RASSEGNA 19/02/2012 NUOVA VALUTAZIONE, SALTANO IPREMI L'ASSURDITÀ DEI V0TI ALLE CATTEDRE PROFESSORI GIÙ DALLA CATTEDRA ALL'UNIVERSITÀ UN ANNO PRIMA PER ESSERE COMPETITIVI IN EUROPA QUEGLI INGEGNERI CHE CURANO LE MALATTIE C'È UN BOOM DI CORSI SU INTERNET TROPPE REGOLE, POCA RICERCA TROPPI PREGIUDIZI VERSO LE SCIENZE UMANE NIENTE CULTURA, NIENTE SVILUPPO UNIVERSITÀ: SE PER I LAUREATI «3+2» FA 6,5 I TAGLI DI OBAMA RISPARMIANO LA RICERCA LAUREATI D'ORO MA DISOCCUPATI IN USA FANNO CAUSA ALL'UNIVERSITÀ IN EUROPA L'ATOMO NON È AL TRAMONTO FONDI ALLA RICERCA PER RIPARTIRE NICOLAIS AL CNR. IL PDL: SCELTA POLITICA CNR: MACCHÉ TECNICI L'ISTRUZIONE È TORNATA ROSSA L'ERA DELLA SCIENZA KOLOSSAL È FINITA CAGLIARI: ESISTE CEMENTO E CEMENTO, MA QUELLO DI SINISTRA È BUONO? CONCLUSI I LAVORI DI MONTAGGIO DELL’ANTENNA DI PLANU SANGUNI L'ERA DELLA SCIENZA KOLOSSAL È FINITA SE GLI STRANIERI PREFERISCONO LA SCUOLA PUBBLICA IL PICCOLO DECALOGO DELL' INVIDIOSO CRONICO PER UNA «CLOUD» DELLE BIBLIOTECHE SASSARI: POCHE PUBBLICAZIONI MA DI BUONA QUALITÀ MASTINO: «LE NOSTRE RICHIESTE A NAPOLITANO» SASSARI LA FABBRICA DELLA CULTURA DOPO 4 SECOLI I PROF E LA GAFFE DEL “PECORINO” ========================================================= IL MINISTRO: «MAI PIÙ VISITE IN STUDIO PER I MEDICI» AOUCA: SANITÀ PRIMO SEMAFORO ROSSO PER I ROMENI DONAZIONI, L'ISOLA FINISCE SUL PODIO RECORD DI DONAZIONI, LA SARDEGNA AL TERZO POSTO FORSE NON TUTTI SANNO CHE LA DOPPIA ELICA SI È TRIPLICATA IL LASER SUPER CHE È CAPACE DI "TRASMUTARE" LA MATERIA NUOVE FRONTIERE NELLA RIABILITAZIONE SEMPRE MENO GIOVANI FRA I DONATORI DI SANGUE TRASPARENZA PER PREZZI E PRINCIPI ATTIVI QUALI SONO LE REGOLE DELL'EQUIVALENZA THE LANCET: LA PSICHIATRIA NON CONFONDA LUTTO E DEPRESSIONE IL GENOMA IMMORTALE DEL CANCRO DEL DIAVOLO DANNI CARDIACI DA INFARTO RIPARATI CON LE STAMINALI STUDIO SULLE RESISTENZE IMMUNOLOGICHE UMANE ECCELLENZE NELLA SANITÀ DA RILANCIARE L'ENZIMA CHE «LEGA» LA PELLE IL COLORE TRADISCE L'ETÀ. «FACCETTE» E GEL ATTIVATI DAL LASER LA BANCA DELLE CELLULE FRA MEDICINA E DIRITTO CON TROPPE CALORIE SI ACCELERA LA PERDITA DELLA MEMORIA DALLA SARDEGNA UN PROGETTO PER CONTRASTARE OBESITA’ E DIABETE ========================================================= _________________________________________________ Italia Oggi 14 Feb.’12 NUOVA VALUTAZIONE, SALTANO IPREMI Profumo archivia il progetto per selezionare i docenti più bravi. ispettori e Invalsi Arrivano aiuti alle scuole in difficoltà, tre anni per migliorare DI MARIO D'ADAMO Il ministro dell'istruzione, Francesco Profumo, comincia ad abbozzare una risposta all'Unione europea, che nel novembre scorso, per saggiare l'affidabilità delle misure per contrastare la crisi del debito sovrano, aveva po-sto all'Italia 39 domande, due riguardavano l'istruzione. Con la n. 13 si volevano conoscere «quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti», mentre con la numero 14 si chiedevano chiarimenti sul piano di valorizzazione del «ruolo degli insegnanti in ogni singola scuola e sul tipo di incentivi che il governo intende mettere in campo». E così il ministro, impegnandosi per il momento a rispondere alla prima domanda, fa partire un'iniziativa sperimentale denominata "VALeS"- Valutazione e Sviluppo Scuola. Niente incentivi agli insegnanti e alle scuole migliori, però. Più risorse, invece, alle scuole meno preparate e più in difficoltà. Entro il 12 marzo prossimo le scuole interessate a partecipare all'iniziativa devono presentare richiesta, previa delibera positiva dei rispettivi collegi dei docenti, compilando il modulo di adesione on line disponibile sul sito del ministero della pubblica istruzione, e vi possono partecipare anche i dirigenti scolastici (circolare n. 16 del 3 febbraio 2012, prot. n. 176). Non più di 300 scuole potranno aderire, non essendo ingenti, par di capire, le risorse a disposizione: da dieci e ventimila euro per scuola. Per la scelta il ministero terrà conto dell'ordine cronologico di presentazione delle richieste, garantendo un'equilibrata distribuzione sul territorio nazionale e un'equa ripartizione delle scuole del primo e del secondo ciclo. Il ministro ha deciso di archiviare il progetto sperimentale di valutazione «Valorizza», basato sulla valutazione reputazionale dei singoli prof, che aveva consentito a 276 docenti in tutt'Italia di ricevere una mensilità aggiuntiva a titolo di premio per la buona qualità del lavoro svolto a scuola. Troppe le criticità rilevate. Mentre prosegue l'altro progetto di durata triennale «VSQ» (valutazione per lo sviluppo e la qualità delle scuole) della Fondazione Agnelli. A questo si aggiunge il nuovo progetto, anch'esso triennale, che prevede tre fasi. Nel corso della prima, quest'anno scolastico, si rileveranno gli apprendimenti attraverso la somministrazione di prove standard con calcolo del valore aggiunto contestualizzato da parte dell'Istituto nazionale per la valutazione, Invalsi, e si raccoglieranno i dati strutturali che ogni singola scuola contribuisce a fornire secondo modalità simili all'iniziativa «scuola in chiaro». Questa fase, nel corso della quale visiteranno le scuole, secondo uno specifico protocollo, nuclei di osservatori esterni coordinati da ispettori, terminerà con la consegna di un rapporto di valutazione e l'invito a progettare un percorso miglioramento. La scuola avrà tempo il prossimo anno scolastico, seconda fase, per attuare le iniziative di miglioramento, per le quali potrà chiedere la collaborazione dell'Agenzia nazionale per lo sviluppo dell'autonomia scolastica, Asas, delle Università e altre risorse del territorio. Stessa procedura per i dirigenti scolastici. Nella terza fase le scuole e i dirigenti scolastici saranno nuovamente valutati dai nuclei esterni, che ne apprezzeranno i risultati raggiunti. Le relative informazioni saranno pubblicate sul servizio «scuola in chiaro», ai fini della trasparenza e della «accountability». I fondi serviranno per finanziare lo svolgimento delle attività della seconda fase e le relative spese di funzionamento, comprese quelle per retribuire «il maggior impegno profuso dalla comunità professionale nel partecipare al processo di valutazione» Infine, l'Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico, Ocse, collaborerà con il ministero in tutte le fasi del progetto, per assicurare l'allineamento dell'esperienza italiana con il panorama internazionale. _________________________________________________ Il Tempo 17 Feb.’12 L'ASSURDITÀ DEI V0TI ALLE CATTEDRE di Luigi Compagna Modalità Raggelante tecnica quantitativa, ipocrita e ingannevole della professionalità degli insegnanti Obiettivo Si mira a una sorta di mercato autoreferenziale di editoria accademica lontano da garanzie reali di competizione Anche all'università italiana è in arrivo La Corazzata Potemkin, cioè una "boiata pazzesca", per dirla col ragioniere Ugo Fantozzi. Si tratta dell'Anvur Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca) prevista nella legge di riforma di un anno e mezzo fa ed ora autocollocatasi nel cuore di ogni preesistente libertà di ricerca. Sessantamila docenti italiani, nonché tutti i loro dipartimenti ed atenei, dovranno essere quanto prima valutati e classificati in base ai criteri fissati dalla nuova Agenzia. Tutto si svolgerà secondo una raggelante tecnica quantitativa (numero di pagine di uno scritto, rimbalzi in altri scritti tramite citazioni, riviste e case editrici che lo pubblicano e via dicendo). Tecnica ipocrita ed ingannevole che, tanto nell'abito cosiddetto scientifico quanto nell'ambito cosiddetto umanistico, ha sempre ispirato una abdicazione dalle responsabilità individuali e prodotto vere e proprie forme di corruzione della probità scientifica. Si pensi alla vicenda del matematico italiano Ennio De Giorgi, colui che fece meglio di JohnNash, il memorabile protagonista del film Beautiful mind. Il lavoro di De Giorgi, pubblicato in italiano nel 1957 dall'Accademia della Scienze di Torino, in base alla dittatura dei parametri bibliometrici, non consentirebbe all'autore di essere preso in considerazione neanche come professore di seconda fascia nelle nostre università. E si ricordi pure il caso "filosofico" di Karl Popper in Italia. Su di lui e sulle sue opere pesava fin dall'immediato dopoguerra il veto dell' editorone Einaudi e del professorone Norberto Bobbio; sarebbero stati poi alla metà degli anni settanta una piccola casa editrice (Armando) ed un allora giovanissimo professorino (Dario Antiseri) a non farsi condizionare da quel veto. Al fianco dei nuovi sacerdoti della bibliometria, ispirati, quasi come i cardinali in conclave, dallo Spirito Santo del sapere, operano in questi giorni in Italia le imprese che questi meccanismi di finta obbiettività hanno inventato e producono. Si mira ad una sorta di mercato ad hoc, esclusivo ed autoreferenziale di editoria accademica lontano da ogni effettiva garanzia di competizione e di libertà. Con l'Anvur nella parte di un enorme costosissimo apparato centrale irresponsabile e introvabile, capace di far valere comunque un rapporto fra libertà di ricerca e organizzazione accademica degno dei peggiori modelli di democrazia popolare. Se fossimo al cinema, sarebbe La Corazzata Potemkin contro Beautiful mind. Bruttissimo spettacolo: neanche immaginabile quando, prima dell'estate scorsa, il CUN (Consiglio universitario nazionale) aveva deliberato che "in ogni caso nessun parametro quantitativo potrà impedire un positivo giudizio di merito a fronte di risultati di assoluto valore". Come a suo tempo per De Giorgi e Antiseri, come mai più I Anvur vorrebbe accadesse: in omaggio a parametri di vil meccanica! _________________________________________________ La Repubblica 17 Feb.’12 PROFESSORI GIÙ DALLA CATTEDRA LA NUOVA SFIDA NEGLI ATENEI Dai tablet alle macchinette per far interagire gli studenti a colpi di click Negli Usa le università cercano strumenti alternativi al classico insegnamento DAL NOSTRO INVIATO ANGELO AQUARO NEW YORK Giù dalla cattedra, professore. La vecchia lezione non paga più: e costa un occhio della testa. Gli Stati Uniti spendono più di un miliardo di dollari all'anno per costruire nuove e capientissime aule universitarie: ma gli studenti scappano. Un terzo delle matricole sceglie una materia scientifica ma lascia dopo meno di due anni. E sotto accusa è proprio il modello che dagli Usa alla vecchia Europa è quello fin qui seguito nelle università di tutto il mondo: la vecchia lezione ex cathedra. Una rivolta vera e propria. Che costringe istituzione gloriose a correre ai ripari. Da Harvard alla JohnsHopkins stavolta sono le università a chiedere ai professori di fare i compiti: aiutateci a pensare un modello diverso di lezione. Il Washington Post raccoglie l'allarme e lo rilancia in prima pagina: succede infondo a due passi dal Cupolone del Congresso. L'University System del Maryland ha cominciato a demolire il totem. Basta inutili lezioni-show davanti a centinaia di studenti: perfino nella gloriosa George Washington, l'università della classe dirigente, le superclassi vengono divise in gruppi di studio da 50 o addirittura 20 studenti. «Solo perché i professori si piazzano lì al centro dell'aula non vuol dire che gli studenti poi imparino effettivamente qualcosa» dice Diane Bunce, professoressa di Chimica della Catholic University: «L'apprendimento non è qualcosa che si materializza nello spazio fisico tra insegnante e alunni. Apprendimento è qualcosa che deve scattare nella mente degli studenti». La rivolta contro la "lecture", cioè la lezione tradizionale tenuta dalla cattedra, per la verità viene da lontano. L''active le arning" è una parola d'ordine lanciata già nel 1991 da due pedagogisti: Charles C. Bonwell e Jame sA. Eison. Che con il candore tipico di certa manualistica americana già allora sottolineavano: «L'analisi della letteratura sull'argomento suggerisce che gli studenti in classe non dovrebbero solo ascoltare: ma leggere, scrivere, discutere ed essere impegnati nella risoluzione dei problemi». Fa quasi sorridere, oggi, la citazione di un'altra ricerca: «Se i membri di una facoltà permettono agli studenti di consolidare i propri appunti, fermandosi tre volte per due minuti durante ogni lezione, gli studenti impareranno una quantità maggiore di informazioni». Ma c'è poco da ridere quando si raffrontano le raccomandazioni di vent'anni fa con le conclusioni di oggi. Gli ultimi numeri dimostrano che l'attenzione degli studenti crolla dopo i primi dieci minuti trascorsi a lezione. Che la maggior parte dei ragazzi conserva non più del 20 per cento delle informazioni assorbite durante la lezione. E che sempre più studenti che non partecipano alla lezione ex cathedra finiscono per figurare bene agli esami quanto quei secchioni che si sono sorbiti ogni singola sessione. Eppure i professori non mollano la cattedra. Provate a fare un giro online. Perfino oggi che le lezioni si tengono via web il modello è sempre quello: il bla bla bla dal podio. Scaricate una lezione da iTunesU: anche nell'università virtuale diApplei199 per cento dei video vi riproporrà il professorone di turno che recita la brava lezioncina. «È il modello ormai inveterato» dice il fisico di Harvard Eric Mazur: «Il professore apre il suo bel libro e comincia a leggere. Un insulto all'intelligenza». Mazur è uno di quelli che spinge per la "peer instruction": gli studenti rispondono alle questioni che lui solleva durante la lettura e la lezione stessa così prende forma nuova. "Clickers" si chiamano invece quegli apparecchietti da 40 dollari che sempre più facoltà distribuiscono agli studenti: per tenere sveglia l'attenzione il prof fa una domanda e quelli rispondono col click. Dice l'esperto Mike Silagadze all'Huffington Post che ormai il 10 per cento delle università usano questi clickers. Ma non basta. Eppure la soluzione sarebbe sotto gli occhi. Ormai il 95 per cento degli studenti possiede un telefonino o un tablet: cosa si aspetta a far salire in cattedra lo strumento più diffuso che c'è? Perfino la Casa Bianca sta studiando un piano per utilizzare i videogame all'Università. E sempre la Apple ha lanciato i primi testi universitari interattivi: da studiare naturalmente sull'iPad. Ma non lasciatevi prendere troppo dall'entusiasmo. Un conto sono novità ed eccezioni: dagli Usa all'Italia il modello imperante continua a essere però quello ex cathedra. Ricordate "L'Attimo Fuggente"? Oh capitano mio capitano: e a uno a uno gli studenti salivano in piedi sui banchi per salutare il professor Robin Williams che li aveva iniziati, coinvolgendoli, alla poesia. Ma prima di tutto quello era, appunto, un film. E perfino lì, poi, il professore coraggioso veniva licenziato. Mentre chi ti restava in classe? Il solito prof trombone: ben piantato ex cathedra. GRUPPI DI STUDIO Le lezioni show davanti a centinaia di studenti non servono: è meglio suddividere le classi in gruppi di studio da 20 o 50 persone I "CLICKER" Sono apparecchi usati nel 10% delle università per mantenere l'attenzione: gli studenti rispondono con un "click" alle domande dei prof FALLIMENTO Gli studenti Usa memorizzano solo il 20% delle nozioni, la loro attenzione in aula dura 10 minuti Tanto che, dopo due anni, un terzo lascia l'Università La vecchia lezione non paga più: un terzo delle matricole sceglie una materia scientifica ma scappa dopo 2 anni ______________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Feb. ’12 ALL'UNIVERSITÀ UN ANNO PRIMA PER ESSERE COMPETITIVI IN EUROPA di RICARDO FRANCO LEVI Caro direttore, nell'ultima riunione del Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica, il governo ha deciso di stanziare 556 milioni di euro per l'edilizia scolastica. Bene. Anzi, benissimo. È nella scuola, prima e più che in ogni altro luogo o istituzione, che si trasmettono l'attitudine all'apprendimento e le conoscenze indispensabili al pieno sviluppo della persona umana e alla crescita dell'intera collettività. Per questo, pur nella consapevolezza che la prima urgenza è quella di difendere l'occupazione e la continuità dei servizi offerti agli alunni e alle famiglie, l'attenzione dei tanti che con intelligenza e passione continuano a dedicarsi ai problemi dell'istruzione si concentra su questioni cruciali come l'autonomia scolastica, la valutazione dei risultati, il reclutamento e la valorizzazione del ruolo degli insegnanti, troppo spesso eroi dimenticati di un Paese distratto. Ma questo non può bastare. Consideriamo le grandi emergenze dell'Italia: le disuguaglianze, la scarsa mobilità sociale, il divario tra Nord e Sud, la criminalità, l'insufficiente e penalizzata partecipazione delle donne al lavoro, la difficile integrazione degli immigrati, gli squilibri tra offerta e domanda nel mercato del lavoro, il ridotto contenuto d'innovazione delle nostre produzioni. E valutiamo, a fronte di queste sfide, quale può essere il contributo offerto dalla scuola, quale il disegno del suo necessario rinnovamento, quali gli interventi concreti da attuare, quali, infine, i tempi da programmare. Guardando alle migliori esperienze europee e riprendendo idee e proposte già avanzate in passato da altri (un nome tra tutti, quello dell'ex ministro Luigi Berlinguer), ecco i punti essenziali, da considerare come un pacchetto unitario, di un possibile progetto di rinnovamento della scuola, non problema ma grande risorsa del Paese. 1. Riduzione da tredici a dodici degli anni di scuola. Così facendo, metteremo i nostri giovani su un piano di parità con i loro coetanei europei che già oggi in molti Paesi dell'Unione sono tenuti a compiere solo dodici anni di scuola e godono di un anno di vantaggio nell'accesso all'università e al mondo del lavoro rispetto ai coetanei italiani. 2. Ingresso nella scuola primaria all'età di cinque e non più di sei anni. Portando sotto la protezione della scuola con un anno d'anticipo tutti i bambini, e soprattutto quelli che a cinque anni, in molte regioni, stanno non in un'aula ma in una strada, si contribuirà a ridurre una grave fonte di ineguaglianza e di ingiustizia. L'anticipo potrà, per di più, essere decisivo nell'agevolare l'impegno per l'estensione della cura e dell'educazione dei bambini da zero a cinque anni, l'età cruciale per ridurre gli svantaggi che derivano dalle diverse condizioni sociali ed economiche delle famiglie. 3. Sulla base dei cinque anni come età per l'ingresso nella scuola e dei dodici del percorso scolastico complessivo, innalzamento a diciassette anni dell'obbligo scolare. Il completamento del percorso scolastico di dodici anni sia condizione per l'ingresso all'università, mentre i diciassette anni siano l'età minima per il lavoro. 4. Reinvestimento obbligatoriamente nella scuola di tutte le risorse (umane, materiali, finanziarie) liberate dal risparmio di un anno scolastico. Nel quadro di un impegno nazionale al risanamento dei conti pubblici, trovare dentro la scuola risorse importanti da destinare al suo rinnovamento è un atto di responsabilità e di realismo. Impedire che quanto la scuola risparmia vada dirottato verso altri usi è un dovere. A questo stadio della proposta è opportuno lasciare indefinita la scelta su come e dove tagliare il tredicesimo anno di scuola. Chiari sin d'ora devono essere, invece, due grandi obiettivi educativi: l'iniezione di una dose massiccia di sapere scientifico e matematico nei programmi per l'intero percorso scolastico; la cura, la valorizzazione e persino la nobilitazione dell'istruzione tecnica. In un'epoca nella quale la competizione tra Paesi e continenti si basa sulla capacità di collocarsi e di mantenersi sulle frontiere più avanzate dell'innovazione, l'Italia non può privarsi delle conoscenze e delle competenze indispensabili per reggere la sfida. Deputato Pd, membro della Commissione cultura, scienza e istruzione RIPRODUZIONE RISERVATA ______________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Feb. ’12 QUEGLI INGEGNERI CHE CURANO LE MALATTIE Le aziende che assumono i profili biomedici Sono molto apprezzati gli ingegneri biomedici. Grazie a nuove applicazioni impensabili qualche anno fa, hanno aperto spiragli a patologie ad alto rischio. L'impegno della nostra forza lavoro lo conferma Stefano Rimondi, presidente di Assobiomedica: «La ricerca italiana è competitiva nel mondo e il nostro obiettivo è quello di creare partnership più strette tra mondo accademico e imprese». La vitalità del comparto si avverte, poi, da un buon numero di aziende: cercano nuove risorse. TBS Group, ad esempio, è presente in 12 Paesi e l'85% delle risorse occupate ha un contratto a tempo indeterminato. L'Italia rappresenta il 65,4% dei ricavi (il resto d'Europa il 33,8%, Extraeuropa lo 0,8%) e, nel 2012, il gruppo prevede 130 assunzioni. Di queste, oltre 30 in Italia per coprire le unit Medical Equipment & Devices ed e- Health & e-Government. «Il recruiting per noi è bifronte — nota l'amministratore delegato Diego Bravar —. E' vero che il target rimane sui laureati in ingegneria biomedica ma si accentua anche su quelli esperti di rete». Poi Gambro Spa che, nel distretto biomedicale del modenese, studia prodotti e terapie per centri dialisi/unità di terapia intensiva. Ha in corso la selezione per 20 laureati in discipline scientifiche e ingegneria. Verranno inseriti con urgenza, nello stabilimento di Sondalo in Valtellina, 4 chimici di laboratorio/esperti di qualità con qualche anno di esperienza (www.gambro.com/ en/italy/About-Gambro/Careers/Open- job-positions/).A sua volta, ingegneria Biomedica Santa Lucia ha chiuso il 2011 con +12% di fatturato e, per il prossimo esercizio, stima un +15%. Offre soluzioni per gestire apparecchiature biomediche/scientifiche e sale operatorie, oltre a servizi di supporto alla farmacia ospedaliera e al reparto terapie ad personam. Ha 50 posizioni lavorative aperte: 30 laureati in ingegneria biomedica/informatica e 20 in farmacia Ctf. St Jude Medical, invece, ha messo a punto una linea di defibrillatori per il trattamento non farmacologico dello scompenso cardiaco: è il ritrovato per pazienti refrattari ai farmaci ed affetti da gravi aritmie. Seleziona 6 laureati in ingegneria biomedica da destinare al supporto tecnico e alla vendita. Anche Medtronic, da sempre impegnata nella ricerca e sviluppo per la chirurgia spinale, il controllo del dolore e del Parkinson, ha sviluppato nuove soluzioni per i problemi cardiovascolari. L'ultima si chiama Simplicity ed è impiegata per trattare l'ipertensione resistente ai farmaci. Le «job openings» sono 20 e riguardano neolaureati in area scientifica: technical consultant etherapy specialist per lo sviluppo di linee ad hoc. Promuove non stop la formazione Instrumentation Laboratory. Specializzata nella diagnostica in vitro, recluta 10 talenti con lauree di tipo scientifico ed ha appena varato il Master IL su modello di quelli proposti dalle Business School. Il Master (coinvolge le risorse «pronte» al training) dura un anno e i docenti sono il top management dell'azienda. L'obiettivo è sviluppare nei giovani le capacità manageriali, alimentare la corporate identity, trasferire il know how dal top ai ruoli in cascata. Laura Bonani _________________________________________________ Italia Oggi 14 Feb.’12 C'È UN BOOM DI CORSI SU INTERNET Tutte le università francesi hanno un sito web con molte lezioni gratuite a disposizione L'utilizzatore tipo è di alto livello e spesso è in pensione DI MASSIMO GALLI In Francia è in forte crescita il fenomeno dei corsi via internet. Ormai tutte le università hanno un sito web dedicato all'insegnamento e molte lezioni sono gratuite. I dati del ministero dell'istruzione superiore, che ha finanziato la formazione di 2 mila insegnanti specializzati nel settore, dicono che il numero di corsi è più che raddoppiato tra il 2009 e il 2010, passando da 12 mila a 30 mila. E, stando agli addetti del comparto, questa cifra è senz'altro aumentata da allora. L'utilizzatore tipo dei corsi online è il pensionato, oppure l'ingegnere che vuole accedere a contenuti scientifici di alto livello. Così, a Parigi-I, le più gettonate sono le lezioni di diritto di Michel Verpeaux, adattate e registrate in studio, che vengono scaricate dagli intemauti a casa loro. All'ateneo Rennes-II gli studenti vanno matti per i video sulle arti dello spettacolo e per i corsi sullo tsunami di Hervé Régnauld, docente di geografia fisica. Gli argomenti di attualità attirano parecchi curiosi, che cercano spiegazioni approfondite. In vetta alla classifica di chi realizza più corsi su internet è l'ateneo di Parigi-X con 5.164 ore nel 2010. Seguono Parigi-V con 4.877 ore, Poitiers con 3.100, Parigi-VI con 1.750 ore e Versailles- Saint Quentin con 1.502. Sono oltre mille i docenti di Parigi-I a ricorrere al web per presentare elementi che completano l'insegnamento tradizionale; nel 2006 erano soltanto 150. Ormai sono sempre meno i professori restii ad abbracciare questa novità. Quelli che resistono adducono come motivazione il rischio di plagio del loro lavoro; altri temono che gli studenti non vadano più a lezione in università e che le aule restino deserte. In realtà, secondo Benoit Roque, direttore aggiunto delle nuove tecnologie all'università di Parigi-I, la disponibilità gratuita del materiale permette di combattere un mercato in nero che tende a svilupparsi sempre più: i corsi a pagamento venduti da studenti ad altri studenti. Ciò riguarda soprattutto le discipline giuridiche e mediche. I responsabili del servizio assicurano che le lezioni online sono di completamento e non sostituiscono quelle in aula. Esse, inoltre, risultano molto utili a persone portatrici di handicap e agli studenti lavoratori. Questa pratica è stata ispirata dal Mit, l'istituto universitario americano focalizzato sulla tecnologia. Roque osserva che si parte dal principio che più le risorse sono diffuse, più gli insegnanti possono proporre corsi di qualità superiore: i contenuti sono via via perfezionabili da parte degli autori. Un altro vantaggio è che migliora l'immagine dell'ateneo. La Scuola centrale di Lione ha deciso di valorizzare il lavoro dei docenti e dei ricercatori ispirandosi al modello delle conferenze californiane via Internet: giudicate di ottima qualità, esse sono seguite da milioni di persone. Una lezione trasmessa con questa modalità, sottolineano gli addetti ai lavori, è in grado di dare visibilità internazionale ai docenti e coinvolge un pubblico che diversamente non si sarebbe potuto raggiungere. _________________________________________________ Il Sole24Ore 17 Feb.’12 TROPPE REGOLE, POCA RICERCA Sistema competitivo solo senza vincoli, nobili ma ormai datati di Atessandro Schiesaro Sul Sole dello febbraio Mauro Ceruti e Stefano Paleari, accademico e autorevole esponente del Pd il primo, rettore di Bergamo nonché segretario generale della Crei il secondo, propongono un modello di gestione dell'Università italiana fondato su "un quadro di regole", generali e snelle, all'interno del quale gli atenei possano competere e soprattutto collaborare. Lo Stato, per parte sua, rinuncerebbe a gestire per impegnarsi invece a regolare con mano abbastanza leggera, per esempio lasciando libertà di manovra sulla remunerazione dei docenti o limitandosi a fissare un tetto massimo per le rette. Si tratta di un modello attraente, del quale però gli autori non mettono in luce i presupposti indispensabili per renderlo praticabile. Il modello che Ceruti e Paleari propugnano è nei fatti quello britannico, dove lo Stato autorizza sì gli atenei a operare e li valuta periodicamente, ma poi nulla prescrive su come debbano essere gestiti, men che meno per quanto riguarda il reclutamento e il trattamento economico dei professori e, appunto, determina il limite massimo per la contribuzione studentesca. È uno schema di tipo contrattualistico, in cui le Università accettano le regole e la valutazione solo se vogliono accedere ai finanziamenti pubblici, restando in teoria libere di ignorare le une e l'altra se ritengono di potersi finanziare da sole. Quel modello si regge su un presupposto fondamentale: le Università del Regno Unito sono fondazioni private riconosciute dallo Stato, non organismi di diritto pubblico come le loro consorelle italiane. Ne consegue ovviamente che, in quel Paese, i docenti non sono funzionari pubblici e la loro carriera si svolge invece nel rispetto di un contratto di riferimento concordato tra le parti a livello nazionale (i rettori da un lato, i sindacati di settore dall'altro) che viene poi declinato con flessibilità sede per sede e caso per caso: tanto flessibile, infatti, da permettere lo sviluppo di un sistema terziario articolato in oltre 300 istituzioni diversissime tra loro, alcune delle quali svettano nelle classifiche internazionali della ricerca, altre offrono una risposta concreta alla richiesta crescente di formazione continua, altre ancora combinano didattica e ricerca. Modello per molti aspetti attraente, si diceva, ma impossibile da esportare a pezzi illudendosi che esistano scorciatoie: il sistema tolemaico e quello copernicano non sono compatibili. All'interno del primo si possono introdurre correttivi e migliorie, senza per questo vederlo trasformare nel suo opposto. L'Università fatta di dipendenti pubblici impone che sia la legge a regolare minuziosamente le forme di reclutamento e promozione, gli stipendi, gli scatti premiali, le afferenze e mille altri dettagli che nelle realtà "copernicane" sono assolutamente slegate dalla legislazione nazionale. Davvero si potrebbe lasciare discrezionalità retributiva agli atenei in un sistema come il nostro, dove sono ancora sub iudice concorsi vecchi di vent'anni, e dove i professori ricorrono al Tar anche solo per lo spostamento da un ufficio a un altro, o (è appena successo), per il cambio di denominazione di una facoltà? Dove contratti di pochi euro sono soggetti alvisto preventivo della Corte dei Conti neppure regionale, ma nazionale? O dove il primo dei due regolamenti sull'abilitazione scientifica, di carattere logistico e organizzativo, è approdato in Gazzetta undici mesi dopo il varo da parte del Governo, essenzialmente perché gli organi di controllo trovavano inaccettabile, correndo l'anno 2011, che le pubblicazioni dovessero essere trasmesse solo in formato elettronico? (Nel resto del mondo le pubblicazioni, in genere, neppure si mandano: esistono le biblioteche). L'alternativa, va detto subito, non è un Far West deregolato e selvaggio: i diritti e le tutele dei docenti, per citare solo il tema più delicato, sono il cuore di qualunque sistema universitario, anche il più flessibile e deregolato. Il dibattito che ha accompagnato la gestazione e il varo della riforma dell'Università nel 2008-2010 ha messo da parte questo spinosissimo problema di fondo, preferendo enfatizzare, soprattutto per esigenze di visibilità politica, soluzioni divergenti su singoli punti, ma tutte ancorate a un paradigma teorico che era esattamente lo stesso sia nel disegno di legge del Governo che in quello del Pd. C'erano, e in parte permangono, validi argomenti per ritenere che l'Università italiana non fosse pronta al big bang, primo fra tutti l'assenza, fmo a poco tempo fa, di strumenti e meccanismi per la valutazione dei risultati. Prima o poi bisognerà però decidere, come Paese, se pensiamo che un sistema universitario e della ricerca qualificato, multiforme e dinamico come •il nostro possa davvero fiorire e competere al meglio a livello internazionale restando ingessato in un sistema di regole che vanta origini nobili ma nel complesso datate. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Feb. ’12 TROPPI PREGIUDIZI VERSO LE SCIENZE UMANE di TULLIO GREGORY I l Consiglio di amministrazione del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) — senza presidente, nominato solo ieri — ha ritenuto opportuno avviare nei giorni scorsi la riforma dei Regolamenti dell'Ente in attuazione del nuovo Statuto, decidendo su quello che è forse il punto più delicato: il numero e la natura dei Dipartimenti ai quali dovranno affluire i singoli istituti scientifici. Lo Statuto prevedeva la riduzione del loro numero e il Cda ha scelto il numero massimo consentito, sette dipartimenti, definendo raggruppamenti disciplinari che destano non poche perplessità: soprattutto si è perduta l'occasione di fare chiarezza e dare giusto risalto alle scienze umane, approfondendo invece la confusione già in atto con la riforma del 2005 e accentuandone la marginalizzazione. Se allora le discipline umanistiche erano state accorpate nel dipartimento Identità culturale, tenendole però distinte dalle discipline archeologiche, storico-artistiche e tecnologie di restauro (dipartimento Patrimonio culturale), oggi il Cda ha deciso di fondere tutte queste discipline sotto il titolo, forse provvisorio, certo pasticciato, di «Scienze umane e sociali, patrimonio culturale». Gli altri dipartimenti sono: Scienze biomediche; Scienze fisiche e tecnologie della materia; Scienza del sistema terra e tecnologie per l'ambiente; Scienze chimiche e tecnologie dei materiali; Ingegneria, ICT e tecnologie per l'energia e i trasporti; Scienze bio-agroalimentari. Così, mentre per gli istituti scientifici si sono rispettati e distinti alcuni grandi comparti disciplinari, nel dipartimento Scienze umane e sociali, patrimonio culturale si trovano insieme discipline che vanno dall'archeologia micenea al diritto comunitario europeo, dalla sociologia alle tecniche di restauro, dalla papirologia alla psicologia, dall'economia alla linguistica. Nessun rappresentante delle scienze dette «dure» avrebbe mai proposto di accorpare l'agroalimentare con la tecnologia dei materiali, le scienze della terra con la neurofisiologia. In realtà agli occhi di molti scienziati «duri» le discipline umanistiche costituiscono un magma indistinto, senza metodo scientifico rigoroso, senza prodotti brevettabili. L'insofferenza, se non l'opposizione, di alcuni ambienti del Cnr per le scienze umane è di antica data. Come è noto tali scienze entrarono nel Cnr con la riforma del 1963: esse afferivano a tre comitati di consulenza su undici; inoltre erano presenti in quattro comitati interdisciplinari, con particolare peso in quello relativo al patrimonio culturale. Tuttavia, dopo la riforma avviata frettolosamente da Giovanni Berlinguer con la soppressione dei comitati nazionali, durante il commissariamento dell'ente, fu presentata in ambienti politici la proposta di eliminare dal Cnr le scienze umane e si ripiegò poi sulla proposta di ridurle tutte in un unico dipartimento Patrimonio culturale. Fu l'intervento dei consiglieri del presidente Ciampi e di alcuni uomini politici e di cultura a garantire l'istituzione di due dipartimenti su undici: Identità culturale e Patrimonio culturale. Questo avvenne nel 2005. Anche due dipartimenti sono apparsi troppi all'attuale Cda che ha voluto abbassare il rapporto fra scienze «dure» e scienze umane, con il prevedibile abbassamento delle quote di bilancio proporzionalmente ripartite. Difficile comprendere i criteri scientifici che hanno portato così a costituire un unico dipartimento, coacervo di discipline caratterizzate da metodi scientifici e oggetti di ricerca inafferenti fra loro. Pure l'importanza e il valore delle scienze umane nel Cnr è stato fortemente sottolineato dal comitato internazionale di valutazione istituito dall'ente: fra tutti i classificati ai primi posti per originalità di ricerche e importanza di risultati; valutazione che peraltro rispecchia il prestigio degli studi umanistici italiani sul piano internazionale. Forse anche questo risultato non è piaciuto a qualcuno e c'è solo da sperare che il nuovo presidente, Luigi Nicolais, vorrà restituire perduti equilibri e distinzioni disciplinari che sono il presupposto per quella «interazione di saperi positivi» alla quale ha sempre tenuto. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 19 Feb. ’12 NIENTE CULTURA, NIENTE SVILUPPO Cinque punti per una «costituente» che riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione Occorre una vera rivoluzione copernicana nel rapporto tra sviluppo e cultura. Da "giacimenti di un passato glorioso", ora considerati ingombranti beni improduttivi da mantenere, i beni culturali e l'intera sfera della conoscenza devono tornare a essere determinanti per il consolidamento di una sfera pubblica democratica, per la crescita reale e per la rinascita dell'occupazione. 1. Una costituente per la cultura Cultura e ricerca sono due capisaldi della nostra Carta fondamentale. Le riflessioni programmatiche che proponiamo qui cercano di mettere a punto alcuni elementi «Per una costituente della cultura». L'articolo 9 della Costituzione «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Sono temi saldamente intrecciati tra loro. Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi strettamente economico. Niente cultura, niente sviluppo. Dove per "cultura" deve intendersi una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza. E per "sviluppo" non una nozione meramente economicistica, incentrata sull'aumento del Pil, che si è rivelato un indicatore alquanto imperfetto del benessere collettivo e ha indotto, per fare solo un esempio, la commissione mista Cnel-Istat a includere cultura e tutela del paesaggio e dell'ambiente tra i parametri da considerare. La crisi dei mercati e la recessione in corso, se da un lato ci impartiscono una dura lezione sul rapporto tra speculazione finanziaria ed economia reale, dall'altro devono indurci a ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo. 2. Strategie di lungo periodo Se vogliamo davvero ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un'idea di cultura sopra le macerie che somigliano assai da vicino a quelle da cui è iniziato il risveglio dell'Italia nel secondo dopoguerra, dobbiamo pensare a un'ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione dei saperi, delle culture, puntando in questo modo sulla capacità di guidare il cambiamento. La cultura e la ricerca innescano l'innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo. La cultura, in una parola, deve tornare al centro dell'azione di governo. Dell'intero Governo, e non di un solo ministero che di solito ne è la Cenerentola. È una condizione per il futuro dei giovani. Chi pensa alla crescita senza ricerca, senza cultura, senza innovazione, ipotizza per loro un futuro da consumatori disoccupati, e inasprisce uno scontro generazionale senza vie d'uscita. Anche la crisi del nostro dopoguerra, a ben vedere, fu affrontata investendo in cultura. Le nostre città, durante quella stagione, sono state protagoniste della crescita, hanno costruito "cittadini", e il valore sociale condiviso che ne è derivato ha creato una nuova cultura economica. Ora le sfide paiono meno tangibili rispetto alle macerie del dopoguerra, ma le necessità e la capacità di immaginare e creare il futuro sono ancor più necessarie e non rinviabili. Se oggi quelle stesse città che sono state laboratori viventi sembrano traumatizzate da un senso di inadeguatezza nell'interpretare le nuove sfide, ciò va ascritto a precise responsabilità di governo e a politiche e pratiche decisionali sbagliate. Negli ultimi decenni nel nostro Paese – a differenza di altri, Francia, Germania, Stati Uniti oltre a economie recentemente "emerse" – è accaduto esattamente l'inverso di ciò che era necessario. Si è affermata la marginalità della cultura, del suo Ministero, e dei Ministeri che se ne occupano (Beni e Attività Culturali e Istruzione, Università e Ricerca) considerati centri di spesa improduttiva, da trattare con tagli trasversali. 3. Cooperazione tra i ministeri Oggi si impone un radicale cambiamento di marcia. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte dell'intero Governo, significa che la strategia e le conseguenti scelte operative, devono essere condivise dal ministro dei Beni Culturali con quello dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e con il Presidente del Consiglio. Inoltre il ministero dei Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in stretta coordinazione con quelli dell'Ambiente e del Turismo. Non si tratta solo di una razionalizzazione di risorse e competenze, ma dell'assunzione di responsabilità condivise per lo sviluppo. Responsabilità né marginali né rinviabili. Se realisticamente una vera integrazione degli obiettivi sembra difficile date le strutture relative di potere di ogni ministero e la complessità di azione propria dei ministeri stessi, tuttavia questo non deve diventare un alibi per l'inazione. Al contrario: esso deve imprimere il senso della necessità di favorire ogni forma di sperimentazione possibile che vada nella direzione di una cooperazione tra ministeri, oltre che ripristinare i necessari collegamenti tra Nord e Sud, tra centro e periferie. Si tratta di promuovere il funzionamento delle istituzioni mediante la loro leale cooperazione, individuando e risolvendo i conflitti a livello normativo (per esempio i conflitti Stato-Regioni per le norme su ambiente e paesaggio). 4. L'arte a scuola e la cultura scientifica È importante che l'azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all'università, lo studio dell'arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per la creatività del futuro. Per studio dell'arte si intende l'acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell'arte. Ciò non significa rinunciare alla cultura scientifica, che anzi deve essere incrementata e deve essere considerata, in forza del suo costitutivo antidogmatismo, un veicolo prezioso dei valori di fondo che contribuiscono a formare cittadini e consumatori dotati di spirito critico e aperto. La dicotomia tra cultura umanistica e scientifica si è rivelata infondata proprio grazie a una serie di studi cognitivi che dimostrano che i ragazzi impegnati in attività creative e artistiche sono anche i più dotati in ambito scientifico. 5. Merito, complementarità pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale Una cultura del merito deve attraversare tutte le fasi educative, formando i nuovi cittadini all'accettazione di precise regole per la valutazione dei ricercatori e dei loro progetti di studio. Non manca il merito, nei percorsi italiani di formazione. Lo dimostra il crescente successo di giovani educati in Italia che trovano impiego nelle più prestigiose università di ricerca in tutto il mondo. Ma finché non riusciremo ad attrarre altrettanti "cervelli" dall'estero, questo saldo passivo dissanguerà la nostra scienza e la nostra economia. È necessario, riguardo a ognuno degli aspetti trattati, creare le condizioni per una reale complementarità tra investimento pubblico e intervento dei privati, che abbatta anche questa falsa dicotomia. È la mancata centralità della cultura per lo sviluppo che ha portato a normative fiscali incoerenti e inefficaci. La complementarità pubblico/privato, che implica una forte apertura all'intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa e non presentarsi solo in episodi isolati. Può nascere solo se non è pensata come sostitutiva dell'intervento pubblico, ma fondata sulla condivisione con le imprese e i singoli cittadini del valore pubblico della cultura. Si è osservato in questi anni che laddove il pubblico si ritira anche il privato diminuisce in incisività, mentre politiche pubbliche assennate hanno un forte potere motivazionale e spingono anche i privati a partecipare alla gestione della cosa pubblica. Provvedimenti legislativi a sostegno dell'intervento privato vanno poi ulteriormente sostenuti attraverso un sistema di sgravi fiscali (in molti Paesi persino il biglietto per un museo o un teatro è detraibile). Misure di questo genere ben si armonizzano con l'attuale azione di contrasto all'evasione a favore di un'equità fiscale finalizzata a uno scopo comune: il superamento degli ostacoli allo sviluppo del Paese. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 Feb. ’12 UNIVERSITÀ: SE PER I LAUREATI «3+2» FA 6,5 Ma quanto fa 3 + 2 ? Il dibattito scaturito dall'affermazione colorita del viceministro Martone («Laurearsi dopo i 28 anni è da sfigati») ha assunto i toni classici del confronto para-ideologico evitando accuratamente il "principio di realtà". Il problema della durata degli studi interseca direttamente quello della occupazione giovanile che è oggi un problema anche dell'Università. L'attività di "placement" si è infatti andata ad aggiungere alle mansioni storiche dell'Università, la formazione e la ricerca, e a quella più recente del "fund raising" indispensabile per sostenerla. Se così è, allora qualche domanda in più sui temi (scomodi) delle scelte degli studenti e della durata degli studi dovremo pure cominciare a porcela. Lasciamo da parte, per ora, la domanda più difficile: quella del "cosa studiare?". Difficile perché la risposta è nell'ambito delle scelte individuali, delle attitudini, e delle speranze (ma una società colta e organizzata qualche indirizzo dovrebbe fornirlo...) e perché, oggettivamente, viviamo un'epoca di cambiamenti esponenziali che rendono difficile sapere quale formazione specifica servirà tra cinque anni, in che lingua, e per essere esercitata dove. Un problema enorme che dovrebbe portarci a riflettere sui contenuti della formazione, e sulla "durata" delle conoscenze che impartiamo. Più semplice (si fa per dire) è affrontare la domanda sulla durata degli studi. Come dimostrano i dati forniti da AlmaLaurea per i tre livelli del Bologna Process, in Italia 3 + 2 non fa 5 ma circa 6,5, cioè la somma della laurea triennale e quella della laurea magistrale in media fa quasi due anni in più. E se si considera il terzo livello, 3 + 2 + 3 non fa 8 ma più di 10, anche al netto degli iscritti in ritardo all'immatricolazione. È pur vero che gli stessi dati di Alma Laurea mostrano una situazione molto migliore dopo l'adozione del Bologna Process (checché ne dicano i perpetui detrattori...) dai tempi in cui lauree di 4 anni diventavano di 7, ma rimane pur sempre il fatto che i nostri laureati sono mediamente troppo vecchi, e comunque mediamente più vecchi dei laureati di altri Paesi europei. Da dove viene questo ritardo? Certamente c'è un aspetto di autonomia delle scelte degli studenti che va rispettato così come va rispettato il tempo che è richiesto a chi nel frattempo deve anche lavorare, ma qualche "causa tecnica" c'è e andrebbe considerata. Le tre sessioni d'esame, per esempio. Ha senso, per capirci, che uno studente abbia sessioni di esami, incluso quello di laurea, nell'anno solare successivo a quello nominale o di conclusione degli studi pur rimanendo in corso? Un laureato triennale che si laurea "in corso" ma nel quarto anno, a primavera, si iscriverà un anno dopo rispetto al percorso nominale. Se ripeterà lo stessa cosa con la laurea magistrale, laureandosi "in corso" in tre anni solari e non in due, avrà generato altro ritardo, senza per questo essere né asino né altro – magari anche bravissimo. Se poi dovrà attendere altri mesi per il concorso di dottorato e magari discutere la tesi dottorale nel quarto anno ecco che il nostro dottore di ricerca tipo, magari bravo anzi bravissimo, finisce gli studi a...trent'anni. Più difficile a quel punto entrare nel mercato del lavoro. In fondo la riforma del 3+2 è stata "calata" sulla impalcatura delle vecchie lauree mantenendone alcune caratteristiche organizzative incongruenti con un sistema che prevede una tesi di laurea triennale intermedia e una reiscrizione a un corso di studi nella stessa sede universitaria o in un'altra. Non tutti i problemi sono qui, è vero. Ma il sistema delle tre sessioni di esame e di laurea genera "ritardi tecnici" perché – se pur è vero che molti riescono a stare al passo - sia i docenti sia gli studenti tendono a organizzare contenuti formativi ed esami di profitto su una base allargata generando frammentazione, aumento del numero di esami veri (non quelli nominali), esami trial-and-error, e dilatazione dei tempi di tesi. Forse è ora di guardare anche a questi aspetti del nostro sistema universitario. Immettere laureati e dottori più giovani nel mercato del lavoro può voler dire, anche se sembra strano di questi tempi, accrescerne la impiegabilità e la competitività. Prorettore alla Ricerca dell'Università di Bologna _________________________________________________ La Repubblica 15 Feb.’12 I TAGLI DI OBAMA RISPARMIANO LA RICERCA Nel nuovo budget austerity in tutti i settori, ma un 5% in più per innovazione e istruzione "Scienza e tecnologia fanno la differenza" DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FEDERICO RAMPINI NEW YORK — Priorità all'istruzione, alla scienza e all'innovazione. Lo dicono tutti, poi arriva l'austerity e la scure si abbatte senza pietà. Salvo in America. Caso raro di un governo che mantiene (alcune) promesse: scrutando nelle pieghe dell'ultimo bilancio federale, si scopre che le priorità sono davvero rimaste quelle. Anche a costo di scontentare lobby potenti come il complesso militar-industriale. «La scienza e la tecnologia - ha detto Barack Obama - sono in grado di fare la differenza, per il benessere di questa nazione nel lungo termine». Detto fatto, nel nuovo budget federale 20122013 ci sono tagli per quasi tutti i settori, ma gli investimenti in ricerca e sviluppo a scopi civili fanno eccezione. Più 5% netto, 65 miliardi di dollari. Uno degli strumenti prediletti da Obama è la National Science Foundation (Nsf), il cui fondo di dotazione sale anch'esso de15% a7,4 miliardi: più del 40% viene erogato a gran velocità e finisce direttamente a disposizione dei ricercatori nelle università, compresi gli scienziati early career (a inizio carriera) e i neolaureati che intraprendono progetti di ricerca. Tra i progetti sperimentali che ricevono finanziamenti aggiuntivi, spiccano quelli che hanno a che vedere con la difesa dell'ambiente: una proliferazione senza precedenti di nuovi osservatori oceanografici, e una rete di "stazioni di monitoraggio" dell'inquinamento. Poi ci sono fondi speciali per migliorare la qualità dell'insegnamento nelle discipline scientifiche (49 milioni), e addestrare una nuova generazione di scienziati (mezzo miliardo). La National Science Foundation è un fiore all'occhiello tra le istituzioni federali che sostengono la ricerca, e Obama ha voluto rafforzarne il ruolo, ma è ben lun-gi Ball' essere l'unica. In realtà nel budget federale appena presentato dalla Casa Bianca i "regali" alla ricerca affluiscono da molti altri canali, anche meglio dotati. Nel campo biomedico, per esempio, la parte del leone la fanno i National Institutes ofHealth: per loro la dotazione complessiva rimane ferma a 30,7 miliardi annui, però salgono quei capitoli di spesa che sono esclusivamente destinati a finanziare la ricerca: +11%. Lo stesso vale p erun altro grosso serbatoio di finanziamenti che è il ministero dell'Energia. Diretto dal premio Nobel della fisica Steven Chu (di origine cinese), il Department of Energy avrà 457 milioni in più, fino a raggiungere 2,3 miliardi di dollari, per i soli fondi destinati alla ricerca. I progetti favoriti riguardano le nuove tecnologie edili che risparmiano energia, i veicoli a emissioni zero, l'innovazione nei processi industriali per migliorarne la sostenibilità ambientale. Sui complessivi 141 miliardi destinati alla ricerca nel bilancio di quest' anno, le uniche voci sacrificate sono nel settore militare e nell'esplorazione spaziale: la Nasa non figura tra le priorità di questa Amministrazione, che in tempi di austerity preferisce concentrare le risorse scarse verso la tutela dell'ambiente e della salute. L'altro settore che Obama ha voluto salvaguardare dai tagli è l'istruzione. Settanta miliardi di dollari, ovvero un incremento del 2,5%, per il Department of Education. Nella scuola, va ricordato che il ruolo maggiore lo svolgono i singoli Stati, causa l'assetto federale americano. L'Amministrazione centrale di Washington però ha il potere di usare i suoi fondi a scopo di incentivo, per premiare gli Stati più virtuosi. Obama ha lanciato così l'iniziativa "Race to the Top" (corsa verso la vetta), mirata ad innalzare gli standard accademici, migliorare la qualità dell'apprendimento, anche attraverso sistemi di retribuzione che premino i docenti più capaci. Gli Stati Usa che ottengono i risultati migliori vedono arrivare dei fondi aggiuntivi da Washington. Lo stesso vale per gli Stati che s'impegnano a garantire il diritto allo studio attraverso le borse per gli studenti che vengono da famiglie meno abbienti. Decolla l'iniziativa nuova che Obama aveva annunciato la settimana scorsa ospitando la Fiera della Scienza alla Casa Bianca: formare 100.000 professori in più per l'insegnamento della matematica e delle scienze dalle elementari alla secondaria superiore. A loro volta, questi 100.000 dovranno consentire all'America di aumentare del 30% il numero dei neolaureati in scienze e matematica che escono ogni anno dalle sue università. Il piano si estende lungo un decennio, intanto nel budget ci sono i primi 135 milioni di dollari relativi al biennio iniziale. Tra i beneficiati dalle "eccezioni all'austerity" figura quest'anno anche lo U.S. Patent and Trademark Office che ottiene 2,9 miliardi di risorse aggiuntive. Si tratta dell'ufficio federale dei brevetti: uno snodo cruciale per velocizzare il passaggio dall'invenzione nei laboratori universitari alla sua trasformazione in applicazione industriale. Infine 10 miliardi serviranno per accelerare la diffusione dell'accesso alla banda larga wi-fi: Obama è convinto che l'Internet senza fili sia «un ingrediente cruciale per la competitività del paese e l'efficienza della nostra economia». _________________________________________________ Libero 17 Feb.’12 LAUREATI D'ORO MA DISOCCUPATI IN USA FANNO CAUSA ALL'UNIVERSITÀ Il primo caso al mondo Un gruppo di 78 ex studenti di legge vuole un risarcimento milionario per truffa: «Abbiamo speso un patrimonio per studiare e adesso siamo senza lavoro» GLAUCO MAGGI NEW YORK La crisi economica morde negli Stati Uniti, e aguzza l'ingegno degli avvocati disoccupati nel trovare qualche fonte di guadagno. Così, 75 neolaureati americani in legge che non hanno per ora trovato un impiego hanno portato in tribunale le università che li avevano diplomati, con l'obiettivo di farsi rifondere le rette, come minimo, e magari qualche risarcimento morale per arrotondare. L'accusa è aver fornito dati fuorvianti sul numero di occupati tra chi ottiene il "pezzo di carta", cioè di aver millantato prospettive rivelatesi false. «Spendere 150.000 dollari per l'università è stato un pessimo investimento», ha commentato uno degli ex studenti della Brooklyn Law School in causa presso la Corte Suprema di Brooklyn. «Nonostante il mercato degli avvocati fosse saturo», ha aggiunto, «l'università ha continuato a promettere ottime prospettive lavorative per i futuri laureati». Adam Bevelacqua, diplomato nella stessa scuola un anno fa, ha detto al Wall Street Joumal che nel 2007, l'anno prima di iscriversi, il college «assicurava» nel suo materiale propagandistico che entro nove mesi dalla laurea il 94% degli iscritti avrebbe trovato un lavoro. Nel 2011, il tasso di impiego dei neolaureati è stato invece dell'87,6%, il più basso dal 1996, secondo la Associazione Nazionale per il Collocamento dei laureati in Legge. Solo il 68%, però, ha ottenuto un posto per il quale era anche richiesto il passaggio dell'esame da avvocato che abilita a difendere gli imputati in corte, ossia a fare il lavoro sognato. Un 27%, infine, è occupato ma con contratto a termine. I querelanti sostengono nelle loro cause che i diplomati ingaggiati a tempo pieno nella professione legale non arrivano al 60%. I dati si riferiscono agli studenti delle università di diversi stati (New York, California, Illinois, Delaware and Florida), selezionate sulla base «di una massiccia produzione di avvocati in rapporto alla popolazione, in aree urbane dove laureati di basso livello hanno inferiori possibilità di essere competitivi sul mercato del lavoro», ha spiegato David Anziska, avvocato che ha fatto cause a colleges a New York e nel Michigan, coordinandosi con altri studi a livello nazionale per costruire un impianto accusatorio comune. L'elenco delle scuole comprende AlbanyLaw School, Brooklyn Law School, Maurice A. Deane School of Law alla Hofstra University (la università di Bemie Madoff, il truffatore del secolo), Widener University School of Law, Florida Coastal School of Law, Chicago Kent College of Law, DePaul University College of Law, John Marshall Law School in Chicago, e Golden Gate University School of Law. Nessuna delle Ivy League (Princeton, Harvard, Yale, University of Pennsylvania, Columbia, Dartmouth, Comell e Brown), le università di eccellenza dove i 4 anni di college, più quelli delle specializzazioni, costano ognuno sui 55 mila dollari, più delle scuole querelate, è finita nel mirino degli avvocati disoccupati. E ciò riflette, oltre che la realtà di un mercato del lavoro che assorbe in base alla qualità dei titoli e dei meriti individuali, anche la indubbia creatività degli avvocati americani nello sfruttare l'iper garantistico sistema delle corti di giustizia C'è chi ha ottenuto del denaro da McDonalds come compenso per essersi scottato con il caffè che lo stesso querelante si era rovesciato addosso guidando l'auto. Vedremo come finirà l'improbabile causa (se troveranno il posto fra un anno, daranno indietro le rette?). Ma se è incerto l'esito legale, il fatto che giovani americani pretendano d'essere ripagati dalle università perché sono ancora a spasso dopo un anno dal diploma è un bel salto verso l'Europa. Obama sta lasciando il segno. Chissà, magari l'esempio darà una scossa agli italiani laureati nelle università statali ancora senza impiego. Non ci hanno ancora pensato perché le rette italiane sono una frazione, ma è il principio che conta. Titolo uguale posto assicurato, possibilmente fisso, alla faccia della economia reale. E mercato e meritocrazia, addio. _________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Feb.’12 IN EUROPA L'ATOMO NON È AL TRAMONTO INVERSIONE DI TENDENZA In tutto il mondo sembra rientrare la moratoria innescata un anno fa dall'incidente di Fukushima di Federico Rendina G uai a parlarne ufficialmente. Ma sussurrare (e intanto attrezzarsi) si può. A un anno dall'incidente in Giappone la moratoria o addirittura la smobilitazione nucleare che sembrava impossessarsi di mezzo mondo sta pian piano rientrando. Con la dovuta prudenza verbale, naturalmente. Ma i segnali sono evidenti. Francia e Inghilterra rendono evidente quel che era già sotto gnocchi degli osservatori. In Francia è stato pubblicato proprio la settimana scorsa un rapporto del Governo che raccoglie i "suggerimenti" già formalizzati qualche settimana fa dalla Corte dei conti francese: improponibile, per gli equilibri economici del Paese e per la stessa sicurezza energetica nazionale, pensare di ridimensionare la vocazione nucleare di un Paese che affida all'atomo oltre l'80% della sua produzione di elettricità. Ed ecco che il Governo francese suggerisce di prolungare intanto la vita degli impianti nucleari esistenti, poiché i nuovi reattori di terza generazione avanzata Epr stanno accumulando ritardi su ritardi e l'energia rinnovabile è ancora troppo debole e costosa. Che anche l'Inghilterra intendesse proseguire nel suo programma nucleare non era un mistero. Ma i segnali in questa direzione vengono un po' da tutto il mondo. In America, a 32 anni dal congelamento di tutti i nuovi piani di potenziamento della produzione elettrica da nucleare determinato dall'incidente di Three Mile Island, il 13 febbraio scorso la Nuclear Regulatory Commission ha riaperto le danze: via alla costruzione della centrale di Vogtle, in Georgia, dove Southern Company piazzerà due reattori APmoo da 1.100 megawatt l'uno. Serviranno, non è un mistero, a rilanciare la concorrenza della tecnologia nippoamericana Weshinghouse al nuovo sistema francese Epr. Che potrebbe addirittura essere bruciato sul tempo: l'entrata in funzione della centrale di Vogtle è promessa per il 2017 mentre l'Epr, nei suoi due prototipi di Flamanville in Francia e di Okiluoto in Finlandia, sta accumulando ritardi colossali rispetto al battesimo operativo che doveva avvenire l'anno scorso. Non si ferma sul nucleare la Cina, dove si annuncia un buon numero di centrali con tutte le tecnologie mondiali. Non si ferma la Russia: un reattore che dovrebbe sperimentare le nuove tecnologie di Mosca è in costruzione a Kaliningrad, proprio alle porte dell'Europa Men che mai stanno pensando di smobilitare Paesi che mai hanno pensato di fare un passo indietro, neanche nelle settimane calde del disastro di Fukushima: Repubblica Ceca, Slovenia, Bulgaria. Ma torniamo proprio nel cuore della smobilitazione annunciata, in Germania. Il dietrofront sull'atomo era stato formulato in pompa magna da Angela Merkel, in un'ondata di approvazione nazionale. Con la crisi delle forniture del metano russo che la scorsa settimana ha tenuto in apprensione tutta l'Europa la Germania ha varato la sua terapia d'emergenza, mandando a tutto vapore quattro di quelle centrali formalmente in corso di dismissione. Rivedrà di nuovo (lo ha già fatto in passato) il suo programma di smobilitazione atomica? Più di un osservatore giura di sì. «Il mondo si sta svegliando dalla sbornia emotiva seguita all'incidente di Fukushima» e c'è «una tendenza al ritorno del nucleare» sentenzia da Mosca il super-esperto di energia e vice presidente del comitato di politica economica della Duma, il Parlamento russo, Valery Yazev. _________________________________________________ Il Sole24Ore 18 Feb.’12 FONDI ALLA RICERCA PER RIPARTIRE La lezione di Obama e di Bruxelles: l'innovazione non si può tagliare il proprio ora che Istat ed Eurostat certificano che la recessione incombe su diversi Paesi europei occorre una rigorosa riflessione dà parte di tutti su come rilanciare lo sviluppo. Favorire la crescita deve diventare una vera "ossessione" condivisa dalle istituzioni e dalle parti sociali in Italia e in Europa Per noi imprenditori, che quotidianamente ci misuriamo sui mercati internazionali, lo è già. E le tante imprese intervenute alla IX Giornata della Ricerca di Confindustria del novembre scorso, non a caso intitolata «E ora di crescere!», hanno ribadito con forza che la via migliore per uscire dalla crisi in modo strutturale è investire con coraggio in ricerca e innovazione. Per questo mi ha fatto molto piacere leggere che il presidente degli Stati Uniti, redigendo il budget federale 2012-2013, ha detto che tecnologia e scienza non si tagliano perché fanno la differenza! A fronte di forti riduzioni di spesa in quasi tutti i settori, Barack Obama ha deciso infatti di aumentare del 5% i fondi destinati a R&I accelerando le procedure di erogazione. La strategia è chiara in tempi di crisi si può rinunciare a tutto, ma non alla ricerca. Perché non si può rinunciare al futuro. La ricetta di Washington è la stessa di Bruxelles. L'ho toccato con mano partecipando pochi giorni fa a un convegno dell'Europarlamento su Horizon 2020 in cui i rappresentanti della Commissione hanno ribadito di voler puntare «per il futuro dell'Europa sulla ricerca e sulle idee innovative». E hanno posto l'enfasi sulla necessità di valorizzare il settore manifatturiero, e di riuscire a trasformare i risultati della ricerca in prodotti innovativi e sostenibili, i soli che creano sviluppo e occupazione duratura. Un'azione che ha trovato concretezza nella proposta di raddoppiare le risorse allocate per il prossimo Programma Horizon 2020 (portate a 8o miliardi di euro che speriamo possano crescere ancora nella discussione in Parlamento) e nel richiamo a forti sinergie tra i diversi fondi europei nazionali e regionali (in particolare tra quelli del Programma Quadro e i fondi strutturali). Proprio ora che la coesione dell'Europa è messa a dura prova dalla crisi finanziaria globale, la nuova strategia di Horizon 2020 può diventare una tessera fondamentale per dare all'Europa obiettivi e strategie condivisi. E l'Italia come si sta muovendo? Le prime misure contenute nelD1Semplificazione varato dal governo Monti sono importanti, ma occorre andare avanti. L'azione avviata in Europa, ad esempio, deve guidare anche la razionalizzazione e semplificazione degli strumenti di supporto alla R&I nazionali e regionali- un intervento a costo zero che aiuta immediatamente la crescita. Dobbiamo arrivare a un nuovo assetto che veda la combinazione di uno strumento fiscale automatico- come il credito d'imposta per la R&I - e uno per favorire i grandi progetti strategici su tematiche prioritarie realizzati da imprese e sistema della ricerca pubblico e privato (quali i progetti Sud-Nord di Confindustria). La partecipazione ai programmi di ricerca europea deve diventare un grande obiettivo-Paese. Non è soltanto una preziosissima fonte di risorse finanziarie (l'Italia deve assolutamente riequilibrare il saldo di ciò che dà all'Europa e di ciò che riceve), ma è anche una modalità strategica per far crescere l'economia, aumentando la massa critica degli investimenti. A questo riguardo un ruolo importantissimo potranno svolgere le reti d'impresa che stanno nascendo in tante parti d'Italia. Nell'ultima riunione del Comitato tecnico R&I di Confindustria abbiamo preso l'impegno di proseguire nel miglioramento dei nostri servizi a supporto delle imprese e di aumentare, insieme al Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, la capacità dell'Italia di essere protagonista nell'Europa della R&I, partecipando a tutte le fasi di definizione e gestione degli strumenti europei. Oltre a ciò, Confindustria ha individuato altri due nodi da sciogliere presto. Il primo è il problema delle garanzie richieste alle imprese per poter accedere all'anticipo sui finanziamenti approvati. Su questo lanciamo al ministro Francesco Profumo una proposta concreta: perché non creare anche per Italia uno strumento analogo al Fondo di garanzia europeo? Il secondo nodo riguardala disponibilità di risorse economiche in cui l'Italia sconta un forte gap da colmare rispetto agli altri Paesi europei. E urgente sviluppare un efficiente mercato finanziario pubblico e privato a supporto della R&I. In questi anni Confindustria ha avviato proficue collaborazioni con la Bei e con primari istituti finanziari nazionali. La risposta delle imprese, di ogni dimensione e settore, è stata molto positiva. Ricordo anche che i dati sull'utilizzo di un innovativo strumento finanziario per la R&I, frutto di un accordo di collaborazione tra la nostra Piccola Industria e Intesa Sanpaolo, sono molto significativi. Si tratta di finanziamenti agevolati dati in tempi rapidi (valutazione entro poche settimane) senza garanzia e che possono coprire il ino% dell'investimento. Un esempio che ci auguriamo possa essere seguito da sempre più istituti di credito. Ci rendiamo conto che stiamo vivendo momenti difficilissimi per il Paese e che il Governo ha come priorità assoluta l'equilibrio dei conti pubblici. Ma siamo anche convinti che questi frangenti impongano scelte coraggiose da portare avanti con la massima coesione. Penso alla difficile battaglia che l'Italia sta intraprendendo per ottenere l'assegnazione del Tribunale di Prima Istanza del brevetto europeo. Un risultato Che premierebbe la credibilità internazionale della ricerca italiana e delle nostre istituzioni. Diana Bracco è presidente del progetto speciale "R&I" di Confindustria ______________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Feb. ’12 NICOLAIS AL CNR. IL PDL: SCELTA POLITICA Proteste anche dalla Lega. Il Pd e i sindacati difendono l'ex ministro MILANO — Dopo mesi di attese e polemiche che hanno coinvolto il ministro della Ricerca Francesco Profumo, finalmente il Cnr ha il suo presidente. È Luigi Nicolais, illustre ricercatore chimico tra i più citati internazionalmente, ex ministro della Funzione pubblica e per l'Innovazione nel governo Prodi, lunga militanza nel Pd, insomma scienziato e politico; non a caso era tra i candidati alla poltrona di ministro della Ricerca conquistata poi dal «più tecnico» Profumo, suo predecessore al Cnr. Ma proprio l'anima politica del personaggio ha suscitato alcune reazioni contrarie. «Difficile sostenere — dice Fabrizio Cicchitto (Pdl) — che sia una scelta tecnica: non è stata né neutra né asettica». «Come è possibile — si chiede Gianni Fava (Lega Nord) — che un governo tecnico nomini un politico?». Cauti i sindacati: «L'uomo giusto al posto giusto: ma giudicheremo dai fatti», scrive un comunicato Uil- Rua. Nicolais taglia corto e risponde: «Il Cnr è un ente ricco di professionalità che ha bisogno di proseguire il rilancio avviato per diventare un ente modello». Sfida ardua dopo la certificazione della Corte dei conti sulle spese esagerate nella burocrazia in rapporto agli investimenti nella ricerca a cui vanno soltanto tre euro sui dieci spesi. «Darò il mio contributo per ridurre la burocrazia, aumentare l'efficienza e consolidare la fiducia: il Cnr ha punte di alta qualità e dobbiamo utilizzarle al meglio», precisa. Nicolais conosce bene la «grande macchina» perché oltre ad essere professore all'Università di Napoli è stato anche direttore dell'Istituto materiali compositi e biomedici del Cnr. Contemporaneamente ha coscienza della realtà internazionale essendo stato più volte docente in università americane. E Nicolais parla quasi da ministro: «Bisogna fare un nuovo piano per la ricerca. Non si può investire su tutto, limitiamoci alle molte eccellenze che abbiamo: dalle biotecnologie alla fisica della materia». Il piano esistente era stato varato dalla Gelmini l'anno scorso. Come affrontare l'invecchiamento dei cervelli e delle infrastrutture che non attirano ricercatori stranieri? «Nel Mezzogiorno stiamo rinnovando molti laboratori, ora interverremo anche al Nord. Per i ricercatori più anziani creeremo nuove attività come il trasferimento di tecnologie. E i più giovani e i precari li valorizzeremo secondo il merito individuale. Però la nostra produttività dipende anche dal contesto e quindi si devono superare le divisioni con le università, gli altri enti, il mondo industriale». Nicolais è stato presidente dell'Agenzia per l'innovazione legata all'economia. Poi venne dimenticata. «Sono d'accordo con il ministro Profumo che la rilancerà». Necessità della ricerca e risorse adeguate: il governo Monti finora non ha compiuto alcun passo. «È inutile che sottolinei il suo valore di investimento. Certo il presidente Monti ha avuto ben altre emergenze da affrontare ma sono certo che ora il suo intervento la considererà. I tagli orizzontali attuati rischiano di penalizzare i migliori e comunque le risorse vanno cercate soprattutto nei fondi europei». Giovanni Caprara Twitter@giovannicaprara _________________________________________________ Libero 18 Feb.’12 CNR: MACCHÉ TECNICI L'ISTRUZIONE È TORNATA ROSSA di FAUSTO CARIOTI Il Pd festeggia per la nomina di Luigi Nicolais a presidente del Consiglio nazionale delle ricerche: ha ottimi motivi per farlo. Sul fronte opposto, ma pur sempre all'interno della surreale maggioranza che sostiene il governo, il presidente dei deputati del Pdl, Fabrizio Cicchitto, si lamenta perché quella di Nicolais «è stata una scelta che nessuno può definire asettica e neutra»: difficile dare torto anche a lui. Vincitore delle ultime elezioni politiche, il Pdl si avvia infatti a chiudere la legislatura privo di ogni rappresentanza nel governo dell'istruzione e della cultura. Di sicuro, non ha fatto molto per evitare che ciò avvenisse. Nel poco tempo in cui è stato in carica l'esecutivo di Mario Monti, il partito di Silvio Berlusconi e Angelino Alfano (...) (...) ha incassato un colpo dietro l'altro. Ministro dell'Istruzione è diventato Francesco Profumo: tecnico di discreta fama, ben schierato a sinistra, tanto che ne12010 fu a un passo dal candidarsi alle primarie torinesi del Pd. Sino a pochi giorni fa Profumo era anche presidente del Cnr e avrebbe mantenuto volentieri la carica. Sennonché l'Antitrust gli ha comunicato che l'incarico di controllore (ministro dell'Istruzione) non è in alcun modo cumulabile con quello di controllato (presi- dente del Cnr). Sono dovuti intervenire anche Giorgio Napolitano e Mario Monti, e alla fine Profumo è stato costretto a mollare il timone del Consiglio delle ricerche. Quando si è trattato di nominare il successore, la scelta si è ristretta ai nomi che pochi mesi prima avevano conteso l'incarico allo stesso Profumo: Luciano Maiani, Andrea Lenzi e- appunto - Nicolais. Maiani è un fisico di grande livello internazionale, ha già guidato il Cnr dal 2008 al 2011; collocabile nell'area laica di sinistra, ha un profilo tale che la sua nomina avrebbe messo tutti d'accordo. Lenzi, medico e presidente del Consiglio universitario nazionale, è dotato di una buona statura accademica e il suo nome non sarebbe spiaciuto al Pdl. Il settantenne partenopeo Nicolais invece è un discreto ingegnere chimico, ma prima di tutto, da tempo, è un esponente del Pd, vicinissimo a Giorgio Napolitano. Anche se nessuno se lo ricorda, Nicolais fu ministro della Pubblica Amministrazione nel secondo governo Prodi (dal 2006 al 2008) e in questa legislatura è deputato del Partito democratico, con l'incarico di vicepresidente della Commissione Cultura. Dei tre candidati, lui era di gran lunga quello con il profilo politicamente più schierato. Il che non gli ha impedito di vincere la corsa organizzata dal governo dei tecnici. Alle poltrone di Profumo e Nicolais il Pd intende presto aggiungerne una terza: la presidenza della commissione Cultura della Camera, ancora per pochi giorni affidata a Valentina Aprea, del Pdl. Quest'ultima è appena diventata assessore alla Cultura e all'Istruzione della giunta Formigoni. Al suo posto il Pd, in nome dell'alternanza, conta adesso - con ottime chance - di piazzare un proprio deputato: i pretendenti non mancano, a partire da Manuela Ghizzoni, vicina a Dario Franceschini (e quindi esponente dell'ala maggioritaria del partito) e dotata di un minimo di curriculum accademico. In realtà i numeri in commissione sono tali da consentire alla vecchia alleanza Pdl più Lega di imporre un proprio candidato, ed è scontato che il Carroccio (contrario anche alla nomina di Nicolais) non voterebbe mai per un esponente del Pd. Per ottenere la presidenza della commissione, insomma, il partito di Pier Luigi Bersani deve necessariamente avere l'appoggio del Pdl. Un primo accordo tra gli ex avversari, raccontano a Montecitorio, è già stato raggiunto, e se andasse in porto si avrebbe la conferma - tutt'altro che sorpren dente, per la verità-che la coalizione che sorregge Monti è ormai diventata una vera e propria maggioranza politica. Infine c'è da nominare il direttore generale del ministero dell'Istruzione. Incarico sul quale la parola di Profumo avrà un certo peso, e che secondo tradizione - confermata anche durante i governi di centrodestra - è sempre andato a tecnici allineati con il Pds-Ds-Pd, provenienti dall'area di Luigi Berlinguer. Nessuno, nemmeno nel centrodestra, si attende che la prassi venga smentita proprio adesso. Così, da qui a breve, se non ci saranno improbabili sorprese, tutte le principali poltrone della gestione dell'istruzione saranno nelle mani di personaggi vicini al Pd. Cioè a quello che, sino a pochi giorni fa, era il grande sconfitto delle ultime elezioni. Comprensibile l'imbarazzo all'interno del Pdl. Cicchitto si lamenta per la nomina di Nicolais, altri azzurri dicono l'indicibile a microfoni spenti, ma più di tanto, in pubblico, nessuno ha il coraggio di attaccare. Nicolais, del resto, nell'estate del 2011, ai tempi del ministro Mariastella Gelmini, faceva parte della cinquina di candidati proposti per la guida del Cnr, dalla quale emerse vincitore Profumo. E poi sul nuovo presidente del Consiglio nazionale delle ricerche c'è la benedizione del suo concittadino Napolitano e di Monti, e il clima da grandi intese elettorali e istituzionali sconsiglia al Pdl prese di posizione troppo irruente. Tantomeno per questioni marginali come il governo dell'istruzione e della cultura. ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 19 Feb. ’12 CAGLIARI: ESISTE CEMENTO E CEMENTO, MA QUELLO DI SINISTRA È BUONO? Il regista Enrico Pau sulla politica urbanistica della giunta Zedda ENRICO PAU CAGLIARI. Ho scoperto in queste ultime settimane che c’è il cemento di sinistra, che non è come quello di destra, è diverso. Quello di sinistra è un cemento che non si può discutere, nemmeno su un piano estetico, come quello del futuro cardampone della casa dello studente, che, ci hanno spiegato, si doveva fare in fretta, quindi: «Si, è brutto! Ma cosa facevamo perdevamo quaranta milioni di euro?». L’architettura che è necessaria, come è necessaria finalmente per la città la casa dello studente, che nessuno discute, può essere anche bella, e a volte riesce a rispettare la storia e la natura originaria dei luoghi, la loro memoria, vedi il meraviglioso Mem. Certo ci vuole un po’ di talento, anche nelle progettazioni più frettolose. Vedere il rendering dove la vecchia nobile semoleria appare sepolta e oscurata da nove esuberanti, voluminosi e anonimi piani fa male «ma - ci spiegano - è inevitabile». Quello di sinistra è un cemento che addolora, come in via Milano, dove con sincera sofferenza, prima l’Assessore, il buon Paolo Frau, poi alcuni giovani contriti consiglieri hanno dovuto prendere atto che era impossibile fermare la palazzina davanti alla Basilica, quella che prima, e durante la campagna elettorale «non si doveva costruire» ma ora invece, perché «la politica vuol dire prendersi le responsabilità, governare, non si può non costruire». Poi c’è il cemento sostenibile, l’ho scoperto leggendo i giornali, come quello dei nuovi palazzi, ma “piccoli”, che sorgeranno davanti allo stagno di Santa Gilla a pochi metri dalle Torri di Zuncheddu. «Abbiamo chiesto ai costruttori di regalare un grande giardino davanti ai palazzi così riqualifichiamo la zona» dicono gli assessori, si sa il cemento buono riqualifica, è sostenibile e impreziosisce: «il giardino con il buco intorno». Poi c’è il cemento confuso, quello che va spiegato, quello di una delibera della Giunta che prima che ai soliti ambientalisti non è piaciuta ad alcuni consiglieri, fra i pochi che in queste settimane sono riusciti a mantenere la rotta e la freddezza necessaria per dire quello che pensavano anche prima delle elezioni. Gli altri hanno spiegato nei loro blog quello che non si poteva spiegare, perché, forse, quella delibera è stata istruita con una certa fretta, sicuramente in modo almeno superficiale, probabilmente dagli uffici comunali, dentro i quali le ragioni dei costruttori hanno trovato sempre conforto e calore umano. Quello che è successo dopo ha avuto alcuni effetti. Gli ambientalisti «ma non tutti», solo i più cattivi, sono ormai rinchiusi dentro un recinto dal quale non potranno uscire per i secoli a venire, per raggiungere lo status a cui ambirebbero di essere chiamati semplici cittadini che amano la città. Sono gli stessi che qualche costruttore definiva talebani e che le giovani speranze della politica cagliaritana sedute in consiglio, che, lo ricordo, solo qualche mese fa erano romantici incendiari, ora guardano con una certa distante, ostile e malcelata insofferenza. Da piccolo i miei genitori mi hanno insegnato a pensare da solo e a dire sempre quello in cui credo sinceramente, soprattutto agli amici. Credo che sarebbe utile aiutare il nostro sindaco nel suo compito immane, non con il conformismo, ma con la sincerità. Ho visto che Giorgio Todde l’ha fatto con il solito amore profondo per il corpo della città, con la sua poesia che a volte può essere anche aspra, ma è necessaria a Cagliari, come erano necessari gli anatemi di Aquilino Cannas, anche lui di Italia Nostra, contro quei “faineris e benduleris” che hanno smembrato i colli di Cagliari nel dopoguerra. Politica vuol dire pensare al futuro, so che Massimo Zedda lo sa, lo dice la sua storia, lo dicono alcune scelte della sua giunta. Prima fra tutte quella di mantenere la promessa di smembrare la legnaia dell’Anfiteatro. Quando tutti i cagliaritani avranno scoperto Tuvixeddu, la sua bellezza, la sua grazia, sarà difficile spiegare ai cagliaritani, ai semplici cittadini, che quei palazzoni e quelle ville di lusso, che quel «nuovo quartiere nel cuore della città, dove abitare non è mai stato così piacevole, lontano dai luoghi comuni» ma vicinissimi alle tombe «non si poteva non costruire». ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 19 Feb. ’12 CONCLUSI I LAVORI DI MONTAGGIO DELL’ANTENNA DI PLANU SANGUNI Il maxi radiotelescopio è pronto a scrutare i cieli della Sardegna «Sarà a disposizione dell’intera comunità scientifica mondiale» GIAN CARLO BULLA SAN BASILIO. Sono stati finalmente completati nell’altipiano di Planu Sanguni, i lavori per l’installazione del Sardinia Radio Telescope, il grande radiotelescopio (ubicato nei pressi del limite di confine tra San Basilio, Sant’Andrea Frius e San Nicolò Gerrei) che scruterà il cielo della Sardegna. Mercoledì mattina i responsabili della “Mt.Machatronics”, la ditta tedesca capocommessa, hanno consegnato ufficialmente l’antenna al presidente dell’Inaf, Giovanni Bignani, e al direttore generale dello stesso Istituto, Umberto Sacerdote. Si è aperta ora la seconda fase dell’ambizioso progetto, quella che vedrà il collaudo dello strumento e di tutti i suoi sottoinsiemi. Di fatto è l’anticamera della piena attività operativa, che seguirà subito dopo. «Quel che ora resta da fare sono tutte le tarature e le calibrazioni dell’antenna che è stata progettata per raccogliere radioonde provenienti dal cosmo. - spiega Andrea Possenti, direttore dell’Inaf, osservatorio astronomico di Cagliari - Alla fine di tutte le attività di calibrazione in programma arriveremo al momento più emozionante: catturare con il Srt la prima onda proveniente da un corpo celeste. Un momento che tutti noi coinvolti in questo progetto attendiamo con grande entusiasmo, consapevoli che presto Srt potrà essere messo a disposizione della comunità scientifica internazionale». Infatti il Srt (Sardinia radio telescope), così come già avviene per le antenne Inaf di Medicina e Noto, sarà inserito nella rete europea e mondiale per osservazioni radioastronomiche congiunte nota come Vlbi (Very long baseline interferometry). «Il radiotelescopio grazie alla parabola del diametro di 64 metri e a Faraday, uno dei tre ricevitori con cui è equipaggiato è in grado di captare le sorgenti radio più flebili. - sottolinea Luigina Ferretti, direttrice dell’Inaf istituto di radioastronomia e presidente del board di gestione di Sardinia radio telescope - Quindi darà un significativo impulso nelle ricerche su molti tipi di oggetti celesti come, tanto per citarne alcuni, i quasar, le pulsar, i nuclei galattici attivi e le radiogalassie». Entro il prossimo mese riprenderanno, intanto, i lavori per il completamento delle infrastrutture a supporto: il control room (la sala di controllo), il centro visite, i laboratori e gli uffici. Stando alle aspettative l’entrata in funzione di Sardinia radio telescope dovrebbe implementare il turismo scientifico e scolastico e contribuirà quasi sicuramente alla ripresa del territorio che ha a livello regionale uno dei più alti tassi di disoccupazione e di spopolamento. _________________________________________________ La Repubblica 17 Feb.’12 L'ERA DELLA SCIENZA KOLOSSAL È FINITA Fino a pochi anni fa ritenevamo che il progresso dipendesse dalla grandezza. Adesso ci stiamo rendendo conto che serve un approccio diverso le nanotecnologie salveranno Mondo JOHN D. BARROW Una nuova entusiasmante missione spaziale Keplero sta perlustrando la nostra zona di Via Lattea alla ricerca di pianeti orbitanti intorno a stelle distanti dal nostro Sole. Cerca di rilevare oscillazioni nel movimento delle stelle, rivelatrici del fatto che esse sono impegnate in un duetto gravitazionale con un pianeta. Quando queste osservazioni furono fatte per la prima volta dalla Terra, e nel 1995 si scoprì il primo pianeta extrasolare, esse erano appena in grado di prendere atto degli effetti di pianeti molto grandi, come Giove o Saturno, grandi masse rotonde di gas e idrogeno liquido, e non solide e rocciose come la Terra. Oggi disponiamo di un elenco di 759 pianeti scoperti dal 1995 in poi e di tale lista fanno parte molti pianeti solidi e una "super-Terra" scoperta 1'11 dicembre 2011, ubicata all'interno della zona abitabile della sua stella madre, Keplero 22. Si trova a 600 anni luce dalla Terra ed è solo di poco più fredda e più piccola del nostro Sole. La migliore sensibilità e precisione di queste tecniche d'osservazione sulla Terra e nello spazio implicano che adesso possiamo veramente perseguire la ricerca finalizzata a individuare molti più pianeti rocciosi come la Terra e controllare se le loro orbite possano essere propizie a creare una zona abitabile temperata duratura che consenta la vita e nella quale quest’ultima possa evolversi dalla semplicità molecolare a una complessità autocosciente nel corso di centinaia di miliardi di anni, come avvenne sulla Terra. Queste nuove possibilità di osservazione ci hanno spinto a rinnovare le congetture sulle prove dell'esistenza di vita intelligente nell'Universo che potremmo sperare di vedere, o quanto meno sul tipo di pianeta roccioso simile alla Terra che potremmo scoprire. Il problema è in un certo senso messo in secondo piano dal persistente enigma della misteriosa assenza di qualsiasi testimonianza di sorta nell'Universo di vita avanzata, malgrado l'immenso numero di luoghi a disposizione. Forse siamo troppo noiosi e ordinari tra le infinite civiltà che esistono nella galassia perché qualcuno si prenda la briga di entrare in contatto con noi? O siamo forse così speciali che i nostri amici interstellari più avanzati non vogliono intromettersi nella nostra affascinante storia mentre essa si dispiega senza alcun contatto con gli alieni? Siamo oggetto di studio per qualcuno? Da una prospettiva più pessimistica, invece, probabilmente le civiltà avanzate dal punto di vista tecnologico molto semplicemente non sopravvivono a lungo: inquinano i loro ambienti, si spengono per epidemie o per conflitti nucleari, o ancora sono spazzate via da comete e asteroidi che entrano in collisione con i loro mondi prima ancora che essi riescano a mettere a punto le tecnologie atte a deviarli. Indubbiamente, possiamo renderci conto che esistono molteplici modi grazie ai quali potremmo finire coll'avere un futuro alquanto limitato. Una possibilità più ottimista è suggerita dalla recente traiettoria imboccata di recente sulla Terra dai nostri progressi tecnologici. Nel 1957 l'astronomo sovietico Nicolai Kardeshev propose di classificare le civiltà avanzate in rapporto all'energia di scarto che le loro attività disperdevano nello spazio. Quelle meno avanzate (come la nostra a quei tempi) sarebbero in grado di modificare la superficie del loro pianeta, di innescare esplosioni, di inviare onde radio, di costruire verso l'alto e di scavare verso il basso. Quelle dei loro vicini più avanzati avrebbero un impatto notevolmente superiore in grado di modificare il loro sistema solare, influire sulla loro stella madre o altri pianeti per le loro necessità energetiche. Le loro attività sarebbero facilmente avvistabili da molto più lontano. I più evidenti sarebbero anche i più avanzati di tutti, in grado di congiungere l'energia di interi sistemi di stelle o addirittura di un' interagalassia. Molte teorie e strategie finalizzate a cercare e determinare la presenza di extraterrestri tecnologici hanno sfruttato questa idea di fondo. In ogni caso abbiamo imparato che molto probabilmente c'è qualcosa di completamente diverso rispetto all'immagine di progresso e sviluppo tecnologico che esso prefigura, anzi potremmo dire di diametralmente opposto. Ormai siamo in grado di affermare che le tecnologie più avanzate dovrebbero essere quelle meno visibili, e non quelle più visibili. Le nostre stesse tecnologie si sono orientate ormai nella direzione di un processo di sempre maggiore miniaturizzazione. Il progresso alezza, e non di grandezza, sulla scala rispetto alla quale possiamo produrre e manipolare la materia. Le rivoluzioni avvenute nell'ambito delle biotecnologie, della microelettronica, delle nano- tecnologie dimostrano che abbiamo imparato a manipolare aggregati di molecole, singoli geni e singole molecole e addirittura a organizzare e strutturare come si deve atomi isolati. L'ininterrotta evoluzione del processo di miniaturizzazione dei chip dei computer, misurabile con le Leggi di Moore, dimostra quanto siamo diventati abili a costruire dispositivi di potenza sempre maggiore e di dimensioni sempre inferiori. Si palesa ormai all'orizzonte la ricerca mirante a realizzare un computer quantistico. Questa direzione imboccata dal nostro progresso tecnologico dovrebbe insegnarci qualcosa di molto importante per ciò che riguarda l'aspettativa di una forma di vita avanzata nell'Universo. Se è tecnologica, tanto più avanzata sarà la sua natura, tanto più piccoli e meno evidenti saranno i suoi sottoprodotti tecnologici. Le sue sonde spaziali dovranno essere non più grandi di semplici aggregati di atomi, totalmente invisibili alle nostre sonde e ai nostri satelliti, indistinguibili dalla polvere, in grado di riprodurre copie di sé quando sia necessario. Soltanto spostandosi verso un'economia energetica maggiore, verso consumi più ridotti di materie prime e un inquinamento minimo garantito dalle loro nanotecnologie (o più infinitesimali ancora) saranno in grado di sopravvivere sui pianeti nel lungo periodo. Nelle più influenti storie di fantascienza è sempre stata preponderante la presenza di immense navi spaziali — quali succedanei dei grandi mezzi di navigazione terrestre — che vagano nell'universo alla stregua di piccoli pianeti. Star Trek e Independence Day puntavano sul grande. Molto più verosimilmente, invece, le sonde spaziali delle forme di vita più avanzate nell'Universo saranno complesse strutture atomiche, in grado di sfruttare le immense capacità di archiviazione dati e informazioni come quelle dei piccoli computer. La sfida, adesso, è capire come potremo individuarle, oppure tornare a escludere, ancora una volta, la possibilità stessa che esistano. (Traduzione di Anna Bissanti) ()John D. Barrow, 2012 ______________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Feb. ’12 SE GLI STRANIERI PREFERISCONO LA SCUOLA PUBBLICA IN CLASSE I GENITORI: OTTIMA PREPARAZIONE E TANTE ESPERIENZE. MA L' ISTITUTO TEDESCO DI MILANO: FACCIAMO INCONTRARE CULTURE Scelta anche da chi può pagare rette elevate: «Si evita la ghettizzazione» Il giornalista inglese «Mia figlia ha fatto il Classico poi è entrata a Cambridge. Lì dicono che dai licei italiani si arriva con livelli molto alti» Il dirigente Lucrezia Stellacci, del ministero dell' Istruzione: «Il bisogno di formazione educativa prevale su quello di stretta disciplina» MILANO - Si sono arresi davanti ai sette menu della mensa, compresi sushi e macrobiotico: un po' troppo per dei bambini delle elementari. «Non è stata una questione di soldi. Abbiamo soltanto pensato che quella non fosse la vita vera», hanno spiegato al New York Times Miriam e Christian Rengier, genitori tedeschi in trasferta nella Grande Mela, che hanno scelto per il loro figlio una scuola pubblica e non la prestigiosa privata. Decisione condivisa dal 68% delle 15.500 famiglie straniere a Manhattan che guadagnano almeno 150 mila dollari l' anno. Manager che potrebbero tranquillamente pagare la retta. Ma per loro è meglio il rischio di lost in translation , piuttosto che far crescere i figli in un altro mondo, perdendo il contatto con la realtà. Come ha fatto qui in Italia Lee Marshall, giornalista inglese di cinema e viaggi, a Roma dal 1984, che ancora rivendica di aver voluto mandare la figlia al liceo Tasso. «Io e mia moglie eravamo d' accordo. Per noi iscrivere Clara a una scuola inglese internazionale avrebbe significato ghettizzarla. Non aveva senso. E poi la scuola pubblica italiana con tutti i suoi difetti resta molto valida. A Londra, per esempio, se vuoi che i tuoi figli possano iscriversi in una buona università come Oxford o Cambridge devi per forza mandarli in un istituto privato. Invece Clara a Cambridge ci è arrivata dopo il Classico. E i suoi docenti universitari mi hanno testualmente detto che gli studenti dei licei italiani sono tra i più bravi, perché hanno una formazione ampia». Concediamoci un po' di orgoglio scolastico, allora. Tanto più che il neo capo Dipartimento istruzione al ministero, Lucrezia Stellacci, ricorda di quando era direttore dell' Usr dell' Emilia Romagna e seguì a Parma l' attivazione della Scuola per l' Europa. «Lì l' ambiente è molto raffinato. Sembrava scontato che i funzionari stranieri dell' Authority per la sicurezza alimentare ci avrebbero fatto studiare i loro figli. E invece no. Era più forte il bisogno di formazione educativa rispetto a una esigenza strettamente disciplinare». Stellacci fa un altro esempio, questa volta romano. «Al liceo scientifico Newton c' è una percentuale molto alta di studenti francesi, inglesi, austriaci, oltre a quelli di area non europea. L' ambiente è estremamente differenziato, l' offerta formativa ricca e in tanti vorrebbero iscriversi. Certo è merito del preside, Mario Rusconi, che è riuscito ad amalgamare le classi». L' integrazione come priorità è il motivo che ha spinto Dorman Racines, importatore in Italia del BootCamp, il programma di allenamento dei Marines, a far frequentare a Luel Maria e Andres Leon, 10 e sette anni, una scuola pubblica. «Soltanto lì ci sono tante storie e strati culturali diversi. Questo è un arricchimento». Sono passati vent' anni, ma Marcello D' Orta, il maestro che scrisse Io speriamo che me la cavo , non ha dimenticato di quando ad Anzano veniva chiamato per fare gli esami alle scuole private. «Ma quella era un' altra cosa. Loro avevano la palestra e noi no, ma quanto a preparazione, lasciavano un po' a desiderare». Ci tiene, invece, a sottolineare che «la coppia tedesca a New York ha fatto una buona scelta, perché quando mandi tuo figlio in un ambiente troppo elitario, è inevitabile il pericolo che ne esca un disadattato, viziato, incapace di confrontarsi con contesti reali». Che poi le scuole straniere continuano a fare, e bene, il loro lavoro. A Gabriella Träger, per esempio, direttore amministrativo della Deutsche Schule Mailand, la Scuola Germanica di Milano, fa sorridere la mensa con sette menu dell' omologa newyorchese. «Ecco, noi non siamo così. La nostra è una Begegnungsschule, che ha come obiettivo di favorire l' incontro tra le due lingue e culture. Metà del nostro migliaio di alunni è italiana, poco meno del 20% tedesca da parte di entrambi i genitori, il 30% misti italotedeschi, tedesco-italiani o di altra cittadinanza». Bernard Charles Mullane, preside della Ambrit International School di Roma, rivendica il fatto che due terzi degli iscritti sono stranieri: «Dopo un mese di scuola pubblica italiana scappano e vengono da noi, il sistema è troppo diverso». Sarà. Ma Eva Schenck e Gijs Pyckevet, architetti di Berlino e Eindhoven, hanno infine iscritto i bambini alla scuola pubblica della Garbatella. Racconta Eva: «Ci eravamo informati alla tedesca. Ma quando mi hanno chiesto quanti domestici avevamo in casa ogni dubbio è svanito. Voglio che i nostri figli crescano con tutti». Elvira Serra twitter @elvira_serra RIPRODUZIONE RISERVATA **** Cosa sono La definizione Si definiscono paritari gli istituti scolastici non statali che possono rilasciare titoli di studio con valore legale. La loro esistenza è prevista dall' articolo 33 della Costituzione, che assicura loro «piena libertà». Per vedersi riconosciuta la parità, queste scuole devono assicurare il rispetto di alcuni requisiti di qualità ed efficacia In ItaliaLa regione con il maggior numero di istituti paritari è la Lombardia, seguita da Campania e Veneto. Numerose le scuole anche in Emilia Romagna, Lazio e Sicilia Serra Elvira ______________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Feb. ’12 IL PICCOLO DECALOGO DELL' INVIDIOSO CRONICO Una settimana senza Internet, terminata ieri a mezzanotte (questa rubrica è stata dettata). Una quaresima 2.0 che mi ha evitato di commentare due sconcertanti esibizioni dell' Inter e una di Adriano Celentano: le prime, diciamo, non me le aspettavo. La quarta figuraccia - candidarci per un' Olimpiade che non possiamo permetterci - è stata evitata. L' Italia ha bisogno di manutenzione, non di un' altra (costosa) inaugurazione. Un altro tema che avrei voluto discutere in settimana è l' assalto scomposto a Silvia Deaglio, giovane professoressa associata di medicina presso l' Università di Torino, figlia dell' economista Mario Deaglio e del ministro Elsa Fornero. Non la conosco di persona; mentre, se non ricordo male, ho incontrato due volte il papà e una volta la mamma (che mi ha salutato con una domanda tremenda). Ma ho letto l' appunto di Tito Boeri per lavoce.info - arrivato per fax, sempre a causa del digiuno digitale. Leggo: Silvia Deaglio è quattro volte sopra la media per l' indice H (che misura il numero di lavori scientifici in rapporto al numero di citazioni ricevute). In queste valutazioni internazionali - credetemi - mamma e papà non contano. Tutto lascia pensare che la connazionale sia una giovane donna in gamba. L' astio delle reazioni, tuttavia, mi ha fatto pensare. Affinché sia più facile, in questo Paese di simpatici demagoghi, attaccare indiscriminatamente chi ha successo, ho pensato di stilare il piccolo decalogo dell' invidioso cronico. 1. Chi ha successo ha certamente imbrogliato. Altrimenti avresti avuto successo pure tu, no? 2. In Italia nulla è metodico, salvo il sospetto. 3. A pensar male si fa peccato, ma si indovina. Senza dimenticare che per il peccato, poi, c' è l' assoluzione. 4. Chiunque ottenga apprezzamento pubblico, dimostra che il pubblico non capisce niente. 5. La mediocrità è un esempio di democrazia applicata. Il merito, una forma di arroganza. 6. Se esiste il minimo comune denominatore, scusate, perché insistere nel dare il massimo? 7. Nella conventicola dell' università italiana, è possibile solo il modello Frati (il rettore della Sapienza dov' è accademicamente sistemata tutta la sua famiglia). Il resto è ipocrisia applicata. 8. I genitori di successo possono - anzi, devono - produrre soltanto figli infelici e frustrati. In caso contrario, l' onere della prova spetta a questi ultimi: dimostrate di non avere imbrogliato, marrani! 9. Bisogna diffidare del plauso internazionale. Come si permettono americani, inglesi e tedeschi di farci i complimenti? Cosa contano le università di Columbia e Yale, che oltretutto si chiamano come una casa cinematografica e una serratura? 10. Quando si tratta di concorsi, incarichi, titoli e promozioni l' importante è fare di tutta l' erba un fascio. E se qualcuno vi accusa per questo, urlategli in faccia: «Fascista sarà lei!». RIPRODUZIONE RISERVATA Severgnini Beppe ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 19 Feb. ’12 PER UNA «CLOUD» DELLE BIBLIOTECHE Tre pilastri per ripensare il sistema bibliotecario: messa in rete delle risorse esistenti sul territorio, riqualificazione delle sedi e un rapporto osmotico con la città di Stefano Parise e Aldo Pirola Cosa c'entrano le biblioteche con l'esigenza di ripensare le città come luoghi in grado di integrare alta tecnologia, stimolare processi di innovazione creativa, promuovere sistemi sostenibili e migliorare la qualità della vita urbana? Nulla, se le si considera semplicemente depositi librari o blockbuster pubblici; molto se si riflette sulla loro natura di ambienti informativi e formativi, di snodi d'accesso al sapere, di luoghi dove la socialità è orientata alla condivisione di interessi e alla produzione di conoscenza. Le città del futuro richiederanno sempre più intelligenza diffusa e cittadini capaci di dare valore a contesti di esperienza complessi, persone abituate a considerare le cose da punti di vista molteplici e a dotarsi con frequenza sempre maggiore di nuovi strumenti. Questi ambienti di vita richiedono una disposizione crescente al cambiamento e la capacità di fare un uso competente e creativo non solo delle tecnologie ma delle informazioni che vi scorrono attraverso, qualità che attualmente paiono far difetto a molti cittadini italiani. Diverse indagini, infatti, concorrono nel descrivere i tre quarti circa della popolazione alle prese con forme di analfabetismo strisciante (cioè non riconosciuto come tale) che pregiudicano pesantemente sia le potenzialità individuali che le prospettive di tenuta a lungo termine del nostro Paese. Viste da questa prospettiva, le biblioteche rappresentano una rete dalle potenzialità enormi, in grado di garantire un accesso universale alla conoscenza calibrato per livelli successivi di difficoltà e a misura delle necessità di ciascuno: un sistema che può essere programmato in funzione di precise politiche di sviluppo e di promozione culturale e sociale, di integrazione e contenimento del disagio, fino alle funzioni più evolute – ma in fondo più tradizionali – di sostegno agli studi e alla ricerca specialistica. In una metropoli come Milano il ripensamento della fisionomia dei servizi bibliotecari non può che rientrare in una strategia di sviluppo fondata sulla cultura e sulla partecipazione come porta d'accesso alle opportunità economiche e sociali. Il riassetto in corso fa leva su tre elementi: creare una biblioteca diffusa integrando l'offerta delle varie reti bibliotecarie presenti in città; riqualificare le sedi bibliotecarie attuali e pianificare la realizzazione di nuovi punti di servizio a partire dalla nuova biblioteca centrale; sviluppare un rapporto osmotico con la città e con le forze organizzate che la abitano e vi promuovono cultura e aggregazione. L'accesso ai servizi bibliotecari risente della frammentazione tipica dei contesti dove si muovono varie amministrazioni pubbliche: biblioteche statali, comunali, universitarie (a Milano ci sono sei sistemi bibliotecari d'ateneo) lavorano fianco a fianco sostanzialmente ignorandosi. Vista con le lenti del cittadino, si tratta del peggiore dei mondi possibili: regole differenti, tessere multiple, cataloghi frammentati, orari non coordinati, parziale inaccessibilità in alcune fasce orarie. Uno spreco di potenzialità che contrasta con l'idea, sperimentabile in internet, che ci siano risorse on the cloud (contenuti, testi, informazioni) disponibili nel momento in cui se ne ha la necessità, senza doversi curare dell'organizzazione che le rende disponibili: cerco, trovo, prendo. Questa metafora può trovare un corrispettivo nel mondo fisico attraverso accordi fra istituzioni per dare forma a un servizio integrato, dove ogni nodo di questa «rete di reti bibliotecarie» è punto d'accesso a tutte le risorse disponibili. Ciò che contraddistingue il servizio bibliotecario diffuso non è l'assenza di strutture deputate alla sua erogazione ma la capacità di mobilitare tutte le realtà bibliotecarie cittadine sulla base di obiettivi concordati a priori, a prescindere dalle appartenenze amministrative. Le biblioteche possono essere ottimi attrattori territoriali per riqualificare una zona o un quartiere nella misura in cui risultano aperte, vitali, disponibili allo scambio di esperienze intellettuali. Gli edifici che le contengono devono essere dislocati studiando i flussi d'utenza potenziale e le barriere urbane, essere facilmente raggiungibili e visibili nel tessuto urbano, trasparenti perché devono invitare e accogliere, flessibili e rimodulabili all'interno per assecondare le trasformazioni d'uso. La componente simbolica di un istituto che vuole essere radicato nel presente e proiettato nel futuro richiede edifici architettonicamente prestigiosi, connotati in senso moderno e progettati per ospitare biblioteche del XXI secolo, non palazzi storici che celebrano un passato che non corrisponde più alla vocazione di Milano. Questa qualità dovrà essere immediatamente percepibile nella nuova biblioteca centrale, un'opera pubblica che il capoluogo lombardo attende da decenni. Un progetto moderno, da modellare sull'esempio delle migliori realizzazioni europee (Marsiglia, Aarhus, Delft), che tenga conto dell'evoluzione della forma del libro e delle tecnologie digitali ma che le integri secondo un principio di "fruizione attiva", cioè guidata per renderla esperta, all'interno di un'offerta di servizi finalizzata a offrire accesso a ogni forma di sapere a chiunque. La sostenibilità non riguarda solo i criteri costruttivi dell'edificio ma soprattutto la possibilità di garantire un servizio ottimale grazie alla presenza di personale formato nella ricerca complessa di informazioni, testi e documenti (quello che i bibliotecari chiamano "reference avanzato"), offrendo un mix calibrato di servizi in presenza – per non rinnegare la vocazione al l'essere parte di una comunità – e a distanza. Le biblioteche milanesi rappresentano una rete di luoghi d'incontro fortemente innervata nel contesto urbano, nelle quali si favoriscono processi di socializzazione fondati sulla condivisione di un ampio spettro di interessi e attività accomunate dalla matrice comune della lettura, dei media e dei contenuti culturali. Grazie a un capillare percorso di ascolto delle istanze di associazioni, comitati, operatori culturali e artisti, si stanno creando le condizioni per una programmazione che faccia leva sul l'idea di biblioteca come epicentro di alcune dimensioni della vita associata. Il sistema bibliotecario milanese è un ambiente orientato al l'apprendimento e all'elaborazione culturale che, soprattutto nelle periferie, può svolgere una funzione importante nel creare un contesto adeguato al dispiegarsi della creatività, una facoltà che siamo soliti considerare innata ma che in realtà si può apprendere attraverso interazioni adeguate. Le biblioteche come palestre per cittadini creativi e solidali. Stefano Parise è presidente dell'Aib; Aldo Pirola è direttore Settore biblioteche Comune di Milano © RIPRODUZIONE RISERVATA best practices online Online le foto di alcuni centri esemplari europei (nella foto, la Openbare Bibliotheek di Amsterdam) e altri contributi sul futuro delle biblioteche. www.ilsole24ore.com/domenica ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 19 Feb. ’12 SASSARI: POCHE PUBBLICAZIONI MA DI BUONA QUALITÀ Bravi e talvolta bravissimi i giovani, 29 i nomi di eccellenza dell’ateneo PASQUALE PORCU SASSARI. Sono 36 i ricercatori dell’Univeresità di Sassari considerati «eccellenti» dagli standard nazionali. Operano nelle aree di Agraria, Medicina, Biologia, Chimica, Veterinaria, Architettura, e Economia. Ma ci sono anche ricercatori «inattivi» che da tempo hanno smesso di produrre e altri che da tempo non pubblicano. Quelli inattivi, nell’ateneo turritano, sono il 15,9% (il dato nazionale è del 17,2%), mentre quelli «senza citazioni» sono il 23,1% (la media nazionale è del 24%). La valutazione dei ricercatori, o meglio, di tutti coloro che fanno ricerca nell’università di Sassari, è stata affidata alla Research Value, spin off del gruppo di ricerca del Laboratorio di Studi sulla Ricerca e il Trasferimento Tecnologico del Dipartimento di Ingegneria dell’Impresa dell’Università di Roma “Tor Vergata” e ha riguardato il periodo 2004- 2008. «L’analisi- dice la professoressa Donatella Spano, componente della Giunta di Ateneo con delega alla ricerca e trasferimento tecnologico - ha messo in evidenza che la produzione scientifica del nostro ateneo relativamente alle aree della ricerca sperimentale e applicata, benchè esigua dal punto di vista quantitativo, si colloca sopra la media nazionale come qualità». Inoltre, dice Spano «il 42% dei nostri docenti/ricercatori vanta una produzione scientifica (dal punto di vista quantitativo e qualitativo) superiore alla media nazionale. Il 42% dei ricercatori è distribuito in maniera omogenea in tutte le aree disciplinari. In questo 42% ben 36 si possono considerare Ricercatori Eccellenti» Negli ultimi due anni, fa notare la docente, «il governo del sistema della ricerca di ateneo è cambiato e ha visto un aggiornamento dei processi interni e la realizzazione di un sistema di regole nuove per la distribuzione delle risorse e per il reclutamento nelle posizioni di inserimento alla ricerca (dottorandi, assegnisti e ricercatori a tempo determinato)». «Ci siamo trovati di fronte a un nuovo quadro nazionale- precisa Donatella Spano- l’attuazione della Legge 240/2010 ha imposto la modifica dell’organizzazione delle strutture di ricerca, stiamo subendo la progressiva riduzione delle assegnazioni derivanti dal fondo di funzionamento ordinario (FFO) e parallelamente l’aumento della quota premiale del FFO (fino al 10% in relazione ai risultati della ricerca e della didattica), siamo sottoposti all’esercizio sulla valutazione della qualità della ricerca da parte dell’Anvur». I risultati ottenuti dall’attività di ricerca hanno contribuito all’assegnazione della quota premiale del FFO per circa il 70% grazie al miglioramento degli indicatori “Qualità della ricerca”. Il ridimensionamento delle risorse finanziarie FFO e i numerosi vincoli introdotti per la definizione dell’assetto organizzativo hanno rafforzato la funzione della programmazione delle risorse e della valutazione dei risultati quali strumenti strategici per lo sviluppo dell’ateneo. «La nostra politica- ribadisce Spano- è stata quella di sostenere il processo della ricerca con risorse aggiuntive e nel contempo di contribuire alla definizione delle regole per l’assegnazione delle risorse. Per esempio negli ultimi due anni è stato distribuito un contributo interno pari a 2milioni di euro ancorando la ripartizione ai criteri coerenti con quelli ministeriali vale a dire con la quantita e qualità della produzione scientifica individuale, considerata relativamente ad un arco temporale determinato. Si è fatto ricorso quindi, per la prima volta, al concetto di “Ricercatore Attivo”, introdotto a livello nazionale ai fini del processo di valutazione della ricerca pubblica. La valutazione della ricerca rappresenta quindi un tema centrale per le politiche di indirizzo dell’ateneo». La delegata per la Ricerca ritiene «fondamentale il lavoro svolto nella Consulta regionale per la ricerca finalizzato alla definizione delle regole e dei principi di investimento e di assegnazione delle risorse per la ricerca». Tutte le azioni sono state sviluppate in sinergia con l’Università di Cagliari. «In sostanza- dice Spano- abbiamo contribuito alla generazione di bandi per ricerca che hanno previsto un processo indipendente di valutazione basato su standard nazionali e internazionali. Attraverso il meccanismo della premialità e il finanziamento dei progetti di ricerca di base relativi sono arrivate risorse pari a circa 17 milioni di euro». Il livello della ricerca migliora anche attraverso il rafforzamento e potenziamento delle scuole di dottorato e della fase di primo inserimento nell’ operatività della ricerca. Con le risorse POR-Fondo Sociale Europeo l’ateneo ha potuto finanziare 84 borse di dottorato nelle aree delle scienze sperimentali e 33 per le aree delle scienze umanistiche e sociali e ha predisposto progetti per il reclutamento di 30 posti di ricercatore a tempo determinato e assegni di ricerca nell’ambito della conservazione e restauro dei beni culturali. I 69 progetti di ricerca del 2008 finanziati sulla Legge regionale 2007 hanno avuto 4 milioni e 700 mila euro, i 14 progetti del 2009, hanno avuto 2 milioni e mezzo, i 44 progetti del 2010 hanno avuto 7,5 milioni, i 6 progetti del 2011, hanno ottenuto un milione e 300 mila euro. ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 16 Feb. ’12 MASTINO: «LE NOSTRE RICHIESTE A NAPOLITANO» Un nuovo corso di laurea in ingegneria La fabbrica della cultura dopo 4 secoli e mezzo cambia vita e si rinnova PASQUALE PORCU SASSARI. L’Università di Sassari si appresta a festeggiare i suoi 450 anni di vita con una serie di iniziative che aiuteranno a capire quale sia stato il suo ruolo in questo territorio, nella regione e nel Mediterraneo. «La nostra- dice il magnifico rettore Attilio Mastino- è una grande università europea con molte punte di eccellenza, buoni rapporti internazionali e un importante processo di modernizzazione in atto». E proprio in quest’ultima tema rientra il progetto dell’ateneo sassarese di istituire un corso di laurea triennale in ingegneria informatica. Tempi e modalità del progetto? Per ora il rettore non vuole dare particolari, ma la macchina organizzativa è già partita e non è escluso che già dal prossimo anno accademico il corso di laurea possa essere attivato. Ma qual è la fotografia della università di Sassari a 450 anni dalla sua nascita? I numeri erano contenuti nell’intervento che il professor Mastino ha presentato all’inaugurazione dell’anno accademico 2011/2012. «Celebreremo solennemente i nostri 450 anni di vita nel mese di marzo,- aveva annunciato il rettore in quella occasione- ma intanto vogliamo aprire questo anno accademico pensando alla nuova università che insieme stiamo rifondando, dando esecuzione ad una legge, la n. 240 del 30 dicembre 2010, che non possiamo valutare positivamente, che ci ha dato tante amarezze, che è in qualche modo espressione del mito dell’aziendalizzazione delle università e del valore commerciale del sapere, ma che paradossalmente oggi è diventata la nuova frontiera per difendere l’autonomia universitaria, per valorizzare il merito, per conservare un patrimonio che ereditiamo con emozione, consapevoli che saremo giudicati per quello che non saremo stati capaci di fare, soprattutto se non affronteremo alcuni problemi centrali e alcune minacce». Meno risorse per il Sud «La spaventosa diminuzione delle risorse specie nel Mezzogiorno- aveva detto Mastino- lo scardinamento dell’intera struttura degli Atenei e la confusa ricomposizione dei Dipartimenti su nuove basi, l’indebolimento del Senato, la riduzione delle rappresentanze, l’impoverimento dei momenti di democrazia e di confronto, la ulteriore precarizzazione dei ricercatori dopo anni di duro apprendistato, la generale confusione di ruoli, di compiti, di obiettivi; elementi che richiedono politiche di integrazione che correggano il modello centralistico di base e combattano il rischio di un’ulteriore stretta oligarchica, confermata dall’espulsione dei ricercatori sia dalle commissioni di concorso sia dai requisiti per i dottorati». E se la crisi economica e finanziaria colpisce duro un po’ dovunque in Italia e in Europa, in Sardegna la situazione è drammaticamente più grave. E in questo quadro l’università di Sassari vuole giocare la propria parte. 665 docenti «Con i suoi 665 docenti, con i suoi 583 tecnici, amministrativi, bibliotecari, con i suoi 26 collaboratori esperti linguistici, con i suoi 15.561 studenti e oltre mille dottorandi e specializzandi- ribadisce ancora oggi il professor Mastino- l’Università di Sassari è una risorsa e non un peso. Lo diremo al presidente Giorgio Napolitano il 21 febbraio in occasione della sua visita a Sassari». Soprattutto, il magnifico rettore dell’ateneo turritano dirà al presidente della Repubblica, quanto «gli investimenti in conoscenza siano necessari» e di quanto «in Sardegna il compito dell’Università sia cruciale e come sia necessario arrivare alla nascita di un sistema regionale integrato in piena sinergia tra i due Atenei, con un modello di università a rete aperta ad una dimensione internazionale». E tra tanti segnali il rettore ricorda che «dal nostro osservatorio cogliamo tanti segnali di speranza, tanto impegno, tante aree di eccellenza: abbiamo aperto le celebrazioni per i 450 anni premiando con un tablet i nostri 450 migliori studenti, che sono veramente al centro dei nostri progetti». Eccellenze e fuoricorso Quando si parla di giovani Mastino ricorda «il recente premio nazionale ottenuto dalla giovane economista Francesca Piga, col progetto Campus mentis. Per non parlare del premio Unesco assegnato alla nostra chimica Valeria Alzari, riconoscimento insieme per una scuola scientifica e per un impegno personale». Accanto alle eccellenze, però, c’è la drammatica realtà dell’alto numero dei fuori corso: uno studente su due. E basta scorrere la tabella pubblicata in questa pagina per vedere che questo dato è praticamente costante negli anni. Ed è una ben magra consolazione sapere che il voto medio ottenuto negli esami sostenuti all’università di Sassari è 26 trentesimi. Lo scarso rendimento didattico proietta un effetto negativo anche sul bilancio finanziario dell’ateneo. Più peggiora il rendimento didattico meno soldi arrivano dal Ministero (si pensi che l’ateneo turritano poteva contare su 82 milioni nel 2008, nel 2011 sono dieci milioni di meno). A determinare un risultato didattico negativo, secondo molti docenti, contribuiscono almeno due fattori: la scarsa preparazione di base con cui i liceali affrontano gli studi universitari e una metodologia didattica nella quale molti ragazzi, più a loro agio col computer, non si riconoscono. Ben vengano pc e tablet, insomma, ma guai a dire a uno studente di leggere un libro in più. La classifica Censis E se fa piacere che l’università di Sassari sia al terzo posto nella graduatoria degli atenei medi (dai 10 ai 20 mila iscritti) del Censis pubblicata nella Guida all’Università de La Repubblica, non bisogna dimenticare che oltre ad Architettura (2º posto nella hit parade nazionale) e Agraria (8º posto) ci sono facoltà come Economia (27º posto), Medicina e Chirurgia (26ºposto), Lettere e Filosofia (33ºposto), Giurisprudenza (24º posto) con una tendenza, per qualche corso di laurea, a perdere piuttosto che a guadagnare posizioni in quella graduatoria. Da qualche giorno, inoltre, nell’università di Sassari le 11 facoltà sono state sostituite da 13 dipartimenti che, dice Mastino, saranno «la cellula di base nella quale didattica, ricerca, trasferimento a favore del territorio si incontrano, come è previsto nel nuovo statuto pubblicato il 23 dicembre sulla Gazzetta Ufficiale». I dipartimenti Dipartimento di Agraria, Architettura, Chimica e Farmacia, Giurispudenza, Economia, impresa e regolamentazione, Medicina Veterinaria, Scienze chirurgiche, microchirurgiche e mediche, Scienze biomediche, Medicina clinica e sperimentale, Storia, Scienze dell’uomo e della formazione, Scienze umanistiche e sociali, Scienze Politiche, comunicazione e Ingegneria dell’informazione e Scienze della natura e del territorio. ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 16 Feb. ’12 SASSARI LA FABBRICA DELLA CULTURA DOPO 4 SECOLI e mezzo cambia vita e si rinnova SASSARI. L’Università di Sassari si appresta a festeggiare i suoi 450 anni di vita con una serie di iniziative che aiuteranno a capire quale sia stato il suo ruolo in questo territorio, nella regione e nel Mediterraneo. «La nostra- dice il magnifico rettore Attilio Mastino- è una grande università europea con molte punte di eccellenza, buoni rapporti internazionali e un importante processo di modernizzazione in atto». E proprio in quest’ultima tema rientra il progetto dell’ateneo sassarese di istituire un corso di laurea triennale in ingegneria informatica. Tempi e modalità del progetto? Per ora il rettore non vuole dare particolari, ma la macchina organizzativa è già partita e non è escluso che già dal prossimo anno accademico il corso di laurea possa essere attivato. Ma qual è la fotografia della università di Sassari a 450 anni dalla sua nascita? I numeri erano contenuti nell’intervento che il professor Mastino ha presentato all’inaugurazione dell’anno accademico 2011/2012. «Celebreremo solennemente i nostri 450 anni di vita nel mese di marzo,- aveva annunciato il rettore in quella occasione- ma intanto vogliamo aprire questo anno accademico pensando alla nuova università che insieme stiamo rifondando, dando esecuzione ad una legge, la n. 240 del 30 dicembre 2010, che non possiamo valutare positivamente, che ci ha dato tante amarezze, che è in qualche modo espressione del mito dell’aziendalizzazione delle università e del valore commerciale del sapere, ma che paradossalmente oggi è diventata la nuova frontiera per difendere l’autonomia universitaria, per valorizzare il merito, per conservare un patrimonio che ereditiamo con emozione, consapevoli che saremo giudicati per quello che non saremo stati capaci di fare, soprattutto se non affronteremo alcuni problemi centrali e alcune minacce». Meno risorse per il Sud «La spaventosa diminuzione delle risorse specie nel Mezzogiorno- aveva detto Mastino- lo scardinamento dell’intera struttura degli Atenei e la confusa ricomposizione dei Dipartimenti su nuove basi, l’indebolimento del Senato, la riduzione delle rappresentanze, l’impoverimento dei momenti di democrazia e di confronto, la ulteriore precarizzazione dei ricercatori dopo anni di duro apprendistato, la generale confusione di ruoli, di compiti, di obiettivi; elementi che richiedono politiche di integrazione che correggano il modello centralistico di base e combattano il rischio di un’ulteriore stretta oligarchica, confermata dall’espulsione dei ricercatori sia dalle commissioni di concorso sia dai requisiti per i dottorati». E se la crisi economica e finanziaria colpisce duro un po’ dovunque in Italia e in Europa, in Sardegna la situazione è drammaticamente più grave. E in questo quadro l’università di Sassari vuole giocare la propria parte. 665 docenti «Con i suoi 665 docenti, con i suoi 583 tecnici, amministrativi, bibliotecari, con i suoi 26 collaboratori esperti linguistici, con i suoi 15.561 studenti e oltre mille dottorandi e specializzandi- ribadisce ancora oggi il professor Mastino- l’Università di Sassari è una risorsa e non un peso. Lo diremo al presidente Giorgio Napolitano il 21 febbraio in occasione della sua visita a Sassari». Soprattutto, il magnifico rettore dell’ateneo turritano dirà al presidente della Repubblica, quanto «gli investimenti in conoscenza siano necessari» e di quanto «in Sardegna il compito dell’Università sia cruciale e come sia necessario arrivare alla nascita di un sistema regionale integrato in piena sinergia tra i due Atenei, con un modello di università a rete aperta ad una dimensione internazionale». E tra tanti segnali il rettore ricorda che «dal nostro osservatorio cogliamo tanti segnali di speranza, tanto impegno, tante aree di eccellenza: abbiamo aperto le celebrazioni per i 450 anni premiando con un tablet i nostri 450 migliori studenti, che sono veramente al centro dei nostri progetti». Eccellenze e fuoricorsoQuando si parla di giovani Mastino ricorda «il recente premio nazionale ottenuto dalla giovane economista Francesca Piga, col progetto Campus mentis. Per non parlare del premio Unesco assegnato alla nostra chimica Valeria Alzari, riconoscimento insieme per una scuola scientifica e per un impegno personale». Accanto alle eccellenze, però, c’è la drammatica realtà dell’alto numero dei fuori corso: uno studente su due. E basta scorrere la tabella pubblicata in questa pagina per vedere che questo dato è praticamente costante negli anni. Ed è una ben magra consolazione sapere che il voto medio ottenuto negli esami sostenuti all’università di Sassari è 26 trentesimi. Lo scarso rendimento didattico proietta un effetto negativo anche sul bilancio finanziario dell’ateneo. Più peggiora il rendimento didattico meno soldi arrivano dal Ministero (si pensi che l’ateneo turritano poteva contare su 82 milioni nel 2008, nel 2011 sono dieci milioni di meno). A determinare un risultato didattico negativo, secondo molti docenti, contribuiscono almeno due fattori: la scarsa preparazione di base con cui i liceali affrontano gli studi universitari e una metodologia didattica nella quale molti ragazzi, più a loro agio col computer, non si riconoscono. Ben vengano pc e tablet, insomma, ma guai a dire a uno studente di leggere un libro in più. La classifica Censis E se fa piacere che l’università di Sassari sia al terzo posto nella graduatoria degli atenei medi (dai 10 ai 20 mila iscritti) del Censis pubblicata nella Guida all’Università de La Repubblica, non bisogna dimenticare che oltre ad Architettura (2º posto nella hit parade nazionale) e Agraria (8º posto) ci sono facoltà come Economia (27º posto), Medicina e Chirurgia (26ºposto), Lettere e Filosofia (33ºposto), Giurisprudenza (24º posto) con una tendenza, per qualche corso di laurea, a perdere piuttosto che a guadagnare posizioni in quella graduatoria. Da qualche giorno, inoltre, nell’università di Sassari le 11 facoltà sono state sostituite da 13 dipartimenti che, dice Mastino, saranno «la cellula di base nella quale didattica, ricerca, trasferimento a favore del territorio si incontrano, come è previsto nel nuovo statuto pubblicato il 23 dicembre sulla Gazzetta Ufficiale». I dipartimenti Dipartimento di Agraria, Architettura, Chimica e Farmacia, Giurispudenza, Economia, impresa e regolamentazione, Medicina Veterinaria, Scienze chirurgiche, microchirurgiche e mediche, Scienze biomediche, Medicina clinica e sperimentale, Storia, Scienze dell’uomo e della formazione, Scienze umanistiche e sociali, Scienze Politiche, comunicazione e Ingegneria dell’informazione e Scienze della natura e del territorio. ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 Feb. ’12 I PROF E LA GAFFE DEL “PECORINO” Il ministero scivola sulla traduzione casearia LUCA MAROGNOLI ROMA. Che c’azzecca il formaggio con il Kamasutra? Chiedetelo al ministero dell’Istruzione, che forse sulle arti casearie avrà qualcosa da insegnare ma su quelle erotiche evidentemente un po’ meno. Nel tradurre su internet il titolo di un bando dell’Università di Firenze, infatti, il Miur ha trasformato il pecorino in “pecorina”, richiamando una celebre posizione dell’amore contemplata dal testo sacro sul sesso. “Dalla pecora al pecorino” è diventato “From sheep to Doggy Style” - letteralmente “alla maniera dei cani” o, come dicevano i latini, “more ferarum” - facendo sghignazzare gli internauti di mezza Italia (e, c’è da scommetterci, la svista verrà presto spiegata, con o senza illustrazioni, ai navigatori del resto del globo). Bocciato in erotismo, il Ministero si è riscattato con una buona prova in umorismo, anzi in autoumorismo (e che nessuno adesso pensi a qualche pratica onanistica). Nei palazzi di viale Trastevere ci hanno riso su dedicando alla gaffe hot, sulla home page del Miur, un focus dal titolo ironico: «Le sviste di un “infallibile” Ministero». Un minidossier confezionato ad hoc che sdrammatizza il caso con simpatia: «Cari amici della rete, ultimamente vi abbiamo intrattenuto con alcuni errori involontariamente comici, tra i quali: Il portale “Scuola in chiaro” che includeva fra i comuni italiani alcune località, tra cui Caporetto, che non lo sono più da decenni. E poi da ultimo - per ora... - una traduzione maccheronica dall’italiano all’inglese, dagli effetti esilaranti, di un bando di ricerca relativo al formaggio pecorino». Ma anche i “cervelloni” del Miur possono spiegarsi male: «Non potete nemmeno immaginarvi quanto sia grande ed estesa la struttura amministrativa del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Sono grandi numeri: oltre 10 mila scuole, quasi un milione d’insegnanti, circa 8 milioni di studenti, migliaia di dirigenti, centinaia di migliaia di personale non docente e amministrativo, uffici distribuiti su tutto il territorio nazionale. Senza contare gli atenei, i professori universitari, gli enti di ricerca, i ricercatori e, anche in questo caso, tutto il personale delle amministrazioni. Non sbagliare mai è quasi impossibile». Per questo, conclude la nota, «vi ringraziamo dell’attenzione e dell’affetto con il quale quotidianamente leggete e scrutinate le migliaia di pagine e documenti pubblicati da questa amministrazione. Grazie alle vostre segnalazioni siamo venuti a conoscenza anche noi di errori, alcuni dei quali decisamente surreali. Si tratta di un lavoro prezioso che ci aiuta a correggerci e a migliorare. Vi invitiamo a continuare a farlo e, se vorrete, l’ufficio stampa e il sito sono a disposizione per le vostre segnalazioni». Intanto il “contagio” online è iniziato: l’esilarante bando universitario - sembra imputabile ad un traduttore automatico - è finito pure sul sito della Commissione europea. Chissà che non chiedano conto anche di questo a Mario Monti, che si trova da quelle parti. Nell’eventualità, presidente, non risponda. Non è materia da “professori”. ========================================================= ______________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Feb. ’12 IL MINISTRO: «MAI PIÙ VISITE IN STUDIO PER I MEDICI DEI NOSTRI OSPEDALI» A giugno stop alle deroghe: «Con l'intramoenia si farà sul serio» ROMA — «La fase transitoria è finita. Adesso con la libera professione dei medici si fa sul serio». Come padre della Riforma sanitaria che nel 1999 ha cambiato la vita dei camici bianchi pubblici, il ministro della Salute Renato Balduzzi vuole spingere l'acceleratore per completare il progetto nato quando era capo dell'ufficio legale dell'ex ministro Rosy Bindi. «Non ci saranno altre deroghe», annuncia mentre i sindacati chiedono di prorogare la cosiddetta «intramoenia allargata» da lui definita «modalità contraddittoria». In parole semplici: il medico che sceglie il rapporto in esclusiva col servizio sanitario, se l'ospedale non ha spazi per l'attività privata (intramoenia), continua a visitare nel suo studio. Il decreto Milleproroghe stabiliva che il doppio regime fosse prolungato fino al 31 dicembre del 2012. Un emendamento del Pd approvato in Senato ha invece anticipato la scadenza al 30 giugno. Ministro, niente più deroghe? «Le commissioni parlamentari hanno manifestato la volontà di superare la fase transitoria e il governo è tenuto a conformarsi. Occorre trovare una soluzione. Aspettiamo proposte. L'importante è non generare guerre fra bande. Ma l'equilibrio non si ottiene con un'altra deroga». In 13 anni solo il 50% degli ospedali hanno organizzato la vera libera professione intramuraria. Ora mancano 4 mesi. «Vedo il bicchiere mezzo pieno. Il 50% delle strutture ha rispettato i diritti del cittadino che secondo la Costituzione deve poter scegliere chi lo cura. In 13 anni il sistema si è assestato, ha trovato modelli di riferimento. Siamo pronti». Riscriverebbe la norma sulla libera professione intramuraria? «L'obiettivo era che il medico si identificasse con l'ospedale e questo è avvenuto nelle aziende che hanno organizzato spazi interni. Dunque bisogna completare il cammino. Le critiche riguardano il pericolo che si creino due canali, uno pubblico l'altro privato. Se l'intramoenia è applicata correttamente, con regole di trasparenza, controllo dei volumi di prestazioni private e liste di attesa, funziona perché fidelizza il medico. Inoltre la regola era stata pensata affinché l'esclusività fosse una discriminante per l'affidamento di incarichi a medici legati all'azienda». La politica governa i concorsi per primari. Come intervenire? «Occorre una graduatoria dei candidati, anziché una terna. Il direttore generale sceglierà motivando la decisione. Proporrò un emendamento alla legge sul governo clinico. La commissione giudicante sarà presieduta dal direttore sanitario dell'azienda e due primari sorteggiati. Un elemento di garanzia. Dobbiamo però fare attenzione a non scardinare il principio dell'aziendalizzazione. Chi ha responsabilità deve mantenere il potere di circondarsi di persone di fiducia». Pazienti visitati per terra al pronto soccorso del San Camillo di Roma. Perché? «Manca il collegamento con i servizi territoriali. Il pronto soccorso è il terminale dell'inefficienza di una rete e risente di un atteggiamento errato. Viene considerato un luogo dove correre per qualsiasi problema. Nel prossimo Patto della Salute dobbiamo prevedere che la rete dei medici di famiglia funzioni sette giorni la settimana anziché cinque. Il principio della continuità delle cure è riportato in tutti i contratti, ma è rimasto sulla carta. Il cittadino deve capire che l'ospedale serve per problemi seri, non per l'influenza». I piani di rientro delle Regioni, come il Lazio, vengono approvati dal governo. Non condividete le responsabilità? «Le Regioni non sono obbligate a tagliare in modo indiscriminato i posti letto né ad applicare trasversalmente il blocco del turn over. Il sistema va in tilt quando il piano viene interpretato come un intervento di rientro economico e non di riorganizzazione». Liberalizzazioni. Le aziende farmaceutiche contestano la norma sull'obbligo da parte del medico di indicare nella prescrizione il farmaco equivalente di minor costo. Tornerete indietro? «Abbiamo già chiarito che potrà essere indicata la non sostituibilità. Se le aziende temono di dover tagliare linee di produzioni e dipendenti, perché non abbassano il prezzo dei medicinali fuori brevetto allineandoli agli equivalenti?». Margherita De Bac mdebac@corriere.it _________________________________________________ Sardegna Quotidiano 13 Feb.’12 AOUCA: SANITÀ PRIMO SEMAFORO ROSSO PER I ROMENI IN SALA OPERATORIA La City Insurance copre le responsabilità per le colpe mediche L’INDAGINE A VENEZIA Fiamme Gialle allertate sulle accuse di riciclaggio. IL BUSINESS DA 4 MILIONI La City Insurance assicura le colpe mediche dei medici di Asl8 e Azienda Mista. I direttori generali delle aziende, Emilio Simeone e Ennio Filigheddu, avevano spiegato: hanno vinto una gara d’appalto regolare ASSICURAZIONI Dal Veneto stop alla compagnia sbarcata anche a Cagliari che deve garantire sulle colpe mediche Qualcosa in Veneto si muove. Meglio, si blocca: la giunta regionale guidata dal leghista Luca Zaia ha deciso di fermare l’appalto per le assicurazioni sulle colpe mediche. Un bando da 70 milioni al quale aveva partecipato solo la City Insurance, società italo-romena sulla quale negli ultimi mesi sono stati sollevati numerosi sospetti. È la stessa compagnia che dall’estate scorsa (grazie a un’offerta enormemente bassa) copre le responsabilità dei medici di Asl 8 e Azienda Mista: se un paziente subisce un danno dopo un intervento, per esempio, non sarà il professionista a dover pagare i risarcimenti, ma sarà l’assicurazione a dover intervenire. La City Insurance, quindi, dovrebbe garantire per eventuali responsabilità, dopo aver vinto i due appalti urgenti indetti dalle aziende sanitarie, per una torta di circa quattro milioni all’anno, da moltiplicare per tre. A dicembre però sulla società di Bucarest si sono sollevate le prime la loro offerta era la più bassa, non potevamo fare altro che assegnare . ombre. Chi ha cercato di capire chi ci fosse dietro si è imbattuto in intrecci societari che hanno portato a Spaliquidate e persone che hanno gestito società di brokeraggio che un pentito di camorra ha definito “cosa loro”. La compagnia italo-romena intanto ha fatto incetta di appalti, conquistando, oltre a una buona fetta di sanità cagliaritana, anche tutta quella veneta, parte di quella dell’Emilia Romagna e pure i soldi del dissestato San Raffaele del defunto Don Verzè. Da tempo l’I sva p, autorità di vigilanza sulle assicurazioni, ha aperto un procedimento sugli intermediari italiani della CityInsurance. Le notizie sulla scarsa trasparenza nella gestione del business (basti pensare che il sito della compagnia, nonostante l’espansione enorme, è in costruzione da mesi) sono rimbalzate in tutte le città coinvolte. E in Veneto qualcuno le ha messe nero su bianco, con una lettera anonima spedita al governatore Zaia, secondo la quale dietro il gruppo campano-pugliese-romeno in realtà ci sarebbe un grosso giro di riciclaggio di denaro della criminalità organizzata. Accuse che il presidente Nicolae Mausat, da Bucarest, ha respinto con vigore, dichiarando l’as soluta correttezza del suo operato. Così come ha smentito le accuse uno dei soci, Dionisio Piacquadio, pugliese: «Abbiamo dato fastidio a qualcuno, per questo vengono dette tante inesattezze sul nostro conto», ha spiegato. È certo però che Zaia non ha preso sottogamba la situazione, e dopo aver avviato una verifica ha deciso di affidare le assicurazioni sanitarie a una società regionale in house. La motivazione ufficiale, che a breve sarà trasferita in una delibera della sua giunta, è semplice: così si risparmia. Ma non è escluso che a influire sulla decisione sia stato anche l’interessamento allo strano appalto da parte della Guardia di Finanza di Venezia, che potrebbe aver bussato a più di una porta dopo aver visionato la lettera anonima. Enrico Fresu ______________________________________________________________ L’Unione Sarda 18 Feb. ’12 DONAZIONI, L'ISOLA FINISCE SUL PODIO Terzo posto in Italia, lo scorso anno 98 i trapianti d'organo Non è stato raggiunto il record di oltre 100 cento trapianti del 2004, quando la reazione alla tragedia aerea costata la vita all'équipe di cardio-chirurgia dell'ospedale Brotzu guidata dal Alessandro Ricchi scosse i sardi, facendo aumentare le donazioni. Sta di fatto che la Sardegna conferma l'antica generosità, piazzandosi al terzo posto tra le regioni italiane per donazioni: un risultato che ha fatto crescere il numero dei trapianti, arrivati a 98. I DATI È quanto emerso ieri all'assessorato regionale della Sanità, dove è stato presentato il bilancio annuale della rete regionale per i trapianti. E sono i numeri del 2011 a riassumere i risultati lusinghieri dell'attività: 58 trapianti di rene, 10 di cuore e 26 di fegato oltre alle 36 cornee donate e inviate alla Banca delle cornee della Regione Veneto (visto che nell'Isola ancora non esiste). «Le famiglie sarde sono state generosissime», ha chiarito l'assessore Simona De Francisci, «ora scatterà una campagna d'informazione. I trapianti, oltre che restituire la vita alle persone che stanno male, permettono alla Regione di incidere sulla spesa sanitaria. L'esempio? La dialisi costa 50 mila euro l'anno per paziente, grazie ai trapianti di rene abbiamo risparmiato 2 milioni». IL PRECEDENTE Lo scorso anno dai 14 reparti di rianimazione sardi sono arrivate 62 segnalazioni di possibile donazione, accolti da 50 familiari (7 non idonei, 12 rifiuti). La nuova campagna di sensibilizzazione costerà alla Regione 150 mila euro (sarà diffuso uno spot pubblicitario firmato Gavino Sanna). «Quest'anno abbiamo formato 70 tra medici, infermieri e specialisti», ha detto Emilio Simeone, manager Asl a Cagliari, «ma stiamo per far partire i nuovi corsi per prepararne ancora. Impegneremo 100 mila euro». Un monito a non abbassare la guardia è stato lanciato dal direttore sanitario Ugo Storelli: «L'anno prossimo si celebrerà il 25° anniversario dell'avvio dell'attività trapiantistica nell'Isola», ha ricordato, «molto è stato fatto, ma bisogna migliorarsi: senza donazioni non esiste la possibilità di trapiantare». GLI SPECIALISTI Ai vertici dell'attività isolana c'è l'ospedale Brotzu di Cagliari, che ha più che raddoppiato il numero di segnalazioni, diventando punto di riferimento per chi soffre di patologie cardiache, renali e del fegato. «Proprio sui trapianti di fegato», ha chiarito il manager Tonino Garau, «stiamo puntando a diventare un polo specialistico». Soddisfazione è stata espressa dal direttore del Centro regionale trapianti Carlo Carcassi: «La Sardegna ha numeri che ci permettono di distinguerci anche in contesti internazionali», ha sottolineato, «anche nella donazione di cellule staminali: ci sono già 161 sardi che hanno donato a pazienti che non conoscono». Francesco Pinna ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 18 Feb. ’12 RECORD DI DONAZIONI, LA SARDEGNA AL TERZO POSTO: CAMPIONE DI generosità Umberto Aime CAGLIARI. Generosi. Ancora una volta, come sempre accade, i sardi dimostrano di essere in Italia fra i più sensibili nella donazione degli organi. Nel 2011, la Sardegna ha confermato il suo terzo posto nella classifica fra le regioni nel rapporto fra la popolazione residente e il numero di donatori. Solo Emilia Romagna e Friuli-Venezia Giulia hanno valori più alti, ma l’isola è davanti a tutti nell’incremento rispetto agli ultimi dodici mesi: è stato del 9 per cento, il più alto. C’è un altro numero che conferma la generosità della Sardegna: sui sessantadue casi segnalati dai centri di rianimazione regionali come possibili donatori, ben cinquanta famiglie hanno dato il loro assenso al prelievo. L’opposizione è stata appena del 19,4 per cento con un meraviglioso meno 8,5 rispetto ai no registrati nel 2010. Quando si parla di donazioni e trapianti le tabelle, elaborate del Centro regionale, hanno certo grande importanza, anche se poi rischiano di far finire in secondo piano quello che è l’aspetto più importante: la campagna di sensibilizzazione. Carlo Carcassi, direttore del Centro, lo ha detto più volte, durante la presentazione del dossier: «Non possiamo che ringraziare - le sue parole - tutte quelle associazioni di volontariato che da sempre si prodigano per diffondere a ogni livello la scelta della donazione di organi. Scelta importante e sempre più consapevole - ha proseguito - soprattutto fra i giovani». È nelle scuole che il messaggio della generosità riesce da tempo a far maggiormente strada, fino a essere il controcanto, quello più sincero, nei confronti di chi invece sostiene: le classi sono zeppe di bulli senza cuore. Non è vero, i ragazzi il cuore ce l’hanno, eccome. Sempre secondo Carlo Carcassi è fondamentale anche il ruolo delle famiglie: «È in quel contesto - ha detto - che quasi sempre, soprattutto grazie al decisivo confronto fra genitori e figli, matura la scelta di essere un donatore d’organi. Ed è sempre all’interno della famiglia che quella decisione è subito condivisa con gli altri componenti. A quel punto, diventano loro i custodi della scelta individuale e saranno loro a dare l’assenso in futuro». È un percorso virtuoso che in Sardegna ha dato finora ottimi risultati. Lo ha detto anche l’assessore regionale alla sanità, Simona De Francisci: «Tutto questo è un esempio chiaro e forte - ha detto - di quanto sia alto il valore della solidarietà fra noi sardi. I dati che nel 2011 hanno confermato la nostra isola ai primi tre posti a livello nazionale e al primo fra le regioni del centro-sud, siamo davanti al Lazio, alla Campania e alla Sicilia, premiano il lavoro quotidiano e senza sosta degli operatori sanitari e delle associazioni di volontariato, per arrivare allo straordinario traguardo di una solidarietà che vale sempre più una vita». È un successo, non c’è dubbio, ma la donazione è come una pianta: va innaffiata ogni giorno, perché solo così un domani potrà dare i frutti sperati, altrimenti moriranno anche le idee e i principi. «Abbiamo in progetto - ha detto l’assessore - di proseguire su questa strada della sensibilizzazione e infatti è pronta una nuova campagna che sarà rivolta soprattutto ai giovani». E i risultati di quanto sia decisivo essere fra la gente, parlare con la gente, come fa l’associazione Admo, è in un’altra classifica, quella nazionale sui donatori di midollo osseo, con la Sardegna che da sempre ha l’indice più alto rispetto alla popolazione, è il 15,25 per cento, con ormai oltre venticinquemila sardi iscritto nel registro dei donatori. Sono raddoppiate anche le donazioni di cellule staminali da midollo osseo, con ben 13 nel 2011, per un totale di 161 casi. Adesso oltre a rafforzare la campagna per le donazioni a favore dei trapianti, l’assessorato alla Sanità è impegnato nel consolidamento della banca del sangue presente nel cordone ombelicale, ricco di cellule staminali e quindi decisivo per curare in futuro i nascituri: «A pochi mesi dall’istituzione della Banca - ha detto l’assessore - abbiamo avuto subito degli ottimi riscontri e adesso puntiamo all’apertura dei centri in tutti i punti nascita della Sardegna». _________________________________________________ TST 15 Feb.’12 FORSE NON TUTTI SANNO CHE LA DOPPIA ELICA SI È TRIPLICATA Le leggi dell'evoluzione obbediscono a un complesso meccanismo a tre dimensioni A volte i geni sembrano seguire gli adattamenti di un organismo anziché guidarli MAURO MANDRIOLI UNIVERSITÀ DI MODENA a doppia elica è la struttura del Dna, come tutti sanno da Watson e Crick in poi. La tripla elica, invece, è la bella immagine con cui un decennio fa Richard Lewontin ha rappresentato la complessità del mondo vivente in un fortunato libro di divulgazione e dibattito. Non solo geni, ma anche organismi e ambiente. Questi erano gli elementi della sua trinità biologica. Oggi quella stessa metafora può essere ripresa e aggiornata per raccontare le tre dimensioni dell'evoluzione. Prendiamo il rapporto tra i geni di un essere vivente e la struttura del suo corpo. Secondo lo schema classico, ancora oggi valido, sono i geni attivi che guidano l'evoluzione della forma, tanto che i cambiamenti nel patrimonio genetico (le mutazioni) possono determinare delle alterazioni morfologiche. Così accade, ad esempio, in molte malattie genetiche. Ma è questa l'unica via che l'evoluzione ha seguito? Negli ultimi anni un numero crescente di studi ha dimostrato che molti tratti morfologici possono variare in funzione delle condizioni ambientali e così individui geneticamente identici presentano forme diverse. Il moscerino della frutta Drosophila mela-nogaster è uno degli animali di riferimento per la genetica. Ebbene, la distribuzione di zone colorate sulle sue ali può derivare sia da mutazioni genetiche sia da una variazione della temperatura. E questo è soltanto un esempio di come tratti del tutto simili possano essere determinati sia da stimoli di tipo ambientale sia da cambiamenti stabili del Dna, a indicare una sorta di intercambiabilità fra geni e ambiente. L'altra faccia della medaglia è che da un singolo patrimonio genetico possono derivare forme diverse in risposta a stimoli ambientali differenti, un fenomeno detto «plasticità fenotipica». Lo studio delle influenze dell'ambiente sull'anatomia dei viventi è oggi un ambito di ricerca estremamente attivo, poiché la plasticità fenotipica può permettere a una popolazione di «guadagnare tempo» per adattarsi a nuove condizioni ambientali. Quando le specie invasive colonizzano un nuovo habitat, ad esempio, per molto tempo le loro popolazioni possono essere costituite da pochi individui sparsi in diverse località. A questa fase iniziale, • generalmente, segue una sorta di esplosione demografica in una singola località, da cui partirà la vera e propria invasione. Sulla base di ciò che sappiamo oggi, possiamo ipotizzare che dall'interazione tra i geni e l'ambiente derivi quella eterogeneità di forme che, all'inizio, serve alla specie invasiva per sopravvivere e da cui deriverà la comparsa di mutazioni vantaggiose in qualche popolazione, che le utilizzerà immediatamente per diffondersi nei territori conquistati. Un meccanismo simile potrebbe essere anche alla base dell'origine di- nuove specie, poiché una popolazione che si è insediata in una nuova località, inizialmente, potrebbe adattarsi grazie a variazioni anatomiche dovute all'interazione geni- ambiente per poi differenziarsi anche geneticamente, diventando poi una nuova specie. - Pur essendo ancora indiscutibilmente vera la visione per cui dalla selezione naturale di mutazioni casuali deriva l'adattamento, si aprono oggi nuovi scenari, in cui i geni non sono sempre i primi attori nell'evoluzione. In alcune circostanze i geni sembrerebbero seguire il processo adattativo piuttosto che guidarlo. Ma come può l'ambiente influenzare il modo in cui il nostro Dna si attiva? La doppia elica è legata da numerose proteine, tra cui alcune chiamate istoni, che possono subire delle modificazioni chimiche dette epigenetiche. Di conseguenza il Dna può essere più o I meno usato per guidare la sintesi , della molecola (PRna) che fa da intermediario per la produzione di proteine. L'ambiente può agire su queste modificazioni, che non riguardano la sequenza di lettere I o di basi del Dna, andando a cambiare il modo in cui un gene di esprime. L'interazione tra i geni e l'ambiente è quindi mediata dell'epigenetica. Ecco come genetica, epigenetica e- ambiente rappresentano le tre dimensioni dell'evoluzione. A cura dell'Agi - Associazione Genetica Italiana _________________________________________________ TST 15 Feb.’12 IL LASER SUPER CHE È CAPACE DI "TRASMUTARE" LA MATERIA Su "Nature" l'esperimento quasi-alchemico di un fisico italiano MARCO PIVATO he cosa distingue l'acqua dal ghiaccio e dal vapore? L'intensità con i cui vibrano i legami tra le molecole: più vibrano intensamente e più l'acqua assomiglia al vapore; più vibrano lentamente e più l'acqua assomiglia al ghiaccio. Com'è noto, è molto facile liquefare un cubetto di ghiaccio e poi fare evaporare il tutto: per indurre i passaggi di stato, infatti, basta alzare la temperatura. In tal modo forniamo energia alle molecole e, così, i legami che tengono unito il reticolo del ghiaccio vibrano sempre più, fino alla fusione e poi alla vaporizzazione. Aumentare l'energia cinetica degli atomi di un cristallo di ghiaccio, alzando la temperatura, è semplice. Ma che cosa succede, invece, a infondere molta più energia, ad alterare cioè in modo prepotente gli «stati vibrazionali» che legano un atomo all'altro? D'improvviso cambiano le proprietà della molecola. Non si tratta di semplici passaggi di stato, bensì dell'induzione di inedite caratteristiche, mai osservate in natura per uno specifico materiale. In questo modo - è l'obiettivo - si potranno ottenere prodotti dalle eccezionali prestazioni. Per esempio, «supporti magnetici per hard-disk dalla memoria straordinaria, superconduttori così potenti da rendere obsoleti quelli del Cern, isolanti iper-efficienti e poi metalli che sembrano venire da un altro mondo, oltre a una serie di applicazioni che potranno rivoluzionare l'industria' civile e militare e soprattutto quella dell'alta tecnologia»: così ne parla, con toni entusiastici, Cristian Manzoni, recluta del Cnr in forze al Max Planck Institute, che ha descritto la procedura di questi «alchemici» esperimenti sulla rivista «Nature Physics», assieme al team di ricercatori dell'Istituto di fotonica e nanotecnologie dello stesso Cnr - che ha sede al Politecnico di Milano - in collaborazione con i colleghi del prestigioso istituto tedesco e dei dipartimenti di fisica applicata dell' Università di Tokyo e dell'Università del Michigan. «Le basi di questi test - spiega Manzoni - hanno origine da studi di ottica non lineare». Esperimenti analoghi, infatti, erano stati condotti sulla luce, ma mai prima d'ora sulla materia. «Si è osservato che è possibile cambiare le proprietà della luce "esaltando" gli stati vibrazionali dei fotoni: oltre una certa soglia compaiono colori sempre- diversi. La fonte di luce, sottoposta a questo "stress", passa, per esempio, dal rosso al blu. Adesso - aggiunge Manzoni - stiamo eseguendo gli stessi test non già con gli stati vibrazionali dei fotoni di luce, ma con quelli degli atomi che compongono la materia». Un obiettivo che era stato inseguito per decenni, ma che è approdato alla prova sperimentale soltanto adesso. Anche i legami atomici, in effetti, posseggono stati vibrazionali. Per spiegare di che cosa si tratta il ricercatore usa questa metafora: «Possiamo immaginare i legami tra atomi in una molecola come delle molle. Immaginiamo poi di aumentare l'energia delle vibrazioni di queste molle fino ad arrivare al punto di rottura. È a questo stadio che la materia adotta comportamenti inediti. Abbiamo infatti osservato nuove "famiglie" di stati vibrazionali e stiamo valutando come indurli all'occorrenza per riuscire a modificare le proprietà ordinarie della materia». Stressare lo stato vibrazionale associato al legame di un atomo fino al punto di rottura, e comprenderne gli effetti, è un concetto molto complicato in apparenza. In realtà può risultare un po' più intuitivo se si pensa all' acustica. Il paragone lo esemplifica così Manzoni: «Avete in mente quando alzate il volume dello stereo fino a distorcere una canzone? Con il potenziometro al massimo le vibrazioni, nell'altoparlante, producono suoni nuovi. E, sebbene siano cacofonici per il nostro orecchio, manifestano proprietà acustiche di nuova natura rispetto a quelle "pulite" della sorgente, quando invece il volume è tenuto basso. Noi abbiamo fatto Io stesso, ma non con le onde sonore: l'abbiamo fatto con le onde vibrazionali degli atomi». Si tratta di un'impresa resa possibile grazie a un laser sperimentale, con il quale è possibile intervenire sulla materia. «Funziona concentrando tutta l'energia della luce in un punto, dopo aver sovrapposto coerentemente le sue diverse lunghezze d'onda: così si ottiene una nuova fonte luminosa - aggiunge il ricercatore -, il nostro laser, appunto». Il principio, per quanto sorprendente, risulta identico a quello della formazione di uno tsunami, «dove le onde, sovrapposte in modo coerente e in contemporanea, danno origine a una super-onda di enorme entità. Il nostro raggio di luce è quindi così potente da sottoporre i legami degli atomi di un cristallo a sollecitazioni davvero fortissime». In questo caso a essere testato è un minerale, un ossido doppio di calcio e titanio, noto come Perovskite. Dopo aver vinto, in Germania, la sua scommessa professionale con «Nature», Cristian Manzoni ha deciso di tornarsene a Milano, meritandosi dai colleghi un nobile epiteto: «Cervello di ritorno». «L'ho fatto - conclude - per amore verso il mio Paese, per tenere alta la bandiera della ricerca italiana e per continuare un esperimento che d'ora in avanti spalancherà inimmaginabili scenari». _________________________________________________ RMO 15 Feb.’12 NUOVE FRONTIERE NELLA RIABILITAZIONE Le applicazioni medicali della robotica toccano l'eccellenza in Lombardia, dove ricercatori e medici collaborano in progetti sviluppati tra Italia e Israele. Di seguito la descrizione di una realtà molto interessante che nasce da uno scambio internazionale che premia competenze e conoscenze nuove tecnologie per la riabilitazione sono al centro di una partnership consolidata tra Italia e Israele che punta ad applicare la robotica al campo della medicina riabilitativa. Le attività rientrano nell'impegno profuso dalla Regione Lombardia a sostegno di progetti di collaborazione scientifico-tecnologici internazionali, e per i quali sono stati stanziati 27 milioni di euro. E la partnership tra l'Itia, Istituto di Tecnologie Industriali e Automazione del CNR, e Technion, Israel Institute of Technology di Haifa, ha già portato a importanti iniziative che coinvolgono i mondi dell'automazione, della robotica e dei dispositivi elettromedicali lombardi e nazionali, in collaborazione con il Centro di Riabilitazione Villa Beretta dell'Ospedale Valduce di Costa Masnaga e con l'Istituto scientifico 'Eugenio Medea' di Bosisio Parini, in provincia di Lecco. "È importante creare uno scambio internazionale premiante di conoscenze e competenze - dice Tullio Tolio, direttore CNR-Itia - per portare a una sintesi tra ricerca clinica e imprese, in quanto contributo che la robotica può dare alla medicina è enorme". Allo stesso modo in cui, infatti, l'automazione porta grandi vantaggi all'industria, il campo d'applicazione della robotica in medicina riabilitativa presenta un'attrattiva di mercato molto grande per i costruttori di macchinari ad alta tecnologia. "La popolazione europea ha il più alto tasso di invecchiamento - spiega Anath Fischer, direttrice Laboratory for Cad & Lifecycle Engineering di Technion -, e nella Comunità Europea sono intensi gli sforzi di medici e ingegneri per migliorare la qualità della vita e delle cure". Robot e riabilitazione motoria. L'ictus è la terza causa di morte al mondo, con 15 milioni di persone colpite ogni anno, e la prima causa di disagi cronici con compromissione delle facoltà motorie, insieme a traumi da incidenti e patologie del sistema nervoso. La robotica può qui rivoluzionare le procedure riabilitative, grazie all'alta ripetitività delle pratiche di rieducazione motoria per arti superiori e inferiori, ma anche con strumentazioni per la mobilità del paziente. Macchinari avanzati possono infatti ottimizzare il percorso riabilitativo, somministrando cicli di compiti motori ad alta intensità, riducendo anche i costi per le cure e alleggerendo il carico di lavoro dei fisioterapisti. I nuovi robot per la riabilitazione allo studio presentano inoltre altri importanti vantaggi: "Questi progetti - spiega il dott. Gianni Conti, direttore generale Villa Beretta, Centro Riabilitazione Ospedale Val- duce - mettono il paziente al centro, instaurando tra robot ed essere umano un'interazione più simbiotica. Inoltre, macchinari per la riabilitazione dotati di sofisticati sensori possono monitorare i progressi del paziente, valutando la forza muscolare utilizzata e adattando ciclo riabilitativo in conseguenza". Feedback e interazione sicura. L'impiego della robotica nel medicale permette non solo di incrementare l'efficacia intensiva del percorso riabilitativo, ma apre anche a una migliore valutazione dei progressi del paziente, spesso troppo legata alla soggettività dell'operatore, e nel contempo la macchina fornisce preziosi feedback sui meccanismi di recupero, accrescendo la comprensione della mobilità umana. Il lavoro di ltia a tal proposito mira a generare un'interazione robot- essere umano che consenta un continuo riadattamento dei parametri di sessione (tipo di movimenti, velocità, forza somministrata) in funzione dei miglioramenti del paziente, con al centro il concetto di scambio di forza tra macchina e uomo. ltia ha inoltre sviluppato una Multisensory Room che immerge il paziente in un ambiente virtuale, rivestendo il compito di significati legati ad attività quotidiane, incrementando la motivazione del paziente con elementi emotivi e stimolazione sensoriale. L'uso della Multisensory Room fornisce preziose informazioni ai medici sul comportamento neuromotorio umano e sui complessi meccanismi di recupero, grazie a una serie di sensori, macchinari di realtà virtuale e speciali telecamere per l'analisi del movimento in uno spazio 3D. Mobilità e adattabilità. Macchinari riabilitativi offrono un migliore settaggio automatizzato dei parametri di configurazione grazie all'uso maggiore di sensori e attuatori aggiuntivi, consentendo al dispositivo di conformarsi automaticamente alle caratteristiche antropometriche del paziente, come accade nel sistema di riabilitazione degli arti inferiori robot-assistito. Sarà sviluppato dall'italiana MPD srl, in fase di test presso l'ospedale Valduce. ll sistema presenta dimensioni ridotte e maggiore leggerezza rispetto al noto Lokomat della svizzera Hokoma, lasciando il resto del corpo più libero senza limitare i movimenti naturali del tronco durante la camminata, con esoscheletri separati e indipendenti per migliorare la configurazione del macchinario alle esigenze del paziente, adattandosi automaticamente alla lunghezza degli arti, a differenza dei rigidi sistemi tradizionali. Per pazienti in stato vegetativo ci sono invece letti robotizzati, come Anymove dell'italiana BTS, che funzionano come veri e propri robot riabilitativi, divisi in 4 moduli semoventi con sessioni passive di esercizi motori ripetitivi per mantenere la funzionalità delle articolazioni e il tono muscolare: assicurare la mobilità al paziente fin dall'inizio è infatti un fattore chiave per un processo rieducativo di successo. Il territorio Lecchese offre ottime opportunità per il crearsi di una rete virtuosa tra centri di cura, istituti tecnologici e di ricerca e Chirurgia assistita e micro-robot. Allo sviluppo sono anche sistemi indossabili, come il guanto per la riabilitazione della mano 'Gloreha', sviluppato dalla società Idrogenet, o abiti intelligenti il meno ingombranti possibile che consentano il monitoraggio di pazienti affetti da disagi cardiovascolari, o che aiutino il rilassamento muscolare in caso di spasmi in pazienti comatosi, o progetti di teleriabilitazione, per fornire a distanza cure a domicilio con la stessa efficienza che in clinica. l sistemi di riabilitazione immersiva, come 'Nirvana' della società BTS, consentono al paziente di eseguire esercizi riabilitativi interagendo all'interno di ambienti di realtà virtuale. Infine, la robotica trova essenziali applicazioni anche nella chirurgia assistita, nella neurochirurgia in stato di veglia e per interventi su patologie ossee, fratture e sostituzione dell'anca, dove la computer assisted surgery garantisce livelli di precisione altissimi nel posizionamento di viti e chiodi, ottimizzando le performance ed eliminando gli errori chirurgici umani. L'uso di robot e macchinari può infine aiutare a ottimizzare il design delle protesi, aumentandone prestazioni, sicurezza e affidabilità. Per non parlare di quello che progetti e studi di ricerca stanno mettendo a punto su scale di grandezza microscopiche, con minuscoli dispositivi da impiegare nella chirurgia spinale o robot miniaturizzati in grado di portare direttamente all'interno del corpo e in maniera mirata farmaci antitumorali. RIVISTA RI MECCANICA onm ______________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Feb. ’12 SEMPRE MENO GIOVANI FRA I DONATORI DI SANGUE «Se non verranno fatti gli sforzi e gli investimenti necessari per incrementare le donazioni di sangue, entro il 2020 si andrà incontro ad una drastica riduzione nel numero di donatori e delle unità di sangue raccolto, con gravi ripercussioni su tutto il Sistema sanitario nazionale». È l'allarme lanciato da Fidas (Federazione italiana associazioni donatori di sangue), presentando un'indagine affidata al Censis sulla donazione e raccolta sangue in Italia. Certo la tendenza generale mostra un graduale aumento di donazioni e unità di sangue. Nel 2010 i donatori italiani sono stati 1 milione e 720 mila (28,5 ogni 1.000 abitanti, rispetto ai 26,2 del 2006). Stesso discorso per le unità di sangue raccolte, pari a 2 milioni 650 mila unità di sangue intero (43,8 unità per mille abitanti contro le 40,9 del 2006). Preoccupa però l'assottigliamento della fascia dei 30-55enni, i donatori più numerosi. Mantenendo costante numero di donatori per mille residenti e indice di donazione, la riduzione dei giovani donatori è stimabile nel 4,5%, e nel 2,9% la riduzione complessiva di donatori e unità di sangue raccolte. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Feb. ’12 TRASPARENZA PER PREZZI E PRINCIPI ATTIVI Sempre più «generici» in farmacia e sulle ricette Ma noi ci fidiamo? Finora, chi arrivava in farmacia con una ricetta doveva aspettarsi la domanda del farmacista: «Vuole il generico, rimborsato dal Servizio sanitario o il medicinale "di marca" prescritto dal suo medico? In tal caso dovrà pagare la differenza di prezzo rispetto a quello rimborsato». Era questo il risultato di una norma ideata per favorire il consumo dei farmaci equivalenti (o generici), che nascono da molecole per le quali è scaduta la protezione del brevetto e che quindi possono essere venduti il più delle volte a minor prezzo rispetto all'originale. Nulla comunque vietava all'assistito di rimanere fedele "al marchio", purché fosse disposto a pagare quanto eventualmente eccedeva la quota rimborsata dal Servizio sanitario. E, stando ai dati, spesso lo faceva. Forse per una malcelata diffidenza nei confronti dei generici, o perché non vedeva di buon occhio il fatto che il farmacista sostituisse un medicinale prescritto dal medico. Dalle prossime settimane ci sarà un piccolo cambiamento, i cui risultati potrebbero però essere importanti. Se non subirà variazioni, il decreto legge sulle liberalizzazioni — quello definito "Cresci Italia" — prevede infatti che sia compito del medico stesso informare i pazienti dell'eventuale disponibilità di farmaci generici. Il medico dovrà indicare sulla ricetta, a fianco del medicinale "con marchio" prescritto, la dicitura "sostituibile con equivalente generico" e il farmacista, in questo caso, procederà sostituendo il medicinale, a meno che il paziente non confermi di volere il prodotto "di marca". Oppure, il medico espliciterà sulla ricetta che il farmaco prescritto è "non sostituibile". Intanto, quest'anno scadrà la protezione brevettuale di ben 44 molecole (che si potrebbero andare ad aggiungere ai 233 principi attivi — o associazioni — già trasformati in generici). E tra queste ci sono dei veri e propri campioni di vendita. Per esempio, nel 2012 toccherà all'atorvastatina, il prodotto per ridurre il colesterolo che da anni è il medicinale più venduto al mondo. Secondo Ims Health (multinazionale specializzata in analisi di mercato), soltanto in Italia questa sostanza ha fruttato 490 milioni di euro all'azienda produttrice nel periodo compreso tra l'agosto 2010 e l'agosto 2011. C'è poi il farmaco contro l'ipertensione irbesartan, altro cavallo vincente da 127 milioni di euro; l'antiasmatico montelukast, che ha reso 89 milioni. Ed entro il 2013, tra altre decine di brevetti in scadenza, toccherà, per citare solo qualche nome, all'associazione salmeterolo/fluticasone contro la bronchite cronica e l'enfisema (che vende confezioni per quasi 300 milioni di euro l'anno) e a diversi altri farmaci, meno redditizi ma non meno importanti: per esempio, medicinali per l'Alzheimer e il Parkinson (donepezil, galantamina, entacapone, tolcapone), per l'osteoporosi (raloxifene), per le malattie psichiatriche (quetiapina) o il dolore (ossicodone). In scadenza anche il brevetto del Viagra (66 milioni di euro il valore delle vendite). Un elenco lungo, quello che, secondo le stime di Ims Health, tra il 2012 e il 2015 riguarderà in totale brevetti pari a un mercato di circa 2 miliardi di euro in Italia. «Le nuove disposizioni sulla sostituibilità dei farmaci "di marca" con l'eventuale generico arrivano nel momento giusto — commenta Maria Font, farmacista dell'Ulss 20 di Verona e vicedirettore della rivista Dialogo sui farmaci — perché c'era bisogno che il medico si riappropriasse del suo ruolo nella prescrizione e nell'informazione al paziente». Secondo il ministero della Salute, le norme dovrebbero vincere le resistenze e «favorire l'uso di medicinali equivalenti a più basso costo, in tutti i casi in cui non sussistano specifiche ragioni sanitarie che rendano necessario l'uso dello specifico medicinale indicato dal medico». Nonostante abbia raggiunto gli 800 milioni di euro l'anno, il mercato dei generici, in Italia, continua infatti a segnare il passo rispetto a Paesi europei in cui da più tempo si ricorre a questa categoria di farmaci. Poco più del 13% dei medicinali assunti dagli italiani sono farmaci senza brand (marca). Una quota ancora piccola, se si considera che più del 55% dei medicinali a disposizione è a brevetto scaduto. In concreto, quando si può scegliere tra un generico e un farmaco "di marca", quasi 3 italiani su 4 optano per quest'ultimo. Nulla a che vedere con gli Stati Uniti, dove la percentuale di preferenza per il generico è del 90% o con la Gran Bretagna e la Germania, dove arriva al 70%. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Feb. ’12 QUALI SONO LE REGOLE DELL'EQUIVALENZA Idubbi al vaglio degli esperti A bbiamo chiesto al farmacologo Silvio Garattini, direttore dell'Istituto Mario Negri di Milano, e ad Achille Caputi, direttore del Dipartimento clinico-sperimentale di Medicina e farmacologia dell'Università di Messina, di rispondere alle domande più ricorrenti sui generici. È vero che i generici possono avere fino al 20% di principio attivo in meno rispetto ai farmaci originali? «I generici devono avere la stessa quantità di principio attivo dei farmaci originali — spiega Caputi —. Differenze possono riguardare specifiche variabili, come per esempio la quantità di farmaco che si rileva nel sangue in un dato momento: soltanto se un farmaco dimostra di non discostarsi più del 20% rispetto al corrispondente "griffato" su questi valori può essere considerato "equivalente". La soglia del 20% non è arbitraria: corrisponde alla differenza massima che si riscontra nella popolazione generale (fatta di individui di altezza, peso, metabolismo diversi e così via) quando si somministra uno stesso farmaco, sia generico che "di marca"». I generici sono efficaci quanto i corrispettivi "di marca"? «Diversi studi hanno dimostrato che generici e farmaci originali hanno pari efficacia terapeutica — dice Caputi —. Ciò vale anche per farmaci il cui uso è particolarmente delicato perché devono avere dosaggi molto precisi». Un generico può essere sostituito con un altro generico? «Ci sono diverse scuole di pensiero. Dal mio punto di vista, il generico dovrebbe essere sostituito con un altro generico solo sotto controllo medico: il margine di tolleranza nella definizione dell'equivalenza tra generico e farmaco di origine può far sì che due generici, pur equivalenti al farmaco di marca, non lo siano completamente tra di loro» dice Caputi. Generico e farmaco originale spesso contengono eccipienti differenti. Può incidere sulla sostituibilità? «Gli eccipienti fanno parte del prodotto, servono a mantenere la stabilità o, ad esempio, per fare in modo che la compressa si sciolga più rapidamente — spiega Garattini —. È vero che tra farmaco "di marca" e generico queste sostanze possono essere diverse, ma l'importante è che la presenza di eccipienti non alteri l'assorbimento del farmaco. È vero anche che alcuni eccipienti possono essere allergizzanti, ma ciò vale sia per i farmaci griffati sia per i generici». È vero che è meglio non usare i generici se si prendono molti farmaci, perché non sono note le interazioni? «Se i due farmaci sono equivalenti non possono esserci differenze nelle interazioni, dal momento che è il principio attivo a determinarle» dice Garattini. I foglietti illustrativi dei generici sono uguali a quello del corrispondente "di marca"? «A volte le indicazioni possono differire da un farmaco originale a quello generico. Questo avviene per ragioni burocratiche o economiche. Per esempio, quando un'azienda chiede l'autorizzazione al commercio di un generico deve esplicitare le indicazioni per cui la richiede. A un maggior numero di indicazioni corrispondono maggiori costi e l'azienda può ritenere poco conveniente richiedere l'autorizzazione per tutte le indicazioni per le quali sarebbe utilizzabile il farmaco» spiega Achille Caputi. I generici sono prodotti in Paesi che fanno meno controlli? «Sia i produttori di generici sia quelli di farmaci "di marca" spesso importano da Paesi emergenti, per esempio dall'India, che ha ormai una buona capacità produttiva e buoni controlli — chiarisce Garattini —. La cosa più importante è che i controlli sono effettuati anche dalle nostre autorità: quando un'azienda richiede l'autorizzazione per un prodotto all'Agenzia italiana del farmaco italiana (Aifa) o a quella europea, deve indicare l'origine dei materiali, certificare che la purezza delle sostanze è comparabile a quella del farmaco originale e la composizione delle eventuali impurità». Dopo l'immissione in commercio, quali controlli vengono effettuati sui generici? «Gli stessi cui sono sottoposti i "griffati". L'Istituto superiore di sanità ogni anno sceglie prodotti da controllare, sia branded che generici. Inoltre, come per i farmaci "di marca", anche per gli equivalenti è attivo il sistema di segnalazione di reazioni avverse che vengono comunicate all'Agenzia del farmaco» conclude Garattini. ______________________________________________________________ Le Scienze 18 Feb. ’12 THE LANCET: LA PSICHIATRIA NON CONFONDA LUTTO E DEPRESSIONE Prevenire le ombre dell'Alzheimer Secondo la prestigiosa rivista medica britannica sarebbe un grave errore, umano e scientifico, se la nuova edizione del DSM-V, il più diffuso manuale di diagnostica psichiatrica, classificasse come depressione qualsiasi stato di prostrazione psichica che duri più di due settimane dopo la perdita di una persona cara (red) Il lutto non è una malattia e non dovrebbe essere regolarmente trattato con antidepressivi. A ribadirlo è un editoriale apparso su "The Lancet" che esprime preoccupazione per la prossima edizione, la quinta, del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) dall'American Psychiatric Association, il principale testo di riferimento per psichiatri e medici di tutto il mondo che si trovino ad affrontare problemi legati a disturbi e sofferenze psichiche. Mentre le precedenti edizioni del DSM di fronte alla sofferenza legata a una perdita avevano evidenziato la necessità di tener conto del lutto prima di formulare una diagnosi di disturbo depressivo maggiore – tanto da escluderla in buona parte dei casi – nella nuova edizione, stando a quanto è dato sapere, l'eventualità non è presa in considerazione. Nell'editoriale di "The Lancet" si può infatti leggere: "Nella bozza del DSM-5, tuttavia, non vi è alcuna esclusione per lutto, il che significa che sentimenti di profonda tristezza, perdita, insonnia, pianto, incapacità di concentrarsi, stanchezza e mancanza di appetito che continuino per più di due settimane dopo la morte di una persona cara, possono essere diagnosticati come depressione, anziché come una normale reazione di dolore". E ancora: "La medicalizzazione del cordoglio, per cui viene legittimato il trattamento regolare con antidepressivi, per esempio, non è solo pericolosamente semplicistica, ma è anche scorretta. Non c'è una base di conoscenze per trattare le persone colpite da un recente lutto con un normale protocollo antidepressivo". Alla prospettata scelta del DSM-V, "The Lancet" contrappone l'indirizzo che sta prendendo l'altro grande testo di riferimento in campo medico, l'International Classification of Diseases dell'Organizzazione mondiale della sanità, attualmente in fase di revisione, e noto come ICD- 11. Gli specialisti che soprintendono a quest'ultima revisione stanno discutendo la possibilità di includere una nuova categoria, quella del "disturbo da lutto prolungato". L'editoriale osserva: "Il lutto è associato a esiti negativi per la salute, sia fisica che mentale, ma gli interventi sono destinati più a coloro che sono a più alto rischio di sviluppare un disturbo o a quelli che sviluppano un lutto complicato o una depressione, piuttosto che per tutti". E conclude: "Il dolore non è una malattia, ma va più utilmente pensato come parte dell'essere umano e di una normale risposta alla morte di una persona cara. Stabilire un lasso di tempo per il cordoglio è inadeguato: sarebbe bene che DSM-5 e ICD-11 ne prendessero nota. A volte si sviluppa un disturbo da lutto prolungato o una depressione che potrebbe richiedere un trattamento, ma la maggior parte delle persone che sperimentano la morte di qualcuno che amano non ha bisogno di trattamento da parte di uno psichiatra o di un medico. A coloro che sono in lutto, i medici farebbe meglio a offrire tempo, compassione, ricordo ed empatia, piuttosto che pillole ". ______________________________________________________________ Le Scienze 18 Feb. ’12 IL GENOMA IMMORTALE DEL CANCRO DEL DIAVOLO I nuovi dati sull'inquietante tumore che colpisce i diavoli della Tasmania, "saltando" da un individuo all'altro, potrebbero aprire la strada a una terapia che eviti l'estinzione della specie. Responsabili della trasmissibilità della malattia sarebbero alcune mutazioni a carico dei geni immunitari delle cellule tumorali I genomi del diavolo della Tasmania e dell'anomalo cancro trasmissibile che lo colpisce sono stati interamente sequenziati da un gruppo di ricercatori che ne riferisce in un articolo pubblicato sulla rivista "Cell". Il cancro del diavolo della Tasmania è un tumore devastante che colpisce principalmente la faccia - è infatti denominato DFTD, devil facial tumor disease - e si trasmette da un individuo all'altro attraverso i morsi che i diavoli si scambiano spesso, morsi durante i quali avviene un trasferimento di cellule tumorali vive. La contagiosità del tumore ha portato al rapido declino della popolazione di questi marsupiali carnivori e ora minaccia di estinzione l'intera specie. La prima fotografia che documentava questo insolito tipo di tumore risale al 1996. "Sul momento, si pensò che si trattasse di un caso isolato", ricorda Elizabeth Murchison, prima firmataria dell'articolo che, nativa della Tasmania, è ora ricercatrice presso il Wellcome Trust Sanger Institute a Hinxton, in Gran Bretagna, dove è stata realizzata la ricerca. Ben presto, tuttavia, furono osservate decine di animali malati, e nei primi anni del nuovo secolo "era chiaro che ci trovavamo di fronte a un nuovo tipo di malattia infettiva". Cortesia Save the Tasmanian Devil Program La svolta arrivò nel 2006, quando fu dimostrato che i tumori erano in realtà un solo, singolo tumore trasmesso da un animale all'altro. Una scoperta sorprendente, soprattutto perché il cancro non "salta" da un individuo all'altro, se non in casi molto rari. Normalmente, il sistema immunitario assicura infatti che i tumori provenienti da estranei non possano sopravvivere in nuovi ospiti. In cerca di risposte e di possibili soluzioni, Murchison e colleghi hanno proceduto al sequenziamento del genoma sia del diavolo della Tasmania sia del cancro. Le loro analisi suggeriscono che il tumore si sia sviluppato per la prima volta in tempi relativamente recenti in un esemplare di diavolo della Tasmania di sesso femminile. "Io la chiamo 'il diavolo immortale': le sue cellule sono vive molto tempo dopo la sua morte", commenta la Murchison. La ricostruzione dell'albero filogenetico del tumore del diavolo della Tasmania (Cortesia Murchison et al./Cell) "Diffondendosi nella popolazione il genoma del cancro si è evoluto, ma nel complesso appare piuttosto stabile", aggiunge Michael Stratton, autore senior dell'articolo. "Le differenze genetiche tra 104 tumori provenienti da tutta l'isola presentano un quadro molto chiaro di come la malattia si sia diffusa nel tempo e nello spazio negli ultimi due decenni, un quadro che può aiutare le strategie per il suo contenimento." Nel genoma del cancro del diavolo sono state catalogate più di 17.000 mutazioni, cifra che può sembrare molto elevata, ma che è paragonabile al numero di mutazioni che si trovano in alcuni tumori umani, osserva Murchison. Il compito che ora si prospetta ai ricercatori è capire quali tra le migliaia di mutazioni siano le più importanti. Le prime indicazioni suggeriscono che i cambiamenti nei geni dell'immunità potrebbero spiegare come fa il cancro a eludere il sistema immunitario. Il mondo ha già perso la tigre della Tasmania, che si estinse nel 1930. "Sarebbe molto triste perdere entrambi i più grandi marsupiali carnivori, e a soli 100 anni l'uno dall'altro", ha detto la Murchison. "Speriamo che i nuovi dati ci portino presto a risposte più definitive" I ricercatori sperano soprattutto che le nuove scoperte indichino una strada per contribuire a salvare questi animali: "Ci sono farmaci che lavorano in modo mirato contro i geni del cancro. Ci auguriamo che alcune delle mutazioni che abbiamo trovato nei geni del cancro del diavolo possano condurre a strategie terapeutiche". ______________________________________________________________ Le Scienze 15 Feb. ’12 DANNI CARDIACI DA INFARTO RIPARATI CON LE STAMINALI L'infusione di cellule staminali cardiache ottenute dal tessuto cardiaco del paziente con una procedura limitatamente invasiva permette una riduzione del tessuto cicatriziale e la sua sostituzione con quello funzionale rigenerato (red) L'infusione di cellule staminali cardiache in pazienti colpiti da un infarto al miocardio può aiutare a rigenerare tessuto muscolare cardiaco sano. E' quanto risulta da una ricerca condotta presso il Cedars-Sinai Heart Institute a Los Angeles, di cui viene riferito in un articolo pubblicato in anteprima online sul sito della rivista "The Lancet". Lo studio ha valutato 25 pazienti, di età media di 53 anni, 8 dei quali hanno ricevuto cure standard, mentre 17 hanno ricevuto infusioni di aggregati cellulari (o cardiosfere) derivati da cellule staminali cardiache (CDC), ossia particolari cellule staminali cardiache create a partire da tessuto del cuore del paziente stesso. La procedura, minimamente invasiva, prevede la rimozione, attraverso un catetere e sotto anestesia locale, di piccole porzioni di muscolo cardiaco vitali (delle dimensioni di circa metà di un acino d'uva), poi utilizzato per la creazione di cellule staminali cardiache. Successivamente ogni paziente ha ricevuto una infusione di circa 12-25 milioni di proprie cellule staminali. I pazienti così trattati hanno manifestato una riduzione delle dimensioni del tessuto cicatriziale in media del 50 per cento, riduzione invece del tutto assente nei controlli. Quattro pazienti del gruppo trattato con le cellule staminali ha successivamente sofferto di eventi avversi gravi, con una percentuale più elevata rispetto ai controlli, fra i quali si è avuto solo un episodio analogo, ma di questi quattro eventi solo uno è stato considerato come possibilmente correlato al trattamento. "Questa scoperta - affermano gli autori della ricerca , diretta da Eduardo Marban - sfida la convinzione tradizionale che, una volta stabilitasi, una cicatrice cardiaca sia permanente e che, una volta perso, il muscolo cardiaco sano non possa essere ripristinato." "Abbiamo dimostrato l'infusione intracoronarica di CDC autologhe dopo infarto miocardico è sicura, garantendo il passaggio dello studio di questa terapia alla fase 2. L'aumento senza precedenti osservato nei parametri vitali del muscolo cardiaco sono coerenti con la terapia rigenerativa e meritano ulteriore valutazione clinica." ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 18 Feb. ’12 STUDIO SULLE RESISTENZE IMMUNOLOGICHE UMANE È «made in Sardinia» l’esperimento nello spazio SASSARI. Alle 10,32 del 13 febbraio è stato lanciato con successo, dalla base spaziale Esrange Space Center, a una quarantina di km da Kiruna (Lapponia svedese), il razzo sonda Maser 12 con a bordo strumenti per un esperimento dell’università di Sassari. Il razzo ha raggiunto un apogeo di 250 km dalla Terra e ha prodotto al suo interno una condizione di microgravità per circa 6 minuti. L’esperimento è denominato Stim, acronimo di Signal Transduction in Microgravity. È stato preparato nell’ex dipartimento di Scienze fisiologiche, biochimiche e cellulari di Sassari e allestito in Svezia. Ha come scopo «lo studio della trasduzione del segnale in T-linfociti umani nelle condizioni di microgravità reale»: nella sostanza, l’analisi delle resistenze immunologiche delle persone di fronte a una situazione di assenza di gravità. Oltre che l’esame della espressione genica e dei relativi recettori coinvolti nel processo. L’esperimento dovrebbe consentire inoltre l’individuazione di eventuali «alterazioni epigenetiche», ovvero modificazioni della sequenza del Dna e della cromatina che non ne variano la sequenza. È stato condotto dal team di Proto Pippia, professore ordinario di Fisiologia generale, e di Augusto Cogoli, direttore dello Zero-g LifeTech di Zurigo. Quest’ultimo ha trascorso recentemente a Sassari un lungo periodo come visiting professor per la messa a punto della missione, con l’importantissimo e fondamentale contributo di due giovani dottorandi, Claudia Crescio e Christian Secchi, e della neo-ricercatrice Antonella Pantaleo. Le analisi dei campioni provenienti dallo spazio sono attualmente nelle mani del gruppo coordinato dal collega tedesco Oliver Ullrich dell’Università di Zurigo, partner del progetto. Sono attesi ulteriori imminenti sviluppi. La missione, targata Agenzia Spaziale Europea, è stata realizzata dal team sassarese con fondi residui di precedenti progetti di studio al di là dell’atmosfera terrestre finanziati dall’Agenzia spaziale italiana e grazie a un contributo della Fondazione Banco di Sardegna. L’esperimento è nato nel 2004. Rientra in un programma più generale che lo staff turritano porta avanti dal 1989 sugli effetti della microgravità e delle radiazioni cosmiche. Trae origine dalla scoperta di Augusto Cogoli che, durante la prima missione dello Spacelab/shuttle del 1983, per primo osservò che, in condizioni di microgravità, i T linfociti umani coltivati in vitro perdono circa il 90% della loro capacità di proliferazione. Con conseguente perdita quasi totale della funzione immunitaria. «Fortunatamente - spiegano gli scienziati - i linfociti degli astronauti, in vivo, non rispondono nello spazio alla stessa maniera, anche se è dimostrato che il loro sistema immunitario durante le missioni è meno reattivo, più pigro». Questo aspetto, in vista dei tempi piuttosto lunghi di permanenza degli astronauti a bordo della Stazione spaziale internazionale o in previsione di una colonizzazione della Luna o di un lungo viaggio verso Marte, costituisce un problema d’importanza vitale per il proseguimento della stessa attività umana nello spazio. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Feb. ’12 ECCELLENZE NELLA SANITÀ DA RILANCIARE UNA CONSULTA PER LA RICERCA Secondo dati recenti della Unione Europea la Lombardia è in Europa la regione con la più alta densità di lavoratori specializzati nelle medie e alte tecnologie. Qui sono attive il 50% delle imprese e il 70% degli operatori del campo delle biotecnologie italiani e in questo territorio sono presenti più del 60% degli insediamenti farmaceutici produttivi a livello nazionale. Nel 2010 la produzione scientifica italiana è risultata all' ottavo posto mondiale, al settimo specificatamente nel settore sanitario e, in questo settore, l' Italia risultava al quarto posto europeo dopo Inghilterra, Germania e Francia. Le aree della medicina con il maggior impegno scientifico italiano sono in particolare l' ematologia (terza per pubblicazioni a livello mondiale), la cardiologia (quarta), la neurologia (quinta), l' oncologia (sesta). Si è molto detto sugli scarsi fondi investiti nella ricerca nel nostro Paese, bisogna però ammettere che il nostro ritardo non riconosce unicamente incontestabili ragioni economiche, ma anche motivi di carattere culturale e organizzativo. Cito solo alcuni punti: insufficiente sviluppo di reti organizzate tra i centri di eccellenza, carenti percorsi di formazione dei ricercatori, mancanza di strette interazioni tra il mondo della ricerca e quello produttivo, particolarmente negli ambiti universitari. Il Programma Nazionale della Ricerca 2010-2012 ha identificato sei aree prioritarie in ambito sanitario sulle quali concentrarsi: cardiovascolare, materno-infantile, neuroscienze, oncologia e onco- ematologia, endocrinologia e, infine, patologie immunitarie ed infettive; in questi campi si dovrebbe maggiormente sviluppare il nostro impegno scientifico. Una recente analisi sullo stato della Ricerca in Italia e in Lombardia, svolta dal Centro di Studio e Ricerca sulla Sanità Pubblica (CeSP) dell' Università Bicocca di Monza, segnala però un paradosso italiano: anche in queste aree di eccellenza, come peraltro nei restanti settori della nostra ricerca, manca un coordinamento che registri chi fa che cosa e aiuti a sviluppare possibili sinergie tra i gruppi di lavoro. Solo qualche mese fa Formigoni ha annunciato la nascita della Fondazione regionale per la ricerca biomedica, con l' integrazione del Centro di Nerviano, mentre a breve sarà completato l' Istituto Nazionale di Genetica Molecolare al Policlinico di Milano, costruito anche grazie a una generosa donazione della famiglia Invernizzi e fortemente voluto dall' allora ministro della Sanità Girolamo Sirchia; entrambi andranno a aggiungersi alle altre importanti e prestigiose realtà già presenti nel nostro territorio come l' Ifom, il grande polo milanese di ricerca oncologica, il Mario Negri, e altre ancora. Immaginare una consulta della ricerca in una regione così importante come la Lombardia, un organismo di raccordo e confronto, senza ingerenze, che aiuti a massimizzare le risorse e favorisca le interazioni fra le diverse realtà, potrebbe essere un' idea per valorizzare il molto che si fa. Fermo restando che la ricerca senza finanziamenti muore e che per la Lombardia investire in ricerca potrebbe essere una formidabile opportunità. sharari@hotmail.it Harari Sergio Pagina 1 ______________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Feb. ’12 L'ENZIMA CHE «LEGA» LA PELLE C' è una sola certezza, al momento. A spiegarla è Peter Lorenz, direttore del laboratorio di Riparazione cutanea senza cicatrici dell'Università di Stanford: «L'invecchiamento cutaneo può essere solo rallentato. Contiamo che, in futuro, possa diventare reversibile. La medicina rigenerativa ha già individuato i meccanismi che portano l'epidermide a ricostituirsi in seguito a un intervento. Si è visto che ci sono enzimi che controllano la produzione di collagene e elastina, due proteine importanti che con gli anni diminuiscono, favorendo la comparsa di rughe e perdita di tono. Uno di questi è il Lox-l, elemento chiave dell'elasticità dei tessuti, che lega il collagene all'elastina e ridona compattezza. Al microscopio si vede come interviene unendo le fibre elastiche come fossero "ponticelli" e ricostruendo la struttura originale della pelle». I laboratori Giorgio Armani, in seguito a questi studi, hanno selezionato mille molecole per trovare il principio attivo che stimolasse la sintesi di Lox-l, ed è stata isolata la prolastina. Questo estratto di origine naturale viene usato da migliaia di anni, in Egitto, per le sue proprietà calmanti e anti-infiammatorie. E si ritrova nella linea Regenessence 3.R composta da una crema giorno Multi-Firming Rejuvenating Rich Cream (foto) e da un prodotto occhi. Caratteristica principale di questo nuovo trattamento, che si può utilizzare sia di giorno che di notte, è la texture leggera nonostante sia molto ricca di attivi: ne contiene ben 39. ______________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Feb. ’12 Sorriso perfetto IL COLORE TRADISCE L'ETÀ. «FACCETTE» E GEL ATTIVATI DAL LASER S e la top model Lara Stone (volto di Versace e Calvin Klein) non se ne fa un cruccio, anzi, è diventato un suo tratto distintivo, per altre persone quei millimetri di vuoto fanno passare la voglia di sorridere. Si parla di dentatura. (Im)perfetta. Perché chi si è pentito di non aver messo l'apparecchio ortodontico da ragazzino, oggi può correre ai ripari in tempi di record. Toni e e simmetrie Volume, forma, colore e lunghezza dei denti si possono migliorare in poche sedute dal dentista. L'effetto più desiderato? Un'armoniosa asimmetria, ma luminosa, come quella richiesta da Kate Middleton al francese Didier Fillon prima di diventare duchessa di Cambridge e sposare il principe dei suoi sogni. «Aumentano i pazienti che si sottopongono a un trattamento sbiancante — spiega Rosa Maria Gobbi, medico chirurgo specialista in odontostomatologia e docente di Estetica facciale all'Università di Torino —. Il colore dimostra l'età della persona. È una tecnica semplice, veloce e indolore. Si inizia dall'igiene del cavo orale per rimuovere i pigmenti superficiali che, con il tempo, riescono a penetrare attraverso le fessurine dello smalto, responsabili di un colore poco brillante». Quindi, si prosegue con lo sbiancamento: «La procedura adeguata dura un'ora — continua Gobbi, anche direttrice del Bfs (Bellezza Filosofia e Scienza) a Milano (www.bfsmilano.it) —. Si proteggono con materiali idonei tutti i tessuti molli, la lingua e le gengive, si applica sullo smalto un gel al perossido di idrogeno o al perossido di carbamide che si attiva, dente per dente, da un laser o da una lampada al plasma. Il procedimento viene ripetuto tre volte nella stessa seduta e, se necessario, a distanza di sei, otto mesi». Ma il risultato è immediato: «Il trattamento lo consiglio ai pazienti non troppo giovani. Chi ha meno di 18 anni rischierebbe una sensibilizzazione dei denti. Infine, per mantenere il proprio colore naturale bisognerebbe effettuare a partire dai 35 anni uno sbiancamento ogni tre anni. Si può anche continuare a casa con l'uso di una mascherina, con principi attivi più diluiti e tempi di applicazione più lunghi». I costi? Dai 200 ai 500 euro. I cibi da evitare Attenzione agli alimenti dai pigmenti colorati: carciofi, barbabietole, mirtilli, liquirizia, vino rosso, tè, caffè, Coca-Cola, se assunti di frequente possono ingiallire o macchiare la dentatura. E alle cattive abitudini: mordicchiare il cappuccio della biro e le unghie, non sciacquarsi la bocca dopo aver bevuto un'aranciata e bibite gassate acide. «Sconsigliati per lunghi periodi i dentifrici abrasivi che promettono uno sbiancamento immediato e contengono acidi — raccomanda la specialista —: alterano la superficie del dente facendo sparire i cromofori contenuti nella dentina (la parte interna)». Rimedi invisibili Se, invece, gli inestetismi sono legati alle proporzioni (ma i denti sono sani) si applicano delle faccette o veneer. «Sottilissime (0,1 millimetri) — spiega Guido Singer, titolare dello studio clinico di Merano fondato dal bisnonno nel 1904 —, in ceramica e assolutamente invisibili, naturali e impercettibili per chi le porta. Basta prendere l'impronta delle arcate dentali, fare una prova per giudicare il risultato e poi procedere dopo qualche giorno all'applicazione definitiva dei gusci. Si incollano alla parte anteriore della dentatura e ne modificano il colore e la forma». Un inestetismo facilmente risolvibile con le faccette? Il diastema, gli incisivi separati. Il prezzo: da 600 euro per ogni veneer. «Problemi più gravi — aggiunge l'odontoiatra e odontostomatologo (www.studiosinger.it) — si risolvono con corone in ceramica integrale, in zirconia, allumina o in vetro ceramica rinforzata: coprono completamente il dente scuro alla base per traumi o perché devitalizzato». Contro il gonfiore ______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 18 Feb. ’12 LA BANCA DELLE CELLULE FRA MEDICINA E DIRITTO SASSARI. Il forum sulla donazione del sangue del cordone ombelicale è in programma questa mattina - alle 9.30 - nell’aula magna dell’università. A organizzarlo è stato il Rotary Club Sassari Nord, con lo scopo di spiegare e divulgare fra le famiglie l’importanza della conservazione del sangue presente nel cordone ombelicale, è ricco di cellule staminali, nelle banche autorizzate. Cellule che poi potranno essere utilizzate per contrastare con successo diverse patologie. Sono previsti gli interventi di medici e giuristi. Fra gli alri di Carlo Carcassi, direttore del centro regionale trapianti, di Carla Minicucci, Andrea Montella, Salvatore Dessole, Maurizio Longinotti, Maria Riccardin e Mariano Argiolas. ______________________________________________________________ Sanità News 13 Feb. ’12 CON TROPPE CALORIE SI ACCELERA LA PERDITA DELLA MEMORIA Superare a tavola le 2.000 calorie giornaliere non crea solo problemi con la bilancia ma anche con i propri ricordi. Con una tale quantita' di calorie, raddoppia il rischio di perdita di memoria e l'insorgenza di declino cognitivo, a partire dai 70 anni. Esiste una correlazione dose- risposta, cioe' piu' calorie di assumono piu' e' alto il rischio di danneggiare il cervello e avviarlo verso la perdita della memoria. L'hanno descritta alcuni ricercatori della Mayo Clinic di Scottsdale, in Arizona che hanno presentato il loro studio al meeting annuale dell'American Academy of Neurology. Per la ricerca sono stati arruolati 1.233 individui tra i 70 e gli 89 anni divisi in tre gruppi in base all'apporto calorico giornaliero riferito. In uno dei tre gruppi c'erano i soggetti che hanno dichiarato di consumare tra le 2.000 e le 6.000 calorie al giorno. La probabilita' di riscontrare una condizione nota come Mild Cognitive Impairment (MCI) ovvero declino cognitivo lieve era piu' del doppio nel gruppo che mangiava di piu', rispetto agli altri due. Il declino cognitivo lieve consiste in una riduzione di efficienza mentale piu' grave del declino fisiologico dovuto all'eta' e non grave come una demenza senile ma puo' anche progredire verso l'Alzheimer. (Sn) ______________________________________________________________ Sanità News 13 Feb. ’12 DALLA SARDEGNA UN PROGETTO PER CONTRASTARE OBESITA’ E DIABETE Prevenire l'obesita', il diabete e alcune malattie cardiovascolari grazie a una maggiore e costante attivita' fisica e a una sana alimentazione sia tra gli adulti che tra gli studenti delle scuole. Sono tra gli obiettivi del progetto 'Il movimento e' vita', curato dal servizio Prevenzione dell'assessorato regionale della Sanita' della Sardegna e di cui si e' fatto il punto oggi a Cagliari. Alla presentazione hanno partecipato diverse scolaresche accompagnate dai rispettivi docenti di educazione fisica. L'assessore ha voluto coinvolgere direttamente i bambini presenti a informarsi, per esempio su come e quanta attivita' fisica e' necessaria per restare in buona salute. Nel dettaglio, il progetto e' articolato in due fasi principali, una rivolta alla popolazione prediabetica, in sovrappeso e obesa, l'altra agli scolari. Per quanto riguarda la prima parte del piano, il progetto prevede un intervento su un campione di soggetti (tra i 600 e i 900) distribuiti nelle Asl della Sardegna e reclutati in ciascuna Asl della regione su base volontaria in un Centro Endocrino-metabolico. Il Piano e' articolato 2 anni di attivita' fisica strutturata da svolgersi tre volte la settimana per tutto l'anno, prescritto dallo specialista in Medicina dello sport della Asl ed eseguito da laureati in Scienze motorie. L'altra parte e' esteso a tutto il territorio regionale e mira a incrementare il livello di attivita' fisica nella popolazione scolastica per almeno altre 3 ore settimanali oltre alle due ore curricolari gia' previste. Obiettivo primario e' aumentare la capacita' del sistema scolastico di utilizzare l'esercizio fisico a fini preventivi dell'obesita' e del sovrappeso e come esempio di stile di vita salutare. (Sn)