Ffo, peraltro negli ultimi anni fortemente ridotto, tanto da condannare molti atenei, incolpevoli, a superare la fatidica soglia. Alle università over 90% sono impedite l'assunzione di altro personale (anche a fronte di ingenti pensionamenti), l'assegnazione di fondi straordinari come quelli del piano per i professori associati e altre facilitazioni. Poco importa se una università ha un bilancio sano, non ha debiti e svolge egregiamente le attività di ricerca e di didattica. Si è condannati al blocco! È allo studio del Miur un decreto che modificherà questo rapporto. Dalle prime indiscrezioni sembra che la 'virtù' sarà misurata in base al rapporto, che non dovrà superare 1'80%, tra il costo complessivo del • personale e le entrate certe, costituite dal Ffo e dalla tasse studentesche, oltre che da eventuali altri contributi di enti pubblici e privati. A fronte di un Ffo progressivamente ridotto e distribuito in maniera iniqua, è evidente che questa misura finirà per premiare quelle università con una tassazione studentesca alta e imporrà a tutti gli atenei di aumentare le tasse, cosa quasi impossibile, oltre che ingiusta, in alcuni contesti sociali. Attualmente la legge fissa massimo al 20% del Ffo l'entità delle entrate dalle tasse studentesche, ma tale limite è stato impunemente superato da molte università, anzi spesso anche premiate nell'assegnazione del Ffo. Cosa prevederà il nuovo decreto in tal senso? Come non tener conto che nelle università italiane statali le tasse mediamente oscillano da un minimo annuo di 250-300 euro ad un massimo di 1.500-1.700 euro e che in alcune aree del paese ci sono migliaia di ragazzi che non pagano, giustamente, nemmeno un euro di tasse a causa delle difficili condizioni familiari e che di essi si occupano esclusivamente le università con i propri bilanci senza ricevere il minimo sostegno integrativo statale, pur previsto da una legge del 2001 mai applicata? Come non considerare che in alcune aree fondazioni bancarie, enti locali e imprese possono garantire sostegni altrove impensabili? Come non considerare che, ad esempio nella università di cui sono rettore, ben 1'82% dei laureati sono figli di genitori privi di un titolo di laurea, e di questi addirittura il 38% ha genitori del tutto privi di, titoli di studio (rispetto al 25,7% della media nazionale), o, ancora, che il 34% (rispetto al 24,2% della media nazionale) appartiene alla classe operaia? Eppure questa giovane università ha bravi 'docenti e ricercatori, con una buona produzione scientifica come emerge da classifiche internazionali (Sir 2001), ha intensi rapporti con le imprese, sta facendo nascere società giovanili di spin-off. Insomma, si rischia ancora una volta che quelle università che ricevono dallo Stato meno ,della metà della quota di finanziamento pubblico per studente rischino di essere ulteriormente penalizzate a causa della bassa incidenza della loro tassazione studentesca. In qualche modo collegato è il tema dell'accreditamento, previsto dalla legge `Gelmini' Molto dipenderà da come verrà realizzato, se, cioè, con il giusto obiettivo di fissare in maniera equa e condivisa requisiti minimi di qualità, al di sotto dei quali un corso non può essere attivato, oppure in modo da ricavare una graduatoria di università e corsi di serie A, B, C, affidando a questo sistema, di fatto, l'abolizione del valore legale del titolo. Se così fosse, potrebbe verificarsi che un mediocre studente laureato nell'università A, magari perché appartenente ad una famiglia facoltosa in grado di garantire i costi di un trasferimento in una città lontana e il pagamento di tasse alte, sia valutato legalmente meglio di un laureato eccellente in una università B. Si stabilirebbe così uno strano concetto di valutazione delle capacità individuali e di meritocrazia. Il rischio concreto è che si scivoli progressivamente, annullando anni di battaglie politiche e di lotte studentesche, verso un'università di élite solo per alcuni, lasciando alle masse di studenti meno fortunati una formazione qualitativamente scadente, in sedi minori, dalle quali anche i docenti migliori inevitabilmente fuggiranno. Del resto questo governo, che, come ha acutamente osservato il presidente del Censis Giuseppe De Rita, non è un semplice govemo tecnico ma è un governo espressione dell'elite, sembra associare allo stileggoroso e allo spirito di servizio una sorta di sentimento, certo non dichiarato, di superiorità e distanza dal popolo e dalle sue espressioni politiche, per il quale e al di sopra del quale si assume il compito di decidere. In questo momento cruciale, l'università italiana dovrà decidere se stare dalla parte dell'élite o valorizzare la sua connotazione democratica, garantendo a tutti reali pari opportunità e applicando il principio costituzionale secondo il quale «i capaci e meritevoli, anche se privi di Mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». * Rettore dell'Università di Foggia La vera partita che si giocherei nei prossimi mesi riguarda due questioni, tra loro intrecciate: la revisione del sistema di finanziamento pubblico e l'accreditamento delle sedi universitarie e dei corsi di studio __________________________________________ Il Sole24Ore 5 Feb. ‘12 I BARONI MAFIOSI DELLA RICERCA L'oncologo e scrittore denunciò il dogmatismo e «la vulnerabilità degli studiosi alle pressioni degli interessi finanziari» Gilberto Corbellini Come ricorda Umberto Terracini nella prefazione al libro che Domenico Ribatti ha dedicato all'oncologo e scrittore Lorenzo Tomatis, questi è stato tra gli scienziati italiano colui che per primo e più incisivamente ha «descritto la fragilità della scienza e la vulnerabilità degli studiosi alle pressioni degli interessi finanziari», e che ha «denunciato la povertà di valori etici nell'ambiente scientifico». Il libro di Ribatti si apre con'introduzione al concetto del cancro come malattia multifattoriale, e l'insistenza sul fatto che tra questi fattori l'ambiente non può e non deve essere dimenticato: un messaggio prezioso in un'età in cui la ricerca eziologica in medicina tende a subire, sotto la spinta di varie convenienze, una regressione epistemologica e a concentrarsi sui fattori genetici quali cause più importanti delle malattie. La biografia di Tomatis, morto nel 2007, racconta quindi di uno dei tanti cervelli che se sono andati all'estero per formarsi e che poi non sono più riusciti a tornare in Italia, trovando però facilmente lavoro e riconoscimenti internazionali (senza dover ossequiare nessun barone italiota ma facendo un semplice colloquio), lavorando dal 1967 all'International Agency for Research on Cancer di Lione. Dello Iarc Tomatis sarebbe diventato direttore nel 1982, per rimanere in quel ruolo fino al 1993. Dallo Iarc e dall'impegno scientifico e politico di Tomatis sono uscite famosissime pubblicazioni (le Monografie Iarc) che hanno diffuso nel mondo medico le prove sulla natura cancerogena di numerose sostanze ambientali, come l'asbesto o il cloruro di vinile. E Tomatis è stato uno dei protagonisti dell'affermarsi dell'epidemiologia per l'identificazione dei fattori di rischio ambientale, soprattutto nei contesti occupazionali. Tomatis si è direttamente reso conto delle insidie che nasconde il rapporto economico tra ricerca biomedica e industria privata e ha formato una generazione di epidemiologi e medici italiani particolarmente attenti e preparati a studiare il problema del conflitto di interessi in modo documentato e non sulla base di pregiudizi ideologici. Il libro di Ribatti contiene una bibliografia degli scritti di Tomatis, dove, tra articoli scientifici e monografie sull'epidemiologia ambientali dei diversi tumori, spiccano opere di grande qualità letteraria e impegno civile. Come non ricordare, tra questi, Il laboratorio, pubblicato da Einaudi nel lontano 1965 e ristampato da Sellerio nel 1993. Un affresco unico, allo stesso tempo divertente e amaro, delle esperienze di un giovane scienziato italiano che "emigra" negli Stati Uniti, dove si amalgamano il racconto della vita di laboratorio e una spiegata analisi delle differenze tra il sistema della ricerca statunitense e quello italiano. Come nelle denunce di Adriano Buzzati Traverso, si trova in quel libro una delle più spietate descrizioni della casta di baroni italiani, politicamente mafiosi e scientificamente ignoranti, che si preoccupavano solo di farsi costruire studi spaziosi e costosi (praticamente miniappartamenti) all'interno delle università, lasciando languire o affossando la ricerca e comportandosi sul piano psicologico verso i giovani come ottusi primati nel ruolo di maschi alfa. Nel 1985 Tomatis pubblicò da Garzanti La storia naturale del ricercatore. Il mondo della ricerca visto dall'interno. A chi scrive quel libro non piacque perché si avvertiva un compiacimento "interessato" ad attaccare la scienza in generale sulla base di un'impropria generalizzazione, cioè che i ricercatori fossero tutti e sempre al servizio di qualcuno, e che anche quelli che rivendicavano l'oggettività della conoscenza scientifica fossero degli ipocriti - per la verità Tomatis li definiva coglioni. Però voglio citare un passaggio di quel libro che, tenendo conto dell'evoluzione recente di alcune comunità scientifiche, oggi potrei anche sottoscrivere: «I ricercatori somigliano di più a sociologi che a innovatori rivoluzionari, si identificano, e finiscono per amare i dogmi. Come i sociologi trovano gran difficoltà a immaginare veri cambiamenti che li costringerebbero a mettere in discussione un dogma. Gli eretici sono rari tra i sociologi come lo sono tra i ricercatori». © RIPRODUZIONE RISERVATA Domenico Ribatti, Lorenzo Tomatis. La ricerca medica tra cura e profitto, Stilo Editrice, Bari, pagg. 110, € 10,00 __________________________________________________________ Il Sole24Ore 2 Feb. ‘12 SPENDING REVIEW ANCHE PER ENTI LOCALI E UNIVERSITÀ Marco Rogari ROMA Le Anche gli enti locali e le università dovranno eliminare sprechi e inefficienze e ridurre le spese superflue. A prevedere una spending review allargata, e quindi non solo limitata ai ministeri e agli enti pubblici, è il piano che sta allestendo l'apposito Comitato sulla riqualificazione della spesa, guidato dal ministro dei Rapporti con il Parlamento, Piero Giarda, e del quale fanno parte il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, e il vic e ministro dell'Economia, Vittorio Grilli. Una bozza che, al momento, sembra essere concentrata prevalentemente sul metodo e sulla strategia da seguire (il lavoro sulle cifre sarebbe anche a una fase embrionale) ma che potrebbe comunque essere sottoposta già entro entro lat.-me di questa settimana al premier Mario Monti per una prima valutazione. L'intenzione è di accelerare il più possibile. Dopo il via libera arrivato la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri alla sperimentazione della spending review nei primi tre ministeri (In temo, Istruzione e Affari regionali), il Comitato guidato da Giarda ha continuato a lavorare al piano vero proprio che dovrebbe garantire almeno 5 miliardi di risparmi, ma non si esclude di poter arrivare a quota 10 miliardi. Per giungere a una stesura definitiva del piano dovrebbe servire qualche altra settimana. In ogni caso l'idea resterebbe di procedere con interventi in più tappe. E non è escluso che nel programma di spending review possa essere inserito un apposito capitolo dedicato alle Province. Una sollecitazione a una riflessione su questo nodo è arrivata, del resto, anche dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il Governo, in attesa di una revisione articolata dei livelli di governo, sembra orientato a tentare un nuovo intervento per eliminare anzitutto la gran parte delle strutture «collaterali» che gravitano attorno alle Province redistribuendone i compiti tra Comuni e Regioni. Resta poi sul tappeto l'opzione relativa a un'ulteriore riduzione dei costi di funzionamento accorpando i servizi svolti da più Province (magari fissando un soglia minima di abitanti). Quello degli enti locali resta uno snodo chiave Lo stesso rapporto elaborato nei mesi scorsi da Giarda su incarico dell'allora ministro Giulio Tremonti evidenzia come nei fussi di spesa di Comuni e Province sia presente più di un'anomalia E una voce sicuramente destinata ad essere interessata dalla cura anti-sprechi è quella delle uscite per acquisti di beni e servizi (valore complessivo di 4o miliardi) dove a far registrare i maggiori incrementi sono proprio Regioni ed enti locali. Intanto nei primi tre ministeri dove è scattata seppure in via sperimentale la spending review'si stanno mettendo a punto le misure anti-sprechi. Il ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri, ha già annunciato che uno degli interventi sarà quello della rivisitazione deipresidi delle Forze di polizia sul territorio per evitare duplicazioni e razionali7zare le risorse umane e finanziarie. Al ministero dell'Istruzione si sta valutando una riduzione dei dipartimenti o' delle direzioni generali. Un'analoga "potatura" dovrebbe essere attuata a breve alla Presidenza del consiglio dove Monti punta a realizzare in tempi molto rapidi una riorganizzazione interna. __________________________________________ Corriere della Sera 26 Gen. ‘12 RICERCA E SALUTE, UN PAESE ANCORA DIVISO IN DUE PARTI Il Paese è diviso, da sempre. E non solo socialmente, anche sulla scienza. Ce lo dicono i dati sulla produzione scientifica degli Irccs elaborati dal ministero della Salute e anticipati in questi giorni dal Sole 24 ore Sanità. Sui 43 Ircss attivi a livello nazionale (di recente diventati 45, 20 pubblici e 25 privati), il primo per produzione scientifica nell' anno 2010 è risultato essere il San Raffaele di Milano con 856 pubblicazioni e 3.971 punti di impact factor normalizzato. La sua produzione scientifica da sola equivale a quella complessiva dei 9 Ircss del Sud Italia. Nella classifica tra le prime 10 istituzioni per attività scientifica, 7 sono lombarde. Degli attuali 45 Irccs, 9 sono siti al Sud, 10 al Centro e 26 al Nord. Il loro finanziamento, che negli anni è andato progressivamente diminuendo passando da 200 milioni di euro nel 2008 a 158 nel 2011 (una parte è stata poi destinata alla ricerca finalizzata), pare però aver poco a che fare con la valutazione della produzione scientifica. L' allocazione dei fondi, come già denunciato dal «Corriere» nell' aprile 2010, sembra per lo meno stravagante. L' impressione che si ha scorrendo i dati ministeriali è che chi meno produce, scientificamente parlando, abbia accesso a maggiori fondi, e viceversa. Valga un esempio per tutti: l' Ospedale Maggiore di Milano al secondo posto per produttività scientifica è invece tra gli ultimi per finanziamenti. L' idea è oggi di correggere la rotta cercando sempre più di introdurre norme internazionalmente accettate che garantiscano la trasparenza, l' obiettività e la validità scientifica degli investimenti di risorse. Il ministero ha poi, di recente, siglato un accordo con una maxi banca dati di pubblicazioni di un importante istituto straniero per la valutazione non solo della produzione scientifica ma anche dell' assistenza in base a criteri estratti dalle schede di dimissioni ospedaliera. L' obiettivo è di promuovere una ricerca scientifica che abbia effettive ricadute dirette sul malato e che non sia, come talvolta accade, solo fine a se stessa. L' altra strategia mira invece a favorire chi è in grado di sviluppare partnership di ricerca con paesi esteri, in particolare europei. sharari@hotmail.it __________________________________________________________ Milano Finanza 4 Feb. ‘12 LA GRANDE FUGA DALLE BUSINESS SCHOOL EUROPEE I giovani preferiscono iscriversi ai master delle scuole asiatiche di Melissa Korn La crisi dell'euro sta mietendo altre vittime: gli studenti dei Master in Business Administration (Mba). Stando al Graduate Management Admission Council, che gestisce l'esame di ammissione standard alle business school, Fanno scorso le richieste d'iscrizione sono diminuite in due scuole europee su tre. Sono state danneggiate anche le scuole di Svizzera e Gran Bretagna. Per gli studenti europei che se le possono permettere, le scuole d'oltreoceano rappresentano un biglietto da visita per ottenere posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione spagnolo, al 22,9%, ha dissuaso alcuni cittadini dall'iscriversi alla prestigiosa Tese di Barcellona, i cui iscritti sono diminuiti del 5%. Marcel Aldoma Gelonch, di Barcellona, ha scelto di non tentare l'iscrizione allo Tese ma ha puntato sulla Fuqua della Duke University. Attualmente studente del secondo anno alla Fuqua, Gelonch temeva che, se fosse rimasto in Spagna, la lenta ripresa economica europea avrebbe ostacolato il suo sviluppo professionale. E, nel caso fosse riuscito a trovare lavoro, le nuove tasse imposte dal governo spagnolo avrebbero ridotto drasticamente le sue entrate. Le iscrizioni ai corsi di business non sono diminuite solo in Europa. Le domande negli Stati Uniti sono aumentate improvvisamente all'inizio della recessione, ma ora il trend si è invertito poiché l'economia è ancora fragile. Negli Stati Uniti le domande di iscrizione all'anno accademico iniziato lo scorso autunno sono diminuite in media del 5,7%, in confronto al 10,5% registrato in Europa. Il campus a Singapore della francese Grenoble Graduate School of Business ha registrato un aumento di iscritti europei negli ultimi due anni. Gli europei ora costituiscono il 35% degli studenti che ha iniziato quest'anno, in confronto all'i 1% nel 2009. Telio Gourdon, studente di business internazionale presso il campus di Singapore, ha detto di aver lasciato l'Europa per fare un'esperienza all'estero di più ampio respiro. «Singapore è un buon posto per un uomo d'affari», ha affermato. In modo simile, gli europei che fanno domanda presso la Hult International Business School, preferiscono i campus di Shanghai, San Francisco e Boston rispetto alla sede di Londra. __________________________________________ Corriere della Sera 3 Feb. ‘12 IL MAGO ITALIANO DEGLI ALGORITMI CHE È PRONTO A SFIDARE GOOGLE «La mia invenzione? Rivoluzionerà tutti i motori di ricerca» MILANO — Attesa e mistero, profondo. Non solo in Italia ma nei cinque continenti. «Quello che presenterò lunedì non è un semplice motore di ricerca, un semplice miglioramento di Google, ma qualcosa di nuovo, di diverso che con Google finora non si riesce a fare». Difficile non credere a Massimo Marchiori che è stato l'inventore dell'algoritmo sul quale Larry Page fondatore del più celebre dei «motori» ha costruito così la sua fortuna. E lunedì, in streaming mondiale, Marchiori presenterà il suo risultato dal Palazzo del Bo, cuore dell'Università di Padova dove insegna. «Ci sto lavorando da quattro anni — precisa —, da quando ho fondato una piccola società, una start-up battezzata Volunia come il mio nuovo motore». Ma che cosa sarà capace di fare? «Il segreto — risponde sorridendo — sta nello slogan che ho scelto per lanciarlo, "cerca e incontra"; le due parole racchiudono e spiegano tutti i significati delle nuove capacità che entro cinque anni saranno normali funzioni di tutti i motori di ricerca, da Google a Yahoo». L'idea era coltivata da Marchiori da tempo. Ora, dopo un lungo sviluppo, è diventata uno strumento matematico efficace. Il collaudo, durato molti mesi, lo conferma e quindi non restava che uscire allo scoperto, nel mercato, prima che qualche indiscrezione favorisse concorrenti agguerriti nel cercare nuove possibilità sul web. La storia di come sia arrivato al traguardo sembra una corsa ad ostacoli e solo la sua passione di «italiano protagonista in patria» lo ha sostenuto ed ha vinto. Cambiando metodo rispetto alla sua prima conquista balenata quando ancora era studente. «Allora il mio algoritmo Hypersearch lo presentai ad un congresso — racconta —. Larry Page ne fu affascinato, mi chiese di utilizzarlo e siccome era un lavoro libero senza brevetto lo impiegò nel migliore dei modi». Intanto le idee di Marchiori marciavano oltre. Lavorava al Mit di Boston con Tim Berners-Lee che lo assunse battendo un pugno sul tavolo per non perdere l'occasione di un collaboratore geniale. Ma poi desiderava tornare «per dimostrare che anche nel nostro Paese possiamo raggiungere importanti risultati». E questo lo dice nonostante i rifiuti che lo costrinsero ad emigrare in Olanda dove venne assunto prima ancora di laurearsi. Quindi da Boston e da protagonista della ricerca informatica mondiale entrava all'Università di Venezia con uno stipendio di mille euro al mese e tante promesse. «Ma non le mantenevano mai e così dopo sei anni ho concorso a Padova dove ora insegno con duemila euro al mese e tanta soddisfazione». Qui ha concretizzato la nuova idea. Ricevette molte proposte di finanziamento e scelse l'offerta del sardo Mariano Pireddu. Aggiunse la disponibilità di una piccola società di Scandiano, a Reggio Emilia, sconosciuta da noi ma famosa al di fuori dei confini come fabbricante di server e supercomputer, e creò Volunia con sede alla periferia industriale di Padova. «Ho sprecato un incalcolabile numero di mesi per le pratiche burocratiche — aggiunge con amarezza —. Quando dovevo collegare i computer Telecom mi informava che non poteva perché nel condotto non c'era spazio per un altro cavo. Sono stato costretto a installare una parabola e attivare una connessione radio con un fornitore remoto che supplisce ai disservizi delle reti normali. L'Enel ha impiegato due mesi per allacciare la corrente elettrica senza la quale nulla poteva funzionare. Ora, nonostante tutto, siamo pronti, determinati e convinti che il nuovo motore avrà successo; altrimenti cercheremo altre idee: web è un mondo bellissimo e stimolante». L'elenco dei riconoscimenti a Massimo Marchiori è lungo e illustre. Nel 2004 entrava nella classifica dei 100 migliori giovani innovatori mondiali stilata da Technology Review, la rivista del Mit. Aveva 34 anni. I rapporti con il Mit continuano «ma i grandi frutti adesso voglio farli germogliare nella mia terra. E dobbiamo essere orgogliosi». Giovanni Caprara twitter@giovannicaprara __________________________________________ Corriere della Sera 5 Feb. ‘12 LE LINGUE SALVATE DALLA RETE Rama, jacuto, myaamia: le parole rivivono online di FEDERICA COLONNA L a Jacuzia non è solo una terra disegnata sulla mappa di Risiko. È anche il posto dove i bambini vanno a scuola su Skype. Figli di comunità nomadi, hanno due scelte: frequentare gli istituti dei villaggi più grandi, dove studiare il russo, oppure seguire i propri genitori, parlando la lingua della famiglia e imparando a immaginare il mondo con le parole dei propri avi. Con un laptop in mano per collegarsi con le insegnanti coinvolte nel processo di rivitalizzazione della lingua delle comunità nomadi della regione. «Bambini e tecnologia salveranno le lingue in via di estinzione», spiega la linguista Leonore Grenoble, docente presso l'Università di Chicago. La sua attività di ricerca sul campo, soprattutto tra i popoli del profondo nord, riguarda proprio i processi di rivitalizzazione linguistica. Si tratta di metodi per riportare in vita tra i più giovani membri delle comunità le lingue native che rischiano la scomparsa. Secondo l'Unesco si tratta del 50% delle seimila lingue del mondo, la maggior parte delle quali ha un futuro breve, lungo circa 10 anni. «Per salvarle costruiamo archivi audio e video con interviste ai parlanti — continua Grenoble — e produciamo grammatiche e dizionari. Le nuove tecnologie sono uno strumento prezioso: permettono la rinascita digitale di lingue in pericolo, la loro nuova diffusione». Computer e cellulari sono fondamentali per «connettere individui che parlano la stessa lingua e ricreare un ambito di esistenza idiomatica», puntualizza Grenoble, secondo la quale una lingua è in salvo finché ci sarà un bambino a parlarla e, magari, a ridiffonderla sul web. È il caso della nuova generazione dei Rama, comunità stanziale che vive sulle coste del Nicaragua. «I più giovani stanno imparando la lingua nativa attraverso un vocabolario online che contiene finora tremila parole. È pubblicato insieme ai calendari lunari e ai manuali sulla coltivazione delle piante autoctone sul sito Turkulka (www.turkulka.net), che in Rama significa parola», spiega la professoressa Colette Grinevald che lavora da venticinque anni al Rama Language Project ed è tra i redattori dell'Atlante Linguistico delle Lingue in pericolo (http://www.unesco.org/culture/languages-atlas/ ) dell'Unesco. Il sito Turkulka.net è frutto del suo intenso lavoro tra i Rama. Come Leonore Grenoble, pur riconoscendo le grandissime difficoltà dei processi di rivitalizzazione linguistica, è ottimista: il web e le madri possono davvero salvare una cultura. Compito della Grinevald è la costruzione di archivi e lo studio delle dinamiche linguistiche nelle comunità a rischio di estinzione dell'America del Sud. «In Nicaragua — racconta — ho avuto la fortuna di conoscere Mujer Tigre, donna tigre, così era chiamata Miss Nora Rigby per la grinta con cui difendeva la sua gente. È stata la prima a voler essere registrata tra i Rama. Riascoltandosi, temeva che la sua lingua fosse sbagliata, distorta. I parlanti delle lingue a rischio si vergognano, ma quando, come nel caso di Mujer Tigre, amano davvero il proprio popolo allora non hanno più paura». E diventano fonti per i progetti di digitalizzazione. Gli esempi sono diventati negli ultimi anni numerosi. Il più grande archivio di vocabolari online è Elar (www.hrelp.org/archive), realizzato dagli studiosi della School of Oriental and African Studies (Soas) di Londra. «È la più grande mappa linguistica digitale — racconta Grenoble — ricca di documenti audio e video in costante evoluzione, simile a Ailla, l'archivio delle lingue indigene dell'America Latina, realizzato dall'Università del Texas». Il progetto di digitalizzazione che ha avuto più successo negli Stati Uniti è però un'altro: the Myaamia Project (www.myaamiaproject.org), nato per far conoscere la lingua della tribù degli indigeni Oklahoma dell'area di Miami. I ricercatori hanno realizzato un gioco online per conoscere il nome di tutte le parti del corpo in myaamia, oppure per imparare tutta la numerazione con le parole dei nativi. Il sito più bello e divertente da navigare è Isuma Tv (www.isuma.tv): una piattaforma professionale che pubblica video, interviste, filmati e brevi clip nelle lingue inuit e in inglese. «I nostri strumenti — scrivono gli autori del sito — permettono agli indigeni di potersi esprimere con la loro voce. Visioni del passato, paure sul presente e speranze per un futuro più onorevole». Nonostante sforzi nobili come Wikipedia in dialetto siciliano, non sempre la tecnologia è utile. Michele Gazzola, ricercatore in economia linguistica a Berlino e presidente dell'associazione Nitobe racconta che un'organizzazione non governativa attiva in Africa aveva spedito computer in un villaggio credendo di favorire l'alfabetizzazione informatica. Ma di fronte a questi oscuri apparecchi gli abitanti finirono per usarli come sedie. Per evitare figuracce poco accademiche, i ricercatori e i linguisti hanno deciso di mettere in comune esperienze e dubbi per rispondere alla fatidica domanda: quali sfide possiamo davvero accettare e vincere grazie ai nuovi media? Mary Jones, professoressa associata di linguistica francese dell'Università di Cambridge non ha dubbi: «Dobbiamo mettere insieme le nostre idee e darci risposte comuni». Per questo il 6 luglio si svolgerà la seconda conferenza di Cambridge sull'estinzione linguistica. Il collegio Peterhouse della prestigiosa università sarà la casa dei nuovi ricercatori con il sogno comune di creare l'enciclopedia digitale delle lingue. Un'ambizione perseguita dalla professore Grinevald e dai suoi collaboratori attraverso il progetto Sorosoro (www.sorosoro.org). L'obiettivo di Sorosoro, che in lingua araki, idioma parlato in alcuni villaggi Vanatu, nel Pacifico, significa parola, è codificare non solo la lingua locale, ma tutte le lingue producendo dizionari e grammatiche, riprendendo la vita quotidiana delle comunità, documentando la cultura e il modo di vivere quotidiano dei popoli che stanno perdendo le parole. Rischiando di non lasciare traccia. Twitter @fedecolonna __________________________________________ Corriere della Sera 5 Feb. ‘12 LE LINGUE INVENTATE DALLA RETE Professione «conlanger»,il creatore di idiomidi SERENA DANNA «N essuno mi crede quando dico che il mio lungo libro è un tentativo di creare un mondo in cui una forma di linguaggio accettabile dal mio personale senso estetico possa sembrare reale. Ma è vero». La dichiarazione d'amore linguistico è firmata J.R.R. Tolkien, l'autore britannico che ha appassionato intere generazioni con idiomi fantastici creati appositamente per i personaggi delle sue storie. Lo scrittore del Signore degli anelli è il simbolo di un approccio letterario/artistico alla creazione linguistica, che dal famigerato infernale dantesco «Pape Satàn, pape Satàn aleppe» alla neolingua di 1984 di George Orwell, arriva fino ai testi degli islandesi Sigur Rós, che utilizzano l' hopelandic inventato da Jónsi, leader del gruppo musicale, e all'europanto dello scrittore Diego Marani. Oggi che i «conlanger», così vengono chiamati gli inventori di lingue artificiali, sono diventati professionisti strapagati dalle major hollywoodiane, fa sorridere pensare alle fasi attraversate da questa strana passione per letterati e idealisti, diventata mestiere nell'era della fantascienza 2.0. Chissà cosa penserebbe il glottoteta polacco Ludwik Lejzer Zamenhof — l'inventore dell'Esperanto che dedicò buona parte della sua vita a sognare una lingua comune per tutti i popoli del mondo — del professor Paul Frommer, ingaggiato con compensi da capogiro dal regista James Cameron per studiare l'idioma na'vi per il suo Avatar. Oppure la femminista Suzette Haden Elgin (una delle prime blogger della storia), che ha lottato affinché il suo láadan diventasse la lingua delle donne, del modernissimo istituto del «Language Creation Society», un'organizzazione (tra i suoi fondatori c'è David J Peterson, il «papà» del dothraki della serie tv «Il trono di spade») che offre servizio di conlanging alle aziende. Intervistata dal «New York Times», Arika Okrent, autrice di In the Land of Invented Languages, ha detto: «Nessuna delle centinaia di lingue create per "ragioni sociali" ha avuto la popolarità di quelle inventate per film, televisioni e libri: per anni le persone hanno cercato il linguaggio perfetto ma la sfida non ha mai avuto tanto successo come nell'era dell'intrattenimento». La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea di Umberto Eco aveva bisogno del cinema e di Internet per trovare un approdo. Certo, gli appassionati obietteranno che quello dei «conlanger» è un fenomeno esploso con la saga di Star Trek, quando il linguista Marc Okrand inventò per la Paramount Pictures la lingua klingon. Eppure, nonostante le schiere di fan, la versione klingon del Monopoli, e la nascita di un Istituto della lingua klingon, l'idioma non ha avuto effettiva diffusione, parlato com'è solo da venti persone (e tra di esse non c'è neanche Okrand). In fondo il problema del linguista americano è simile a quello del futurista russo Krucenych, autore della poesia: «dyr bul šcil ubešcur skum vy so burlèz» (che non significa nulla se non poesia in sé): una elevata difficoltà sonora e linguistica che ostacola l'apprendimento e la condivisione. Le nuove lingue create per i colossi della fantascienza hanno invece una grammatica e una varietà lessicale (il Dothraki ha 10 mila parole) che non le rende diverse dall'italiano o dal giapponese. Spiega Arika Okrent nel suo libro che «un grande vocabolario è più difficile da imparare ma richiede meno sforzi per la costruzione di significato. Al contrario, un lessico povero richiederà un aiuto da parte del contesto e delle convenzioni sociali per diffondersi». La speranza di sopravvivenza di una lingua inventata dipende dalla diffusione che troverà in un gruppo di persone che comincerà a usarla e a distruggerla. «Se l'Esperanto non si è estinto — spiega Okrent — è perché si è emancipato sempre di più dalle intenzioni e dalle dure regole del suo creatore». Per la studiosa, imparare una lingua, anche naturale, è più una decisione emozionale che pratica: c'entra con la voglia di appartenere a un gruppo. Ecco perché Internet con le sue comunità digitali da un lato e la capacità di giocare con la lingua dall'altro, rappresenta la piattaforma di lancio definitivo per i «conlanger». Oggi è uno studente ventitreenne della Saarland University a gestire il sito Dothraki.com, dove si trova un dizionario inglese-dothraki e una grammatica. Per imparare la lingua del pianeta Pandora, i social network (con gli account Twitter @learnna'vi e @nnavilessons e i migliaia di gruppi su Facebook) sono ormai gli strumenti più utili e immediati. Nonostante gli addetti ai lavori lamentino ancora la chiusura di Langmaker.com, il sito che catalogava le lingue inventate nel mondo (circa 2.000 fino al 2007), essere passati dai tristi forum anni novanta alle riunioni dei Na'vi speakers in Sonoma County comunicate via Twitter è una bella conquista per la «democrazia linguistica» sognata da Zamenhof. E se fino a qualche anno fa l'unico modo per diventare «conlanger» era consultare il Kit di Costruzione di Linguaggi elaborato da Mark Rosenfelder (l'autore del seguitissimo verduriano) sul sito zompist.com; oggi basta digitare la parola langmaker su Google o Bing per trovare centinaia di semplici decaloghi. Peterson e Frommer immaginano un futuro in cui le università insegneranno thhtmaa e dothraki come oggi insegnano swahili e arabo, e i linguaggi inventati avranno finalmente dei «native speakers». Un privilegio che, scrive Okrent, oggi tocca solamente ai bambini di qualche coppia di «esperantisti»: «Quando poi si rendono conto che i genitori parlano anche un altro linguaggio, idioma condiviso dalla loro comunità di riferimento, abbandonano in fretta l'esperanto». Illusi o visionari, i «conlangers» sono gli ultimi testimoni della meraviglia del linguaggio. Twitter @serena_danna __________________________________________ Corriere della Sera 5 Feb. ‘12 LA POLITICA SEPARATA DALLA SCIENZA di GIUSEPPE REMUZZI Lo stato della ricerca in Italia, i finanziamenti agli atenei di eccellenza, gli aiuti ai giovani Giuseppe Remuzzi, nefrologo di fama mondiale, ne discute con il direttore di «Lancet» R ichard Horton è il direttore di «Lancet», rivista scientifica inglese assai prestigiosa in ambito medico. È tra le persone più influenti al mondo nel campo della scienza. Con lui commentiamo la classifica, uscita di recente, delle migliori università del mondo. La parte del leone la fanno gli Stati Uniti (Harvard, Hopkins, Stanford, Yale). Dopo viene la Gran Bretagna, che ha 32 università nelle prime 200, molte di più della Germania, dell'Olanda e della Francia. Pare insomma che le uniche università europee in grado di competere con gli atenei degli Stati Uniti siano quelle britanniche. «Certo — osserva Horton — il Regno Unito, oltre ad avere 32 università nelle prime 200, ne ha ben otto (Oxford, Imperial College, Cambridge, University College, King's College, Edinburgo, Manchester e Glasgow) nelle prime 50. Manchester e Glasgow così in alto sono un gran vanto per la Gran Bretagna». Ma servono queste classifiche? Per qualcuno i criteri adottati sembrano fatti apposta per favorire certi atenei. «Tutt'altro, queste classifiche sono importantissime, fotografano l'intelletto del mondo. La Cina e l'India per esempio vanno molto forte in tanti campi, ma nelle prime 50 università del mondo, di cinese c'è solo Pechino al numero 49, dentro per un pelo. E a dispetto di tutto quanto di nuovo e importante sta succedendo in Asia, l'accademia che conta è fatta ancora di Stati Uniti ed Europa». Il segreto del successo britannico? «È semplice. I nostri politici considerano la scienza il motore dell'economia e investono soldi, molti. Per l'università abbiamo l'Higher Education Funding Council: diversi miliardi di sterline. Per chi lavora nel campo della medicina e delle scienze della vita c'è il Medical Research Council: sono quasi 600 milioni di sterline. E poi c'è il Wellcome Trust per almeno altri 600 milioni; e più di 500 vengono dal Department of Health, tutto per la ricerca. Uno studio commissionato dalla Academy of Medical Sciences ha dimostrato che ogni sterlina investita in ricerca medica genera benefici economici: per ogni sterlina che si investe oggi, tornano indietro 0,39 sterline all'anno per sempre». Dell'Italia nelle prime 50 università del mondo non c'è traccia e nelle prime 200 ce n'è una sola, Bologna (183): come dire il gol della bandiera quando si perde 5 a 0. Che effetto le fa? «Sono molto sorpreso. L'Italia fino a metà Ottocento era il centro della cultura in Europa, dell'arte si capisce, ma anche della scienza. Eravamo noi a venire a imparare da voi. Il nostro grande Harvey, che pose le basi della medicina moderna a partire dalla scoperta che il sangue circola, non ci sarebbe mai arrivato se non fosse andato a Padova. E non è stato il solo. A quei tempi e anche prima, chiunque aspirasse ad essere un medico di valore veniva a studiare in Italia». Oggi si è perso tutto? «Niente affatto. Dal mio punto di vista, che è poi quello di "Lancet", l'Italia è ancora un Paese molto forte per la ricerca medica, quello che produce più lavori in Europa. Questo è un ottimo punto di partenza per creare da voi università e istituti di ricerca di prim'ordine». Ma se li confrontiamo con le università anglosassoni, non con Harvard o con Oxford, ma con Manchester (25 premi Nobel) e Glasgow (6 premi Nobel), i nostri atenei sfigurano. Non c'è niente che si possa fare? «Si può fare moltissimo, ma i vostri leader devono capire che aiutare l'università e le scienze della vita è funzionale alla crescita del Paese. Ogni anno l'Italia perde un po' delle sue menti più capaci e quando i giovani migliori vanno all'estero, salvo che dall'estero non ne ritornino altrettanti, chi ci perde è tutto il Paese». Le nostre università sono tante, forse troppe. A chi dare i soldi e con quali criteri? «Il vostro governo deve investire grandi somme in poche università, che dovranno essere fra le migliori del mondo. In quelle sedi si farà soprattutto ricerca e solo di altissimo livello, come a Oxford e Cambridge. E poi ci sono le università dove si deve svolgere soprattutto attività didattica: anche lì si farà un po' di ricerca, ma meno competitiva. Fare ricerca ad altissimo livello e pretendere anche di insegnare non è possibile. Chi insegna deve dedicare agli studenti entusiasmo, energie e il 100 per cento del tempo». Da noi si discute molto sui criteri con cui assegnare i finanziamenti. «I soldi vanno dati ai progetti migliori. Ma non lasciate che la soluzione di questi problemi resti in mano ai politici, deve essere la comunità scientifica a organizzarsi e a sapersi imporre». Forse per i criteri con cui distribuire i fondi per la ricerca potremmo ispirarci all'Inghilterra… «Da noi ci sono almeno due sistemi di finanziamento. Uno viene dall'Higher Education Funding Council. Ciascuna università ogni tre anni è tenuta a presentare un rapporto sul proprio lavoro e i fondi vengono distribuiti in base alla qualità di quel resoconto. E poi ci sono i soldi che vanno ai ricercatori. Vengono da Medical Research Council, Wellcome Trust, Department of Health. Sono altri scienziati a giudicare la qualità del progetto. Le agenzie che distribuiscono i fondi sono indipendenti dalla politica, in base a un principio ("Haldane principle") introdotto da un grande scienziato, sir John Burdon Sanderson Haldane, all'inizio del secolo scorso». Cosa stabilisce l'«Haldane principle»? «Separazione assoluta fra politica e scienza, la corruzione si previene solo così. "Mescolare politica e scienza è la ricetta del disastro", scriveva Haldane. Separatele anche voi, non costa niente e rende moltissimo». Verificare che cosa ciascun ricercatore ha già dimostrato di saper fare e la considerazione di cui gode nell'ambiente internazionale per assegnare i fondi, però, vuol dire favorire chi è all'apice della carriera. E i giovani? «Il Medical Research Council mette a disposizione borse di studio per persone molto giovani, per far muovere i primi passi nella ricerca, to get the first foot on the ladder. Anch'io ho avuto uno di questi grant all'inizio. I soldi non sono molti, ma servono per cominciare. Dopo due- tre anni si può accedere a program grant per ricercatori che hanno già dimostrato di saper fare e di farlo bene. Per loro ci sono molti più soldi e per più tempo, da 5 a 7 anni: chi è bravo può davvero costruirci sopra una carriera». Ci sarà un futuro anche per l'Italia della ricerca? «I vostri ricercatori all'estero sono molto considerati dalla comunità scientifica: vuol dire che gli italiani, se ne hanno la possibilità, sanno farsi valere. E quelli che riescono a fare ricerca in Italia, almeno in campo biomedico, sono altrettanto bravi. "Lancet" nel 2011 ha ricevuto 1.635 lavori dagli Usa, 1.435 dall'Inghilterra, 895 dalla Cina e 490 dall'Italia, che è al quarto posto. Dopo ci sono Giappone con 456, Francia con 376, India con 375, Germania con 363, Olanda con 334. Adesso dovete concentrarvi sulla qualità. La scienza deve essere una priorità per chi governa, ma anche per la gente, non solo per gli scienziati. È una sfida che non si può perdere. La vostra cucina è la migliore del mondo, il vostro vino non ha pari. Per fare un vino così servono competenze, tecnologia, passione e amore, tutto quello che serve per fare della buona scienza. Coraggio, il segreto del successo è nella vostra storia, dovete solo riscoprirla». __________________________________________ Le Scienze 30 Gen. ‘12 UN LIMITE DI VELOCITÀ PER I COMPUTER QUANTISTICI Ottenuta per la prima volta una misurazione sperimentale della velocità a cui può viaggiare la rappresentazione quantistica di un bit di informazione all'interno di una struttura fisica concreta e allo stato solido. Una delle conseguenze più significative emerse dall'analisi dei dati è che la velocità di propagazione del segnale non è una costante universale, ma dipende dal materiale di cui è costituito il reticolo n teoria, i futuri computer quantistici dovrebbero surclassare di gran lunga per potenza di calcolo e velocità le prestazioni di quelli basati sulle tecnologie classiche. Tuttavia, il passaggio dalla teoria alla possibilità di una implementazione concreta di questi strumenti di calcolo incontra svariati problemi tecnici. In particolare, resta ancora aperto il problema della velocità effettiva di elaborazione dei dati che si potrebbe ottenere nei computer quantistici, rispetto alla quale un limite critico è rappresentato dalla velocità con cui un segnale quantistico è in grado di diffondersi all'interno di un'unità di elaborazione concreta, ossia solida. "Finché l'informazione quantistica viene comunicata con quanti di luce, sappiamo che ciò avviene alla velocità della luce", spiega Marc Cheneau, del Max-Planck-Institut per l'ottica quantistica a Garching. "Tuttavia, quando i bit o i registri quantistici si basano su strutture a stato solido, le cose sono diverse. Qui la correlazione quantistica deve essere trasmessa direttamente da bit a bit. Solo quando sapremo quanto velocemente può verificarsi questo processo disporremo della chiave per capire ciò che limiterà la velocità di futuri computer quantistici." Allo stato attuale, infatti, non esiste un modello generale per prevedere la velocità a cui può viaggiare una correlazione quantistica dopo che è stata generata. Tuttavia ora, per la prima volta, un gruppo di fisici sperimentali Max-Planck Institut per l'ottica quantistica in collaborazione con i fisici teorici dell'Università di Ginevra è riuscito a osservare questo processo in un sistema a stato solido. Nel loro esperimento, descritto in un articolo pubblicato su "Nature", i fisici - partendo da un gas ultrafreddo di atomi di rubidio - hanno creato un reticolo perfettamente regolare attraverso una trappola ottica laser. Successivamente hanno indotto stati di eccitazione quantistica, che assumono la forma di quasiparticelle intrappolate dalle barriere fra gli elementi del reticolo. Manipolando l'intensità dei fasci laser i ricercatori hanno quindi abbassato queste barriere tanto da permettere alle quasiparticelle di attraversarle per effetto tunnel e quindi viaggiare attraverso il reticolo. All'inizio le quasiparticelle sono vicine e si trovano in uno stato di entanglement, ma si propagano rapidamente in direzioni opposte lungo il reticolo, rimanendo peraltro in uno stato di correlazione anche quando la distanza tra loro cresce. Misurando la distanza tra le eccitazioni in funzione del tempo può quindi venire misurata la velocità reale di propagazione delle quasiparticelle. Una delle conseguenze più significative emerse dall'analisi dei dati ottenuti è che la velocità di propagazione del segnale non è una costante universale, ma dipende dal materiale di cui è costituito il reticolo. ========================================================= __________________________________________ Sardi News Gen. ‘12 MEDICAL DEVELOPMENT: CAGLIARI SI ALLEA CON STOCCOLMA E CRACOVIA Ok per il Medical Development in Europe L'ateneo del capoluogo sardo collabora con il Karolinska Institute svedese e il Jagiellonska di Mario Frongia Competenze mediche e sanitarie a confronto. In ambito internazionale, con dinamiche e metodiche in continua evoluzione. La facoltà di medicina dell’ateneo di Cagliari mette a segno un bel colpo. Si è infatti chiuso in città con una perfomance positiva l’ultimo modulo del corso “Medical Development in Europe”. Organizzato dalla facoltà cagliaritana in collaborazione con il Karolinska Institute di Stoccolma (Svezia) e la facoltà di medicina Jagiellonska di Cracovia (Polonia), il corso è volto al futuro. Tra integrazione e professionalità in divenire. Con un percorso formativo rafforzato e mirato alla creazione di figure ad alto valore aggiunto. Si va dall’idea complessiva del sistema e della legislazione sanitaria alle problematiche cliniche. Al centro dei lavori, sia argomenti appartenenti alla sfera medica in senso stretto, sia di carattere più generale. L’obiettivo? “Fornire agli studenti del nord, centro e sud Europa un’idea complessiva del sistema sanitario europeo e della legislazione sanitaria in vigore nelle tre diverse nazioni appartenenti all’Unione europea” spiega il preside di medicina, Mario Piga. Giunto alla quarta edizione, il corso fornisce una più ampia conoscenza degli aspetti medici a livello internazionale, in modo da favorire una rapida e completa integrazione dei laureati in medicina. “Il successo del corso è evidenziato dal numero crescente di partecipanti. Infatti, mentre alla prima edizione del 2009 hanno partecipato dodici studenti, a quella di quest’anno – aggiunge Amedeo Columbano, ordinario di Patologia generale, dipartimento di Tossicologia – c’erano 40 allievi di cui 18 di Cracovia, 12 di Stoccolma e 10 di Cagliari”. E non è tutto. A rendere ancora più transfrontaliero il corso contribuisce l’adesione di studenti norvegesi, statunitensi, canadesi e spagnoli frequentanti le facoltà di medicina di Stoccolma e di Cracovia. Nell’ambito del corso, gli studenti selezionati nelle rispettive sedi (a Cagliari la selezione ha fatto seguito al bando pubblicato sul sito della facoltà), seguono tre moduli spostandosi da una sede all’altra: dal 12 al 17 dicembre il corso si è svolto a Stoccolma, dal 18 al 22 a Cracovia, dal 12 al 15 gennaio a Cagliari. “Una modalità didattica che offre la possibilità di verificare in loco le modalità organizzative e il tipo di didattica svolta nelle diverse sedi” aggiunge il professor Columbano. I lavori di chiusura sono stati rafforzati sia da una serie di relazioni dei docenti della facoltà cagliaritana, sia con la visita ai reparti delle cliniche universitarie. “L’ultima giornata è stata dedicata all’espletamento di “supercases” nei quali gli studenti hanno affrontato problematiche cliniche, individuate dagli organizzatori, riguardanti le possibili differenze tra patologie presenti nelle tre diverse nazioni. Nelle presentazioni dei supercases, gli studenti hanno identificato e analizzato le possibili ragioni della diversa incidenza di patologie di vario genere (diabete, cancro, malattie cardiovascolari) riscontrata nell’Europa del Nord, Centro e Sud. L’esame finale che – sottolinea il professor Piga - conclude il corso è, un tentativo per capire e correggere, abitudini alimentari, stili di vita o altri possibili ragioni alla base delle differenze a volte imponenti di diverse patologie, Quali, ad esempio, il diabete tra Svezia e Italia”. E ancora. “Medical Development in Europe” è l’unico esempio, in Italia - con l’eccezione della facoltà di medicina di Firenze che con la facoltà di medicina di Kaunas (Lituania) cura un’iniziativa simile - di un corso internazionale “itinerante”. Ovvero, uno dei ponti con i quali l’ateneo supera le barriere nazionali proponendosi a livello europeo. Organizzato dai professori Hans Gillenhammer (Stoccolma), Tomasz Brzozowski (Cracovia) e Amedeo Columbano (Cagliari), il corso dà diritto a 7.5 Ects (Crediti formativi europei). E, ovviamente, gode del pieno supporto della facoltà. Non a caso, la sensibilità del preside è stata affiancata anche da numerosi docenti, responsabili delle relazioni e delle cliniche che hanno accolto gli studenti. Da citare anche l’associazione studentesca ISAWO, particolarmente attiva nel sostenere il corso. Che, come sempre capita, ha avuto anche la classica “cena di congedo”. Accompagnati dal professor Gillenhammer e dal suo staff dell’ufficio per le relazioni internazionali del Karolinska Institute, per “il terzo tempo” i ragazzi sono stati ospiti dei professori Piga e Columbano in una pizzeria del centro storico. Un incontro che, come spesso capita a tavola, ha rafforzato i legami tra gli studenti. I quali, favoriti da birra e mirto, si sono esibiti in una simpatica performance canora. La classifica? Buone le interpretazioni made in Svezia e Polonia, coraggiosa quella dei futuri medici italiani capeggiati da Mario Piga e Amedeo Columbano. Un sorriso e un brindisi che ha permesso una ancora migliore coesione del gruppo. “Crediamo fortemente che l’iniziativa contribuisca a incrementare i rapporti del nostro ateneo con qualificati partner europei e anche a far conoscere le potenzialità scientifiche e naturali della nostra città dispone. L’auspicio che se ne può trarre è che questa iniziativa vada reiterata ed ulteriormente potenziata nei prossimi anni”. __________________________________________ L’Unione Sarda 25 Gen. ‘12 IN UN ATLANTE RUSSO LE CERE DI SUSINI-BOI Importante riconoscimento per l'ateneo cagliaritano Le cere anatomiche di Clemente Susini e Francesco Antonio Boi approdano in Russia, immortalate in un Atlante di anatomia umana: sponsorizzato dalla Società degli Anatomisti Russi, è pubblicato dalla Geotar-Media, una delle case editrici più importanti del Paese. Contiene, con una serie di figure ottenute con i più attuali metodi di imaging, diverse fotografie delle cere cagliaritane, con la scritta “copyright University of Cagliari”. Tutte tratte dal libro di Alessandro Riva, “Flesh and Wax. The Clemente Susini's anatomical models in the University of Cagliari”, che la nuorese Ilisso ha edito nel 2007. La pubblicazione rappresenta un nuovo, importante riconoscimento del valore scientifico e della validità didattica (oltre che artistica) delle cere cagliaritane, realizzate oltre due secoli fa e affidate ufficialmente, nel giugno 1991, a Riva, infaticabile promotore del museo e ora professore emerito di Anatomia umana. Custodite nella Cittadella dei Musei di Cagliari (la sala pentagonale che le ospita è tra le più visitate in Sardegna), sono state esposte in prestigiose sedi mondiali: la Villette di Parigi, la Hayward Gallery di Londra, il National Science Museum di Tokyo, la Triennale di Milano. Il fatto che siano tuttora utilizzate, anche in Russia, per la formazione dei medici, è un omaggio a Francesco Antonio Boi, “il sardino”, come lo chiama affettuosamente Riva: gloria di Olzai, dove nacque nel 1767, primo cattedratico di Anatomia dell'Università di Cagliari (il Comune nel 2003 gli ha dedicato una piazza a Sant'Elia), autore delle dissezioni voltate in cera da Susini. __________________________________________ L’Unione Sarda 5 Feb. ‘12 AOUCA:ANCHE L’ISOLA AVRÀ IL CENTRO SUI FARMACI «Anche la Sardegna avrà un suo Centro di farmacovigilanza». La buona notizia è arrivata ieri, a margine del convegno “Sviluppo della rete di farmacovigilanza”, organizzato all’hotel Regina Margherita dal Reparto di Farmacologia clinica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria (Aou). «I tempi sono maturi», ha commentato soddisfatta Maria Del Zompo, direttore dell’Unità complessa di Farmacologia dell’Aou e responsabile scientifico del meeting, «in teoria ogni regione dovrebbe dotarsi di un proprio Centro di farmacovigilanza. Dieci lo hanno già fatto e molto presto anche l’Isola taglierà il traguardo con fondi messi a disposizione della Regione dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Dall’Assessorato regionale alla Sanità sono arrivati segnali di apertura e di grande disponibilità, per cui siamo fiduciosi». Il Centro si occuperà, tra le altre cose, di segnalare gli effetti indesiderati, dannosi e inattesi prodotte dai farmaci. Il percorso che porterà all’inaugurazione della nuova struttura e di una grande Rete locale del farmaco (coinvolgendo medici, farmacisti e le Asl) è cominciato ufficialmente con il convegno di ieri, cui hanno preso parte anche numerosi studenti di Medicina. «Nel 2001 la Sardegna era al terzo posto in Italia per numero di segnalazioni di reazioni avverse da farmaco», ricorda Del Zompo, «ora è penultima. La costituzione della Rete e del Centro ci consentirà di recuperare in fretta». Info: www.farmaci-fc.it. (p. l.) __________________________________________ L’Unione Sarda 15 Gen. ‘12 AOUCA:IL REFERTO SI RITIRA AL CENTRO COMMERCIALE Sanità, addio alle code negli ospedali Grazie al progetto 'Sanità a Gonfie Vele' i risultati degli esami effettuati al San Giovanni di Dio e al Policlinico di Monserrato potranno essere ritirati al Millennium e nel centro Le Vele di Quartucciu. La spesa, un giro per i negozi e un bel film. Poi il ritiro dei referti medici, senza fare la fila. Tutto al centro commerciale e al cinema Millennium. E' il progetto Sanità a Gonfie Vele presentato questa mattina da Comune di Quartucciu, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Cagliari e Centro Commerciale Le Vele: da oggi i risultati degli esami effettuati presso l'Ospedale San Giovanni di Dio di Cagliari e il Policlinico di Monserrato possono essere ritirati gratuitamente in appositi "totem" di facile utilizzo. E' sufficiente individuare il codice a barre presente sul foglio ricevuto in ospedale dopo l'esame e avvicinarlo al lettore ottico indicato con chiarezza sulla stessa postazione multimediale. Un sistema che garantisce il massimo della privacy. Primo perché non ci sono più intermediari per la consegna dei referti, che avviene direttamente dal totem al paziente. In secondo luogo, perché ogni referto è personale e può essere ritirato dal totem una sola volta. Infine perché il referto viene stampato con le scritte verso il basso per evitare che altre persone che si trovano nelle vicinanze possano leggerlo, anche solo accidentalmente. Il progetto "Sanità a Gonfie Vele" è stato realizzato da un gruppo di esperti di tre aziende sarde. Il referto si ritira al “totem” Un monitor alle Vele per eliminare file in ospedale Niente più file allo sportello né giri estenuanti in auto alla ricerca di un parcheggio. Ora i pazienti quartesi e quelli dell'area vasta che per le analisi mediche si rivolgono al Policlinico di Monserrato e al San Giovanni di Dio a Cagliari potranno ritirare i referti nei centri commerciali Le Vele e Millennium senza essere costretti a tornare in ospedale. La rivoluzione si chiama “Totem” ed è in sostanza un piccolo terminale dotato di video: basterà infilarvi la ricevuta e in pochi minuti si avrà in mano l'esito degli esami effettuati in precedenza. «SEMPLIFICARE» È il progetto “Sanità a gonfie vele” realizzato dalla Asl 8 assieme all'azienda ospedaliera universitaria di Cagliari, al Comune di Quartucciu e al centro commerciale le Vele. Un'esperienza unica in Italia presentata ieri nella sala cinematografica del Millennium dal sindaco di Quartucciu Carlo Murru, dal direttore generale dell'azienda ospedaliero universitaria di Cagliari Ennio Filigheddu, dal direttore sanitario Roberto Sequi, dal direttore del laboratorio di analisi chimico-cliniche Ferdinando Coghe e dal direttore delle Vele Marcello Manca. «L'obiettivo è semplificare», ha spiegato il primo cittadino di Quartucciu, che è anche direttore ospedaliero, «è molto importante dare ai pazienti la possibilità di evitare lo stress di lunghe file per ritirare i referti delle analisi. Chi va al cinema, a fare la spesa o per negozi adesso potrà anche ritirare l'esito delle analisi nello stesso centro commerciale». IL RITIRO Ottenere il referto è semplice e gratuito. Basta avvicinare il codice a barre presente sul foglio ricevuto in ospedale al lettore ottico indicato sui totem. Il sistema garantisce il massimo rispetto della privacy, in primo luogo perché non ci sono più intermediari per la consegna dei referti e inoltre perché ogni esito è personale e può essere ritirato dai video terminali una sola volta. TICKET E ALTRO «Questo progetto dimostra che certi servizi possono essere assicurati con l'utilizzo di scarsissime risorse», ha aggiunto Filigheddu, «speriamo faccia da apripista a un laboratorio unico regionale che coinvolga tutti gli ospedali e i laboratori della Asl 8». A breve con lo stesso sistema sarà possibile anche pagare il ticket e ricevere via mail il risultato degli esami di laboratorio. «Il servizio Sanità a gonfie vele», ha spiegato infine il direttore delle Vele, Marcello Manca, «è stato ampiamente recepito dal consorzio degli operatori del centro commerciale, che ha pienamente sposato e finanziato l'iniziativa». Giorgia Daga __________________________________________ L’Unione Sarda 4 Feb. ‘12 INUTILE INVESTIRE PER RIDURRE I TEMPI NELLA SANITÀ L'efficienza prima di tutto Il tempo per poter effettuare una visita, un esame, un ricovero o un intervento chirurgico continua ad essere troppo lungo. Pertanto, gli sforzi per ridurne la durata sono meritori, dato che tutte le pratiche cliniche hanno lo scopo di mitigare le sofferenze e allungare la vita. La nostra regione ogni anno investe decine di milioni con lo scopo di ridurre le liste di attesa. E questa sembra per la politica e per gli amministratori della sanità una pratica saggia. In realtà non si tiene conto che la nostra spesa sanitaria è aumentata nell'ultimo anno di oltre 300 milioni di euro, mentre la Lombardia ha avuto lo stesso incremento negli ultimi 7 anni. Bisogna cominciare a pensare di rendere il nostro servizio sanitario più efficiente, se vogliamo migliorare la qualità delle cure senza aumentare la spesa pubblica. I dati dell'Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) dicono che dagli anni '90 la spesa pro-capite è aumentata del 70 per cento; l'aspettativa di vita è aumentata di un anno ogni quattro; i tassi di sopravvivenza sono aumentati anche per i tumori e la mortalità infantile è drammaticamente crollata. Ma ora i governi non possono più aumentare la spesa per migliorare la qualità delle cure; pertanto i maggiori sforzi devono essere dedicati al miglioramento dell'efficienza e dell'efficacia delle cure a costi costanti. Si potrebbero così ridurre i costi di circa il 2 per cento del PIL entro il 2017 nell'area OECD. Con una maggiore efficienza, l'aspettativa di vita alla nascita aumenterebbe di più di due anni. Un incremento invece della spesa del 10 per cento aumenterebbe l'aspettativa di vita di soli 3-4 mesi, se l'inefficienza non migliorasse. Ecco perché è improduttivo investire risorse fresche per ridurre le liste d'attesa e grave farne l'oggetto di una campagna pubblicitaria. Antonio Barracca __________________________________________ Corriere della Sera 31 Gen. ‘12 BIOETICA: SIAMO PRONTI ALLA PILLOLA DELLA MORALITÀ? BIOETICA IL FILOSOFO PETER SINGER PONE IL DIBATTITO NEGLI STATI UNITI. MA È IL SINTOMO DI UNA GENETOMANIA SE SI CANCELLA IL LIBERO ARBITRIO Un test apre nuovi scenari sull' empatia degli uomini U n blog del New York Times , con un articolo del noto filosofo dell' etica e ambientalista Peter Singer, professore a Princeton, ritorna in questi giorni su un esperimento effettuato sui ratti all' Università di Chicago lo scorso Dicembre dal neuroscienziato Jean Decety e dai suoi collaboratori. L' esperimento fece molto rumore perché, come ho avuto occasione di descrivere io stesso sul Corriere della Sera , in essenza, aveva dimostrato che alcuni ratti (si noti: alcuni, non proprio tutti), posti di fronte a una situazione nella quale potevano tranquillamente mangiare della cioccolata, oppure liberare un altro ratto visibilmente imprigionato in un tubo trasparente, preferivano agire da liberatori e poi condividere con il compagno quella cioccolata. Nessuna differenza è stata osservata tra ratti maschi e ratti femmine nel liberare un compagno dello stesso sesso. Sono ancora in corso i più complessi esperimenti su maschi che liberano femmine o l' inverso. L' empatia, cioè la condivisione soggettiva della sofferenza altrui, si rivela essere, quindi, evolutivamente molto antica. Risale a circa 60 milioni di anni addietro, quando roditori e primati avevano un antenato comune. Infatti, Decety mi conferma che i circuiti cerebrali sono gli stessi in noi e nei roditori: i nuclei del tronco cerebrale, l' amigdala, l' ipotalamo, l' insula e la corteccia orbito-frontale. Anche gli ormoni responsabili dell' attivazione di questi centri cerebrali sono gli stessi: l' ossitocina, la prolattina e la vasopressina. Peter Singer riporta anche casi reali del tutto opposti, cioè suprema indifferenza degli esseri umani di fronte a una manifesta, tragica sofferenza di altri esseri umani. Si chiede se sarebbe possibile creare una pillola dell' empatia, un farmaco che, una volta somministrato, generasse compassione in chi ne è spontaneamente carente. Se questo fosse farmacologicamente possibile, avremmo, per i potenziali criminali, una terapia preventiva assai più semplice e indolore di quella rappresentata da Stanley Kubrick nel noto film Arancia meccanica . Immaginiamo che una simile pillola, chiamiamola empaten , sia possibile. Decideremmo di usarla? Su chi e perché? Immaginiamo anche che un semplice test effettuato mediante prelievo di sangue riveli quali individui sono spontaneamente inclini all' empatia e quali non lo sono. Vorremmo somministrare ai secondi, preventivamente, l' empaten ? Solo se accettano, o anche se non accettano? E con quale autorità? Dove finirebbe il libero arbitrio? I commentatori del blog di Singer offrono un vasto spettro di opinioni, per lo più contrarie all' idea della pillola e tutte problematiche. In effetti i problemi sono molti e tutti spinosi. Per esempio, l' autore dello studio sui ratti, Jean Decety, ha anche verificato che nei medici e nei chirurghi l' empatia è assai attenuata, per necessità professionali. Rise quando gli tradussi il vecchio proverbio «Il medico pietoso fa la piaga puzzolente» e ammise che è un proverbio saggio. Vorremmo somministrare l' empaten anche ai clinici? Personalmente ritengo che si sia tutti un po' succubi di una certa crescente neuromania e di una genetomania. Va benissimo sondare le radici neurobiologiche e genetiche di un numero sempre crescente di comportamenti, predisposizioni e stati d' animo. Meno bene, però, adottare di conseguenza un atteggiamento scientista e potenzialmente manipolatore. Il libero arbitrio è un peso, ma dobbiamo sopportarlo. Le spontanee differenze comportamentali, caratteriali e morali tra gli individui arrecano incertezze e complicano la vita. Provocano anche tragedie e orrori, ma la soluzione non sarà una pillola o una stimolazione di aree cerebrali specifiche. I progressi della neurobiologia, la neurofarmacologia e la genetica ci consentiranno di capire meglio come siamo fatti, ci daranno un quadro più approfondito della natura umana, ma le conseguenze dovremmo trarle noi tutti, individualmente e collettivamente, con la mente, il sentimento, la persuasione e l' educazione. Cureremo meglio le malattie, anche quelle psichiatriche, ma con il pieno consenso dei pazienti. Nel blog, una signora di Arlington, Massachusetts, chiede, come paradosso, se vorremmo accordarci in anticipo sul punteggio finale del campionato di football. Il paragone mi sembra calzante. La vita quotidiana è piena di incerti e non vorremmo pillole che progressivamente li eliminassero tutti. RIPRODUZIONE RISERVATA **** Test e reazioni L' esperimento Alcuni ricercatori dell' Università di Chicago hanno effettuato un test sui ratti. I topolini avevano di fronte due situazioni: potevano mangiare la cioccolata oppure liberare un altro ratto imprigionato in un tubo. Alla fine, gli animali preferivano liberare il loro simile e poi condividere con lui la cioccolata L' ideaPeter Singer sul «New York Times» si chiede se sia possibile produrre un farmaco che crei compassione in chi non prova questo sentimento. E i possibili effetti Piattelli Palmarini Massimo __________________________________________ Corriere della Sera 31 Gen. ‘12 LA SVEZIA CERCA MEDICI ITALIANI OFFERTA CONTRATTI DA 40 ORE SETTIMANALI. STIPENDIO FINO A 60 MILA EURO LA SVEZIA CERCA MEDICI ITALIANI Pavia apre il bando per 135 posti PAVIA - La Svezia ha bisogno di 135 medici italiani per le proprie strutture e Pavia si propone come centro di reclutamento internazionale. Ancora una volta dalla Scandinavia si scende fino in riva al Ticino per trovare camici bianchi pronti a trasferirsi all' estero. Due anni fa toccò alla Danimarca, oggi alla Svezia. Sono 135 i medici di cui hanno bisogno alcune strutture ospedaliere scandinave che offrono contratti da 40 ore settimanali ed uno stipendio che oscilla dai 30 ai 60 mila euro annui. Un' opportunità di lavoro interessante soprattutto per chi è disposto a trasferirsi all' estero per un' esperienza lavorativa che ne possa arricchire la propria preparazione. La figure richieste spaziano tra diverse specializzazioni: dai medici di famiglia ai dermatologi, chirurghi, psichiatri, radiologi e geriatri. Non è una novità per la Svezia il cercare medici all' estero: è attivo dal 1998 un progetto di reclutamento in tutta Europa per la carenza di offerta dal mercato locale. I 135 camici bianchi selezionati in quest' occasione verranno inseriti nelle strutture ospedaliere del County council of Varmland, NU- Hospital Group e Skaraborg Hospital. A fare da collegamento con l' Eures (European Employment Services) svedese è quello di Pavia, che ha sede presso la Provincia. «Le azioni messe in campo a livello europeo per creare posti di lavoro diventano occasioni uniche in un momento di crisi economica internazionale come quello che stiamo vivendo - commenta il presidente della Provincia di Pavia Daniele Bosone - Un' esperienza all' estero si trasforma quasi sempre in una crescita sia professionale che umana e porta ad acquisire competenze apprezzate nel mondo del lavoro». Come era già accaduto in passato, i medici chiamati a lavorare negli ospedali della Scandinavia nei primi mesi di soggiorno potranno anche seguire dei corsi di lingua svedese per migliorare la propria integrazione. A sponsorizzare il reclutamento è la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell' Università degli Studi di Pavia come parte del programma internazionale. Enrico Venni RIPRODUZIONE RISERVATA **** La proceduraMedici italiani in Svezia: gli interessati dovranno far pervenire il loro curriculum vitae in lingua inglese all' indirizzo mail health@arbetsformedlingen.se e in copia all' Eures Pavia (eures@provincia.pv.it). A marzo i primi colloqui di selezione Venni Enrico __________________________________________ Corriere della Sera 4 Feb. ‘12 MEDICI, LO SPRECO MILIONARIO DELLE ETICHETTE SALVA PRIVACY Servono a coprire i nomi sulle ricette. «Inutili» MILANO — Dall'inizio del 2005 in Italia sono state prodotte quasi 3 miliardi e 500 mila etichette salva privacy da attaccare sulle ricette per coprire il nome dei malati: peccato che da allora praticamente nessun medico le abbia mai utilizzate. Lo confessa Roberto Carlo Rossi, presidente dell'Ordine dei medici di Milano, tra i più importanti a livello nazionale: «È il prodotto più inutile del mondo — dice —. La destinazione finale? La spazzatura». Milioni di euro buttati al vento. Soldi prelevati dalle casse pubbliche inutilmente, mentre il sistema sanitario è a corto di risorse. È uno scandalo che i medici, esasperati dagli ennesimi tagli annunciati per la sanità, trovano più che mai insopportabile. «Per ogni ricetta lo Stato stampa e distribuisce anche una complessa etichetta per la tutela della privacy — denuncia il medico di famiglia Francesco Carelli, docente dell'Università Statale di Milano e membro del British Medical Council —. È composta da due strati, con una pellicola di carbone. Abbiamo calcolato che in sette anni non ne sono state utilizzate più di un migliaio». Il tagliando salva privacy viene prodotto dall'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato ed è sempre fornito insieme alle ricette. Lo prevede il decreto legislativo in materia di protezione dei dati personali del 30 giugno 2003 (il numero 196). L'obiettivo della norma — in vigore solo dal 2005 — è nascondere sulla ricetta l'identità del malato e renderla visibile in caso di necessità (togliendo il primo strato adesivo). L'utilizzo è previsto su richiesta del paziente. Ma nessuno lo chiede. E neppure un medico lo usa. «Vuol dire che è inutile», è la sintesi. Per capirlo basta guardare la scrivania di Maurizio Bruni, un ambulatorio in via Procaccini e un contratto con l'Università Vita e Salute del San Raffaele: qui si sono accumulate, mese dopo mese, 52 mila etichette salva privacy. Le ultime mille le ha ritirate all'Asl di via Ippocrate ieri: «È uno spreco senza fine», sbotta Bruni. Quanti soldi pubblici sono stati spesi per quasi 3 miliardi e 500 mila etichette salva privacy? Cinque milioni di euro? Dieci? Comunque troppi, davanti alla destinazione finale dei tagliandi: «C'è anche chi li usa come etichette per i surgelati», ironizza Roberto Carlo Rossi: «Gli altri continuano a essere buttati nei termovalorizzatori». È verosimile che entro il 2014 si abbatterà sulla sanità una scure da 17 miliardi di euro. Non solo. Già per effetto delle ultime manovre finanziarie, le risorse destinate al fondo sanitario nazionale per quest'anno sono di 108 miliardi e 780 milioni di euro, con un aumento, rispetto al 2009, che non copre nemmeno i costi dell'inflazione Istat. Di qui il giro di vite sui conti sanitari, che lo scorso agosto si è tradotto in un nuovo ticket da 10 euro per i cittadini. Il risparmio sulle etichette salva privacy può apparire una goccia nel mare. «Ma bisogna iniziare a utilizzare le risorse pubbliche in modo meno dissennato — ribadisce Bruni —. Ogni segnale, in questa direzione, è importante: quello delle etichette è uno spreco di Stato che compie sette anni». E, poi, quanti altri ce ne sono che nessuno denuncia? Simona Ravizza sravizza@corriere.it __________________________________________ La Nuova Sardegna 2 Feb. ‘12 NUORO: SIMANNU, IL FUTURO DELLA MEDICINA È QUI Realizzato in città il primo centro di simulazione della Sardegna, uno dei pochi in Italia La struttura è costata 600mila euro La Fondazione Banco di Sardegna ne ha donato 70mila MARCO SEDDA NUORO. «Ho trovato strutture nuove e all’avanguardia». E se lo dice il docente di Medicina d’urgenza della Harvard Medical School di Boston, c’è da credergli. Il professor Kevin Ban e il presidente dell’Ordine dei medici hanno presentato il Centro di simulazione Simannu. Simannu è l’acronimo di Centro di simulazione medica di Nuoro, il primo di questo tipo nato in Sardegna e uno dei pochissimi che si trova in Italia. Si sviluppa al primo piano dello stabile che ospita l’Ailun (Associazione per l’istituzione della libera università nuorese), in via Pasquale Paoli, nel rione di Funtana Buddia. Le novità del centro, dotato di sofisticate attrezzature digitali, sono quelli che tecnicamente vengono definiti «simulatori di pazienti»: una sorta di manichini collegati a un computer che vengono usati per le esercitazioni mediche. Quattro pazienti (un uomo, una donna incinta, un neonato e unbambino) che riproducono gli organi umani e il loro funzionamento, compresi i movimenti involontari come il respiro, il battito del cuore e il movimento delle ciglia. Talmente simili in tutto e per tutto a un «paziente umano» che all’Ailun li hanno già battezzati: il simulatore di paziente adulto, Hal sr 3201, è stato chiamato Bobore, la donna incinta Paska, il neonato Lorettu e il bambino Luiseddu. Ieri pomeriggio alla presentazione c’erano l’assessore regionale alla Sanità Simona De Francisci, il sindaco Sandro Bianchi, il presidente del consiglio comunale Gianni Salis, il direttore generale dell’Asl Antonio Soru e l’ex direttore Mariano Mulas. C’erano anche i presidenti di Confindustria, Roberto Bornioli, e della Camera di commercio, Romolo Pisano, che presiedono enti soci dell’Ailun. Gli onori di casa li ha fatti l’avvocato Lorenzo Palermo, presidente dell’Ailun: «Il centro nasce grazie all’intuzione di Luigi Arru, presidente dell’ordine dei medici di Nuoro, ordine che tra l’altro è socio dell’Ailun. Arru ci ha convinto che una delle cose migliori da fare era di provare a percorrere la strada delle tecnologie e dell’abilità. Gli interlocutori privilegiati sono le Asl sarde e dunque la Regione». L’assessore De Francisci a sua volta ha ringraziato l’Ailun: «È un’eccellenza, per questo cercherò di sensibilizzare anche le altre Asl della Sardegna. Sono felice che questa struttura d’ccellenza nasca a Nuoro e dunque in posizione baricentrica e raggiungibile facilmente da tutta l’isola. Valuteremo la possibilità di far partire proprio qui corsi specifici per i medici di tutta l’isola». Il centro è costato in tutto circa 600mila euro, da spalmarsi in sei anni. Un grosso contributo lo ha dato la Fondazione Banco di Sardegna, che ha concesso un contributo di 70mila euro. «Possiamo creare situazioni molto rare e complicate - spiega Luigi Arru - per far fare così training ai medici e agli infermieri, che così si esercitano sui manichini e non sui pazienti veri. Ma vogliamo coinvolgere anche le guardie mediche. Sono molto sofisticati, tramite il computer per esempio riescono a riconoscere sino a 200 tipi di medicinali». Martedì c’è stato il primo corso («Trauma pediatrico: dalla teoria alla pratica»), tenuto dal professore americano Kevin Ban, con oltre venti tra medici e infermieri, per lo più dell’Asl di Nuoro ma anche dell’ospedale Brotzu e dall’Asl di Olbia. Oggi la seconda edizione del corso: «I manichini sono utilissimi per le esercitazioni», ha assicurato il professor Ban. __________________________________________________________ Il Sole24Ore 6 Feb. ‘12 QUALI ESAMI PER LA MAMMELLA Guerra aperta tra ricercatori sull'esame d'elezione per la diagnosi precoce del tumore al seno Mammografie o test genetici a scopo preventivo: ecco le opzioni in campo Negli ultimi anni tra i tumori della mammella diagnosticati grazie allo screening mammografico condotto sulla fascia tra i 49 e i 60 anni sono in aumento quelli a rischio "basso" o "ultra basso": «Oggi lo screening sembra identificare preferenzialmente nella popolazione le lesioni a basso rischio» scrivono gli autori di uno studio condotto a livello molecolare, pubblicato in dicembre sulla rivista "Breast Cancer Research and Treatment". Laura Esserman e colleghi dell'Università di San Francisco, in California, hanno confrontato il profilo genetico dei tumori diagnosticati a due distinte coorti di donne olandesi, che hanno ricevuto diagnosi di cancro della mammella prima e dopo l'introduzione dello screening mammografico (nel periodo tra il 1984 e il 1992 le prime e tra il 2004 e il 2006 le seconde). In particolare, la percentuale di lesioni poco significative è cresciuta dal 40,6% della prima coorte (67 su 165) al 58% della coorte più recente (119 su 205). L'analisi è stata condotta solo su donne con tumore nodonegativo, impiegando un test per la prognosi del cancro dell'Istituto tumori olandese, basato su 70 geni e oggi noto commercialmente come MammaPrint, che è giudicato in grado di prevedere la sopravvivenza generale e il rischio di metastasi, nonché di identificare le lesioni a rischio ultra- basso ("ultra-low risk"). Esaminando proprio queste lesioni la differenza tra le due coorti si è ancora accentuata, con la percentuale che è passata dal 10% al 30 per cento. Secondo gli autori il test genetico può quindi essere utilmente impiegato come supporto allo screening per aiutare a identificare le forme tumorali meno temibili. Ma non tutti gli esperti concordano: «In generale penso che si tratti di uno studio stimolante» commenta Kandace McGuire, del dipartimento di chirurgia oncologica dell'Università di Pittsburgh. «In effetti suggerisce che la maggioranza dei tumori rilevati con lo screening è indolente, e potrebbe non aver mai dato origine a tumori clinicamente significativi nelle donne in postmenopausa». Sul valore del test genetico a scopo preventivo, tuttavia, la McGuire ha un'opinione molto critica: «L'idea di aggiungere la profilazione molecolare allo screening suona molto attraente, ma richiede una biopsia, che sarebbe inappropriata a livello di screening. Questa tecnologia può essere usata per decidere la terapia, in particolare per le donne ultrasettantenni, ma non per guidare la diagnosi». Per quella sono assai più preziosi gli strumenti che permettono di evitare la biopsia: «Molti centri, tra cui Pittsburgh, stanno cercando marcatori circolanti nel siero che possono fungere da surrogato di questi profili molecolari, rendendo non necessaria la biopsia per la stratificazione del rischio». Un esempio recente che promette di ridurre le biopsie ripetute nei pazienti ad alto rischio di cancro della prostata è costituito dall'accoppiata di biomarcatori GSTP1 e APC individuata in un piccolo studio pubblicato sul British Journal of Urology International da Bruce Trock e colleghi della Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora, nel Maryland. «È il primo studio prospettico in una coorte definita con criteri di inclusione rigorosi a valutare la potenziale utilità di marcatori della metilazione del Dna per predire l' outcome sulla ripetizione delle biopsie in questa coorte» scrivono Trock e colleghi, mettendo comunque in guardia sulla necessità di confermare il risultato con studi più ampi. Un analogo problema di numeri, infine, obbliga alla cautela anche nell'interpretare i risultati di uno studio sull'efficacia di un immunoassay chiamato PAM4 nella diagnosi precoce dell' adenocarcinoma duttale del pancreas. I ricercatori diretti da David Gold, del Garden State Cancer Center di Morris Plains nel New Jersey, hanno infatti osservato una buona sensibilità e specificità nel rilevare tumori in stadio 1, in cui la sopravvivenza a cinque anni si aggira sul 20% rispetto al drammatico 2-3% medio per questo tipo di tumore. «I sintomi del cancro del pancreas sono vaghi la malattia tende a svilupparsi e a crescere in modo silente. Nel momento in cui viene rilevata si è spesso diffusa ad altre parti del corpo, e questo la rende quasi impossibile da curare. I risultati di questo studio sono estremamente incoraggianti e potrebbero portare in futuro a migliorare la capacità di rilevare il cancro negli individui ad alto rischio» ha spiegato Gold. L'uso combinato del nuovo PAM4 con un immunoassay già impiegato per monitorare il corso della malattia, chiamato CA19-9 si è dimostrato capace di individuare 1'85% dei pazienti con adenocarcinoma duttale del pancreas, conservando una buona specificità. Però lo studio, presentato a San Francisco al 2012 Gastrointestinal Cancers Symposium, ha reclutato finora appena 28 pazienti: pochi per fornire un risultato del tutto affidabile in una malattia in cui come dice Gold «diagnosi precoce e miglioramento della terapia vanno mano nella mano» Fabio Turone __________________________________________________________ Il Sole24Ore 6 Feb. ‘12 «LO SCREENING È DANNOSO: ALLE DONNE RACCOMANDO LA SOLA AUTOPALPAZIONE» IL DIRETTORE DELLA COCHRANE COLLABORATION DANESE ACCUSA Mammografie nell'occhio del ciclone. A puntare il dito contro l'esame offerto gratuitamente anche in Italia alle donne over 50 è stata la Cochrane Collaboration danese, che ha diffuso dati choc mettendo in subbuglio la comunità scientifica. Ma il responsabile dell'Osservatorio nazionale screening, Marco Zappa, rassicura: «Gli screening rispondono a una precisa logica di Sanità pubblica: salvare vite umane». Tutto è partito da un'affermazione tranchant di Peter Gotzsche, direttore della Nordic Cochrane Collaboration di Copenaghen, il braccio danese dell'organizzazione no profit che valuta criticamente la reale efficacia dei trattamenti sanitari: «Per ogni donna salvata dalla mammografia, altre 10 vengono danneggiate perché sottoposte a terapie e operazioni chirurgiche inutili o evitabili». Gotzsche ha analizzato per un decennio i dati pubblicati sul terna, ha pubblicato già varie revisioni sistematiche e ha deciso ora di raccontarne le conclusioni in un libro rivolto alla popolazione generale che sta facendo discutere: «Mammography screening: truth, lies and controversy» (Screening mammografici: verità, bugie e controversie). La sua tesi è lapidaria: ««E tempo di realizzare che questi programmi non possono più essere giustificati». A suo avviso su 2mila donne sottoposte a mammografia probabilmente soltanto una viene salvata, ma altre dieci subiscono un danno. Perché cellule cancerose che morirebbero spontaneamente, o che non evolveranno mai in patologia conclamata, vengono asportate e in alcuni casi (addirittura sei volte su dieci, calcola Gòtzsche) la paziente perde un seno. Senza contare i costi fisici e psicologici dei trattamenti farmacologici e radioterapici. L'esperto danese finisce con il raccomandare alle donne «di non far nulla, se non consultare un medico se notano qualcosa» di anomalo con l'auto-analisi. Un messaggio davvero controcorrente che già dalla scorsa estate, quando era stato pubblicato un articolo che non evidenziava differenze nella mortalità tra Paesi che adottavano o non adottavano programmi di screening, aveva diviso la comunità scientifica. I fautori degli screening, tra cui Julietta Patnick, direttore del Programma di screening oncologici del Nhs britannico, continuano a sostenere che le donne sottoposte regolarmente a mammografia hanno un rischio minore di morire per cancro al seno. E tutti citano le stime della larc, l'Agenzia interna-zionale per la ricerca sul cancro dell'Oms, che calcola una riduzione della mortalità pari al 35%. Dato fortemente contestato da Giszsche, che denuncia i continui attacchi delle «lobby pro-screening», composte da chi «ha interessi finanziari affinché questi programmi continuino». In Gran Bretagna il dibattito è particolarmente acceso. Tanto che a ottobre Mike Richards, noto oncologo nonché National Cancer Director dal 1999, aveva già annunciato l'avvio di una nuova revisione indipendente sull'utilità degli screening mammografici diretta da Michael Marmot, docente di Epidemiologia e Sanità pubblica allo University College London. «Se dovesse risultare che effettivamente i rischi superano i benefici aveva detto Richards non esiterei a sottoporre i dati al Comitato nazionale screening e quindi al ministero». Zappa respinge con sdegno l'accusa di lobby: «Noi siamo mossi da una logica di Sanità pubblica: tutti i lavori più attendibili, compreso l'ultimo riferito qui a Firenze che come Ispo abbiamo appena pubblicato su "Bre(ist cancer research-, parlano di al massimo un caso sovradiagnosticato per ogni vita salvata. Tra pochi mesi sarà diffusa una revisione europea che conferma questo dato». C'è una bella differenza con dieci sovradiagnosi ogni vita salvata, come sostiene GOtzsche. Come può esserci una tale forbice? Zappa non ha dubbi: il problema è nel metodo. «Il gruppo di GOtzsche fa una valutazione a livello di trend di popolazione, che può essere fallace». Non è l'unica informazione errata fornita dal danese, secondo Zappa: «Non capisco come faccia a sostenere che 6 donne su 10 perdono il seno. La percentuale di chi lo conserva è superiore all'85%. In Toscana la quota di interventi conservativi è del 93%. Nessuno pensa che siano uno scherzo, ma le mastectomie totali sono una rarità». Se proprio bisogna trovare qualcosa di buono nel lavoro dei danesi è in generale «l'invito a non medicalizzare troppo». «Il nostro sforzo dice il direttore dell'Osservatorio deve essere quello di ridurre al minimo il rischio di sovradiagnosi. Purtroppo non esistono studi oggi che ci permettono di di-stinguere quale cancro è sovradiagnosticato. Sarebbe utile studiare forme di contenimento degli interventi, in particolare su alcuni tipi di tumore come i carcinomi duttali in situ. Bisogna avere più coraggio di sperimentare». Ma sul consiglio finale alle donne non ha dubbi: «L'idea che si faccia fare soltanto l'autopalpazione non solo è inaccettabile e pericolosa, ma penalizzerebbe proprio le fasce sociali più deboli e svantaggiate, che accedono meno ai servizi sanitari e alla diagnosi precoce». Sarebbe un intollerabile ritorno al passato. Manuela Perrone __________________________________________ L’Unione Sarda 2 Feb. ‘12 CAGLIARI: APPELLO DEGLI ONCOLOGI: PREVENZIONE FONDAMENTALE «Basta un quarto d'ora, con la diagnosi precoce si può battere il male» Tumori, un test salva la vita «Un esame di un quarto d'ora ogni due anni può salvare la vita a tante donne». Con questo messaggio Bruno Massidda, oncologo, Giuseppe Casula, chirurgo, Gavino Faa, anatomopatologo e Gian Benedetto Melis, ginecologo, ricordano che il tumore al seno non è un male incurabile, come per tanto tempo è stato considerato. Anzi, al contrario, attraverso la prevenzione e la diagnosi precoce lo si può sconfiggere. E il numero delle donne che questa battaglia l'hanno vinta è la migliore testimonianza. Un numero in continuo aumento, che dimostra la validità degli strumenti messi in campo. Partendo da questi elementi, gli specialisti impegnati in prima linea rilanciano la campagna di sensibilizzazione per la prevenzione dei tumori in base al piano 2010- 2012 varato dall'assessorato regionale alla sanità. Grazie all'effetto combinato di diagnosi precoce e maggiore efficacia delle terapie, oggi la sopravvivenza al tumore al seno è molto aumentata. Resta, però, un dato allarmante legato all'età: nel passato, il tumore al seno colpiva sopratutto le donne oltre i 40 anni. Oggi, invece, l'età a rischio si è abbassata. «Per quanto riguarda l'incidenza, si nota un progressivo aumento dai 25-29 anni con un picco tra i 65 e i 69 anni», afferma Massidda, direttore di Oncologia medica al Policlinico di Monserrato. «Le nostre ricerche mostrano un'incidenza già elevata tra i 35 e i 44 anni e un picco in una fase molto più precoce, tra i 45 e i 54 anni». Ecco perché soltanto con un esame accurato e tempestivo, oltre che gratuito, lo screening appunto, si possono identificare le caratteristiche biologiche delle cellule neoplastiche ed elaborare una terapia personalizzata ed efficace. Un aspetto determinante nella lotta ai tumori restano i fattori di rischio. La familiarità, prima di tutto. «I dati del Registro tumori regionale», spiega il direttore, Gavino Faa, «mostrano uno specifico profilo di rischio delle donne sarde, caratterizzate da un più alto rischio genetico-familiare». Il che significa che chi ha in famiglia un precedente di tumore al seno ha una maggiore probabilità di ammalarsi. Questo fatto, però, lungi dal suonare come una condanna, deve indurre a una maggiore attenzione per la prevenzione e può trasformarsi in un fattore vincente: proprio la diagnosi precoce che si effettua con lo screening consente, infatti, di scoprire se c'è un tumore quando questo è ancora al primo stadio e, dunque, curabile. Non meno importante è anche il Registro regionale tumori, quel “libro che raccoglie informazioni sui malati di cancro che vivono nell'Isola e che consente di valutare l'incidenza dei tumori e pianificare le strategie. Il suo funzionamento, reso possibile anche grazie al sostegno dell'assessore regionale alla Sanità, Simona De Francisci, contribuisce a garantire efficacia e qualità delle indagini. Mauro Madeddu __________________________________________ La Nuova Sardegna 31 Gen. ‘12 SASSARI: TUMORE DELLA PROSTATA: NUOVE FRONTIERE CON LA BRACHITERAPIA L’ospedale civile è l’unico centro clinico italiano e il secondo in Europa a usare il «target scan» SASSARI. Azienda sanitaria locale e Università unite con la brachiterapia nella lotta contro il cancro della prostata. Sono cinque - quattro della Asl e una dell’Aou - le équipe sanitarie che concorrono a formare il team multidisciplinare della terapia radiologica che ha allargato i confini della cura dei tumori alla prostata. Nel Sassarese, l’uso di questa tecnica (che consiste nell’inserimento con millimetrica precisione di una micro capsula radioattiva) sta per compiere dieci anni ed è all’avanguardia in Europa grazie all’utilizzo di una sofisticata apparecchiatura digitale che viene utilizzata solo in due centri clinici: a Sassari, appunto, e in Inghilterra. «La brachiterapia - si legge in una nota dell’Asl in occasione del decimo anniversario del primo intervento - è una tecnica multidisciplinare che prevede la collaborazione dell’urologo, del radioterapista e del fisico sanitario, e rappresenta una soluzione terapeutica alternativa nel trattamento del cancro della prostata in fase iniziale». Dei 150 interventi eseguiti con questa tecnica al Santissima Annunziata di Sassari, 65 sono stati realizzati con una nuova metodica digitale tridimensionale resa possibile dall’utilizzo dell’innovativo macchinario «target scan». Alla riuscita del progetto concorrono le équipe di Urologia (diretta da Angelo Tedde) dell’ospedale civile di Alghero; il servizio di Radioterapia dell’Istituto di Scienze radiologiche dell’Aou (diretto da Gianni Meloni); Fisica sanitaria dell’Asl1 (diretta da Piergiorgio Marini); Chirurgia del Santissima Annunziata (diretta da Pietro Niolu); il servizio di Anestesia dell’ospedale di Sassari (diretto da Bastiana Leoni). Il decimo compleanno della brachiterapia è l’occasione per ripercorrere la storia di una tecnica grazie alla quale possono essere ridotti drasticamente gli sgradevoli effetti collaterali degli interventi chirurgici per tumori alla prostata. «I primi interventi di brachiterapia a Sassari risalgono al 2002 e vennero eseguiti nella divisione di Urologia dell’ospedale civile, allora diretta da Alfonso Scanu, in collaborazione con l’Urologia dell’ospedale di Alghero - spiegano alla Asl -. Dal 2008, dopo la chiusura della divisione sassarese, l’équipe è stata rinnovata e ha cominciato a operare nella struttura complessa di Chirurgia al Santissima Annunziata, in collaborazione con il servizio di Radioterapia dell’Azienda ospedaliero universitaria». «A partire dal 2008 - spiega Angelo Tedde, direttore dell’Urologia di Alghero - la tecnica che viene utilizzata a Sassari è stata ulteriormente affinata, attraverso apparecchiature all’avanguardia con tecnologia digitale tridimensionale». «Il “target scan” - dicono alla Asl - viene utilizzata attualmente in due soli centri in Europa: uno in Inghilterra, l’altro al “Santissima Annunziata” di Sassari». «Dal 2002 a oggi - riprende Angelo Tedde - sono stati eseguiti 150 interventi di brachiterapia, e di questi 65 utilizzando la nuova metodica digitale tridimensionale su pazienti affetti da tumore della prostata organo-confinati. Attualmente il nostro è l’unico centro in Sardegna che pratica continuativamente tale metodica». «I risultati con la nuova metodica sono davvero confortanti - prosegue l’urologo -. I controlli clinici e strumentali infatti dimostrano una guarigione clinica dalla malattia neoplastica. Nessuno di questi pazienti ha lamentato perdite di urine e la loro vita sessuale è risultata sovrapponibile al periodo precedente la brachiterapia». «La nostra speranza è che questa attività di eccellenza continui ad essere supportata per gli aspetti tecnici, oltre che per quelli logistico- organizzativi - conclude Tedde -. Ci piace sottolineare il fatto che rappresenti un virtuoso esempio di come unità disciplinari, che fanno riferimento alla Asl e all’Aou, riescono a collaborare e ottenere il miglior trattamento possibile per il paziente affetto da malattia oncologica prostatica». __________________________________________________________ Il Sole24Ore 6 Feb. ‘12 NEL CANCRO DELL'OVAIO BRCA1 E 2 AIUTANO LA PROGNOSI Essere portatrici della mutazione BRCA I e BRCA2 espone a un maggior rischio di contrarre un tumore dell'ovaio nel corso della vita rispetto alla popolazione generale, ma quando questa sfortunata eventualità si verifica comporta una migliore prognosi in termini di sopravvivenza a 5 anni. È questa la conclusione di un ampio studio condotto da Kelly Bolton e colleghi del Nartional Caner Institute di Bethesda, i cui risultati sono appena apparsi sul Journal of the American Medical Association: l'analisi di 3.879 casi (di cui 909 con mutazione BRCAI e 303 con BRCA2) ha osservato una sopravvivenza a 5 anni che rispetto al 36% delle non portatrici sale al 44% nelle donne con BRCAI e al 52% in quelle con BRCA2. Queste marcate differenze sono rimaste tali anche dopo varie correzioni dei dati per tener conto dell'anno di diagnosi, dell'età al momento della diagnosi, dello stadio, del grado e dell'istologia. «Questi risultati forniscono un'ulteriore dimostrazione del fatto che il cancro ovarico è una malattia molto più eterogenea dal punto di vista genetico e biologico di quanto si riteneva in passato» scrivono David Hyman e David Spring, dello Sloan Kettering di New York, nell'editoriale di accompagnamento di fama. «Occorrono ulteriori studi altrettanto ampi per comprendere meglio gli effetti delle alterazioni somatiche ed epigenetiche sulla funzione del gene BRCA, e le complesse interazioni con altri alleli ereditati». DIFENDERE LA QUALITÀ DELLA VITA ANTICIPANDO I SINTOMI Se si chiede a un paziente con un tumore della testa e del collo come mangia e come parla a distanza di tempo dall'inizio delle terapie, e come si sente fisicamente e psicologicamente, anche in relazione all'immagine di sé, si scopre che la risposta dipende molto da ciò che i curanti hanno saputo fare in fase preoperatoria per prevenire le classiche complicanze senza aspettare che si manifestassero: «Un intervento precoce è essenziale, ed è semplicemente illogico attendere finché compaiono problemi» spiegano gli autori di uno studio diretto da Gerry Funk, dell'Università dell'lowa, pubblicato in gennaio sugli "Archives of Otolaryngology-Head and Neck Cancer". A 5 anni dall'intervento oltre la metà dei 337 pazienti seguiti lamentava difficoltà ad alimentarsi, il 28,5% presentava sintomi depressivi e il 17,3% riferiva di provare un dolore significativo. Una parte importante (13,6%) fumava ancora e una ancor più significativa (38,9%) beveva alcolici. I più significativi predittori di bassa qualità della vita a 5 anni si sono rivelati il dolore e le difficoltà nel mangiare dovute alla scarsa funzione orofaringea: «Dobbiamo vedere i pazienti presto per valutare la loro capacità di deglutizione e la funzione orofaringea. Occorre sottoporre tutti a valutazioni preoperatorie e postoperatorie da parte di un terapista del linguaggio che deve essere coinvolto attivamente nel trattamento per conservare al meglio le capacità verbali, e tutti devono essere visti da un dentista e da un igienista dentale» spiega Funk. «I pazienti subiranno alterazioni nella salivazione, che però possono essere gestite in modo da non incidere sulla qualità della vita». CONTRO LE RESISTENZE DEL GLIOBLASTOMA Uno studio appena pubblicato sulla rivista Cancer Discovery, edita dalla American Association for Cancer Research, segnala una possibile nuova via di attacco al glioblastoma, un tumore cerebrale letale che ha una sopravvivenza media di appena 15 mesi e generalmente resiste alle terapie antitumorali. Un filone di ricerca promettente è quello che punta ad attivare l'apoptosi, per esempio con l'uso di agenti terapeutici come il Tumor necrosis factor-Related Apoptosis-Inducing Ligand (in sigla Trail), ma i successi ottenuti finora sono stati parziali, perché il tumore è in grado di sviluppare una resistenza. Ora il neuropatologo Chunhai "Charlie" Hao, coni suoi colleghi della Emory university di Philadelphia, ha individuato un nuovo potenziale target per terapie mirate, apparentemente capace di prevenire lo sviluppo della resistenza. LE TRASFUSIONI ESPONGONO A RISCHI EVITABILI Anche per chi non soffre di problemi cardiaci una piccola trasfusione intraoperatoria comporta rischi finora ignorati, per cui dovrebbe essere evitata se non in casi davvero di emergenza. Secondo uno studio condotto da Victor Ferraris e colleghi del Veterans Affairs Medical Center di Lexington, in Kentucky, la trasfusione di un'unità di globuli rossi (PRBC) è molto comune nel corso anche di interventi minori, a dispetto delle linee-guida, ma andrebbe quasi sempre evitata. L'analisi condotta sulla morbilità e mortalità a 30 giorni nei 48.291 pazienti che hanno ricevuto una trasfusione in 173 ospedali americani tra il 2005 e il 2010 ha rilevato una sostanziale differenza nella mortalità rispetto a casi in tutto analoghi che però per scelta del chirurgo non hanno ricevuto alcuna trasfusione: la mortalità associata a una sola unità trasfusa passa dal 5,2% al 6,1%, con una differenza statisticamente significativa (p=0,005). Anche le complicanze della ferita passano dal 9,7% all'11,4% dei pazienti. Secondo gli autori dello studio, pubblicato in gennaio sugli "Archives of Surgery" la maggioranza degli eventi avversi è legata a un'infezione, il che li porta a ipotizzare che la trasfusione di sangue allogenico possa limitare la risposta immune e agire sui mediatori dell'infiammazione. «Usiamo, o permettiamo l'uso di derivati del sangue con troppa libertà nei pazienti emodinamicamente stabili» scrive John Holcomb, chirurgo dell'Università del Texas, in un articolo di commento sulla stessa rivista. «Di solito consentiamo il trattamento alla luce di un singolo valore di laboratorio piuttosto che dell'intero paziente. Ma a meno che il paziente non abbia in corso un'emorragia letale la cosa migliore da fare è semplicemente evitare di trasfondergli derivati del sangue». (a cura di Fabio Turone) __________________________________________________________ Repubblica 31 Gen. ‘12 MASCHI E FERTILITÀ, RISCHIO CELLULARI Da diversi anni si dibatte sui rischi per la salute derivanti dall'esposizione alle onde elettromagnetiche emesse dai telefoni cellulari. Così, dopo l'allarme tumore al cervello, danni all'udito, adesso arrivano ricerche e preoccupazioni per la fertilità per i maschi. A verificarne l'effetto è stato un gruppo di medici dell'università di Catania che ha pubblicato un studio sulla rivista scientifica Journal of Andrology. Secondo Sandro La Vignera, ricercatore dell'università di Catania e autore dello studio, la motilità e la morfologia spermatica sembrano essere i parametri che più risentono negativamente di tale influenza. In particolare sembra che le onde elettromagnetiche localizzino la loro azione tossica principalmente sulle cellule di Leydig del testicolo con una minore produzione di testosterone, nei tubuli seminiferi con l'inevitabile conseguenza di compromettere la produzione degli spermatozoi (spermatogenesi) e danneggiarne il Dna. (a. f. d. r.) __________________________________________________________ Tst 1 Feb. ‘12 PIATTI ALL'AZOTO E BISTECCHE DALLE STAMINALI "Contro l'emergenza alimentare" Mentre alcuni scienziati lavorano per rendere possibile l'agricoltura nello spazio, molti altri rimangono con i piedi per Terra, letteralmente, tentando di trovare soluzioni efficaci per far fronte al crescente fabbisogno alimentare del mondo. Lo scenario rischia di essere apocalittico. Si stima che entro il 2050 l'umanità sarà salita a 9 miliardi di persone e che molti non avranno cibo a sufficienza. La crescita del grano Al Rothamsted Research, nel Nord di Londra, sono operativi alcuni grandi esperimenti: uno, che prosegue ormai da 170 anni, prevede di analizzare le «performances» di crescita del grano in relazione al tipo di fertilizzazione adottata. Un altro, recentissimo, studia soluzioni innovative che, a differenza dei fertilizzanti tradizionali, siano più efficaci e sicuri per l'ambiente e per l'uomo. Un obiettivo, per esempio, è la replicazione in una serie di piante del meccanismo che permette ai legumi di acquisire il loro alto contenuto di proteine tramite la fissazione dell'azoto. I legumi, infatti, sono delle vere e proprie «fabbriche» di azoto che, grazie all’aiuto di batteri simbiotici, viene convertito in modo da essere utilizzato dalla pianta stessa per ottenere sostanze vitali come aminoacidi e proteine. «La questione per noi è capire se è possibile mobilitare i meccanismi di fissazione dell'azoto in colture diverse», ha spiegato Maurice Moloney, direttore del Rothamsted, in un reportage sulla rivista «Cosmos». Intanto gli scienziati stanno lavorando anche allo sviluppo di coltivazioni che diano vantaggi diretti alla salute dei consumatori. «Nella dieta occidentale osserva Moloney - si registra un prevalente deficit di acidi grassi omega 3». Si tratta di sostanze, note per i loro effetti benefici, che si trovano perlopiù nelle alghe marine di cui si cibano i pesci. «Ora abbiamo clonato i geni associati a questi acidi e stiamo studiando anche quelli che si trovano nei semi di lino e nell'olio di canola». Hanno invece già prodotto risultati straordinari le nuove tecniche che si basano sullo sfruttamento delle capacità delle piante di produrre sostanze utili. Prova ne è il programma «Adopt» (acronimo di «Adaptation and dissemination of the push-pull technology»), attivato nell'Africa sub-sahariana. L'iniziativa si propone di diffondere la tecnologia agricola definita «push and pull», che prevede l'uso, nella coltivazione dei cereali, di piante capaci di emettere particolari sostanze chimiche che attirano insetti utili e respingono quelli insetti dannosi. Completamente diversa, invece, è la strategia proposta da George McGavin, docente della University of Oxford, convinto che gli insetti stessi siano il cibo perfetto per gli uomini. «Sono probabilmente l'alimento ideale ha spiegato in termini di proteine, carboidrati, grassi e di ogni genere di sostanza di cui noi umani abbiamo bisogno». PIATTO DI CAVALLETTE Per chi, però, rifiuta l'idea di dover un giorno sostituire una bella bistecca con un piatto di cavallette, si prospetta un futuro in cui la carne sarà meno costosa e anche meno inquinante per l'ambiente. Un gruppo di scienziati dell'Università di Maastricht è vicino alla creazione di hamburger fatti di carne di manzo coltivata in laboratorio. Di recente, infatti, è stato dimostrato che è possibile far crescere la carne da cellule staminali di animali vivi oppure da animali già macellati. Peccato che il suo colore non sia ancora dei più appetitosi. [V. ARC.] __________________________________________________________ Italia Oggi 4 Feb. ‘12 ZUCCHERO PERICOLOSO COME L'ALCOL Provoca patologie gravi: diabete, obesità e malattie del cuore DI MASSIMO GALLI Eccolo, l'ultimo in ordine di tempo a finire sul banco degli imputati. Il suo nome è zucchero. Ora, negli Stati Uniti, si sono accorti che consumarne troppo fa male. La scoperta è stata fatta dalla rivista Nature, che ha pubblicato una ricerca condotta da tre scienziati dell'università della California. Il trio ha emesso il verdetto: c'è un legame stretto stretto fra eccessivo consumo di zucchero e l'aumento di una serie di malattie non trasmissibili come il diabete, l'obesità, le patologie cardiovascolari, il cancro. Lo zucchero, sia in polvere sia nella versione un po' sorpassata delle zollette, è tanto pericoloso quanto il fumo e l'alcol. Al punto che è urgente bandirlo, scoraggiando i suoi affezionati con nuove tasse sui prodotti troppo dolci. E siccome sulla graticola sono finiti soprattutto i prodotti confezionati come le merendine, ricche di sciroppi zuccherati, e le bevande gassate, gli scienziati chiedono di aumentarne il prezzo fino a raddoppiarlo. Come se la crisi economica non bastasse a modificare le abitudini alimentari: c'è chi non compra neppure frutta e verdura, le cui qualità sono tanto decantate, perché troppo salate. Nel senso dei soldi, s'intende. Ma l'équipe californiana va oltre: bisogna chiudere un po' di negozi che vendono cose dolci e ridurne l'orario di apertura, oltre a fissare un'età minima per l'acquisto. Come per gli alcolici. Una versione post moderna di proibizionismo. Le malattie non trasmissibili sono all'origine di oltre 35 milioni di morti all'anno in tutto il mondo: più delle malattie infettive. E non si tratta di roba da ricchi: esse ricadono per 1'80% sui paesi economicamente più deboli e sulle classi sociali svantaggiate. Gli esperti sostengono che sul pianeta sono stati identificati 366 milioni di diabetici, che dovrebbero salire a 500 milioni nel 2030. I ricercatori americani ritengono che non basti la risoluzione, adottata pochi mesi fa dall'Onu, che raccomanda l'attività fisica e un'alimentazione priva di eccessi di grassi, sale e zucchero. Meglio passare alle maniere forti, perché è dimostrato che il saccarosio e gli zuccheri aggiunti agli alimenti contribuiscono all'epidemia di obesità. I più pericolosi sono gli additivi che migliorano il sapore dei cibi confezionati: gli americani ne vanno matti. E mentre la frutta fornisce da 20 a 30 grammi di fruttosio al giorno, gli sciroppi industriali possono apportarne fino a 150 grammi. In Francia c'è scetticismo su questa presa di posizione. L'Associazione nazionale delle industrie alimentari osserva che la visione degli autori della ricerca è condizionata dalla situazione americana, dove i comportamenti dei consumatori sono molto diversi da quelli europei. Oltralpe si è scelto non tanto di proibire, quanto di proporre alternative e di migliorare i prodotti esistenti. Niente soluzioni drastiche, insomma. Nell'Unione europea, entro il 2016, sarà obbligatorio indicare sull'etichetta il valore energetico del prodotto, la quantità di grassi, di zuccheri, di proteine e di sale. Poi sarà l'affamato a decidere come riempirsi lo stomaco. __________________________________________ Le Scienze 3 Feb. ‘12 LE TRACCE CEREBRALI DEL RISCHIO DI DIPENDENZA I fratelli delle persone affette da dipendenza condividono con esse caratteristiche strutturali del cervello che li distinguono dalle altre persone sane, caratteristiche che possono essere considerate dei marcatori biologici di vulnerabilità. Il comportamento finale sarà il risultato delle interazioni fra questi fattori genetici e quelli legati allo sviluppo e all'ambiente, che agiscono in modo diverso su ciascuna delle regioni cerebrali vulnerabili Chi soffre di una dipendenza condivide alcune caratteristiche strutturali del cervello con i fratelli non dipendenti, caratteristiche che non si riscontrano invece in altri soggetti sani. E' quanto ha rilevato uno studio condotto da ricercatori dell'Università di Cambridge e di altri centri di ricerca, che ne riferiscono in un articolo pubblicato su "Science". Vari studi precedenti avevano notato che nei soggetti dipendenti da sostanze stimolanti si riscontravano alterazioni strutturali in alcune regioni cerebrali; specificamente, in alcune parti dello striato e della regione prefrontale. Questo dato, tuttavia, di per sé non permetteva di stabilire se le anomalie fossero una causa della dipendenza oppure un effetto dell'uso della sostanza. Per chiarire la questione Karen Erschen e colleghi hanno effettuato un confronto tra coppie di fratelli, uno solo dei quali aveva un comportamento di dipendenza, e un gruppo di soggetti sani di controllo. I ricercatori hanno testato per prima cosa la capacità dei soggetti di controllare i loro impulsi, notoriamente compromessa in varia misura nei soggetti che assumono droghe o alcool. A questo scopo hanno fatto eseguire ai soggetti sperimentali un compito in cui la persona deve reprimere una risposta ben consolidata a un segnale uditivo presentato all'improvviso, da cui è risultato che sia i fratelli dipendenti sia i non dipendenti offrivano prestazioni più modeste rispetto al gruppo di controllo. Successivamente, i ricercatori hanno individuato alcune differenze nei sistemi cerebrali fronto-striatali condivise dai fratelli, ma non dai controlli. Le anomalie, registrate attraverso brain imaging, comprendevano in particolare una minore densità dei tratti di fibre di materia bianca adiacenti alla corteccia frontale inferiore destra, un aumento del volume della materia grigia nel putamen e nell'amigdala, e una diminuzione del volume della materia grigia nella parte posteriore dell'insula. Alcune differenze minori sono però state riscontrate anche nelle coppie di fratelli. "Il coinvolgimento del putamen - scrivono gli autori - è coerente con la sua implicazione nei circuiti fronto-striatali per le prestazioni nella reazione alla condizione di stop ed è probabilmente antecedente ai problemi nel controllo della risposta. Le altre variazioni nelle coppie di fratelli possono invece essere correlate ad altri processi psicologici sottostanti alla dipendenza. Le anomalie cerebrali osservate nei sistemi neurali sottostanti all'apprendimento e alla memoria [come il lobo mediale temporale], e alla formazione delle abitudini [come il putamen] sono particolarmente interessanti, dato che si ritiene che alcune forme di tossicodipendenza si sviluppino attraverso l'acquisizione e il controllo di abitudini disadattive. L'allargamento delle strutture limbiche e striatali era già stato segnalato in pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo (OCD): come la dipendenza, l'OCD è caratterizzato da abitudini disfunzionali a comportamenti fuori controllo". Il comportamento di dipendenza appare quindi il risultato di interazioni genetiche, di sviluppo e ambientali, che agiscono in modo diverso su ciascuna delle regioni cerebrali coinvolte, contribuendo al "saldo netto" tra fattori adattivi o disadattivi. Fratelli dipendenti e non dipendenti condividono varie caratteristiche di vulnerabilità ma nei fratelli non dipendenti altre caratteristiche sono simili a quelle dei controlli per quanto riguarda l'equilibrio complessivo tra fattori di rischio e fattori protettivi. Il bilanciamento tra questi fattori determina se un individuo sarà in grado di bloccare un impulso inappropriato. __________________________________________ Le Scienze 1 Feb. ‘12 LE PAROLE NELLA MENTE: DAL SUONO AL SEGNALE NEURALE Grazie alla registrazione dell'attività elettrica del cervello di alcuni volontari, un gruppo di ricercatori statunitensi è riuscito a ricostruire le parole udite dai soggetti durante una normale conversazione. Il risultato potrebbe rappresentare il primo passo verso la realizzazione di dispositivi protesici per persone con deficit di linguaggio ( Presto potrebbe essere realtà la possibilità, mediante opportuni strumenti, di "ascoltare" il monologo interiore di un individuo, senza che questo proferisca parola, secondo quanto reso noto in un articolo pubblicato su PLoS Biology da ricercatori dell'Università della California a Berkeley e dell'Università della California a San Francisco guidati da Robert Knight. Il risultato potrebbe essere estremamente utile, per esempio, per aiutare i pazienti colpiti da una disabilità nelle aree del linguaggio. I ricercatori sono partiti da un dato: il sistema neurofisiologico preposto alla comprensione del linguaggio parlato procede in prima istanza a decomporre il flusso di parole e altri suoni complessi in rappresentazioni elementari di diversa frequenza, che vengono poi indirizzati verso la successiva elaborazione fonetica e lessicale. Questa prima analisi uditiva procede dalla coclea fino alla corteccia uditiva primaria, fornendo una fedele rappresentazione delle caratteristiche spettrali del suono udito, anche per quegli elementi fondamentali per la percezione del linguaggio, come i formanti (i “picchi” peculiari di uno spettro vocale), la transizione tra un formante e l'altro e la suddivisione in sillabe. Per quanto riguarda l'esatta localizzazione di questi processi, si ritiene che nella trasformazione dell'informazione acustica in rappresentazioni fonetiche e prelessicali – e in particolare in uno stadio intermedio di elaborazione in cui vengono estratte le caratteristiche dello spettro temporale essenziali per il riconoscimento dell'oggetto uditivo e vengono scartati gli elementi non essenziali – rivesta un ruolo fondamentale il giro temporale superiore posteriore (pSTG). Per studiare la natura di questa rappresentazione uditiva, i ricercatori hanno misurato, nella popolazione neurale del pSTG interessata, le risposte a vari stimoli uditivi. In seguito si è cercato di procedere “a ritroso”, valutando quanto accuratamente lo stimolo originario potesse essere “ricostruito” a partire dalle risposte neurali misurate. "A un certo punto, il cervello deve estrarre tutta l'informazione uditiva disponibile e associarle una parola, poiché possiamo comprendere linguaggio e parole indipendentemente dal loro suono", ha spiegato Brian N. Pasley, primo autore dello studio. "La grande questione è: qual è l'unità di linguaggio in assoluto più significativa? Una sillaba? Oppure un fonema? Possiamo testare queste ipotesi utilizzando i dati che si riescono a estrarre da queste registrazioni". I risultati sono considerati talmente incoraggianti da far intravvedere applicazioni finora impensate. "Si tratta di un enorme passo avanti per i pazienti che hanno subito un danno ai meccanismi del linguaggio a causa di un ictus o della sclerosi laterale amiotrofica", ha spiegato Robert Knight, che ha guidato la ricerca,. "Se un giorno si riuscirà a ricostruire una conversazione immaginata a partire dall'attività cerebrale si potranno ottenere benefici per migliaia di persone". "La nostra ricerca si è basata sui suoni che una persona percepisce effettivamente, ma per poter sfruttare i risultati per realizzare un dispositivo protesico, questi principi dovrebbero essere applicati su una persona che sta solo pensando una parola, senza riuscire a pronunciarla", ha sottolineato. "Esistono prove, anche se limitate, che la percezione e l'immaginazione possano essere abbastanza simili nel cervello: se si riesce a comprendere sufficientemente bene la relazione tra i suoni e la registrazione che ne fa il cervello, sarebbe possibile sia sintetizzare il suono che la persona sta realmente pensando, o soltanto scrivere le parole con qualche tipo di dispositivo d'interfaccia". __________________________________________ Sanità News 1 Feb. ‘12 DUECENTOMILA ITALIANI SOFFRONO DI MALATTIE CRONICHE DELL’INTESTINO Sono circa 200mila gli italiani che soffrono di malattie infiammatorie croniche intestinali (mici), come il Chron o la colite ulcerosa. Si tratta soprattutto di giovani tra i 20 e 35 anni, e sempre piu' spesso anche bambini e adolescenti, anche se le cause non sono ancora del tutto chiare. Sono alcuni dei dati presentati a un seminario organizzato a Milano, in cui e' stato presentato anche il libro 'Il fuoco dentro. Le malattie infiammatorie croniche dell'intestino. In Europa 2,2 milioni di persone soffrono di queste malattie autoimmuni, mentre in Italia ogni anno si registrano 3-5mila nuove diagnosi di colite ulcerosa e 1.300-2000 di Chron. ''Purtroppo la diagnosi ancora oggi e' un problema - spiega Silvio Danese, responsabile del centro di ricerca e cura delle mici dell'istituto Humanitas di Rozzano - Dalla comparsa dei sintomi alla diagnosi passano in media 5 anni''. I sintomi della malattia infatti sono comuni ad altre patologie, e molti riescono a convivere con dolori addominali ricorrenti e diarrea. ''Fin quando poi non arrivano le complicanze - continua - su cui neanche i farmaci sono piu' efficaci, e bisogna intervenire chirurgicamente. A livello europeo si sta lavorando per stabilire delle 'bandiere rosse', cioe' dei parametri da cui far scattare l'allarme e inviare il paziente dallo specialista''. ''Piu' la diagnosi e' precoce - aggiunge Danese - e prima si puo' intervenire con i farmaci per evitare complicazioni. Da questo punto di vista molto efficace si sono rivelati i farmaci biologici, come l'anticorpo monoclonale infliximab''. Ma le difficolta' per i malati sono anche di tipo economico, spiega Salvo Leone, direttore di Amici (Associazione malattie infiammatorie croniche intestino): ''Su molti esami di laboratorio non c'e' l'esenzione dal ticket, e nel 2011 le spese per i pazienti sono aumentate del 35%, mentre quella farmaceutica per lo Stato e' calata del 6,4%''.(Sn) __________________________________________ Sanità News 12 Gen. ‘12 L'EUROPA E IL FENOMENO DELLE DEMENZE Sono oltre 35 milioni le persone con demenza nel mondo e ci si aspetta che nei prossimi vent'anni tale numero raddoppiera' o quasi, superando i 65 milioni. Solo in Europa le demenze colpiscono 10 milioni di persone, e anche in questo caso il numero e' destinato a crescere fino sfiorare i 14 milioni nel 2030 (World Alzheimer Report 2010). Tra le principali demenze, l'Alzheimer colpisce nel mondo 25 milioni di persone (Alzheimer Association, 2011). Attorno alla ricerca per la diagnosi precoce di demenze e malattie neurodegenerative, in particolare Alzheimer e Parkinson, si sono riuniti 49 Centri di provenienza internazionale, partner del nuovo progetto BiomarkApd, approvato nei mesi scorsi dalla Eu Joint Programme - Neurodegenerative Disease Research (Jpnd) con un finanziamento di circa 10 milioni di euro provenienti da vari enti dei paesi coinvolti. Scopo dello studio e' quello di mettere a punto un Protocollo comune per l'estrazione dei marcatori biologici, indicatori precoci delle malattie neurodegenerative, al fine di stabilire dei parametri condivisi di misurazione degli stessi, attraverso una comparazione tra le centinaia di campioni estrapolati nei diversi Centri, al fine di favorire una piu' efficace diagnosi della malattia. Il progetto ha anche l'obiettivo di raccogliere in una bio-banca, con sede a Lussemburgo, centinaia di campioni (200 da pazienti con Mild Cognitive Impairement, ovvero disturbi cognitivi lievi, altrettanti da pazienti con Alzheimer e con Parkinson nonche' da anziani senza anomalie) per conservarli in una sede centralizzata al fine di testare i diversi marcatori. Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia sono i paesi di provenienza dei Centri aderenti al consorzio. Per l'Italia, tra gli Irccs coinvolti, il Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia, sostenuti per questo progetto con un finanziamento da parte del ministero della Salute di circa 500 mila euro. Ancora attorno alle demenze, l'Irccs Fatebenefratelli di Brescia e' referente per l'Italia di uno studio multicentrico internazionale (europeo e canadese), ''The GENetic Frontotemporal Dementia Initiative'' (Genfi), finanziato all'interno del bando CoEN, Centri di Eccellenza sulla Neurodegenerazione, ed avviato a novembre, allo scopo di identificare marcatori precoci di demenza frontotemporale dovuta a mutazioni genetiche. La ricerca consistera' nel raccogliere dati clinici biologici, di forme genetiche e di risonanza magnetica di famiglie con persone colpite da demenza frontotemporale, per seguire il decorso e la storia della malattia. com-map/lus/bra (Sn) __________________________________________ Corriere della Sera 15 Gen. ‘12 PAESI «PER VECCHI» NON SOLO «DI VECCHI» di NICCOLÒ MARCHIONNI* I sistemi sanitari europei non sembrano in grado di garantire un'assistenza sanitaria adeguata alla crescente popolazione anziana. L'allarme viene lanciato da oltre 1.100 medici di Paesi della Ue, intervistati dall'Economist Intelligence Unit, e da un editoriale del British Medical Journal. L'80% degli interpellati è molto preoccupato per le cure che riceverà da vecchio, il 50% crede che i sistemi sanitari siano impreparati a fornire cure individualizzate e integrate, sanitarie e sociali, necessarie per gli anziani. E quasi il 50% è convinto che il principale ostacolo all'accesso degli anziani a trattamenti ottimali sia legato al pervasivo ageismo della sanità: neologismo col quale si intende «atteggiamento di discriminazione verso gli anziani sulla base della loro età cronologica». Rimangono quindi ancora in cerca di soluzione problemi antichi, ma ineludibili, nei Paesi occidentali, dove la popolazione è in progressivo invecchiamento, con gli ultra 65enni destinati a superare il 33% entro 20 anni in Italia. La soluzione richiede, prima di tutto, un ottimistico cambio di prospettiva. L'invecchiamento della popolazione, spesso paventata causa di tracollo socio-sanitario, deve essere visto invece come una buona notizia, un successo delle migliorate condizioni responsabili dell'accresciuta aspettativa di vita. Forse, questo positivo cambio di visione è già in atto. Nel 2011, i posti nelle scuole di specializzazione in Geriatria italiane sono aumentati, in controtendenza nel panorama nazionale. L'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ed il suo omologo europeo European Medicines Agency (EMA) hanno fondato comitati di geriatri con il mandato di promuovere la ricerca di cure appropriate per gli anziani. Infine, il 2012 è dedicato dall'OMS allo sviluppo di programmi di invecchiamento attivo e in buona salute. Qualcosa, quindi, si muove in una prospettiva opposta a quella temuta — e per il momento a ragione — dai medici intervistati. Prospettiva che garantisca che l'Europa si attrezzi a sostenere la spinta dell'invecchiamento della popolazione, diventando Paese per vecchi, e non solo di vecchi. * Chairman, Geriatric Expert Group European Medicines Agency, London __________________________________________ Corriere della Sera 15 Gen. ‘12 QUANDO LEIBNIZ E STAHL LITIGAVANO SULLA DEFINIZIONE DI «VIVENTE» Fu chimico e medico del re di Prussia di ARMANDO TORNO C orreva l'anno 1708. Nel mondo erano successe un sacco di cose, ma la storia ama ricordare Carlo XII di Svezia che trovò un accordo con i cosacchi di Mazeppa, o quel lento e inesorabile tramare dei Gesuiti che consigliavano Luigi XIV di Francia di perseguitare concretamente i giansenisti. Certo, sempre in quel 1708 l'olandese Herman Boerhaave pubblicò le sue Institutiones medicae, indiscutibile punto di riferimento per la clinica. Anche se questo formidabile dottore, che era pure chimico e botanico, sovente si celebra per la sindrome che reca il suo nome: quella che comporta la rottura spontanea dell'esofago. Sempre in quel 1708 il titolare della cattedra di medicina dell'Università di Halle, Georg Ernst Stahl, dà alle stampe un'opera dal titolo altisonante: Theoria medica vera. Oggi, quasi sicuramente, la prenderebbero in considerazione soltanto gli antiquari se di essa non si fosse occupato uno dei filosofi sommi, Gottfried Wilhelm Leibniz. Cosa successe? Innanzitutto una polemica tra i due. Ma non si trattò di una disputa sterile, perché dall'incrocio intellettuale dei fioretti e poi delle sciabole, oltre il contrasto tra vitalismo (Stahl) e meccanicismo (Leibniz), venne messa in gioco la stessa definizione di «vivente». Anche il vocabolo «organismo», termine che come desidera il suo etimo riguarda i corpi organici, già rintracciabile in Aristotele e che nella filosofia cartesiana si spiegava ricorrendo a una macchina, ritrova in questa polemica nuove coordinate. Si arriverà anche a mettere meglio in luce quella che oggi si chiamerebbe l'«auto-organizzazione» di questo benedetto «organismo». Insomma, disputa feconda. Utile. Fascinosa. E, tutto sommato, divertente. Vediamone qualche aspetto ora che Antonio M. Nunziante ha pubblicato, con testo originale e traduzione, le Obiezioni contro la teoria medica di Georg Ernst Stahl di Leibniz «sui concetti di anima, vita, organismo» (Edizioni Quodlibet). D obbiamo immaginarci un giorno qualunque del 1709, quando il filosofo tedesco, a cui non sfuggiva nulla, alcuni mesi dopo la pubblicazione comincia a compulsare le pagine del ponderoso tomo contenente la Theoria medica vera del professor Stahl. Mentre a quest'ultimo giungono plausi e approvazioni, che creati, sottoposti o colleghi meno potenti si affrettano a inviargli, Leibniz è intento a stilare annotazioni critiche, precisazioni, punzecchiature. Ne nasce, come ricorda Nunziante, un primo manoscritto con osservazioni critiche — o animadversiones — che il pensatore spedisce il 29 luglio di quel 1709 al barone Karl Hildebrandt von Canstein. E questi, com'era abitudine, lo gira al diretto interessato. Stahl, dopo essersi crogiolato tra lodi e giudizi proni e supini, accusa il colpo; fa finta di nulla. Leibniz, del resto, in quell'anno è noto più per la fama riflessa che non per le opere. Per esempio, la Teodicea non ha ancora visto la luce, i Nuovi saggi sull'intelletto umano sono finiti ma verranno pubblicati soltanto nel 1765, la Monadologia la scriverà nel 1714 (e uscirà nel 1720); insomma, perché un potente accademico avrebbe dovuto replicare a un personaggio noto ma non illustre? Gli aveva ricordato che «l'azione propria dell'anima è distinta dal movimento» (XXX obiezione), ma si era permesso qualche insolenza. Come nel finale dell'VIII obiezione: «Io ero solito collocare la vita nella percezione e nell'appetito. Il celebre autore la individua piuttosto nella capacità del corpo di conservarsi contro la tendenza al disfacimento, perché altrimenti i corpi viventi sarebbero assolutamente instabili, di modo che la vita finirebbe per essere l'equivalente del sale, come un tale diceva per scherzo riferendosi all'anima del maiale». P oi si sa come andavano queste faccende. L'impassibilità iniziale era incalzata da solleciti, dalle domande di qualcuno che conosceva Leibniz per i saggi sul movimento o sull'ottica usciti sugli «Acta eruditorum» o su riviste del genere, senza contare che von Canstein non era tenuto al silenzio. Stahl, in altre parole, risponde. La distanza tra i due però resta e l'accademico non riesce, in oltre cento pagine, a rintuzzare l'avversario. Per esempio, il colpo del filosofo nella IX obiezione, in cui esamina la concezione della vita ridotta a funzione vegetativa ed esercitata da una forza meccanica, prelude a un vero e proprio attacco contro la nozione di anima di Stahl, ma l'accademico non capisce e ritiene superfluo controbattere. Quando Leibniz riceve la risposta si rende conto di essere stato frainteso. Si irrita. E un certo suo nervoso traspare nella seconda replica che invia al clinico nel 1711. I punti della polemica restano sostanzialmente invariati, ma cadono talune osservazioni metodologiche e si rafforzano quelle teoretiche. Stahl lavorerà ad altre risposte e soltanto nel 1720 — Leibniz era sepolto da quattro anni — pubblicherà tutti i documenti del litigio sotto il titolo Negotium otiosum. Ma il rivale era ormai ridotto al silenzio eterno. Louis Dutens nel 1768, curando per la prima volta gli scritti di Leibniz, partì da quest'opera per ricostruire la querelle. In essa, comunque, spicca ancora la lucida argomentazione del pensatore, secondo cui ogni «organismo» è un «meccanismo»; difficilmente si può riproporre quanto asseriva il clinico, cioè che ogni meccanismo «si sostiene su» un meccanismo o «presuppone» un meccanismo. Leibniz, da buon logico, sottolinea che non è sufficiente. Come dargli torto? __________________________________________ Corriere della Sera 5 Feb. ‘12 LA CITTÀ PIÙ CARDIOPROTETTA D'ITALIA La città più «cardioprotetta» del mondo? Seattle, negli Stati Uniti, a detta degli esperti. In Italia, invece, il palmares spetta a Piacenza. È qui che tredici anni fa è partito il Progetto Vita, il primo progetto Europeo di defibrillazione precoce sul territorio realizzato per prevenire la morte improvvisa da arresto cardiaco. «Nel '98 ero negli Stati Uniti e mi hanno chiamato per una riunione alle 6 di mattina. Mi hanno mostrato questo nuovo apparecchio — racconta Alessandro Capucci, ideatore del progetto e oggi direttore della Clinica di cardiologia dell'Università Politecnica della Marche —. Ebbi la netta sensazione che si sarebbe potuto aprire un nuovo decisivo capitolo nella storia della defibrillazione, diffondendolo e facendolo usare da tutti». Tornato a Piacenza, Capucci lo ha proposto ad alcuni suoi colleghi, tra i quali la cardiologa Daniela Aschieri, e sono iniziati incontri con la cittadinanza per divulgare questa nuova cultura dell'emergenza e per raccogliere i fondi necessari al progetto. «Il personale laico a Piacenza è addestrato in prima battuta alla defibrillazione: due ore di corso per imparare a defibrillare. Successivamente, chi lo richiede può frequentare il corso di rianimazione cardiopolmonare di base — dice Daniela Aschieri, oggi responsabile medico del Progetto Vita — . Perché non tutto insieme? Abbiamo pensato che la soluzione più semplice ed efficace per impostare un programma di defibrillazione sul territorio fosse insegnare solo a defibrillare. Allora, era improponibile coinvolgere laici, poliziotti e volontari in genere a fare lunghi corsi di rianimazione, mentre imparare ad usare un defibrillatore è estremamente facile. Così tutti hanno accettato. Un modello sperimentale semplice che ha permesso di salvare 78 vite in 13 anni, dati che abbiamo pubblicato anche sulla rivista Circulation». In questo modo sono stati addestrati 8 mila piacentini per l'utilizzo dei 250 defibrillatori distribuiti sul territorio cittadino e provinciale. «La base di questa scelta è semplice: — aggiunge Aschieri — un sistema di defibrillazione precoce deve organizzarsi per permettere l'arrivo di un defibrillatore in 3-5 minuti. L'ambulanza arriva con i suoi tempi, più o meno lunghi. Se i laici, possibilmente coordinati dal 118, arrivano prima, defibrillano. E se arrivano entro 3-5 minuti spesso la defibrillazione è sufficiente. A Piacenza, in città, l'ambulanza arriva entro 8 minuti e il sistema funziona». Nella città emiliana adesso si stanno spingendo oltre nel concetto della defibrillazione di comunità. «Stiamo mettendo cartelli che indicano come usare in tre mosse il defibrillatore — dice la cardiologa — in modo da stimolarle l'uso, anche se non si è seguito il corso qualora non ci siano alternative». Ma non si va contro la legge? «In questo caso — risponde — vale la causa di non punibilità dello stato di necessità prevista dall'articolo 54 del codice penale. Il defibrillatore, comunque usato, non può peggiorare la situazione di un arresto cardiaco. Per questo dovremmo metterne uno a fianco di ogni estintore e lasciarlo usare come di fa negli Usa». L'impostazione piacentina non raccoglie consensi unanimi. «Qui puntiamo su una cosa diversa: — dice Alberto Zoli, direttore generale di Areu 118 Lombardia — il minimo indispensabile di defibrillatori sul territorio, mentre ogni ambulanza, sia quelle adibite al semplice trasporto sia quelle per il soccorso, deve averne uno. Preferisco avere il defibrillatore dove mi serve, soprattutto perché a bordo dell'ambulanza ci sono persone che sanno farlo funzionare». __________________________________________ Corriere della Sera 5 Feb. ‘12 C'È PERSINO IL POLLICE DA SMARTPHONE Non ci separiamo mai o quasi da smartphone, tablet e computer, che così sono diventati protagonisti di "patologie" del terzo millennio tutte nuove, dovute all'uso scorretto o esagerato. Ce n'è per tutti i gusti: dal nuovissimo mal di tablet al pollice da smartphone, la tendinite dovuta all'eccessivo invio di sms, che dal 2005 al 2010 è aumentata del 40%: inviare decine di sms al giorno digitando in velocità sulle mini- tastiere dei cellulari significa sollecitare ripetutamente l'articolazione del pollice e indolenzire le altre dita e i polsi. Stando ai dati di uno studio dell'Università canadese di Waterloo, inoltre, l'84% di chi usa molto gli smartphone lamenta fastidi alla base del pollice destro, alla spalla destra o al collo. L'uso sbagliato del telefono porta anche alla telephone neck syndrome, dovuta alla posizione assunta quando parliamo al cellulare (ma anche a un fisso) tenendolo fra collo e spalla per avere le mani più libere e, ad esempio, prendere appunti: farlo spesso significa guadagnarsi contratture muscolari, infiammazione delle articolazioni e dolori. Per evitarlo un tempo esistevano le cornette modificate per adattarsi alla spalla, accessorio obbligato per le telefoniste; oggi si può ricorrere ai più efficienti auricolari, che secondo una ricerca Usa di qualche anno fa possono quasi dimezzare il rischio di dolori a collo, spalle e schiena quando si passa molto tempo al telefono. E che dire della dermatite da cellulare? La Società italiana di Dermatologia ha lanciato l'allarme un paio di anni fa, stimando che sono già oltre 10mila gli italiani con bollicine, arrossamento e prurito vicino all'orecchio per colpa di nichel o cromo contenuti nei cellulari. Il pericolo maggiore si avrebbe in estate, quando il sudore fa sì che piccole quantità di metallo si sciolgano e chi è allergico possa perciò avere qualche fastidio, se telefona molto spesso. __________________________________________ Corriere della Sera 5 Feb. ‘12 Per i giovani l'ergonomia conta poco IL MODO GIUSTO PER USARE IL TABLET (pensando alla schiena e al collo) Inclinazioni ad hoc per scrivere, per giocare o per guardare un film T utti pazzi per i tablet: sono l'oggetto del desiderio di oggi. Le vendite di questi computer touch-screen sottili e leggeri stanno surclassando quelle degli altri prodotti elettronici. Ma per colpa di posizioni scorrette iPad e compagnia potrebbero provocare dolori a collo e spalle. Potevano mancare allora le raccomandazioni d'uso con il "bollino" della scienza? Ecco quindi uno studio dell'Universitàdi Harvard, accessibile a tutti sul sito web della rivista "Work: a Journal of Prevention, Assessment and Rehabilitation", che dà le prime indicazioni per prevenire il "mal di tablet". Jack Dennerlein, esperto del Dipartimento di Salute Ambientale ad Harvard, spiega perché ha voluto studiare l'argomento: «Il successo enorme e immediato dei tablet non ha permesso di sviluppare linee guida per ottimizzare il benessere e la comodità degli utenti; l'uso di questi strumenti comporta infatti posizioni molto diverse rispetto a quelle assunte stando davanti a un normale computer, con una flessione maggiore di collo e testa che può favorire dolori a collo e spalle». Per individuare la "posizione da tablet" Dennerlein ha sottoposto 15 volontari a vari test, usando due diverse marche di prodotti con le rispettive custodie, l'iPad2 della Apple con la sua Smartcover, che consente di usarlo con inclinazioni di 15 o 73 gradi, e lo Xoom Motorola con il Portfolio Case che prevede due angolazioni d'uso, 45 e 62 gradi. I volontari hanno testato l'utilizzo dei tablet tenendoli semplicemente in grembo, poggiandoli sulle gambe ma con l'inclinazione minore, piazzandoli su un tavolo con le due diverse angolazioni permesse dai case. Ai partecipanti è stato chiesto di navigare su internet, rispondere alle mail, giocare, leggere o guardare film, ovvero le occupazioni per cui più spesso i tablet vengono impiegati; nel frattempo, Dennerlein misurava con un sistema tridimensionale a infrarossi le posture di testa e collo, l'inclinazione dello sguardo e la distanza mantenuta dal tablet. Il grado di flessione di testa e collo è risultato molto superiore a quello che si ha con un computer classico, desktop o portatile, poggiato sul tavolo; inoltre, variava parecchio a seconda delle diverse posizioni e anche fra i due prodotti. L'unica posizione neutra si aveva sistemando su un tavolo il tablet con la sua maggiore inclinazione, in pratica più verticale possibile, come fosse lo schermo di un portatile. È d'accordo Paolo Cherubino, vicepresidente della Società italiana di Ortopedia e traumatologia, che però ci tiene a tranquillizzare tutti gli amanti di iPad e simili: «I "danni" da tablet non sono paragonabili a quelli da computer fisso: nel secondo caso infatti si mantiene molto a lungo la stessa posizione, condizionata peraltro dall'altezza del tavolo e della sedia, oltre che dall'orientamento dello schermo. Una posizione viziata mantenuta a lungo determina contratture muscolari in collo e spalle e quindi dolori a collo, nuca e schiena, per giunta spesso difficili da risolvere». «Con i tablet la faccenda cambia, perché per loro stessa natura vengono usati in qualunque posizione e in ogni situazione — prosegue l'esperto —. La frequenza di disturbi legati a posizioni d'uso "costrette" è perciò inferiore: se sento fastidio, inevitabilmente cambio posizione e riduco il rischio di contrarre troppo a lungo gli stessi muscoli. Detto ciò, non tenere il tablet in grembo, ma metterlo su un supporto più alto, come un tavolo appunto, e sistemare il case nella sua angolazione più verticale è sicuramente il modo migliore per salvaguardare collo e spalle, perché il grado di flessione è minore. A patto però di non dover scrivere: in tal caso questa posizione diventa immediatamente molto scomoda per braccia e mani». Se si devono scrivere email o testi, l'ortopedico consiglia di piazzare su un tavolo il tablet alla sua inclinazione inferiore, assicurandosi che tavolo e sedia siano a una giusta altezza, tale da permettere una posizione comoda per spalle e braccia: in questo modo digitare sulla tastiera è agevole e non provoca disagi neppure a chi ha disturbi come l'artrosi alle mani. Elena Meli