RASSEGNA 12/02/2012 PIÙ CONCORRENZA FRA GLI ATENEI UNA LIBERALIZZAZIONE ANCHE PER GLI ATENEI LA LAUREA ABILITANTE TORNA IN PISTA SVALUTARE LA LAUREA NON RISOLVE I PROBLEMI QUELLA SOTTILE DIFFERENZA TRA EDUCARE E ISTRUIRE IL DECLINO DELLA SAPIENZA ALL'OMBRA DI PARENTOPOLI FIGLIO DI MINISTRO È UN PO' MEGLIO CONCORRENZA SENZA VINCOLI PER MIGLIORARE LA RICERCA GENOVA ALLO SFASCIO IL POLO TECNOLOGICO QUANDO LA RICERCA PRODUCE RICCHEZZA CERECANSI CERVELLI DISPERATAMENTE IL MANIFESTO DEGLI SCIENZIATI CONTRO LE TERAPIE «CIARLATANE» CAGLIARI: 18000 STUDENTI FUORI SEDE E 1500 SENZA UN POSTO LETTO UNICA: LA BATTAGLIA VINTA DEI FUORICORSO ALL’UNIVERSITÀ CENTOMILA I GIOVANI SARDI CONDANNATI A UNA VITA DA PRECARIO QUEL DIRITTO ALL'ACCESSO NEGATO DALLA MERITOCRAZIA L'ITALIA USERÀ MEGLIO I FONDI UE IL POTERE DI INTERNET È L'ANONIMATO LA NATURA NON È UN DOGMA LA TESI? E’ COME UN AMANTE MATEMATICA: OBAMA VUOLE PIÙ PROF ECCO IL PIANO PER L'ITALIA ON LINE ========================================================= AOUCA: NUOVI LOCALI PER LA CLINICA ODONTOIATRICA AOUCA: ODONTOIATRIA A MONSERRATO: FIRMATO L’ACCORDO AOUCA: BEN SERVITI AL DAY HOSPITAL AOUCA: AL POLICLINICO C'È IL FOTOVOLTAICO CARBONIA: OSPEDALI CHIUSI PER SCIOPERO UNISS: A NEW YORK PER OPERARE SULLE TESTE «UN’ESPERIENZA PROFESSIONALE UTILISSIMA» ASL6: CUORE, GUARIGIONE IN DIRETTA BROTZU, LETTERA APERTA A MANAGER E REGIONE ASLNUORO: MAXI APPALTO ASL, C’È UN’IPOTESI DI ACCORDO TROPPI CESAREI, IL MINISTRO MANDA I NAS NEGLI OSPEDALI TROPPI I PARTI CESAREI MA NON IN SARDEGNA SÌ A CAFFÈ, NOCI E UOVA: NON SONO "NEMICI" DEL CUORE LE STAMINALI SONO DAVVERO LA SOLUZIONE LA PERVICACE RESISTENZA DEI GENI IMMUNITARI "CATTIVI" IL DNA DI 15MILA SARDI A RISCHIO PER CRAC DEL SAN RAFFAELE VACANZE AI CARAIBI MARE & CHIRURGIA LA SARDEGNA È UN'ISOLA DI CICCIONI? FILMATO “DIALOGO” FRA PIANTE SCOPERTA SHOCK CRISI REGISTRATE E SPENTE ISTANTANEAMENTE TECNO-CURE PER L'EPILESSIA LA LEGGE PER LE PERSONE SORDE DIVIDE «SEGNISTI» E «ORALISTI» IL BISTURI LASCIA SPAZIO AL MOUSE IL TRAGUARDO È AVERE MODELLI PREDITTIVI CON UNA PILLOLA ADESSO SI PUÒ CURARE LA SCLEROSI MULTIPLA ========================================================= __________________________________________ Il Sole24Ore 10 Feb. ‘12 PIÙ CONCORRENZA FRA GLI ATENEI IL VALORE LEGALE DELLA LAUREA Ma sono necessari meccanismi reali per valutare la miglior qualità LA PREMESSA Gli studenti vanno messi nelle condizioni di compiere una scelta consapevole e i poli formativi di disporre dell'autonomia e delle risorse Andrea Ichino e Daniele Terlizzese Il dibattito sul valore legale dei titoli di studio, stimolato dalla consultazione pubblica annunciata dal Governo, non può prescindere da una riflessione più generale sul sistema universitario di cui il Paese ha bisogno per crescere. Questa prospettiva più ampia consente di chiarire due equivoci. Il primo è che basti eliminare il valore legale della laurea per risolvere magicamente tutti i problemi. Non è così: senza creare le basi per una vera concorrenza tra gli atenei, sul piano della ricerca e della didattica, la sola abolizione del valore legale avrebbe scarsa efficacia. Il secondo è che sia in gioco una pericolosa riduzione delle tutele che proteggono i cittadini nei loro rapporti con i professionisti laureati. Anche in questo caso non è così: non è in discussione un controllo rigororoso sul rispetto di standard minimi per l'accreditamento degli atenei e per l'accesso ad alcune carriere, soprattutto in tutti quei casi in cui il consumatore non ha il tempo o le informazioni sufficienti per scegliere a ragion veduta prima di subire le conseguenze della prestazione di un professionista. Chi, come noi, auspica l'abolizione del valore legale della laurea vuole evitare che la forma possa prevalere sulla sostanza. Se lo Stato nei concorsi pubblici considera lauree prese in diversi atenei come equivalenti, i cittadini possono dedurne che non sia necessario fare una distinzione tra quelle lauree, quando devono decidere in quale ateneo studiare o quali laureati assumere. Se né lo Stato né i cittadini fanno distinzioni, gli atenei hanno un minore incentivo a migliorare la qualità della loro offerta formativa. Inoltre, se la garanzia formale dello Stato induce il cittadino a pensare che due università siano di pari qualità quando in realtà non lo sono, quella peggiore gode di una protezione contro la concorrenza, e quindi di una rendita ingiustificata. Il Governo sta cercando di abbattere le barriere contro la concorrenza che proteggono, per esempio, i tassisti, i notai o i farmacisti; perché non dovrebbe fare lo stesso con i professori universitari e i loro atenei? Non dovrebbero anche loro essere soggetti al giudizio dei loro utenti? Affinché questo giudizio abbia effetti concreti, però, è necessario che i cittadini, e in primo luogo gli studenti, abbiano una possibilità reale di scegliere, e che gli atenei abbiano l'autonomia e le risorse per rispondere efficacemente alla domanda di maggiore qualità. Abbiamo esposto su queste colonne i lineamenti di una proposta che va in questa direzione (http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/rilanciamo-le- universita-con-prestiti-agli-studenti). È una proposta che non si pone in alternativa al sistema di accreditamento e di valutazione centralizzato previsto dalla riforma Gelmini e confermato dall'attuale governo. Ne rappresenta piuttosto un complemento. Essa mira a responsabilizzare gli studenti, mettendoli in condizione di esercitare una scelta consapevole, liberi dal vincolo economico rappresentato dalle risorse della famiglia d'origine. Per ottenere questo risultato la proposta fa perno su un sistema di prestiti per gli studenti con rimborso proporzionale al reddito futuro, garantiti da risorse fornite dagli stessi atenei, senza gravare sul bilancio pubblico. Gli atenei beneficerebbero di maggiore autonomia gestionale e della libertà nel fissare le tasse universitarie su livelli più prossimi al costo del servizio offerto. Questa maggiore autonomia, unita alle maggiori risorse portate dagli studenti, consentirebbe agli atenei di costruire un'offerta formativa di maggiore qualità, che genererebbe i maggiori redditi futuri necessari a rimborsare i prestiti iniziali. Così, il valore delle diverse lauree, al di sopra del minimo necessario per ottenere l'accreditamento, non sarebbe certificato da una delibera ministeriale, ma dalle scelte di studenti dotati di una effettiva facoltà di scegliere. Facoltà di cui oggi, di fatto, non dispongono. Chi si oppone all'abolizione del valore legale dei titoli di studio teme che questa porterebbe a un "far west educativo", esponendo i cittadini a sedicenti professionisti senza alcuna preparazione e mettendone a rischio, nei casi più estremi, la salute e la sicurezza. Ma l'obiezione si fonda su un fraintendimento. Nessuno contesta infatti che per alcune professioni, come per esempio ingegneri, medici o piloti di aereoplano, sia necessaria la garanzia di un livello minimo di qualità. Come ha chiarito Alessandro Schiesaro su queste pagine (Il Sole 24 Ore del 26 gennaio e 3 febbraio, ndr), l'abolizione del valore legale del titolo non elimina la necessità di un esame di Stato per l'accesso ad alcune professioni, né quella di un accreditamento degli atenei e dei corsi di laurea da parte dell'Anvur (come previsto nel Decreto del 20 gennaio). Ma, al di sopra di quel livello minimo, i titoli di studio non sono tutti uguali, e non dovrebbero essere trattati come tali. Con una maggiore attenzione alla sostanza, invece che alla sola forma (in primis da parte dello Stato), la tutela dei cittadini sarebbe semmai aumentata, e migliorerebbe la qualità dei servizi a loro offerti dalla Pa: le commissioni giudicatrici in un esame di Stato o in un concorso pubblico avrebbero la possibilità di adottare i criteri di valutazione che ritengono più idonei, con obblighi di trasparenza e responsabilizzazione a posteriori sui risultati. Il controllo statale sulle lauree ha peraltro un senso quando il cittadino-consumatore ha molta difficoltà nel valutare la qualità del servizio offerto dal professionista e, allo stesso tempo, quando un servizio di qualità scadente ha conseguenze durature e difficilmente rimediabili, oppure quando le conseguenze negative non ricadono solo su di lui ma anche su altri. Ma guai a credere che il controllo possa essere perfetto: se distoglie il cittadino dall'antico monito caveat emptor, rischia di arrecare più danni che benefici. andrea.ichino@unibo.it daniele.terlizzese@eief.it __________________________________________ Corriere della Sera 10 Feb. ‘12 UNA LIBERALIZZAZIONE ANCHE PER GLI ATENEI Come cambiare i sistemi di valutazione di DANILO TAINO V a bene i taxi e i panettieri. Ma quelli che producono idee? Gli insegnanti universitari? Vogliamo estendere anche a loro liberalizzazioni e regime di concorrenza? Uno se l'aspetterebbe dal governo dei professori. Che l'accademia italiana non sia il regno dell'efficienza e ancora meno il territorio sul quale si confrontano ed emergono le energie migliori e più capaci è un assunto, quando si descrive l'Italia: baronie, nepotismo, fuga dei migliori. Una buona dose di concorrenza tra docenti e ricercatori, dunque, sarebbe probabilmente benvenuta nell'università, tanto nelle facoltà scientifiche che in quelle umanistiche: una cura anglosassone per rompere incrostazioni e inerzie, magari per cercare di frenare il declino — interno e internazionale — dell'istruzione di alto livello italiana. Già, ma come? Francesco Magris, economista ordinario all'università di Tours, ha appena pubblicato un libro — La concorrenza nella ricerca scientifica, edito da Bompiani, (pagine 92, 9,90) — nel quale mette in guardia dai falsi miti, in questo campo. Un pamphlet che denuncia la cattiva condizione della maggioranza degli atenei italiani, ma allo stesso tempo invita a guardarsi dall'accettare a scatola chiusa i modelli prevalenti a livello internazionale. Pur ritenendo il mercato del lavoro diverso dal mercato delle merci, Francesco Magris non è affatto contrario all'introduzione della concorrenza quando si tratta di giudicare la qualità dei lavori scientifici e quindi di premiare, in termini di carriera, professori e ricercatori. Il problema sta nel come, nello stabilire quale sia il modo più corretto e più efficiente per farlo: soprattutto quale sia il modo migliore per non premiare solo chi effettua ricerca nei filoni dominanti della scienza e delle materie umanistiche, ma anche chi va controcorrente. Buona parte dell'analisi e della critica del libro si focalizzano sul sistema delle «citazioni», di gran lunga prevalente nel circuito accademico internazionale. Si tratta del modo più utilizzato per valutare la performance di un insegnante, di un ricercatore, di uno scienziato, di un economista: misurare quante volte i suoi lavori sono citati nelle riviste scientifiche di riferimento. Chi è più citato — oltre a chi pubblica i lavori più rilevanti — e chi appare spesso nelle riviste considerate di maggiore prestigio migliora il proprio status in termini di reputazione, di carriera, di salario: non solo nel caso degli scienziati e degli economisti che negli ultimi tempi hanno seguito la traiettoria di successo un tempo riservata alle rockstar, ma in generale come metodo di valutazione e premio nell'intero universo della produzione delle idee e delle scoperte. La citazione, insomma, è diventata — secondo Magris — una sorta di valuta, anzi il dollaro attraverso il quale si stabiliscono gerarchie e, alla fine, imperi accademici. È, questo delle citazioni, il modo migliore per introdurre una forma di mercato e di concorrenza efficienti nel settore? Francesco Magris ne dubita, o almeno mette in guardia dal considerarlo un sistema indiscutibile. Da una parte, esso è un incentivo a premiare i lavori di più immediata fruizione, quelli che hanno più mercato nelle riviste scientifiche. A scapito di ricerche e studi meno sexy, ma magari più profondi e di maggiore portata. La necessità di accumulare citazioni, inoltre, penalizza chi svolge lavori complessi che richiedono tempi lunghi prima di potere essere pubblicati. Il tutto all'interno di «un modello autoreferenziale di selezione» nel quale spesso riviste «amiche» si scambiano citazioni e nel quale, soprattutto, non c'è distinzione tra chi produce ricerca e chi la consuma, nel quale chi giudica è quasi sempre collega di chi ha prodotto la ricerca: «Fondere le due categorie in una sola — scrive Magris — conduce alla negazione del sistema di mercato». Dall'altra parte, per ragioni storiche ed economiche, questo sistema di valutazioni internazionali è dominato dalle riviste anglosassoni, le quali sono molto spesso collegate alle università americane (e in una certa misura anche a quelle britanniche), nonché ai loro docenti e anche alle lobby che le finanziano. Una situazione che, «anziché promuovere la differenziazione del prodotto conduce al consolidamento del pensiero dominante e all'indebolimento del pluralismo»: dunque scuole di pensiero decentrate e minoritarie hanno, in questa cornice, meno possibilità di emergere. Francesco Magris non propone «commissari del popolo» per stabilire la qualità della ricerca. Ma se si vuole il mercato e la concorrenza — dice in sostanza — occorre che il sistema sia davvero aperto ed efficiente. Come per i panettieri, si può dire. twitter@danilotaino _____________________________________________________________________ Italia Oggi 7 feb. ’12 LA LAUREA ABILITANTE TORNA IN PISTA Il sottosegretario alla salute Elio Cardinale continuerà il progetto avviato dal governo Berlusconi L'obiettivo: accelerare l'ingresso dei medici nel mondo del lavoro Pagina a cura DI BENEDlaTA PACELLI Camici bianchi laureati e abilitati. Quello che, nel precedente governo Berlusconi, era un cavallo di battaglia del tandem Gelmini-Fazio, torna di nuovo alla ribalta. A occuparsene, come è stato sottolineato ieri in occasione di un in-contro sul tema organizzato alla camera dei deputati, sarà proprio il sottosegretario alla salute Elio Cardinqe che cercherà di trovare la quadratura del cerchio fino ad ora mancata, soprattutto per la brusca interruzione del precedente esecutivo. Ma qualcosa era già stato fatto. Si ripartirà, dunque, dal tavolo istituito tra la conferenza dei presidi delle facoltà di medicina e i ministeri competenti (salute e istruzione) che aveva avviato un primo giro di consultazioni, poi interrotto. Il punto di partenza, comunque, rimane lo stesso: accelerare l'ingresso dei futuri medici nel mondo del lavoro, allineandone i tempi alle prassi dei paesi europei. Due i tempi del restyling: innanzitutto fare in modo che contestualmente all'esame di laurea gli studenti possano conseguire anche l'abilitazione alla professione medica, così come già avviene per alcune professioni sanitarie. Questo sarà possibile modificando la rappresentanza in sede di esame che dovrà essere composta non più solo dal corpo accademico, ma anche da esponenti del mondo delle professioni. Il provvedimento ridurrà di circa un anno il tempo che intercorre tra la laurea e l'accesso alle scuole di specializzazione. La seconda modifica, invece, andrà a impattare sul tirocinio obbligatorio articolato in tre mesi (un mese in un reparto chirurgico, un mese in un reparto di medicina e un mese presso l'ambulatorio di un medico di base) che sarà effettuato durante i sei anni di studio universitari e non alla conclusione come avviene ora. «Del resto», come spiega Andrea Lenzi, presidente della Conferenza nazionale permanente dei presidenti di corso di laurea specialistica in medicina e chirurgia, «l'esame di stato oggi è un ripetizione della prova precedente e il trimestre di tirocinio è stato di fatto già riassorbito dalle stesse facoltà». A questo punto manca la modifica della norma nazionale, «su cui stiamo già la-vorando che probabilmente avrà la forma di un regolamento. Poi ci vorranno i successivi passaggi nelle commissioni parlamentari competenti e al consiglio di stato». Ma gli addetti ai lavori sono ottimisti: entro la legislatura la norma sarà portata a casa. Durante l'incontro di ieri poi sono state avanzate anche due proposte per migliorare l'accesso alle facoltà di medicina e alle scuole di specializzazione. Per le prime si ipotizza di dare più peso al curriculum dello studente, oltre al tradizionale test di ingresso, per le seconde, invece, si dovrebbe puntare su una tesi orientata e su pubblicazioni specifiche. Tutte queste richieste, ha assicurato l'organizzatrice dell'incontro Paola Binetti (Udc), confluiranno in una «mozione parlamentare in commissione affari sociali che porterà all'attenzione del governo tutte le problematiche legate all'accesso alla facoltà e alle scuole di specializzazione. _____________________________________________________________________ Il Manifesto 7 feb. ’12 SVALUTARE LA LAUREA NON RISOLVE I PROBLEMI Piero Bevilacqua Il presidente del consiglio e il suo governo hanno dunque deciso di rinviare la decisione di abolire il valore lega le della laurea universitaria. Non trattandosi di una materia che rivesta particolare urgenza c'è tutto il tempo per decidere con ponderazione e anche per aprire una consultazione nel Paese. Mi sembra un scelta saggia, espressione, forse, di quella saggezza che Asor Rosa ha ricostruito analiticamente sul manifesto come pilastro di questo esecutivo e dell'operazione politica generale su cui si reggono oggi le sorti dell'Italia. Potrei anche aggiungere che la scelta inaugura un apprezzabile stile di coinvolgimento democratico degli italiani, che oggi vorremmo esteso ad altre questioni: per esempio ai problemi della Val di Susa, al conflitto sul Tav, a cui sinora si è risposto con la militarizzazione del territorio e con la criminalizzazione di una intera popolazione. Ma non sono sicuro di poter essere così magnanimo, per le ragioni che dirò alla fine. Debbo, peraltro, aggiungere che se si fosse proceduto immediatamente all'abolizione del valore legale, il governo avrebbe compiuto un atto di imperdonabile arroganza. E avrebbe ricevuto un contraccolpo di non trascurabile ampiezza. Come avrebbe potuto, dopo tutto quello che è successo, con il precedente esecutivo? Rammento che il governo Berlusconi, non ha soltanto, per quasi quattro anni , coperto di vergogna e di disonore il nostro paese, ma ha inferto colpi micidiali, i più gravi in tutta la storia della Repubblica, all'intero sistema dell'istruzione. Ha gettato letteralmente sul lastrico la scuola pubblica, dalle elementari alle superiori, ha ridotto nelle condizioni forse più precarie della sua storia recente l'Università. Oggi gli studenti italiani hanno sempre meno borse di studio per poter frequentare i corsi, pagano le tasse più elevate d'Europa dopo quelle del Regno Unito e dell'Olanda, ricevendo servizi sempre più scadenti per assenza cronica di personale amministrativo, spazi collettivi, orari delle biblioteche, rarefazione dei docenti. Al tempo stesso migliaia di giovani con in tasca la laurea con lo de, dottorato, master vari, conseguiti talora anche all'estero, non sanno dove sbattere la testa, sono gettati nella più grave angoscia che una persona possa subire: la consapevolezza di avere alle spalle anni e anni di studi, di possedere saperi, idee, energie volontà di essere utile al proprio paese e non sapere che cosa fare un giorno dopo l'altro. E a questa condizione, a tale drammatica situazione, nella sua prima uscita sui problemi dell'Università, il governo avrebbe davvero potuto rispondere con la grave decisione di abolire valore legale alla laurea? Ma entriamo nel merito della questione. Le argomentazioni più serie a favore dell'abolizione non reggono alla prova. Sostengono i fautori di tale scelta, che nei concorsi pubblici il voto di laurea altera la corretta valutazione dei candidati, premiando spesso gli immeritevoli che hanno strappato a buon mercato, in qualche Università di serie b, un alto voto. L'abolizione del valore legale metterebbe tutti in condizioni di parità. A questa apparentemente giudiziosa obiezione si possono tranquillamente fornire più risposte. Intanto, quello sollevato, è un problema che riguarda le norme sull'accesso alle professioni, le modalità con cui vengono valutati curricula, titoli, nei diversi concorsi. È lì che caso mai bisogna intervenire se si vuole essere più certi di premiare il merito, ma il valore legale della laurea non c'entra affatto. D'altronde, una cosa è la formazione universitaria, un'altra cosa sono le professioni. Per esempio, per l'accesso dei laureati all'insegnamento scolastico i legislatori italiani hanno di volta in volta varato dispositivi di "abilitazione" alla professione, che si aggiungevano alla semplice laurea e fornivano un vantaggio concorsuale a chi la conseguiva. D'altra parte, nei concorsi pubblici si valuta la prova a cui i candidati sono sottoposti, non è certo il voto di laurea, da solo, a decidere della selezione. E le norme variano comunque da professione a professione. Gli abolizionisti ritengono invece che senza il condizionamento della laurea la valutazione sarebbe più libera, meno condizionata e premierebbe di più il merito. Ma è davvero così? Faccio notare che un giovane uscito dall'Università italiana ha svolto — a seconda della Facoltà — almeno tra 30 e 50 esami per conseguire la laurea. È stato cioè sottoposto alla valutazione di decine e decine di professori di diversi insegnamenti e ha subito il filtro legale di almeno due commissioni di lauree, se ha conseguito triennale e specialistica. Dunque ha superato innumerevoli "piccoli concorsi". Non c'è merito alla fine di una tale carriera? Perché queste numerose verifiche di formazione e preparazione non dovrebbero avere più per noi una validità legale, utile per valutare il merito di un candidato? Noi ci affidiamo alle cure di un medico perché ha vinto il tale concorso o perché sappiamo che è passato per lunghi studi e ha superato prove e verifiche accademiche lunghe e ripetute? Gli abolizionisti ribattono: ma perché una laurea conseguita in una Università marginale deve avere lo stesso valore di una guadagnata in un ateneo di antico e riconosciuto prestigio? La risposta è, innanzi tutto, che le Università realmente marginali sono davvero poche nel nostro paese. Oggi, che si emarginano quelle telematiche, lo sono ancor meno. Dobbiamo allora colpire e svalutare l'intero sistema universitario italiano? È co-me se a una persona che zoppica da un piede si prescrivesse il taglio di tutte e due le gambe. Ma quello che gli abolizionisti e in generale i "riformatori neoliberisti", ispiratori spesso di queste amenità, non considerano è che le Università italiane non sono state create semplicemente per consentire ai cittadini di accedere ai concorsi, ma incarnano un percorso di formazione. Sono un patrimonio pubblico, che si è consolidato nel tempo, che è fatto della storia delle varie discipline scientifiche, delle diverse scuole accademiche, dei saperi, delle norme e dottrine destinate a formare le classi dirigenti del. paese. Le università, da noi più che altrove, sono la sede storica delle diverse comunità scientifiche. In questo grande collettivo di studi si sono formati e si vanno formando non solo dei professionisti, ma il corpo intellettuale della nazione, con la sua identità e i suoi valori condivisi. Qui risiede la legalità, nel senso più alto, dei saperi che il nostro paese produce con la sua straordinaria e creativa operosità. Che senso ha, dunque, smembrare questo patrimonio in cui una parte estesa degli italiani riconosce le sue conquiste più alte? Che senso ha svalutare un lascito straordinario del nostro passato, ingiustamente vilipeso negli ultimi tempi per episodi certamente gravi di corruzione, ma che solo il moralismo indiscriminato e il neoliberismo interessato hanno potuto trasformare in una generale svilimento del nostro sistema formativo? Ma ostinatamente si perora la necessità di creare una «pluralità di agenzie di accreditamento e di certificazioni a livello nazionale dei percorsi formativi», come si continua a dire. Si vogliono giurie esterne a quelle già esistenti. Queste garantirebbero il riconoscimento del merito. Molti dirigenti di Confindustria spingono in tale direzione, e così alcuni economisti, mai paghi dei fallimenti sotto cui sono state seppellite le loro misere dottrine. Davvero, in Italia, questa sarebbe una soluzione desiderabile? In Italia, paese di antica e lacerante frammentazione? Paese storicamente alle prese con i più gravi problemi di legalità civile di tutto l'Occidente? Si abolisce valore a un titolo garantito da un lungo processo pubblico e,lo si mette in mano agli interessi dei privati? Qual è la ratio, se non la superstizione neoliberista, che non vuol vedere l'infinita serie di fallimenti di cui ha costellato la recente storia del mondo? In realtà si vuole continuare a colpire tutto ciò che è pubblico, deregolamentare tutto ciò che è fissato in norme di valore collettivo, come si fa in altri campi: dai contratti nazionali del lavoro agli articoli della Costituzione. Credo che all'intelligenza dei lettori del manifesto posso risparmiare ogni mio commento. Aggiungo solo che è con passi come questi, demolendo un presidio pubblico come la laurea, che si tende a piegare tutte le relazioni a logiche contrattualistiche private, a rapporti dare/avere, e si avanza verso il dissolvimento del tessuto culturale del paese come comunità nazionale. Devo, tuttavia, concludere con un chiarimento. Tutte le considerazioni sin qui svolte si sono rese necessarie perché ho dovuto stare al gioco e prendere sul serio anche alcune fandonie neoliberali che non meriterebbero alcun commento. Ma quel che occorre dire, e avrei dovuto dirlo subito, è che la questione del valore legale della laurea è solo e semplicemente una astutissima manovra diversiva del governo. Nulla di più. Altro che saggezza, caro Asor, qui si tratta di astuzia raffinata. Con l'aggiunta di tanta professionalità. Il professor Monti e alcuni suoi ministri hanno studiato marketing o comunque ne sono esperti. Oggi l'Università ha un disperato bisogno di soldi, di personale tecnico e amministrativo, di nuovi docenti e ricercatori, di dottorati, di borse di studio. E che cosa orchestra il governo? Tira fuori un coniglio bianco dal cappello per incantare la folla, per dare in pasto ai furori contrapposti questo bel tema e distrarli per un po' dai problemi in cui annaspa l'intero sistema formativo nazionale. Non ci caschiamo Il ministro Profumo non si faccia illusioni. Metteremo le questioni reali dell'Università al centro dell'attenzione e non sarà facile farci distrarre con qualche trovata pubblicitaria. _____________________________________________________________________ Osservatore Roman 7 feb. ’12 QUELLA SOTTILE DIFFERENZA TRA EDUCARE E ISTRUIRE di ALESSANDRO SCAFI Una università cattolica nella Londra del terzo millennio, per il puro piacere della conoscenza e per progredire nella ricerca della verità. Il nome scelto per l'ambizioso progetto è «Benedictus», un nome che rievoca il saggio patriarca del monachesimo occidentale, quel Benedetto che, nel cuore dell'alto medioevo, cercava la luce nel buio delle grotte, le sane radici nell'intrico delle piante selvatiche, un principio di ordine divino nello sconvolgimento dell'anarchia e delle invasioni barbariche. L'immagine scelta per lanciare l'iniziativa accosta la cupola della cattedrale londinese dedicata a San Paolo, capolavoro architettonico di Christopher \Afren, e luogo simbolo per la nazione inglese, al cupolone romano di San Pietro. L'iniziativa è di Clare Hornsby, storica dell'arte interessata ai rapporti tra arti visive e storia della musica, e di Franz Forrester che, dopo aver studiato al Thomas Aquinas College in California, non ha più dimenticato la filosofia di Aristotele e gli scritti di Tommaso d'Aquino. Da mesi Clare e Franz stanno lavorando insieme per' promuovere la loro utopia educativa: far rivivere la tradizione millenaria delle arti liberali, incoraggiando gli studenti a perfezionarsi nei principi e nei metodi di ogni disciplina, senza perdere di vista la profondità degli studi filosofici e teologici. I promotori hanno il coraggio di pensare (e di dire) che all'università il giovane non dovrebbe essere semplicemente spinto a impadronirsi di nozioni specifiche tese a soddisfare un interesse professionale contingente, ma dovrebbe essere piuttosto educato alla ricerca della verità e all'acquisizione di un'autentica saggezza. I promotori di «Benedictus» sottolineano che in questo loro intento non fanno che seguire il magistero del Papa il quale, parlando ai docenti universitari alla Giornata mondiale della gioventù di Madrid l'estate scorsa, dichiarava che l'università deve incoraggiare i giovani nella loro ricerca della verità. Clare Hornsby spiega che è stato il suo lavoro sui rapporti tra musica, arte e società a suggerirle l'importanza di una concezione unitaria della tradizione culturale europea. Come le è venuta in mente l'idea di una università cattolica a Londra? Il progetto «Benedictus» riflette la nostra convinzione che l'educazione universitaria oggi presenti gravi lacune, soprattutto l'incapacità di concepire un'educazione fine a se stessa. Lo stimolo ci è venuto dalla visita che Benedetto xvi ha compiuto in Inghilterra e Scozia nel 2010, dai suoi scritti sul ruolo delle arti e della cultura per la nuova evangelizzazione dell'Europa, ma anche dalla lettura di An Idea of a University di John Henry Newman, dove viene incoraggiata proprio un'educazione sganciata dalle professioni. Nell'omelia di Capodanno, Papa Benedetto ci ha ricordato che, nella nostra epoca così dominata da una mentalità tecnologica, siamo chiamati a riscoprire la necessità non soltanto di "istruire" ma anche di "educare". Con «Benedictus» intendiamo offrire ai giovani una formazione completa che consenta la riscoperta dei classici del passato e il riconoscimento del ruolo fondamentale della tradizione cristiana nella storia della cultura europea. Cosa contraddistingue «Benedictus» rispetto alle università esistenti? Nessuna università nel Regno Unito offre un corso sulla tradizione delle sette arti liberali come preparazione agli studi più alti della filosofia e della teologia. Noi proponiamo a studenti di ogni fede e cultura un corso di studi che integri tutti i rami della conoscenza, così come erano studiati nelle grandi università europee del passato. Siamo stati influenzati anche dal sistema americano noto come Great Books Approach. Il nostro metodo si articola intorno a lezioni introduttive seguite da gruppi seminariali — per incoraggiare la discussione e lo studio diretto delle fonti — e da incontri settimanali e individuali tra studenti e docenti secondo il sistema praticato a Oxford e Cambridge. Perché date tanta importanza allo studio delle lingue, e per esempio allo studio del latino? L'inglese, si sa, è oggi la lingua dominante. Ma, come europei, dovremmo riconoscere che in ogni lingua è racchiuso un mondo culturale. Il latino è stato il mezzo linguistico di comunicazione in Europa per così tanti secoli ed è fondamentale per riferirci al nostro retaggio comune, per stabilire una continuità con il mondo antico, per continuare la tradizione che lo pone al centro della vita spirituale e liturgica dei cattolici. Dichiarate fedeltà al magistero della Chiesa Cattolica e al centro del vostro curriculum è la storia della cultura cristiana, ma vi proponete di attrarre studenti di ogni fede e cultura. Come cattolici, abbiamo ricevuto in dono la verità della Rivelazione ed è questo il nucleo centrale di saggezza che speriamo i nostri studenti possano acquisire. La Chiesa cattolica ci insegna che la fede non è opposta alla ragione e che molte verità cristiane sono accessibili a tutti. Il Papa ha detto che educare i giovani alla conoscenza della verità e dei valori vuol dire guardare al futuro con speranza. Il relativismo morale di oggi è una perversione del senso di giustizia e della autentica libertà di cui i giovani hanno profondo desiderio e urgente bisogno. Noi speriamo di dare ai nostri studenti, cattolici o no, gli strumenti per un retto giudizio in vista della saggezza. Volete poi coniugare gli studi umanistici con quelli scientifici. Che tipo di studenti allora sperate di attrarre? Sottolineiamo l'interdipendenza di tutte le discipline accademiche. Non saremo in grado di offrire attività pratiche specializzate nelle scienze naturali, ma certo offriremo la possibilità di studiare i metodi scientifici delle varie discipline così come si sono sviluppati nei secoli. «Benedictus» forse non è adatto a chi intende perseguire subito una carriera nella medicina o nell'ingegneria, ma il nostro corso offre un'ottima alternativa e la possibilità di più ampi orizzonti intellettuali a quegli studenti che frequentano corsi che non sono più veramente umanistici. La conoscenza è un nobile ideale, ma i laureati devono anche pensare a una professione. Studi recenti negli Stati Uniti dimostrano che i laureati nelle università di arti liberali sono quelli che poi hanno maggiore successo nelle professioni. Sembra che il mercato del lavoro favorisca proprio chi ha ricevuto un'educazione completa, chi è stato abituato a pensare e a utilizzare le sue abilità intellettuali in una varietà di contesti e non nei confini ristretti di un campo specifico. Il vostro curriculum sembra molto ampio. Non avete paura di essere superficiali? La sfida più impegnativa per noi è quella di riuscire a offrire un'esperienza educativa coerente e approfondita, soprattutto in storia, filosofia e teologia, e allo stesso tempo mantenere ampia la visuale per comprendere il più possibile i tanti aspetti della nostra cultura. La saggezza nella sfera intellettuale si acquisisce con la discussione e il confronto delle opinioni, oltre a un lavoro più concentrato e specializzato. Siamo in contatto con studiosi e docenti di altissimo livello, disposti a lavorare con noi in questa fase di pianificazione, proprio allo scopo di formululare un piano di studio il più possibile equilibrato per i nostri studenti. Il vostro è un piano molto ambizioso. Come pensate di raccogliere i fondi necessari? Il piano è realizzabile. Lo dimostrano le reazioni alla nostra iniziativa, il numero di visitatori del nostro sito internet e di chi ha letto e apprezzato la nostra proposta, le lettere e i messaggi di chi ci ha scritto per dirci quanto sia necessaria la nostra iniziativa. Dove c'è un bisogno, c'è il dovere di provare a trasformare le cose, anche in modo radicale. Si è visto poi che istituzioni come la nostra possono nascere in piccolo e poi diventare centri educativi di grande importanza e autorevolezza, come per esempio è successo al Thomas Aquinas College. Speriamo di cominciare quest'anno una campagna di raccolta di fondi nel Regno Unito, per formare un capitale iniziale, e poi continuare negli Stati Uniti e magari anche in Australia, per realizzare un nucleo educativo a Londra, centro del mondo anglosassone e luogo di accesso facile e diretto alle arti e alle culture europee che sono parte integrante della nostra tradizione. Siamo convinti che la nostra proposta troverà appoggio anche fuori dei nostri confini nazionali. L'entusiasmo di Clare Hornsby è contagioso. L'iniziativa invita a ripensare radicalmente i criteri dell'educazione universitaria. Nella proposta vengono ricordate le frasi scritte nel xii secolo da Bernardo di Chartres, che si dichiarava felice di poter guardare lontano, come un pigmeo sulle spalle dei giganti che lo avevano preceduto. Sono passati più di otto secoli, ma restiamo ancora pigmei sulle spalle di giganti. _____________________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 8 feb. ’12 FIGLIO DI MINISTRO È UN PO' MEGLIO "Monotoni" e "mammoni" quelli degli altri, i loro hanno carriere ben avviate a che "monotonia" il posto fisso. Lo diceva Mario Monti davanti alle telecamere cliMatrix una settimana fa. "Monotono per chi ce l'ha", diventò immediatamente il commento più gettonato sui social network. Ad avere posti non solo fissi, ma di tutto rispetto, sono i figli dei super tecnici di super Mario, quando non vanno ancora a scuola o all'università. Giovanni Monti, per quanto ora ufficialmente disoccupato, a 43 anni è un manager di lungo corso. Piergiorgio Peluso, il figlio di Annamaria Cancellieri, è direttore generale alla Fondiaria Sai. Lui è uno che ha girato grandi gruppi (a lungo in Unicredit) e città, forse per questo sua madre si è sentita di dare dei "mammoni" ai giovani italiani: "Gli italiani sono fermi al posto fisso nella stessa città, magari accanto a mamma e papà, ma occorre fare un salto culturale". Proprio quel salto che il ministro del Lavoro, Elsa Fornero continua a predicare in ogni sede. La sua di figlia, Silvia, però, il posto fisso ce l'ha: insegna a Torino nella stessa università della madre e del padre, l'economista Mario Deaglio. Il viceministro del Lavoro, Michel Martone è diventato Professore associato a 27 anni, potendo contare su un padre importante, Antonio, magistrat. E chiaro che gli sembrino "sfigati" quelli che a 28 anni vanno ancora all'università. Nessuna pietà da parte dei professori di Monti nel bistrattare, per ora solo a parole, i giovani italiani e nel fornire lezioni di vita, puntando il dito contro le loro inadeguatezze non solo professionali, ma pure psicologiche. Che l'Italia sia un paese di "bamboccioni" l'aveva detto già Tommaso Padoa-Schioppa. Ma un fondo di verità in tutte queste impietose definizioni c'è: la famiglia è la rete sociale che più funziona, l'unica che protegge. Lo confermano anche le storie dei figli del governo dei Professori: Maddalena Gnudi, lavora da commercialista nello studio del padre, Costanza Profumo fa l'architetto in un prestigioso studio di New York, Carlo Clini lavora a Bruxelles per la Regione Veneto, Luigi Passera ha fatto la Bocconi e ora è entrato alla Procter & Gamble, Eleonora Di Benedetto, è avvocato nello studio della mamma Paola Severino dalla quale ha ereditato i clienti prestigiosi. Questione di opportunità. E - al di là del merito - di occasioni. Quale super tecnico le negherebbe ai propri figli? __________________________________________ Corriere della Sera 10 Feb. ‘12 IL DECLINO DELLA SAPIENZA ALL'OMBRA DI PARENTOPOLI: È AL 430°POSTO NEL MONDO Nell'Università dopo moglie e figlia, anche il figlio del rettore Luigi Frati, professore ordinario di Patologia Generale e già preside della Facoltà di Medicina, guida l'Università La Sapienza di Roma dal 3 ottobre 2008 (Benvegnù/Guaitoli) «Parentopoli? Ma perché non parlate di "Ignorantopoli"? Questo è il vero problema dell'università italiana. Voi giornalisti fate solo folklore!», sibilò il rettore della Sapienza Luigi Frati al nostro Nino Luca. Ma la Procura non è d'accordo: papà, mamma, figlia e figlio docenti nella stessa facoltà sono troppi, come coincidenze. E sull'arrivo dell'ultimo Frati a Medicina ha aperto un fascicolo. Tanto più che «Parentopoli» e «Ignorantopoli», dicono le classifiche internazionali, possono coincidere. Il rettore di quello che sul Web si vanta di essere il più grande ateneo italiano (nel senso di più affollato: 143 mila studenti, pari all'intera popolazione di Salerno o quelle di due capoluoghi come L'Aquila e Potenza insieme) era da tempo nel mirino di chi denuncia certi vizi del nostro sistema universitario. Senese, un passato da sindacalista, uomo dalla capacità funambolica di fluttuare tra destra e sinistra, preside per un'eternità di Medicina dal lontano 1990 in cui Gava era ministro degli Interni e Chiesa si occupava amorevolmente dei vecchi ospiti del Pio Albergo Trivulzio e «altro», quello che i suoi studenti più perfidi hanno soprannominato «BaronFrati», è da sempre un uomo tutto casa e facoltà. Al punto che non solo nella «sua» Medicina si sono via via accasate la moglie Luciana Rita Angeletti in Frati (laureata in Lettere: storia della Medicina) e la figlia Paola (laureata in Giurisprudenza: Medicina Legale) ma perfino il brindisi per le nozze della ragazza fu fatto lì. Indimenticabile il biglietto: «Il prof. Luigi Frati e il prof. Mario Piccoli, in occasione del matrimonio dei loro figli Paola Frati con Andrea Marziale e Federico Piccoli con Barbara Mafera, saranno lieti di festeggiarli con voi il giorno 25 maggio alle ore 13.00 presso l'aula Grande di Patologia Generale». Arrivò una perfida e deliziosa «sposina» delle Iene , quella volta, a guastare un po' la giornata. Ma fu comunque un trionfo. Quasi pari, diciamo, alla passerella offerta dal nostro, anni dopo, a Muammar Gheddafi, salutato come uno statista e invitato nell'aula magna, sul palcoscenico più prestigioso, perché tenesse agli studenti una «lectio magistralis» su un tema davvero adatto al tiranno: la democrazia. Tema svolto tra risate sbigottite («demos è una parola araba che vuol dire popolo come "crazi" che vuol dire sedia: democrazia è il popolo che si siede sulle sedie!») mentre lui, il rettore, si lasciava andare in lodi per le prosperose amazzoni di scorta: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c'è qui mia moglie...». Adorato da chi ama il suo senso del potere e il linguaggio ruspante (resta immortale un video dove spiega agli studenti: «Nun date retta ai professori perché i professori si fanno i cazzi loro. I professori fanno i cazzi loro, lasciateli perdere!»), il giorno in cui si insediò come rettore liquidò le polemiche sul nepotismo così: «È stato fuori luogo tirare in ballo mia moglie, la professoressa Angeletti, perché lei è quella che è, io sono quello che sono. Non è lei che è "la moglie di", sono io che sono "il marito di"». Il guaio è che oltre a essere «il marito di» Luciana Rita e «il padre di» Paola, è anche «il padre di» Giacomo. Che per fatalità è lui pure entrato nella facoltà di Medicina di papà: ricercatore a 28 anni, professore associato a 31. Come vinse il concorso lo rivelò una strepitosa puntata di Report : discusse «una prova orale sui trapianti cardiaci» davanti a una commissione composta da due professori di igiene e tre odontoiatri. E nessun cardiochirurgo. «Ma lei si farebbe operare da uno che è stato giudicato da una commissione di Odontostomatologi?», chiese Sabrina Giannini, l'inviata della trasmissione di Milena Gabanelli a uno dei commissari, Vito Antonio Malagnino. Farfugliò: «Io... Non parliamo di cuore o di fegato, però...». «Secondo lei tre dentisti e due specialisti d'igiene potevano adeguatamente...». «Forse no però questo non è un problema mio...». Vinta la selezione, il giovane professore viene più avanti chiamato come associato a Latina, dependance del Policlinico universitario di cui è rettore papà. Giusto un attimo prima, coincidenza, dell'entrata in vigore della riforma Gelmini contro il nepotismo. Quella che vieta di assumere come docenti nella stessa università i parenti dei rettori, dei direttori generali e dei membri del consiglio di amministrazione. Ma queste, compreso un ricorso al Tar, erano solo le prime puntate della «Dinasty» fratiana. Il meglio, come hanno ricostruito Federica Angeli e Fabio Tonacci sulla cronaca romana di Repubblica , sarebbe arrivato nelle puntate successive. Occhio alle date: il 28 gennaio 2011 il rettore Luigi Frati sceglie come commissario straordinario del Policlinico Antonio Capparelli. Qualche settimana dopo, il 22 marzo, lo nomina direttore generale. Passa meno di un mese e il 19 aprile Capparelli, togliendo un po' di posti letto a un altro reparto a costo di scatenare le ire di quanti si sentono «impoveriti», firma una delibera creando «l'Unità Programmatica Tecnologie cellulari-molecolari applicate alle malattie cardiovascolari» nell'ambito del dipartimento Cuore e grossi vasi e chiama da Latina, per ricoprire un ruolo paragonabile a quello di primario, Giacomo Frati. Cioè il rampollo dell'uomo che lo aveva appena promosso. Ora, a pensar male si fa peccato e, in attesa del responso dell'inchiesta giudiziaria, noi vogliamo immaginare che la famiglia Frati sia composta di quattro geni: un genio lui, un genio la moglie, un genio la figlia, un genio il figlio. Ma la moglie di Cesare, si sa (vale anche per la figlia di Elsa Fornero, si capisce) deve essere al di sopra anche di ogni sospetto. Che giudizi possono farsi, gli stranieri, davanti a coincidenze come queste? Sarà un caso se la reputazione dei nostri atenei nelle classifiche mondiali è così bassa? Dice l'ultimo Academic Ranking of World Universities elaborato dall'Institute of Higher Education della Jiao Tong University di Shanghai che, sulla base di sei parametri, la Sapienza si colloca nel gruppone tra il 100° il 150° posto. La Scuola Normale di Pisa, però, rielaborando i sei parametri utilizzati (numero di studenti vincitori di Premi Nobel e Medaglie Fields; numero di Premi Nobel in Fisica, Chimica, Medicina ed Economia e di medaglie Fields presenti nello staff; numero delle ricerche altamente citate di docenti, ricercatori, studenti; numero di articoli pubblicati su Nature e Science nel quinquennio precedente la classifica; numero di articoli indicizzati nel Science Citation Index e nel Social Science Citation Index; rapporto tra allievi/docenti/ricercatori e il punteggio complessivo relativo ai precedenti parametri) è arrivata a conclusioni diverse. Se il calcolo viene fatto tenendo conto della dimensione di ogni università, sul pro capite, tutto cambia. E se la piccola ed elitaria Scuola Normale si inerpica al 10° posto dopo rivali inarrivabili come Harvard, Stanford, Mit di Boston o Berkeley, ecco che le altre italiane seguono a distanza: 113ª Milano Bicocca, 247ª la Statale milanese, 248ª Padova, 266ª Pisa e giù giù fino a ritrovare la Sapienza. Che stracarica di studenti ma anche al centro di perplessità come quelle segnalate, è addirittura al 430° posto. E torniamo alla domanda di Frati: qual è il problema, «Parentopoli», «Ignorantopoli» o forse forse tutte e due? Gian Antonio Stella _____________________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 feb. ’12 CONCORRENZA SENZA VINCOLI PER MIGLIORARE LA RICERCA di Guido Martinetti Quali attività scientifiche devono essere finanziate nel nostro Paese e quali sono gli strumenti più adatti r realizzare un'efficace politica della ricerca? Si potrebbe cominciare con le usuali geremiadi sull'insufficienza dei fondi, ma vorrei qui discutere come anche le poche risorse sono spesso mal utilizzate a causa di norme macchinose, che non hanno riscontro all'estero. Partiamo dai Prin, i Progetti di ricerca d'interesse nazionale. Il ministro Profumo ha affermato che si prefigge di migliorare la capacità dell'Italia di acquisire risorse per la ricerca. Questo risultato, dice, non si ottiene sostenendo le singole eccellenze, ma alzando l'asticella media conia creazione di gruppi di progetto in grado di dare il meglio e, aggiungo io, essere competitivi al livello europeo. Se le intenzioni sono assolutamente condivisibili, lo stesso non si può dire per le nuove regole introdotte, tant'è che il ministero ha apportato modifiche in corso d'opera: limitano il danno, ma nonio eliminano. Rischiano di mortificare i settori più dinamici dell'università senza raggiungere l'obiettivo di elevare il livello medio della ricerca Il confronto deve perciò continuare affinché ci sia una correzione dirotta, per indirizzare realmente il sistema nella direzione auspicata dal ministro. Al momento le università possono presentare un numero di progetti proporzionale al numero di Prin ottenuti in passato, mediato su tre anni. Dovranno coinvolgere gruppi appartenenti a realtà diverse per affrontare ricerche che richiedono la collaborazione di team con competenze diversificate. In ogni caso le università dovranno operare una preselezione, ricorrendo a esperti esterni. Queste regole provocano effetti distorsivi. All'interno degli atenei la possibilità di presentare domande potrebbe essere distribuita col manuale Cencelli, in base al numero di teste e in barba a valutazioni di merito. La doppia valutazione (ateneo e ministero) è inutilmente più macchinosa e darà origine a ulteriori contestazioni. Dubito che il filtro dei progetti a livello di ateneo ne aumenti la qualità scientifica. La valutazione deve essere fatta da soggetti terzi, non condizionabili, e non dalle università dove possono prevalere gruppi di potere o logiche clientelari. Non solo. Le università con maggiore densità di ricercatori eccellenti che di solito si aggiudicano numerosi finanziamenti nazionali e internazionali, devono rinunciare a presentare parte dei propri progetti e accodarsi come nodo locale ad altri atenei Risultato? Il coordinatore nazionale non sarà lo scienziato più competente, ma quello possibile in base a un intreccio di trattative che nulla hanno a che fare con la qualità delle persone e delle ricerche. Diventa poi impossibile affidare un Prin a un "giovane" brillante, ma non ancora all'apice della carriera: si preferirà puntare su una carta sicura e rodata, mortificando così, sulla base di criteri , numerici, i giovani e il flauto della ricerca. Inoltre le università perdono una delle ragioni per reclutare i ricercatori migliori, in quanto questo non porterà a un possibile aumento di progetti finanziati. Si avrà in media un aumento della distribuzione a pioggia e una dequalificazione delle proposte: è solo con la liberalizzazione delle domande e con la concorrenza senza vincoli che si migliora il livello della ricerca. Se si voleva dare la precedenza a progetti più articolati, sarebbe bastato un format che prevedesse un numero minimo di atenei e di docenti. Chi aveva le carte in regola, un progetto valido e partner di livello, avrebbe potuto partecipare al bando, diminuendo il numero di domande senza inutili e farraginose complicazioni. D'altro canto, la mancanza di finanziamenti destinati a gruppi numericamente esigui, ma che potrebbero avere grande valenza culturale o innovativa, favorirà gruppi consolidati, alimentando il conformismo scientifico e limitando la Capacità d'innovazione di cui il Paese ha bisogno. Con un ministro estremamente autorevole e attento, e università e centri di ricerca con competenze ed esperienza internazionale, possiamo produrre un sistema di assegnazione delle risorse moderno, razionale ed efficiente, basato su una maggiore e più libera concorrenza. Teniamo viva questa discussione. Non mancano le sedi istituzionali per farlo. Guido Martinetti, fisico teorico; è direttore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste _____________________________________________________________________ Espresso 16 feb. ’12 GENOVA ALLO SFASCIO IL POLO TECNOLOGICO Uno sfasciarrozze contro il polo tecnologico che dovrebbe aprire la strada al futuro di Genova. L'avvocato Umberto Pillitteri, fratello dell'ex sindaco di Milano Paolo, ha dato battaglia per conto del carrozziere Antonino Pinzone niente meno che a Genova Hi Tedi (Ght), il colosso pubblico-privato messo in piedi da Regione Liguria, Comune di Genova, Cnr, Università, Confindustria, Banca Carige e Intesa San Paolo per costruire sulla collina genovese UI) Parco tecnologico dove approderanno aziende come Siemens, Esaote, Ericssmi. Pinzone, che per decenni ha gestito tranquillamente la sua attività di sfasciacarrozze su un'area di 6.500 metri quadrati inerpicata sugli orti, nel 2009 si è trovato all'improvviso in mano un tesoro: il progetto Erzelli, infatti, prevede di investire un miliardo per creare non solo un polo industriale avanzato, ma anche per tirare su un bel po' di torri residenziali, alcune proprio sulla sua proprietà. Pinzone, in società con un finanziatore, Simone Sangalli, ha aperto una società nel Delaware (battezzandola Genovella), e manda a dire, tramite Pillitteri, che ha pronto un grande progetto immobiliare, quindi o Ght » valorizza a dovere» l'area facendogli una adeguata offerta, o si tiene uno sfasciacarrozze in mezzo ai grattacieli e agli ingegneri. V. C. __________________________________________ Corriere della Sera 9 Feb. ‘12 QUANDO LA RICERCA PRODUCE RICCHEZZA Cercando il futuro al microscopio C' è chi le ha immaginate e chi sta cercando il modo di realizzarle. Pensate a delle cellule fotovoltaiche integrate nei vetri delle finestre di casa per schermare gli edifici e risparmiare energia e calore (magari fossero già disponibili in questi giorni di grande freddo). Oppure pneumatici intelligenti dotati di nanosensori per monitorare l' adesione al terreno e le sollecitazioni; parliamo di ruote destinate a mandare in pensione l' Abs. Ancora: batterie al litio più potenti e sicure per telefonini e auto elettriche. Tutto questo nasce sotto la lente di un microscopio. Dall' infinitamente piccolo alle applicazioni industriali: ecco Snn-Lab, il nuovo laboratorio per le Nanotecnologie e le Nanoscienze della Sapienza, core facility del primo ateneo capitolino, che si candida a diventare una struttura di riferimento per la ricerca d' avanguardia e le imprese. Quattrocento metri quadrati, ubicati al piano terra di Ortopedia (Città Universitaria), che vengono ufficialmente inaugurati questa mattina ma, conferma la responsabile del laboratorio, Maria Sabrina Sarto, «lavoriamo già a pieno ritmo: l' obiettivo è partire dalle nanotecnologie per arrivare a prodotti di interesse industriale». Punto di forza del laboratorio - ristrutturato con un investimento di 250 mila euro da parte dell' ateneo - è la collaborazione innescata tra 13 dipartimenti e 3 facoltà della Sapienza: una jointventure di conoscenze che spazia dall' ingegneria (dei materiali, elettronica) alla medicina, matematica, fisica, chimica, biotecnologie. Nel laboratorio lavorano 20 docenti responsabili delle attrezzature e un tecnico strutturato: «Il team - continua Sarto, che è inoltre direttrice del Centro di ricerca per le Nanotecnologie applicate all' ingegneria (Cnis) - è poi formato da dieci ragazzi, dottorati e dottorandi, purtroppo precari che paghiamo con fondi di ricerca finanziati da diversi enti». Lo dice con un pizzico di rammarico la professoressa Sarto - classe 1968, docente ordinario dal 2002 - e forse anche per questo la voglia di puntare su questo innovativo laboratorio è tanta. «Potremo fare ricerca e studiare applicazioni in un' ottica di filiera - aggiunge Sarto - dai nanomateriali e alle superfici multifunzionali intelligenti per applicazioni industriali». La ricerca di base diventa prodotto. E crea ricchezza. «La ricerca si estende infine nell' ambito della salute - aggiunge Alberto Gulino, responsabile del Centro di Genomica e Bioinformatica - con la piattaforma di genomica e bioinformatica per il sequenziamento del Dna». Tradotto: ci si muove verso studi per la cura di gravi malattie. I ricercatori della Sapienza hanno finalmente un luogo dove far confluire contributi e studi avviati in ambiti multisciplinari. E, soprattutto, si crea l' agognata integrazione tra accademia e aziende. «All' estero - conferma ancora Maria Sabrina Sarto - la ricerca universitaria è bene inserita nei processi industriali: da noi il concetto è totalmente assente. Dobbiamo dimostrare all' industria - prosegue Sarto - che la ricerca di base può portare ad applicazioni in linea con le richieste del mercato». Nell' Snn-Lab sono presenti strumentazioni all' avanguardia: valore, 2 milioni e mezzo di euro. Si tratta di 12 macchine dislocate in 5 aree funzionali: tra le novità, un microscopio a scansione elettronica. Per capire la portata delle strumentazioni, e delle osservazioni, basti pensare che un nanometro corrisponde a un miliardesimo di metro (pari a un milionesimo di millimetro). Soddisfatto il rettore della Sapienza, Luigi Frati: «Il laboratorio è stato realizzato interamente con fondi dell' Università e della Regione Lazio - conclude Frati - tramite finanziamento Filas per progetti JointLabs gestiti da Sapienza Innovazione». Simona De Santis RIPRODUZIONE RISERVATA De Santis Simona _____________________________________________________________________ TST 8 feb. ’12 CERECANSI CERVELLI DISPERATAMENTE Negli USA "vuoti" 3 milioni di posti di lavoro: mancano gli scienziati RICCARDO LATTANZI NEWYORK UNIVERSITY Una fuga dal Belpaese sempre più grave: ogni laureato costa allo Stato 500 mila euro Gli economisti calcolano che quasi il 50% della crescita del prodotto inter no lordo americano deriva dall'innovazione. Quest'ultima richiede lavoratori sempre più qualificati, che però scarseggiano, a causa di un mediocre sistema scolastico di base. Basti pensare che, nonostante la crisi, lo scorso settembre in America c'erano oltre 3 milioni di posti di lavoro vacanti, inclusi 607 mila nell' istruzione e nei servizi sanitari. La colpa della mancanza di capitale umano con le competenze necessarie non è solo delle scuole, ma dipende dal fatto che sono pochi gli americani che frequentano master o dottorati .in materie scientifiche e tecnologiche, dove la maggioranza è costituita da studenti e ricercatori stranieri. La National Science Foundation per il 2008 indica che oltre il 50% dei dottorati in ingegneria, matematica, informatica, fisica ed economia è stato conseguito da studenti stranieri. Grazie alle ultime leggi per l'immigrazione, che per certe discipline permettono di lavorare col visto da studente fino a due anni e mezzo dopo il diploma, i due terzi degli «extracomunitari» restano negli Usa e molti vengono regolarizzati dalle aziende. Tra il 1990 e il 2000 gli individui con almeno la laurea, nati in Asia e impiegati negli Usa in ambito scientifico-tecnologico, sono aumentati da 141 mila a 460 mila: la percentuale di cinesi e indiani a cinque anni dalla fine degli studi è addirittura del 92% e 85%, rispettivamente. Sono valori che danno l'idea di quanto lo sviluppo americano, che si basa sull'innovazione, sia legato alla capacità di attrarre lavoratori qualificati da altre nazioni. Il mercato stesso degli studenti è da solo un affare miliardario. La Nafsa, l'associazione per la promozione degli studi internazionali, ha stimato che nell'anno accademico 2009-2010 i 723.277 studenti stranieri e le loro famiglie hanno contribuito per 19 miliardi di dollari all'economia Usa. E' una cifra che diventerebbe ancora più alta se si aggiungesse il contributo, soprattutto in termini di brevetti, dei 113.494 ricercatori stranieri post-dottorato. Quello che per gli Usa è un guadagno, per i Paesi d'origine è una perdita. Nel caso dell'Italia gli studenti negli Usa rappresentano meno dell'l% del totale degli stranieri, ma è comunque un problema che non va sottovalutato. Prima di tutto la percentuale di connazionali cresce nelle università americane più prestigiose, suggerendo che non si tratti di giovani qualunque, ma di alcuni tra i migliori delle rispettive generazioni. In secondo luogo il «brain drain» dall'Italia verso gli Usa riguarda soprattutto persone già laureate, che partono per il master o il dottorato, e persone che hanno completato gli studi, a cui viene offerto un contratto da post-dottorato o da professore. Il danno immediato è spaventoso, se si considera che ogni laureato costa allo Stato 500 mila euro. Ancora peggio è la previsione nel lungo periodo. Una ricerca dell'Istituto per la Competitività ha mostrato che l'attività brevettuale dei 20 scienziati italiani all'estero più produttivi vale 861 milioni di euro, per un valore cumulato pari a 2 miliardi nei 20 anni di protezione della proprietà intellettuale. La perdita dei cervelli è allora un problema serio e il modo migliore per risolverlo non è tanto nel trattenere chi vuole andare all'estero, quanto nel compensare la perdita con un flusso analogo di cervelli in ingresso. Le basi per una simile inversione di tendenza ci sarebbero già, dato che, secondo l'Institute of International Education, l'Italia è in assoluto la seconda meta preferita, dopo l'Inghilterra, dagli studenti di università americane per brevi esperienze all'estero. Ci sarebbe anche l'opportunità di attrarre studenti e ricercatori asiatici, approfittando delle loro difficoltà nell'ottenere visti per gli Usa dopo l'll settembre. Come fare? Prima di tutto bisogna aumentare gli investimenti. Un rapporto dell'Ocse mostra che nel 2008 l'Italia ha speso il 4,8% del pil in istruzione (ancora meno in ricerca e sviluppo), 1,3 punti percentuali in meno rispetto al totale Ocse di 6,1%, posizionandosi al 29'2 posto su 34 Paesi. Una parte delle risorse andrebbe poi destinata al potenziamento di tre- quattro centri di eccellenza in altrettanti settori strategici per permettere loro di scalare le classifiche internazionali, così da attrarre i migliori studenti e ricercatori dall'estero. Questo potrebbe andare di pari passo con la creazione di nuove tipologie di visto per gli extra-comunitari, che facilitino l'inserimento nelle università o nelle industrie. La burocrazia andrebbe snellita, eliminando il concorso pubblico per l'accesso alla carriera accademica o, almeno, affiancandolo a meccanismi più semplici e trasparenti, che consentano di assumere un ricercatore eccellente in tempi brevi. Favorire l'internazionalizzazione degli atenei, aumentando gli stranieri, significa creare le condizioni per un cambio di mentalità nel lungo termine. In un Paese dove per cultura ancora oggi si sottintendono le conoscenze umanistiche la sfida è far capire che nel XXI secolo sono la ricerca scientifica e l'innovazione tecnologica a determinare la crescita economica. _____________________________________________________________________ Il Giornale 11 feb. ’12 IL MANIFESTO DEGLI SCIENZIATI CONTRO LE TERAPIE «CIARLATANE» di Eleonora Barbieri Quattrocento medici fumano un appello per chiudere 19 facoltà australiane che hanno corsi di laurea in discipline alternative come omeopatia e riflessologia ? Come tanti appelli, la parola d'ordine è «ora basta». E questa volta, «ora basta» ha puntato nel suo obbiettivo la medicina alternativa. La firma è di quattrocento medici, scienziati e ricercatori indignati perché - dicono - si è oltrepassato un limite: in diciannove università australiane ci sono corsi di laurea pubblici, da cui gli studenti escono con tanto di titolo in discipline come omeopatia, riflessologia, naturopatia, chiropratica e iridologia. Forme di cura alternative che, peri firmatari, in realtà sono soltanto «pseudoscienze». Senza diritto a finanziamenti pubblici e senza diritto a una laurea. I «Friends of Science in Medicine», cioè gli « amici della scienza in medicina» (giusto per ribadire) non ne fanno una questione di semplice scetticismo nella pratica quotidiana: chiedono che le facoltà siano chiuse e hanno invitato la Commissione nazionale sull'università ad agire. «I soldi dei contribuenti non devono essere sprecati in finanziamenti per questi corsi - scrivono - Non devono essere fatte agevolazioni governative e le assicurazioni sanitarie non devono coprire i trattamenti per queste sciocchezze». Le chiamano proprio così: sciocchezze. Anzi insistono definendo questo genere di corsi «una ciarlataneria», dannosa per l'immagine stessa della loro professione: perché in questo modo è «compromessala medicina basata sull'evidenza scientifica». Un attacco totale, sostenuto anche dall'inventore del vaccino contro il tumore al collo dell'utero Ian Frazer, dal biologo Gustav Nossal e da John Dwyer, consigliere del governo australiano sulle frodi alla salute dei consumatori, che ha rincarato: «È desolante che diciannove università offrano una laurea in una pseudoscienza». La battaglia è degli scienziati, perché è innanzitutto fra due visioni contrapposte di ciò che sia scienza, e ciò che non abbia diritto a nominarsi tale. Ed è un conflitto che si combatte da secoli, per esempio oggi il creazionismo è considerato una pseudoscienza, ma per secoli, prima di Darwin, era la verità assoluta; e sulle definizioni (in questo caso quella di «metodo scientifico») ci si scontra millimetro su millimetro come lungo le trincee della prima guerra mondiale, quindi l'opposizione è totale, mentre la line a di confine, nella pratica, è ovviamente molto più sottile. Perché la medicina alternativa è un terreno di scontro molto quotidiano: mamme che credono nell'omeopatia, e la scelgono come cura per i figli, contro pediatri che storcono il naso, o padri che tentano vanamente di opporsi; amiche che litigano su quale rimedio sia meglio, sentendosi di volta in volta molto degeneri, molto all'avanguardia; madri che poi si pentono, perché i figli passano tutto l'inverno col raffreddore (succede ogni anno, e con qualunque tentativo, ma il senso di colpa prevale sempre sulla logica). Nel nostro paese, per esempio, le appassionate di omeopatia sono soprattutto donne, istruite, con reddito medio-alto e del Nord. Sarebbero loro le avversarie numero uno degli scienziati firmatari, insomma. Ma il punto su cui insistono i «Friends of Science in medicine» non è tanto la scelta della cura per la propria salute, quanto i finanziamenti governativi e le assicurazioni (un tema molto dibattuto, in Francia e in GranBretagna, è l'opportunità di rimborsi sanitari per chi non ricorra a metodi tradizionali): le discipline che finiscono sotto l'ombrello del «pubblico» acquisiscono un'aura di ufficialità che, per gli scienziati, non è giustificabile. Nelle loro parole, così «si dà una credibilità immeritata a quello che in molti casi sarebbe meglio descritto come ciarlataneria». La replica della National Herbalists Association australiana è che, per mostrare il loro valore di scienze, le medicine alternative devono fare ricerca, ma per farlo serve appunto l'università. Un discorso che forse anche gli scienziati possono condividere, ma a una condizione: che la ricerca non sia fatta a spese dei contribuenti. _____________________________________________________________________ Il Manifesto 11 feb. ’12 QUEL DIRITTO ALL'ACCESSO NEGATO DALLA MERITOCRAZIA Enrica Rigo Maurizio Ricciardi Non molto tempo fa, qualcuno ha affermato che Marchionne stava facendo la «lotta di classe». Parafrasando Clasewitz si potrebbe osservare che «la politica non è altro che la continuazione della lotta di classe con altri mezzi». Non si può certo aver paura di sbagliare sostenendo che Monti, Fornero, Cancellieri e addirittura lo sbiadito ministro Profumo siano il «braccio politico» di questa lotta. Il problema è che in questo rovesciamento delle parti, per cui è il capitale (finanziario e non) a fare a lotta di classe, manca il nemico. Non certo perché non si diano più le condizioni di subalternità e sfruttamento del lavoro, ma perché l'orizzonte culturale attraverso il quale il «nemico di classe» veniva identificato è svanito. Fiaccato dai falsi miti che ci sono stati propinati per anni. Quello dell'«essersi fatti da soli» ne è un esempio, così come quello della meritocrazia. In Italia, vi sono stati anni (non molti purtroppo) in cui nelle università vi erano, insieme agli altri, i figli degli operai. Vi è stata una generazione (o forse più d'una) per la quale «mobilità sociale» ha significato poter rivendicare con orgoglio di essere la prima o il primo laureato o diplomato in famiglia. Ma questo non ha nulla a che fare con «l'essersi fatti da soli». È stato fatto dalla scuola pubblica, dall'università pubblica. Sulla funzione avuta dall'istruzione nei sistemi democratici varrebbe la pena rileggersi le pagine di Pierre Bourdieu che mostrano come la monopolizzazione del capitale culturale è funzionale alla costruzione di gerarchie invalicabili, alla istituzionalizzazione di modi di dominazione che pretendono che i dominati riconoscano come giusta la propria subordinazione. Certo, sembra difficile immaginare di trovare i volumi di Bourdieu nella biblioteca privata di chi accusa gli studenti fuori corso (lavoratori?) di essere «sfigati» o i precari che non riescono a pagarsi l'affitto dei «cocchi di mamma». Sono probabilmente spariti anche dalle biblioteche di molti «progressisti». Non è raro, infatti, trovare in giornali del centro-sinistra le storie di successo di «giovani ricercatori meritevoli» che sono riusciti ad affermarsi «nonostante tutto», magari all'estero, sia pure utilizzate per denunciare l'inadeguatezza del sistema italiano nel comprenderne il talento. Merito e talento vengono trattati come qualità «naturali», legittimando esplicitamente la meritocrazia come capacità del sistema di saper riconoscere e premiare nella giusta misura chi è stato baciato dalla sorte con tali doti. Ma se bisogna riconoscere una ricchezza al' l'istruzione pubblica italiana, questa è proprio la sua inclusività. Merito e eccellenza non sono doti «naturali», ma il prodotto di un sistema che consente a Franti e Garrone di avere Derossi come compagno di banco (e si spera che almeno il libro Cuore sia stato letto da Monti a Martone). Nell'alimentare i falsi miti, il governo dei professori sembra voler realizzare la terrificante utopia negativa descritta da Michael Dunlop Young nel suo The rise of meritocracy, dove sono i secchioni a governare il mondo, in quanto ultima e più perfetta espressione di un mondo diviso prima in caste e poi in classi. È questo l'unico significato che bisogna tornare ad attribuire al termine meritocrazia. Ed era anche quello che gli attribuiva il vecchio laburista Young, tranne dover poi registrare con rammarico che il New Labour di Tony Blair la considerava un valore positivo. Le esternazioni di Martone non sono gravi perché urtano la sensibilità di qualcuno. I passaggi politicamente eloquenti, quasi ignorati dalla stampa, sono quelli dove il sottosegretario loda i giovani figli di immigrati che scelgono gli istituti tecnici invece dei licei. Ovvero, che scelgono di «stare al proprio posto». Monti e Cancellieri sono ben consapevoli che il desiderio di un «posto fisso» può, in realtà, celare l'insidiosa aspirazione a uscire dalla subaltemità a cui il precariato costringe in quanto condizione di vita. «posto fisso» contempla l'insidia del rifiuto e dell'indisponibilità al lavoro a ogni costo. Per rispondere alla lotta di classe altrui, sarebbe il caso di far appello alle coscienze dei democratici e dei liberali. L'uguaglianza e la libertà non sono fruibili come privilegi né come storie di un successo individuale. Ma forse rimane un ultimo consiglio di lettura da dare ai professori e ai loro portaborse. Vi è un passaggio, nell'autobiografia di Malcolm X, nel quale è descritta una conversazione tra il giovane Malcolm e un suo professore di liceo. Interrogato su che lavoro vorrà fare, Malcolm risponde senza rifletterci che vuole diventare avvocato. Il prof. Ostrowski, sorpreso, paterno e senza cattive intenzioni, lo esorta a essere realista. Gli spiega che «per il fatto di essere un negro» è meglio che pensi di fare il falegname. Certamente è in quel momento che il giovane Makolm diviene consapevole di cosa avrebbe fatto da grande! __________________________________________ La Nuova Sardegna 9 Feb. ‘12 UNICA:DICIOTTOMILA GLI STUDENTI FUORI SEDE E 1.500 ASPETTANO ANCORA UN POSTO LETTO Rush finale per il campus universitario: affidamento dell’appalto e stanziamenti ROBERTO PARACCHINI Cagliari. Febbraio sarà il mese decisivo per il campus universitario di viale La Plaia, nell’ex semoleria. Entro fine mese dovranno essere presentate le proposte per l’appalto concorso legate alla realizzazioine della struttura e si saprà se il ministero per la ricerca ha accettato la domanda per ulteriori finanziamenti. Il bando, “lanciato” a fine dicembre, per i primi 240 posti letto del nuovo alloggio per gli studenti, prevede - per il momento - un investimento di trentacinque milioni di euro: le risorse residue rimaste a disposizione per questa struttura. In passato i finanziamenti erano ben più ampi, ma per ostacoli prevalentemente politici non sono stati utilizzati e, quindi, sono stati persi. Il vincitore dell’appalto concorso, oltre all’offerta per la costruzione della prima trance del campus (che comprende pure le opere di scavo per i parcheggi interrati), dovrà presentare il progetto definitivo per tutta l’opera basandosi su quello di massima presentato al bando. Dopo un percorso irto di polemiche e durato cinque anni, a fine dicembre «Comune, Ersu (l’ente regionale per il diritto allo studio - ndr) e Regione sono riusciti a fare in due mesi quello che per anni non era stato realizzato - spiega Alessio Mereu, capo gruppo in consiglio comunale dei Riformatori e componente del consiglio d’amministrazione dell’Ersu - spinti pure dalla necessità di non perdere i trentacinque milioni residui per il campus dato che a fine dicembre scadeva il termine utile». Tra i vari punti che dovranno essere perfezionati in questo periodo, c’è l’attuazione dell’ordine del giorno (presentato da Mereu) sul passaggio dal Comune all’Ersu del vecchio silos dell’ex semoleria, in cui è stato previsto di inserire il deposito-libri della biblioteca. Il passo più importante è stato fatto «ed entro l’anno dovremmo iniziare i lavori per realizzare la struttura», precisa Roberto Murru, del consiglio d’amministrazione dell’Ersu. Intanto non cessano le polemiche: nell’intervento di tre giorni fa su La Nuova, il medico scrittore Giorgio Todde ha parlato di colata di cemento anche riferendosi al campus. Mentre «a noi non sembra che sia così - sottolinea Andrea Scano, Pd e presidente della commissione consiliare comunale all’Urbanistica - il progetto di massima che abbiamo approvato è molto meno impattante sia del primo progetto-Edilia di circa 95mila metri cubi (un unico immobile per novecento posti letto - ndr), sia di quello di Da Rocha (voluto dall’allora presidente della Regione Renato Soru - ndr) che prevedeva circa 160mila metri cubi comprensivi dei servizi e mille posti letto. L’ipotesi approvata, invece, ipotizza una struttura modulare con diversi edifici, comprensivi anche dei servizi: mense, palestra, auditorium, biblioteca e sale lettura, e complessivi cinquecento posti letto». Gli universitari fuori sede sono in città circa diciottomila e di questi ben dodicimila sono residenti ad oltre cinquanta chilometri da Cagliari, la sede dell’ateneo. Mentre i posti attuali nelle case dello studente dell’Ersu sono poco più di novecento. Da qui l’esigenza di altri posti letto. Infatti sono circa millecinquecento gli studenti che per merito e reddito (dei genitori) potrebbero accedere a un posto, ma non vi sono le strutture sufficienti. Da questo discorso la volontà di realizzare il campus di viale La Plaia. __________________________________________ La Nuova Sardegna7 Feb. ‘12 UNICA: LA BATTAGLIA VINTA DEI FUORICORSO ALL’UNIVERSITÀ Il Consiglio di Stato ha dato loro ragione sulla validità degli esami: raccontiamo le loro storie Problemi economici, di salute e il lavoro bloccano spesso gli studi CAGLIARI. Pendolarismo, rovesci economici, problemi di salute: le vie che portano alla pergamena sono piene di insidie. Non hanno ancora la laurea a 28 anni come vorrebbe il sottosegretario Martone, ma non sono “sfigati”. Anzi. Bisognerebbe fargli un monumento. Sì, un monumento ai (quasi) decaduti: in 202 hanno vinto il ricorso al Consiglio di Stato contro la “rottamazione” dei fuori corso. E i risultati delle loro battaglie andranno a vantaggio anche dei tantissimi colleghi che non hanno speso un euro per rivendicare quello che giovedì il tribunale ha sancito come un loro diritto. Gli esami più duri dei «fuori corso» Universitari “anziani” in trincea: «Frenati da lutti, salute e pochi soldi» STEFANO AMBU Cagliari. Pendolarismo, lutti familiari, rovesci economici, problemi di salute: le vie che portano alla pergamena sono piene di insidie. E trabocchetti della vita. Non hanno ancora la laurea a 28 anni come vorrebbe il sottosegretario Martone, ma non sono “sfigati” o fannulloni. Anzi. Bisognerebbe fargli un monumento. Sì, un monumento ai (quasi) decaduti: in 202 hanno vinto il ricorso al Consiglio di Stato contro la “rottamazione” dei fuori corso. E i risultati delle loro battaglie andranno a vantaggio anche dei tantissimi colleghi che, pur rischiando il game over per tempo scaduto, non sono scesi in piazza e non hanno speso un euro per rivendicare quello che giovedì il tribunale ha sancito come un loro diritto. Una storia per tutte, quella di Sara Erriu, 38 anni: il suo nome compare nello sterminato elenco inserito nella sentenza della svolta. «Sono partita bene - racconta - con un libretto di trenta e di trenta e lode. Poi mi sono dovuta fermare per problemi di salute. E quando, a pochi esami dal traguard ho ricominciato, è arrivata questa “tegola”. Non potevo sopportarlo. Per me e per tanti altri nelle mie stesse condizioni». Prossima tappa, Diritto del lavoro. E presto la laurea in Giurisprudenza. Ma non c’è solo la storia di Sara. La vera “sfiga” che a volte non consente di laurearsi in tempo può essere magari quella di fare ogni santo giorno più di cento chilometri perchè non ci sono più i soldi per stare in affitto Cagliari. Ma anche un lutto familiare che scombussola i conti e che ti cambia la vita. O ancora la voglia di non chiedere più soldi a mamma e papà e di darsi da fare con lavoretti che magari in Svezia o in Olanda sono compatibili con lezioni, esami e giornate di studio, ma in Italia no. Sono solo un Bignami dei percorsi di chi a un certo punto si è trovato di fronte a un bivio con il cartello “decadenza”. Con il rischio di dover buttare a mare anni di studio. O, al meglio, di essere costretto ad allungare la strada che porta alla pergamena scegliendo l’iter del nuovo ordinamento.«Per laurearmi in Ingegneria - spiega Stefano Abis, 40 anni, studente di Carbonia - mi mancavano cinque esami: con il nuovo ordinamento avrei dovuto sostenerne altri otto».La sua vita, non solo universitaria, è cambiata con la scomparsa del padre: «Da allora - spiega - ho cominciato a fare la spola tra Cagliari e Carbonia: sono pignolo, seguo tutte le lezioni e le esercitazioni. E con questi continui spostamenti mi rimaneva poco tempo per studiare a casa». La meta è vicinissima, ora: due esami più tesi. Lutto familiare. Ma anche voglia di confrontarsi da presto con il mondo del lavoro senza volere perdere di vista l’obiettivo laurea anche per Georgia Randazzo, 36 anni, Scienze Politiche: «Non è come in tanti altri Paesi - spiega - l’Università da noi non è accogliente per gli studenti lavoratori. Mi sono dedicata, parallelamente agli studi, anche ad altre attività che hanno rallentato il mio percorso. Senza mai dimenticare di pagare le tasse universitarie». Lavoretti saltuari, ma anche più duraturi e impegnativi nel campo dell’editoria. Mai ferma: l’obiettivo è quello di arrivare a discutere la tesi nel giro di un anno- un anno e mezzo. Una battaglia che è finita in piazza, quella dei fuori corso con un sit in davanti al Rettorato. Tra i promotori Andrea Murru, 34 anni, Giurisprudenza. I rallentamenti? «La passione politica - spiega - e qualche lavoretto. Raccogliere firme per un referendum richiede tempo e impegno. Ma non me ne pento: sono esperienze che arricchiscono e possono andare avanti di pari passo con gli studi». La battaglia appena vinta mette le ali ai piedi e alleggerisce il peso delle pagine da studiare. Marco Meloni, presidente del Consiglio degli studenti, non è nella maxi-lista dei ricorrenti-vincenti perchè si è già laureato. Ma è sempre stato dalla loro parte: «I problemi dell’Università - spiega - non si risolvono con i tagli, ma dando qualità alla didattica e rafforzando il diritto allo studio». __________________________________________ L’Unione Sarda 6 Feb. ‘12 SONO QUASI CENTOMILA I GIOVANI SARDI CONDANNATI A UNA VITA DA PRECARIO UMBERTO AIME Cagliari. C’è gran poco da divertirsi nella giungla del precariato. Soprattutto in Sardegna, dove scarseggia (eufemismo) non solo il posto fisso, la disoccupazione giovanile è sul baratro del 40 per cento, ma ha messo radici anche un laboratorio senza regole popolato da dipendenti a termine, settantamila, e parasubordinati, ventinovemila. È molto più di una folla. Sono i novantacinquemila sardi - lo dice l’Istat - dai 15 ai 30 anni ostaggio di contratti a termine, a progetto, collaborazioni continuative e altri surrogati. Su questo fronte, popolato da chi invoca la stabilizzazione, l’uscita del professor-premier Monti («Posto fisso che monotonia») è stata una scudisciata. Basta sopportare qualche ora alla scrivania-trappola di un call center, sono quasi diecimila i sardi costretti a farlo ogni giorno, oppure mettersi in fila davanti ai banconi delle agenzie interinali, una ventina fra Cagliari e Sassari, per scoprire che la generazione degli «usa e getta» da parte di imprese più o meno spregiudicate, non si diverte affatto. Anzi, grida e combatte, dentro e fuori questi uffici dove è atipico non solo il lavoro, ma lo sono anche le più elementari norme sulla sicurezza: stanze strapiene, cavi volanti, prese ballerine e seggiole traballanti. «Sono prigioni», ha denunciato un mese fa quel sindacato mai ammesso nelle fabbriche del precariato o se c’è mal sopportato in queste bestiali catene di montaggio. «È una situazione disastrosa», ha scritto pochi mesi fa la Direzione del lavoro dopo aver monitorato per un due anni un «mondo dove le vittime sacrificali sono soprattutto laureati con un’altissima percentuale di donne», secondo il rapporto 2011 del Centro studi relazioni industriali dell’Università di Cagliari. «Purtroppo è un pianeta zeppo di illegalità», sono state le parole ancora più dure dell’ex ministro del Lavoro, nell’ultimo governo Prodi, Cesare Damiano, al convegno «Precari senza diritti», organizzato a Cagliari dall’associazione Jan Palach. Basterebbero queste denunce per dire che la battuta del Professor Monti sulla “deprecata routine del posto fisso”, i dannati del precariato non riescono proprio a digerirla. Servono altre prove? Sono dentro la Rete, a cominciare da quelle custodite dal forum «La Repubblica degli stagisti», stanza virtuale di indignazione e protesta, aperta sull’onda di una frase fulminante, questa sì, del giornalista Beppe Servegnini: «L’Italia è una Repubblica fondata sugli stage». Appunto. Ebbene, il caso Sardegna dagli amministratori delle pagine su Internet è analizzato, setacciato e poi liquidato con uno zero spaccato: è fra le regioni messe peggio in Italia, la sentenza. Non solo per le nefandezze commesse da micro o macro aziende private, ma anche della Regione. Tre sono le news dedicate da «Repubblica stage» agli ultimi voucher dell’assessorato al Lavoro «che dovrebbero favorire l’occupazione giovanile - si legge - ma da noi bollati come i tirocini della vergogna, perché sono pasticciati, inutili e destinati solo a professioni di basso profilo». Con un diritto di replica concesso l’indomani al direttore dell’Agenzia regionale del lavoro, che dopo aver rintuzzato l’attacco, si è augurato «la prossima contrattualizzazione di almeno il 30 per cento dei corsisti». È di un ottimismo esagerato, sconfessato subito dalla Direzione del lavoro, nel monitoraggio citato: «In Sardegna, la stabilizzazione non va mai oltre il 2,6 per cento». È un’altra delle beffe, nella giungla dell’instabilità, che ancora sulla Rete rivela di aver accettato clausole capestro per necessità. Lo ha confessato, al Pc, anche Telefonista disperata in un blog aperto nel 2006, all’indomani del successo di “Il mondo deve sapere”. È il titolo del diario tragico-comico scritto sei anni fa da Michela Murgia sui suoi trenta giorni in una stanzetta votata al telemarketing, che comincia così: «Ho iniziato a lavorare in un call center. Quei lavori disperati che ti vergogni di dire agli amici... È un gulag svizzero...». Da allora nulla è cambiato, l’inferno è ancora lo stesso. Nella Grande Rete hanno trovato asilo anche i capipopolo degli oltre 300 precari dei Centri servizi per il lavoro, notare il paradosso, che una settimana fa hanno occupato l’assessorato, a Cagliari, e poi rilanciato su You Tube il video in cui annunciano: «Stiamo per essere messi alla porta da un’amministrazione pubblica (la Regione) che vuole riaffidare all’esterno quello che noi abbiamo tirato su per cinque anni». È la stessa sorte segnata per i vigili urbani (precari) di Oristano, le assunzioni (a tempo) promesse da diverse Asl, o da imprese di pulizie. Sono quelle che vincono gli appalti pubblici al ribasso, ma dopo pochi mesi non riescono più a pagare gli stipendi e senza riguardo abbassano la serranda sulla testa di ormai ex atipici. Che, abbattuti, crollano nel pessimismo e qualcuno di loro dal tunnel non è più uscito. «Di precariato si muore», ha scritto uno psicologo e in Sardegna c’è chi è morto davvero. Suicida, un ragazzo a Cagliari e uno a Sassari, entrambi dopo essere stati scaricati. «Davanti a tutto quello che accade nella nostra isola di occulto o palese nel mondo lavoro - hanno scritto i segretari regionali di Cgil, Cisl e Uil - è proprio difficile capire il significato che il presidente Monti ha voluto dare alla sua recente esternazione televisiva sulla monotonia del posto fisso». È ancora incomprensibile, il significato, perché «a noi precari, ogni giorno, non è negato solo il piacere di vivere l’oggi... siamo condannati all’incertezza eterna», postato ieri, a mezzanotte, da una Telefonista sempre più disperata. __________________________________________ La Nuova Sardegna 10 Feb. ‘12 ASLNUORO: MAXI APPALTO ASL, C’È UN’IPOTESI DI ACCORDO La Polish House sarebbe pronta a ritirare il ricorso, salvando il project da 700 milioni In ballo la riqualificazione del polo sanitario e la gestione dei servizi per ben 27 anni NUORO. All’Asl circola un’indiscrezione: la Polish House, la società che con un ricorso al Tar ha affondato il project financing da 700 milioni di euro, avrebbe cambiato idea. Avrebbe ritirato - o sarebbe pronta a farlo - il ricorso dopo un probabile accordo con la Cofely, società che fa capo alla multinazionale francese Gdf Suez. Nessuna conferma ufficiale, anche perché i protagonisti di questa annosa vicenda (il bando, fortemente voluto dall’allora direttore generale Franco Mariano Mulas, fu pubblicato nell’aprile 2007) preferiscono rimanere abbottonati, dato che la sentenza del Consiglio di Stato sul caso è attesa nei prossimi giorni. Nessun commento ufficiale da parte dell’Asl, nella sede dell’azienda sanitaria, in via Demurtas. «Sì, abbiamo sentito - commenta un dirigente - Finora non c’è nulla di certo, sarebbe un azzardo rilasciare una dichiarazione in questo momento. Aspettiamo fiduciosi la sentenza del Consiglio di Stato». Anche alla Cofely preferiscono non rilasciare nessuna dichiarazione. «La sentenza dovrebbe arrivare nei prossimi giorni - fanno sapere dall’ufficio stampa - e anche se la notizia fosse vera, non è davvero questo il momento per rilasciare dichiarazioni alla stampa, anche perché c’è la possibilità che la sentenza del Consiglio di Stato risulti per la nostra società comunque negativa». Il project financing (letteralmente finanza di progetto) è uno strumento che permette alle amministrazioni di realizzare opere di pubblico interesse, affidando al privato l’onere di reperire le risorse finanziarie. Privato che in cambio riceve la gestione dei servizi, dalle manutenzioni al servizio di portierato, dalla ristorazione alla pulizia degli edifici, dall’approvvigionamento energetico alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti. In particolare, la Cofely dovrebbe creare il polo sanitario della Sardegna centrale: «Il contratto, del valore complessivo di 800 milioni di euro, di cui 600 milioni la quota spettante a Cofely - si legge nel sito della società controllata dal colosso francese dell’energia, Gdf Suez, quotata a Parigi e Bruxelles e con un fatturato che nel 2010 ha sfiorato gli 85 miliardi di euro - prevede la realizzazione dei lavori di ampliamento e ristrutturazione, la manutenzione di tutti gli impianti e la gestione globale dei servizi energetici e ausiliari, ossia non prettamente medici, per 27 anni. Si tratta del primo esperimento in Italia di progettazione, riqualificazione e gestione di un intero polo sanitario: 350mila metri quadrati circa di strutture di primo soccorso, cure intensive e degenza, per un totale di tre ospedali (san Francesco e Zonchello a Nuoro, san Camillo di Sorgono, ndr), due presidi ospedalieri (Macomer e Siniscola, ndr) e oltre 600 posti letto al servizio di un bacino di utenza di 162mila persone e 52 comuni dell’area centro-orientale della Sardegna». Per la gestione dei servizi, la Cofely incasserebbe un canone annuo di circa 25 milioni di euro per 27 anni. Dopo l’aggiudicazione del bando alla Cofely, la Polish House srl fece ricorso al Tar, vincendolo. L’Asl ricorse però al Consiglio di Stato e la sentenza è attesa nei prossimi giorni. Se confermato, il fatto che la Polish house abbia ritirato il suo ricorso vuol dire che le due società hanno trovato un accordo. Un’ipotesi è che la Cofely abbia ceduto alla Polish House la gestione delle pulizie, cosa che d’altronde ha già fatto per conto dell’Asl e che rappresenta il core business della Polish House. Un servizio che da solo vale circa 4,5 milioni l’anno. _____________________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 feb. ’12 L'ITALIA USERÀ MEGLIO I FONDI UE Il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo incontra a Bruxelles i commissari europei «Inaccettabile che ogni anno si perdano risorse per 500 milioni» Beda Romano BRUXELLES. Dal nostro corrispondente La crisi debitoria sta avendo il merito di rendere restablishment politico ed economico italiano consapevole delle opportunità offerte dal grande bilancio comunitario. Ieri qui a Bruxelles il ministro per l'Istruzione Francesco Profumo ha sottolineato l'impegno del governo non solo a negoziare capitolo per capitolo le prossime prospettive finanziarie 2014 - 2020, ma anche di migliorare l'uso del denaro europeoin Ita lia per sostenere la ricèrca nazionale. Profumo ha incontrato ieri tre commissari, proprio per discutere di ricerca e soprattutto del rapporto tra industria e innovazione. Il ministro ha avuto colloqui con il commissario all'Industria Antonio Tajani, all'Energia Giinther Oettinger, e all'Istruzione Androulla Vassiliou. «Perdiamo ogni anno quasi 500 milioni di euro di fondi europei che la ricerca italiana potrebbe fare propri. Non è più accettabile», ha detto Profumo in un incontro al parlamento europeo. Riferendosi al bilancio 2007-2013, il ministro ha spiega to che il contributo italiano è pari al 13,5% dei 56 miliardi di euro messi a disposizione dall'Unio, ne, mentre l'Italia riuscirà a recuperare appena 1'8,5% del totale, sulla base dei progetti che ha presentato in questo periodo. La concorrenza per ottenere i fondi europei è. Accerrima «Dobbiamo - ha spiegato tra le altre cose Profumo – avvicinare le nostre istituzioni a Bruxelles» per meglio approfittare del denaro comunitario. La presa di posizione è giunta nel giorno in cui la Commissione ha presentato un rapporto che segnala il ritardo italiano nell'innovazione (si veda Il Sole/24 Ore di ieri). La relazione mostra che l'Italia è al 15mo posto nella classifica degli stati membri. Il paese è considerato un innovatore moderato, alla pari con la Grecia, lontano dalla Germania o dalla Francia. «Gli investimenti nella ricerca e nell'innovazione aiutano la competitività e l'internazionalizzazione delle imprese», ha ricordato Tajani. All'incontro al parlamento europeo ha partecipato anche il vice presidente di Confindustria Daniela Bracco. Nel suo intervento, la signora Bracco ha insistito perché l'Italia crei maggiori «sinergie tra i diversi fondi europei (...), nazionali e regionali». Ha sottolineato che il paese deve assolutamente migliorare la sua partecipazione ai programmi di ricerca europea, perché «è una grande opportunità di sviluppo per il nostro paese, per le imprese, per il mondo della ricerca». La visita di Profumo, l'incontro ieri 'al parlamento europeo e il rapporto della Commissione giungono mentre si sta negoziando il nuovo bilancio comunitario, che alla ricerca secondo la proposta della Commissione riserva 8o miliardi, rispetto ai 56 del bilancio precedente. «Sono fiducioso - ha detto Ferdinando Nelli Feroci, l'ambasciatore italiano presso la UE - che riusciremo a mantenere inalterato il livello di finanziamenti proposti dalla Commissione». Il denaro quindi ci sarà, all'Italia spetta utilizzarlo pienamente. __________________________________________ Corriere della Sera 11 Feb. ‘12 IL POTERE DI INTERNET È L'ANONIMATO di SERENA DANNA La Primavera araba e Anonymous rilanciano la strategia dell'identità segreta online Il progetto italiano di un'alleanza con l'Agenzia delle entrate per denunciare gli evasori Governi e multinazionali ci spiano sul web? Le contromosse di hacker, accademici e utenti P rima di concedere un'intervista alla «Lettura», Jacob Appelbaum, l'hacker più famoso d'America, chiede se può prendere informazioni. Apre il pc nero con etichetta TypePad e per tre minuti, sguardo fisso sullo schermo, fa vibrare la tastiera. La diffidenza dell'attivista digitale, ricercatore di computer science alla Washington University, non è eccessiva: da quando l'Fbi ha scoperto la sua attività di ambasciatore per Wikileaks — l'organizzazione internazionale guidata da Julian Assange che lo scorso anno ha fatto tremare i governi di tutto il mondo rivelando informazioni segrete — il ventottenne americano è pedinato come fosse un pericoloso terrorista. Wikileaks è solo una delle attività di Appelbaum. Quella più importante si chiama Tor Project, un software che permette la navigazione anonima su Internet: «Con 500 mila utenti al giorno — spiega — Tor è diventato un'alternativa alla Rete sorvegliata da governi e dai colossi del web a caccia di dati personali da rivendere alle aziende». Tre anni fa Facebook ha chiesto all'hacker di entrare nella squadra, ma Appelbaum ha rifiutato: «Rispetto Mark Zuckerberg ma il mio lavoro va in una direzione opposta: garantire a tutti gli utenti la libertà di espressione online, realizzare l'idea di democrazia alla base di Internet». A questo servono le missioni di «alfabetizzazione digitale»: dall'Iran fino a Siria e Cina, Appelbaum tiene seminari e workshop per insegnare agli attivisti politici l'uso di Tor. «È noto come i regimi facciano un uso massiccio di sistemi di controllo e censura online», afferma. Utilizzando il sistema Tor, che tiene nascosto l'Ip della propria macchina (il codice che ne permette il riconoscimento), «la privacy degli utenti viene rispettata». Appelbaum è convinto che l'anonimato sia l'unico mezzo a disposizione dei cittadini per difendersi «dagli abusi di potere di governi e aziende». È ormai chiaro che la direzione intrapresa da aziende come Google e Facebook vada verso una tracciabilità a 360 gradi degli utenti: il nuovo piano dell'azienda di Mountain View consiste nell'unificare in una sola normativa tutti i dati personali degli utenti provenienti dai vari servizi Google (Google+, YouTube, Gmail); quello di Palo Alto nella «condivisione senza attrito», un servizio che registra tutte le attività degli utenti fuori da Facebook per poi mostrarle sulla bacheca del social network. Sul versante politico, negli stessi giorni in cui attivisti e utenti festeggiavano lo stop alla legge contro la pirateria informatica (Sopa), la rivista «New Scientist» pubblicava un documento secondo cui l'Fbi avrebbe aperto un bando per cercare aziende disposte a monitorare le informazioni scambiate sui social network con lo scopo di prevenire crimini e azioni terroristiche. Una ricerca condotta nel 2010 dall'Internet Center dell'Elon University insieme al Pew Research Center's Internet American Project ha chiesto a 895 esperti di web quale sarà il futuro dell'anonimato online: il 41% ha dichiarato che non esisterà più. Nell'ultimo anno e mezzo, le proteste che hanno interessato Medio Oriente, Nord Africa, Russia, insieme al consolidamento di organizzazioni come Anonymous, hanno ribaltato le aspettative. Dall'accademia alle strade passando per i laboratori informatici dove si sviluppano free software, la tutela dell'oblio è ritornata un obiettivo concreto: «L'anonimato è indispensabile per garantire alle persone la possibilità di comunicare liberamente senza paura di ritorsioni», spiega Appelbaum. Ma come si fa con tutti quelli che utilizzano false identità per commettere oltraggi online? «Le persone che fanno un uso criminale della Rete — puntualizza il mediattivista — hanno i mezzi economici e cognitivi per sfuggire ai controlli, sono i "buoni" a non avere alternative: noi lavoriamo per gli utenti onesti, per garantire la loro libertà di espressione». L'hacker invoca un principio molto dibattuto in passato dagli studiosi di new media: la net neutrality, la neutralità della Rete: «La tecnologia è un mezzo, l'uso che se ne fa non ci riguarda: ci limitiamo a mettere tutti nelle condizioni di utilizzarla». D'accordo con Appelbaum, Arturo Filastò, programmatore informatico, conosciuto come «Hellais» nel mondo hacker. Filastò, che segue il progetto Tor per l'Italia, spiega: «Non è bloccando la produzione di coltelli che fermeremo gli omicidi nel mondo; così per la tecnologia: limitandone le possibilità, ridurremo solo lo sviluppo della società civile». L'anonimato non tutela solo le popolazioni oppresse. Filastò illustra il progetto Globaleaks, una piattaforma per documenti e informazioni riservate, che, a differenza di Wikileaks, grazie al codice sorgente aperto, può essere utilizzata e modificata da tutti: «Permetterà a cittadini in possesso di notizie riguardanti la propria azienda, ufficio o governo di condividerli online», spiega. Un'altra applicazione possibile solo in condizioni di oblio riguarda il mondo dell'evasione fiscale: «Stiamo lavorando a un servizio "pubblico" di segnalazioni anonime di frodi fiscali. Grazie al nuovo accordo tra governo e Agenzia delle entrate — che manda nelle tasche dei Comuni il 100% delle somme recuperate — i Comuni avranno tutto l'interesse economico a segnalare i casi all' Agenzia delle entrate». Senza la paura della vendetta del salumiere all'angolo e con i ringraziamenti del primo cittadino. Fino a poco tempo fa, i commentatori anonimi online (quelli che amano riempire lo spazio dedicato ai commenti degli articoli con insulti e considerazioni inappropriate: «troll», in gergo) erano il primo bersaglio dei difensori della trasparenza, che vedono nel loro atteggiamento la conferma della cosiddetta «Greater Internet Fuckward Theory»: navigare online senza la responsabilità di un nome e cognome incentiverebbe comportamenti idioti e dannosi. Come ha fatto notare Andrew Alexander, il conciliatore del «Washington Post», bisogna invece garantire agli utenti la possibilità di esprimersi attraverso qualsiasi identità: «La soluzione sta nel moderare meglio i commenti, non nel limitarli», ha scritto affidando il problema alla responsabilità di chi «gestisce» l'informazione e non a chi la produce. Insomma, quando un'opinione è interessante, lo è indipendentemente dall'identità vera o falsa dell'autore. E se veterani della Rete come l'americano Dan Gillmor e il canadese Cory Doctorow difendono in ogni sede la possibilità di usare identità multiple online, Mariam Cook sul «Guardian» tira in ballo la Costituzione americana, che nel primo emendamento difende la tutela dell'anonimato: principio riconosciuto anche dalla Corte Suprema, che in più occasioni (l'ultima a proposito delle proteste di Occupy Wall Street lo scorso novembre), ne ha sancito l'importanza contro l'ingerenza del potere. L'importanza assunta da Anonymous, il movimento di attivisti online e hacker che a partire dal 2008 ha messo a segno una serie di azioni contro governi e aziende, ha portato il dibattito dall'accademia dritto nell'immaginario dei cittadini di tutto il mondo. I cavalieri mascherati come Guy Fawkes (il cospiratore inglese del Seicento diventato protagonista della graphic novel V per Vendetta di Alan Moore e David Lloyd) si sono imposti nell'opinione pubblica con azioni eclatanti: guerra a Scientology, oscuramento dei siti dei governi di Tunisia ed Egitto, attacchi all'Fbi e alle banche, fino alla recente diffusione delle mail tra il dittatore siriano Assad e il suo staff. Gabriella Coleman, docente di Scientific and Technological Literacy alla McGill University, esperta di hacking e attivismo digitale, sta lavorando a un libro sul movimento. «Ho iniziato a interessarmi al fenomeno nel 2008, mentre studiavo Scientology — racconta —. All'inizio pensavo fosse un progetto interessante ma marginale, come lo è, ad esempio, il free software: un segmento di ricerca fondamentale ma per nicchie. Certo, la prima volta che ho visto dei "geek" protestare contro una chiesa ho capito che c'era qualcosa di rivoluzionario nel metodo». Ci volevano degli hacker per sfidare il colosso Scientology: «I contestatori pre- Anonymous avevano paura di ritorsioni da parte loro», spiega Coleman. Cosa ha trasformato un gruppo di «pirati informatici» in un movimento dal forte connotato politico? «È stato fondamentale — dice — aprire il movimento ai non-esperti di informatica, dando così la sensazione che tutti possono contribuire a cambiare il mondo attraverso Internet». L'anonimato resta cruciale: «Il fatto che nessuno conosca l'identità e il numero reale dei componenti, fa sembrare Anonymous un fenomeno molto più imponente di quello che è in realtà: 200 organizzatori/programmatori "attivi"». Momento fondamentale per il consolidamento di Anonymous è stato per la studiosa la conferenza «Anonymous Codes: Disruption, Virality and the Lulz», tenuta il 4 febbraio al festival Transmediale di Berlino, quando sulla parete dell'aula sono apparsi due schermi: sul primo, in collegamento via Skype, c'era un rappresentante mascherato, sull'altro la proiezione di una chat del movimento che commentava in tempo reale la discussione. «Meraviglioso essere lì con il pubblico online e offline a discutere del futuro di Internet». Ma se il futuro sarà davvero anonimo è ancora tutto da vedere. Twitter @serena_danna __________________________________________ Corriere della Sera 11 Feb. ‘12 LA NATURA NON È UN DOGMA di STEFANO GATTEI Va abbandonata l'idea ingenua e salvifica di tutelare un equilibrio ambientale immutabile La difesa della biodiversità comporta decisioni selettive circa le specie viventi da salvare «D ue strade divergevano in un bosco ingiallito»: inizia così «La strada non presa», la poesia che apre la raccolta Mountain Interval, pubblicata da Robert Frost nel 1916. Nel 1962 Rachel Carson riprende il verso del grande poeta americano, che tante volte ha cantato la bellezza della natura, per condensare la tesi di fondo di Primavera silenziosa, il suo lavoro più importante e influente. L'uomo, secondo la biologa e scrittrice statunitense, si trova di fronte a un bivio, ma — diversamente dalla situazione descritta da Frost — le strade che gli si presentano non sono ugualmente agevoli: una, percorsa fino a quel momento e apparentemente più facile, è un'autostrada su cui corriamo veloci, ma che ci porta al disastro; l'altra, che raramente scegliamo di imboccare, ci offre l'unica possibilità di salvare l'ambiente in cui viviamo. Obiettivo del libro, diventato presto un punto di riferimento imprescindibile del movimento ambientalista, era quello di denunciare i gravi rischi dell'intervento indiscriminato dell'uomo sulla natura (in particolare, l'uso eccessivo di pesticidi, quali il Ddt). A mezzo secolo di distanza, le motivazioni di una riflessione etica e culturale sul concetto di natura, che affronti le relazioni tra l'uomo e il contesto naturale in cui vive, sono evidenti a tutti. Negli ultimi anni, poi, il dibattito filosofico sull'ambiente ha oltrepassato la sfera squisitamente intellettuale per interessare la stessa legislazione e le nostre politiche economiche. Le questioni in gioco sono infatti numerose e importanti, e coinvolgono ognuno di noi: quali sono i criteri e i valori che devono guidare le nostre scelte di politica ambientale? Come va inteso il rapporto uomo-natura? Chi sono i soggetti titolari di diritti, e in che misura è lecito l'intervento dell'uomo sulle altre specie viventi? E ancora: qual è la nostra responsabilità nei confronti delle generazioni future? Il dibattito non si limita alla sfera morale, ma invita a una riflessione critica sul concetto di progresso scientifico e tecnologico, estendendosi ad ambiti quali la sociologia, l'epistemologia, la storia, la letteratura. Il tema è certamente complesso e richiede un approfondimento serio. L'idea, per esempio, che la natura, se non disturbata, raggiunga spontaneamente un suo «equilibrio», ha profondamente influenzato non solo l'evoluzione dell'ecologia come scienza, ma anche la nascita dei movimenti ambientalisti. La stessa Carson contribuì alla sua diffusione, tanto che a partire dai primi anni Sessanta la salvaguardia della natura dagli interventi dell'uomo, spesso sconsiderati, è stata identificata con il rispetto per il suo supposto equilibrio spontaneo. Tale identificazione è stata però accompagnata da una certa insoddisfazione filosofica e scientifica: che cosa intendiamo, esattamente, quando diciamo che la natura possiede un suo «equilibrio»? La nostra è una considerazione fattuale, o coinvolge giudizi di valore? Nella sua evoluzione, lunga quanto la storia del pensiero umano, il concetto di «equilibrio naturale» ha assunto significati molto diversi, mostrandosi capace di adattarsi a contesti scientifici e culturali molto differenti: lo stesso Darwin non vi rinunciò, pur abbandonando ogni spiegazione a carattere teleologico. Tale duttilità ha però finito per svuotare il concetto di ogni significato. In L'equilibrio della natura: mito e realtà — pubblicato da Felici Editore, primo volume di una collana di «Filosofia ambientale», la sola esplicitamente dedicata a queste tematiche nel nostro Paese — il biologo americano John Kricher mostra come tale idea, a prima vista suggerita dalla stessa natura (di norma le foreste persistono a meno che non siano abbattute; i leoni mangiano gli gnu, ma in una quantità tale da non minacciare l'integrità della popolazione di gnu; e così via), sia in realtà ingenua. L'approccio da lui adottato concentra invece l'attenzione su una valutazione critica dei modi in cui la biodiversità influisce sulle prestazioni degli ecosistemi. Uno studio recente di Murray Rudd, dell'Università di York, ha indirettamente fornito un sostegno alla tesi di Kricher. Pubblicato in «Conservation Biology», la rivista forse più influente nel settore della conservazione della diversità biologica sul nostro pianeta, l'articolo ha indicato come la quasi totalità degli esperti interpellati concordino sul fatto che la biodiversità sia destinata a subire un drastico calo nei prossimi anni. L'indagine mostra anche una crescente accettazione di strategie controverse quali il triage, ovvero la decisione di gerarchizzare le risorse e di non intervenire per salvare alcune specie fortemente minacciate. Di fatto, alcune specie hanno per noi un valore simbolico: è il caso del lupo, prototipo dell'animale selvaggio. Altre — le tigri, le balenottere azzurre e gli orsi polari, per esempio — esercitano un forte richiamo emotivo, se non addirittura un appeal estetico. Ma che dire di umili vegetali che crescono in zone remote, come l'Erioderma pedicellatum (un lichene che si sviluppa solo su particolari alberi del Nord Europa e del Canada)? O di animali fastidiosi e poco piacevoli alla vista, quali lo Speleoperipatus spelaeus, un grosso verme con zampe e antenne interamente ricoperto di papille? Per Kricher la biodiversità va considerata un valore in sé: da un lato, infatti, garantisce una serie di servizi che la natura ci fornisce gratuitamente (la purificazione dell'aria e dell'acqua, la modifica del clima, la conservazione della fertilità del suolo, e così via); dall'altro, almeno in alcuni casi, comporta una maggiore stabilità del sistema ecologico. Anch'essa, dunque, come la vecchia nozione di equilibrio, associa inevitabilmente a una descrizione fattuale un giudizio di valore, intrinseco o strumentale. Punto e a capo? L'unica soluzione è comprendere il problema e affrontarlo con rigore, operando sul piano politico scelte anche difficili: per riprendere i versi conclusivi della poesia di Frost, «Due strade divergevano in un bosco, e io / io presi la meno battuta, / e quello ha fatto tutta la differenza». stefano.gattei@imtlucca.it __________________________________________ Il Secolo XIX 11 Feb. ‘12 LA TESI? E’ COME UN AMANTE La scelta dell'argomento è fondamentale: deve piacere e divertire. E il segreto é il tempo ELENA NIEDDU PRIMA REGOLA: «Scegliere la tesi di laurea è come scegliere un amante: deve piacere e divertire, visto che in suo nome sacrificheremo, per un certo periodo di tempo, la nostra quotidianità». Parla Massimo Bustreo, docente di Psicologia dei consumi all'università Iulm di Milano, autore del libro "Scrivere e argomentare. Guida alle tesi di laurea" (Gedit, 123 pagine, 15 euro) e coordinatore di uno speciale seminario sull'argomento che si terrà il prossimo 6 marzo. L'approccio è pratico e ironico. Perché anche ciò che sembra ovvio, non può essere dato per scontato. A cominciare dal titolo: la trappola si nasconde in un argomento troppo ampio, che si trasforma poi in un gran calderone. I classici "brevi cenni sull'universo". Un esempio? Nella materia di Bustreo può essere il titolo "I consumi della postmodernità". «Bisogna invece scegliere un tema più delimitato» dice il professore, come potrebbe essere, ad esempio "I consumi di dolci". Secondo: non si può copiare e incollare da Internet. Sembra evidente, ma gli studenti lo fanno: «Un po' per abitudine e un po' perché nessuno ha mai detto loro di non farlo» dice Bustreo «ed è un fatto emblematico della superficialità con cui si accostano alle fonti sul web». Che, spesso, sono usate male: prese acriticamente o saccheggiate, quando invece dovrebbero essere soltanto un arricchimento. Terzo: il blocco da pagina bianca si supera dribblando il problema dell'incipit. «Ovvero, iniziando dal secondo capitolo anziché dal primo» suggerisce il professore. Il che presuppone che sia stato redatto un buon indice, «un itinerario di viaggio» dice Bustreo, preciso e dettagliato. Il blocco da pagina bianca si supera anche facendo esercizi di scrittura: le buone vecchie "schede libro" che possono anche diventare utili riassunti di ogni testo consultato. Fondamentali sono poi i tempi, che vanno calcolati con attenzione: «Sei mesi più tre per la stesura. Ma, se ci sono esami da superare, il calcolo va rivisto» suggerisce il professore. La morale è che si deve fare tutto il possibile per non trovarsi mai con l'acqua alla gola. Il tempo è fondamentale anche a lavoro concluso: quando è bene concedersi un piccolo periodo per rileggere, fare correzioni e migliorare tutto ciò che si può migliorare in vista della fatidica consegna al tipografo. Il libro di Bustreo, di cui a breve sarà pubblicata anche la seconda edizione, tocca anche il problema dell'esposizione. La domanda fondamentale è: può essere utile imparare a memoria il proprio discorso? Sì e no. «Va bene se si vogliono tenere ben salde le cose da dire, come suggeriva Cicerone» dice ancora il professore «meno bene se si pensa di ripetere meccanicamente a pappagallo ciò che si è memorizzato. Questo presenta diversi inconvenienti. Il primo: un'interruzione della commissione, una domanda, rischia di farci perdere il filo e il discorso intero può crollare. Il secondo: rischia di passare che l'idea che abbiamo della nostra stessa tesi sia superficiale, poco interiorizzata». Sempre in fase di discussione vale l'altro consiglio di Bustreo: «Prepararsi a difendere le proprie idee come se si fosse sul ring. Significa, in un certo senso, risolvere delle ansie ancor prima di iniziare l'esposizione». Molte di queste regole si adattano anche a chi si accinge a scrivere la tesina per la maturità. «Chiaro, in quel caso non valgono certe norme di tipo accademico relative, ad esempio, alla citazione delle fonti» aggiunge il docente «sono elaborati più brevi, con meno pagine e un apparato metodologico sicuramente minore. Qui valgono precisi consigli: leggere tre volte il titolo, che deve contenere il problema e anche la sua soluzione. Scrivere con l'italiano di base: poche abbreviazioni, niente puntini di sospensione. E curare il rapporto con il docente, che diventa, in questo caso, partner del lavoro di ricerca». E anche questa, è un'occasione di crescita. Da non sprecare. nieddu@ilsecoloxix.it 1 .Calcolare il tempo: dall'inizio della stesura, calcolare almeno 6 mesi più altri 3 2 Scelta argomento: deve piacere, divertire ed essere alla nostra portata 3 Cercare un buon relatore: non guardare tanto al prestigio, ma alla disponibilità 4 Scrivere un buon indice: chiaro, dettagliato e meticoloso. Leggere il più possibile sull'argomento 5 Fare esercizi di scrittura, come ad esempio riassunti di libri, prima di iniziare a scrivere 6 Definire le fonti: citare quelle utilizzate, verificare quelle sul web 7 Scrivere usando l'italiano di base: poche abbreviazioni, niente puntini di sospensione 8 Far decantare il lavoro per 15 giorni: concedersi del tempo per rileggere e riflettere, prima di consegnare le bozze _____________________________________________________________________ Repubblica 9 feb. ’12 MATEMATICA: OBAMA VUOLE PIÙ PROF "Ci servono scienziati" Centomila assunzioni e stipendio più alto: la Casa Bianca lancia un piano di investimenti per gli insegnanti "L'America sarà più competitiva e i giovani aumenteranno le chance di successo sul mercato del lavoro" DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FEDERICO RAMPINI NEW YORK Voglio centomila nuovi prof di matematica nelle nostre scuole, saranno loro a rendere l'America più competitiva». Se la First Lady li sta spronando a essere più snelli, Barack Obama lancia un'altra sfida ai ragazzini. Lui li vuole curiosi, innovativi, allenati al pensiero scientifico. Annuncia il suo ambizioso piano ospitando alla Casa Bianca una Fiera delle Scienze. È l'occasione per ricevere nel palazzo presidenziale più famoso del mondo trenta squadre di "futuri Einstein", adolescenti fra i 13 e i 17 anni selezionati per presentare le loro invenzioni, tutte nate sui banchi di scuola. È l'evento ideale per il messaggio che sta a cuore a Obama: «Più scienza nel futuro dei giovani è la chiave per avere una marcia in più, aumentare le chance di successo sul mercato del lavoro». Centomila insegnanti di matematica e scienze in più nelle scuole — dalle elementari alla maturità — sono la risorsa umana che la sua Amministrazione decide di mettere in campo, per dare ai ragazzi la preparazione giusta fin dai primi anni di scuola. Obama ci mette i fondi: altri 80 milioni di dollari per il ministero dell'Istruzione, da usare con un criterio di efficienza imprenditoriale, cioè gare competitive aperte al settore privato per scegliere i migliori programmi di formazione del corpo insegnante nelle materie scientifiche. Matematica in testa, ma anche fisica, chimica, biologia, informatica. È tutto il ventaglio del sapere scientifico che Obama vuole promuovere. Agli 80 milioni di stanziamenti federali si aggregano fin dall'inizio 22 milioni di fondi privati, secondo la formula delle joint venture con il settore del mecenatismo non profit finanziato dalle imprese. Il piano "centomila prof di scienze" è piaciuto subito al settore privato, 115 organizzazioni guidate dalla Carnegie Corporation hanno già risposto all'appello di Obama. I contributi esterni non si fermano qui. La Casa Bianca fa da "polo aggregatore" di tante eccellenze: c'è Google che mette a disposizione i suoi metodi di selezione dei cervelli, per convogliare verso la scuola i migliori talenti scientifici. Grandi università, dalla California a Chicago, si mobilitano per programmi di formazione accelerata che sfornino nei tempi richiesti questa nuova leva di prof di scienze da mandare nelle scuole. Anche le politiche retributive saranno riviste. Il ministero dell'Istruzione avrà una nuova risorsa di 300 milioni, il Teacher Incentive Fund, finalizzata a «migliorare i sistemi di remunerazione, incentivo, promozione professionale del corpo insegnante». Non basta formare e reclutare i centomila prof di matematica, «bisogna saperli trattenere a scuola, con gli incentivi giusti». La sfida lanciata da Obama ha tra i suoi ispiratori un grande scienziato indiano trapiantato in America, i cui editoriali appaiono spesso sul Washington Post. Si chiama Priya Natarajan, è docente di astrofisica all'università di Yale, e la sua seconda vocazione è quella di "rifonda- re" la pedagogia scolastica negli Stati Uniti. «Volete che vostro figlio sia uno scienziato? Cominciate a prepararlo dalle elementari». «La prossima rivoluzione scientifica partirà dai licei». Sono due dei titoli più recenti delle sue column sul Washington Post, dove cerca di unire «il meglio dei due mondi», l'antica tradizione matematica indiana e il pragmatismo made in Usa. Lo preoccupa il fatto che gli studenti nelle facoltà scientifiche americane arrivano con una discreta preparazione "astratta" di matematica, ma poco allenamento a "risolvere problemi". Dell'istruzione elementare che lui ricevette a Delhi, invece, ricorda che oltre all'algebra fin dall'inizio c'era un costante addestramento ad applicare i concetti matematici a situazioni concrete. Natarajan ammonisce gli Stati sul fatto che il loro sistema scolastico — elementari, medie, secondaria superiore — non sta preparando un numero sufficiente di futuri scienziati, o laureati in discipline tecnologico - matematico -ingegneristiche. Ma la svolta deve cominciare molto prima dell'università. La proposta di Natarajan è quella di partire dalle elementari, quando è alta la predisposizione dei bambini ad affrontare matematica e scienze come un gioco. Poi trasformare i licei in "laboratori di scienze", incoraggiando l'approccio sperimentale più che l'astrazione. È un messaggio che Obama ha raccolto, sperando di associare il suo nome ad un "Rinascimento scientifico" sui banchi di scuola. I FONDI Pubblici e privati con gare per programmi di formazione LE SCUOLE Centomila nuovi prof dalle elementari ai licei IL GURU Il piano è stato ispirato dallo scienziato Priya Natarajan _____________________________________________________________________ Repubblica 6 feb. ’12 ECCO IL PIANO PER L'ITALIA ON LINE INTERNET PER TUTTI, SCUOLA E SANITÀ Nel progetto del governo la nascita delle "Smart Citi)" RICCARDO LUNA Non solo buchi e cavi di fibra ottica, ma anche opere di bene, cioè servizi al cittadino. Con ritardo di quasi due anni, prende forma l'Agenda digitale: ovvero la strategia per portare l'Italia nel futuro con l' utilizzo di Internet. E lo strumento fondamentale per creare posti di lavoro e far crescere l'economia nell'era del web. Presentata nel maggio 2010, la Digital Agenda è uno dei 7 "obiettivi faro" dell 'Ue per avere una crescita «inclusiva, intelligente e sostenibile». Il traguardo è il 2020, ma è previsto un obiettivo intermedio molto sfidante: portare la banda larga di base (ovvero due megabit al secondo) a tutti i cittadini europei entro il 2013. La rincorsa italiana è partita: il 15 dicembre sul sito del ministero dello Sviluppo Economico è stata aperta una consultazione di un mese. 113 febbraio il Consiglio dei ministri, nel decreto Semplificazione, ha approvato la nascita di una "cabina di regia" di 5 ministri. Fra questi un ruolo fondamentale lo giocherà Francesco Profumo che oltre a Scuola Università e Ricerca ha la delega per la Innovazione e che ha integrato l'Agenda digitale. Giovedì la prima riunione. ========================================================= __________________________________________ La Nuova Sardegna 8 Feb. ‘12 AOUCA: NUOVI LOCALI PER LA CLINICA ODONTOIATRICA Accordo tra Azienda ospedaliera universitaria e Monserrato CAGLIARI. Il nuovo protocollo d’intesa per la realizzazione del progetto integrato, denominato “la Rete dei servizi” è stato ratificato giorni fa dal consiglio comunale di Monserrato. La delibera con la quale assegna in concessione all’Azienda Ospedaliera Universitaria un immobile di 2.474 metri quadri per trasferire la clinica odontoiatrica del Policlinico, è passata con 15 voti a favore e tre astenuti (Riformatori Sardi e Omar Marras). Oltre all’Università e al Comune di Monserrato, tra i sottoscrittori del protocollo figurano l’Azienda Ospedaliera, la Pro loco e la Cantina sociale di Monserrato, la Croce Bianca volontari del soccorso. Il comune monserratino, come risulta dal protocollo d’intesa firmato nel 2003, mette a disposizione per 30 anni, l’edificio ex-Cries, in via di completamento, che sorge nella zona Cortis, dietro la stazione San Gottardo della metropolitana: tra le vie delle Gardenie, Metauro e Diocleziano. L’Azienda Universitaria assumendosi i costi del completamento dei lavori di recupero della parte di edificio assegnatogli (circa un milione di euro) potrà utilizzare i locali per lo svolgimento delle attività didattiche relative al corso di laurea specialistica in Odontoiatria e protesi dentarie, o per altre attività didattiche connesse. Il primo piano, destinato in origine alla Pro loco, é stato anch’esso concesso all’Azienda Universitaria. I locali del pianterreno invece, originariamente assegnati all’Università per i servizi di biblioteca e segreteria, rimane a disponibilità dell’amministrazione comunale. «Tali iniziative rappresentano una risorsa per il nostro Comune. - commenta il sindaco, Gianni Argiolas - Attualmente la priorità condivisa tra amministrazione e Università riguarda l’allocazione del pronto soccorso nel Policlinico universitario». (p.l.c.) __________________________________________ L’Unione Sarda 8 Feb. ‘12 AOUCA: ODONTOIATRIA A MONSERRATO: FIRMATO L’ACCORDO Ex Cries La clinica Odontoiatrica all’ex Cries, ora si pensa già al Pronto soccorso. Dopo il via libera del Consiglio comunale della settimana scorsa, ieri mattina è stato firmato il nuovo protocollo d’intesa tra l’Università, l’Azienda ospedaliero-universitaria e il Comune per la realizzazione del progetto integrato "La rete dei servizi". Una parte dell’edificio ex Cries ospiterà la clinica di Odontoiatria dell’Azienda mista, che utilizzerà i locali anche per lo svolgimento delle attività didattiche e di ricerca legate al corso di laurea specialistica. Mentre l’Azienda provvederà al completamento dei lavori di recupero della parte di immobile assegnata, il Comune si occuperà della ristrutturazione delle parti dell’edificio che saranno utilizzate sia come sede di associazioni e sia come luoghi di aggregazione. «Un’ulteriore tappa», dice il Rettore, Giovanni Melis, «del processo di completamento delle strutture dell’Ateneo a Monserrato». Il sindaco Gianni Argiolas, concluso un iter, pensa già al prossimo: «La prossima mossa, condivisa da Comune e Ateneo, è l’attivazione del Pronto Soccorso». (s.se.) __________________________________________ L’Unione Sarda 8 Feb. ‘12 AOUCA: BEN SERVITI AL DAY HOSPITAL Al Day hospital di Oncologia medica del Policlinico universitario di Monserrato si recano ogni giorno utenti e pazienti che si sottopongono a terapie importanti, che richiedono ore di stazionamento e di pazienza, ma soprattutto di assistenza da parte dei medici e del personale professionalizzato. Vorrei segnalare la piena disponibilità di tutti gli operatori sanitari; ma anche la gentilezza e la solidarietà che si respirano in questo “porto di mare” dove arrivano tante persone e dai luoghi più vari dell’Isola, tutte accudite e trattate con grande rispetto. Dettaglio importante: da alcune settimane, all’ora di pranzo viene servito uno “spuntino” pratico, appetitoso e molto utile, specie per chi ha difficoltà a muoversi o a spostarsi se il trattamento è in corso. G. S. __________________________________________ L’Unione Sarda 7 Feb. ‘12 AOUCA: AL POLICLINICO C'È IL FOTOVOLTAICO I moduli occuperanno mille metri quadri e produrranno oltre 200 mila chilowatt all'ora Con gli impianti sui tetti si risparmieranno settantamila euro all'anno L'Azienda ospedaliero universitaria di Cagliari, diretta da Ennio Filigheddu, punta sulle energie alternative per risparmiare e dare un segnale importante sul fronte della migliore qualità dell'aria e della vita. Dal 15 dicembre dello scorso anno è entrato in esercizio l'impianto fotovoltaico del Policlinico universitario di Monserrato. LA POTENZA DEI PANNELLI I pannelli hanno una potenza nominale pari a 154,16 kW e una produzione di energia annua pari a 203.381,00 kWh, derivante da 656 moduli fotovoltaici al silicio in tecnologia policristallina che occupano una superficie di 1062,72 metri quadrati. L'impianto, previa richiesta al Gestore dei Servizi energetici, accederà al programma nazionale di incentivazione “Conto Energia” (un finanziamento ministeriale a privati, imprese ed enti pubblici che installano impianti fotovoltaici) e opterà per il regime dello “Scambio sul Posto” (immissione dell'energia non consumata in rete con la possibilità di poterla consumare in un secondo momento). IL RISPARMIO Con la realizzazione dell'impianto, denominato “Impianto FV Policlinico Monserrato”, si intende conseguire un piccolo contributo al risparmio energetico per la struttura. Questo contributo può essere quantificato in circa il 4% del fabbisogno energetico elettrico totale. Il risparmio complessivo per l'azienda si aggira attorno ai settantamila euro l'anno. SOLUZIONE ECOLOGICA Il ricorso a tale tecnologia nasce dall'esigenza di coniugare la compatibilità con esigenze architettoniche e di tutela ambientale, di evitare l'inquinamento acustico, di risparmiare sui combustibili fossili e di produrre energia elettrica senza emissione di sostanze inquinanti. A oggi, la produzione di energia elettrica è per la quasi totalità proveniente da impianti termoelettrici che utilizzano combustibili sostanzialmente di origine fossile. Un utile indicatore per definire il risparmio di combustibile derivante dall'utilizzo di fonti energetiche rinnovabili è il fattore di conversione dell'energia elettrica Tep/MWh. Questo coefficiente individua le Tonnellate Equivalenti di Petrolio (Tep) necessarie per la realizzazione di un megawatt di energia, ovvero le Tep risparmiate con l'adozione di tecnologie fotovoltaiche per la produzione di energia elettrica. In un anno il Policlinico risparmierà 38 Tep e in venti il greggio “risparmiato” sarà quasi settecento tonnellate. __________________________________________ L’Unione Sarda 11 Feb. ‘12 SANITÀ, OSPEDALI CHIUSI PER SCIOPERO: PER UN GIORNO ASSICURATE SOLO LE URGENZE Giovanni Di Pasquale CARBONIA. C’è soddisfazione tra i sindacati confederali per l’adesione alle tre ore di sciopero dei lavoratori del comparto sanità del Sulcis Iglesiente. I dati ufficiali non sono ancora disponibili ma Cgil, Cisl e Uil parlano di «un’ualta partecipazione», che di fatto ha bloccato l’attività di servizi e reparti a Carbonia e Iglesias. Ieri, negli ospedali e nei poliambulatori si è lavorato solo per le urgenze. Tre ore di sciopero, si è detto, organizzate con il metodo dell’astensione all’inizio del turno: la manifestazione del disagio dal parte di dipendenti dell’Asl numero 7 - esclusi i dirigenti - è di fatto durata tutto il giorno. All’origine dell’iniziativa, per certi versi clamorosa (l’ultimo sciopero proclamato in ambito Asl nel territorio risaliva a oltre dieci anni fa, addirittura al 1999), la vertenza relativa al pagamento della produttività per l’anno 2007 e le cosiddette “progressioni orizzontali”: «Per difendere i diritti acquisiti con gli accordi integrativi decentrati del 2005 e del 2008; reclamare le risorse del fondo della produttività, mai erogate dal 2002 ad oggi; esigere corrette relazioni sindacali ed il rispetto degli accordi siglati; pretendere l’adeguamento delle carriere a quelle dei colleghi operanti nella altre Asl della Sardegna (mediamente due progressioni economiche in meno a parità di requisiti); chiedere all’assessore regionale alla Sanità un provvedimento di discontinuità con l’attuale gestione aziendale». A proposito della Regione, una ulteriore forma di protesta potrebbe essere a questo punto (se ne parlerà già la prossima settimana) una manifestazione dei lavoratori a Cagliari, davanti alla sede dell’assessorato regionale alla Sanità, in via Roma: se n’è discusso durante le tre ore di assemblea, che si è svolta dentro le stanze della sede centrale dell’Asl, in via Dalmazia dalle 10 alle 13. Stante l’ormai conclamata incomunicabilità fra la direzione dell’azienda sanitaria numero 7 e le organizzazioni sindacali confederali, Cgil, Cisl e Uil tentano insomma cambiare il fronte d’attacco alla gestione impersonata dal numero uno Maurizio Calamida: da quello strettamente tecnico- amministrativo a quello più prettamente politico. Per comprendere, in ultima istanza, se l’azione del direttore generale abbia o meno una copertura politica, da parte della giunta regionale e della maggioranza: non solo per quanto concerne i rapporti con il sindacato, sicuramente arrivati a un punto che non si ricorda così basso, ma anche per i più ampi progetti di riorganizzazione della sanità a Carbonia e Iglesias, di cui si parla da tempo e che ritornano a scadenze fisse. Giovanni Di Pasquale __________________________________________ L’Unione Sarda 7 Feb. ‘12 ASL6: CUORE, GUARIGIONE IN DIRETTA VILLAMAR. Il primo centro riabilitativo collegato al Brotzu: venti posti letto Cardiopatici già operati seguiti per via telematica A Villamar una costola dell'Ospedale Brotzu di Cagliari per curare i pazienti operati di cuore. Nel paese della Marmilla nascerà il primo centro riabilitativo per le patologie cardio-vasculo-respiratorie in Sardegna. Una buona notizia per la sanità isolana e per un'assistenza medica più vicina ai territori. Adesso c'è il protocollo d'intesa sottoscritto fra Comune di Villamar, Regione, Azienda Ospedaliera Brotzu e Asl di Sanluri. Un centro di alto livello dove per via telematica gli specialisti del Brotzu potranno controllare il decorso post-operatorio dei loro pazienti. Venti i posti letto disponibili. Unanime il commento del sindaco Pier Sandro Scano e dell'assessore regionale alla sanità Simona de Francisci: «E' il potenziamento dei servizi sanitari nei centri periferici». LA SEDE Il centro nascerà nello stabile nato come casa dell'anziano. I vecchietti ci sono già. Presto anche una casa protetta. Il Comune di Villamar, che ne ha previsto la gestione con una Fondazione, ha contratto un mutuo di tre milioni e mezzo di euro per adattare lo stabile ad una struttura sanitaria di alto livello. «I lavori si concluderanno in alcuni mesi», ha spiegato Scano, «presto la gara per attrezzature e macchinari». Nel centro ci sarà un cardiologo 24 ore su 24 ed i dati dei pazienti saranno monitorati in diretta dal Brotzu. Per un operato di cuore la degenza medica è di circa 10 giorni. Già al quinto giorno potrà essere trasferito a Villamar, alleggerendo il carico di lavoro dell'ospedale cagliaritano, che si potrà concentrare sui casi più acuti. Finora per la riabilitazione cardio-vasculo-respiratoria ci si è dovuti rivolgere al Brotzu od a strutture della penisola. INTESA Sul protocollo oltre alle firme di Scano e della de Francisci ci sono quelle dei direttori generali del Brotzu Antonio Garau e della Asl di Sanluri Salvatore Piu. «Con questa iniziativa un piccolo Comune senza chiedere un soldo alla Regione ha colmato un vuoto della programmazione sanitaria regionale», ha aggiunto Scano, «è stato un lavoro lungo e difficilissimo. Ringrazio gli altri soggetti firmatari, l'ex assessore alla sanità Liori, col quale è partito il progetto, il dipartimento cuore del Brotzu, il Banco di Sardegna ed il governatore Cappellacci, fondamentale nell'ultima fase». L'ASSESSORE «E' una prova di come la Giunta regionale stia investendo sulla sanità nel territorio offrendo servizi più vicini agli utenti delle zone interne», ha detto l'assessore regionale De Francisci, «la territorializzazione della sanità si inquadra nella più ampia strategia del Piano di riorganizzazione della rete ospedaliera». __________________________________________ La Nuova Sardegna 7 Feb. ‘12 BROTZU, LETTERA APERTA A MANAGER E REGIONE CAGLIARI. Un appello per far tornare l’ospedale Brotzu “al suo originario splendore”. Lo lancia, attraverso una lettera aperta al direttore generale del nosocomio di via Peretti Antonio Garau e agli assessori regionali alla Sanità e al Lavoro Simona De Francisci e Antonello Liori, il segretario responsabile della Uil-Fpl dell’azienda Attilio Carta. La richiesta? Un “patto sociale salva Brotzu”. Una sorta di piano straordinario con dieci punti da tenere d’occhio. I “comandamenti”? Le richieste vanno dal “miglioramento del clima aziendale” al “recupero dell’eventuale gap economico con le altre Asl cittadine”. «Tutto ciò presuppone - spiega Carta - che l’assessore alla Sanità presti particolare attenzione al Brotzu anche in prospettiva delle imminenti linee guida per il varo dell’atto aziendale. Sarebbe altresì opportuna una pianificazione organizzativa per la “riqualificazione” dell’ufficio tecnico». Le indicazioni all’assessorato alla Sanità? «Incremento delle dotazioni organiche di operatori sanitari e infermieri- spiega il documento siglato dal sindacalista - risorse straordinarie per il recupero professionale ed economico degli operatori sanitari, riconoscimento economico dei 15’ esteso a tutto il personale turnista, assegnazione dell’indennità radiologica a tutti gli operatori delle sale, immediato congruo inquadramento di alcuni operatori interni da tempo in possesso del titolo di operatori sanitari». E ancora un appello all’assessore regionale al Lavoro per specializzazioni gratuite e corsi interni per gli operatori sanitari. Una parte della lettera aperta riguarda i contenziosi in corso: «L’ufficio legale disciplinare - spiega Carta - causa la sua fiorente attività, risulta tra i più produttivi in azienda per numero di contenziosi perennemente aperti, francamente troppi. Qualcuno si poteva e si deve evitare». Il sindacato fa riferimento a tentativi di conciliazione del personale di Radiologia e sale operatorie di Chirurgia vascolare, Ortopedia e Chirurgia d’urgenza non andati a buon fine. «La Uil-Fpl - conclude il documento - percependo le sensazioni e il clima diffuso in azienda auspica un forte e corale impegno da parte delle autorità per pianificare, con tutte le parti sociali coinvolte, un piano straordinario al fine di recuperare, potenziare e consolidare l’alta specializzazione del più importante ospedale della Sardegna. E’ del tutto evidente che solo riportando il Brotzu al suo originario splendore, ma anzi potenziandolo, si può avere una reale e drastica riduzione dei tragici viaggi della speranza per l’intera popolazione sarda». Un accorato appello a un impegno per valorizzare tutte le risorse esistenti. __________________________________________ La Nuova Sardegna 7 Feb. ‘12 UNISS: A NEW YORK PER OPERARE SULLE TESTE Prestigioso laboratorio di Neurochirurgia per 88 studenti di Medicina Un’avventura indimenticabile che ci ha insegnato ad affrontare le eventuali emergenze in sala operatoria NADIA COSSU Sassari. Ventuno giorni nel reparto di Neurochirurgia del Weill Cornell Hospital di Manhattan non si dimenticano facilmente. Lavorare in un attrezzatissimo laboratorio al fianco del professor Antonio Bernardo ed eseguire interventi su teste di cadaveri è un’esperienza di vita che arricchisce bagaglio umano e professionale. Basta sentire con quale entusiasmo gli studenti del quinto anno di Medicina dell’Università di Sassari raccontano il viaggio appena concluso. Un progetto nel quale la facoltà ha creduto con forza. Lo ha fatto in prima persona il preside Giuseppe Madeddu che ha sposato l’idea della dottoressa Grazia Fenu. E così circa ottanta studenti - a gruppi di quattro - hanno frequentato e continueranno a frequentare per tre settimane il laboratorio sperimentale a New York. «Nel laboratorio di Neurochirurgia - dice Fausto Masala, 23 anni, al quinto anno - avevamo diverse teste di cadaveri su cui operare. Lì la legge lo consente, sono a disposizione della scienza». Tavoli operatori, microscopi collegati a schermi in 3D, strumenti tecnologici molto avanzati. «Abbiamo lavorato insieme al professor Bernardo con un approccio neurochirurgico che ci consentiva di “imitare” alla perfezione proprio un intervento alla testa, a seconda di una ipotetica patologia». Gli studenti hanno anche avuto la possibilità di accedere al reparto, di avere quindi un contatto diretto con i pazienti ricoverati e con la sala operatoria. «Ognuno di noi ha avuto un argomento da approfondire - racconta con entusiasmo ancora vivo Silvia Gaito, 22 anni, studentessa al quarto anno - L’approccio non era solo visivo, non studiavi guardando una semplice immagine ma toccavi con mano una testa, perfettamente e volutamente integra. Con i tessuti, la cute, persino i capelli. Abbiamo imparato a riconoscere le strutture e a capire come si affronta un’emergenza in sala operatoria». Un’esperienza importante e unica, considerato che in Italia la legge non consente di mettere a disposizione della ricerca scientifica nella fattispecie teste di cadaveri. La lingua non è stata un ostacolo. «Prima di partire abbiamo fatto una selezione - spiega Giulia Satta, 23 anni - un test di inglese. Chi lo ha superato ha avuto modo di far parte del gruppo in partenza per New York». E rigorosamente in inglese, i futuri medici, hanno presentato agli specializzandi di New York l’argomento approfondito durante il laboratorio. «I prossimi studenti - ha aggiunto Giulia - saranno ancora più fortunati perché avranno modo di seguire le lezioni in inglese e potranno lavorare nei laboratori dove si opera anche su altre parti del corpo, non solo sulla testa». Tra i fortunati “emigrati” per venti giorni in America c’è anche Mario Visaloco, uno studente di Medicina del terzo anno, siciliano. Dall’isola nell’isola «perché la Sardegna è una terra che mi attira da sempre. Elogia chi li ha guidati in questo percorso di studio pratico: «Il professor Bernardo - dice - ha formato più di quattromila neurochirurghi. Noi studiamo anatomia descrittiva e abbiamo avuto modo di capire - su un tavolo operatorio - come evitare di ledere alcune strutture durante un intervento chirurgico». Dalle pagine dei libri alla sala operatoria, in sostanza. Un bel salto e una bella esperienza professionale per chi ha fatto una scelta di vita importante: diventare un medico. Anche Marco Bellavia è siciliano, di Agrigento. Lui però studia Odontoiatria, è il primo della sua facoltà ad aver frequentato il laboratorio di New York. «Prima di tutto ho potuto ampliare le mie conoscenze anatomiche - racconta - ho avuto modo di vedere con i miei colleghi il decorso dei nervi ad esempio. Dal punto di vista anestesiologico è sicuramente un arricchimento fondamentale». In tutta questa straordinaria avventura hanno avuto la guida della dottoressa Grazia Fenu che ha fatto suo questo progetto e lo ha sottoposto all’attenzione del preside di Medicina. Il resto è venuto da sè. Studenti capaci e disponibili alla scoperta e alla conoscenza. Pronti a lasciare l’isola per imparare al meglio il mestiere della vita e, è il caso di dire, per la vita. «UN’ESPERIENZA PROFESSIONALE UTILISSIMA» Entusiasta il preside Giuseppe Madeddu. Il progetto costa 30mila euro SASSARI. È stato preso un appartamento in affitto a New York e sono garantiti i biglietti aerei per il trasporto dei ragazzi. La facoltà di Medicina e Chirurgia di Sassari, per coprire il progetto di un anno in America, spende trentamila euro. Ed è la prima volta che si investe in una esperienza di studio di questo tipo. Comprensibilmente soddisfatto il preside Giuseppe Madeddu: «L’Università di Manhattan è molto prestigiosa - dice con un pizzico di orgoglio il professore - e noi abbiamo avuto la fortuna di avere qui il loro direttore che è venuto a Sassari come visiting professor. Ha portato nella nostra sala operatoria la famosa testa che è stata esaminata insieme a un’ottantina tra medici e studenti lo scorso luglio». Poi la partenza di quattro gruppi verso gli Stati Uniti. «Un’esperienza utilissima - aggiunge Madeddu - al Weill Cornell Hospital andranno ancora altri 18 gruppi. Abbiamo affittato l’appartamento e così gli studenti potranno stare tranquilli e avere un appoggio logistico». Quanto può arricchire un’avventura di questo tipo? «Moltissimo - risponde il preside di Medicina - Frequentano un laboratorio sperimentale in una delle Università più prestigiose. Preparano delle lezioni in modo approfondito e poi le presentano sia in quella università e sia nlla nostra al rientro». Una cosa è certa, questo progetto non è che un primo passo: «Nelle Università italiane, lo sappiamo bene purtroppo, il problema dei fondi è piuttosto serio - spiega Giuseppe Madeddu -. Ma la facoltà di Medicina di Sassari è una realtà all’avanguardia, io personalmente ho voluto sposare l’iniziativa della dottoressa Grazia Fenu e sicuramente si tratta di un buon inizio». Che andrà avanti, certamente. (na.co.) __________________________________________ Corriere della Sera 10 Feb. ‘12 TROPPI CESAREI, IL MINISTRO MANDA I NAS NEGLI OSPEDALI ROMA — Non c'è argine all'aumento dei cesarei. L'allarme viene rilanciato anno dopo anno in Italia da società scientifiche e organismi sanitari senza che si riesca a innescare un meccanismo di ritorno al travaglio e al parto fisiologico. L'ultimo rapporto dell'Istituto Superiore di Sanità dello scorso mese conferma la crescita. Italia prima in Europa. Dall'11% del 1980 al 28% del 1996 e al 38% nel 2008, con notevole differenze tra aree geografiche. In Campania sono state raggiunte punte del 60%. In alcune cliniche private del Sud, ma anche a Roma, sono chirurgici 9 parti su 10. «Valori estremamente elevati fanno sorgere l'ipotesi di una utilizzazione opportunistica non basata su reali condizioni cliniche», denuncia il ministro della Salute Renato Balduzzi. Dove e quando il cesareo viene prescritto troppo allegramente lo accerteranno i carabinieri del Nas (nucleo antisofisticazione) che ieri hanno ricevuto l'incarico di svolgere «azioni di controllo a livello nazionale» per accertare il ricorso non appropriato a questo tipo di intervento nei reparti di ostetricia». L'indagine a campione riguarderà centri pubblici, convenzionati e privati. Gli ispettori raccoglieranno cartelle cliniche e documentazione del ricovero, compresi i referti ecografici autenticati dalla direzione sanitaria. A mali estremi, estremi rimedi. Ma servirà l'intervento dei Nas per modificare comportamenti non corretti da parte di certi operatori? Finora tutte le proposte per tentare di avviare un' inversione di marcia sono rimaste sulla carta. Si è discusso se introdurre tariffe meno vantaggiose per questo tipo di prestazione sicuramente più remunerativa. Ma chi ha sperimentato il sistema del doppio rimborso riferisce di non averne tratto alcun giovamento. Hanno successo soltanto le iniziative basate su cambiamenti di mentalità, su modificazioni culturali e organizzative. Un esempio è l'ospedale di Castellammare di Stabia dove l'arrivo di un nuovo primario, Ciro Guarino, ha ribaltato la situazione. Ora i cesarei sono un'eccezione. Risultato ottenuto attraverso il coinvolgimento del personale, il confronto quotidiano sui casi, il colloquio con le pazienti, la creazione di locali che favoriscono un percorso al parto non chirurgico. A niente sono servite per determinare lo stesso processo in altre realtà le linee guida pubblicate due anni fa che insistevano sull'importanza della comunicazione tra medici e donne. Nell'ultimo documento del 26 gennaio scorso l'Istituto Superiore di Sanità ha indicato le uniche tre condizioni in cui, in assenza di controindicazioni, il taglio chirurgico è preferibile al parto naturale per il benessere di mamma e bambino. Sì al cesareo quando il feto è in posizione podalica fino alla fine della gravidanza nonostante le manovre esterne eseguite dal medico sotto controllo ecografico. Secondo: quando la placenta copre parzialmente o completamente il passaggio del feto nel canale del parto. Terzo: donna diabetica e neonato con un peso superiore a quattro chili e mezzo. Margherita De Bac mdebac@corriere.it __________________________________________ L’Unione Sarda 11 Feb. ‘12 TROPPI I PARTI CESAREI MA NON IN SARDEGNA SALUTE. Nas: controlli a campione Ora indaga il ministero ROMA Troppi parti cesarei in Italia, ad eccezione della Sardegna. Secondo le ultime stime, il ricorso al parto chirurgico nel nostro Paese raggiunge un'incidenza del 38,2%, contro una media che l'Organizzazione mondiale della sanità stabilisce doversi attestare intorno al 15%. Per fare chiarezza arriva la decisione del ministro della Salute Renato Balduzzi, che ha attivato i carabinieri dei Nas per dare avvio a controlli a campione nelle strutture sanitarie pubbliche e private con l'obiettivo di accertare un eventuale utilizzo «non appropriato» del cesareo in corsia. Un intervento, quello del ministro, apprezzato dal presidente della Commissione d'inchiesta sul Ssn, Ignazio Marino: «Da tempo - afferma - la Commissione d'inchiesta che presiedo denuncia un abuso del ricorso al parto cesareo in Italia». Secondo i dati del ministero, infatti, nel 2010 la percentuale di cesarei ha mostrato solo una lieve diminuzione: l'incidenza è stata del 38,2% contro il 38,4% nel 2009 e il 38,3% del 2008. I valori massimi di cesarei sono stati registrati in Campania (61,6%) e Sicilia (52,8%), e cifre superiori al 40% si rilevano in tutte le regioni del centro-sud, ad eccezione della Sardegna. E proprio il divario tra le Regioni è stato definito come un aspetto «assolutamente intollerabile» dal ministro: «Si passa - ha rilevato di recente Balduzzi - dal 23% del Friuli al 62% della Campania. E senza che un maggiore ricorso al cesareo porti a un miglioramento degli esiti clinici». Ma come si giustificail massiccio ricorso al parto chirurgico? Varie, secondo gli esperti, le ragioni. In prima istanza la motivazione economica: un taglio cesareo viene infatti pagato alle singole realtà ospedaliere come operazione chirurgica, per una cifra nettamente superiore rispetto a quella corrisposta per un parto naturale. Inoltre, quasi la metà dei punti nascita effettuano meno di 500 parti all'anno, il che implica una minore sicurezza e una maggiore propensione al cesareo da parte dei medici, la cosiddetta «medicina difensiva», per evitare contenziosi. _____________________________________________________________________ Repubblica 9 feb. ’12 SÌ A CAFFÈ, NOCI E UOVA COSÌ CADONO I FALSI MITI SUI "NEMICI" DEL CUORE La scienza contro le diete. L'olio d'oliva? Non è un toccasana DAL NOSTRO INVIATO ANGELO AQUARO NEWYORK—Apriticuore. È1a rivincita dei cattivi sui buoni, è la fine del "salutisticamente corretto", è il trionfo del revisionismo medico: non è vero che il caffè fa male, non è vero che fanno male le uova e soprattutto non è poi così vero che l'olio di oliva è sempre un toccasana. Di più. Nel terremoto della classifica dei cibi più o meno sani c'è perfino la rivincita del burro sulla margarina e la riabilitazione delle noccioline: che parlando di "cibo & salute" è quasi una bestemmia. Lo studio che il dottor Robert Davis ha mandato in questi giorni nelle librerie americane si annuncia come una liberazione, fin dal titolo: Il caffè ti fa bene (Coffee Is Good For You, Penguin). E d'altronde il giovane scienziato si era già guadagnato la riconoscenza degli americani con un altro li bricino che faceva giustizia di troppe imposizioni nel nome della Dea Salute: Il salutista scettico. Naturalmente Davis è più medico che polemista: e la ricerca appena pubblicata è appunto la più aggiornata e approfondita indagine sui cibi che farebbero bene o male al cuore. Troppo spesso, spiega il dottore, se cercate un suggerimento vi avventurerete in una selva di raccomandazione contraddittorie: perché troppo spesso queste ricerche trovano spazio sui media per lanciare una particolare campagna — o addirittura perché sponsorizzate dai produttori di un cibo particolare. Prendete noci e noccioline. Erano viste come il diavolo in qualsiasi dieta. E particolarmente pericolose per il cuore: troppi grassi. Giusto. Poi però una serie di ricerche ha scoperto che non c'era un aumento dei disturbi e della mortalità tra i mangiatori di noci. Anzi. Liberi dì allungare la mano verso la conturbante ciotolina o quell'irresistibile sacchetto. Perché le noccioline abbassano il livello di colesterolo e le infiammazioni delle arterie: due fattori notoriamente responsabili degli attacchi di cuore. E le povere uova? Rivela il nostro Dr. Robert — davvero sembra uscito dall'ottimistica canzone dei Beatles — che le uova erano così sospettate di insane malefatte da avere spinto gli scienziati a esperimenti su centinaia di migliaia di persone. Beh, alla fine risulta che non c'è pericolo: sempre beninteso che non superiate la soglia delle sei alla settimana —asticella abbastanza alta per godersi una frittatina ogni tanto. Come appunto per il caffè. D'accordo: si sa che fa salire momentaneamente la pressione — e in fondo è proprio per quello che nei momenti un po' così ricorriamo alla tazzina. Ma un raffronto statistico tra consumatori e no ha scoperto che i caffeinomani vivono non solo quanto gli altri ma addirittura più a lungo. Il motivo? Gli antiossidanti. Occhio però: il nostro dottore non vuole illudere nessuno. Anche qui vale la regola delle sei tazze al giorno — ma parliamo dello sbrodolone americano — per poter provare l'effetto benefico. Ma non possiamo certo sottovalutare gli effetti collaterali: dall'insonnia ai bruciori di stomaco Insomma la verità — anche quella medica — sta nel mezzo. L'olio d'oliva-toccasana? Gli effetti benefici dei suoi antiossidanti risaltano soprattutto nell'extra-vergine e non su tutti gli altri: ma non sono sufficientemente provati. La margarina? E vero che contiene meno grassi saturi ma gli altri grassi non sono meno nocivi di quelli del burro. Fino alla verità forse più scomoda. Sì, è vero che il cacao fa bene per i suoi antiossidanti: ma i grassi e gli zuccheri dei cioccolatini rischiano di avere una controindicazione peggiore. E questo sì, caro dottore, che alla vigilia di San Valentino è l'unico colpo che va diritto al cuore. _____________________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 feb. ’12 LE STAMINALI SONO DAVVERO LA SOLUZIONE Quelle epiteliali vengono usate per rigenerare alcuni tessuti. Quelle emopoietiche invece curano la leucemia. Per le altre, comprese le controverse embrionali, la ricerca è ancora in alto mare. Eppure, gli scienziati ci scommettono: sono la risposta alle malattie inguaribili Testo di Christian Benna da Modena Fotografie di Fabrizio Annibali «Non c'è una cura per tutto. E non tutto si cura con le staminali. L'unica certezza è che da queste sigarette non si guarisce». Avvolto in una nuvola di fumo, il professor Michele De Luca, tira l'ennesima boccata. Forse lui se lo può permettere, visto che è uno dei pochi uomini al mondo in grado di riparare i danni dei tessuti che rivestono il nostro corpo. Fin dalla sua istituzione (2008) è alla guida del Centro di medicina rigenerativa di Modena, nei cui laboratori si producono cornee per grandi ustionati e nuova pelle per alcune patologie rare, come l'epidermolisi bollosa, che colpisce i cosiddetti "bambini farfalla". E in futuro l'équipe modenese punta a creare altri "pezzi di ricambio" per uretra, mucose tracheali, orali e vaginali. Era il 1997 quando Michele De Luca e Graziella Pellegrini spedirono a Lancet l'articolo in cui raccontavano di essere riusciti, primi al mondo, a costruire in laboratorio una cornea e successivamente a impiantarla in un malato, il tutto a partire dalla cellule staminali epiteliali, quelle delle pelle, prelevate dal paziente tramite biopsia, coltivate ìn laboratorio per 2-3 settimane fino all'intervento - studi poi condotti in collaborazione con il dottor Paolo Rama su un grande IMBUTO di pazienti con un follow-up a so anni e pubblicati nel 2010 sul New England Journal of Medicine. Più di 250 persone hanno riacquistato la vista. E l'inizio della nuova medicina? Una sanità dove tutto si aggiusta, ricostruendo in laboratorio i tessuti danneggiati o difettosi? De Luca, pur forte dei successi ottenuti, invita alla cautela: «Ogni mese tutti noi cambiamo la Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. E come al solito spunta fa truffa Non è la speranza l'ultima a marla tentazione alla truffa, Così è anche quando si parla di cellule staminali, dove si è sviluppato un mercato nero, se non proprio di contrabbando, che promette cure anche per la malattie inguaribili. Per rendersene conto basta navigare nel web dove migliaia di siti offrono soluzioni a suon di salatissime parcelle per debellare distrofia muscolare, Parkinson, Alzheimer, depressione, impotenza. E qualche volta promettono anche elisir di lunga vita. Con le staminali embrionali online tutto si aggiusta. A patto di sborsare cifre da capogiro: fino a 35mila uro per un trattamento. Ci sono cliniche che offrono questi servizi in Ucraina, Cina, Thailandia, Ecuador, ma anche in Svizzera e in Germania. E i furbetti delle staminali non mancano neppure in Italia. E il caso della ina Foundation di Torino dove Davide Vannoni, professore di psicologia, vendeva per 50mila euro cure di questo tipo in Italia e all'estero, fino a quando non è intervenuto il pm Raffaele Guarinello a contestare a lui e ad altri dieci medici l'associazione per delinquere finalizzata alla somministrazione di «medicinali guasti» e «in modo pericoloso per la salute pubblica». Sono decine di migliaia i pazienti, alcune centinaia sono italiani, che ogni anno affrontano l'ennesimo viaggio della speranza. Nel migliore dei casi, questi trattamenti non portano alcun beneficio. A volte invece risultano dannosi e peggiorano la salute del paziente. La realtà e che la r.. sulle staminali (pur essendo riconosciuta, comunità scientifica internazionale come la più promettente riguardo allo sviluppo di terapie per malattie gravi per le quali non esiste una cura efficace) e ancora oggi nella maggior parte dei casi ferma alla fase di sperimentazione sugli animali.— __________________________________________ Le Scienze 10 Feb. ‘12 LA PERVICACE RESISTENZA DEI GENI IMMUNITARI "CATTIVI" I geni possiedono di norma pochissime varianti, o alleli. Fanno eccezione quelli delle proteine dell'MHC, elemento essenziale del sistema immunitario, che ne hanno in media ben 2300 ciascuno, molti dei quali legati a malattie autoimmuni o a suscettibilità a malattie. Uno studio chiarisce perché nel corso dell'evoluzione la loro presenza nella popolazione non sia stata eliminata MHC: non solo immunità ma anche apprendimento Le proteine del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) si trovano sulla superficie della maggior parte delle cellule e hanno la finzione di distinguere le struttura che appartengono all'organismo, il sé, da quelle estranee e innescare all'occorrenza lo scatenamento della risposta immunitaria. I geni per queste proteine hanno peraltro una particolarità: mentre la maggior parte dei geni possiede, sia nell'uomo che negli altri vertebrati, solamente uno o due alleli, ossia forme varianti del gene, nella popolazione umana si contano in media ben 2300 alleli differenti per ciascuno dei sei geni che controllano le proteine MHC. Anche se ciascuna singola persona non è portatrice di più di 12 alleli, questa incredibile proliferazione ha finora costituito un enigma: "Il mistero - osserva Jason Kubinak, primo autore di un articolo pubblicato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences" che chiarisce alcuni punti essenziali del problema - è perché ci siano così tante versioni differenti degli stessi geni MHC nella popolazione umana, soprattutto perché molte persone portano MHC che li rendono suscettibili a molti patogeni e a malattie autoimmuni." Le cellule dendritiche sono fra quelle che maggiormente esprimono le proteine MHC ( © David Scharf/Science Faction/Corbis) "È naturale che si conservino i geni che combattono la malattia", dice Kubinak. "Aiutano a sopravvivere, e quindi nel corso del tempo quei geni MHC diventano più comune nella popolazione perché le persone che li portano possono sopravvivere e avere figli." Ma, col tempo, alcuni patogeni mutano ed evolvono per diventare meno riconoscibile all'MHC ed eludere la risposta immunitaria. Come risultato, gli agenti patogeni possono prosperare. Chi è portatore di questi MHC che hanno "perso questa battaglia" contro i patogeni sono quindi predisposti ad ammalarsi e magari a soccombere. Si è pensato quindi che i geni MHC di suscettibilità alla malattia esaminato alla fine dovrebbero scomparire dalla popolazione: per molti MHC tuttavia le cose non vanno così. Le ragioni sono state finora oggetto di controversia e si è ipotizzato anche che potesse essere coinvolto il fatto che nella scelta del partner esiste la tendenza a orientarsi, guidati dall'olfatto, a quanti possiedono un sistema MHC differente dal proprio in modo da aumentare lo spettro di capacità difensive della prole. In una serie di esperimenti condotti su gruppi di topi geneticamente identici a meno di tre alleli di geni MHC messi in contatto con un retrovirus, i ricercatori dell'Università dello Utah a Salt Lake City, autori dell'articolo, sono riusciti a individuare due cause della mancata scomparsa degli alleli. In primo luogo, alcuni ceppi ormai rari di MHC traggono un un vantaggio dal fatto di non essere più "sotto osservazione" da parte dei patogeni, tanto da poter tornare a essere in grado di rilevare e combattere quei patogeni che li avevano sconfitti una volta che questi, impegnati nella loro corsa agli armamenti, hanno subito una serie di altre mutazioni. Inoltre, alcuni MHC rari possono innescare la risposta immunitaria contro patogeni completamente diversi. Di fatto, scrivono i ricercatori, lo studio conferma sperimentalmente il modello della coevoluzione antagonista fra un virus e il suo ospite, ma dai risultati dello studio si possono trarre anche altre conclusioni. In primo luogo che l'uso di antibiotici per aumentare la produttività negli allevamenti rappresenta una delle ragioni principali malattie umane sempre più resistenti agli antibiotici. L'allevamento selettivo per ottenere capi che forniscano più latte e più carne ha ridotto la diversità genetica del bestiame, compresa quella relativa al loro MHC. In secondo luogo, la diminuzione delle popolazioni delle specie in pericolo ne abbassa la diversità genetica, e questo a sua volta le rende un bersaglio ulteriormente più facile dei patogeni; pertanto, osservano i ricercatori, sarebbe auspicabile riuscire a ibridare queste specie in pericolo con portatori di MHC protettivi. Infine, la conservazione o l'incremento della variabilità genetica dell'MHC, sia nelle persone sia in altri organismi, è importante per limitare la diffusione e l'evoluzione delle malattie emergenti. In effetti, ha sottolineato Kubinak, facendo evolvere un virus nei topi si osserva lo sviluppo di nuove malattie. __________________________________________ La Nuova Sardegna 9 Feb. ‘12 IL DNA DI 15MILA SARDI RISCHIA DI ESSERE TRITURATO DAL CRAC DEL SAN RAFFAELE CAGLIARI. Il Dna di quindicimila sardi è in liquidazione. Sulla carta per le industrie farmaceutiche, vale almeno quattro milioni di euro, ma potrebbe esser venduto a un prezzo stracciato e in più c’è il pericolo che possa finire nelle mani di chicchessia, e sarebbe un disastro. Il tutto perché la società Shardna, che ha sede nel parco scientifico e tecnologico di Pula ed è proprietaria della banca dati, è finita stritolata, triturata nel crac dell’Ospedale San Raffaele di Milano. Faceva parte di quella galassia sterminata e zeppa di debiti voluta da Don Verzè, ma al momento del concordato preventivo, deciso dal tribunale di Milano, è stata scaricata e dichiarata «non interessante» prima dalla vecchia Fondazione e poi dalla nuova proprietà, il Bambin Gesù di Roma. Shardna è in liquidazione e presto quello che resta del patrimonio sarà messo all’asta per ripianare i debiti. Ieri c’è stato un incontro fra i sindacati e l’assessore all’Industria Alessandra Zedda, è sua la competenza, il contratto di lavoro è quello dei chimici, per fermare le procedure, ridare uno stipendio ai dieci dipendenti, non lo ricevono da settembre, ed evitare soprattutto che «la bio-banca finisca sul mercato». L’impegno della Regione c’è stato, ma potrebbe non bastare. Il commissario liquidatore, Gianluigi Galletta, è già al lavoro e se non arriverà un acquirente la società sarà sciolta, è inevitabile, e il Dna venduto, anche questo scontato. Ebbene, il Dna non è uno scatolone di maglioni da piazzare ai saldi, contiene un’infinità di dati sensibili e appetibili per le multinazionali, che da quelle provette ci ricavano brevetti e farmaci, cioè soldi. A partire dal 2000, i campioni sono stati raccolti dai ricercatori di Shardna: biologi molecolari, geneaologisti e informatici. Ovviamente il tutto col consenso degli abitanti di dieci comuni dell’Ogliastra (Baunei, Escalaplano, Loceri, Perdasdefogu, Seui, Seulo, Ussassai, Urzulei, Talana e Triei), e poi li hanno catalogati, studiati e archiviati. Adesso sono custoditi nel Banco regionale genetico di Perdasdefogu: fino a quando? Fino al giorno in cui qualcuno non chiederà di comprarli e, a quel punto, il commissario liquidatore dovrà venderli. Ma a chi? Per chi si occupa di bilanci, l’identità del compratore non può far la differenza, quello che conta, in questi casi, è solo l’entità dell’offerta, non certo chi la presenta. Il rischio è proprio questo: che quel Dna finisca sotto chissà quale controllo e soprattutto chissà per quali scopi. Un’eccellenza. Shardna è fondata nel 2000 da Renato Soru, allora proprietario di Tiscali e non ancora entrato in politica. È lui il socio di maggioranza con l’82 per cento delle azioni, ha investito una decina di miliardi delle vecchie lire, mentre il resto delle quote è diviso fra Banco di Sardegna, Cnr, Sfirs e la Casa di cura Tommasini. La presentazione è in grande stile, quel giorno a parlare per tutti è il primo direttore scientifico di Shardna, Mario Pirastu. Lui racconta e il mondo della ricerca applaude. Perché la neonata Spa si presenta come «la prima società in Italia che grazie all’incontro tra pubblico e privato, sarà impegnata nel settore della genomica». La mission sarà studiare l’Ogliastra: «Territorio abitato da popolazioni che sono state isolate per secoli e quindi costituiscono un modello ideale in termini genetici, demografici e ambientali per l’identificazione delle cause genetiche delle malattie multifattoriali comuni». Dovrà essere un’eccellenza, questo è l’obbiettivo, tanto che Soru dirà: «Non produrrà un euro di utile e dovrà occuparsi di debellare le malattie che colpiscono i sardi». Lo farà con gli studi sull’ipertensione e la calcolosi renali da acido urico. Il declino. Non tutto però va come dovrebbe. L’ingresso di Soru in politica, sarà eletto governatore nel 2004, provoca i primi contraccolpi su Shardna, che finisce nella bufera del conflitto d’interessi, insieme a Tiscali, per aver vinto tre appalti pubblici. In Consiglio, il presidente ribatterà seccato alle accuse. Nel frattempo però Shardna affanna, è in crisi, vacilla. Cambiano amministratore delegato e direttore scientifico, e soprattutto mancano i soldi. È il 2009 quando Soru, dopo aver perso le elezioni, sceglie Tiscali e mette in vendita Shardna. A comprarla, scatenando altre polemiche, è la Fondazione San Raffaele, impegnata tra l’altro nella costruzione dell’ospedale di Olbia. È Soru, come lui stesso racconterà, a proporre l’affare a Don Verzè, che compra per tre milioni di euro. È l’inizio della fine. __________________________________________ Corriere della Sera 10 Feb. ‘12 VACANZE AI CARAIBI MARE & CHIRURGIA Spese mediche Usa sempre più care, si diffonde il turismo sanitario Macdonald Stubbs, un vecchio pescatore cresciuto tra palme e pesca al blue marlin, non può credere ai suoi occhi: dopo dieci anni di attesa e dolori lancinanti, ha finalmente un ginocchio tutto nuovo. E, per il suo impianto, non ha dovuto muoversi da Turks & Caicos, l'arcipelago sperduto nel Mar Caraibico settentrionale nel quale risiede: ci ha pensato un'équipe di chirurghi arrivata da Chicago che lo ha operato nell'ospedale di Providenciales, ora gestito dalla società canadese InterHealth. Miracoli del medical tourism, il turismo sanitario: una faccia non nuova della globalizzazione che, però, ora sta diventando una vera industria planetaria man mano che i Paesi emergenti imparano a sfruttare la continua crescita dei costi della sanità negli Stati Uniti e nel resto dell'Occidente, per costruire un nuovo export tecnologico low cost: quello che viene propagandato con lo slogan «Vacanze, Avventura e… Chirurgia». Come nell'arcipelago non lontano dalla Florida che fa concorrenza agli ospedali Usa offrendo, oltre alla vacanza, trattamenti sanitari competitivi gestiti da medici e strutture affidabili. Con la riforma sanitaria di Barack Obama che non decolla (il presidente ne sta limitando l'impatto per cercare di superare l'ostilità che incontra, mentre i repubblicani promettono di cancellarla se torneranno alla Casa Bianca o comanderanno al Congresso), per molti americani (e per i loro datori di lavoro che pagano le spese mediche dei dipendenti) diventa sempre più conveniente andare all'estero per curarsi. Ortopedia, denti, ma ormai anche cardiochirurgia e terapie anticancro. Salvo l'altissima chirurgia, tutto si può ormai fare in Paesi, soprattutto asiatici, che offrono, in alcune selezionate strutture sanitarie, standard qualitativi analoghi a quelli degli ospedali Usa, ma a costi infinitamente inferiori. Non sono più casi isolati, scelte incoscienti di gente che rischia un intervento approssimativo o un'infezione post operatoria perché attratta dal miraggio di una vacanza gratis su una spiaggia tropicale prima del ricovero. Sono ormai una cinquantina — dalla Thailandia a Dubai, da Singapore all'India — i Paesi che hanno deciso di trasformare quello del turismo chirurgico in un nuovo business nazionale. Spuntano addirittura congressi internazionali sul turismo sanitario (il prossimo ad aprile in Costa Rica) e anche alcune delle più prestigiose istituzioni mediche Usa cominciano a guardare a quest'area: la celebre Cleveland Clinic aprirà l'anno prossimo un'unità ad Abu Dhabi. Si muovono anche Paesi come la Colombia: Bogotà sta diventando una capitale della chirurgia estetica mentre Medellín, un tempo nota soprattutto per i «cartelli» della droga, si specializza in bypass. Un'offerta ormai planetaria per orientarsi nella quale la californiana Global Health Voyager ha appena deciso di mettere sul mercato un'apposita applicazione per gli Smartphone. massimo.gaggi@rcsnewyork.com __________________________________________ L’Unione Sarda 10 Feb. ‘12 LA SARDEGNA È UN'ISOLA DI CICCIONI? Sono 400 mila le persone in sovrappeso In Sardegna si stimano tra le 355.000 e le 420.000 persone in sovrappeso e tra i 135.000 e 184.000 obesi, condizioni responsabili di circa l'80% dei casi di diabete di tipo 2, che nell'Isola colpisce circa 80.000 persone. Problemi di chili anche per il 20% dei bambini sardi in età scolastica dove si registra il 7% di obesità. I dati sono stati diffusi dall'assessore regionale della Sanità, Simona De Francisci, in occasione del lancio del progetto "Il movimento è vita" per prevenire l'obesità, il diabete e alcune malattie cardiovascolari grazie a una maggiore e costante attività fisica e a una sana alimentazione. Il progetto, che si avvale della collaborazione del Coni, Enti di promozione sportiva, società, federazioni ed Enti locali (Comuni e Province), è articolato in due fasi, una rivolta alla popolazione prediabetica, in sovrappeso e obesa, l'altra agli scolari. La prima parte del piano prevede un intervento su un campione di soggetti (tra i 600 e i 900) distribuiti nelle Asl sarde e reclutati su base volontaria in un Centro Endocrino- metabolico. Sono previsti due anni di attività fisica strutturata, da svolgersi tre volte la settimana per tutto l'anno, prescritta dallo specialista in medicina dello sport della Asl ed eseguito da laureati in Scienze motorie, in stretta collaborazione con un'equipe che sarà anche composta dal diabetologo-endocrinologo, dall'igienista o nutrizionista e dallo psicologo. Inserito nel Piano regionale di prevenzione 2010-2012, il secondo step mira a incrementare il livello di attività fisica nella popolazione scolastica per almeno altre tre ore settimanali, oltre alle due ore curricolari già previste per gli studenti del primo anno di corso di 66 scuole medie inferiori distribuite a campione negli ambiti territoriali delle Asl. Anche qui verrà attivata un'equipe medica e gli insegnanti seguiranno una specifica formazione attraverso corsi e seminari. "Praticare quotidiana attività fisica e mangiare sano è salutare - ha sottolineato l'assessore De Francisci - perché contribuisce sensibilmente a diminuire l'insorgenza di obesità e sovrappeso e ad evitare malattie gravi come diabete e quelle legate al cuore. E' anche un fatto sociale - ha aggiunto -, perché prevenire e fare più ginnastica oggi significa curare meno domani". __________________________________________ L’Unione Sarda 9 Feb. ‘12 FILMATO “DIALOGO” FRA PIANTE SCOPERTA SHOCK LONDRA Finora hanno parlato solo nei libri di Harry Potter, nei cartoni animati, nei film di fantascienza. Ma adesso scienziati dell'Università di Exeter in Gran Bretagna sono riusciti a registrare, anzi addirittura a filmare, conversazionì tra vegetali condotte in un linguaggio più complesso e affascinante di quanto non ci aspetterebbe. La lingua perduta delle piante: i ricercatori di Exeter hanno scoperto per la prima volta che le piante parlano tra loro per avvisarsi di un pericolo imminente. Gli scienziati, coordinarti da Nick Smirnoff, professore di biochimica vegetale, hanno «origliato» una chiacchierata tra cavoli modificati geneticamente. Dopo avere tagliato alcune foglie a un esemplare di Arabidopsis, l'hanno chiuso in una camera sigillata con due cavoli della stessa specie e si sono messi in ascolto. Il cavolo ferito ha emesso un fitormone, il jasmonato di metile, che è stato captato dalle altre due piante le quali a loro volta hanno propagato lo stesso gas comunicando il pericolo ad altri vegetali. Le piante erano però state modificate per emettere, oltre al gas, la proteina luciferase che fa emanare luce: questo ha permesso di registrare i messaggi. Il livello della luce era invisibile a occhio nudo, ma è stato fermato con una sensibilissima telecamera in grado di contare i fotoni. Il dialogo tra piante è entrato a far parte di una nuova serie di documentari della Bbc, “How to Grow a Planet”, presentata Ian Stewart. «È affascinante - ha detto Stewart - rendersi conto che c'è una continua conversazione intorno a noi, come un linguaggio nascosto, che le piante si accorgono chimicamente che c'è qualcosa che accade ad altri. La gente pensa che le piante conducano una vita sostanzialmente passiva, mentre in realtà si muovono, intendono e possono comunicare». Smirnoff, il coordinatore della ricerca, ha spiegato che i vegetali non possono sentire dolore perchè non hanno terminazioni nervose. Gli studiosi devono ancora decifrare come esattamente il cavolo reagisce quando è avvisato di una minaccia imminente. __________________________________________ Corriere della Sera 11 Feb. ‘12 CRISI REGISTRATE E SPENTE ISTANTANEAMENTE TECNO-CURE PER L'EPILESSIA Su un quarto dei pazienti con epilessia (90 mila in Italia) i farmaci non hanno effetto o lo perdono e le crisi perdurano o ritornano. Si ricorre allora a medicinali di nuova generazione e, se non basta, si può considerare l'opportunità della neurochirurgia che offre ottimechance. Eliminare o scollegare le cellule nervose impazzite, che causano gli attacchi, con interventi demolitivi o resettivi (emisferotomia, callosostomia, ecc.) è una misura molto efficace, ma può avere anche danni collaterali e quindi bisogna sempre valutare attentamente pro e contro, caso per caso. Per questo anni di esperienze hanno spinto alla ricerca di strade alternative, come i trattamenti dineurostimolazione, che non sono altrettanto risolutivi, ma hanno effetti collaterali minori. «Abbiamo risolto il 60-80% delle crisi resistenti di bambini affetti da epilessia secondaria a encefalopatia — racconta Nelia Zamponi, responsabile del Centro di epilessia infantile di Ancona — trattandoli con callosotomia, una procedura che separa gli emisferi, entrambi malati, per evitare il riverberare degli stimoli epilettici. Ciò però espone al grave rischio di una sindrome da disconnessione con deficit nel passaggio di alcune informazioni da un emisfero all'altro. Onde evitare tali rischi in alcuni di loro si è allora optato per la stimolazione vagale (VNS), una tecnica di neurostimolazione, ottenendo comunque una buona efficacia, che è arrivata al 38%». «Se non si può ricorrere alla chirurgia resettiva — conferma la professoressa Maria Paola Canevini, dell'ospedale San Paolo di Milano — la stimolazione vagale è un'opportunità terapeutica che vanta un elevato numero di pazienti trattati nel mondo, seguiti poi per anni, a dimostrazione che è ben tollerata da adulti e bambini». La VNS è, insieme alla stimolazione cerebrale profonda (DBS, da deep brain stimulation), il principale trattamento di neurostimolazione per l'epilessia. Entrambe quietano i neuroni tramite microimpulsi elettrici, ma, mentre la DBS necessita di un posizionamento nel cervello di microcateteri stimolatori, la VNS sfrutta come binario naturale il nervo vago, che transita nel collo dirigendosi al cervello. L'esperienza con la VNS è ormai ampia (67 mila casi in tutto il mondo), mentre la DBS, usata sopratutto nella malattia di Parkinson, nell'epilessia sta muovendo i primi passi con risultati incoraggianti, ma vanno ancora affinati i suoi parametri di stimolazione. Di questi aspetti hanno discusso recentemente a Milano i maggiori esperti internazionale, chiamati al Centro Congressi FAST per un incontro organizzato dall'Istituto neurologico Besta. «Nelle epilessie farmacoresistenti difficilmente risolvibili con trattamenti medici o chirurgici tradizionali — racconta l'epilettologa Marina Casazza, del Besta — occorre offrire ai pazienti opportunità terapeutiche differenti e le terapie di chirurgia disconnettiva o quelle di stimolazione possono dare buoni risultati, ma il vero problema ancora aperto è individuare i candidati ideali ai trattamenti. Ancora non conosciamo l'esatto meccanismo d'azione dei microimpulsi della neurostimolazione e quindi quali epilessie e quali pazienti siano più adatti a questi trattamenti, peraltro invasivi, non scevri da rischi e da effetti collaterali, nonché costosi». Cesare Peccarisi __________________________________________ Corriere della Sera 11 Feb. ‘12 LA LEGGE PER LE PERSONE SORDE DIVIDE «SEGNISTI» E «ORALISTI» Non è ancora chiaro che fine farà. La proposta di legge sul riconoscimento della lingua dei segni italiana (Lis, il sistema di comunicazione visivo e gestuale delle persone sorde) è ancora all'esame della Commissione Affari Sociali della Camera, dopo la partenza dell'iter parlamentare il 9 marzo del 2009. Le due riunioni delle Commissioni Cultura e Affari Sociali calendarizzate per mercoledì scorso sono state rinviate. E intanto, la vicenda è diventata motivo di profonda spaccatura nella comunità delle persone sorde in Italia. La contrapposizione ricalca in buona sostanza due metodi storicamente diversi di affrontare il problema della sordità. Da una parte ci sono i cosiddetti "segnisti" che appunto utilizzano la Lis per esprimersi e la considerano come lingua naturale e propria di chi è sordo. Dall'altra, gli "oralisti" per i quali è invece importante l'apprendimento della lingua parlata e con i progressi della medicina e della tecnologia puntano oggi sulla diagnosi precoce infantile della sordità, sugli impianti cocleari e le protesi acustiche e sulla logopedia per ottenere questo risultato. L'Ente nazionale sordi (Ens), che ha promosso l'iniziativa di legge, ha chiesto il riconoscimento della Lis alla stessa stregua della lingua di una vera e propria minoranza. Insomma la Lis dovrebbe diventare la lingua ufficiale di chi è sordo. Se così fosse, di conseguenza lo Stato dovrebbe prendere una serie di provvedimenti (con relativi costi) per consentire l'uso della Lis negli uffici e nelle amministrazioni pubbliche, l'insegnamento nelle scuole dell'obbligo e la creazione di corsi universitari dove apprenderla.«Le persone sorde desiderano vedere riconosciuto da un punta di vista istituzionale la lingua che utilizzano tutti i giorni — spiega Giuseppe Petrucci, presidente dell'Ens —, in base anche alle Convenzioni dell'Onu e della Ue. Nell'ottica dell'abbattimento delle barriere della comunicazione vogliamo che alle persone sorde sia consentito di scegliere il metodo di comunicazione che preferiscono, riconoscendo a tutti questi metodi pari dignità e pari opportunità di accesso al loro utilizzo». Il testo presentato al Senato seguiva questa impostazione. Altre associazioni, come la Fiadda (Famiglie italiane associate per la difesa dei diritti degli audiolesi) e il Comitato nazionale genitori dei familiari disabili uditivi, hanno però indotto ad una modifica del testo nel passaggio alla Camera. «Secondo noi le persone che nascono o diventano sorde anche in tenera età, cioè i sordi profondi, non si riconoscono in una minoranza o in un'altra lingua — dice Antonio Cotura, presidente di Fiadda —. Si considerano cittadini italiani a tutti gli effetti e la loro lingua è quella italiana. Per questo ci siamo opposti all'idea di riconoscere la Lis come lingua di minoranza delle persone sorde in base all'articolo 6 della Costituzione come prevedeva il testo approvato al Senato». In effetti, la Commissione Affari Sociali della Camera ha licenziato una bozza di testo molto diversa. Il titolo è stato cambiato da "Riconoscimento della lingua italiana dei segni" a "Disposizioni per la promozione della piena partecipazione delle persone sorde alla vita collettiva". È stato eliminato il riferimento all'articolo 6 della Costituzione sulle minoranze linguistiche. Sono stati elencate come azioni prioritarie la promozione dell'acquisizione della lingua verbale e scritta, la necessità di utilizzare le diagnosi precoci (oltre che la riabilitazione) e la diffusione delle innovazioni tecnologiche in funzione degli impianti acustici. La lingua dei segni viene invece riconosciuta, ma non promossa. Il rimaneggiamento potrebbe soddisfare la Fiadda, mentre trova contrario l'Ente nazionale sordi che dice di preferire il ritiro o la bocciatura della proposta di legge con questo testo. Le associazioni raggruppate attorno al Comitato nazionale genitori dei familiari disabili uditivi (supportati anche dalla Società italiana di otorinolaringoiatria e dalla Società italiana di audiologia e foniatria) dal canto loro vogliono la bocciatura, anche con il testo modificato, ma per motivi diametralmente opposti: sostengono che la normativa resti fortemente discriminatoria nei confronti delle persone sorde rispetto al resto della società e temono comunque il drenaggio di risorse, secondo loro meglio utilizzabili nei programmi di screening neonatale della sordità e nella terapia basata su impianti cocleari e protesi acustiche. «Riteniamo questo testo inutile e dannoso — sostiene Laura Brogelli del Comitato —. Il riconoscimento della Lis comporterebbe una notevole serie di spese rivolte non al superamento dell'handicap della sordità, ma piuttosto alla tutela di una minoranza linguistica». Ruggiero Corcella __________________________________________ Il Sole24Ore 11 Feb. ‘12 IL BISTURI LASCIA SPAZIO AL MOUSE Il chirurgo opera seduto alla scrivania seguendo su uno schermo ad altissima definizione i movimenti di una minuscola sonda magnetica computerizzata Francesca Cerati Chi si aspetta la tipica sala operatoria interrata, posta alla fine di corridoi claustrofobici, resterà molto sorpreso: qui, nell'ospedale Villa Maria Cecilia di Cotignola (Ravenna) l'atmosfera è molto diversa, a partire dai colori rosso-arancio e dalle grandi vetrate che illuminano a giorno il letto operatorio. Ma le anomalie non finiscono qui. Il chirurgo non si trova a fianco del paziente, ma è seduto alla scrivania in una stanza attigua di fronte a uno schermo piatto ad altissima definizione e con il mouse al posto del bisturi. «Più che una sala operatoria è un laboratorio super tecnologico, in cui gli strumenti sono per molti aspetti dei prototipi, che devono superare i nostri test» racconta il cardiochirurgo Carlo Pappone, che ha ricoperto per oltre un decennio la posizione di direttore del dipartimento di Aritmologia del San Raffaele di Milano e da due anni ricopre la stessa carica all'ospedale di Cotignola. La sala operatoria è completamente magnetica, grazie a due grandi generatori che si trovano alla destra e alla sinistra del paziente a cui è stato inserito un piccolo sondino con proprietà magnetiche. Per cui modificando il campo elettrico è possibile dirigere il sondino sul bersaglio, ovvero le aritmie del cuore, semplicemente muovendo il mouse. Ma il fatto più sorprendente è che l'intervento può essere eseguito su qualsiasi paziente ovunque nel mondo. È sufficiente collegarsi via internet, digitare il codice di accesso ed è possibile "entrare" nelle sale operatorie di tutto il mondo, dall'India all'Afghanistan. L'importante è che il paziente sia all'interno di una stanza magnetica, in ospedale, ma anche su un camion o in un contanier. Una tecnologia che offre senza dubbio una possibilità importante in termini di democrazia della cura, ma che può essere sfruttata anche per la formazione medica a distanza. «È sufficiente trasferire l'immagine che noi vediamo su questi speciali schermi da 8 milioni di pixel, usati solo a scopi militari e costruiti apposta per noi, su un normale pc e al costo di una connessione internet s'impara la procedura» continua Pappone. L'ospedale di Cotignola è infatti un centro di addestramento internazionale per i medici che vogliono apprendere i principi del magnetismo e l'esecuzione delle tecniche per correggere la fibrillazione atriale con questo tipo di tecnologia. «Solo tre anni fa – dice Pappone – un'ora di connessione per trasferire una immagine via satellite costava 100mila dollari; oggi, con una semplice linea internet vpn – gratuita per chi si connette – possiamo trasferire un numero illimitato di segnali». Il primo intervento a distanza porta sempre la firma di Pappone, che nel 2006 operò da Boston un paziente ricoverato a Milano. Un'esperienza che ha permesso in pochi anni di sviluppare vere e proprie macchine intelligenti, che hanno "appreso" da migliaia e migliaia di interventi e che oggi sono in grado di ricostruire la camera cardiaca in 3D e di eseguire con estrema precisione l'ablazione del tessuto malato attraverso il sondino. In questo modo anche il ruolo del chirurgo cambia e le mani non sono più così importanti: la massima pressione che esercita un sondino è di 20 grammi per cm2 (con le mani si raggiungono i 300 gr per cm2) e quindi la possibilità di perforazione viene ridotta a zero. Anche la seconda sala operatoria – ne esistono solo due al mondo, l'altra è a Lipsia, in Garmania – è stata ispirata da una tecnologia militare, la stessa che usano gli aerei da guerra israeliani e che a Cotignola hanno applicato alla medicina. Si tratta di un satellite posto sul soffitto che come il gps ricostruisce una mappa in 3D su cui il sondino naviga arrivando alla meta. «Il vantaggio di questa innovazione – spiega Pappone – è che si eliminano completamente i raggi X, perché gli oggetti si muovono all'interno del campo magnetico e quindi sia i pazienti sia gli operatori non vengono esposti a radiazioni». Innovazioni che richiamano sempre più pazienti e migliorano l'economia dei luoghi più periferici. «Al San Raffaele eravamo un gruppo di giovani molto motivati, conosciuti in tutto il mondo; abbiamo cercato un posto dove continuare il nostro sogno e oggi la magia del nostro lavoro è di condividere l'esperienza con altri medici semplicemente aprendo una finestra sul computer». La ricchezza dei luoghi può nascere anche da questa esperienza umana. Chi è Direttore dell'Accademia di aritmologia, Carlo Pappone ha inaugurato l'era della telemedicina nella storia della cardiologia interventistica, eseguendo nel 2006 un intervento ablativo via catetere intercontinentale a 4000 miglia di distanza: da Boston a Milano. È oggi riconosciuto a livello mondiale come pioniere e massimo esperto nel campo dell'ablazione transcatetere della fibrillazione atriale, divenendo punto di riferimento mondiale per colleghi elettrofisiologi e per le industrie del settore. La metodica da lui concepita 10 anni fa è conosciuta nel mondo come "Pappone approach" ed è utilizzata come tale nella maggior parte dei laboratori di elettrofisiologia in Italia e nel mondo. come funziona GLI ELETTRICISTI DEL CUORE. Il primo passo del cardiologo è capire il meccanismo alla base dell'aritmia, attraverso la raccolta dei segnali elettrici del cuore. Perché una minima variazione cambia la diagnosi ma anche il risultato terapeutico. «Immaginate un circuito automobilistico lungo il quale sono dislocate le telecamere per riprendere il percorso delle auto – spiega il cardiochirurgo Carlo Pappone –. Noi facciamo la stessa cosa: i sondini sono le telecamere che riprendono l'impulso elettrico che viaggia nel cuore e che riscaldando il tessuto lo distrugge. In base a quanto il segnale elettrico è veloce o rallenta in alcuni punti risaliamo al difetto e arriviamo alla diagnosi. E sulla base del meccanismo alterato interveniamo come gli elettricisti. Basta cambiare il tipo di sondino, che stira, spinge e cambia direzione, e possiamo riparare un "corto circuito", ovvero un'aritmia, ma possiamo anche disostruire le coronarie o sostituire una valvola senza aprire il torace del paziente». Ma non è solo la sala operatoria a essere hi-tech: tutto il dipartimento è totalmente integrato con telecamere e sensori che registrano in ogni momento l'attività cardiaca e i parametri vitali del paziente. __________________________________________ Il Sole24Ore 11 Feb. ‘12 IL TRAGUARDO È AVERE MODELLI PREDITTIVI Dall'enorme mole di dati dei pazienti emergerà una «intelligenza artificiale» che ottimizza diagnosi e cura «La tecnologia è la spina dorsale dell'assistenza sanitaria. E un sistema It realmente integrato con soluzioni avanzate serve a garantire che ogni paziente riceva la cura giusta al momento giusto». Parola di Dan Drawbaugh, da 20 anni a capo della divisione It di Upmc (University of Pittsburgh medical center) – il secondo sistema sanitario statunitense in termini di dimensioni –, ma soprattutto pioniere nello sviluppo e nell'adozione della tecnologia per migliorare la qualità, la sicurezza e l'efficienza dell'assistenza sanitaria. Caratteristiche che gli hanno permesso, nel 2006, di essere nominato da Information Week "chief of the year". In effetti, è a lui che si deve lo sviluppo dei più avanzati programmi di telemedicina. Upmc, che ha sede a Pittsburgh, è un network sanitario da nove miliardi di dollari, 22 ospedali (tra cui l'Ismett di Palermo), 400 ambulatori, 50mila dipendenti, 2.800 medici, 1.700 addetti all'It e oltre 4,5 milioni di pazienti. Una realtà che sta letteralmente trasformando l'economia della regione, la Pennsylvania, che ora si fonda sulla medicina, la ricerca e la tecnologia. Un know how che può essere commercializzato come un modello per migliorare la qualità e l'efficienza dell'assistenza sanitaria che alimenta nuove aziende e sviluppa strategie di business con le multinazionali. «In collaborazione con Ibm, Alcatel-Lucent e dbMotion, Upmc ha investito negli ultimi cinque anni quasi 1,5 miliardi di dollari in tecnologia informatica, tanto quanto costruire due stadi» spiega Drawbaugh, che da vent'anni mostra una straordinaria visione tecnologica e di business. Ma come si riesce a stare al passo con il progresso tecnologico nella gestione della salute? Per Dan sono tre i livelli da considerare: il primo è tecnologico, il secondo è il mercato (i pazienti) e il terzo il coinvolgimento dei medici. «Anche se la tecnologia cambia, il modello di implementazione può essere definito tenendo conto dei trend di crescita e di sviluppo in campo tecnologico. Per esempio oggi abbiamo computer potenti, veloci e a basso costo e ogni giorno nascono servizi che possono essere utili anche per l'assistenza sanitaria, come skype e il cloud computing» spiega. E ancora. Il traffico mobile tra il 2010 e il 2015 diventerà 26 volte più grande e i due terzi di questo sarà video. Ma anche l'accesso a internet da dispositivi mobile dopo il 2013 supererà quello da desktop. Anche questo è telemedicina. «Quindi la tecnologia c'è già, dobbiamo solo sfruttarla al meglio – dice Drawbaugh. E – aggiunge – è necessario coinvolgere i medici nei progetti It. Non è sufficiente mostrare loro il valore della tecnologia, occorre farli partecipi dello sviluppo della soluzione. Per esempio, dei nostri 250 sviluppatori software, 25 sono medici, perché i progetti sono clinici non informatici, sono loro ad avere la visione su cosa è più utile. Inoltre, per incentivare la telemedicina abbiamo previsto per chi visita un rimborso». E infatti negli Usa, ambulatori virtuali, cartella clinica elettronica, invio di esami sui diversi device e la cosiddetta e-visita medica sono già una realtà, che di fatto sta trasformando il ruolo dei medici, ma anche dei pazienti «che oggi possono scegliere e diventare attori della strategia clinica» precisa Drawbaugh. Quindi l'It non è solo lo strumento per migliorare in generale il processo di cura, ma anche il catalizzatore per attuare il cambiamento. E il prossimo passo del processo? «Fatta salva la solidità delle fondamenta tecnologiche, cioè rete, dati e database, si deve investire sull'analitics, vale a dire estrarre dalla immensa mole di dati la conoscenza per prendere la decisione migliore». Arrivare a modelli predittivi e all'ottimizzazione dei dati sanitari creerà una sorta di intelligenza artificiale sia per il medico sia per il paziente. Che porterà a un notevole risparmio – già tangibile oggi con la telemedicina – perché con l'implementazione della tecnologia aumentano gli indicatori di qualità dell'assistenza, con un più basso tasso di remissione, di complicanze e un minor numero di errori nella diagnosi e nella terapia. (fr.ce.) francesca.cerati@ilsole24ore.com __________________________________________ Il Giornale 11 Feb. ‘12 CON UNA PILLOLA ADESSO SI PUÒ CURARE LA SCLEROSI MULTIPLA Luisa Romagnoni Che la ricerca farmacologica, nel- l' ambito della sclerosi multipla, fosse ormai prossima ad un importante traguardo, era cosa attesa. Ora ecco in arrivo uno straordinario e concreto risultato. Anche in Italia è disponibile il primo trattamento orale (il farmaco si assume una volta al giorno) approvato per la sclerosi multipla (fingolimod), capostipite di una nuova classe di farmaci chiamati modulatori dei recettori della sfingosina 1-fosfato. Una terapia potente, con importanti benefici terapeutici per una patologia ad andamento cronico ed evolutivo che solo in Italia riguarda 60mila persone (soprattutto giovani e per lo più di sesso femminile). «Fingolimod- spiega Giancarlo Comi, professore di neurologia all'universitàVita-S alute San Raffaele di Milano - sta cambiando la malattia, perché ha un' efficacia due volte maggiore rispetto alle terapie di prima linea fino ad oggi utilizzate. Un'ulteriore evidenza oggettiva della potenza di questa molecola è costituita dalla significativa riduzione dell' atrofia cerebrale che caratterizza la patologia». Tifarmaco ha un meccanismo d'azione innovativo e ha la capacità di legarsi ai recettori per la sfingosina-1-fosfato espressi su molti tessuti, inclusi i linfociti che, a causa di questo legame, vengono intrappolati nei linfonodi, proprio perché viene meno la funzionalità del recettore che è indispensabile per il ricircolo dei linfo citi nel sistema circolatorio e nei linfonodi. «Inoltre- prosegue Corni - interagendo con irecettori SlP espressi su alcune cellule neurali, fingolimod può indurre effetti neuroprotettivi». L'approvazione del farmaco (sviluppato da Novartis) si è basata su un ampio programma di studi clinici. Ad oggi sono oltre 30mila i p azienti trattati, per un totale di 25mila soggetti-anno di esposizione. In particolare, nei pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente ad alta attività di malattia, nonostante la terapia con interferone, il trattamento con fingolimod ha ridotto il tasso annualizzato di ricadute fino al 61% rispetto ad interferone beta- la. Inoltre nelle sperimentazioni ha dimostrato di ridurre la perdita di volume cerebrale del 40% rispetto ad interferone beta- la, l' attività infiammatoria di malattia alla risonanza magnetica nucleare (RMN) del 55% rispetto ad interferone beta- 1° e di ridurre di un terzo il rischio di progressione della disabilità