RASSEGNA 08/07/2012 L'ANVUR È CAPACE DI CORREGGERSI ANVUR: SALVIAMO LA «SOGGETTIVITÀ» PER SELEZIONARE I MIGLIORI ANVUR: DI CHIARA: UNA "VALUTAZIONE DELLA VALUTAZIONE" ANVUR: LABINI: SCIENZA DI REGIME MANCINI(Crui): SULL'UNIVERSITÀ UN ALTRO SCEMPIO PUGLISI:ABBIAMO TROPPI ATENEI INUTILI PER GLI ATENEI ASSUMERE PROF RESTERÀ UNA CHIMERA UNIVERSITÀ, SFORBICIATA DA 200 MILIONI E SPUNTA UN "REGALO" ALLE PRIVATE SE LA LAUREA AL SUD È SOLO UN PEZZO DI CARTA FERRARA: CI SONO ANCHE ATENEI DI ECCELLENZA TORINO, MILANO, VENEZIA ECCO IL PODIO DEGLI ATENEI UNISS: IL MINISTERO MINACCIA VETERINARIA UNICA: PIÙ ATTENZIONE PER GLI STUDENTI I GIOVANI SCIENZIATI ECCELLONO MA FUGGONO RAGAZZI E RAGAZZE ALLO SBARAGLIO SUL MERCATO LA LAUREA NON SPINGE I GIOVANI MENO STUDI, MEGLIO VIVI COME ENTRARE NELLE UNIVERSITÀ A NUMERO CHIUSO ATTACCO AD HARVARD CARO HIGGS, QUANTO SEI STANDARD! HAWKING «HIGGS MERITA IL NOBEL E IO HO PERSO CENTO DOLLARI» REGIONE, TROPPE ASSUNZIONI NEGLI ENTI ENTI E SOCIETÀ LO STRANO CASO “IN HOUSE ” DI SARDEGNA IT L'E-ARCHIVIO CHE SALVA IL SAPERE CON COMPUTER E WEB PIÙ FACILE IMPARARE ========================================================= LA NECESSITÀ DELLA RICERCA PUBBLICA NELLA SANITÀ TRASPARENZA NELLA RICERCA BIOMEDICA PRIMA CAPIRE, POI GUARIRE PATRONI GRIFFI, 600 MLN RISPARMI CON RIDUZIONE RICETTE CARTACEE PRONTO ALL’USO IL FASCICOLO SANITARIO ELETTRONICO OSPEDALI SARDI IN BILICO DE FRANCISCI: PRONTA LA RIFORMA DELLA SANITÀ ASL1: IL REGOLAMENTO È COSTOSO MA È “COPIATO” ASSICURAZIONI DELLE ASL, ARRIVA LO STOP DE FRANCISCI: PICCOLI OSPEDALI SALVI: «MA È TEMPO DI RAZIONALIZZARLI» SACCONI: LE REGIONI ACCETTINO COSTI STANDARD LE POLIZZE DELLE ASL IN ROMANIA E LO STOP ISVAP «LE SPESE DELLE ASL: PREZZI INSPIEGABILI» SANITÀ IL GOVERNO LE MISURE BASTA DOPPIONI 18 MILA POSTI IN MENO PRIMARI RIDOTTI FARMACI E RICETTE, LE NUOVE REGOLE VERONESI :I SACRIFICI NECESSARI DELLE STRUTTURE POCHI MEDICI CONOSCONO LA LEGGE 38/10 SUL DOLORE CURE MIGLIORI CON MINORI SPESE DALL'EUROPA UNA LEZIONE PER GLI USA BONCINELLI: NELLA DISPENSA DELLE IDEE IL WELFARE NELLE MANI DEI ROBOT MEDICO, NON UN NEMICO SE LE FORBICI ARRIVASSERO NEI POLICLINICI UNIVERSITARI CURE MIGLIORI CON MINORI SPESE ========================================================= ______________________________________________ Il Sole24Ore 8 lug. ’12 L'ANVUR È CAPACE DI CORREGGERSI Sono molte le polemiche sui nuovi criteri di giudizio di qualità della ricerca. Il dibattito ha indotto a significativi cambi di rotta: l' importante è che sia pubblico e trasparente Andrea Bonaccorsi Il dibattito sulla valutazione, e nelle ultime settimane, sull'abilitazione scientifica nazionale, ha il pregio di portare allo scoperto molti temi importanti. In alcuni contributi l'Agenzia per la valutazione viene rappresentata come un potere esterno, che invoca la oggettività dei numeri per imporre dall'alto decisioni. Vorrei mostrare che nella realtà sono molti i suggerimenti che sono stati ascoltati e accolti. La valutazione è infatti un esercizio per sua natura imperfetto, che deve accettare approssimazioni ragionevoli, e che quindi è soggetta a errori che richiedono di essere prontamente corretti. I numeri sono solo l'ultimo passaggio, necessario per dare rigore e metodo, di un lungo processo che è discorsivo e comunicativo, e che cerca di ottenere il consenso consapevole dei soggetti valutati. Le comunità delle scienze umane e sociali hanno espresso in varie sedi la necessità che la ricerca non venga valutata solo con metodi quantitativi e soprattutto che si evitino meccanismi automatici. I Gev delle aree 10- 14 hanno accolto questa indicazione proponendo di usare esclusivamente o in modo prevalente la valutazione tra pari. Ma anche la peer review ha molti difetti, hanno sostenuto in molti con buoni argomenti. Si è dunque messa particolare cura nel selezionare revisori con un elevato standing scientifico, molti provenienti dall'estero, e nel definire un codice di conflitto di interesse rigoroso. La scelta dei revisori avviene sempre da parte di più membri del Gev, proprio allo scopo di evitare distorsioni di giudizio, anche involontarie. Sulla classificazione delle riviste scientifiche nei settori non bibliometrici vi sono state numerose critiche, che testimoniano l'interesse delle comunità scientifiche. La prima proviene dalle riviste che si ritengono ingiustamente classificate. L'errore è certamente possibile e va corretto. L'Anvur ha predisposto una procedura di revisione, assicurando che verranno consultati revisori anonimi diversi da quelli utilizzati nella prima classificazione. Alla data del 25 giugno risultano 72 domande di revisione, una quota molto piccola rispetto al totale di riviste classificate (anche tenuto conto che oltre 20 sono richieste seriali di un solo editore). Entro la fine di settembre le revisioni verranno completate. L'Anvur ha anche predisposto una procedura speciale nel caso di conflitti di interesse. Se la classificazione fosse stata una operazione dispotica avremmo avuto molte più proteste, come è accaduto in Francia e Australia. La seconda critica proviene da chi non ha collaborato alla classificazione, in tutto due società scientifiche. La terza, che è alla base dell'appello del prof. Onida e dei costituzionalisti, va oltre la Vqr e si collega alle nuove procedure per la abilitazione scientifica. Essa si basa sulla idea che non si possa classificare oggi in classe A delle riviste secondo criteri che non erano noti fin dall'inizio. Ma la classificazione non si basa affatto su criteri formali da annunciare in anticipo, ma su un concetto sintetico di reputazione scientifica, che per definizione non può che essere a posteriori. Tale giudizio viene sintetizzato consultando varie fonti, tra cui le società scientifiche di riferimento. Deve essere chiaro che le procedure per la abilitazione sono cosa diversa dalla Vqr. Per la abilitazione l'Anvur ha nominato un Gruppo di lavoro di alto livello che, ascoltando le società scientifiche, fornirà un parere sia sulla lista delle riviste scientifiche, eliminando quelle non scientifiche, che sulla lista di classe A. A ben vedere la classe A delle riviste è proprio posta nella abilitazione a difesa della qualità scientifica, in quanto gli altri indicatori (numero di libri, numero di capitoli e articoli su ogni rivista scientifica) misurano il volume di attività. Se non ci fosse la classe A, gli studiosi che hanno scelto di pubblicare sulle riviste di più elevata reputazione ma con minori volumi sarebbero penalizzati. E inoltre nelle aree non bibliometriche, anche tenuto conto della critica agli indicatori quantitativi, il Miur ha stabilito che le soglie da superare siano solo una su tre. Recentemente la Commissione scientifica dell'Unione Matematica Italiana ha criticato il decreto abilitazione sostenendo che utilizza metodi automatici di valutazione che sostituiscono il giudizio qualitativo e approfondito dei candidati. Se si analizza il decreto e la successiva delibera Anvur si nota però che è stato evitato il più possibile l'utilizzo di strumenti automatici, proprio ascoltando rilievi critici di questo tipo. Le commissioni di abilitazione sono tenute a considerare ben dieci criteri, per lo più qualitativi, di cui solo uno corrisponde con le mediane che verranno pubblicate dall'Anvur. Inoltre possono discostarsi dalle mediane se dichiarano anticipatamente e in modo trasparente altri criteri. Per gli aspiranti commissari gli indicatori quantitativi sono invece tassativi, ma si applicano all'intera carriera scientifica, almeno nei settori bibliometrici, o su dieci anni di attività, e quindi costituiscono una ragionevole approssimazione della qualità scientifica. Il Gruppo 2003, insieme ad apprezzamenti positivi, ha espresso la preoccupazione che la Vqr, essendo basata solo su tre prodotti, possa appiattire le eccellenze. È una obiezione giusta: un conto sono tre articoli quando ne ho prodotti quattro, un conto quando sono estratti da molte decine. L'Anvur sta preparando un'analisi comparativa della posizione italiana nel resto del mondo, basata sulla intera produzione scientifica delle università e degli enti di ricerca. Un primo studio sperimentale uscirà dopo l'estate sul quadriennio 2008-2011, e a fine anno sarà pronto uno studio completo per l'intero periodo della Vqr. Ciò consentirà di dare un quadro molto dettagliato del posizionamento della ricerca italiana. L'Anvur è consapevole che la valutazione è un esperimento sociale, e come tale non può evitare di produrre effetti non intenzionali, taluni anche perversi. Si tratta di riconoscerli in tempo e correggere in corso d'opera, combinando umiltà nell'ascolto, rigore nella riflessione, fermezza nella decisione. ______________________________________________ Scienza in Rete 1 lug. ’12 DI CHIARA: UNA "VALUTAZIONE DELLA VALUTAZIONE" L'istituzione di un sistema di valutazione della qualità della ricerca è una misura irrinunciabile per un paese che voglia investire nell’innovazione e rimanere competitivo. L'entrata in funzione dell'Agenzia per la valutazione dell'Università e della Ricerca (Anvur) dimostra che anche l'Italia si sta finalmente muovendo nella direzione della valutazione della ricerca e questo fatto non può che essere accolto positivamente. Tuttavia, l'esperienza negativa della valutazione dei progetti di ricerca nazionali (Prin, Firb) dimostra che fine ultimo della valutazione deve essere la premialità del merito. Una valutazione inefficace, che non incida sulla distribuzione delle risorse, è più dannosa di una non-valutazione perché, essendo percepita come ingiusta, mina la fiducia dei ricercatori nelle Istituzioni e nella ricerca stessa. Una'' valutazione della valutazione'' della ricerca in Italia non può non entrare nel merito delle procedure attualmente seguite dal Miur e considerarne gli aspetti metodologici. La valutazione della ricerca scientifica riguarda: * I progetti di ricerca * Le istituzioni (Atenei e Istituti di Ricerca controllati dal Miur) LA VALUTAZIONE DEI PROGETTI DI RICERCA In Italia la valutazione dei progetti di ricerca finanziati con fondi pubblici (Prin, Firb) utilizza da molti anni il sistema dei revisori esterni scelti da una banca dati - quella del Cineca - sulla base dell'area e del settore scientifico disciplinare (Ssd), del panel ERC (es. LS1) e del relativo settore (es.LS1_5), della tipologia (es. docente attivo, ricercatore non universitario, etc.), della residenza o meno in Italia, della partecipazione al Prin o al Firb corrente, dell'appartenenza alla struttura da cui proviene il progetto da valutare e dei temi di ricerca, mediante parole chiave. I revisori sono scelti da un Garante per ciascuna area di ricerca in modo che ciascun progetto sia valutato di norma da due revisori. In certi casi, e a suo giudizio, il garante può richiedere la valutazione di un terzo revisore. Questo sistema è inadeguato per una serie motivi che possono essere schematizzati come segue: Scarsa trasparenza del processo di revisione e del suo esito Il processo di valutazione di ciascun progetto è essenzialmente nelle mani del garante. Il garante non può modificare il giudizio dei revisori ma può influenzare il risultato finale sia attraverso la scelta dei revisori che in itinere, richiedendo l'intervento di un terzo o di un quarto revisore. In alcune tornate del Prin era prevista la possibilità che i due revisori confrontassero i giudizi e si accordassero su un punteggio finale. Pertanto, ciascun revisore, protetto dall'anonimato, deve rendere conto, quando questo è previsto, solo all'altro revisore, oltre che al garante. Il garante, a sua volta, per quanto riguarda la valutazione dei progetti individuali, non deve rendere conto a nessuno. A procedura conclusa i revisori non hanno più accesso ai giudizi ed ai punteggi da loro stessi attribuiti nè sono informati sugli esiti della revisione finale. Assenza di una valutazione comparativa Il fatto che ciascun progetto sia valutato da due, al massimo da tre revisori e, d'altra parte, il fatto che non esista possibilità di confronto tra i progetti rende impossibile un giudizio comparativo e l'applicazione dello stesso criterio di giudizio a progetti appartenenti alla stessa area. Scarsa presenza o assenza di revisori stranieri La banca dati dei revisori del Cineca è costituita prevalentemente o esclusivamente da revisori italiani. Il fatto che la valutazione sia affidata quasi esclusivamente a revisori italiani rende inevitabile il conflitto di interesse dei revisori. Insufficiente peso attribuito alla produttività e qualità della ricerca del proponente il progetto A questo aspetto, che indica l'affidabilità del proponente, la sua capacità di effettuare la ricerca e pubblicarne adeguatamente i risultati, viene attribuito solo il 20% del punteggio a disposizione. Dissociazione tra valutazione e budget disponibile La parcellizzazione e soggettività del processo valutativo fa sì che non esista alcun rapporto tra criteri di valutazione e budget disponibile per il finanziamento. Paradossalmente in vari Prin e Firb il numero dei progetti che hanno riportato un punteggio massimo è stato talmente elevato da far sì che la quota annuale attribuita a ciascuna unità si riducesse a livelli (media Prin 2008-2009 : 25.000 euro, inclusa quota di cofinanziamento locale) difficilmente compatibili con la realizzazione dei progetti stessi. E’ quindi essenziale che per ciascun progetto sia indicato il budget minimo per la sua attuabilità, in misura non inferiore al 30% del budget richiesto. Preselezione Nel 2012 è stata introdotta una preselezione dei progetti di ricerca a cura degli Atenei. Questa procedura è sta giustificata con la difficoltà di gestire a livello centrale un numero eccessivo di domande. In effetti, organismi nazionali (Fondazione CARIPLO) e internazionali (Commissione Europea) utilizzano meccanismi di preselezione. Tuttavia in questi casi la preselezione viene di regola effettuata su una Lettera di Intenti e non sul progetto in extenso, una procedura leggera sia per i ricercatori che per le istituzioni. Una procedura come quella messa in atto impone un carico eccessivo ai partecipanti e agli Atenei, senza vantaggi dal punto di vista della qualità della selezione. Peraltro, il fatto di utilizzare nella preselezione una procedura di valutazione analoga a quella della valutazione finale, e cioè quella dei revisori esterni scelti attraverso la banca dati del Cineca, ne riproduce, duplicandole, le inadeguatezze. Per questo motivo riteniamo necessario che la seconda fase della valutazione dei progetti Prin e Firb venga effettuata utilizzando il principio della "study session". La study session Stante l'attuale congiuntura economico-finanziaria e la necessità di ridurre la spesa pubblica, un uso efficiente dei fondi per la ricerca diventa assolutamente essenziale e prioritario. Da qui l'urgente necessità di riformare radicalmente il sistema di valutazione dei progetti di ricerca. Ma in che modo? Semplicemente imitando l'esempio dei sistemi adottati da altri paesi come il sistema di revisione del National Institute of Health (NIH) americano, dell’European Research Council (ERC), delle agenzie nazionali di Francia, Germania e Regno Unito ed anche quello di fondazioni private italiane, come Telethon, Airc, che hanno dimostrato di avere un sistema di valutazione efficiente. Questi metodi sono basati essenzialmente sul fatto che la valutazione finale dei progetti viene effettuata da un panel di esperti dell'area cui appartengono i progetti oggetto della valutazione (study session), coordinato e moderato da un Presidente e da uno o più Vicepresidenti che lo affiancano ed eventualmente lo sostituiscono quando siano in discussione progetti per i quali esita un conflitto di interesse. La study session consente una valutazione comparativa e l'applicazione di uniformi e comuni criteri di valutazione, tutela la trasparenza, riduce l'influenza di motivazioni personali e infine consente l'adeguamento dei criteri di selezione al budget disponibile. Un esempio di applicazione di questo metodo è quello utilizzato dall'ANR, l'agenzia nazionale della ricerca francese e dall'Accademia delle Scienze finlandese, paesi che riservano alla ricerca quote del Pil ben più consistenti dell'Italia. In questo sistema i ricercatori fanno domanda nelle varie aree, a ciascuna delle quali corrisponde un panel di esperti. Gli esperti, escluso il presidente ed i vicepresidenti, sono per almeno il 50% residenti all'estero. A ciascun membro del panel è affidato un certo numero di progetti (per es. 10). Per circa un terzo di questi progetti l'esperto sarà il referente (referee) nella riunione plenaria del panel, al quale dovrà brevemente descrivere il progetto in discussione, i suoi aspetti di forza e di debolezza, le eventuali revisioni da apportare e la produzione scientifica del proponente negli ultimi 5 anni. Per i restanti due terzi dei progetti a lui affidati l'esperto sarà il lettore (reader) e come tale dovrà affiancare il referente nella discussione plenaria della study session, esprimendo il suo giudizio sul progetto. In pratica nella discussione plenaria vengono sentiti di regola prima il referente e il lettore e quindi si apre la discussione cui possono partecipare tutti i membri del panel, ciascuno dei quali ha accesso a tutto il materiale che riguarda i progetti in esame. La riunione plenaria è preceduta da un lavoro preparatorio di alcuni mesi durante i quali vengono raccolti i giudizi dei revisori esterni, selezionati, in numero di almeno tre da una banca dati internazionale ed, eventualmente, tra i revisori che ciascun proponente dei progetti ha la facoltà di esprimere. E' da notare che, come i membri del panel, anche i revisori esterni sono scelti tra quelli residenti all'estero. Ciascun membro del panel dovrà, prima della riunione plenaria, compilare per via telematica una scheda identica a quella ricevuta dai revisori esterni, nella quale dovrà attribuire un punteggio per i vari aspetti di ciascun progetto a lui assegnato e per l'attività del proponente e infine indicarne la categoria di appartenenza per quanto riguarda la finanziabilità (A, sicuramente finanziabile, B, recuperabile al finanziamento in base alla disponibilità residua, C, non finanziabile). Di fondamentale importanza è il fatto che i revisori sono istruiti a limitare l'inserimento nelle due categorie A e B ad una percentuale prefissata (per es. max 20% in A e 20% in B). La classifica finale viene stilata sulla base del punteggio assegnato dal panel a ciascun progetto per i due aspetti della qualità del progetto e dell'attività del proponente. Questo sistema è relativamente rapido ed efficiente e la spesa relativa alla ospitalità dei membri del panel è abbondantemente compensata dal guadagno di produttività determinato dal finanziamento dei progetti e dei proponenti più meritevoli. Organizzazione della valutazione dei progetti di ricerca Presupposto essenziale del sistema su esposto è la creazione di un organismo ad hoc, con l'esclusivo compito di allestire, implementare e monitorare la revisione e valutazione dei progetti di ricerca. L'Italia, unica tra le nazioni più industrializzate, non possiede un tale organismo e a questo non è estranea l'inefficienza della valutazione dei progetti nazionali di ricerca. Quest'organismo potrebbe essere costituito all'interno dell'Anvur ma dovrebbe essere comunque distinto dall'organismo deputato alla valutazione delle strutture. LA VALUTAZIONE DELLE STRUTTURE (ATENEI E ISTITUTI DI RICERCA) La creazione e l'entrata in funzione dell'Anvur è da considerare di per sè un fatto positivo dato che allinea l'Italia con gli altri paesi più industrializzati. Nonostante ciò, l'Anvur è stato fatto segno di critiche chiaramente strumentali, alcune intese non a migliorarne l'efficienza, ma a impedire tout court la valutazione stessa della ricerca. La valutazione delle Strutture da parte dell'Anvur è basata prevalentemente sulla valutazione dei prodotti della ricerca e quindi delle pubblicazioni, suddivise per aree di ricerca corrispondenti alle aree CUN. A questo scopo è stato costituito, per ogni area, un gruppo di esperti (Gev). Altri indicatori della qualità delle strutture sono costituiti dalla capacità di attrarre risorse e cioè, dai finanziamenti nazionali e internazionali e dall'internazionalizzazione (turnover di stranieri e presenza di collaboratori stranieri nei lavori eccellenti), dal numero di ricercatori in formazione, etc. La valutazione dei prodotti della ricerca Il metodo Anvur, applicato alla valutazione dei prodotti della ricerca, si basa essenzialmente sulla valutazione di un massimo di 3 prodotti, suddivisi per area di ricerca, per ciascun docente universitario (ricercatori inclusi) e di 6 prodotti per ciascun ricercatore degli Istituti di Ricerca per il periodo di riferimento 2004-2010. I prodotti sono valutati sulla base del fattore d'impatto della rivista, codificato da ciascun Gev, e del numero di citazioni rilevate da Scopus o da Isi, oppure sulla base dell'esame dei prodotti effettuato da revisori esterni (peer review). Alla peer review sono destinati tutti i prodotti pubblicati in convegni o riviste senza un codice di impatto (come è spesso il caso del settore umanistico-giuridico) e un certo numero (a campione) dei prodotti per i quali sono applicabili i parametri bibliometrici. Sulla base di questi parametri ciascun prodotto viene classificato in una di 5 categorie a ciascuna delle quali corrisponde un punteggio (eccellente, 1; buono, 0,8; accettabile, 0,5; limitato, 0; non valutabile, -1). La mancanza di un prodotto ha un peso di -0,5. Per ciascuna area, i prodotti eccellenti corrispondono al miglior 20% della produzione internazionale complessiva. L'Anvur prevede di utilizzare per la valutazione delle Università e degli Istituti, in aggiunta ai prodotti della ricerca anche una serie di altri indicatori, relativi ad attività professionali e imprenditoriali come: prestazioni in conto terzi, creazione di spin-off, brevettazione, incubatori di impresa, Consorzi. Considerazioni e proposte Sulla base degli aspetti generali del metodo Anvur si possono fare alcune considerazioni: a) Il programma di valutazione dell'Anvur è piuttosto complesso e il fatto di ricorrere, nei casi previsti, anche a revisori esterni lo espone ai problemi che affliggono la valutazione dei progetti di ricerca (mancanza di trasparenza, conflitto di interessi, etc). Perciò, al fine di evitare i problemi evidenziati a proposito dell'uso dei revisori esterni nella valutazione dei progetti (vedi punto 2.), sarà essenziale che ciascun Gev istituisca efficaci procedure di controllo della valutazione di ciascun prodotto da parte dei revisori esterni. b) Il fatto di aver fissato a 3 in 7 anni per ciascun docente (6 in 7 anni per i ricercatori degli Istituti) il numero di prodotti da sottoporre alla valutazione riducendone fortemente il potere di risoluzione, producendo un effetto livellante delle eccellenze. La possibilità di distribuire le pubblicazioni tra i coautori attenua in parte questo limite, ma penalizza le strutture con un elevato numero di pubblicazioni e/o con pubblicazioni di un singolo o pochi autori. Si auspica quindi di aumentare il numero di prodotti utilizzabili, fermo restando il minimo di 3 prodotti in 6 anni per i ricercatori universitari. Dato che tale aumento comporterebbe, nel caso di prodotti da analizzare attraverso la peer review, un eccessivo dispendio di risorse e di tempo, bisognerebbe riservarlo alle pubblicazioni dotate di un indice di impatto e da valutare esclusivamente attraverso gli indici bibliometrici. c) La fissazione del fattore d'impatto e delle citazioni al 20% superiore come requisito di eccellenza tende a livellare ulteriormente la valutazione (vedi punto b). Si propone quindi di restringere al 5% superiore il requisito per l'eccellenza. d) Dato che una valutazione triennale dei prodotti (cadenza prevista quando la valutazione sarà a regime) è essenzialmente prospettica, essendo basata prevalentemente, almeno in ambito scientifico, sul fattore d’impatto della rivista piuttosto che sulle citazioni di ciascun prodotto, si auspica che ogni 9 anni i prodotti valutabili in base alle citazioni possano venire rianalizzati in modo da fornire una valutazione reale della ricerca delle Strutture. e) Il fine di una valutazione della ricerca è la distribuzione delle risorse secondo il merito. Una valutazione, per quanto accurata e ben condotta, è inutile se non influenza pesantemente il finanziamento dell’Università e degli Istituti di Ricerca. Di questo l’Anvur dovrebbe farsi promotore e indicare le modalità applicative dei risultati della valutazione, al fine di attivare un efficace meccanismo virtuoso volto a migliorare la qualità della ricerca. f) Il metodo Anvur non valuta la ricerca dei singoli docenti e ricercatori ma ne utilizza i prodotti per valutare le Strutture di ricerca. Tuttavia la valutazione individuale è necessaria ai fini del reclutamento di nuovi ricercatori e docenti e del monitoraggio della produttività individuale in vista dell'istituzione di incentivi salariali, un principio ormai di comune applicazione nella pubblica amministrazione e previsto dalla legge 240. A questo fine la valutazione potrebbe essere effettuata, nel rispetto dell'autonomia, a cura degli Atenei. Per la valutazione individuale potrebbero essere considerati i seguenti criteri: * qualità, rilevanza, eccellenza, impatto e continuità della ricerca scientifica. * visibilità e prestigio internazionale (es. letture magistrali/ invited lectures a Congressi internazionali) * ruolo come opinion leader nel suo campo (membro di commissioni di valutazione internazionali; partecipazione a Consigli scientifici isituzionali) * capacità di attrarre risorse finanziarie finalizzate all’autofinanziamento Gaetano Di Chiara e Maria Grazia Roncarolo per il Gruppo 2003 ______________________________________________ Il Fatto Quotidiano 3 lug. ’12 LABINI: ANVUR, SCIENZA DI REGIME di Francesco Sylos Labini | 3 luglio 2012Commenti (43) Più informazioni su: Anvur, docenti, Mariastella Gelmini, ricerca universitaria, università. Share on print Share on email More Sharing Services 63 Il problema del reclutamento universitario è ormai in piena ebollizione. Questo è sostanzialmente bloccato dal 2008 e pochi giorni fa l’Agenzia Nazionale per la Valutazione del sistema Universitario (Anvur) ha pubblicato la delibera che indica come procedere alle abilitazioni, passaggio fondamentale per i successivi concorsi. Ne è nato un vespaio, e l’Associazione Italiana dei Costituzionalisti, guidata da Valerio Onida, ha subito annunciato l’intenzione di impugnare una parte del decreto. Il motivo è semplice: sono stati introdotti dei criteri retroattivi, ovvero oggi si hanno dei criteri per “giudicare” dei lavori scientifici scritti una decina d’anni fa senza che all’epoca il ricercatore avesse la possibilità di sapere quale fosse la strategia migliore per pubblicare il suo lavoro. Alcuni dicono che sia un ricorso pretestuoso portato avanti dai “vecchi baroni” per difendere il loro potere dal nuovo che avanza. A noi sembra invece un ricorso del tutto ragionevole per ripristinare la legalità violata. Infatti, un altro supposto covo di baroni, l’Unione Matematica Italiana, ha redatto un documento sottolineando che la modalità introdotta dal’Anvur per giudicare il lavoro dei ricercatori “… non è accettabile ed è stata condannata dalla comunità scientifica internazionale, al punto da essere ora bandita in molti paesi scientificamente all’avanguardia…”. Il problema di fondo di tutta la questione non è solo il decreto delle abilitazioni: è molto più importante e vitale perché riguarda l’indipendenza e l’autonomia della ricerca dal potere politico. L’ Anvur non è un’Autorità indipendente come l’Autorità della concorrenza (questo era il disegno originario che purtroppo non è stato approvato dal parlamento), ma è parte della pubblica amministrazione – come, per esempio, l’Agenzia delle entrate nei confronti del Ministero dell’economia: la sua indipendenza viene dunque esercitata nel quadro della politica del MIUR. L’Anvur è stata organizzata sotto il Ministero Gelmini e si occupa di tantissimi compiti che vanno dalla valutazione dell’intero sistema universitario e della ricerca a quello dei singoli docenti. Come ricorda il rettore del politecnico di Milano, Giovanni Azzone, “in nessuna parte del mondo a una stessa Agenzia di valutazione vengono affidati congiuntamente tanti compiti….(che) appaiono del tutto incompatibili con le risorse disponibili e con l’autonomia degli Atenei.” Questa grandissima quantità di compiti e competenze fa dell’Anvur il vero artefice della politica universitaria e della ricerca con un ruolo che va molto al di là dell’elaborazione di semplici linee di indirizzo generali ma che invece gli permettono di intervenire in maniera molto invasiva sul soggetto stesso della ricerca e sull’autonomia dell’università. L’Anvur è dunque lo strumento attraverso il quale la politica può condizionare in maniera mai tentata prima sia la politica universitaria che la natura stessa della ricerca. Visto il delicatissimo ruolo dell’agenzia bisogna chiedersi come questa sia stata strutturata e come questa si muova rispetto alla comunità scientifica. L’Anvur ha un consiglio direttivo di nomina politica: è stata istituita da quell’emblema della meritocrazia all’italiana che fu il ministro Gelmini e da quel coacervo di cervelli che ancora occupa i ruoli chiave del ministero. L’Anvur ha a sua volta nominato, tramite delle procedure per nulla trasparenti, i presidenti dei gruppi d’esperti di valutazione che a loro volta hanno nominato, attraverso altre procedure opache, i membri dei gruppi d’esperti di valutazione. Dunque tutta la procedura di disegno dell’architettura dell’agenzia non solo non è trasparente ma è piuttosto top-down. Il problema che bisogna porsi da un punto di vista politico è se una tale struttura, nominata da un governo che (per fortuna nostra) non esiste più, possa continuare il suo operato senza soluzione di continuità. Questo è il problema politico di fondo che sta velocemente emergendo in tutta chiarezza in questi giorni. Un esempio di uno dei motivi di grandissima preoccupazione dell’operato di questa agenzia, è il problema della classificazione delle riviste scientifiche. Secondo l’Anvur un lavoro scientifico di un ricercatore sarà valutato più o meno bene a seconda della rivista in cui è stato pubblicato. E chi decide quali sono le riviste ottime, buone o pessime? L’Anvur stesso utilizzando dunque un metodo che non si ritrova in nessun’altra agenzia di valutazione al mondo. Dunque un’agenzia di nomina politica ha il potere di stabilire quale sia la ricerca “migliore” e quale la “peggiore”. Questa situazione non è accettabile ed è evitata in tutto globo terraqueo. Come ha scritto Antonio Banfi, ricorda però la situazione che in URSS ebbe come massimo caso il tristemente famoso biologo Lysenko, che portò avanti una visione ideologica della biologia basata sull’idea che l’ereditarietà dei caratteri sia influenza da fattori ambientali. Questa teoria, ostile alla genetica mendeliana e priva di ogni base scientifica, piaceva tanto a Stalin e alla nomenclatura sovietica, tanto che vari scienziati sovietici che vi si opposero furono incriminati e condannati a morte in quanto nemici del popolo. Nel nostro piccolo i casi di polemica sono tanti e per il momento hanno riguardato, oltre i matematici che hanno preso posizione in maniera molto chiara e netta, soprattutto le scienze umane, come la sociologia e l’economia. Chi non se n’è preoccupato finora lo farà nel prossimo futuro appena vedrà la conseguenza di scelte scellerate sulla propria carriera. E’ necessario dunque che la forze politiche mettano all’ordine del giorno di ripensare completamente al ruolo dell’Anvur, facendone una agenzia indipendente ed autonoma in grado di discutere le sue scelte in maniera trasparente con la comunità scientifica. ______________________________________________ L’Unità 7 lug. ’12 ANVUR: SALVIAMO LA «SOGGETTIVITÀ» PER SELEZIONARE I MIGLIORI C'È UNA CERTA AGITAZIONE IN QUESTI GIORNI ALL'INTERNO DEL MONDO UNIVERSITARIO E DELLE COMUNITÀ SCIENTIFICHE DOPO LA PUBBLICAZIONE DA PARTE DEL MINISTERO della procedura per la formazione delle commissioni nazionali per il conferimento delle abilitazioni e da parte dell'Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario (Anvur) degli indicatori da utilizzare per selezionare gli aspiranti commissari e per valutare i candidati. Un'agitazione certamente giustificata (come ben testimoniano gli interventi di Mazzarella e Banfi apparsi su questo giornale), ma che per non risultare semplicemente corporativa e difensiva rispetto a rendite di posizione acquisite deve aprirsi e diventare una profonda e radicale riflessione intorno al modello di università che i dispositivi apparentemente solo tecnici che si sono avviati in questi anni di fatto veicolano. Se non ci si muove in questa direzione i documenti di protesta, le prese di distanza e in generale tutte le critiche per quanto argomentate rischieranno di cadere dentro il calderone delle lagnanze insignificanti di chi si sente depauperato di un potere al quale non intende in alcun modo rinunciare. Il decreto in questione sblocca, di fatto, una situazione di stallo relativa alla possibilità di scorrimenti di carriera e di nuovi ingressi all'università che rischiava di diventare (se già non è diventata) foriera di situazioni patologiche dagli effetti davvero infausti: esclusioni di intere generazioni dal mondo della ricerca, invecchiamento dei ricercatori, frustrazioni da stagnazione, ecc. Una carta - questa dello sblocco - che viene evidentemente utilizzata per far passare in fretta e furia alcuni elementi che non riguardano solo le abilitazioni, ma che riflettono, più profondamente, un modo di pensare l'università e la ricerca scientifica che forse meriterebbe una attenzione diversa sia da parte delle forze politiche sia da parte delle comunità scientifiche. Il nuovo regolamento si propone, infatti, di imprimere una svolta in relazione alle pratiche concorsuali introducendo alcuni elementi che dovrebbero premiare il merito, selezionando sia i commissari tra i docenti ritenuti "migliori", sia i candidati, imponendo loro delle soglie relative alla produzione scientifica che dovrebbero dire chi può e chi non può concorrere per l'abilitazione. La pretesa di far passare criteri quantitativi come criteri di valutazione della qualità per distinguere i migliori dai peggiori è uno dei punti di maggiore criticità della normativa in questione. Una tale pratica è stata al centro di un ampio dibattito a livello internazionale, dove perlopiù si sostiene che indicatori di questo tipo se mai possono avere (e non è detto che abbiano) una qualche funzione nella valutazione della produttività di una struttura, non possono però essere considerati indicatori di qualità degli individui. L'identificazione di produttività e qualità nella ricerca può essere fonte di danni enormi, trasformando dall'esterno e nel profondo le stesse pratiche di ricerca, disincentivando, ad esempio, ricerche di lunga durata che non si depositano in una cospicua numerosità di prodotti, intralciando l'avvio di ricerche innovative e transdisciplinari, tendendo all'omologazione nella ricerca verso modelli mainstream. Nell'ambito dei settori "scientifici" già si è sollevata la voce dell'Unione matematica italiana, secondo la quale l'uso automatico di parametri bibliometrici e strumenti statistici per la valutazione degli individui è una pratica inaccettabile e condannata dalla comunità scientifica internazionale. Dall'altro lato, in ambito umanistico, il presidente dell'Associazione dei costituzionalisti, Valerio Onida, ha evidenziato come nel dispositivo si faccia dipendere scorrettamente la valutazione della qualità della produzione scientifica da un elemento estrinseco ("classe" di appartenenza delle riviste su cui sono comparsi gli articoli) definito peraltro ora per allora e con effetto retroattivo. Ma c'è anche un'altra riflessione da fare. Se, per valutare la qualità delle persone, si sceglie di affidarsi ad indicatori quantitativi, di fatto lo si fa per relativizzare il giudizio di chi valuta. E che c'è di male, si dirà, nell'eliminare il giudizio? Non è forse proprio dalla soggettività, e quindi dall'arbitrarietà, dei giudizi che dipendono molti dei mali dell'università italiana? Non è proprio qui - nella soggettività del giudizio - che si annidano e si originano le patologie più profonde del sistema universitario italiano? Io credo stia proprio in questo tentativo di far fuori il giudizio e la soggettività l'elemento di più radicale distorsione su cui si fonda la retorica della meritocrazia che costituisce l'ideologia, per molti aspetti populistica, che sorregge questo tipo di normative. Non è introducendo meccanismi e automatismi che si eliminano le storture e i vizi dell'università italiana. E non è all'adesione a criteri di tipo quantitativo che si può ridurre l'oggettività. Nella valutazione della ricerca e nella valutazione delle persone che fanno ricerca l'oggettività non può e non deve prescindere dall'assunzione di responsabilità della soggettività che è chiamata a valutare. Meccanismi e automatismi non fanno parte di una cultura della responsabilità. Una cultura della responsabilità è una cultura in cui chi decide e chi giudica (e chi abbia un po' di esperienza internazionale sa che accade per lo più così dappertutto), mette il proprio nome (la propria faccia, i propri valori, e dunque la propria soggettività) a sostegno del proprio giudizio. E mettendo in gioco la propria soggettività si espone e si mette in gioco di fronte alla comunità dalla quale viene poi chiamato a rendere conto delle proprie scelte. La retorica populistica della meritocrazia rischia di produrre una cultura della valutazione che invece di incentivare scelte responsabili, rensabilizzante in cui nessuno è responsabile di nulla a innestare un enorme meccanismo deresponsabilizzazione , nessuno risponde di alcunché, perché a decidere è, appunto, il meccanismo stesso. Luca Illetterati Vicepresidente Società Italiana di Filosofia Teoretica ______________________________________________ L’Unità 5 lug. ’12 MANCINI: SULL'UNIVERSITÀ UN ALTRO SCEMPIO PUNTUALE COME UN OROLOGIO SVIZZERO, SI REBBE DETTO UNA VOLTA. ECCO ARRIVARE L'ENNESIMO "TAGLIO" al sistema universitario. Mentre per settimane ci si è interrogati sul merito, sulla crescita, sullo sviluppo; si è dibattuto sull'ingresso dei giovani nel sistema della ricerca con nuove procedure; si sono organizzati fior di convegni nei pubblici si è riempita la bocca con espressioni trite e ritrite come la famigerata «economia della conoscenza», la famosa «cultura come motore di competitività», le mitiche «università come driver per lo sviluppo» e via dicendo, chi stava preparando la spendig review si è limitato a fare quello che hanno fatto i ministri delle Finanze del passato. Semplice: la cultura, la ricerca, le università in questo Paese? Comprimibili E quindi si tagliano, ieri in favore degli autotrasportatori, oggi per le scuole private o per l'Ici (peraltro ripristinata). Tutto è meno sacrificabile. Non importa quanti tagli abbiano subito in passato. Le università si fanno valutare e ricevono fondi di conseguenza (tra le poche amministrazioni pubbliche in Italia). Benissimo. Ma come si può parlare di valutazione se non ci sono le condizioni oggettive per produrre i livelli richiesti, dalla didattica alla ricerca? L'internazionalizzazione: già con i tagli subiti gli atenei non sono più nelle condizioni di pagare le missioni all'estero, la partecipazione ai congressi internazionali, figuriamoci gli scambi, le collaborazioni e le ricerche! Qui non ci sono orientamenti politici o ideologie che tengano. Era stato detto in sede autorevolissima «niente più tagli lineari»? Acqua passata, preistoria. Dall'economia della conoscenza alle economie sulla conoscenza. La proposta che sta girando in vista del Consiglio dei ministri di venerdì prossimo è di togliere altri 200 milioni di euro al finanziamento ordinario degli Atenei, accompagnata dall'impresentabile provvedimento di destinare quegli stessi 200 milioni alle scuole private. Le scuole private. Nemmeno Tremonti era arrivato a tanto! Anzi, l'allora ministro delle Finanze, dopo aver minacciato nel 2010 "tagli" micidiali, era tornato sui propri passi e a più miti consigli. Per capire come stanno le cose facciamo due conti. Il finanziamento delle università statali per il 2013 è fissato a 6,514 miliardi; nel 2009 era di 7,485 miliardi. Come si vede la spending review alle università è stata già applicata, molto prima dell'intervento del "commissario tagliatore", come lo hanno ribattezzato alcuni giornali. Ed è stata applicata duramente: quasi 1 miliardo in meno, un taglio in tre anni di circa i113%. Cui si è affiancata una drastica riduzione degli organici passati da circa 60 mila a 50mila unità, con un bassissimo indice di sostituzione per turn-over. Le spese per stipendi e le obbligazioni per legge (in sostanza soldi già vincolati alla fonte) ammontano per il 2013, secondo un calcolo della Conferenza dei rettori, a 6,4 miliardi di euro tutto compreso. Dunque, come più volte sostenuto, una situazione ai limiti del collasso, con un margine di finanziamenti "liberi" rispetto ai trasferimenti dallo Stato pari a poco più dell'1%. Su questo 1% dovrebbero gravare le nuove assunzioni (si sono appena avviate le nuove abilitazioni), gli acquisti di beni e servizi (attrezzature per laboratori, libri, computer), le spese edilizie. Poi ci si stupisce che i ricercatori italiani fanno scoperte come quella annunciata ieri della "particella di Dio" all'estero. Come competiamo in Europa a queste condizioni? E come possiamo vincere un campionato se giochiamo in 7 e non in 11? Nemmeno alle qualificazioni arriviamo. Se togliamo altri 200 milioni di euro siamo alla bancarotta. Dopo la drastica cura dimagrante, per il 2013 si sarebbe dovuto ripristinare un minimo di vivibilità restituendo al sistema 400 milioni per rimetterla in pista e limitarsi a confermare il finanziamento del 2012 (non un euro in più). Sembrava ci si fosse finalmente resi conto che i Paesi oggi con i più alti tassi di crescita, nei momenti di crisi, anziché tagliare, hanno investito in ricerca. Oggi l'università va sostenuta, non uccisa. I fondi vanno aggiunti, non tolti. Altrimenti questo sventurato Paese (che sta applicando al pubblico impiego norme "greche") precipiterà rapidissimamente alle ultime posizioni di qualunque classifica: altro che valutazione, efficienza, internazionalizzazione e ranking degli atenei di cui si compiacciono molti giornali (magari sbagliando come è accaduto su Repubblica)! Vogliamo sperare che non ci si limiti a contemplare questo scempio. Le università non potranno e non dovranno farlo. *Presidente della Conferenza dei rettori ______________________________________________ Repubblica 2 lug. ’12 PUGLISI: TRASCURIAMO RICERCA E SVILUPPO E ABBIAMO TROPPI ATENEI INUTILI PARLA GIUSEPPE PUGLISI, RETTORE DELLA IULM: "IL QUADRO È DIFFICILE MA DA NOI CRESCONO LE IMMATRICOLAZIONI PERCHÉ OFFRIAMO PRODOTTI FORMATIVI ADEGUATI AI MERCATI E CORSI CHE PIACCIONO AI GIOVANI" Milano «Quando la Germania non stava bene, il ministro dell'Economia tedesco approvò molti tagli. Ma non quello destinato alla ricerca e allo sviluppo. Ci sarà un perché?». Quasi si sfoga, Giuseppé Puglisi, rettore della Iulm e vice presidente della Crui. E' come se non riuscisse a trattenere la sua irruenza, lui siciliano doc, originario di Caltanissetta, dal 2001 alla guida di una delle più importanti università private italiane. Ed è proprio da quell'osservatorio che Puglisi ricorre all'esempio tedesco per invitare il Governo ad una seria riflessione sul futuro dei giovani». «Urge una politica che prenda in considerazione chi entra nel mondo del lavoro—sottolinea il rettore — questo è possibile solo se si investe in ricerca e sviluppo, perché si attraggono capitali e si creano i presupposti per far crescere il Paese». Puglisi parla a ruota libera. Ricorda di quando lui era un giovane studente di Lettere: «Non sapevo che cosa avrei fatto dopo la laurea, ma sapevo che avrei fatto qualcosa. Per i giovani di oggi non è così: passano direttamente dallo stato civile di studenti a quello di inoccupati». Il rettore precisa subito che non vuole essere pessimista, ma realista. Lo stesso realismo che usa quando si lancia in un'autocritica nei confronti del sistema universitario. «Me lo posso permettere perché ho 67 anni e da 45 vivo in questo mondo. E non ho nulla da nascondere», premette. «Però, è innegabile che non si può parlare bene dell'Università, la nostra categoria ne ha fatte di tutti i colori: nel corso degli anni ha costruito, per interessi personali, centinaia di atenei, il 70% dei quali inutili». Uno strale, Puglisi, lo lancia anche contro la riforma Gelmini: «E' meno peggio di come è stata dipinta ma in alcuni aspetti è ridondante, in altri non è abbastanza moderna. Ma il suo vero limite — aggiunge — è di essere stata applicata a spot, a macchia di leopardo. Un grave errore: perché le riforme dimezzate rappresentano un serio rischio per il Paese, allora meglio non farle. Non lo dico io ma lo sosteneva lucidamente il socialista Lombardi». E' in questo contesto che l'Università Mini, e tutto il sistema universitario italiano, si trova a combattere. «Il nostro istituto, con le sue criticità e le sue eccellenze, cerca di fare al meglio il suo lavoro. Fino ad oggi, i risultati ci danno ragione: le immatricolazioni, nel 2011, hanno evidenziato un trend di crescita significativo. Rispetto all'anno precedente, abbiamo registrato un +4% per i Corsi di laurea Triennale e addirittura un +14% peri Corsi di Laurea Magistrale». Dietro i numeri, però, c'è una strategia: «Quella di assicurare prodotti formativi adeguati ai mercati e percorsi di studio in sintonia con le aspettative dei giovani». A confermarlo è anche uno studio condotto da Makno Sz Consulting, l'istituto di ricerca che fa capo ai professor Mario Abis, in cui viene riconosciuto l'alto livello di notorietà sul territorio nazionale della Iulm, che si posiziona al secondo posto dopo la Bocconi. «Però, la nostra non è un'università per ricchi —puntualizza subito Puglisi — Per esempio, quest'anno non abbiamo aumentato le tasse. Non solo, consapevoli del disagio sociale che molte famiglie stanno attraversando, siamo andati incontro anche a quei studenti del 1° e del 2° anno che hanno richiesto di poter rateizzare la seconda rata. Richiesta accolta dal Cda». Sempre sul fronte occupazionale, un ulteriore segnale positivo arriva all'Università Iulm dai risultati di un recente studio condotto in collaborazione con Centromarca (l'Associazione Italiana delle Industrie di Marca). si tratta (len inuagme sulla preparazione dei neolaureati ed esigenze d'impresa che, coinvolgendo 125 manager di importanti aziende italiane, ha studiato le politiche di reclutamento e di selezione attualmente esistenti, nelle aziende associate, con riferimento ai giovani neo laureati. Dallo studio emerge che Scienze della Comunicazione (uno dei pilastri dell'offerta formativa Iulm) si posiziona al terzo posto, dopo economia e ingegneria, tra le facoltà di provenienza maggiormente richieste al momento dell'assunzione. In particolare, la business community apprezza l'apertura al mondo del lavoro della Iulm riconoscendole fra i punti di forza un efficiente servizio di stage e placement. «È quello che ci chiede il mercato — osserva Puglisi — e noi abbiamo lavorato per rinforzare questi specifici servizi, puntando soprattutto su un tipo di formazione esportabile all'estero». Intanto, il rettore anticipa che, dal prossimo anno accademico, l'istituto partirà con il nuovo indirizzo in "Digital marketing management" all'interno del Corso di Laurea Magistrale in marketing, consumi e comunicazione. Il corso annovera nel corpo docente professionisti del settore, e si avvale della partnership con aziende di primaria importanza — come Barilla, Bnl-Bnp Paribas, L'Oréal, Intel, Microsoft, Vodafone —che contribuiscono alla definizione del nuovo percorso accademico. ______________________________________________ Italia Oggi 5 lug. ’12 PER GLI ATENEI ASSUMERE PROF RESTERÀ UNA CHIMERA Arriva un ulteriore colpo ai reclutamento degli aspiranti prof e alle casse degli atenei italiani. Ad assestarlo ci pensa la bozza di provvedimento sulla spending review che, oltre a effettuare l'ennesimo taglio al Fondo del finanziamento ordinario (Ffo, la principale entrata degli atenei), strozza ancor di più le possibilità per università di effettuare assunzioni. Due passaggi che pesano su un sistema che ha visto l'ultimo bando per salire in cattedra nel lontano 2007 e vedrà il prossimo non prima di gennaio 2013 per tener fede al complesso meccanismo di riforma previsto dalla Gelmini. Ma veniamo ora ai passaggi contenuti nel provvedimento per la revisione di spesa. Questi prevedono una decurtazione dell'Ffo di 24 milioni di euro per l'anno in corso, il che significa che la parte del Fondo non ancora assegnato sarà a breve diminuita e per i prossimi anni è prevista un'ulteriore diminuzione progressiva: le casse si svuoteranno, infatti, di 107 milioni dí euro per l'anno 2013, di 224 milioni per il 2014, di 318 milioni per il 2015 e 353 per il 2016. Tutti fondi in meno che influenzeranno qualsiasi scelta degli atenei di chiamare i futuri eventuali abilitati nel momento in cui la macchina dei concorsi sarà finalmente ripartita. In più, si legge ancora nel testo, per il triennio 2009-2011, fatte salve le previsioni del decreto legislativo (n. 49 del 29 marzo 2012 in attuazione della legge Gelmini), che colloca il turnover fra il 10 e poco più del 20%, a seconda della virtuosità delle sedi, le «facoltà assunzionali» sono ridotte al 20% nel triennio 2012-2014, del 50% nel 2015 e del 100% a decorrere dal 2016. Un mix esplosivo i cui effetti, secondo alcune proiezioni, saranno il dimezzamento delle possibilità di utilizzo delle risorse per cessazioni e, considerato il blocco del turnover seppur parziale, la diminuzione progressiva del numero di professori. In questo panorama la macchina per i concorsi stenta a decollare nonostante gli ultimi due passaggi, la delibera dell'Agenzia di valutazione sulle modalità di calcolo degli indicatori per valutare aspiranti prof e commissari e il bando del Miur sulle procedure per la formazione delle stesse Commissioni giudicatrici. In sostanza per essere abilitati i candidati dovranno superare la mediana (un indice statistico) del proprio settore concorsuale per il ruolo a cui concorrono, quanto a produttività o numero di citazioni dei propri scritti. Ma già si ipotizzano ricorsi. L'Associazione italiana costituzionalisti ha annunciato l'intenzione di impugnare la parte del decreto relativa alle classifiche di riviste, sostenendo che si tratta di un criterio nuovo fatto valere retroattivamente. ______________________________________________ La Nuova Sardegna 6 lug. ’12 UNIVERSITÀ, SFORBICIATA DA 200 MILIONI È uno dei tagli inseriti nella bozza della spending review che più sta facendo discutere: quello all’istruzione. Secondo il testo del dl infatti, le università subiranno una sforbiciata di 200 milioni di euro. Ma ad innescare le polemiche è il segno più (uno dei pochi del decreto legge), pari a 200 milioni, a favore delle scuole non statali, dunque quelle private. Altri 10 milioni sarebbero invece destinati alle università, sempre non pubbliche. Inoltre è previsto un incremento di 90 milioni di euro per il Fondo di intervento integrativo per la concessione dei prestiti d’onore e l’erogazione delle borse di studio da ripartire tra le regioni. Per gli studenti, che hanno già annunciato «mobilitazioni di massa», questi nuovi tagli porteranno «l’Università italiana incontro al definitivo sfascio». Al ministro dell’Istruzione Francesco Profumo le associazioni studentesche chiedono di «chiarire immediatamente la sua posizione» e se le nuove riduzioni «si vanno ad aggiungere a quelle delle legge 133 del 2008 che aveva diminuito di 1,5 miliardi in 5 anni i trasferimenti agli atenei». E dal Miur arrivano due precisazioni in merito alla querelle sul decreto che «togli all’università pubblica per dare alla scuola privata». «Se pure esistesse la proposta di diminuzione della dotazione per le università - spiega il ministero in una nota -, essa sarebbe comunque parte di un processo ancora in itinere, che deve esser preso seriamente, e dunque valutato alla fine. Inoltre, il completamento della dotazione ordinaria delle scuole paritarie è tradizionalmente fatta prima dell’estate, quest’anno come ogni anno, ed il fatto che coincida temporalmente con la cosiddetta spending review ora in atto da parte del governo è del tutto casuale». ______________________________________________ Il Secolo XIX 5 lug. ’12 LETTERA DEL MINISTRO DELL'ISTRUZIONE Al RETTORI E SPUNTA UN "REGALO" ALLE PRIVATE Riceveranno parte di un fondo di 67 milioni sottratto alle strutture pubbliche FRANCESCO MARGIOCCO IN QUESTE ORE le università statali, che stanno per perdere 200 milioni di euro l'anno, vedono Francesco Profumo come un nemico. Quelle private, invece, come un benefattore. Grazie al ministro dell'Istruzione, i 18 atenei non statali d'Italia riceveranno un'iniezione aggiuntiva di denaro pubblico, sottratto alle università statali. Qualcuno potrebbe commentare, impropriamente sottratto alle università statali. La sorpresa è in fondo a una lettera, del 13 marzo, che il ministro ha inviato a tutti i rettori. «Resta per il momento indivisa una quota pari a 67 milioni...Tale somma verrà ripartita tra le seguenti finalità: rifinanziamento dell'edilizia universitaria, contributo al funzionamento delle università non statali». Traduzione: per la prima volta nella storia dell'università italiana, una parte dei finanziamenti degli atenei statali andrà agli atenei privati. Quei 67 milioni sono una fetta dei circa 7 miliardi di euro del cosiddetto Fondo di finanziamento ordinario, Ffo, che ogni anno lo stato dà alle università statali, e soltanto a loro. Anche perché le 18 università private sono già finanziate dallo Stato, a parte, con un contributo pubblico di circa 80 milioni l'anno. Il finanziamento di cui parla Profumo nella lettera, è un regalo inatteso. Tra le università private ci sono le prestigiose Bocconi e Cattolica di Milano, entrambe - soprattutto la prima - ben rappresentate dal governo: il premier Mario Monti è presidente, temporaneamente auto sospesosi, della Bocconi, mentre il titolare della Cultura Lorenzo Ornaghi ha mantenuto, anche dopo la nomina a ministro lo scorso novembre, il posto di rettore della Cattolica. Sono docenti di atenei privati anche il ministro della Giustizia Paola Severino, docente alla Luiss, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Catricalà, docente a contratto alla Luiss, il ministro per i rapporti con il Parlamento Piero Giarda e quello della Salute Renato Balduzzi, professori della Cattolica. Tra la presenza ai vertici del governo di così illustri uomini delle università private e il "regalo" di Profumo a quelle università non c'è - è ragionevole supporre - alcun legame. Senza dubbio però la decisione del ministro dell'Istruzione lascia interdetti. E la prima volta che un governo sottrae risorse agli atenei pubblici (l'Ffo) a beneficio di quelli privati. L'origine di quel regalo è nel Patto di stabilità del 2012 che, all'articolo 33, comma 15, autorizza la spesa di 400 milioni di euro «per il finanziamento di interventi in favore del sistema universitario». Il 22 dicembre 2011 esce in Gazzetta ufficiale il bilancio di previsione finanziaria 2012 dove il ministero dell'Economia destina quei 400 milioni, tutti, alle università statali sotto forma di Ffo. A marzo, la sorpresa del ministro che - in apparente contrasto con il bilancio dello Stato - redistribuisce le risorse e impacchetta il suo regalo. Bocconi e Cattolica se ne rallegreranno, così come gli altri meno illustri atenei non statali. Ad esempio la Iulm di Milano e la Kore di Enna, che hanno in comune il rettore, Giovanni Puglisi, ribattezzato "rettore fotocopia" per la sua capacità di sdoppiarsi tra il Nord e il Sud della penisola. Ma devono essere grate al ministro Profumo anche, per citarne alcune, la Libera Università Jean Monnet di Casamassima, provincia di Bari, fondata dall'imprenditore edile e parlamentare Giuseppe Degennaro (1940-2004) e retta da suo figlio Emanuele Degennaro. Raro esempio di università monarchica, la Lum si segnala anche per la sua sede, che si trova all'interno di un grande magazzino di Casamassima di proprietà della famiglia Degennaro. Negli ultimi dieci anni l'Ffo è cresciuto meno del tasso di inflazione. Con cadenza ormai annuale la Conferenza dei rettori, Crui, lancia lo stesso allarme: «L'anno prossimo è a rischio, coni trasferimenti che ci arrivano dallo Stato non riusciremo neppure a pagare gli stipendi». E ora la bozza di decreto sulla "spending review", che il Consiglio dei ministri adotterà domani, prevede un ulteriore taglio all'Ffo, dal 2013 in poi, di 200 milioni l'anno. In questo quadro, era proprio necessario regalare parte di quel già misero Ffo alle università private? ______________________________________________ La Discussione 8 lug. ’12 SE LA LAUREA AL SUD È SOLO UN PEZZO DI CARTA DI LINO ZACCARIA IL GRIDO DI ALLARME DI GERARDO MAROTT "Università meridionali ridotte a diplomifici Giovani educati senza amore per la cultura" In un'intervista in esclusiva concessa a Gianmaria Roberti per il nostro giornale Gerardo Marotta, l'inventore dell'universalmente celebre Istituto Italiano per gli studi filosofici, a precisa domanda ha riposta lanciando un drammatico allarme sul livello della cultura e dell'insegnamento universitario nel Mezzogiorno (lo riportiamo integralmente qui accanto). Ha ragione Gerardo Marotta? Stando alle classifiche ufficiali, riconducibili al Censis e relativi agli anni 2011-2012 tra i mega atenei (cioè con più di 40mila iscritti) ai primi tre posti figurano Bologna, Padova e Torino. Prima fra le meridionali la Federico II, in undicesima posizione. Tra gli atenei grandi (tra i 20mila e i 40mila iscritti) le prime tre posizioni sono occupate da Pavia, Cosenza e Genova. Salerno è all'undicesimo posto, la Sun al quindicesimo, abbondantemente dopo Lecce, Cagliari, Chieti e Messina. Tra gli atenei medi (fino a 20mila iscritti) ai primi tre posti Trento, Siena e Sassari. Cassino figura al decimo posto, Foggia al quindicesimo, l'Orientale al diciassettesimo, la Parthenope al diciottesimo. Infine tra i piccoli atenei (fino a lOmila iscritti) le prime tre posizioni sono occupate da Camerino, Teramo e Potenza. L'Università del Sannio si colloca al sesto posto, Reggio Calabria all'ottavo, Campobasso al nono. Insomma dati non proprio esaltanti che in qualche modo sembrano voler dare ragione all'allarme lanciato da Marotta. La verità è che il livello della ricerca e dell'insegnamento nelle università italiane è scarso. E di conseguenza il livello medio delle università meridionali, se vogliamo prendere per buone le classifiche del Censis, risulta ancora più scadente della media. Purtroppo si tratta di giudizi che compaiono sistematicamente anche nelle riviste e dagli istituti specializzati stranieri. L'ultimo in ordine di tempo giunge dalla valutazione di più di 17 mila docenti universitari di 149 Paesi e pubblicata qualche giorno fa sulla rivista inglese Times Higher Education. Nessun ateneo nostrano è tra i primi cento per reputazione mentre abbondano le università americane, inglesi, giapponesi e non mancano atenei cinesi e di Singapore. Facile la diagnosi: la responsabilità di questo sfacelo è dei tagli e della cronica mancanza di fondi, soprattutto nei settori della ricerca, con sempre più "cervelli" (quasi esclusivamente meridionali) costretti ad emigrare. Ma non solo. È infatti il modello universitario italiano che non funziona. Il mondo accademico italiano e meridionale in particolare appare come quanto di più sclerotizzato e immobile si possa immaginare, con docenti che una volta conquistata una cattedra la mollano solo quando sono pronti per il torneo di bocce nei giardinetti pubblici, cioè alla soglia degli ottanta anni. Magari dopo aver ceduto la cattedra a figli e nipoti che perpetuano quelle dinastie baronali universitarie tanto vituperate, ma mai eliminate. Alla mancanza di ricambio e quindi di sana competizione tra il corpo docenti, si aggiunge il fatto che la nostra università non è più concepita da decenni oramai come luogo di eccellenza e di selezione, in cui i meriti e le capacità degli studenti vengano messi alla prova e valorizzati, anche a costo che qualcuno si perda per strada e decida di fare altro nella vita. Viceversa, in nome di un malinteso e demagogico principio di uguaglianza per il quale la meritocrazia e la selezione sono sempre e comunque un delitto, gli atenei si sono trasformati in diplomifici, dove i giovani raggiungono titoli accademici, specializzazioni e master quasi per inerzia, come in una sorta di percorso che deve essere uguale per tutti e privo di ostacoli. L'unico principio alla base del modello di università sembra essere quello di tenere le nuove generazioni il più a lungo possibile lontane dal mercato del lavoro. Dove, invece, la selezione c'è e, non a caso, le lauree fornite dalle nostre università servono molto poco a trovare occupazione. Si riuscirà mai a trovare un correttivo? La Gelmini in qualche modo aveva messo in piedi una riforma seria. Ma i "baroni" l'hanno boicottata e continuano a boicottarla. Usque tandem? ______________________________________________ La Discussione 8 lug. ’12 FERRARA: CI SONO ANCHE ATENEI DI ECCELLENZA DI GIANMARIA ROBERTI Sarà anche vero che gli atenei meridionali affannano nelle retrovie delle graduatorie nazionali, e in quelle internazionali risultano quasi non pervenuti, ma ogni ranking non prende «in considerazione lo stato di partenza», perché «se abbiamo minori finanziamenti, in entrata, il risultato è naturalmente inferiore a chi ha finanziamenti esterni più cospicui», osserva Gennaro Ferrara, consigliere d'amministrazione del Cnr ed ex rettore dell'Università Parthenope di Napoli. Nel Mezzogiorno «le eccellenze ci sono» insiste Ferrara, e «sono proprio quelle che vanno utilizzate, per migliorare anche il funzionamento dell'università». Considera ingenerose le critiche alle università del Sud? Non è giusto, non considerare il contributo che hanno dato al progresso degli studi nazionale e internazionale e nella formazione dei giovani, a cominciare dagli atenei napoletani. Ancora oggi i nostri migliori laureati, che concludono l'iter formativo in un numero di anni non troppo prolungato, trovano occupazione. Il dramma è che non trovano occupazione qui. Non c'è una sinergia tra imprese, istituzioni e il mondo di università e ricerca. Così i migliori laureati vanno a fertilizzare altre aree in Italia e all'estero. Gerardo Marotta, voce storica della cultura meridionale, stronca gli atenei di Napoli e del Sud, parlando di «esamifici», inabili a formare delle «coscienze civili». Marotta fa un discorso sull'università che appartiene ad un mondo ormai cambiato. Se cambia il mondo, non può non cambiare l'istituzione universitaria. In passato l'università ha svolto un ruolo importantissimo a Napoli. Oggi le si chiede cose diverse: risposte adeguate alle esigenze attuali. Perché altrimenti andrà in crisi l'istituzione università come va in crisi qualsiasi azienda. E quali sono queste richieste? Tutte le istituzioni che producono servizi avranno sempre meno finanziamenti. Dunque la sfida che hanno oggi le università è quella di utilizzare al meglio le risorse. Per rendere produttiva la spesa, che sarà sempre più ridotta. La situazione economica del Paese è quella che è non cambierà a breve. Oggi si utilizza lo strumento del bilancio economico, per cui il controllo deve avvenire anche sull'utilizzo delle risorse, sullo stato patrimoniale e sul loro utilizzo. Ad esempio? Ridurre i costi certamente è una strada obbligata, ma non è questo il vero problema, perché molto spesso i costi sono incomprimbili, come quelli per gli stipendi. Il vero nodo è l'utilizzo dei beni materiali e immateriali. Le università hanno strutture che vanno razionalizzate nel loro utilizzo, alla ricerca di efficienza, economicità ed efficacia. E se hanno beni che superano le strette esigenze, meglio fare delle fondazioni. E la ricerca si può razionalizzare? Per quanto riguarda il prodotto della ricerca che deve essere posto sul mercato, può essere messo , si possono creare degli spinoff universitari: la nascita di aziende con la partecipazione diretta delle università. A ai docenti quale ruolo assegnare? Oggi il docente può essere a tempo pieno o ridotto. Ma è un concetto da superare. Deve essere a tempo pieno. Che poi possa svolgere attività con ritorno economico, è giusto. Ma le attività professionali devono essere proiezione delle attività universitarie. Al Sud però c'è anche un crollo delle iscrizioni. Abbiamo una fuga. Alla Bocconi ci sono più studenti meridionali che settentrionali. Ma anche dal nord fuggono verso le università estere, è un fenomeno di carattere generale. Al sud chi vuole lavorare sa che molte possibilità non ce ne sono e quindi deve emigrare al nord, e quindi meglio emigrare prima di aver concluso gli studi che dopo. Perciò occorre che le università meridionali siano sempre più a stretto contatto con il mondo produttivo. ______________________________________________ Repubblica 3 lug. ’12 TORINO, MILANO, VENEZIA ECCO IL PODIO DEGLI ATENEI Il caso LE TRE migliori università pubbliche italiane - e questa è la classifica del ministero dell'Istruzione, chiamato poi a finanziarle - sono nell'ordine: ilPolitecnico di Torino, il Politecnico di Milano e Ca' Foscari, ateneo di Venezia. È la graduatoria "Ffo" - sta per fondi di finanziamento ordinario - stagione 2012. IL POLITECNICO di Torino da tre anni è in testa alla gara dei finanziamenti pubblici. Più precisamente, nella gara di chi cresce nella "quota premio" dei finanziamenti, l'assegno che identifica le università virtuose (nella didattica, nella partecipazione a bandi di ricerca internazionali, nella capacità di attrarre studenti stranieri). I migliori ricevono di più. Dal "ranking istituzionale" quest'anno è uscita l'università di Trento, che l'anno scorso era seconda. A gennaio la "Unitn" ha scelto la strada del finanziamento a statuto speciale: ora prende i soldi dalla Provincia autonoma di Trento, che a sua volta in gran parte li prende dal ministero dell'Istruzione.È fuori concorso, quindi, ma è anche più ricca. È tornato invece in alto, secondo posto, il Politecnico di Milano. Ecco, per la quarta stagione alle singole università italiane sono stati assegnati premi in denaro e ogni anno questi bonus sono più consistenti del precedente. Nel 2009 erano il 7% per tutti (pari a 523,5 milioni), oggi, con gli atenei sottopostia valutazione per volontà della legge Gelmini, questa quota di finanziamento è diventata in media il doppio: 910 milioni spalmati su 55 atenei, pari al 13% del finanziamento totale (è una media, appunto, perché ci sono università che arrivano al 21%). Le risorse di Stato girate agli atenei continuano a scendere sotto la stretta delle spending review annuali (6,9 miliardi nel 2008, 6,8 miliardi ancora nel 2011, 6,55 miliardi quest'anno), ma se le "quote fisse" precipitano le "quote premiali" sono crescenti. E adesso sostanziose. Il Politecnico di Torino, che tra l'altro è stato governato per sei anni da Francesco Profumo oggi ministro e che da tre cicli è leader dei "premi pubblici", su 125 milioni ricevuti dal ministero 26 li ha presi per la capacità di attrarre insegnantie studenti stranieri, capitali privati e dell'Unione europea. E per la qualità dei bilanci. Un premio pubblico, sì. La cifra rappresenta il 21 per cento del totale, un quinto. È interessante notare come il ministero dell'Università e della ricerca stia provando a superare il concetto di "spesa storica" (il fabbisogno degli atenei, il costo fisso per i dipendenti) da sempre alla base dei finanziamenti pubblici e provi a offrire assegni in cambio del dinamismo dei rettori e dei loro consigli di facoltà. La gigantesca Università La Sapienza, che pure ha bisogno di oltre mezzo miliardo l'anno dallo Stato per andare avanti, nella quota premi è posizionata in basso: 36esima. E così la Federico II di Napoli, 41esima. Tra i grandi atenei restano nella parte alta della classifica l'Alma Mater di Bologna (quarta) e la Statale di Milano (settima). Sono quindici i parametri, piuttosto rigidi in verità, a cui si ispira il ministero per definire i premi ai virtuosi. Nelle ultime stagioni quasi tutti gli atenei hanno migliorato le loro performance su molti punti, ma tre parametri sono qualificanti e su questi pochi riescono ad eccellere. L'internazionalizzazione delle facoltà (docenti e discenti) è il primo, poi c'è il fund raising, ovvero la capacità di attrarre investimenti privati e scovare bandi pubblici utili, infine la capacità di far chiudere agli iscritti il ciclo di studi nei tempi indicati. Il complesso sistema che regola i finanziamenti prevede, comunque, alcune perequazioni, ovvero risorse aggiuntive per gli atenei sotto finanziati. Chi fa buone performance non potrà essere premiato all'infinito, la "240" della Gelmini ha introdotto dei tetti, ma certo chi ottiene risorse private (non a caso primeggiano i politecnici che offrono per statuto consulenze e brevetti all'industria) viene premiato dal pubblico. Pagato due volte. ______________________________________________ La Nuova Sardegna 6 lug. ’12 UNISS: IL MINISTERO MINACCIA VETERINARIA «No, Veterinaria non si tocca» Ganau: mobilitati contro la riduzione delle matricole Scende in campo il sindaco di Sassari Ganau per difendere il dipartimento di Veterinaria. Il decreto che ha abbassato a 30 il numero delle matricole sembra infatti preludere a una minaccia di chiusura. «Veterinaria - ha detto Ganau - è un’eccellenza da difendere, ma occorrono i fondi per realizzare le opere chieste dall’Ue». «VETERINARIA, UN’ECCELLENZA DA SALVARE» Il sindaco di Sassari Ganau annuncia la mobilitazione, ma occorrono fondi per concludere le opere chieste dalla Ue di Gabriella Grimaldi SASSARI Per la salvezza del dipartimento di Veterinaria dell’università di Sassari al momento sono disponibili un milione e mezzo di euro più altri fondi Fas che servono per la realizzazione dell’azienda zootecnica e del mattatoio. In mezzo però c’è la decisione del ministro Profumo che con un decreto firmato lo scorso 28 giugno ha abbassato il numero delle matricole del prossimo anno accademico a 30 unità. Una decurtazione di 3 studenti e un impoverimento che, secondo il parere del magnifico rettore Attilio Mastino e del direttore del dipartimento Salvatore Naitana, potrebbe essere il preludio alla chiusura della stessa facoltà. Una notizia, quella resa pubblica da una lettera di protesta inviata da Mastino allo stesso ministro, che non ha mancato di provocare dure reazioni. «Ricordo che già nel 2009 – dice il sindaco Gianfranco Ganau – ci mobilitammo perchè, visto e considerato che il polo veterinario era in alto mare, non venisse firmata la condanna a morte della facoltà. Dopo varie trattative l’emergenza sembrò rientrare ma eccoci davanti a una nuova crisi. Io credo sia urgente trovare i soldi perchè si realizzino le strutture necessarie affinché questa istituzione possa essere finalmente accreditata a livello europeo. Potrebbe essere un’idea stornare finanziamenti già destinati ad altri settori dell’università e valutare quali sono le priorità del momento. In ogni caso lanciamo un forte appello perché la Regione faccia uno sforzo straordinario in questa direzione». Il danaro servirebbe appunto per costruire le strutture didattiche, come l’azienda zootecnica e il mattatoio, indispensabili per ottenere l’avallo dell’Eeave, la commissione europea per la certificazione di qualità delle università dell’Ue. Al momento, dice il direttore del Dipartimento, Salvatore Naitana, è disponibile solo una parte del finanziamento necessario. «Un primo sì potrebbe essere ottenuto con la presentazione dell’ospedale veterinario, già ultimato – spiega –. Ma per entrare nel novero delle facoltà accreditate è necessario realizzare l’azienda e il mattatoio, solo che non abbiamo idea di dove andare a pescare la parte mancante dei fondi». Nel frattempo, per non essere bacchettato dalla Comunità europea e per arrivare dignitosamente alla visita della commissione prevista per il 2013, il Dipartimento ha proceduto a una convenzione con l’azienda zootecnica della Crucca in modo che gli studenti abbiano un riferimento didattico e altre convenzioni con i mattatoi pubblici del territorio. Ecco perché la decisione del ministro è arrivata come una doccia fredda. «Certo non è un bel momento per la facoltà – commenta il presidente dell’Ordine provinciale dei veterinari Andrea Sarria –. Non dobbiamo dimenticare tutto il tempo che è stato perso nella metà degli anni Duemila inseguendo il sogno, poi infranto, di un polo veterinario prima a Mamuntanas e poi a Bonassai. Diciamo che sono mancate le idee chiare e adesso se ne vedono le conseguenze. Già la trasformazione della facoltà in dipartimento è stato un declassamento per la nostra università, adesso siamo arrivati addirittura al pericolo di chiusura. Sarà necessaria una nuova mobilitazione perché una realtà importante come questa non venga cancellata». Nata nel 1928 la facoltà era presto diventata il fiore all’occhiello degli atenei sardi. Unica facoltà di Veterinaria dell’isola è sempre stata legata all’economia sarda basata prevalentemente sull’allevamento di ovini e bovini. Oggi che la mannaia del Governo si abbatte anche su tutte le altre facoltà italiane (sacrificate anche Bologna, Messina, Milano, Pisa e Napoli) è necessario, secondo gli addetti ai lavori, salvare il salvabile con progetti che rilancino la realtà universitaria oltre i confini regionali. Intanto va avanti l’azione del rettore Mastino per opporsi alla decisione di Francesco Profumo che coinvolgerà il consiglio di amministrazione dell’ateneo turritano e anche il senato accademico. La paura è in sostanza che la diminuzione del numero di studenti porti alla conseguente diminuzione dei docenti: «Se l’attività risultasse ai minimi termini - conclude Naitana – lo stesso ministro potrebbe arrivare alla conclusione che non conviene tenere in vita una facoltà “in miniatura”». La soluzione per rientrare nei parametri: la federazione con un’altra università L’unica salvezza per la facoltà di Veterinaria di Sassari potrebbe essere la federazione con un’altra università. Un argomento già affrontato nel 2009, con polemiche e dissidi all’interno del senato accademico e del consiglio di amministrazione dell’ateneo me che è tornato d’attualità. Per non morire. E sarebbe una sorta di ritorno al passato, anzi agli albori della facoltà sassarese, nata nel 1928 da una costola di quella di Pisa. E proprio con Pisa potrebbe ora federarsi per non soccombere, così come stanno facendo tutte le altre facoltà italiane per rientrare nei parametri richiesti dalla Comunità europea. L’Italia è infatti dentro il progetto Eaeve (European association of establishments of veterinary education) per l’equiparazione del livello della veterinaria in Europa con numero chiuso e riduzione delle facoltà, che in Italia sono 14, a fronte delle non più di 4 o 5 degli altri stati europei. Nel frattempo, la facoltà sassarese sta predisponendo la struttura per superare la valutazione Ue di maggio 2013. L’ospedale è già pronto e sarà operativo ai primi di ottobre: ma tutto rientra nei parametri richiesti. (plp) UNIVERSITÀ, STUDENTI E RETTORI «PROVVEDIMENTO APOCALITTICO» Studenti in agitazione per i tagli all’Università, ma anche i rettori fanno sentire la loro voce contraria al provvedimento. La Rete degli studenti e Azione universitaria, sono accomunate nel definire inaccettabili «gli oltre 200 milioni di euro di tagli all’Università previsti dal governo». Da parte della Rete si sottolinea che «se i tagli saranno confermati l’Università italiana andrà incontro al defin itivo sfascio e gli studenti non rimarranno a guardare». Entrambe le sigle annunciano proteste. Il presidente della Conferenza dei rettori Marco Mancini sostiene che sarebbe «un provvedimento esiziale per il Paese» il taglio di 200 euro del fondo per il finanziamento ordinario dell’Università. E la situazione degli atenei «già colpiti negli ultimi anni dai tagli, diverrebbe apocalittica». Negli ultimi anni erano già stati tagliati 900 milioni dal fondo. «Un nuovo taglio sarebbe insostenibile». ______________________________________________ L’Unione Sarda 4 lug. ’12 UNICA: PIÙ ATTENZIONE PER GLI STUDENTI UNIVERSITÀ. L’offerta formativa dell’Ateneo presentata dal Rettore Giovanni Melis Tasse invariate, sconti, consigli per scegliere la facoltà Nessun aumento delle tasse rispetto allo scorso anno, agevolazioni per le famiglie con difficoltà economiche, risparmio per gli iscritti ai corsi part-time e numerose iniziative volte a favorire una scelta del corso di laurea motivata e documentata. Confidando in questi provvedimenti, che dimostrano di aver ben presente la difficile situazione socio-economica dell’Isola, il Rettore Giovanni Melis, ieri mattina, ha presentato la nuova offerta formativa dell’Ateneo. AIUTI AGLI STUDENTI I corsi di laurea attivati sono rimasti sostanzialmente invariati, 79, mentre attraverso il portale dell’Ateneo sono stati introdotti dei nuovi meccanismi di iscrizione facilitati. Per favorire un miglior orientamento e aiutare gli studenti nell’arduo compito di scelta del corso di studi più confacente alla loro preparazione di base, sono state messe in campo anche diverse iniziative nelle scuole superiori, finanziate con fondi POR della Regione. Inoltre, nella stessa ottica, sono stati messi online i test d’accesso che anche quest’anno metteranno alla prova i nuovi iscritti, con cui le matricole potranno cominciare a prendere confidenza e allenarsi. Nel caso in cui i test d’accesso venissero superati solo parzialmente, lo studente potrà prepararsi meglio seguendo dei corsi di riallineamento. DUE NOVITÀ Una pratica già collaudata «che ha dato buoni frutti e fatto diminuire gli abbandoni», ha sottolineato il Rettore. Ma sono due le principali novità dell’anno accademico alle porte: l’introduzione di un corso di economia manageriale interamente in lingua inglese e l’accorpamento delle graduatorie d’accesso a Medicina degli atenei di Cagliari e Sassari. Come già annunciato alcuni mesi fa, i diplomati col massimo dei voti verranno esonerati dal pagamento delle tasse, così come i figli di genitori cassintegrati, in mobilità o disoccupati. «La Provincia di Carbonia-Iglesias si è resa disponibile all’erogazione di alcune borse di studio (una decina) in favore degli studenti più svantaggiati», ha comunicato il Magnifico, con la speranza «che anche altri enti possano fare lo stesso». Dati sulla disoccupazione giovanile alla mano, perché iscriversi all’Università in questo momento? «Si può uscire dalla crisi soltanto migliorando la qualità del capitale umano, in modo da poter competere con Paesi più aggressivi e più forti», ha ricordato il Rettore. Ancora una volta, gli ultimi dati Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati dell’Ateneo, confermano che circa il 90% dei neodottori risultano occupati a tre anni dal conseguimento del titolo. A sollevare la media le lauree magistrali conseguite nelle facoltà scientifiche. In testa la facoltà di Medicina e chirurgia, che vanta il 96% di occupati a 3 anni dalla laurea, seguita da quella di Farmacia con il 93,8%, da Economia (89,8%) e Ingegneria (79,5%). In coda alla classifica troviamo la facoltà di Giurisprudenza con il 46,7% di occupati dopo i tre anni. Senza dimenticare che con una laurea in tasca, sempre stando ai dati Almalaurea, aumenta anche il livello di retribuzione. I neodottori in Medicina, a tre anni dal conseguimento del titolo, raggiungono uno stipendio medio di 1.625 euro mensili netti. Seguiti in questo caso dai neoingegneri che raggiungono mediamente i 1.514 euro. Il mercato non sorride ai laureati in psicologia e lettere, che in media riescono a tirar su meno di 1.000 euro al mese. RECORD DI LAUREATI L’anno accademico 2011/2012 verrà ricordato, oltre che per la crescita dell’indice di gradimento dell’offerta didattica, con oltre il 75% di giudizi positivi (espressi tramite un questionario da 21.810 studenti), anche per aver segnato il record del numero di laureati: 4.914. Novecento in più del previsto, quasi tutti studenti cosiddetti “decadenti”. Oltre al Rettore Melis, hanno partecipato alla presentazione della nuova offerta formativa, il prorettore Vicario Giovanna Maria Ledda, il prorettore per la didattica Francesco Atzeni, la dirigente per la didattica, Giuseppa Locci e i presidenti delle facoltà di Scienze economiche, giuridiche e politiche, Lucia Cavallini, di Scienze, Biagio Saitta, e di Medicina, Paolo Contu. Veronica Nedrini ______________________________________________ Il Manifesto 5 lug. ’12 I GIOVANI SCIENZIATI ECCELLONO MA FUGGONO Tagli alla ricerca insostenibili, rischiamo davvero la serie B Le borse dell'Istituto nazionale di fisica nucleare consentono collaborazioni qualificate ma solo temporanee Ciascuna delle due collaborazioni Cms e Atlas, che insieme ieri hanno annunciato la scoperta del bosone di Higgs, è formata da oltre 3mila scienziati provenienti da tutto il mondo. Ovviamente, non tutti questi 6mila fisici sperimentali hanno partecipato in egual misura all'analisi finale dei dati che ha fornito i risultati sull'esistenza della nuova particella: oltre alla ricerca del bosone di Higgs gli esperimenti del Cern sono impegnati in dozzine di altre importanti ricerche e misure. E tuttavia oggi al Cern assicurano che alla scoperta del bosone di Higgs si è arrivati solamente grazie al lavoro di tutti. Ed è proprio così: in una simbiosi fenomenale e entusiasmante ciascuno ha portato il suo contributo; nella costruzione e mantenimento dei componenti dei rivelatori, nell'acquisizione dei dati, nella ricostruzione software dei segnali raccolti, nella costruzione di sofisticati algoritmi di analisi, e nella coordinazione delle attività. Tutti i collaboratori di Cms e Atlas sono oggi egualmente «padri» di questo importante passo avanti della ricerca pura. Si tratta del resto di una precisa policy: ogni articolo di Atlas e Cms è firmato da tutti gli oltre tremila fisici, e nessuno può dichiararsi primo attore, nemmeno se fosse effettivamente l'unico autore. Qual è stato dunque, e come si può quantificare, o meglio qualificare, il contributo italiano alla scoperta del bosone di Higgs? E che ruolo hanno avuto i giovani precari della ricerca che ieri notte costituivano il grosso della coda formatasi a partire dalle dieci di sera davanti alla porta dell'auditorium del Cern, in attesa di poter occupare un ambitissimo posto a sedere all'annuncio della scoperta? In primo luogo va detto che l'Italia, nonostante la grave penuria di fondi alla ricerca, rimane uno degli stati più attivi del Cern. Questo si riflette nelle importanti posizioni di responsabilità ricoperte dai nostri scienziati italiano è il direttore della ricerca e del computing Sergio Bertolucci, per fare un nome, e italiana è la portavoce dell'esperimento Atlas Fabiola Gianotti — ma anche nel numero di giovani che lì si formano e iniziano la loro carriera di ricerca. Laureandi, dottorandi, assegnisti di ricerca: sono loro il cuore dell'esperimento. Sono loro a fare i turni di notte nelle sale di controllo per prendere dati; sono loro a scrivere il codice e produrre i grafici; sono loro ad aver lavorato 24 ore al giorno nelle ultime frenetiche settimane che hanno preceduto questo storico 4 luglio, per portare a compimento l'analisi dei dati con una rapidità finora mai nemmeno immaginata in esperimenti di pur minore complessità. È soprattutto grazie alla lungimirante azione dell'Istituto nazionale di fisica nucleare se molti di quei giovani oggi al Cern ci possono stare a tempo pieno, anche se per periodi limitati L'Infn ha infatti istituito alcuni anni fa la figura di «simil-fellow», una borsa di studio equiparata ai prestigiosi ma rari «fellow» del Cern che permette ai giovani fisici di contribuire agli esperimenti, senza essere penalizzati dalla mancanza di fondi italiani pelle missioni estere. Funzionano dunque le cose in questo settore un po' di nicchia della ricerca scientifica italiana? Sì Ma anche il meccanismo virtuoso dei «simil-fellow» sta diventando un boomerang. I nostri precari della ricerca infatti dimostrano facilmente il loro valore passando periodi prolungati al Cern, diventando cosi appetibile bersaglio di offerte di lavoro da istituzioni e università estere. Posizioni più stabili, con maggiori prospettive, e pagate fino a quattro volte più che nel nostro paese. Non si può che essere felici per loro, ovviamente. Ma nel frattempo le istituzioni italiane sono svuotate di manodopera: il baricentro della ricerca si sposta ancora di più verso il Cern, l'età media dei laboratori attivi in Italia schizza sopra ai 45 anni e il nostro outputscientifico globale ne soffre. Questo paese rischia davvero di finire nella serie B della ricerca pura. Per evitarlo, servono più investimenti e soprattutto scrollarsi di dosso l'idea perdente che qui, comunque vada, certe cose non si possano mai cambiare in meglio. to. dor. ______________________________________________ La Stampa 3 lug. ’12 RAGAZZI E RAGAZZE ALLO SBARAGLIO SUL MERCATO Scuola, università e formazione professionale ecco su cosa dovremmo puntare VVALTERPASSERINI Possiamo fare come lo struzzo e nascondere la testa in quei 98mila nuovi occupati in più a maggio, ma è una pagliuzza rispetto alla trave della disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni che ha polverizzato ogni record (36,2%) ed è lì a rivelarci impietosamente tutti i nostri fallimenti. Né può consolare gli avventizi neofiti del mercato del lavoro quel 10,5% di disoccupati under 24 rispetto alla loro fascia di età, se lo confrontiamo con l'altra faccia della medaglia dell'occupazione, che sono i giovani occupati trai 15 e i 24 anni, da tempo in discesa libera, che hanno raggiunto drammaticamente quota 18,6%. Vuol dire che più di quattro giovani su cinque sono fuori dal mercato e dal processo produttivo, nel migliore dei casi studiano o sono nella schiera dei Neet (Not in employment, education or training) o hanno rinunciato a cercare. Maldestri campioni del made in Italy sostengono che noi siamo meglio messi in Europa, che anche gli altri soffrono. I giovani senza lavoro nel Vecchio continente sono oltre 5,5 milioni. Se in Italia oltre un giovane sui tre che cercano un lavoro è disoccupato, ci battono solo Grecia e Spagna, i campioni dello spread (oltre il 50% di disoccupazione giovanile), mentre i più virtuosi sono i tedeschi, gli austriaci e gli olandesi, compresi tra l'8 e il 9% di disoccupazione giovanile. Forse dovremmo mandare i nostri governanti degli ultimi 10-15 anni a studiare le politiche dei paesi più amici dei giovani e capiremmo che in quei paesi gli under 25 sono la priorità. In Italia invece sono il segno dell'impotenza, la cartina di tornasole della cattiva volontà di una classe dirigente di gerontocrati, legati come cozze ai loro privilegi. Certo l'anagrafe alla fine vincerà, ma intanto lo spreco di speranze, di risorse e di futuro grida vendetta e dovrebbe farci vergognare. Eppure i rimedi, il pentagramma delle cose da fare è sotto gli occhi di tutti. Le voci dell'agenda si chiamano scuola, università, orientamento, lavoro, culture. Il distacco della scuola dal mondo del lavoro è abissale. Certo vi sono esempi eroici di contatto tra mondi che non si amano, ma sono ancora una goccia rispetto ai bisogni. Stage, concorsi, alternanza, apprendistato sono strumenti che in altri paesi rappresentano la norma, mentre in Italia suscitano lo scherno degli scettici. Le università per legge dovrebbero fornire servizi di placement ai propri studenti, ma quelle che lo fanno davvero si contano sulle dita di due mani. L'orientamento è una cosa troppo seria per essere lasciato nelle mani delle famiglie, degli insegnanti o delle compagnie di giro, che stipano i ragazzi in sale cinematografiche altrimenti vuote e infliggono loro lezioni sul nulla. I disorientati salgono in cattedra e pontificano sermoni che sono elio allo stato puro, mentre i ragazzi non vedono l'ora che squilli la campanella. Dovremmo cominciare a capire che l'orientamento si divide in tre, dovremmo ricominciare da tre bussole per i giovani: una riguarda l'orientamento scolastico, una l'orientamento professionale, l'altra la relazione d'aiuto con i singoli soggetti, che non sono categorie ma persone. Invece, cinicamente, mandiamo i giovani allo sbaraglio, con la scusa che tanto prima o poi dovranno imparare a nuotare, o a camminare con un cappuccio intesta. Un malsano sadismo pedagogico si sostituisce alla relazione d'aiuto, che richiede fatica, rispetto, competenza. Infine, il lavoro. Che dire di una riforma del lavoro che giustamente punta le sue carte sull'apprendistato quando le regioni sono inadempienti e si trincerano dietro un federalismo di facciata. Che dire del modello culturale della formazione professionale in Italia che, unico paese in Europa, la divide in 20 sottosistemi sordi, tra loro gelosi e corporativi. Il risultato è quello di allontanare i giovani dal lavoro e dal lavoro manuale, da quelle tradizioni industriali e artigianali che continuano a reclamare posti vacanti. Che dire di una visione del lavoro ottocentesca, che riesce a immaginare solo mestieri da subordinati e dipendenti. Mentre il futuro è degli intraprendenti, di coloro che se lo costruiranno, di quelli che, nonostante i troppi cattivi maestri, preferiranno fare da soli. ______________________________________________ Il Sole24Ore 6 lug. ’12 LA LAUREA NON SPINGE I GIOVANI Gli ultimi dati sul lavoro: in Europa il titolo fa sempre più la differenza, in Italia no ILPARADOSSO Addirittura peggiore il tasso di disoccupazione tra i più istruiti, 16% invece del 15%: gli studi sono quasi un handicap All'estero accade il contrario Giorgio Barba Navaretti La disoccupazione giovanile elevata e persistente crea una generazione perduta che deve essere recuperata al più presto. In Italia anche, anzi soprattutto, tra i ragazzi diplomati e laureati. Capitale umano in fumo, che non trova lavoro o non lo cerca o lo trova spesso con caratteristiche inferiori alle proprie qualifiche e aspettative di salario. La recessione è certo una ragione di questo fenomeno, ma la differenza tra la condizione dei giovani e il tasso medio di disoccupazione (26 punti percentuali in più) è anche il risultato di tre inadeguatezze strutturali: dell'offerta scolastica e universitaria, della domanda delle imprese e delle regole che ne determinano l'incontro. In tempi di riforme strutturali su ciascuno di questi fronti ci sono cantieri aperti e alcuni (vedi il lavoro) già chiusi, ma non ancora sufficienti. Iniziamo dai numeri. Il 36% di disoccupati tra i 15 e i 24 anni è un dramma, ma si riferisce solo ad un parte della popolazione giovanile, quella che lavora o cerca lavoro. Esclude dunque gli studenti e coloro che il lavoro neppure lo cercano. Il problema dell'accesso al mercato del lavoro appare particolarmente chiaro soprattutto se consideriamo i giovani un po' meno giovani, coloro tra i 25 e i 29 anni che hanno completato gli studi o comunque hanno l'età per aver terminato anche l'università. Il loro tasso di disoccupazione qui era a fine 2011 quasi il 15%, ben più elevato che in Francia e Germania. Ma il dato inquietante, una vera peculiarità italiana, è che la proporzione cresce tra i laureati (16%), mentre diminuisce in tutti gli altri paesi. Ossia il principio "studia che poi troverai lavoro" vale molto meno per un ragazzo italiano che per un suo coetaneo europeo. Che spreco per un paese che cerca disperatamente la via della crescita! Il recente rapporto sull'Università della Fondazione Agnelli spiega che questo è il frutto di un serio mismatch strutturale tra domanda e offerta di lavoro, particolarmente evidente tra i laureati. Da un lato l'offerta universitaria, anche dopo la riforma del 3+2, non sempre riesce a fornire competenze richieste dal mercato. D'altro lato il sistema produttivo non è in grado di assorbire l'aumento dell'offerta di laureati che in seguito alla riforma ha raggiunto livelli simili alla media Ue. Il che si traduce non solo in elevata disoccupazione, ma anche in un aumento della remunerazione limitato in seguito alla laurea, inferiore agli altri paesi europei ed anche alle lauree pre-riforma. L'incontro tra domanda e offerta di ragazzi qualificati è la prima via per ritrovare competitività. Il sistema produttivo è in drammatica evoluzione, anche durante la recessione. Le aziende che crescono e che hanno successo sui mercati globali impiegano in proporzione crescente personale altamente qualificato ed hanno bisogno di competenze sempre nuove. Anche le attività meno complesse, come il lavoro di fabbrica richiedono ormai abilità e conoscenze avanzate e non solo manuali. Una parte del sistema produttivo, soprattutto le piccole imprese meno dinamiche, non è in grado di fornire prospettive di impiego stabili a giovani altamente qualificati. Ma l'aumento di competitività inevitabilmente richiede un upgrading qualitativo in tal senso della domanda di lavoro. D'altra parte c'è un problema di competenze fornite dall'Università. Solo un più forte interfaccia tra i futuri datori di lavoro e gli Atenei può aiutare a qualificare meglio l'offerta. Il che può implicare due diverse direzioni. Una più specializzante. Ad esempio Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi propongono corsi di laurea triennali professionali come le Fachhochschulen tedesche. In Italia questa offerta formativa è svolta, ma ancora in via sperimentale, dai corsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (Ifts), cui si sono recentemente affiancati gli Istituti Tecnici Superiori (Its). La seconda strada è di rafforzare i criteri selettivi di corsi più generalisti, comunque interfacciandosi con le imprese, in modo che gli studenti apprendano competenze generali, ma imparino allo stesso tempo come applicarle. Infine c'è il nodo istituzionale dell'incontro tra domanda e offerta. La disoccupazione giovanile è anche figlia del bagno-Maria della precarietà: spendere poco e non investire sul futuro. La riforma del mercato del lavoro, rafforzando il ruolo dell'apprendistato ed aumentando la flessibilità in uscita (anche se marginalmente) garantisce un canale utile di incontro tra domanda e offerta per le imprese che vogliano investire sui giovani nel lungo periodo. Gli strumenti istituzionali e contrattuali però non bastano. Le aziende devono capire che costruire rapporti stabili e duraturi (per quanto flessibili) è la via per la competitività virtuosa. La riforma ha in parte ridotto i costi relativi di scegliere questa via rispetto a modelli contrattuali più precari. L'auspicio è che un numero maggiore di aziende scelga questa strada. Per risolvere il dramma della disoccupazione giovanile, ci vuole un impegno collettivo: governo, datori di lavoro (anche il settore pubblico), scuola e università. Nessuno può fare da solo. barba@unimi.it ______________________________________________ Il Fatto Quotidiano 8 lug. ’12 MENO STUDI, MEGLIO VIVI di Francesca Coin* Una campagna pubblicitaria consiglia di andare a lavorare in fabbrica per avere subito un reddito e abitare con la fidanzata: inutile sprecare tempo con l'università che non fa guadagnare Qualche giorno fa uno slogan pubblicitario piuttosto originale diceva così: "Licenzia un dipendente, assumi una web agency". L'annuncio ha fatto discutere: ritraeva un uomo in giacca e cravatta fatto uscire dal posto di lavoro con un calcio sul fondo- schiena. Un'altra campagna pubblicitaria ritrae due giovani trentenni, l'uno belloccio con le braccia conserte e lo sguardo sicuro; l'altro impacciato e goffo, giacca e cravatta piuttosto scialbe. Il primo ha "un posto fisso, un ottimo reddito e vive con la sua donna", diceva l'annuncio. Il secondo "è laureato da sei anni, ha un lavoro precario, un reddito basso e vive con i suoi genitori". Quale dei due preferisci? Questa era la domanda. Non si tratta di un' sito di appuntamenti ammiccanti, ma della pubblicità dei corsi di formazione permanente del consorzio Enfapi, un centro di formazione professionale di Bergamo, legato a Confindustria e finanziato dalla Regione Lombardia. Preferisci laurearti e divenire l'ennesimo colto precario senza donna, senza reddito e senza lavoro, o divenire capo reparto in fabbrica a sedici anni e vivere "con la tua donna" già a 30, come farebbe un uomo vero? A PRIMA VISTA i due spot non hanno molto in comune. L'uno è una volgare rappresentazione visiva dei benefici della novella libertà di licenziamento: vuoi risparmiare? Licenzia, troverai sicuramente qualcuno disposto a fare lo stesso lavoro a minor prezzo. L'altro è un'amara rappresentazione dell'inutilità dello studio. Vuoi sprecare tempo e denaro? Laureati. Entrambi gli slogan sono in tema oggi. Entrambi, infatti, ci dicono precisamente quello che ha detto la Fornero: il lavoro non è un diritto. Devi guadagnartelo, o qualcuno lo farà al posto tuo. Nemmeno lo studio è un diritto. In fondo, a che serve studiare se poi fai il precario? Insomma la Fornero ha ragione. Con la disoccupazione giovanile al 36,2%, qualcuno realmente credeva che il lavoro fosse ancora un diritto? Qualche giorno fa un'indagine commissionata da Confindustria Bergamo a Astra Ricerche ha portato alla luce i sogni e le aspettative per il futuro dei giovani bergamaschi, destinatari della campagna del Consorzio Enfapi. "I giovani bergamaschi non si fanno illusioni", riassumeva il trafiletto del Sole 24 Ore intitolato "Perché a Bergamo la laurea non attira". Questi ragazzi "in un prossimo futuro potranno fare i camerieri, i cuochi, i commessi, al massimo gli operai, magari anche specializzati. Ma non certo, e non più, i manager o i consulenti". Insomma: è "inutile alimentare generazioni di laureati frustrati". Il punto, dunque, non è che i diritti costano. E che è tempo di essere umili. Il problema non è che la Fornero ha detto la verità, quando al Wall Street Journal ha detto che il lavoro non è un diritto. È che ha detto di farsene una ragione. La controprova di tutto questo è il compatto istruzione. Dal 2008 a oggi i tagli hanno consentito ben 8 miliardi di risparmio su scuola e università, Al momento dell'entrata in vigore del decreto, l'Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, la Stazione Zoologica Anton Dohrn, l'Istituto Italiano di Studi Germanici, l'Istituto Nazionale di Alta Matematica, l'Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, l'Istituto Nazionale di Astrofisica, il Museo Storico della Fisica e il Centro di studi e ricerche Enrico Fermi saranno soppressi. Dal 2010 al 2011 sono stati tagliati più di mille corsi di laurea. Dal 2008 a oggi più di 20 mila scienziati, post-doc, assegnisti, co.co .co ha lasciato il lavoro. Il tasso di indebitamento degli atenei è tale che con tutta probabilità sarà difficile ogni sostanziale reclutamento. Se non vengono reintegrati, i docenti saranno dimezzati in meno di dieci anni. NON CONTENTO, il rettore della Iulm Puglisi vuole di più: il 70% degli atenei italiani è inutile, ha dichiarato il 2 luglio. Possiamo finalmente abbattere il sistema universitario pubblico tout court, quale occasione ghiotta. In alternativa, l'ex decreto 437 offre un'altra chance: vuoi sopravvivere? Alza le tasse studentesche. Capito il trucco? Poco importa se gli studenti avranno il minor numero di atenei, docenti, borse di studio e (quasi) posti di lavoro del mondo occidentale. Vuoi un diritto? Paga. Gli altri possono sempre andare in fabbrica e a vivere con la loro donna * docente di Sociologia Università di Venezia Cà Foscari ______________________________________________ Panorama 7 lug. ’12 COME ENTRARE NELLE UNIVERSITÀ A NUMERO CHIUSO Sorpresa: il voto di maturità non serve. O quantomeno, nelle università a numero chiuso con test d'ingresso più o meno astrusi il più delle volte è valutato alla stregua della carta straccia. Qualche eccezione c'è. Per esempio, alla Luiss di Roma, per chi fa il test a settembre, il voto dell'esame di quinta incide per il 40 per cento sulla valutazione finale (era il 60 fino a quattro anni fa). Ma l'idea che prevale è che si debba tenere conto del curriculum scolastico: conviene concentrarsi sui voti di terza e quarta superiore piuttosto che sul giudizio finale. La pensano così alla Bocconi di Milano, dove la graduatoria con le domande d'ammissione è costruita su base 100: 50 è il risultato ottenuto da una media ponderata delle valutazioni del terzo e quarto anno in sei materie (di cui due a scelta del candidato), 45 dall'esito finale del test d'ingresso e 5 dalla presentazione di una doppia certificazione (conoscenza dell'inglese e patentino informatico). «È da un decennio che non teniamo in considerazione il voto di maturità» racconta a Panorama Giovanni Vallotti, direttore della scuola universitaria dell'ateneo milanese, che per l'anno accademico 2012-2013 ha messo in palio 2.370 posti (120 in più rispetto a 12 mesi fa) assegnati in due tranche (a maggio e a fine agosto). «1 test sono fatti da )00 domande a risposta multipla di tipo logico-attitudinale in 100 minuti» continua Vallotti. Ma specifica che 600 posti circa vengono preassegnati ogni anno con «Talent scout», il programma rivolto ai ragazzi che alla fine della terza o quarta superiore hanno conseguito una inedia di voti uguale o superiore all'8. «A spese della Bocconi vengono invitati a un corso di orientamento a Milano della durata di tre giorni al termine del quale possono sostenere il test d'ammissione e conoscere, prima degli esami di maturità, il loro destino postscolastico», Stesso destino è riservato a chi partecipa alla summer school targata Luiss (sono a pagamento, da 1.000 a ).400 curo). «Si tratta di una settimana full immersion nell'universo Luiss dedicata ai ragazzi che hanno finito la quarta superiore» informa Gianni Lo Storto, vicedirettore generale dell'ateneo, che mette in palio 1.300 posti l'anno. "Si conclude con un test d'ingresso sulla falsariga di quello tradizionale: 100 domande a risposta multipla in 90 minuti. Chi ottiene 70 punti sui 100 previsti sa che sarà uno studente Luiss con un anno d'anticipo». Quella dei test non è una prerogativa delle università private. Un terzo circa dei corsi universitari italiani sono ad accesso limitato. Ci sono i questionari vincolanti fissati dalla legge 264 del 1999 relativi ai corsi di laurea specialistica in medicina, odontoiatria, veterinaria, architettura e scienze della formazione, Poi ci sono quelli introdotti dalle singole facoltà perché a corto di aule, laboratori o docenti. Succede al Politecnico di Milano, ma non solo. «È una questione di organizzazione» spiega Mauro Santomauro, membro del consiglio di amministrazione ed esperto di didattica e di servizi per gli studenti. «Per la sola ingegneria abbiamo 24 corsi di laurea suddivisi tra indirizzi e sedi differenti. Ogni candidato, indipendentemente dalla sessione d'esame scelta (tre in tutto; a marzo, a luglio e a settembre), può indicare tre preferenze». Le possibilità di successo sono elevate: tutti o quasi centrano l'obiettivo. E anche chi ottiene meno di 60 punti sui 100 richiesti può iscriversi ma senza la possibilità di fare esami, Potrà sostenerli solo una volta superato il test. Il discorso cambia (e parecchio) per gli aspiranti architetti convocati per legge il 6 settembre in tutta Italia. Stesso test, ma graduatorie distinte per ateneo. Almeno per ora. Perché il 18 giugno scorso il Consiglio di Stato, intervenuto su ricorso dell'Unione degli universitari (Udu), ha rinviato alla Corte costituzionale proprio la legge sul numero chiuso nazionale. Sarebbe contro il «diritto allo studio» garantito dalla Carta. La parola spetta ai giudici, ma i tempi per la sentenza sono incerti: la notifica non è ancora pervenuta alla cancelleria. Inoltre, più che i test d'ingresso a provocare qualche mal di pancia sono le graduatorie per singola università. Sarebbero inique, o meglio capita che in certe facoltà basti un punteggio molto più basso che in altre. Il caso limite è quello di medicina con un differenziale di quasi 20 punti nel punteggio minimo richiesto dalle varie facoltà. A Milano per l'anno accademico 2011-2012 servivano per l'iscrizione 50,25 punti su un massimo di 80. Alla Sapienza di Roma ne bastavano 31,50. Con un decreto a sorpresa del ministero dell'Istruzione, guidato da Francesco Profumo, il 28 giugno si è tentato di correre ai ripari introducendo graduatorie uniche per gli aspiranti medici (e odontoiatri) per gruppi di atenei: 12 in tutto. Qualche esempio? Le facoltà di Bari, Foggia e Molise avranno la loro classifica. Quelle di Firenze, Parma, Pisa e Siena la loro. E così via. C'è chi prefigura maxi graduatorie su scala nazionale per tutti i corsi a numero chiuso. Se ne infischiano del trambusto legislativo in corso le scuole d'eccellenza universitarie che, seppure pubbliche, sono a statuto speciale e non hanno alcuna intenzione di correggere il sistema d'ingresso iper selettivo. Sono in tutto tre: la Normale e la Sant'Anna di Pisa e lo luss di Pavia. Mettono in palio 180-190 posti complessivi per anno accademico. Con una media di 20 candidati per ogni poltrona vacante contro i 2/3 in media delle altre facoltà a numero chiuso. La selezione è durissima ma i vantaggi per chi ce la fa sono notevoli. Un esempio per tutti: alla Normale non si pagano le tasse universitarie, il vitto e l'alloggio sono gratuiti, l'assistenza da parte dei docenti è garantita sette giorni a settimana e altro ancora. In cambio: i ragazzi devono studiare. Tanto. E conseguire una media di voti mai inferiore al 27. I fuori corso non sono ammessi. Gli esiti sono straordinari: ben tre premi Nobel tra gli ex alunni. UN NUOVO ATENEO È NECESSALO l'università deve scegliere e ripensare il suo ruolo nella società In Occidente qualcosa, nel sistema universitario, non funziona. I dati parlano chiaro: le lauree non garantiscono più un lavoro certo, aumenta il tasso di disoccupazione ed è sempre maggiore il numero di neolaureati impiegati in un settore differente da quello dei propri studi. Noi italiani siamo in coda, almeno fra i paesi europei più industrializzati: il 16 per cento dei nostri laureati sono senza lavoro, con picchi del 17,5% per quelli che hanno scelto studi umanistici (vedere la tabella). Inoltre negli ultimi anni ci sono state forti proteste degli studenti a fronte dell'aumento delle tasse (l'istruzione ha un ______________________________________________ Corriere della Sera 8 lug. ’12 ATTACCO AD HARVARD dal nostro inviato MASSIMO GAGGI Usa, le università online sfidano le «otto sorelle» STANFORD (California) — Tutto è cominciato con Salman Khan, padre del Bangladesh, madre di Calcutta. Un analista californiano di hedge fund coltissimo (tre lauree al Mit di Boston e un master ad Harvard) ma sconosciuto. Quando, nel 2004, la cugina Nadia gli chiese di aiutarla con qualche lezione di matematica via computer, Salman cominciò a mandarle appunti e spiegazioni usando il taccuino digitale di Yahoo! «Spiegava bene: altri parenti e amici si unirono a Nadia. Così l'analista decise di trasferire le sue lezioni su YouTube», racconta Angela Lin, direttrice di YouTubeEDU, l'area istruzione di quello che, grazie ai suoi video, è diventato il secondo sito più visitato al mondo. «Fu un successo travolgente. Nel 2009 Salman lasciò la finanza per dedicarsi all'insegnamento digitale a tempo pieno. Creò la Khan Academy, il primo canale di insegnamento digitale su YouTube. Da allora l'analista divenuto docente ha messo in rete 3.000 conferenze e lezioni — matematica, ma anche fisica e diverse altre materie scientifiche — che, in media, sono state seguite da 20 mila allievi». Oggi il canale di Salman Khan ha 330 mila iscritti ed è la punta di diamante della piattaforma «education» di YouTube che, dice ancora la Lin, «ormai veicola una gran mole di lezioni per tutti i livelli scolastici, mentre la società di tanto in tanto organizza nella sua sede di San Bruno seminari per spiegare agli insegnanti delle scuole americane come utilizzare il materiale disponibile in Rete creando un'interazione tra le lezioni in video e l'attività didattica in classe». Metodi nuovi che possono minare l'insegnamento tradizionale, le istituzioni scolastiche, i sindacati dei docenti. Ma, dopo le esitazioni e l'ostilità iniziale, «adesso i distretti scolastici collaborano» spiega la Lin. «Ce ne sono ormai 750 che lavorano con noi». Ispirato anche dai successi di Khan, l'anno scorso Sebastian Thrun, un genio tedesco trapiantato in America dove ha fondato X Lab, i segretissimi laboratori di ricerca di Google, e dove ha (anzi aveva) anche una cattedra a Stanford, decise di inaugurare anche lui un ciclo di corsi online presso la celebre università di Palo Alto, insieme con Peter Norvig, un altro capo dei ricercatori di Google. Al corso di intelligenza artificiale si iscrissero 58 mila studenti che diventarono più di 160 mila (di 190 Paesi) quando la notizia si diffuse sulla stampa. Lezione dopo lezione, furono in molti a mollare: chi si era iscritto per curiosità o non aveva voglia di lavorare duro, rispondendo ai quiz messi in rete ogni 5 minuti da Thrun. Ma 23 mila studenti sono arrivati in fondo, sostenendo anche l'esame finale. Lo scienziato tedesco si è reso conto di trovarsi a cavalcare una rivoluzione: con quel ciclo di lezioni digitali concentrate tra settembre e dicembre aveva addestrato più studenti che nei precedenti vent'anni della sua carriera accademica: «Sono piombato in uno stupefacente Paese delle Meraviglie dell'istruzione. Ora è la cosa che mi appassiona di più: ci sono ancora molti problemi da risolvere, soprattutto nella valutazione dei risultati, ma, per quello che vedo, credo che la democratizzazione dell'istruzione cambierà tutto». Una scoperta che gli ha cambiato la vita: ha ridotto a un giorno alla settimana il suo impegno con Google e si è tuffato sulla nuova impresa dell'università online. Ma non con Stanford, che pure si è lanciata anche lei in questo nuovo business promuovendo l'alleanza Coursera con Berkeley, Princeton e le università del Michigan e della Pennsylvania. Thrun, che considera troppo rigide le grandi accademie tradizionali, si è messo in proprio lanciando Udacity: una nuova piattaforma di insegnamento digitale che — insieme ad altre start up, tutte sostenute da venture capital — sta contendendo il promettente mercato dell'insegnamento universitario in Rete a Coursera e a edX, l'altra grande alleanza accademica digitale: quella lanciata due mesi fa sulla East Coast da Harvard e dal Massachusetts Institute of Technology. Le grandi accademie tradizionali, a cominciare da quelle, blasonatissime, della Ivy League, si sono mosse con tempestività: i loro due consorzi non profit hanno già cominciato a produrre corsi online pressoché gratuiti, guardando, come mercato, al mondo intero. Il presidente Obama benedice, sperando che il canale digitale serva alle università americane a consolidare la loro supremazia mondiale, fin qui affidata soprattutto alle teste di ponte create dagli atenei Usa in Europa, nel mondo arabo e in Estremo Oriente. Annunciata da lungo tempo (il primo, fallimentare, tentativo della Columbia University risale a dieci anni fa), l'ora della rivoluzione dell'insegnamento digitale sembra giunta davvero: lo sviluppo della banda larga, delle tecnologie video digitali e l'incredibile diffusione dei social network hanno creato in brevissimo tempo condizioni molto diverse e favorevoli rispetto a qualche anno fa: anni punteggiati da esperimenti finiti nel nulla quando non, addirittura, da abusi come quelli commessi dall'Università di Phoenix con i suoi «laureati immaginari». Scandali arrivati a lambire la famiglia Graham, gli editori del Washington Post, il cui traballante bilancio è stato tenuto a galla dalla Kaplan, la società scolastica del gruppo, il cui ramo università nel 2010 è stato messo sotto inchiesta dal Congresso per la disinvoltura con cui concedeva titoli accademici. Ora, però, alla possibilità di trasmettere ovunque, via video e con sistemi di traduzione automatica, le lezioni dei professori migliori (o più celebri) del mondo, si sono aggiunti strumenti nuovi: soprattutto alcune efficaci tecniche per verificare i livelli di apprendimento, ad esempio chiedendo agli studenti di rispondere in continuazione a quiz rapidi durante la lezione. Inoltre i meccanismi della rete sociale consentono agli studenti che hanno dubbi o non hanno capito qualche passaggio di ottenere entro pochi minuti una risposta alle loro domande dai professori o da altri studenti più preparati. È il trasferimento del modello collaborativo della Rete all'università realizzato attraverso apposite start up della Silicon Valley come Piazza: una parola italiana sinonimo di incontro, scelta per battezzare una piattaforma che cerca di ottimizzare la comunicazione a distanza tra i ragazzi che seguono i corsi e tra loro e i docenti. In questa piazza virtuale gli studenti si scambiano nozioni con la supervisione di istruttori che fungono da moderatori del dibattito. Funzionerà davvero? «Certo, e dovete prepararvi a un vero tsunami», annuncia eccitato il «centauro» John Hennessy, attivissimo presidente dell'università di Stanford (un ateneo che ha brevettato ottomila invenzioni): una figura di accademico-imprenditore, visto che è anche consigliere d'amministrazione di Google e di Cisco Systems. Ma qual è il «business model»? E le grandi università sono pronte a dare ai corsi online la stessa dignità di quelli seguiti nei loro campus da studenti che pagano anche 50 o 60 mila dollari l'anno per una laurea al top? Davanti a queste domande tutto si fa più confuso. I corsi gratuiti per adesso sono sperimentali, promozionali, «laterali»: i grandi atenei Usa si danno da fare per mettersi in pole position con l'obiettivo di vendere, domani, i propri corsi alle università indiane, cinesi e brasiliane se questi Paesi, che hanno bisogno di molti laureati e hanno strutture scolastiche insufficienti, apriranno il loro mercato universitario. Ma quando Sebastian Thrun ha provato a bruciare le tappe offrendo un intero percorso accademico gratuito, Stanford l'ha bloccato: per questo il fondatore di X Lab se n'è andato. Ora a guidare il consorzio Coursera ci sono Andrew Ng, un altro professore di computer science, e la professoressa Daphne Koller, anche loro eccitati dall'aver scoperto che, come hanno confessato a Thomas Friedman del New York Times, avrebbero dovuto insegnare per 250 anni in una classe di Stanford per raggiungere i 100 mila studenti del loro primo corso. Per ora i corsi sono soprattutto quelli legati alle tecnologie digitali, ma Coursera, che fin qui ne ha messi in piedi una trentina, si sta allargando alle altre materie scientifiche. «E presto — promette Ng — la nostra offerta si allargherà a poesia, sociologia e medicina». Galoppa anche Udacity che ha già introdotto materie storiche e letterarie. I dubbi, oltre a quelli sulla sostanza del business, comunque, non mancano: cosa faranno le università di secondo e terzo livello se i loro studenti vorranno seguire via video le lezioni delle star di Harvard e Berkeley? E, visto che l'insegnamento digitale si diffonderà anche nei licei e nelle scuole medie, come ci si regolerà se questa nuova offerta verrà sfruttata dagli integralisti religiosi per ritirare i figli dalle scuole e ricorrere all'«home schooling»? Domande legittime, ma l'esperienza di questi anni ha dimostrato che l'avanzata tumultuosa delle tecnologie e la convenienza economica fanno premio su tutto. «Se un Nobel può insegnare a un milione di studenti a un costo molto basso, succederà», dice Terry Moe, studioso della Hoover Institution, centro di ricerche politiche e sociali di Stanford: la tecnologia, che costa poco, sostituirà il lavoro dei docenti, che è costoso, rendendo la scuola più efficiente, com'è avvenuto già per tanti altri settori produttivi. Nessuno sa quale sarà il punto di approdo finale, ma le grandi università sperano di restare al centro di un sistema a più livelli nel quale i ricchi continueranno a frequentare i costosi campus «fisici», mentre chi ha minori disponibilità sceglierà quelli virtuali. Quanto ai docenti delle università «periferiche», continueranno a tenere i corsi solo nelle materie che richiedono una interazione continua con gli studenti. Per il resto si dedicheranno alle spiegazioni e alla valutazione del rendimento accademico degli studenti. Ma non è affatto detto che l'aristocrazia accademica di oggi mantenga la sua leadership anche in futuro: la carica delle start up dell'insegnamento universitario, alimentata anche da incubatori come Imagine K12, è impressionante. A minacciare Yale e Harvard non è solo il fiorire di iniziative come Udacity, Piazza o l'università digitale a pagamento Minerva Project sulla quale si stanno investendo in venture capital 25 milioni e che aprirà i battenti nel 2014. Oltre al modo di fare lezione, potrebbe cambiare anche il modo di insegnare, l'intera struttura temporale sulla quale è costruita l'università: sono in molti a sostenere che, col cambiamento continuo delle tecnologie e dei mestieri, non ha più senso concentrare tutti gli studi superiori in un quadriennio (o quinquennio) ad alta intensità. Meglio sparpagliare l'insegnamento negli anni, a mano a mano che le esperienze e le professioni si evolvono. Già oggi a seguire i corsi di Udacity sono più professionisti a metà carriera che hanno bisogno di aggiornamento professionale che studenti alle prime armi. La mina innescata sotto i grandi atenei sta in alcuni numeri forniti da Thrun al Wall Street Journal: tra i primi 400 classificati del suo concorso di computer science non c'è nessuno dei suoi 200 studenti di Stanford. Quello che ha fatto meglio è arrivato 411°. Criteri di valutazione affidabili? E che ne sarà dell'università tradizionale? «I problemi da risolvere sono ancora tanti — mette le mani avanti Thrun — ma è chiaro che le lauree spariranno e con esse l'idea di un periodo fisso di studio dopo il liceo che ti prepara per il resto della tua carriera. Le carriere, ormai, cambiano in continuazione: quel modello non funziona più». ______________________________________________ Il Sole24Ore 8 lug. ’12 CARO HIGGS, QUANTO SEI STANDARD! Trovato il bosone previsto dal Modello Standard, teoria intricata e complessa giudicata poco attraente da molti scienziati. Ma forse sono i nostri giudizi estetici a doversi adattare alle strutture della Natura, e non viceversa È un patchwork privo di eleganza, eppure funziona e spiega quasi tutto. Che cosa c'è di più entusiasmante di un simile azzardo teorico, confermato dai fatti bruti dell'Lhc? Carlo Rovelli L'annuncio, atteso, sofferto e molte volte rimandato, della rivelazione della particella di Higgs è infine stato dato mercoledì al Cern di Ginevra. I fisici nel mondo esultano; sulle prime pagine di tutti i giornali si parla della «particella di Dio». La visibile commozione di Peter Higgs, ottantenne, che aveva intuito quarant'anni fa della particella oggi chiamata con il suo nome, è una fotografia della vertigine della scienza. L'espressione «particella di Dio» però è una detestabile invenzione giornalistica. Fa orrore a tutti i fisici, ma penso che dovrebbe fare orrore anche alle persone con senso religioso. L'origine dell'espressione è un libro che il fisico Leon Lederman voleva intitolare The God-dam Particle, cioè più o meno «Maledetta particella», in riferimento alla sua elusività. L'editore, con fiuto commerciale ma pochissimo buon gusto, ha tolto il «dam» da «God-dam», lasciando «The God Particle», la particella di Dio, titolo senza senso, ma che cattura il pubblico. Si chiama «particella di Higgs» e non è né più né meno figlia di Dio di tutte le altre particelle che costituiscono il mondo. Per favore, smettiamo di chiamarla così. Perché allora la sua rivelazione è importante? Perché chiude un cerchio. Un'avventura durata mezzo secolo, dove una nutrita schiera di scienziati ha portato alla luce una struttura profonda che regge la natura di tutta la materia di cui è fatto il mondo. Circa quarant'anni fa, per cercare di mettere ordine fra le particelle osservate, sono state gettate le basi della teoria oggi conosciuta con il poco entusiasmante nome «Modello Standard». Hanno contribuito non pochi scienziati italiani: Nicola Cabibbo, Luciano Maiani, Gianni Jona-Lasinio, Carlo Rubbia, Guido Altarelli e Giorgio Parisi, solo per nominare i più eminenti; e oggi la portavoce di uno dei due esperimenti che hanno rivelato la particella, Fabiola Gianotti, è italiana. Ma, come la maggior parte delle grandi imprese della scienza, il Modello Standard e il decennale sforzo per verificarlo sono il risultato di una collaborazione fortemente internazionale: il successo viene quando i Paesi collaborano, e in questo la grande scienza è un modello da imitare. Per orientare il lettore, il Modello Standard si situa all'interno del quadro concettuale della fisica moderna, costruito nei primi decenni del secolo scorso e formato dalla meccanica quantistica e dalla relatività speciale. Il Modello Standard descrive tutta la materia e tutte le forze eccetto la gravità. Quindi include (ed estende) l'elettrodinamica di Maxwell, ma non include la forza di gravità, descritta in passato dalla gravitazione universale di Newton, e oggi dalla relatività generale di Einstein. Ma il Modello Standard è una teoria strana. Non ha la luminosa semplicità delle grandi teorie, come appunto la gravitazione universale di Newton, l'elettrodinamica di Maxwell, o la relatività generale di Einstein: teorie la cui sterminata ricchezza si può riassumere, per ciascuna, in una semplice e breve equazione. È invece una teoria intricata, costruita pezzo per pezzo, mettendo insieme misure raffinate, indizi, idee brillanti, guizzi di fantasia, calcoli tecnici pesanti e faticosi, e strani argomenti involuti. Il risultato è una struttura matematica articolata, che molti continuano a giudicare troppo complessa e artificiosa per essere credibile: un patchwork di pezzetti aggiustati. Un professore dell'Università di Bologna introduceva non molto tempo fa il corso sul Modello Standard dicendo agli studenti «quelli fra voi con genuino spirito da teorici troveranno questa teoria indigeribile». All'inizio, in effetti, nessuno aveva preso il Modello Standard del tutto sul serio. La varietà delle particelle osservate e delle loro reazioni veniva ridotta a un paio di forze che agiscono su una famigliola di una quindicina di particelle "elementari", il tutto organizzato da una raffinata e complicata struttura matematica. Ma sembrava un gioco a incastri troppo intricato per essere realistico: più un esercizio di stile che una scoperta della struttura del mondo. Invece, una dopo l'altra, con micidiale accuratezza, tutte le previsioni del Modello Standard si sono rivelate esatte. A ogni passo, i fisici dicevano «ma guarda un po'», poi scuotevano la testa aspettandosi che comunque non sarebbe andata bene la prossima volta. E invece inesorabilmente la sorpresa era sempre che non succedeva nulla di sorprendente rispetto alle previsioni del misconosciuto Modello. Le più spericolate acrobazie teoriche utilizzate per costruire quest'incastro sorprendente, si rivelavano colpire nel segno: particelle venivano scovate esattamente là dov'erano state previste, e le misure più accurate non facevano che confermare calcoli già fatti dai teorici. Restava un ultimo buco: la particella di Higgs. Ma era un buco maggiore, perché si trattava di un'ipotetica particella di un tipo diverso da tutte le altre osservate, e la sua giustificazione era molto indiretta. Grossomodo, l'argomento di Peter Higgs e colleghi era stato questo: gli esperimenti indicano che fra le particelle agiscono forze a corto raggio, cioè forze che agiscono solo da molto vicino. Ma non si conoscono appropriate teorie per forze a corto raggio. L'idea di Higgs è stata d'immaginare che le forze fossero in realtà a lungo raggio, ma esistesse una particella che agisse da schermo, e, per così dire, mangiasse l'azione a lungo raggio. Un simile macchinoso ingranaggio avrebbe dovuto funzionare anche per la massa delle particelle elementari: osserviamo che hanno massa, ma riusciamo a scrivere teorie per rendere conto delle forze che le guidano solo per particelle senza massa. L'idea è allora immaginare che le particelle siano sì senza massa (come i fotoni), ma la particella di Higgs interagisca con tutte le altre, per così dire frenandole, in modo che queste si comportino infine come se avessero una massa. È un argomento contorto, e non credo che tutti fossero pronti a mettere una mano sul fuoco sulla sua attendibilità. Fino a ieri. Ma quest'intricato ingranaggio è l'unica teoria coerente sulla natura della materia che l'umanità era stata capace di scovare. L'anno scorso avevo chiesto a molti colleghi fisici se si aspettassero che la particella di Higgs esistesse davvero. Parecchi avevano risposto di no. E invece eccola lì. Scintillante e, per quanto si riesce a vedere finora, tale e quale la prevede il Modello Standard. Insomma, il Modello Standard è un successo, ma lascia qualcosa di amaro nella bocca. Sembra un successo controvoglia. Molti fisici dicono chiaramente che avrebbero preferito che il Modello Standard non funzionasse. Così sarebbe stato più chiaro dove andare a cercare per trovare una teoria più pulita. Ricordo all'inizio degli anni Ottanta Carlo Rubbia annunciare le prime spettacolari conferme del Modello Standard, che poi lo avrebbero portato al Nobel, e subito aggiungere che però già «intravedeva» discrepanze con i dati. Non era vero, non c'erano. Da trent'anni, ogni conferma del Modello Standard è accompagnato da contorsioni per dire che però già vediamo «prime indicazioni» di nuove teorie. «Prime indicazioni» che puntualmente evaporano. Questa volta non fa eccezione, e, mentre il Modello Standard trionfa, ancora una volta già in molti si affannano per aggiungere che però questo non vuol dire che lo dobbiamo prendere sul serio. Che significa questo riluttante successo? Forse, significa che i nostri giudizi estetici sulle teorie fisiche sono da rivedere. Forse solo oggi, davanti al successo mozzafiato di questa mistrattata teoria, si può cominciare a valutarne serenamente la portata. Forse è il nostro giudizio estetico che si deve adattare alla natura e non viceversa. A ben guardare, anche le equazioni di Maxwell, che oggi sembrano tanto semplici e compatte a un fisico teorico, apparivano invece intricate e strane nei primi lavori di Maxwell. Anch'esse all'inizio erano un patchwork di pezzi sconnessi messi insieme. Pian piano, abbiamo imparato ad apprezzarne la geometrica semplicità. La natura è più intelligente di noi. Siamo noi che dobbiamo imparare come pensarla, non cercare di forzarla nelle nostre idee a priori di semplicità. Il Modello Standard non è certo la parola fine della fisica teorica; non capiamo la natura della materia oscura, manca ancora la teoria completa per la gravità. Ma mercoledì abbiamo imparato che il Modello Standard è un passo avanti maggiore verso la comprensione della natura, e dobbiamo prenderlo sul serio. Mi vengono in mente alcune letture estremiste prodotte dalla sociologia della scienza, secondo le quali la verità è solo interna a una comunità, e mi viene da sorridere. «Non c'è nulla di più triste di una bella idea smentita dai fatti bruti», scriveva Thomas Henry Huxley. Oggi, dopo l'annuncio del Cern, si potrebbe aggiungere «non c'è nulla di più entusiasmante di un azzardo teorico, confermato dai fatti bruti». La forza di un pensiero che riesce a prevedere intere classi di fenomeni naturali decine di anni prima di avere la tecnologia per osservarli è a mio parere una delle prove più belle dell'efficacia della ragione, ma soprattutto della sua difficile, mediata, ma non impossibile, relazione con il mondo reale. La scienza non è l'operazione di adattare il reale alle proprie categorie, come vuole la cattiva filosofia della scienza: è lo sforzo continuo di scovare e poi abituarsi a categorie nuove che si adattino al reale. ______________________________________________ Il Giornale 5 lug. ’12 STEPHEN HAWKING «MERITA IL NOBEL E IO HO PERSO CENTO DOLLARI...» Peter Higgs dovrebbe ricevere il Premio Nobel. Parola dello scienziato Stephen Hawking che, scherzando, ha anche ammesso di aver perso 100 dollari scommettendo sul fatto che il bosone di Higgs non sarebbe stato scoperto. «Questo è un risultato importante che dovrebbe meritare a Peter Higgs il Premio Nobel - il suo riconoscimento - ma è un peccato nel senso che i grandi progressi nella fisica arrivano da esperimenti che hanno dato risultati che non ci aspettavamo. Per questo motivo io avevo scommesso con Gordon Ka ne dell'università del Michigan University che la particella di Higgs non sarebbe stata trovata. A quanto pare ho appena perso no dollari...». ______________________________________________ La Nuova Sardegna 3 lug. ’12 REGIONE, TROPPE ASSUNZIONI NEGLI ENTI CAGLIARI La Corte dei conti approva il bilancio della Regione per il 2011 ma mette sotto accusa gli uffici per scarso rendimento. Non sono migliorati i rapporti tra il sistema politico e la burocrazia, restano i punti dolenti della spesa sanitaria e quelli del personale. Ad esempio è stato ampiamente superato nel 2011 il limite di spesa per i contratti di lavoro a tempo determinato e gli incarichi vari per la Regione e gli enti. Il tetto era di un miliardo e 558 milioni di euro e la spesa è stata di tre volte superiore, pari a 5 miliardi 280 milioni di euro, rispetto a quella di riferimento del 2009. In aumento il costo del personale. La Regione ha 4.109 dipendenti (dei quali 1.335 nel corpo forestale), mentre 3.349 sono quelli che lavorano nei 17 fra enti e agenzie regionali. Troppo alto anche il numero dei Contratti di collaborazione continuativa, (84 nel 2009, 160 nel 2010, 167 nel 2011). La requisitoria del Procuratore regionale, Donata Cabras, denuncia che l’Ente foreste sta toccando livelli di spesa inimmaginabili: ha 6.617 lavoratori a tempo pieno (+1.980 rispetto al 2010), con costi a carico del bilancio regionale per 135 milioni 420mila euro, in aumento dell’8% rispetto all’anno precedente. Nella premessa alla requisitoria, il Procuratore Cabras tocca la questione della vertenza entrate. Un tema che sarebbe stato ripreso dal presidente della Corte dei conti in Sardegna, Mario Scano: «Il credito maturato dalla Regione nei confronti dello Stato ammonta a quasi un miliardo e mezzo di euro per le compartecipazioni al gettito tributario non ancora versate in tesoreria». E’ evidente che il mancato pagamento condiziona il bilancio della Regione «che si caratterizza per il contenuto limitato agli aspetti meramente finanziari». Tra i punti deboli della politica economico e finanziaria della Regione, la spesa dei fondi europei e su questo Maria Paola Marcia, consigliere relatore, ha affermato che «si configura particolarmente significativa la riduzione complessiva delle entrate di fonte comunitaria che registrano accertamenti bassissimi. Sulle risultanze finanziarie, la manovra di bilancio si attesta in previsione definitive pari a 9.772.166 euro di entrate. Rispettato il patto di stabilità, gli impegni e i pagamenti consentiti per il 2011 sono stati addirittura inferiorei a quelli dell’esercizio precedente». Dove intervenire? La magistratura contabile non ha dubbi: si deve incominciare dal funzionamento degli enti partecipati, dalla limitazione delle consulenze e, fatto scontato, dalla spesa sanitaria come ha suggerito la presidente della sezione regionale controllo della Corte dei Conti, Anna Maria Carbone Prosperetti, Anche la Corte dei conti non ha potuto non rilevare che è la Regione che ormai deve far fronte ai costi del servizio sanitario e di quello del trasporto, sgravando lo Stato dalle relative passate contribuzioni. «L’accordo con lo Stato sulla rinegoziazione dei livelli di spesa», ha affermato Anna Maria Carbone Prosperetti , «in coerenza col maggiore gettito di entrata spettante, non è dunque ulteriormente procrastinabile». La spesa sanitaria pro capite, ha rilevato la Corte dei conti, resta più alta rispetto alla media nazionale, (ogni sardo spende 1.885 euro): «Contrariamente alle esigenze di contenimento, la spesa ha continuato a crescere in media del 4,3% l’anno», ha detto Donata Cabras nella requisitoria. Un capitolo a parte è quello delle società partecipate della Regione che, come si vede dalla tabella accanto, vanno dalle miniere alle agenzie. La Corte ha denunciato il caso della società in house Sardegna.It il cui statuto non contempla strumenti e modalità di controllo mentre «le prerogative del socio unico Regione sono state svolte in modo e forma assolutamente discontinue». Sardegna.It racchiude i vari sistemi informatici della Regione, diversificati in base ai diversi assessorati. A Sardegna.It lavorano 122 persone a tempo indeterminato, 16 collaboratori, tre dirigenti con un costo di 6,288 milioni di euro con un aumento rispetto al 2010 molto consistente (era 5,425 milioni di euro). «Risulta che a fronte di circa cento milioni di contratti per servizi», ha affermato Maria Paolo Marcia, «stipulati dal 2006 con la Regione siano seguiti appalti della società all’esterno con formula selettiva attraverso pubblicazioni sul sito istituzionale della società per soli diciassette milioni». Le partecipate regionali sono una sorta di zona franca: «Non risulta che da queste società siano state osservati gli stessi limiti assunzionali e di spesa fissati per la Regione». I NUMERI La Regione detiene quote di partecipazioni in 32 società cui si aggiungono alcune fondazioni. Per questo sistema la Regione ha speso, nello scorso anno, 115,254 milioni di euro per contratti di servizio e poi ha sopportato altri costi per 135,263 milioni di euro. Su quest’ultima spesa la Corte dei conti ha ravvisato l’anomalia di finanziamenti privi di controprestazione contrattuale. Diciannove sono le società interamente partecipate dalla Regione, la quale ha disposto finanziamenti per 210 milioni. I dipendenti delle Partecipazioni regionali sono, sia pure con contratti differenti, ben 4.138 persone. Un sistema legato ai modelli delle Partecipazioni statali. Il presidente della Corte dei conti Mario Scano ha rilevato che «considerando tutte le società, anche quelle parzialmente partecipate, si possono contare 4.316 dipendenti cui si devono aggiungere i dirigenti, le unità a tempo determinato, i consulenti con un costo per il personale quantificato per difetto in circa 147,204 milioni di euro». ______________________________________________ Sardegna 3 lug. ’12 ENTI E SOCIETÀ LO STRANO CASO “IN HOUSE ” DI SARDEGNA IT Fra le varie società in house della Regione la Corte di Conti punta i fari su Sardegna IT, sulla cui attività i giudici hanno svolto dei particolari approfondimenti. Sardegna It nel 2011 ha potuto contare su 122 dipendenti a tempo indeterminato, 16 collaboratori, 3 dirigenti per un costo complessivo di 6,288 milioni di euro, con un aumento di quasi un milione rispetto al 2010, quando la spesa per gli stipendi dei dipendentisi era fermata a 5,425milioni, con solo tre dipendenti in meno. La Corte evidenzia la mancanza di chiarezza sui compiti e le funzioni reali della società in house, che spesso appaiono confusi e svolti direttamente dai vari assessorati competenti. Sardegna It è nata nel 2006 con scopo è gestire i processi di informatizzazione dell’apparato regionale. Impresa nora tuttaltro che conclusa, nonostante i forti versamenti di contanti da parte di mamma Regione: «Risulta che a fronte di circa 100 milioni di contratti per servizi stipulati dal 2006 con la Regione, siano seguiti e appaltati dalla società all’esterno con formula selettiva per soli 17 milioni», è scritto nella relazione. ______________________________________________ Corriere della Sera 4 lug. ’12 L'E-ARCHIVIO CHE SALVA IL SAPERE Clockss, una cassaforte per custodire la biblioteca universale di CRISTINA TAGLIETTI R ivoluzione digitale e conservazione. Preservare i contenuti, garantire la loro sopravvivenza in un futuro anche lontano, è uno dei grossi temi che il libro nel terzo millennio deve affrontare. Non solo nel suo versante cartaceo, operazione che comporta, per le biblioteche, la digitalizzazione del patrimonio librario esistente, ma anche per quanto riguarda i contenuti che nascono già digitali e che, soprattutto nell'ambito accademico e scientifico, cominciano ad essere maggioritari. Garantire la durata nel tempo di un patrimonio di conoscenza che non viaggia più attraverso la carta ma attraverso documenti e meta dati basati sul Web, archiviare pubblicazioni per le quali l'edizione elettronica è l'unica esistente comincia a diventare una priorità, soprattutto per le biblioteche. Conservare, in questo caso, significa rendere accessibile anche per i posteri ciò che oggi viene pubblicato, fare in modo che i formati di oggi siano leggibili anche domani permettendo una migrazione automatica: una priorità a cui molti grandi editori accademici euniversità hanno cercato di dare una risposta collettiva. Clockss («Controlled Lots of Copies Keep Stuff Safe») è un prototipo di «dark archive» (cioè di archivio nascosto) a livello mondiale nato nel 2006 e sviluppato dalla Stanford University a partire da un progetto che risale al 1998. Oggi Clockss è un'associazione senza fini di lucro, gestita da un comitato direttivo e da un comitato consultivo. I membri fondatori invitano le biblioteche e gli editori a contribuire alla costruzione dell'archivio, a beneficio dell'intera comunità scientifica. Se il vantaggio per le biblioteche è quello di conservare il sapere per le future generazioni di ricercatori, per gli editori è invece un modo per conservare i loro titoli in un archivio sicuro senza dover affrontare i costi, spesso proibitivi, di costruire un loro proprio sistema di conservazione (il contributo annuale per le biblioteche parte da 450 dollari, per gli editori da 200 dollari). Gli archivi della community dialogano tra loro e a livello di rete il sistema effettua un continuo controllo in automatico dello stato d'integrità delle copie dei documenti nelle memorie delle istituzioni socie e se un documento risulta mancante o danneggiato viene ripristinato richiedendolo all'editore oppure alle altre biblioteche che ne possiedono una copia. Costruito a basso costo su tecnologia open source, l'archivio Clockss è costituito da dodici nodi geografici distribuiti nelle principali biblioteche di ricerca di tutto il mondo che memorizzano e gestiscono i contenuti digitali. Un sistema basato sulla ridondanza, per evitare l'effetto Biblioteca di Alessandria, per cui se certi contenuti sono conservati soltanto in un luogo la loro perdita diventa un fatto irreparabile. I contenuti archiviati da Clockss diventano accessibili unicamente in situazioni di emergenza che nel gergo specialistico vengono chiamate «trigger events», eventi scatenanti e che possono essere l'uscita dal mercato di un editore, l'indisponibilità di un titolo o di numeri arretrati di una rivista, l'errore umano, il guasto tecnico ma anche eventi catastrofici, siano essi di natura tecnologica o naturale, che possono produrre danni irreversibili. Durante lo scorso anno, si sono verificate tre situazioni di questo tipo e Clockss è intervenuto ripristinando, senza spese, l'accesso ai titoli sia per i membri di Clockss, sia per i possessori di abbonamenti correnti o antecedenti e per coloro che ne avessero avuto accesso da Internet. A Clokss hanno aderito anche diverse istituzioni italiane, dall'università Statale al Politecnico di Milano, dalla Luiss di Roma all'Istituto di vulcanologia. Dei dodici nodi mondiali (che a breve dovrebbero diventare quindici), cinque sono negli Stati Uniti. In Europa sono soltanto tre e tra di essi c'è anche l'università Cattolica di Milano (gli altri due sono l'università di Edimburgo e la Humboldt University di Berlino). Domani al convegno di Ifbookthen organizzato nella sede dell'ateneo milanese, parlerà di questo progetto e, in generale, del problema del «cultural heritage», la direttrice della biblioteca della Cattolica Ellis Sada. «Da molti anni abbiamo rapporti con l'università di Stanford — spiega —. La collaborazione con loro è nata alla fine degli anni Novanta, quando facevamo un corso di alta formazione per direttore di biblioteche italiane. Il "ponte" è nato in quella occasione e si inserisce pienamente nel solco della nostra Biblioteca, che ha circa un milione e mezzo di titoli. A Stanford l'editoria digitale ha mosso i suoi passi molto prima che da noi e quindi il tema della conservazione dei contenuti digitali è stato affrontato da molto tempo. Per noi è una sfida vinta nel processo di internazionalizzazione». A discutere con Ellis Sada ci sarà anche Peter Brantley, direttore del Bookserver Project di Internet Archive, e si parlerà anche del tema della collaborazione tra editori e biblioteche e di come il modello Clokss possa essere esteso anche fuori dai confini dell'editoria accademica e specialistica. La sfida per la conservazione digitale d'altronde è appena cominciata. ______________________________________________ Avvenire 5 lug. ’12 CON COMPUTER E WEB PIÙ FACILE IMPARARE ROMA. L'uso del pc e l'accesso al Web hanno effetti positivi sull'apprendimento. E se i dispositivi digitali sono sempre i più diffusi il libro però non accenna a scomparire, mentre l'attrazione della scuola si conferma debole sui ragazzi anche nel caso in cui si disponga di tecnologie. Sono questi i principali risultati della ricerca del Censis «Nativi digitali e apprendimento», presentata ieri e realizzata su 2.300 studenti calabresi tra 11 e 19 anni e 1.800 genitori. Benché focalizzata solo sui ragazzi di questa regione, è la prima in Italia che permetta di confrontarsi su un tema come l'impatto delle tecnologie sull’apprendimento delle generazioni immerse fin dalla nascita nella nuova comunicazione digitale. E del resto, «se non consideriamo i cambiamenti in atto e le nuove esigenze dei ragazzi nel ripensare la scuola — ha sottolineato il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo — il rischio è che diventi noiosa e che i ragazzi non parlino più. Il pericolo è perdere un'intera generazione». Così, secondo l'indagine, il 72% degli studenti calabresi ritiene che l'uso del pc e l'accesso al Web abbiano effetti positivi sull'apprendimento (percentuale che sale al 76% fra gli studenti più grandi) e di contro un 39,7% e un 33,5% considerano negativi, rispettivamente, gli effetti su volontà di studiare e capacità di concentrazione. Sempre dalla ricerca viene fuori che per i ragazzi è difficile scindere l'aspetto ludico dal momento dell'apprendimento: il 73% degli studenti intervistati usa infatti Facebook, il 76%YouTube, il 44% naviga quasi tutti i giorni alla ricerca di informazioni. Buone notizie arrivano per i libri: per la maggioranza degli studenti calabresi (il 54%) consultare un testo su Internet non è più facile che leggere un volume cartaceo. Dalla ricerca emerge però come sia debole l'appeal della scuola anche quando dispone di tecnologie. L'84% degli studenti afferma che durante la settimana il pc non viene mai usato per studiare materie umanistiche, percentuale che diminuisce poco nel caso delle materie scientifiche (79%) e quelle tecniche (66%). ((Dalle opinioni raccolte tra i docenti — spiega infine il Censis — emerge una certa resistenza culturale, per la convinzione che l'approccio tradizionale sia più efficace e giusto». Una ricerca del Censis su 2.300 studenti calabresi rivela che però le nuove tecnologie non fanno amare la scuola ========================================================= ______________________________________________ L’Unità 3 lug. ’12 LA NECESSITÀ DELLA RICERCA PUBBLICA NELLA SANITÀ Luigi Cancrini psichiatra e psicoterapeuta La ricerca pubblica deve procedere anche in campi che confliggono con l'interesse del settore privato. È il caso per esempio della ricerca per combattere i batteri delle carie dentarie che se avesse successo, eliminando tali batteri ridurrebbe il fatturato di tante ditte e dentisti che si occupano di cure dentali o della produzione di impianti o prodotti per i denti. L'esempio dei batteri responsabili della carie dentaria è interessante. Altrettanto interessante è in genere, tuttavia, la ricerca sull'efficacia, vera o presunta, dei farmaci che l'industria farmaceutica getta a piene mani sul mercato inghiottendo una fetta cospicua del bilancio della sanità. Per il bene dei malati? A volte sì. Ma ricorda qualcuno il boom, negli anni 70 e 80, dei farmaci "epatoprotettivi" e quello altrettanto costoso dei "ricostituenti"? Inutili o dannosi li definì a lungo Silvio Garattini dell'istituto Mario Negri di Milano fino a quando, esaurito il ciclo della loro presenza sui mercati, scomparvero dalle farmacie: senza lasciare traccia né rimpianti. Come accadrà probabilmente per gli antidepressivi, oggi tanto in voga, e per tante sostanze utili solo a fare arricchire chi le produce all'interno di una situazione in cui a "provare" l'efficacia dei nuovi farmaci sono soprattutto le università e gli ospedali cui l'industria offre, in cambio dei lavori (favori), sconti, finanziamenti, riviste, congressi e "potere": accademico e/o "scientifico". Siamo più di 60 milioni in Italia e il pubblico paga interamente o quasi interamente le medicine di tutti. Siamo naturalmente, per questo motivo, un mercato fondamentale per l'industria multinazionale del farmaco e dovremmo renderci conto del fatto che la gestione pubblica della ricerca in questo settore sarebbe un ottimo inizio per una spending review che non riguardi solo l'anno finanziario in corso. ______________________________________________ Corriere della Sera 8 lug. ’12 TRASPARENZA NELLA RICERCA BIOMEDICA di PASQUALE SPINELLI* Il tema della ricerca biomedica indipendente e delle possibili frodi torna di continuo all'attenzione della comunità scientifica. L'affidabilità della ricerca dipende dalla correttezza di chi la produce e richiede l'assoluta indipendenza da qualsiasi influenza estranea ai suoi scopi originari. In campo biomedico i risultati ricadono sulla salute dell'uomo e devono essere trattati con onestà e trasparenza. Nel lungo percorso di uno studio vi sono due momenti essenziali: la conduzione della ricerca e la pubblicazione dei risultati; la prima è sotto il controllo dei comitati etici, la seconda sotto quello dei comitati editoriali delle riviste scientifiche. I partecipanti allo studio dichiarano assenza di conflitti di interesse e sono tenuti a un comportamento leale ed etico nella produzione, nella raccolta e nell'analisi dei dati. Piccoli "aggiustamenti" nello svolgimento delle varie fasi possono, sommandosi, pervertire i risultati o condurli su un tracciato "predefinito". Dopo l'approvazione dei comitati etici — 245 in Italia — uno studio continua fidando sull'onestà dei singoli ricercatori. Quando l'articolo è pronto viene sottoposto al comitato editoriale di una rivista scientifica. Riemerge qui il problema del conflitto di interessi da parte dei revisori dell'articolo. Quali garanzie ha il cittadino sulla eticità e sulla validità di una ricerca? La principale è che la stessa sia stata pubblicata su riviste di indiscusso valore e che le sue conclusioni siano state confermate anche da altri ricercatori su riviste di alta affidabilità. Gli editori delle maggiori riviste scientifiche internazionali, insieme a ricercatori e ad accademici interessati ai problemi etici della ricerca si sono riuniti a formare il Cope (Committee On Publication Ethics), che è una specie di authority col compito di sorvegliare sulla correttezza della ricerca e della pubblicazione dei risultati. Nonostante ciò, pesci piccoli sfuggono dalle maglie e pesci grossi sono in grado di strappare la rete. *Past president Federazione delle Società Medico-Scientifiche Italiane ______________________________________________ TST 4 lug. ’12 PRIMA CAPIRE, POI GUARIRE Informarsi su specialisti e cure può diventare un dramma: ecco una strategia ALBERTO CosTA Quando si parla di salute, troppa informazione può significare nessuna 4•11 informazione. Lo sa chi oggi in Italia si mette alla ricerca di dati aggiornati e di riferimenti certi, per un problema specifico, oppure per interesse personale e coscienza del fatto che star bene oggi è anche una responsabilità individuale. Il risultato, a volte, è frustrante: informazioni troppo semplici o troppo complesse, messaggi sensazionalistici, contradditori, frammentati e quasi sempre sponsorizzati, che invece di indicarci un percorso chiaro e ordinato, ci confondono e finiscono per angosciarci. Ora vorremo provare a cambiare prospettiva e metterci dalla parte di pazienti e cittadini, così da trovare un modo di dare loro più potere attraverso un'informazione obiettiva e appropriata: un modello di «empowerement», per dirla all'inglese. Che significa fornire ad ognuno il sapere che serve per capire e decidere in autonomia che fare del proprio bene più prezioso, la salute, appunto. Grazie all'interesse di «Tuttoscienze&salute» per una visione del genere - innovativa e democratica nel senso più ampio del termine - inizia dalla prossima settimana una serie di interviste ad «alto tasso informativo» sulla medicina e sulla salute in collaborazione con «Rbs» (Ricerca Biomedica&Salute), il primo gruppo di lavoro italiano a composizione mista (medici, ricercatori, esperti di media e comunicazione) nato per valorizzare la divulgazione scientifica obbiettiva e verificata nel campo della medicina e della salute. La scelta degli argomenti sarà basata su una coerente strategia di creazione di una vera «cultura della salute» - nel senso di una maggiore consapevolezza dei problemi e delle prospettive - e la selezione delle figure da intervistare seguirà criteri oggettivi, come la produzione scientifica e la capacità di ricerca. Capire lo sforzo degli scienziati aiuta a capire l'informazione sulla salute. Spesso chi non è un camice bianco non realizza quanto lavoro di ricerca e di investimenti si accumuli dentro la loro quotidiana pillola per la pressione o l'antibiotico per il loro bambino. D'altra parte, dobbiamo riconoscere che, pur avendo un passato di tutto rispetto in questo settore, l'Italia sembra aver rinunciato da tempo a svolgere un ruolo di primo piano nella ricerca biomedica: da qui la sofferenza di chi si ostina a lavorare ancora qui (la prossima settimana ci sarà la testimonianza di Alberto Mantovani, uno dei ricercatori italiani più citati al mondo), la sofferenza di chi si trova costretto ad emigrare, la fatica di chi difende ciò che resta del patrimonio nazionale, accanto al ruolo di secondo piano giocato dalle nostre aziende di ricerca biomedica, in un quadro complessivo di incertezza. Sono convinto che ciascuno di noi, se bene informato, non faccia fatica a riconoscere la necessità dello sviluppo continuo della ricerca, di un efficiente sistema di cure e di prevenzione, di una diffusa «cultura della salute» che permetta ad ogni cittadino di partecipare attivamente al proprio mantenersi sano. Proviamo a fare su «La Stampa» questa «buona informazione». Il mio augurio è che i lettori ne colgano lo sforzo di obbiettività e di indipendenza di pensiero e che insieme vi trovino informazioni utili a se stessi e alle loro famiglie. Buona lettura e grazie in anticipo per ogni critica o commento: saranno i benvenuti. ____________________________________________________ Adnkronos 4 Lug. ‘12 PATRONI GRIFFI, 600 MLN RISPARMI CON RIDUZIONE RICETTE CARTACEE GRAZIE A FASCICOLO ELETTRONICO Roma, 4 lug. (Adnkronos Salute) - "Il risparmio per il Ssn con il fascicolo sanitario elettronico e' evidente e netto. Secondo le stime, la riduzione delle ricette cartacee vale 600 milioni di euro all'anno. Ma altri miliardi arriveranno quando avremo in futuro il sistema del fascicolo elettronico a regime". Ad affermarlo e' Filippo Patroni Griffi, ministro della Pubblica amministrazione e per la semplificazione, oggi a Roma alla presentazione della ricerca sul fascicolo sanitario elettronico, realizzata dal Cnr e promossa dal ministero della Pubblica amministrazione. ______________________________________________ BitMat.it 5 lug. ’12 SANITA', LE RICETTE DIGITALI DI PATRONI GRIFFI Il ministro della Funzione pubblica stima quanto denaro lo Stato potrebbe risparmiare con il Fascicolo sanitario elettronico. In fase di sperimentazione in Piemonte, Campania e Calabria Far risparmiare denaro allo Stato, e quindi anche i cittadini, è I obiettivo del Fascicolo sanitario elettronico , un documento che semplificherebbe, e di molto, sia la vita dei pazienti sia quella degli stessi medici. Ma anche le casse dello Stato ne gioverebbero con dei risparmi stimabili tra i 3 e i 5 miliardi di euro all'anno. Almeno così ipotizza il ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi che, assieme al collega dell’Istruzione e della ricerca, Francesco Profumo, hanno presentato I utilizzo del nuovo fascicolo digitale per la sanità italiana. Solo per le ricette mediche, il fascicolo digitale potrebbe far risparmiare ben 600 milioni di euro I anno, ma visto I ampio ventaglio di documentazione sanitaria per effettuare esami, ricoveri negli enti ospedalieri, acquisti dei medicinali, e altre documentazioni, la cifra si alzerebbe a 3-5 miliardi di euro annui. Il Fascicolo sanitario elettronico è nato da un progetto realizzato in collaborazione con il Cnr e per il momento è attivo in Piemonte, Campania e Calabria. La sanità digitale sta cercando di fare i passi necessari per uscire dalla burocratizzazione di un settore che gli italiani, come hanno confermato recenti ricerche, considerano molto importante e delicato. Se le basi normative ci sono, manca solo lo sviluppo tecnologico che pian piano sta prendendo piede in correlazione all’Agenda digitale italiana. La sanità elettronica nostrana, con i pagamenti online, la possibilità di prenotare gli esami medici con un click sono sulla buona strada ma manca poco per arrivare all’obiettivo. Ottimizzare la spesa pubblica significa anche rendere operativa al cento per cento la modalità digitale su tutto il territorio nazionale. L Italia deve quindi sforzarsi per tagliare questo traguardo che è poi il fine dell Agenda digitale italiana che entro il 2020, con il piano Horizon voluto dall Ue, dovrà per forza di cose raggiungere. Per questo motivo ad oggi il Fascicolo sanitario elettronico è sviluppato a macchia di leopardo, come hanno spiegato dal Cnr. ______________________________________________ Forum PA 5 lug. ’12 PRONTO ALL’USO IL FASCICOLO SANITARIO ELETTRONICO, FONTE DI GRANDE RISPARMIO E DI MIGLIORE INTERAZION Con l'entrata in funzione a pieno regime del web-fascicolo si eviterebbero spese in una misura compresa fra i 3 e i 5 miliardi di euro all'anno: questo quanto dichiarato dal ministro Filippo Patroni Griffi, che ha presentato - insieme al collega Francesco Profumo - i termini dell'iniziativa a Roma, martedì 4 luglio. Già avviata, in collaborazione con il Cnr, una sperimentazione "massiccia" del progetto in tre regioni: Piemonte, Campania e Calabria. Nel corso della presentazione è stato anche annunciato che il documento elettronico unificato, vero trait d'union fra carta di identità e tessera sanitaria, debutterà nel 2013. La "messa a regime" del fascicolo sanitario elettronico - iniziativa presentata a Roma martedì 4 luglio - può procurare notevoli risparmi in termini strettamente economici, senza tenere conto di quelli che, indubbiamente, potrebbe comportare anche rispetto alla modernizzazione dei servizi che la PA deve essere in grado di rendere al cittadino. E il "tesoretto" risparmiato sarebbe da considerare perfettamente in linea con le esigenze sempre più pressanti in materia di spending review, enfatizzate come necessarie dal Governo nell'ultimo periodo. Infatti, secondo le prime stime, il risparmio conseguente all'entrata in vigore a pieno ritmo del fascicolo sanitario elettronico oscillerebbe addirittura fra i 3 e i 5 miliardi all'anno: questo è quanto calcolato dai vertici di Palazzo Vidoni, e le cifre sono state confermate dal ministro della Funzione Pubblica Filippo Patroni Griffi e da quello all'Istruzione Francesco Profumo che nell'incontro dedicato hanno presentato il progetto in tutte le sue sfaccettature. Come ha spiegato Patroni Griffi, "con il fascicolo elettronico si produce un risparmio evidente e netto, che è quello relativo alle ricette", una voce che da sola sarebbe quantificabile in "600 milioni all'anno". Altri risparmi saranno stimabili più precisamente quando la maggiore operatività del sistema sarà raggiunta, e se ad essere considerati saranno i costi vivi aggiunti alla riduzione degli sprechi, ha dichiarato ancora il ministro, la percentuale di risparmio si può a ragione definire "discreta". Grazie ad una collaborazione avviata con il Cnr, è stato deciso un utilizzo sperimentale del progetto relativo al web-fascicolo, definito "massiccio" visto che coinvolge tre regioni di particolare importanza strategica: Campania, Piemonte e Calabria. Patroni Griffi ha anche ricordato come sui temi della sanità elettronica, dei pagamenti on line e dell'identità elettronica "siano stati indubbiamente fatti molti passi avanti, ma è ormai troppo tempo che deve essere completato l'ultimo miglio": in pratica, quindi, il sistema garantisce sulla possibilità del suo migliore utilizzo, ed è solo proprio questo che deve prendere decisamente l'avvio. Il ministro Profumo ha quindi voluto approfondire il concetto già espresso dal collega, partendo dall'assunto che anche questa iniziativa è volta ad ottimizzare la nostra PA, sottolineando come "sia finalmente arrivato il momento di operare delle scelte", e che per far questo "ci vuole uno sforzo da parte di tutto il Paese", visto che troppo spesso "vengono spese troppe risorse in sperimentazioni che poi non si trasformano mai in un modello nazionale valido". Le linee guida sul fascicolo elettronico sono già state messe a punto e sono di fatto "pronte all'uso", ma ora sono le Regioni a doverle mettere in pratica. Nel corso dell'incontro il Direttore Generale dell'Ufficio Studi e Progetti per l'innovazione Digitale della Presidenza del Consiglio, Paolo Donzelli, ha inoltre annunciato che il documento elettronico unificato, vero trait d'union fra carta di identità e tessera sanitaria, "debutterà nel 2013", e questo - anche vista la determinazione nel dichiararlo, fissando addirittura una data precisa sulla sua operatività - rappresenta una novità assoluta, e una (ulteriore) notizia di tutto rilievo. Obiettivo dichiarato da parte del Governo è quello di realizzare la Carta Nazionale dei Servizi (Cns) che valga come tessera di identità ma anche come piattaforma di accesso a tutti i servizi della pubblica amministrazione. E a questo proposito è opportuno sottolineare che a tutt'oggi, in Italia, sono già state consegnate circa 24 milioni di card: una massa documentale assolutamente critica, che potrebbe rivelarsi utile come "cartina di tornasole" per il successo del progetto nel suo complesso. ______________________________________________ L’Unione Sarda 6 lug. ’12 OSPEDALI SARDI IN BILICO I piccoli ospedali sardi restano osservati speciali, con un'alta percentuale di rischio-taglio per 11 centri dalla Maddalena a Cagliari. Ma la spending review si abbatte comunque come un tornado sull'Isola e sulle Regioni a Statuto speciale sul fronte dei trasferimenti a Regioni, Comuni e Province: possibili tagli da 500 milioni a 2 miliardi nel prossimo triennio. L'ALLARME A lanciare l'allarme sono due parlamentari sardi. Mauro Pili (Pdl) sostiene che «nella bozza del Consiglio dei ministri è previsto un taglio per l'Isola di quasi due miliardi nei prossimi tre anni». Per Giulio Calvisi (Pd) il taglio è meno corposo: «Secondo la bozza di decreto che ho visto io, l'Isola concorrerà nei tre anni per un importo tra 400 e 450 milioni di euro per la Regione, mentre per il taglio a tutti i Comuni italiani, la Sardegna concorrerà per un importo di circa 120-150 milioni di euro. Le province sarde, infine, registreranno un taglio di circa 20-25 milioni». Il deputato del Pd sottolinea che si tratta comunque di «cifre altissime che mi auguro non vengano modificate al rialzo dal Governo». In ogni caso, per Pili «il Governo ha deciso di congelare i trasferimenti alla Sardegna e di prevedere nel contempo un taglio di un miliardo sulle casse della Regione e di un altro miliardo tra Comuni e Province sarde». Il punto incriminato è l'articolo 16 comma 3 del decreto sulla Spending review: «È un agguato, un vero e proprio attentato costituzionale all'articolo 116 che istituisce le Regioni a statuto speciale». Sulla vicenda è intervenuto anche il leader di Sel Luciano Uras, che ricorda come lo Stato debba all'Isola 1,6 miliardi nel calderone della Vertenza entrate: «Serve un patto tra le forze politiche e sociali per contrastare le politiche di aggressione del Governo contro la Sardegna». OSPEDALI Intanto, non ci sarà la chiusura diretta dei piccoli ospedali, ma 235 complessivi e 11 in Sardegna, tra cui il Microcitemico di Cagliari, sono comunque sul chi vive. La questione degli ospedali con meno di 80 posti letti resta un nodo irrisolto: se è infatti caduta l'ipotesi di chiusura tout court , resta però il target di posti letto da raggiungere ogni mille abitanti: 3,7 contro gli attuali 4 per mille abitanti. Significa che sono comunque a rischio circa 18 mila posti letto in Italia, circa mille nell'Isola. La patata bollente passa ora alle Regioni, che dovranno garantire il rispetto del target indicato, cercando le soluzioni più adeguate. Possibile la riconversione verso il ricovero diurno, l'assistenza in regime ambulatoriale e il ricorso all'assistenza residenziale e domiciliare. I SINDACI Duro il sindaco di Alghero, Stefano Lubrano, sull'eventuale chiusura del Marino. «Dichiareremo guerra contro chiunque abbia intenzione di declassare la sanità del territorio». Il primo cittadino di Nuoro, Sandro Bianchi difende invece lo Zonchello: «Si stanno tagliando servizi dove i posti letto sono già pochi». Marco Fanni, sindaco di Muravera, parla del San Marcellino. «È assurdo: due anni fa è stata aperta la parte nuova dell'ospedale e che il 18 luglio aprirà Oncologia». Chiude, sul San Camillo di Sorgono, il consigliere regionale Francesca Barracciu (Pd): «L'irresponsabilità politica va stroncata sul nascere. Ospedali come il San Camillo, nonostante l'azione di subdolo smantellamento attuata dalla Regione, sono presidi indispensabili a garanzia del diritto alla salute dei territori più deboli». «DOBBIAMO RIMODULARE LA RETE DELL'ASSISTENZA» «La spending review potrà avere conseguenze nefaste anche per la sanità dell'Isola se non coglieremo l'occasione per fare ordine sul sistema e riorganizzare in primis la rete ospedaliera». A dirlo, a margine della conferenza delle Regioni, è l'assessore alla Sanità Simona De Francisci: «Tutto questo senza rinunciare alla qualità dell'assistenza né ai piccoli ospedali che comunque dovranno essere ripensati e rimodulati. Abbiamo lo strumento per poterlo fare: il disegno di legge della Giunta sulle disposizioni urgenti in materia sanitaria all'attenzione della Settima Commissione del Consiglio regionale che auspico possa essere discusso ed esitato entro l'estate». Ancora: «Ci opporremo con forza a tagli lineari e basati su criteri ragionieristici», prosegue De Francisci, «tra l'altro adottati attraverso un decreto legge non sindacabile e che non tiene conto delle differenze e delle peculiarità di ogni sistema sanitario». A livello nazionale i tagli ammonterebbero a un totale di 22 miliardi sul Fondo sanitario nazionale sul quale la Regione, sebbene sia autonoma sulla gestione delle risorse, incide per il 3 per cento. IL MICROCITEMICO NON CHIUDE...PER ORA SI SALVA DAL BISTURI DEL PROFESSORE 06.07.2012 CAGLIARI «Non è la prima volta che succede, quando si decide una riorganizzazione della sanità attraverso la logica dei tagli, viene tirato in ballo, mai a proposito, anche l'ospedale Microcitemico. Salvo poi fare una rapida marcia indietro». Non usa mezze parole Sandro Loche, responsabile del servizio di Endocrinologia pediatrica del Microcitemico di Cagliari, di fronte all'ipotesi, immediatamente rientrata, di chiusura dell'ospedale cagliaritano nell'ambito della spending review messa a punto dal governo per ridurre le spese sanitarie. «Lavoro al Microcitemico da trent'anni», afferma Loche, «e so che questo allarme periodicamente torna di attualità, quasi fosse una moda. Per questo motivo - prosegue -personalmente non mi sono preoccupato». La marcia indietro, dunque, non sorprende medici e operatori del Microcitemico che da anni sono, però, costretti a lottare anche contro i tentativi di ridimensionamento. Nella fredda logica dei numeri, infatti, spesso qualcuno pensa che l'ospedale di via Jenner, avendo meno di 80 posti letto, possa essere chiuso alla stregua di un qualsiasi «piccolo ospedale». Come se la straordinaria qualità del lavoro svolto al Microcitemico contasse meno di un numerino, utilizzato come parametro per decidere quali ospedali chiudere. Per fortuna non è così. Perché al Microcitemico si lavora e si studia sulle malattie genetiche, spesso rare. Il lavoro dei medici del «Micro» inizia, in molti casi , prima ancora che una vita si affacci al mondo. Dallo screening all'analisi genetica (fatta nei laboratori dell'ospedale), alla diagnosi prenatale (nel reparto di Ginecologia), fino alla presa in carico del bambino nella seconda Clinica pediatrica: una catena di specialisti, competenze ed esperienze che consente di dire oggi che con la talassemia, per esempio, si può anche convivere. «È vero che una razionalizzazione della sanità, soprattutto nella pediatria, servirebbe», spiega ancora Loche, «ma gli strumenti sono altri, non la chiusura di un ospedale. Anche perché il Microcitemico è una delle strutture in cui i genitori arrivano con i bambini malati ed escono con una diagnosi certa». Emilio Simeone, direttore generale della Asl8, tira un sospiro di sollievo. «È evidente che il criterio del numero dei posti letto è del tutto inappropriato quando si parla di strutture che operano con finalità di ricerca, diagnosi e terapia di specifiche patologie». Insomma, il «Micro» non chiude. Anzi, «è al centro di un progetto dell'assessorato regionale alla sanità per la trasformazione in polo Pediatrico dell'area di Cagliari, con l'accorpamento di tutte le specialità pediatriche oggi dislocate nei vari presidi», puntualizza Simeone. Anche stavolta l'ospedale del professor Antonio Cao è salvo. ______________________________________________ La Nuova Sardegna 6 lug. ’12 DE FRANCISCI: PRONTA LA RIFORMA DELLA SANITÀ CAGLIARI. L’assessore Simona De Francisci è pronta a dare battaglia dopo l’annuncio dei tagli che il governo intende apportare alla Sanità. «E’ vero che dal 2010 ci autofinanziamo», chiarisce l’assessore, «e che dal 2011 siamo usciti dal piano di rientro ma il meccanismo è subordinato alla riforma della rete ospedaliera». Il disegno di legge c’è, ed è fermo in commissione: «Spero che possa essere discusso entro l’estate», afferma Simona De Francisci, «bisogna fare in fretta». «I piccoli ospedali non chiuderanno ma è inaccettabile che il decreto del Consiglio dei ministri si configuri come un riforma del sistema sanitario senza il coinvolgimento delle Regioni, per le quali la sanità è materia concorrente», sostiene l’assessore. Sui piccoli ospedali, in realtà, anche il governo ha fatto subito un passo indietro ma il problema si potrebbe riproporre dati gli alti costi (e anche il tasso d’insicurezza) che potrebbero riguardare le ministrutture. Nel luglio dello scorso anno la giunta aveva predisposto un piano di riorganizzazione della rete che è ferma al Consiglio delle autonomie. La Regione ha bisogno di un atto di programmazione ma non si trova l’accordo. Simona De Francisci rivolge un appello «a tutte le forze politiche in Consiglio regionale affinchè si acceleri in commissione la discussione e l’approvazione delle norme urgenti che riorganizzano la rete ospedaliera, in modo da non farci trovare impreparati agli effetti del decreto». Ma l’esponente della giunta regionale è preoccupata per il taglio annunciato, circa 22 miliardi di euro, che rappresenta - ha detto - uno smantellamento del servizio sanitario nazionale. «La Sardegna gestisce e si paga da sola la sanità, ma questo non vuol dire che le prescrizioni non tocchino anche noi. Il rischio», sostiene De Francisci, «è che non si possa più parlare di livelli essenziali di assistenza, ma di livelli minimi: anche se nell’isola, infatti, non incide il taglio del 2% per i privati, preoccupa quello del 5% sui servizi, mense e quant’altro. Di questo passo si arriverà a toccare anche il personale e la specialistica». L’altro rischio è che la contrazione dei servizi sanitari possa portare il cittadino a stipulare le opportune assicurazioni private. Con un ulteriore scadimento del sistema sanitario. ______________________________________________ La Nuova Sardegna 5 lug. ’12 ASL1: IL REGOLAMENTO È COSTOSO MA È “COPIATO” Nessuno si scandalizza se un programma svolto con successo in un’altra città e che si scopre essere perfetto anche per la propria, viene trasferito - copiato - e riproposto. Anzi, è senz’altro una carta da giocare. Bene fa, quindi, la Asl ad attingere da altre fonti se ritiene che un’altra realtà sanitaria abbia prodotto un documento che fa esattamente al caso della Azienda sassarese. Ma stavolta, la questione non sembra così logica - anche perchè ci sono in ballo 23.000 euro di spesa per la stesura del regolamento per l’intramoenia -, almeno stando alla non troppo velata denuncia dei sindacati che hanno scritto una lettera al direttore generale Marcello Giannico e all’assessore regionale alla Sanità Simona De Francisci. Tale regolamento, infatti, stando a quanto affermano le segreterie territoriali della Funzione pubblica Cgil, Cisl, Uil, Nursing Up e Fials, sarebbe stato punto su punto letteralmente trasferito da una delibera del 2009 del Policlinico di Bari. Niente da eccepire, se non fosse che la Asl di Sassari, per avere la stesura del regolamento ha messo nel bilancio 23mila euro, affidando il compito a un gruppo di lavoro di consulenti coordinati da uno dei massimi esperti e consulenti del ministero, il pugliese Nicola Rosato, che ha un curriculum di sicuro rispetto: è attualmente subcommissario alla Sanità del Molise e in passato ha ricoperto i ruoli di direttore amministrativo del Policlinico di Bari e di consulente della commissione parlamentare di inchiesta sugli errori sanitari e sulle cause dei disavanzi sanitari della Camera. Il 27 giugno il sindacato avrebbe dovuto avere un incontro con la dirigenza aziendale della Asl 1 con all’ordine del giorno il nuovo regolamento per la libera professione intramuraria, nota anche come intramoenia, per fare in modo che l’utenza potesse beneficiare di visite mediche anche negli studi privati in regime di convenzione, non essendo disponibili spazi adeguati all’interno della struttura sanitaria pubblica. L’incontro è saltato tra le polemiche del sindacato che a mezzogiorno, ora stabilita, si è presentato, ma alle 13 avrebbe levato le tende senza che nessuno li abbia informati di un eventuale slittamento, poichè né il direttore generale, né altri dirigenti si sono presentati. Su questo punto, la Asl precisa che il ritardo è stato di venti minuti e dovuto al protrarsi di un’altra riunione. Insomma, sta di fatto che l’incontro è saltato. Nel frattempo, le segreterie territoriali si sono «prese la briga di verificare come si sono organizzate altre Aziende Sanitarie nel resto del territorio italiano e tra i tanti abbiamo visitato il sito del Policlinico di Bari», il cui file relativo alla delibera in questione viene allegato nella lettera a Giannico e all’assessore De Francisci. È sufficiente digitarlo e verificare se il regolamento dell’Asl 1 nelle mani del sindacato è uguale a quello di Bari. «Con molta sorpresa abbiamo riscontrato una sorprendente similitudine tra il regolamento che ci propone il direttore generale Giannico e il regolamento adottato dalla Aou di Bari - scrivono i sindacati della sanità -.Non vorremmo mai mettere in discussione le capacità della Direzione, ma dal momento che questo regolamento costa all'incirca 23 mila euro, e che le pagine che compongono questo regolamento sono 23, se fosse vero che è stato copiato, queste verrebbero a costare circa 1000 euro l'una - dice ancora la lettera d’accusa -, un po' troppo costose in questi tempi di crisi e per colui che a parole persegue il risparmio ma che nei fatti si esalta nelle spese in consulenze per tutti i regolamenti aziendali». Dalla Asl, comunque, si replica che quel documento è soltanto una bozza, che si tratta di migliorare il regolamento in vigore nel 2010 e che la Asl ha affidato a un gruppo di lavoro il compito di fare le necessarie modifiche e integrazioni, valutando anche le esperienze di altre realtà. Come dire, non si ammette che il regolamento di Sassari è esattamente lo stesso di Bari (come hanno verificato i sindacati), ma lo si vuole invece prendere come fonte di confronto per migliorare le parti da modificare del le norme da applicare a Sassari. Ma Cgil, Cisl, Uil, Nursing Up e Fials non sono dello stesso avviso: «Noi abbiamo sempre sostenuto che la libera professione debba essere organizzata per abbattere le liste d'attesa e per dare un servizio di qualità migliore agli utenti - si conclude la lettera - , ma la nostra impressione è che la nostra dirigenza voglia utilizzare l'attività libero professionale intramuraria per fare cassa, purtroppo a discapito dei fruitori del Servizio Sanitario e cioè persone sofferenti e affette da malattie varie». Si vedrà ora come la bozza verrà effettivamente modificata, ben sapendo che le delibere sono pubbliche e ormai facilmente riscontrabili anche se si vive dall’altra parte del mondo: basta un computer. ______________________________________________ La Nuova Sardegna 5 lug. ’12 ASSICURAZIONI DELLE ASL, ARRIVA LO STOP CAGLIARI Lo stop è arrivato dall’Isvap, l’istituto di vigilanza sulle assicurazioni, ed è un alt pesante. La compagnia romena City Insurance, che con 2 milioni di euro si era aggiudicata l’appalto indetto da Asl 8 e Azienda Mista per la copertura del rischio in caso di “malasanità” da parte degli operatori, non potrà più operare in Italia. Un divieto che sembra anticipare parte delle conclusioni dell’inchiesta penale avviata dalla Procura, attraverso il sostituto Emanuele Secci, con l’ipotesi di reato di turbativa d’asta. Le ragioni che hanno portato l’Ispvap a sospendere l’attività della compagnia con sede a Bucarest, si configurano nel fatto che la società, come da accertamenti della Guardia di Finanza, aveva una testa solo formalmente in Romania, ma in realtà ben presente nel nostro paese, dove agiva per conto di intermediari. L’Isvap interviene sull’aspetto documentale della società, ritenendo che la compagnia balcanica agisca in totale difformità alla legge, e per questo motivo ha imposto il suo alt ad assumere nuovi affari. Nella nota l’Isvap ammette che l’autorità di vigilanza romena non ha adottato alcun provvedimento di sospensione, e pertanto si vede costretta essa stessa a farlo, per evitare danni alle pubbliche amministrazioni che hanno stipulato polizze con la City Insurance. Ma chi è la testa italiana di questa società? Secondo la Guardia di Finanza ad agire nell’ombra sarebbero personaggi legati alla camorra, in particolar modo al clan Giuliano, su cui è in corso una indagine da parte della direzione distrettuale antimafia della Procura di Napoli. Sarebbero loro ad aver deciso di entrare nel settore delle assicurazioni contro i rischi da cattive pratiche sanitarie, un settore tutt’altro che florido, visto che i risarcimenti richiesti superano i premi incassati, sbaragliando con offerte al ribasso la concorrenza e aggiudicandosi così contratti non solo a Cagliari ma soprattutto in Veneto (premi per 76 milioni per tre anni), Basilicata, Lombardia, Puglia, ed emilia Romagna, tutte regioni dove la City Insurance ha vinto i relativi bandi di gara. Il fine ultimo sarebbe quello del riciclaggio. Sino a ieri l’unico indagato in questa vicenda era il rappresentante legale della City Insurance il romeno Nicolae Musat, che si è difeso dicendo di non aver mai saputo nulla di indagini e inchieste sul suo conto e su quella della società. Adesso è arrivato il provvedimento amministrativo dell’Isvap che di fatto anticipa quelle eventualmente di natura penale dei tribunali e blocca l’attività della compagnia. La Regione, all’avvio delle indagini sul filone locale della compagnia aveva chiesto chiarimenti alle Asl, che a loro volta si erano trincerate dietro la liceità e la correttezza della documentazione presentata in sede di gara. (g.cen.) ______________________________________________ L’Unione Sarda 8 lug. ’12 DE FRANCISCI: PICCOLI OSPEDALI SALVI: «MA È TEMPO DI RAZIONALIZZARLI» Nessun taglio, sì alla razionalizzazione. Un'occasione unica che, per l'assessore alla Sanità Simona De Francisci, «deve essere sfruttata prima che le riforme siano imposte dall'alto». In Sardegna potrebbero essere a rischio un migliaio di posti letto complessivi ma sarà la Regione a stabilire come e dove. GLI OSPEDALI Salvi quindi - per ora - il Microcitemico di Cagliari, il Centro Traumatologico e ospedale Crobu a Iglesias, i presidi di Ittiri e Thiesi, il San Camillo di Sorgono, gli ospedali di Ghilarza e Bosa, il San Marcellino a Muravera, lo Zonchello di Nuoro, il San Giuseppe di Isili, il Marino di Alghero, e il Merlo della Maddalena. Per l'assessore De Francisci parlare di chiusura per i piccoli ospedali «è inaccettabile». E poi: «Ora pare che i tagli sulla sanità siano stati alleggeriti per il 2012 di 900 milioni, sul 2013 di 1,8 miliardi e di 2 miliardi nel 2014», dice, «ma il problema di fondo resta perché le cifre sono un mezzo e non un fine. La razionalizzazione del sistema sanitario può essere possibile con l'approvazione del disegno di legge presentato dalla Giunta, ora all'attenzione della Settima commissione del Consiglio, punto di partenza perché Aula ed Esecutivo, al di là di ogni colore politico, legiferino sulla sanità di domani senza prescindere da due principi chiave: la qualità dei servizi e la lotta agli sprechi». LE CONSEGUENZE I tredici piccoli ospedali sotto gli ottanta posti letto (anche se il Microcitemico di Cagliari per il settore trattato e il Merlo della Maddalena per ragioni geografiche forse si sarebbero salvati comunque) restano osservati speciali. Starà alle Regioni far rispettare il parametro di 3,7 posti letto ogni mille abitanti (contro i 4,2 attuali). Un riferimento che rappresenterebbe l'optimum per i livelli essenziali di assistenza: a sentire gli uffici della Regione, un posto letto inutilizzato o utilizzato male costa 800 euro al giorno. LE CIFRE In Sardegna sono oltre 7.200 posti letto in 44 nosocomi. Sono 600 nei piccoli ospedali, 15 considerando anche quelli entro i 120 posti letto. I cui tagli sono bloccati per scelta del governo. Per migliorare i servizi probabilmente si punterà sulla diagnostica, e quindi sui day hospital, sui servizi ambulatoriali (come cardiologia, dermatologia, radiodiagnostica in connessione con gli ospedali di riferimento). In questo senso, i piccoli ospedali sardi sono già stati interessati, nel 2011, dalla riorganizzazione: diventeranno ospedali del territorio e delle cure intermedie. (lo. pi.) ______________________________________________ Corriere della Sera 7 lug. ’12 SACCONI: LE REGIONI ACCETTINO COSTI STANDARD «LA GRANDE VOCE DELLA SPESA OSPEDALIERA NON È STATA CONSIDERATA» ROMA — «Il nostro obiettivo è ridurre la pressione fiscale. Appoggiamo la spending review, ma tiriamo la giacca del governo per sollecitarlo a una più coraggiosa operazione di revisione della spesa. Il decreto sulla parte sanitaria è insufficiente». Maurizio Sacconi, ex ministro del Lavoro e della Salute, senatore del Pdl, non è completamente soddisfatto. Qual è la strada da seguire? «Il Pdl vuole sostenere un percorso di rivisitazione del complesso della spesa pubblica. Che ripercorra alcuni interventi già avviati dal precedente governo. A partire dal federalismo fiscale». Partiamo dalla sanità. «Occorre un grande piano di riconversione dei 250 ospedali sotto i 120 posti letto in residenze per anziani o in presidi territoriali. Come dice Umberto Veronesi, oggi le grandi capacità che la scienza e la tecnologia hanno prodotto si possono manifestare solo in strutture di dimensioni adeguate». Non è quello che è avvenuto con il decreto. Anzi, la decisione se abolire i piccoli ospedali è stata demandata alle Regioni. «È vero, la grande voce della spesa ospedaliera, che rappresenta il 60 per cento della spesa sanitaria, non è stata minimamente considerata. Non si tratta di violare l'autonomia costituzionale delle Regioni, ma di attuare il processo federalista, che con costi standard efficienti induce a fare quello che spesso non si fa, per timore delle reazioni emotive». È da molto tempo che si parla di federalismo. «I costi standard si possono definire in un pomeriggio. E si devono redigere sulla base dei bilanci 2011 di tre Regioni, una al Nord, una al Centro e una al Sud. Le migliori, che credo si possano identificare in Lombardia, Toscana e Basilicata. Faccio un esempio positivo: l'azienda sanitaria di circa 300 mila abitanti della città in cui sono nato, Conegliano Veneto, ha chiuso il bilancio con 12 milioni di avanzo di gestione e ottimi indicatori sullo stato di salute. La spesa sanitaria è solo il 44 per cento del totale». Come hanno fatto? «Lo hanno fatto razionalizzando la struttura a un solo ospedale, con due presidi complementari. Nella sanità quando c'è troppa offerta ospedaliera, si produce domanda inappropriata e in più una parte di questa è pericolosa perché è marginale». In che senso pericolosa? «Magari c'è il pronto soccorso ma senza una robusta diagnostica alle spalle. Oppure non c'è la rianimazione. Nei piccoli ospedali si fanno pochi parti e pochi interventi chirurgici. E quando sono pochi, il rischio clinico è più elevato. E poi in questi ospedali ci sono situazioni che dovrebbero essere trattate diversamente, con minore spesa e miglior risultato». Per esempio? «Il caso tipico è rappresentato dai cronici: una buona azienda non ospedalizza un cronico, perché così lo abbandona a se stesso in una struttura tarata sui bisogni acuti, non cronici. L'anziano cronico va curato, amorevolmente, a domicilio o in una residenza per anziani. È più efficace per la persona e costa da un settimo a un decimo in meno per la Asl». Perché il ministro Balduzzi ci ha ripensato sulla chiusura dei piccoli ospedali? «Perché ancora una volta, come per l'articolo 18, il governo ha subito il veto della sinistra». A dir la verità, ci sono governatori del Pdl come Renata Polverini o Roberto Formigoni che sono agguerritissimi contro questa misura. «Difendono l'autonomia e li capisco. Ma il federalismo fiscale è stato varato dal Parlamento e concordato con le Regioni. Dica il governo se lo vuole abbandonare. E mi riferisco anche ai fabbisogni standard per le municipalità dopo ben 33 anni di premio alla spesa storica e quindi ai Comuni viziosi. La società incaricata di definirli ha già prodotto i primi dati riferiti ai costi per la polizia locale e altri, riferiti alle spese generali di amministrazione, incluse le partecipate, saranno forniti entro settembre, in modo che si possa passare da tagli indiscriminati a una ripartizione equa del fondo nazionale. Perché se si adotta un sistema di indicatori standard vincolanti per la distribuzione delle risorse, la correzione delle addizionali fiscali, regionali e locali può essere immediata». Alessandro Trocino ______________________________________________ Corriere della Sera 5 lug. ’12 LE POLIZZE DELLE ASL IN ROMANIA E LO STOP ISVAP (s.rig.) City Insurance, la compagnia di assicurazione dal nome inglese, sede rumena e proprietà italiana, non può più stipulare polizze sul territorio italiano. Dopo una istruttoria durata più di un anno, la denuncia di Corriere Economia e l'azione di diversi assicurati, l'Isvap è intervenuta con un provvedimento d'urgenza contro la Societatea de Asigurare Reasigurare City Insurance, compagnia con sede a Bucarest in via Lisabona. City insurance — che ha firmato polizze per la tutela professionale nelle Asl della Regione Veneto, a Sondrio, in Romagna come all'ospedale San Raffaele di Milano — secondo la ricostruzione dell'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni private, opera in un settore che espone «la compagnia a impegni economicamente rilevanti se rapportati alla misura del suo capitale» (circa 3,5 milioni di euro). Inoltre, «esiste una governance solo formale in Romania e una governance sostanziale della società, stabilmente insediata in Italia, e attuata attraverso lo schermo di alcune società di intermediazione» al punto che «gli organi direttivi di City Insurance, aventi sede in Romania, sono assolutamente privi della capacità di conoscere e monitorare puntualmente e costantemente, la consistenza del portafoglio polizze» e più in generale «l'esposizione complessiva della compagnia sul territorio della Repubblica italiana». Non bastassero i problemi di governance («la costituzione di una sede legale in Romania è del tutto artificiosa e ha avuto il solo scopo di ostacolare la vigilanza italiana sull'impresa», è scritto nel provvedimento dell'Isvap), la mancata iscrizione, almeno fino al marzo 2011, nel relativo registro fiscale, «ha determinato il mancato e/o tardivo versamento all'Erario delle imposte sui premi stessi». Il tutto, scrive l'Isvap «ha permesso di riscontrare criticità operative tali da far ritenere non sana e prudente la gestione aziendale di City Insurance», nonché dubbi «sulla sua effettiva capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale», considerato anche «che il capitale sociale dell'impresa appare non adeguato con conseguente grave rischio di insolvenza». L'Isvap cita anche il caso di due sinistri con un impegno di spesa di 238 mila e di 100 mila euro registrati con ampio ritardo nella contabilità dell'azienda. Un quadro preoccupante, in un settore ad alto rischio, dal quale le compagnie italiane si sono progressivamente allontanate. Ma per le Asl e le singole organizzazioni ospedaliere la soluzione non appare essere City Insurance. Certamente non per il futuro. Resta da comprendere cosa sarà delle polizze in essere e quali le tutele per gli assicurati. Nell'aprile scorso la Guardia di Finanza bloccò un contratto da 76 milioni tra City Insurance e l'assessorato allaSanità della Regione Veneto, mentre sono in corso indagini delle Procure di Venezia e Cagliari per presunte condotte illecite perpetrate dalla stessa compagnia rumena in ordine alla partecipazione a gare indette da aziende pubbliche. ______________________________________________ Corriere della Sera 3 lug. ’12 «LE SPESE DELLE ASL: PREZZI INSPIEGABILI» ROMA — Comprare una siringa dovrebbe costare ad una Asl o un ospedale solo 2 centesimi, invece può costare da 3 a 65 centesimi, mentre una protesi all'anca può variare da 284 a 2.575 euro da una Asl all'altra. E gli inserti di tibia si pagano da 199 euro fino a 2.479 euro, 12 volte in più. Il costo dei pasti per paziente non dovrebbe superare 9,40 euro, la mensa per i dipendenti, invece, 4,62 euro a testa. E risparmi si potrebbero ottenere anche dai servizi di lavanderia. Sono alcuni esempi dei prezzi di riferimento e di quelli reali di un ampio paniere di beni e servizi acquistati dal Servizio sanitario nazionale pubblicati ieri online dall'Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici (Avcp). Dati che confermano la necessità di definire costi standard negli acquisti della Sanità, pari a una spesa di 35 miliardi l'anno, per evitare le inspiegabili differenze di prezzo riscontrate e gli sprechi conseguenti. ______________________________________________ Corriere della Sera 7 lug. ’12 SANITÀ IL GOVERNO LE MISURE BASTA DOPPIONI 18 MILA POSTI IN MENO PRIMARI RIDOTTI Entro novembre il taglio da 4 a 3,7 letti ogni mille abitanti ROMA — Salvi i piccoli ospedali. Ma la riduzione dei posti letto ci sarà. Le Regioni dovranno attuarla «esclusivamente attraverso la soppressione di unità operative complesse». Così si chiamano oggi i vecchi primariati. Il decreto introduce un nuovo criterio. Niente tagli a pioggia, sparpagliati. Si procede per blocchi. Via i doppioni, reparti troppo vicini creati in certi casi più per interesse politico che sanitario. Di conseguenza andranno riviste «le dotazioni organiche». In pratica meno primari e dirigenti medici. Fino a quando l'obiettivo non sarà raggiunto è inoltre «sospeso il conferimento o il rinnovo di incarichi». Massimo Cozza, segretario nazionale Cgil-Funzione pubblica prevede il sacrificio di 10 mila camici bianchi fra capi e collaboratori. L'articolo 15 del testo sulla spending review impone tempi brevi. Entro il 30 novembre bisogna adottare «provvedimenti di riduzione dello standard dei posti letto ospedalieri» a carico effettivo del servizio sanitario nazionale (esclusi quindi le strutture religiose e gli istituti di ricerca): 3,7 ogni mille abitanti. Ora siamo sul quattro. Per riabilitazione e lungodegenza lo standard però non deve scendere sotto lo 0,7 per mille abitanti. La stima è l'abolizione-riconversione di 18-20 mila posti. Non è semplice calcolare quale sarà il contributo di ogni singola amministrazione. Dipende anche dal fenomeno della cosiddetta mobilità. Più una Regione ha capacità attrattive, accoglie cioè malati provenienti da altre zone d'Italia, più posti potrebbero essere mantenuti. I piccoli ospedali sotto i 120 letti però non restano del tutto estranei alla riorganizzazione. «Una norma complessa. Le Regioni sono comunque tenute a una verifica stringente sulla loro funzionalità», chiarisce il ministro della Salute, Renato Balduzzi. Cambia il percorso di alcune cure. La tendenza è di evitare il più possibile il ricovero a favore di day hospital e, meglio, ambulatorio. Un risparmio per lo Stato, visto che un giorno in ospedale costa molto di più e richiede anche le spese del pasto. Esempio. Un intervento di cataratta o al tunnel carpale o un pacchetto di accertamenti diagnostici per la cefalea saranno spostati in ambulatorio con i rispettivi esami. Non si capisce ancora se il cittadino non esente, che con l'attuale sistema viene curato gratuitamente, dovrà pagare un ticket. I medici annunciano una protesta forte. Cozza attacca: «Tagli insostenibili. L'affollamento ai pronto soccorso si aggraverà. Interi primariati soppressi». Per l'Anaao, associazione dei medici dirigenti, «è un colpo di grazia alla sanità pubblica, l'ennesima manovra ingiusta». Pessimista Giovanni Monchiero, presidente Fiaso, la federazione delle aziende sanitarie: «Il parametro del 3,7 per mille ci colloca a un livello di presunta virtuosità in Europa, ma non appare indolore specie quando il sistema dei ricoveri è carente». Margherita De Bac mdebac@corriere.it ______________________________________________ Corriere della Sera 7 lug. ’12 FARMACI E RICETTE, LE NUOVE REGOLE Risparmi per 5 miliardi, la protesta di Farmindustria ROMA — Farmaci. È la prima voce di risparmio che i governi ascoltano. E anche questa volta il decreto legge sulla spending review, che ha previsto il taglio di tre miliardi di euro per il fondo sanitario nazionale nel 2012-2013 (con un miliardo in meno quest'anno e due miliardi a decorrere dal 2013), non ha lasciato estraneo il settore. Colpite aziende farmaceutiche e farmacisti. I cittadini dovrebbero essere al riparo da rinunce dolorose se è vero quanto assicura il ministero della Salute. E che cioè il peso dei tagli verrà sostenuto da chi lo produce e chi lo distribuisce. Ma il timore di brutte sorprese non si estingue. Meno soldi per la spesa territoriale (cioè in farmacia), il cui tetto scende quest'anno dal 13,3% al 13,1%, per calare fino all'11,5 nel 2013. Salirà in compenso l'asticella per i farmaci dispensati in ospedale (dal 2,4% al 3,2%) che sfora regolarmente i bilancio. «Stangata» sulle imprese del farmaco: il decreto prevede che dal 2013 «è posta a carico delle aziende farmaceutica una quota pari al 50 per cento dell'eventuale superamento del tetto di spesa a livello nazionale». Le aziende farmaceutiche dovranno inoltre praticare nei prossimi sei mesi allo Stato uno sconto maggiore. Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, non esclude un rischio per i pazienti: «Le nostre case madri, viste le condizioni sfavorevoli, potrebbero rinunciare al mercato italiano. Dunque non entrerebbero i farmaci innovativi che costano molto perché frutto di enormi investimenti». Nel 2013 è previsto l'arrivo di terapie di ultimissima generazione pari a 300 milioni, attese molecole per patologie importanti come melanoma, antinfettivi per l'epatite C. Parliamo di terapie da 60-90 mila euro all'anno per ciascun paziente e che in certi casi possono cambiare la storia della malattia. Per il futuro ne sono attesi a decine. Luca Pani, direttore generale di Aifa, l'agenzia nazionale del farmaco, ritiene che l'Italia potrà mantenere gli impegni con i pazienti e non negherà prodotti così determinati. Ma dobbiamo temere anche lo sfoltimento della lista dei farmaci rimborsati (fascia A)? La lista, assicurano in Aifa, non cambierà. I farmacisti giudicano ingiusta la norma che introduce un ulteriore riduzione del margine di guadagno. Annarosa Racca, leader di Federfarma, è per le maniere forti: «Così non reggiamo. È un sacrificio superiore alle nostre forze». Il 10 l'assemblea degli iscritti deciderà se attuare uno sciopero. La chiusura dell'attività per un giorno. Il timore che la qualità dell'assistenza subisca una picconata è legato inoltre alle misure di contenimento della spesa per l'acquisto di dispositivi medici: dai bypass agli ecografi, dalle siringhe alle apparecchiature più sofisticate. Il tetto scende dal 5,2 al 5%. Si lamentano i produttori, Assobiomedica e la Fifo, l'associazione dei fornitori ospedalieri di Confcommercio, già alle prese con i grossi ritardi nei pagamenti da parte delle Asl. M.D.B. ______________________________________________ Corriere della Sera 6 lug. ’12 VERONESI :I SACRIFICI NECESSARI DELLE STRUTTURE di UMBERTO VERONESI La ristrutturazione del sistema ospedaliero riflette l'evoluzione della medicina che ha ispirato il programma per la modernizzazione dell'ospedale italiano che preparai alcuni anni fa insieme a Renzo Piano. La medicina oggi si scinde in due aree. La diagnostica dovrebbe essere diffusa capillarmente sul territorio, per fare in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di ottenere una diagnosi tempestiva, senza doversi spostare dal luogo in cui vive e lavora. Si potrebbe chiamare «sanità a chilometro zero»: una concezione che tiene conto della profonda evoluzione del senso di responsabilità circa la protezione della propria salute, con la necessità di verificare periodicamente la condizione del proprio organismo. D'altra parte la medicina terapeutica si deve fondare su un numero più limitato di ospedali altamente tecnologici e organizzati in modo efficiente, così da garantire ricoveri brevi e un ampio ricambio di pazienti. L'ospedale moderno deve infatti assolvere a due compiti: l'approfondimento diagnostico e la terapia. Entrambi richiedono attrezzature avanzate ad alto costo. Per dare un'idea, una Rmn costa dai 2 ai 5 milioni di euro, una Pet altrettanto, così come un robot chirurgico o una cyber-knife. Il prezzo dell'innovazione cresce: se un acceleratore di elettroni vale 1-2 milioni di euro, un acceleratore di protoni (il futuro) ne vale 100. Non si può poi prescindere dalla ricerca: la biologia molecolare permette di analizzare il Dna e di associare le alterazioni geniche a determinate malattie per poter curare tutti con nuovi farmaci meno tossici e più efficaci. Inevitabilmente l'ospedale richiederà forti investimenti. Ecco perché quelli di piccole dimensioni sono destinati ad essere soppressi o accorpati in grandi centri, dove i costi possono essere condivisi. E' ragionevole anche pensare che la terapia avanzata non debba necessariamente essere «sotto casa». Nessun cittadino si fa problemi ad affrontare degli spostamenti per avere una migliore cura. Non parliamo di «tagli», ma di razionalizzazione di un sistema complesso in profonda trasformazione in tutto il mondo. Una trasformazione estremamente positiva per i malati e i loro familiari. Il principio fondante del programma con Renzo Piano era ed è, accanto all'eccellenza della cura, l'attenzione alla qualità di vita della persona. ______________________________________________ Libero 5 lug. ’12 POCHI MEDICI CONOSCONO LA LEGGE 38/10 SUL DOLORE Servono una 'nuova cultura' e più appropriatezza prescrittiva Impact 2012. Summit di esperti e organismi pubblici e di categoria di FLAVIO GIANNETTI E E Per una corretta 'gestione del dolore' è necessario un cambiamento culturale della classe medica. Perché a livello farmacologico e legislativo sono stati fatti passi da gigante. È questo uno dei messaggi chiave usciti da IMPACT 2012, il più importante summit multidisciplinare sul dolore in Italia, che la scorsa settimana a Firenze ha visto la partecipazione di oltre 250 delegati provenienti da tutto il Paese. Un momento di confronto significativo, intenso e a tratti anche assai dialettico fra Ministero della Salute, Regioni, Società Scientifiche, Associazioni di categoria, Fondazioni e Associazioni pazienti sull'applicazione nella pratica clinica della Legge 38/2010. «Uno degli aspetti più importanti e non ancora pienamente realizzati della medicina è l'umanizzazione del rapporto col paziente — spiega Gian Franco Gensini, Presidente del Comitato Scientifico Impact proactive e Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Firenze — Il medico deve essere in grado di stabilire una comunicazione empatica con il proprio assistito. Questo vale ancor più nel caso del dolore, che rappresenta un vissuto negativo, una malattia nella malattia: solo attraverso un vero dialogo e l'apertura all'ascolto è possibile comprendere e porre al centro Guido Fane le esigenze del paziente. Dobbiamo puntare a una visione olistica del paziente, perché una società che si definisce moderna deve necessariamente passare da una gestione della singola malattia alla cura globale della persona». Come dimostrano i dati presentati a Firenze, 4 visite su 10 effettuate nell'ambulatorio del medico di famiglia riguardano casi di pazienti con patologie algiche, che spesso vengono trattati impropriamente con FANS. Nonostante la Legge 38 negli ultimi due anni abbia determinato una crescita nel consumo di oppioidi, le prescrizioni effettuate dai medici di medicina generale nel 2011 rivelano una marcata disomogeneità, con Regioni più virtuose quali Friuli, Toscana, Liguria e Piemonte e altre "fanalino di coda" come la Campania. «Non esiste un unico 'dominus' del paziente con dolore», ha sottolineato Guido Fanelli, membro del Comitato scientifico Impact proactive e Presidente della Commissione ministeriale Terapia del Dolore e Cure Palliative. «Uno dei punti di forza della Legge è l'aver previsto un modello organizzativo basato su un approccio multidisciplinare al problema, che veda specialisti, medici di famiglia e infermieri collaborare tra loro all'interno delle reti territoriali. E proprio la costituzione delle reti, chiave di volta per una concreta continuità assistenziale e una reale appropriatezza terapeutica, è l'importante obiettivo che dobbiamo porci, non appena la Commissione politica della Conferenza Stato-Regioni avrà approvato i requisiti minimi per l'accreditamento di Hub e Spoke». ______________________________________________ Corriere della Sera 8 lug. ’12 CURE MIGLIORI CON MINORI SPESE DALL'EUROPA UNA LEZIONE PER GLI USA di FAREED ZAKARIA M olti liberal credono che l'Affordable Care Act, comunemente conosciuto come Obamacare, sia impopolare solo perché la maggior parte degli americani non lo capisce. Questo è vero solo in parte. Alcuni studi mostrano che gli articoli fondamentali della legge sono più popolari della legge stessa. Ma il vero motivo per cui l'Obamacare preoccupa molti americani è il suo costo. La maggior parte degli americani ha l'assicurazione medica. Ciò che li preoccupa è il costo di assicurare da 20 a 30 milioni di persone in più. A meno che l'innalzamento stratosferico dei costi per la riforma sanitaria non venga contenuto, l'idea di una grande espansione della copertura medica rimarrà impopolare, poco importa come verrà spiegata. Le alternative repubblicane all'Obamacare, come il piano del repubblicano Paul Ryan, non si preoccupano di estendere la copertura, il che è un errore perché lasciano in vita un modello assicurativo palesemente guasto, ma hanno una strategia per controllare i costi: portare i consumatori a pagare più della loro assistenza sanitaria. L'idea di base può sembrare interessante. Sono i mercati a produrre le efficienze e presumibilmente farebbero lo stesso con l'assistenza medica. Ma la situazione suggerisce che in quest'ambito i mercati funzionano in modo imperfetto. Un nuovo studio condotto dalle case farmaceutiche Novartis e McKinsey & Co. rivela significative differenze tra i Paesi per quanto riguarda l'efficacia dell'assistenza sanitaria. Per esempio, la percentuale di fumatori è più alta in Francia che negli Stati Uniti, quindi la popolazione francese è più soggetta a malattie polmonari. Tuttavia il sistema francese è in grado di trattare la malattia molto più efficacemente, con livelli di gravità e fatalità tre volte più bassi rispetto a quelli degli Stati Uniti. Ciononostante la Francia sostiene una spesa di otto volte inferiore rispetto a quella del sistema statunitense sui trattamenti per persona. Per non parlare della Gran Bretagna, che tratta il diabete in modo molto più efficace degli Stati Uniti, spendendo meno della metà di quanto spendiamo noi per persona. Lo studio conclude che il sistema britannico è cinque volte più produttivo nel gestire il diabete. In realtà c'è un caso in cui gli Stati Uniti fanno meglio: la lotta contro il tumore al seno, in quanto lo screening precoce e il facile accesso a trattamenti avanzati fanno del Paese il posto migliore per combattere questa malattia. Ma nel complesso la migliore assistenza per le malattie si ha in Paesi con costi di gran lunga inferiori. Per capire meglio la questione ho parlato con Daniel Vasella, presidente ed ex amministratore della Novartis, nonché medico apertamente favorevole al mercato e al sistema americano, motivi per cui è stato criticato in Europa. Vasella sostiene che non c'è un singolo modello che funziona al meglio, ma che la Francia e la Gran Bretagna combattono con maggiore successo il diabete e le malattie polmonari perché adottano un approccio metodico che dà all'intero sistema sanitario incentivi per concentrarsi sulla diagnosi precoce e sui trattamenti più efficaci e meno costosi e che ha come obiettivo il benessere. «In America», dice, «nessuno ha incentivi per raggiungere risultati di qualità contenendo i costi. I partecipanti sono molti e ognuno vuole proteggere se stesso. Qualcuno dovrebbe chiedersi: "Quali sono gli elementi cruciali per migliorare la qualità?". È per questo che paghiamo, nient'altro». Gli ho chiesto se la lezione che ne ha tratto è che solo lo Stato possa produrre miglioramenti sull'intero sistema. «Mi rincresce ammetterlo, come sostenitore del libero mercato, ma in questo caso è necessario che lo Stato intervenga. L'assistenza medica è molto complessa. Solo a livello sistemico è possibile capire cosa funziona meglio, in base ai dati raccolti, e quali procedure e trattamenti non valgono la spesa», afferma. Gli economisti hanno spesso scritto di aree di «asimmetria dell'informazione», laddove i consumatori non sono abbastanza esperti da poter determinare quale prodotto sia il migliore. Questo si è dimostrato vero per quanto riguarda la sanità. Dopotutto, i consumatori scelgono liberamente di fumare, mangiare cibo spazzatura e tralasciare la prevenzione e tutto questo aumenta le loro probabilità di ammalarsi, oltre al costo della loro polizza sanitaria, abbassando così la qualità della loro vita. È improbabile che, spendendo più soldi individualmente, risolveremo la crisi dei costi dell'assistenza sanitaria. © 2012, Washington Post Writers Group (Traduzione di Nicoletta Boero) ______________________________________________ Corriere della Sera 8 lug. ’12 BONCINELLI: NELLA DISPENSA DELLE IDEE di EDOARDO BONCINELLI Soltanto due regioni del cervello producono nuovi neuroni Una di queste è l'ippocampo: qui si fissano pensieri e memoria Il pensiero procede spesso per associazione d'idee. Questa è un'opinione piuttosto diffusa che risale almeno al Settecento. Una volta formate, le idee si possono comporre e scomporre e comunque correlare tra di loro sulla base di una più o meno marcata somiglianza o dissimiglianza, e si può chiamare associazione il meccanismo che si trova al centro di tali processi. È tramite il meccanismo dell'associazione che si consolidano, si memorizzano, si allacciano e si slacciano le idee elementari e quindi è attraverso l'operato delle più diverse associazioni che si formano le idee complesse, cioè le idee vere e proprie. Ma che cos'è l'associazione d'idee? E perché certe idee procedono associate? La riflessione su questi temi ha portato a suo tempo a interessanti formulazioni teoriche sulla strada dell'identificazione dei princìpi seguiti dal processo associativo. Thomas Hobbes assegnò grande importanza a concetti quali quelli di successione, sequenza, serie, conseguenza, coerenza, svolgimento ordinato d'immagini o di pensieri, nel procedere della vita mentale. John Locke introdusse poi esplicitamente il termine di associazione d'idee, ma toccò a David Hume il compito di porsi espressamente la questione della natura dei princìpi dell'associazione di pensieri e di idee, che ridusse essenzialmente a tre: somiglianza, continuità nel tempo e nello spazio e rapporto di causa ed effetto. Una posizione rigorosa fu sostenuta da James Mill, padre di John Stuart Mill, che affermò fra l'altro: «Le nostre idee nascono nell'ordine in cui si sono succedute le sensazioni di cui esse costituiscono le copie. Questa è l'associazione delle idee, espressione con la quale, ricordiamolo, non s'intende indicare altro se non l'ordine in cui si presentano». Delle tante ipotesi proposte, una delle più vivide è quindi quella secondo la quale idee apprese o concepite più o meno nello stesso tempo rimangano in qualche modo preferenzialmente associate tra di loro. Ebbene, le moderne neuroscienze sembrano fornire un forte appiglio a tale convinzione e forniscono un modello per pensare a idee associate nel tempo, perché acquisite nella stessa ondata di neurogenesi nell'ippocampo. Vediamo di che si tratta. Fino a una trentina di anni fa si riteneva che le cellule nervose del cervello non potessero rigenerarsi e rinnovarsi. Ci tenevamo per tutta la vita quelle che possedevamo alla nascita, a parte possibili perdite accidentali dovute a morte cellulare; di nuove non ne nascevano e quelle morte non potevano venire rimpiazzate. Il quadro è oggi un po' cambiato. Anche se la stragrande maggioranza dei neuroni del cervello restano gli stessi per tutta la vita e se muoiono non vengono sostituiti, esistono due specifiche regioni cerebrali dove si osserva un certo tasso di neurogenesi, cioè di nascita di neuroni nuovi, anche nell'adulto. A cosa servono questi neuroni freschi? Quale ruolo giocano nella dinamica del cervello? Da queste domande è partita una ricerca ora pubblicata su «Nature». Due sono le regioni del cervello adulto dove si possono osservare discreti livelli di neurogenesi, chiamiamola neurogenesi adulta: tutt'intorno alla superficie dei ventricoli cerebrali e nell'ippocampo. Il ruolo dei neuroni neonati nella prima regione è abbastanza ben compreso: dopo un lungo viaggio vanno a rimpiazzare le cellule nervose che sono morte nel frattempo nel bulbo olfattivo, la regione cerebrale che sovrintende all'odorato e all'elaborazione degli stimoli olfattivi. Meno chiaro, anche se potenzialmente molto più interessante, è ciò che possono fare i neuroni che nascono in continuazione nell'ippocampo, l'organo primariamente deputato alla fissazione dei ricordi. Se c'è una cosa che sembra richiedere stabilità e continuità, questa è proprio la memoria, e a prima vista appare quasi paradossale che per quella occorra mettere in continuazione «nuova carne al fuoco», alterando così l'architettura complessiva dell'ippocampo adulto. D'altra parte la fissazione di nuovi ricordi è una cosa diversa dalla loro conservazione. Ed è proprio nel meccanismo di fissazione dei nuovi ricordi che sembrano giocare un ruolo i nuovi neuroni che nascono via via in una regione specifica dell'ippocampo adulto, il cosiddetto giro dentato, una regione chiaramente coinvolta nell'apprendimento di nuove nozioni. A tale proposito, si sa da tempo che ogni situazione che favorisce nuovi apprendimenti porta a un aumento della neurogenesi nell'ippocampo, mentre situazioni avverse all'apprendimento, e fra queste l'invecchiamento, conducono a una riduzione, anche se contenuta, dell'intensità di tale processo. I neuroni appena formati diverranno poi cellule mature inserite nella struttura definitiva del giro dentato, sotto forma di cellule granulari destinate a inviare i segnali nervosi fuori dal giro dentato e dall'ippocampo stesso. Quella che è in gioco in ogni caso è la dimensione temporale dei ricordi. Il ricordo dei diversi eventi che si succedono nel tempo sembra interessare ondate diverse di neurogenesi. I neuroni nati in una determinata ondata appaiono funzionare come integratori del ricordo di eventi contemporanei o temporalmente adiacenti, mentre quelli formati in una differente ondata contribuiscono al ricordo, chiaramente distinto dal primo, di un altro gruppo di eventi fra di loro temporalmente adiacenti, dando così luogo ad associazioni temporali separate nella cosiddetta memoria episodica. Tale ruolo d'integratori di eventi vicini nel tempo e di separatori di gruppi di eventi appresi in tempi diversi sembra poi essere ereditato dalle cellule granulari che vanno poi via via maturando da questi neuroni neoformati, in un processo che richiede qualche tempo. Sarebbe come se mettessimo in cassetti diversi i ricordi che si riferiscono a periodi di tempo diversi. Non è ovviamente così, ma la metafora rende l'idea e sembra dare un fondato motivo alla necessità di un'attiva produzione di nuovi neuroni nel corso dell'apprendimento di nuove nozioni. È poi ancora tutto da vedere se questo fenomeno si potrà estendere dalla memoria episodica, cioè la memoria degli eventi, anche a quella semantica, cioè la memoria delle nozioni. Vedremo. Ma non è ancora tutto qui ______________________________________________ Il Sole24Ore 8 lug. ’12 IL WELFARE NELLE MANI DEI ROBOT Domani a Bruxelles l'Italia illustra il progetto su automi «companion». È in lizza con altri cinque candidati per i fondi alle tecnologie del futuro Le proposte di Sant'Anna e Iit: macchine sensibili che sanno curare, riparare e assistere Giuseppe Caravita La piccola barca P-ship naviga lentamente su un tranquillo fiume toscano. Fa tutto da sola. Ogni tanto si ferma e avvia il sistema automatico di campionamento dell'acqua. Da lontano lo scienziato segue, su video, tutto quello che fa, dati di rilevamento in primis. E se alla bocca di uno scarico i valori sono alti ordina alla barca di intensificare le rilevazioni. Lei riprogramma la rotta ed esegue. P-ship, oggi è il primo frutto di una nuova impresa (P-tom) di ricercatori robotici dell'incubatore di Navacchio (Pisa), è solo un esempio iniziale di quella che si annuncia come la robotica di terza generazione. Macchine autonome e sensibili in grado di assistere gli anziani, sbrigare le faccende di casa e curarli. Oppure robot esploratori, volanti o che si infilano come serpenti nei tubi. E co- lavoratori o esoscheletri capaci di adattarsi al corpo del malato o dello sportivo e di fornire energia di movimento. Fino a nanorobot chirurgici capaci di infilarsi nel corpo umano e ripararlo selettivamente dall'interno. Fantasie? No. «Alcuni prototipi già ci sono. Ma arrivarci, a questi robot compagni dell'uomo, non sarà uno scherzo – spiega Paolo Dario, della Scuola Sant'Anna di Pisa –. La nuova robotica richiederà la confluenza e l'integrazione di nuove conoscenze, dalle neuroscienze alle nanotecnologie, dalla chimica alla meccatronica. Un progetto interdisciplinare. Il nocciolo è capire come funzionano davvero gli esseri viventi, come ottimizzano il consumo di energia e affrontano problemi complessi. Cercheremo di carpire i segreti del mondo della natura. E applicare alle macchine questi principi. Ottenendo un'efficienza intrinseca che non è solo aggiungere nuove batterie più performanti. È andare a impattare anche gli ambiti sociali, psicologici, filosofici. Per capire il rapporto possibile tra la macchina e l'uomo». Questo è il nocciolo di Robot Companions for Citizens (Rcc), forse la maggiore proposta di ricerca e innovazione lanciata in Italia da molti anni. Un progetto, due anni per definirlo, calibrato su 10 anni e un miliardo di euro di investimenti, che domani verrà ufficialmente presentato alla Commissione europea, in lizza con altri 5 candidati al titolo di Flagship della ricerca europea. Due soli saranno scelti. E si tratta di proposte forti e a lungo termine, appoggiate ciascuna da decine di università e istituti europei. Il portabandiera italiano è la robotica di terza generazione. «Oggi nel continente vi è una comunità di ricerca robotica di circa 2mila persone. E tra Scuola Sant'Anna e Iit noi pesiamo per oltre un terzo – dice Roberto Cingolani, direttore dell'Iit (Istituto italiano di tecnologia) di Genova – ovvio che in questo campo possiamo giocare in serie A». Un campo non da poco, dove la scienza più avanzata si può sposare all'industria. «La robotica ha vissuto due generazioni – spiega Dario, coordinatore scientifico di Rcc –, la prima, meccanica e informatica, ha generato la meccatronica che conosciamo, e che dà da vivere a tante nostre aziende. La seconda è stato l'ingresso dell'intelligenza artificiale, della sensoristica e della percezione. Ma oggi ci scontriamo con precisi colli di bottiglia. I robot in grado di agire davvero nel mondo reale richiedono, a oggi, ipercomplessità tecnologiche e consumi energetici insostenibili. Il paradigma va completamente cambiato. Invece che dalla tecnologia, ripartiamo dallo studio degli esseri viventi, che già ottimizzano in modo straordinario intelligenza, capacità ed efficienza. I loro principi saranno i nostri passi avanti». I proponenti di Robocom, al lavoro da circa due anni sulla proposta Flagship, l'hanno sistematizzata in 5 pilastri di ricerca. Sviluppare nuovi materiali e insieme nuove soluzioni energetiche, distribuire il controllo e l'intelligenza su tutto l'organismo robotico, sviluppare un'architettura intellettiva sintetica (come negli animali), integrarla alla sensibilità dell'ambiente. E infine progettare i robot finali su quattro piattaforme: robot per la salute e la cura, esplorativi, per le emergenze, per il co-lavoro. Risorse: circa 800 tra ingegneri robotici, neuroscienziati, chimici, informatici e matematici coinvolti tra Iit e Sant'Anna. E poi i partner esterni: «Abbiamo definito 20 gruppi di lavoro che contribuiscono sui cinque pilastri scientifici – spiega Dario –. Più una dozzina di sottoprogetti già definiti. Questi lavoreranno ai robot dei prossimi vent'anni». Continua a pag. 47Continua da pag. 45 «Poi – continua – abbiamo sviluppato una seconda proposta, per una partnership pubblico-privata per lo sviluppo industriale dei prossimi 10 anni. E abbiamo già la bellezza di 110 lettere di endorsment da tutto il mondo: dalla Cina (con 3 milioni) agli Emirati Arabi Uniti, dalla Regione Toscana all'Olanda e gli Usa. Così contiamo di raggiungere un budget di 100 milioni l'anno con l'Iit capofila che ne investirà 10, 25 forse la Commissione, e il resto i partner interessati a questa frontiera. Su cui, ovviamente, noi giocheremo un ruolo di leadership, europea e anche oltre». Ai campionati europei di Flagship di ricerca e innovazione, Robocop, ovvero la robotica italiana ci va in pole position. Vuole giocare e vincere una delle due posizioni che si apriranno nel 2013. «Un progetto come questo potrebbe generare per l'Europa circa 10 miliardi di produzione e lavoro qualificato nei dieci anni – prevede Dario – su uno spazio di meccanica avanzata che è il nocciolo della nostra competitività». Conclude Cingolani: «Gli effetti diffusivi saranno tangibili dall'auto all'aerospaziale all'elettronica, i nuovi principi robotici saranno la chiave dei prodotti futuri. Per questo facciamo squadra. Perché l'Europa faccia una scelta strategica». il welfare automatizzato con i robot di terza generazione i cinque assi di ricerca per la nuova robotica NANOMATERIALI MULTIFUNZIONALI E A NUOVA ENERGIA. La natura ha ottimizzato corpi e consumi energetici per la massima efficienza. Il programma lavorerà a replicarla servendosi dei nanomateriali più avanzati COMPUTAZIONE MORFOLOGICA. La natura ha creato organismi in cui non c'è netta separazione computativa tra cervello e corpo. Così la nuova robotica soft decentrerà il controllo e la computazione sugli organi artificiali. Per esempio flessibili e plastici capaci di adattarsi da soli e fungere da sensori SIMPLEXITY. Simplex è lo schema profondo che la natura ha sviluppato nei corpi. Il controllo dell'ambiente è reso il più semplice, agevole e dinamico possibile. Come i baffi di un gatto, i suoi sensori. Esplorare questa semplicità è una frontiera per l'intera progettazione dei robot del futuro SENSIBILITÀ. Integrare percezione, cognizione e azione è alla base di ogni corretta interazione con l'ambiente del futuro: per operare con gli uomini dovranno trasformare la semplicità e la sensibilità in modelli coerenti SOCIALITÀ. Il programma mira a monitorare e individuare le esigenze sociali per la nuova robotica: dalla cura degli anziani all'ausilio dei lavoratori anche in situazioni di rischio. All'educazione assistita al training Online la photo-gallery con gli utilizzi possibili e i prototipi in corso di realizzazione ______________________________________________ L’Unione Sarda 3 lug. ’12 MEDICO, NON UN NEMICO TRIBUNALE DEL MALATO. La giornata europea dei diritti del paziente Tante denunce ma solo pochissime motivate Seppure nella sanità si registrino numerose eccellenze, il flusso di informazioni è un ambito nel quale si deve ancora migliorare. L'argomento è stato trattato in occasione della sesta giornata europea dei diritti del malato, celebrata all'ospedale Microcitemico di Cagliari. È innegabile che ci si trovi di fronte a una difficoltà: il difetto di comunicazione tra professionisti della salute e pazienti. Fenomeno, questo, che si rivela la causa di numerose segnalazioni di irregolarità inoltrate agli operatori del Tribunale per i diritti del malato. SEGNALAZIONI «Il consenso informato e la comprensione della cartella clinica rappresentano ancora delle grandi lacune della sanità e, i pazienti, scarsamente informati, inoltrano numerose segnalazioni di irregolarità derivanti, molto spesso, da un difetto di comunicazione». Sono le parole di Maria Laura Maxia, coordinatrice territoriale del Tribunale per i diritti del malato, che spiega: «Nella zona di Cagliari ci sono state, l'anno scorso, 700 segnalazioni di presunta irregolarità. Dopo la verifica sono stati confermati 150 casi. Di questi solo il 20% è un caso medico legale». Lo sbilanciamento tra le segnalazioni e i casi accertati, dipende dal fatto che «il difetto di comunicazione porta il paziente a pensare che ci siano errori da parte dei medici», dice la coordinatrice, «quindi, si rende necessario lavorare nell'ottica di migliorare questo aspetto della sanità». MOTIVAZIONI I pazienti che usufruiscono della consulenza offerta dal Tribunale per i diritti del malato, rivelano un panorama variegato delle lamentele, come racconta Franca Pretta, coordinatrice regionale del Tribunale del malato: «Nonostante, negli ultimi anni, la qualità del rapporto coi pazienti sia notevolmente migliorata, ci sono numerose segnalazioni che riguardano liste d'attesa, disservizi e complicazioni a seguito di interventi. Tutti problemi risolvibili attraverso una migliore comunicazione». Nessuna maglia nera in particolare, anche perché «le problematiche legate al disservizio, riguardano soprattutto l'aspetto numerico della questione», spiega Franca Pretta, «è normale che nei reparti in cui il numero dei malati è notevolmente superiore rispetto al personale a disposizione, si crei, con una maggiore frequenza, qualche situazione problematica». Pretta, inoltre, ritiene fondamentale «incentivare una maggiore divulgazione delle informazioni anche per altri ambiti come i servizi sociali, la legge 162 e le modalità per l'esenzione del ticket». COLLABORAZIONE La volontà di chi si occupa di segnalare e porre rimedio alle questioni di scarsa chiarezza, è quella di collaborare con il mondo sanitario e non rappresentarne l'antagonista. A chiarire questo proposito è Sabrina Nardi, della direzione nazionale di Cittadinanza attiva: «Il nostro obiettivo è creare una sistema che conduca medici, personale ospedaliero e pazienti, all'interno di un rapporto fondato sul dialogo e sul confronto». Un fine da perseguire con impegno poiché «negli ultimi tempi, assistiamo all'aumento del fenomeno dei contenziosi in campo medico», spiega Sabrina Nardi, «col rischio che si crei un grosso divario tra le persone che curano e quelle che le cure le ricevono». Matteo Sau ______________________________________________ Il Sole24Ore 7 lug. ’12 SE LE FORBICI ARRIVASSERO NEI POLICLINICI UNIVERSITARI Roberto Turno Certo, il taglio di altri 18mila posti letto (e non solo nel pubblico) non sarà indolore e rischia di creare altre preoccupazioni per l'accesso alle prestazioni che da Roma in giù sono già spesso un lusso. Certo, si dovrà evitare di buttar via il bambinello con l'acqua sporca. Ma non si può dire che l'impostazione in qualche modo più ragionata scritta nel testo finale della spending review, abbia peggiorato l'operazione di razionalizzazione della rete ospedaliera. Molto andrà ancora fatto, molto c'è da perfezionare. Ma pensare gattopardescamente di cambiare tutto per non cambiare niente, antico vizio italico, non è più possibile. Magari aggiungendo ancora qualche dose di buon senso per esempio nel disboscare altre giungle di privilegi. Tanto per non far nomi, quei primariati universitari cresciuti come funghi con posti letto e reparti creati ad arte per baroni e figli di baroni vecchi e nuovi. Quei posti letto baronali sono uno spread che davvero non possiamo più permetterci. ______________________________________________ Corriere della Sera 8 lug. ’12 CURE MIGLIORI CON MINORI SPESE Dall'Europa una lezione per gli Usa di FAREED ZAKARIA M olti liberal credono che l'Affordable Care Act, comunemente conosciuto come Obamacare, sia impopolare solo perché la maggior parte degli americani non lo capisce. Questo è vero solo in parte. Alcuni studi mostrano che gli articoli fondamentali della legge sono più popolari della legge stessa. Ma il vero motivo per cui l'Obamacare preoccupa molti americani è il suo costo. La maggior parte degli americani ha l'assicurazione medica. Ciò che li preoccupa è il costo di assicurare da 20 a 30 milioni di persone in più. A meno che l'innalzamento stratosferico dei costi per la riforma sanitaria non venga contenuto, l'idea di una grande espansione della copertura medica rimarrà impopolare, poco importa come verrà spiegata. Le alternative repubblicane all'Obamacare, come il piano del repubblicano Paul Ryan, non si preoccupano di estendere la copertura, il che è un errore perché lasciano in vita un modello assicurativo palesemente guasto, ma hanno una strategia per controllare i costi: portare i consumatori a pagare più della loro assistenza sanitaria. L'idea di base può sembrare interessante. Sono i mercati a produrre le efficienze e presumibilmente farebbero lo stesso con l'assistenza medica. Ma la situazione suggerisce che in quest'ambito i mercati funzionano in modo imperfetto. Un nuovo studio condotto dalle case farmaceutiche Novartis e McKinsey & Co. rivela significative differenze tra i Paesi per quanto riguarda l'efficacia dell'assistenza sanitaria. Per esempio, la percentuale di fumatori è più alta in Francia che negli Stati Uniti, quindi la popolazione francese è più soggetta a malattie polmonari. Tuttavia il sistema francese è in grado di trattare la malattia molto più efficacemente, con livelli di gravità e fatalità tre volte più bassi rispetto a quelli degli Stati Uniti. Ciononostante la Francia sostiene una spesa di otto volte inferiore rispetto a quella del sistema statunitense sui trattamenti per persona. Per non parlare della Gran Bretagna, che tratta il diabete in modo molto più efficace degli Stati Uniti, spendendo meno della metà di quanto spendiamo noi per persona. Lo studio conclude che il sistema britannico è cinque volte più produttivo nel gestire il diabete. In realtà c'è un caso in cui gli Stati Uniti fanno meglio: la lotta contro il tumore al seno, in quanto lo screening precoce e il facile accesso a trattamenti avanzati fanno del Paese il posto migliore per combattere questa malattia. Ma nel complesso la migliore assistenza per le malattie si ha in Paesi con costi di gran lunga inferiori. Per capire meglio la questione ho parlato con Daniel Vasella, presidente ed ex amministratore della Novartis, nonché medico apertamente favorevole al mercato e al sistema americano, motivi per cui è stato criticato in Europa. Vasella sostiene che non c'è un singolo modello che funziona al meglio, ma che la Francia e la Gran Bretagna combattono con maggiore successo il diabete e le malattie polmonari perché adottano un approccio metodico che dà all'intero sistema sanitario incentivi per concentrarsi sulla diagnosi precoce e sui trattamenti più efficaci e meno costosi e che ha come obiettivo il benessere. «In America», dice, «nessuno ha incentivi per raggiungere risultati di qualità contenendo i costi. I partecipanti sono molti e ognuno vuole proteggere se stesso. Qualcuno dovrebbe chiedersi: "Quali sono gli elementi cruciali per migliorare la qualità?". È per questo che paghiamo, nient'altro». Gli ho chiesto se la lezione che ne ha tratto è che solo lo Stato possa produrre miglioramenti sull'intero sistema. «Mi rincresce ammetterlo, come sostenitore del libero mercato, ma in questo caso è necessario che lo Stato intervenga. L'assistenza medica è molto complessa. Solo a livello sistemico è possibile capire cosa funziona meglio, in base ai dati raccolti, e quali procedure e trattamenti non valgono la spesa», afferma. Gli economisti hanno spesso scritto di aree di «asimmetria dell'informazione», laddove i consumatori non sono abbastanza esperti da poter determinare quale prodotto sia il migliore. Questo si è dimostrato vero per quanto riguarda la sanità. Dopotutto, i consumatori scelgono liberamente di fumare, mangiare cibo spazzatura e tralasciare la prevenzione e tutto questo aumenta le loro probabilità di ammalarsi, oltre al costo della loro polizza sanitaria, abbassando così la qualità della loro vita. È improbabile che, spendendo più soldi individualmente, risolveremo la crisi dei costi dell'assistenza sanitaria. © 2012, Washington Post Writers Group