RASSEGNA STAMPA 28/10/2012 ANVUR: IL PASTICCIO DELLE RIVISTE SCIENTIFICHE ANVUR: IL GARANTE DELLA PRIVACY FERMO A TACITO CRUI: UNIVERSITÀ VERSO CRISI IRREVERSIBILE» MIUR: NEL MIRINO I FONDI SULL'OFFERTA FORMATIVA UNIVERSITÀ, STANGATA PER GLI STUDENTI DAL MINISTERO I FONDI PER I PROGETTI DELL'ATENEO L'UNIVERSITÀ DI LECCE: «I CONCORSI SONO PILOTATI A COSENZA ESAMI DA ZERO IN CONDOTTA CALABRIA: ASINO CHI INSEGNA L'ERASMUS HA 25 ANNI E UN MILIONE DI FIGLI L'UE ASSICURA: ERASMUS CERTO ANCHE NEL 2013 IL GIORNALE: ANCHE NEGLI USA LE CATTEDRE SONO ROSSE GERMANIA: UN TERZO DELLE MATRICOLE CAMBIA "IL PROBLEMA SONO I GENITORI PRETENDONO LAUREE INUTILI" L'INVALSI FA BINGO ALLA MATURITÀ OCSE: IL FIORE DELL'ISTRUZIONE. UN PO' APPASSITO PIÙ ANGLOFILI CHE ANGLOFONI BONCINELLI: SCIENZA BUONA O CATTIVA? IL PICCOLO MOTORE ITALIANO SFIDAI GIGANTI DI GOOGLE LE CHIAVI SEGRETE DEL COMPUTER? PASSWORD PREVEDIBILI FBI: I VIRUS MINACCIANO SMARTPHONE E TABLET VOUCHER E TIROCINI, STANZIATI ALTRI 5 MILIONI TIROCINI SOTTO TIRO, NUOVI FONDI TIROCINI: SEI MESI IN UNA ASL E POI IL SALTO NEL BUIO» IL SITO UFFICIALE DELLA REGIONE AL PRIMO POSTO PER TRASPARENZA L'ALGORITMO CHE COMBINA MATRIMONI E TROVA DOTTORI TRA I SETTE DELL'AQUILA NON C'ERA GALILEO ========================================================= AOB: SE PASSA IL RIORDINO SANITARIO SARÀ EMERGENZA INFERMIERI BARRACCIU DURA REPLICA SUL CASO BROTZU TRAPIANTI, SARDI GENEROSI TRAPIANTI IN CALO DEL 10% NELL’ISOLA TRAPIANTI:C’È IL BOOM DEI DONATORI: 21MILA ALL’AIDO MICROCITEMICO: IL DISTRETTO REGIONALE PEDIATRICO AOB: LE ARMI IN PIÙ PER IL CUORE AOB: SPERIMENTATA UNA NUOVA TECNICA CHIRURGICA IL BILANCIO DELL'ASL 8: PERDITA NETTA DI 15 MILIONI LA SALUTE È UNA FORMULA. MATEMATICA SALUTE, PIÙ CULTURA E MENO RETE «TROPPE INFORMAZIONI ONLINE» SPALLANZANI E LA FECONDAZIONE ASSISTITA COLUZZI: EPISTEMOLOGO DELLE ZANZARE INVALIDI, INPS PERDENTE IN 9 CAUSE SU 10 SI INASPRISCE LO SCONTRO SUL «METODO ZAMBONI» LO SBALLO LEGALE QUEI FARMACI NATI CONTRO IL DOLORE CHE DANNO EUFORIA A ME GLI OCCHI, ANZI L'AMIGDALA ========================================================= __________________________________________________ L’Unità 24 ott. ’12 UNIVERSITÀ, IL PASTICCIO DELLE RIVISTE SCIENTIFICHE Luca Illetterati Filosofo SABATO SCORSO IL PRESIDENTE DELL'AGENZIA NAZIONALE DI VALUTAZIONE DEL SISTEMA UNIVERSITARIO E DELLA RICERCA, il prof. Fantoni, ha risposto, con lettera al Corriere della Sera, all'articolo di Gian Antonio Stella che ironizzava sugli esiti imbarazzanti della classificazione delle riviste scientifiche prodotta dall'Agenzia; classificazione secondo la quale la Rivista del clero italiano, il Sole24ore, l'Annuario del Liceo di Rovereto e molte altre riviste simili vengono riconosciute come «scientifiche». Gli argomenti che il presidente Fantoni produce a difesa dell'operato dell'Anvur risultano però, a loro volta, imbarazzanti. Proviamo a scorrerli. In primo luogo, dice Fantoni, le banche dati su cui l'Agenzia ha dovuto lavorare erano in sostanza inutilizzabili, ma erano le uniche a disposizione. Il fatto però era noto a tutti. E molti da mesi insistono nel dirlo: procedere a partire da quella base di dati è un suicidio preventivo. Essa, infatti, altro non è che la raccolta di quanto i docenti immettono nelle loro pagine personali. E i docenti, che fanno a volte anche opera di divulgazione, immettono oltre alle pubblicazioni scientifiche anche pubblicazioni che attestano una funzione che hanno svolto. Possedere infatti queste informazioni può essere utile per gli atenei qualora volessero considerare i rapporti tra la ricerca che producono e l'impatto nella discussione pubblica che essa suscita. Le riviste che hanno fatto scandalo, continua Fantoni, ci sono perché qualche docente le ha inserite. L'argomento è assai grave perché ancora una volta con esso l'Anvur sembra scaricare su altri responsabilità che sono invece solo e tutte sue. Tocca infatti all'Anvur, non ai docenti, certificare lo status delle riviste. Scaricare la responsabilità sui docenti, oltre che sbagliato, è anche testimonianza di un atteggiamento di contrapposizione del tutto inadeguato per una Agenzia di Valutazione. Peraltro, continua Fantoni, i docenti hanno inserito queste pubblicazioni perché così potevano ottenere più finanziamenti dal calcolo meramente quantitativo delle pubblicazioni da parte degli atenei. Ora, siano o no appropriate simili dichiarazioni rese da una carica istituzionale come quella che il presidente Fantoni ricopre, è bene che si sappia che in moltissimi atenei da tempo si vanno elaborando criteri per distinguere tra le diverse tipologie di pubblicazione da considerare in relazione all'allocazione di fondi. Ciò di cui il presidente Fantoni sembra non rendersi conto è che l'Anvur, con il suo censimento, ha di fatto avvalorato le peggiori pratiche. Quegli atenei che avevano avviato da anni un lavoro di scrematura tra pubblicazioni si trovano infatti, in questo momento, in una situazione persino di imbarazzo, vedendosi i loro docenti riconoscere come scientifici dall'Agenzia contributi che l'ateneo aveva ritenuto, invece, di non considerare tali. L'Anvur, dice poi il presidente Fantoni, ha dovuto lavorare in fretta, senza un'anagrafe nazionale della ricerca, e lo ha fatto per poter avviare le procedure di abilitazione (i concorsi). Anche qui, se l'Anvur avesse da subito dato chiaramente avviso, quando si era ancora in tempo, di ciò che in concreto poteva fare, non si sarebbe arrivati al punto in cui si è arrivati. L'argomento però è, in questo caso, ancora più grave: poiché non c'era tempo e non c'erano i dati per fare quello che si doveva fare, dice Fantoni, si è fatto quello che si poteva fare. Ma svolgere un lavoro che non si ha il tempo tecnico e la possibilità concreta di svolgere non è un'attenuante. Chi svolge un lavoro sapendo di non poterlo svolgere bene non solo fa un cattivo lavoro, ma soprattutto si comporta male e di fatto «inganna» coloro ai quali quel lavoro è rivolto. L'ultimo argomento prodotto da Fantoni è forse il più contraddittorio. È facile adesso irridere al titolo di alcune di queste riviste, dice: in realtà, molte di esse contengono a volte contributi scientifici. Ma che in alcune di esse ci possano essere contributi scientifici non si fatica a crederlo. Il problema è che l'Anvur non stava valutando i contributi, ma le riviste; e doveva farlo secondo criteri che l'Agenzia stessa si è data e che il suo lavoro invece smentisce in non pochi casi. Questo è un punto nodale perché in questa sorta di confusione si cela una delle questioni più gravi che stanno alla base del processo valutativo messo in moto da Anvur e Ministero, e cioè la pretesa di valutare i singoli contributi (e dunque, nel caso dell'abilitazione, di fatto, le persone) a partire dal contenitore nel quale i contributi sono stati pubblicati. Pratica, questa, gravida di conseguenze in relazione alle politiche della ricerca e che non ha, a mia conoscenza, alcun modello scientifico internazionale di riferimento. L'Anvur si è assunta del tutto impropriamente un compito pedagogico pretendendo di indicare dall'alto, attraverso dispositivi normativi e automatismi rozzi, le politiche della ricerca. Io non credo che un'agenzia di valutazione abbia compiti di questo tipo. E se proprio vuole avere intenti pedagogici li esplichi assumendosi la responsabilità delle proprie decisioni, rispettando le regole che l'Agenzia stessa si è data e rendendo conto in modo trasparente del modo in cui ha agito. __________________________________________________ Corriere della Sera 27 ott. ’12 ANVUR: IL GARANTE DELLA PRIVACY FERMO A TACITO Di ANDREA ICHINO I dipendenti pubblici sono al servizio della collettività e sono pagati, con fatica, dalle tasse che gravano sui cittadini e sulle imprese. Tutti abbiamo bisogno dei dipendenti pubblici e per questo dovremmo essere contenti di pagare con le tasse il loro lavoro, purché utile e ben fatto. Ma solo la trasparenza totale sull'operato di questi «nostri» dipendenti, dai vertici dello Stato all'ultimo dipendente comunale, consente l'indispensabile controllo sul buon uso di quel che a loro diamo. Un controllo, quello esercitato direttamente dalla cittadinanza, molto più potente di quello consentito da qualsiasi controllore istituzionale; e ora reso ancora più efficace da Internet. Proprio per questo l'articolo 19 del Codice della Privacy dice: «Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione sono rese accessibili dall'amministrazione di appartenenza». E l'articolo 4, lettera h), della legge n.15/2009 impone alle amministrazioni di «assicurare la totale accessibilità dei dati relativi ai servizi resi dalla pubblica amministrazione tramite la pubblicità e la trasparenza degli indicatori e delle valutazioni operate da ciascuna pubblica amministrazione, anche attraverso: 1) la disponibilità immediata mediante la rete Internet di tutti i dati sui quali si basano le valutazioni, affinché essi possano essere oggetto di autonoma analisi ed elaborazione; 2) il confronto periodico tra valutazioni operate dall'interno delle amministrazioni e valutazioni operate dall'esterno, ad opera delle associazioni di consumatori o utenti, dei centri di ricerca e di ogni altro osservatore qualificato». Sebbene il contenuto di queste norme appaia insolitamente chiaro, il garante per la protezione dei dati personali, contraddicendo la Commissione per la Valutazione e la Trasparenza delle Amministrazioni (Civit), ha affermato nei giorni scorsi che il principio di tutela della privacy impedisce la conoscibilità dei voti che l'Anvur (Agenzia Nazionale per la Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) darà alle tre migliori pubblicazioni che ciascun professore universitario ha sottoposto per la Valutazione della Qualità della Ricerca-Vqr 2004-2010. Dell'opportunità di assicurare questa forma di trasparenza per un'adeguata valutazione dell'efficienza del sistema universitario, abbiamo già parlato su queste pagine (Corriere, 14 giugno 2012). Il Garante pone invece una questione più grave: sostiene, cioè, che in questa materia il principio generale prevalente deve essere quello della non conoscibilità di qualsiasi dato attinente a una persona fisica, anche quando sia in gioco lo svolgimento di una funzione pubblica. Gli utenti possono saperne qualcosa solo se una norma legislativa esplicitamente lo prevede. Si obietterà che qui la norma legislativa, come si è appena visto, c'è eccome. Vediamo gli argomenti — per noi davvero stupefacenti — con i quali il Garante supera questa obiezione. Poiché il Codice della Privacy prevede che le informazioni siano rese accessibili dall'«amministrazione di appartenenza» — sostiene il Garante — dovrebbe essere l'Università a farlo e non l'Anvur. Benissimo, direte voi: perché allora il Garante non autorizza senz'altro l'Università a farlo? Risposta: perché la legge non lo prevede specificamente. Ma non abbiamo appena visto che la legge n. 15/2009 lo prevede con disposizioni inequivocabili e di portata molto ampia? Niente da fare, risponde il Garante: queste disposizioni — ascoltate bene — non «paiono costituire idonea base normativa, non applicandosi al "personale in regime di diritto pubblico" che ricomprende, come noto, anche i professori e ricercatori universitari», ovvero il personale «non contrattualizzato». L'idea che si possa colmare questa lacuna con una facile estensione di quelle disposizioni in via analogica viene respinta proprio sul presupposto che la conoscibilità dovrebbe considerarsi come eccezione. Il risultato è che la prestazione dei professori, essendo «un po' più pubblica», paradossalmente invece di essere un po' più conoscibile finisce coll'esserlo un po' meno! Gli arcana imperii et dominationis, scriveva Tacito, sono lo strumento con cui da sempre i governi, soprattutto quelli peggiori, hanno difeso il proprio potere nascondendo ai cittadini le informazioni necessarie per poter giudicare e intervenire, spodestando i governanti malfattori, i loro ministri e le caste da loro dipendenti. Mentre nel resto del mondo democratico avanzato i Freedom of Information Acts sanciscono la trasparenza totale delle amministrazioni pubbliche, il nostro Garante sembra rimasto ai tempi di Tacito. andrea.ichino@unibo.it __________________________________________________ Avvenire 27 ott. ’12 CRUI: UNIVERSITÀ VERSO CRISI IRREVERSIBILE» L'allarme dei rettori: servono subito 550 milioni e il 40% di turn over dei docenti. Intanto, le rette aumentano del 7% ROMA. Le università ricevono di meno, gli studenti pagano di più. Due constatazioni che restituiscono la fotografia di un settore che vive una situazione di forte disagio. I rettori, riuniti ieri in assemblea, hanno lanciato l'ennesimo allarme. Servono almeno - hanno detto - 550 milioni di euro e il ripristino della quota del 40% per quanto riguarda il turn over perché il sistema universitario italiano «sta ormai precipitando in una crisi irreversibile tale da minare l'immagine internazionale del Paese e le sue prospettive di sviluppo». Una denuncia grave sostenuta da alcune considerazioni: il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) non riesce a coprire neppure la somma delle spese fisse delle Università; il numero di docenti e di ricercatori si è ridotto negli ultimi quattro anni di oltre il 10%; il permanere del blocco del turn-over, fissato al 20% dalla legge di spending review, oltre a ridurre ulteriormente e in misura «intollerabile» il ricambio degli organici dei docenti (le università si troveranno prive di docenti di prima fascia che, negli ultimi 4 anni, si sono ridotti di oltre il 20%) è in stridente contrasto - sostengono i rettori - sia con l'avvio dei percorsi abilitativi ex lege 240/2010 sia con la procedura di accreditamento dei corsi di studio da parte dell'Anvur, l'Agenzia per la valutazione del sistema universitario e della ricerca.A fronte di questa situazione si registra un aumento delle tasse universitarie, mediamente del 7% rispetto al 2011 pari a un aggravio di 70,68 euro.A registrare il fenomeno è una ricerca della Federconsumatori secondo cui, paradossalmente, a risultare particolarmente penalizzati sono gli studenti che rientrano nelle fasce di reddito più basse. Considerando la media nazionale dell'importo per la prima fascia di reddito (fino a 6mila euro) l'aumento è stato, infatti, dell'I 1,3%, attestandosi invece al 10% per gli studenti che appartengono alla seconda fascia (fino a 10mila euro) e al 2,8% per chi fa parte della terza (fino a 20mila euro). __________________________________________________ Il Sole24Ore 23 ott. ’12 MIUR: NEL MIRINO I FONDI SULL'OFFERTA FORMATIVA Tecnici ai lavori' Ne' 2013 servono almeno 183 milioni da reperire nel bilancio del Miur ROMA La soluzione al rebus sull'orario dei docenti potrebbe arrivareare dal «Mof». Dietro questo acronimo, forse sconosciuto ai più, si nasconde il fondo per il miglioramento dell'offerta formativa», uno dei pochi capitoli di bilancio del Miur di sopportare un taglio di quasi 183 milioni. Quelli che servirebbero a garantire il contributo del ministero dell'Istruzione nella misura chiesta dalla spending review per il 2013 e ribadita dal Ddl stabilità. Ma non sono escluse ricette alternative visto che, dalle parti di viale Trastevere, la ricerca di coperture diverse dall'innalzamento da i8 a 24 ore, a parità di stipendio, dell'orario di lavoro dei docenti è appena partita. Quella del «Mof» per ora è solo un'ipotesi nata in ambienti tecnici. Sono due gli "indizi" che conducono al forldo che serve a retribuire i progetti messi in campo dalle varie scuole in nome dell'autonomia come possibile "bersaglio" delle riduzioni di spesa imposte al dicastero guidato da Francesco Profumo: la rigidità estrema del bilancio dell'Istruzione che è assorbito per oltre il 90% dai costi del personale; l'impossibilità dimettere mano al fondo di funzionamento delle scuole che dopo alcuni anni è stato rimpinguato LE ALTRE PROPOSTE Pd chiede di attingere alle risorse di Difesa e Farnesina, il POI mette nel mirino le consulenze, l'Idv pensa ai finanziamenti per le private seppure non nella misura auspicata dagli istituti e, soprattutto, dalla famiglie. Ma non è detto che la soluzione passi, poiché al «Mof» fanno riferimento anche la contrattazione collettiva e i trattamenti accessori di insegnanti e Ata. Per cui difficilmente i sindacati vedrebbero di buon occhio una sforbiciata. Ma il problema resta anche perché vanno reperiti 182,9 milioni per il 2013,172,7 milioni per il 2014 e 236,7 milioni per il 2015. Per ora il ministero ha escluso che allo studio ci sia la possibilità di innalzare almeno a 21 ore la presenza nelle classi dei docenti come era stato ipotizzato in ambienti parlamentari nei giorni scorsi. E ciò nonostante il recente rapporto «Education at a glance 2012» dell'Ocse abbia testimoniato come il carico di orario annuale sui nostri professori sia inferiore a quello della media degli altri Paesi industrializzati. A fare dell'orario a 18 ore la propria "linea del Piave" è soprattutto il Pd. Specie per gli effetti che la misura avrebbe sulle supplenze oggi affidate ai precari. E sono soprattutto i democratici che ieri si sono affannati nel cercare fonti di prelievo alternative. La responsabile scuola del partito, Francesca Puglisi, ha proposto di «mettere mano alla spesa corrente del ministero della Difesa: su n miliardi - ha aggiunto - lo oa . potrebbe essere destinato all'Istruzione». Proponendo, in alternativa, di volgere lo sguardo dalle parti della Farnesina e decurtare le diarie del personale di ambasciata oppure di risparmiare all'interno del comparto Istruzione adottando dei software open source. Alla ricerca di coperture alternative anche il Pdl. Un "no" all'aumento dell'orario è giunto anche dall'ex ministro Mariastella Gelmini mentre la responsabile scuola del partito, Emanuela Centemero, ha detto che si sta guardando sia ai risparmi «che riguardano la dirigenza e le consulenze del ministero dell'Istruzione che quelli di altri ministeri». D'accordo sullo stralcio della norma infine anche l'Udc, che non ha ancora formulato una proposta alternativa, e l'Idv, che ha individuato invece nei 223 destinati agli istituti privati dalla stessa legge di stabilità la "posta" di bilancio aggredibile. _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 27/10/2012 UNIVERSITÀ, STANGATA PER GLI STUDENTI Il rettore Giovanni Melis chiede alla Regione di intervenire: «Per abbattere i costi, le soluzioni ci sono» La tassa regionale passa da 62 a 140 euro: «Colpa della manovra» Frequentare l'Università costa sempre di più. Non piace per nulla agli studenti e alle famiglie l'aumento della “tassa per il diritto allo studio”, passata da 62 a 140 euro. Una crescita senza precedenti. Facendo i calcoli, per accedere a qualsiasi facoltà gli studenti e le loro famiglie dovranno spendere dai 193 ai 2.653 euro a seconda del reddito, a cui vanno aggiunti proprio la tassa per il diritto allo studio (140 euro) e tre contributi: per la mobilità internazionale (5,87 euro), per la Siae (2,15) e per la facoltà in cui ci si iscrive (importo che varia dai 42 ai 148 euro). In pratica, a seconda della fascia di reddito che si occupa, il costo per frequentare le aule dell'Ateneo del capoluogo va da 387 a 2954 euro. IL RETTORE «Siamo preoccupati per l'aumento della tassa per il diritto allo studio - dichiara il rettore dell'Ateneo, Giovanni Melis. Ma gli studenti la pagheranno a febbraio, quindi la Regione ha ancora il tempo per risolvere questa situazione, che noi avevamo fatto presente diverso tempo fa». Le alternative, secondo il massimo esponente dell'università cagliaritana, ci sono: «Spero quanto meno si possa abbassare l'importo della tassa - spiega Melis - oppure farla pagare in proporzione al reddito. Sono molto dispiaciuto per questo aumento, anche perchè noi non ci guadagnamo nulla». LA DENUNCIA L'allarme è stato lanciato anche da “Casaggì Cagliari”, comunità giovanile che racchiude tutti i ragazzi dai 14 ai 30 anni e che difende il diritto allo studio: «La Regione conferma di non essere interessata alla formazione dei giovani - spiegano dall'associazione - e il tutto a fronte di un calo verticale nella qualità dei servizi erogati dall'Ersu». Casaggì denuncia infatti il calo delle borse di studio e la chiusura di alcune Case dello studente della città. «E l'aumento della tassa sarebbe dovuto alla “spending review” - prosegue Casaggì - votata dai partiti della maggioranza di Governo. Chiediamo che nella prossima Finanziaria regionale siano stanziate risorse adeguate». PROTESTA IN REGIONE Dell'argomento si è occupato il capogruppo Pd in Consiglio regionale, Giampaolo Diana: «Il presidente della Giunta e l'assessore della Pubblica istruzione devono provvedere con la massima urgenza a ridimensionare al minimo l'aumento della tassa Ersu che grava sulle tasche degli studenti e delle loro famiglie». Diana ha deciso di intervenire dopo aver raccolto l'appello degli studenti e dei Rettori degli atenei sardi. «L'inadempienza dell'assessore della Pubblica istruzione sul versante legislativo - attacca l'esponente del centrosinistra - è inqualificabile». Piercarlo Cicero _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 27/10/2012 DAL MINISTERO I FONDI PER I PROGETTI DELL'ATENEO La ricerca è sempre più il fiore all'occhiello dell'Ateneo cagliaritano. Per la selezione dei Progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin), l'università del capoluogo sardo vola con ben 31 progetti finanziati, di cui quattro con coordinatore nazionale. Il tutto, in un quadro di drastica riduzione dei “Prin” finanziati: si è infatti passati dai 543 del 2009 ai 249 attuali, su 699 presentati. Ovvero, solo il 35,6 per cento, per il 2010/11, è stato ammesso al finanziamento. Insomma, in un periodo di crisi e di diminuzione dei finanziamenti, l'Ateneo cagliaritano riesce comunque a ottenere grandi risultati. In particolare, i quattro coordinatori di progetti nazionali dell'ateneo finanziati dal Miur ottengono 2.588.952 euro. Il poker di scienziati è composto da Giovanni Biggio (Scienze della vita, 768.810 euro), Amedeo Columbano (Scienze biomediche, 862.675 euro), Loredana Lucarelli (Pedagogia, psicologia, filosofia, 632.960 euro) e Fabiano Schivardi (Scienze economiche, giuridiche, politiche, 324.507 euro). Entusiasta il rettore Giovanni Melis: «I prestigiosi riconoscimenti sui Prin riflettono l'impegno delle diverse componenti scientifiche e organizzative dell'ateneo. Il trend di crescita della ricerca scientifica del nostro ateneo, in ambito locale e nazionale, è frutto di una solida e accorta politica di relazioni e di supporto organizzativo». «La nostra Università è presente nel 12,4 per cento dei progetti finanziati, con un notevole incremento rispetto ai risultati del 2009 e del 2008, pari al 4,7 e 5,6 per cento» spiega Francesco Pigliaru, pro rettore ricerca e rapporti istituzionali. __________________________________________________ Libero 24 ott. ’12 L'UNIVERSITÀ DI LECCE: «I CONCORSI SONO PILOTATI Fascicolo in Procura I sindacati registrano il direttore: «In questo ateneo raziona così» GIANLUCA VENEZIANI ME M «In tutti i concorsi amministrativi dell'Università di Lecce ci sono commissioni pilotate». A dirlo, stando alle registrazioni finite nelle mani della Procura, e pubblicate nei giorni scorsi dalla Gazzetta del Mezzogiorno, è lo stesso direttore generale dell'Ateneo, Emilio Miccolis, nei cui confronti la Procura del capoluogo salentino ha aperto un fascicolo con le accuse di abuso d'ufficio e violenza privata. Miccolis - ora sospeso - avrebbe pronunciato quella frase durante una conversazione con il sindacalista Cgil e dipendente della stessa Università, Manfredi De Pascalis, che ora ha deciso di denunciarlo e di rivelare le pressioni da questi ricevute. Miccolis, infatti, non si sarebbe limitato a svelare il sistema di «scelte strategiche» nelle nomine dei commissari, ma avrebbe anche cercato di "ammorbidire" De Pascalis, comprando il suo silenzio, in cambio di una contropartita. «Il mio modus operandi», rivela aLibero il sindacalista, «era ritenuto scomodo. Per questo Miccolis mi chiamava "rompicoglioni". In diverse relazioni da me inviate al dg e al rettore in qualità di responsabile dell'Ufficio reclutamento, avevo indicato alcune stranezze nella composizione delle commissioni giudicatrici. Ad esempio, per un concorso amministrativo, figuravano in commissione un fisico e un ingegnere. Fatto curioso, non trova? Un'altra volta invece, in un concorso per cui era richiesta la conoscenza del diritto amministrativo, mancavano del tutto in commissione i professori di diritto. Ma non basta. Alcuni membri della commissione erano delegati direttamente dal rettore, insomma nominati secondo logiche politiche». De Pascalis ha denunciato più volte queste irregolarità. E puntuale è arrivata la reazione di Miccolis. «Il dg», continua il sindacalista, «all'inizio mi ha chiesto di trasferirmi in un altro ufficio, ma io quella lettera di trasferimento non l'ho mai spedita. Così è stato lui, alla fine, a trasferirmi dall'Ufficio reclutamento all'Ufficio pensioni». A quel punto è partita la denuncia di De Pascalis e di un altro sindacalista Tiziano Margiotta (Uil), a cui Miccolis (il quale, da noi contattato, ha preferito non rilasciare dichiarazioni) avrebbe detto: «Io e il rettore vogliamo metterti a capo dell'ufficio web. Però tu ti devi stare un po' quieto, fratello mio». Il rettore dell'ateneo, Domenico Laforgia, tenta di fare chiarezza: «Le commissioni», avverte, «sono state composte tutte da persone incorruttibili e di specchiata moralità e nei confronti di Margiotta ho cercato solo un posto dove lui potesse finalmente lavorare». Al momento Laforgia si è limitato a sospendere dal suo incarico il direttore generale Miccolis. La vicenda dell'Università di Lecce è intanto diventata un caso politico. L'onorevole Pdl, Alfredo Mantovano, insieme ad altri 54 deputati, ha fatto interpellanza ai ministri dell'Istruzione e della Funzione pubblica per far luce sul comportamento del dg. In difesa del rettore e del suo operato, nel frattempo, si è schierato il sindaco di Bari, Michele Emiliano, che ha fatto riferimento a una vicenda risalente al 2009. Allora, in un concorso per tre assistenti, il rettore e il dg avevano sospeso la prova, accusando alcuni esaminandi di aver copiato. Ma sia un parere della Procura che una sentenza del Tar avevano smentito quell'accusa. La sospensione di quella prova apparentemente irregolare sarebbe la conferma, secondo Emiliano, che il rettore ha sempre fatto «il proprio dovere». Ciò che interessa ora a De Pascalis è però essere reintegrato nel suo ruolo. «Mi aspetto», avverte, «che il rettore revochi il mio trasferimento e mi restituisca all'incarico che mi è stato tolto». Ma il rettore risponde picche: «De Pascalis non è stato trasferito, piuttosto non gli è stato rinnovato un incarico che non gli spettava di diritto». L'INDAGINE La procura di Lecce ha aperto un fascicolo contro Emilio Miccolis (sopra nella foto), il direttore generale dell'ateneo salentino per abuso d'ufficio e violenza privata. Il dg è stato sospeso dalla carica. «COMMISSIONI PILOTATE» A dare il via alle indagini sarebbe stata una frase pronunciata da Miccolis ad un sindacalista della Cgil, Manfredi De Pascalis: «In tutti i concorsi amministrativi dell'Università di Lecce ci sono commissioni pilotate» __________________________________________________ Manifesto 21 ott. ’12 A COSENZA ESAMI DA ZERO IN CONDOTTA Università: Esami taroccati, statini falsificati con firme false dei docenti. Studenti, tutor, segretari di Arcavacata indagati nell'inchiesta «110 e lode». CALABRIA • 75 persone sotto inchiesta, aggirato il sistema informatico per falsificare le registrazioni Claudio Dionesalvi COSENZA L’inchiesta è stata battezzata con un nome evocativo, quasi un contrappasso: «110 e lode». I pubblici ministeri della procura di Cosenza hanno così potuto dare sfogo all'umorismo. Ma in queste ore non c'è spazio per l'ironia sulla scrivania del rettore dell'università della Calabria, Giovanni Latorre. Nei cieli di Arcavacata s'è spalancato un buco nero mediatico all'indomani dell'apertura del fascicolo giudiziario su un presunto gigantesco giro di lauree in parte conseguite dopo aver sostenuto esami fantasma. E un gorgo che rischia di risucchiare la credibilità e la storia dell'ateneo. In principio, indagati erano solo studenti, tutor e segretari. Secondo le accuse avrebbero falsificato statini e procedure di registrazione degli esami. A scoppio ritardato è esplosa la recente iscrizione nel registro degli indagati di un docente e dell'ex caporedattore della sede Rai di Cosenza, Pino Nano. Secondo i titolari dell'inchiesta, a partire dalla metà del decennio scorso sarebbero stati confezionati centinaia di statini "taroccati" per attestare il superamento di esami in realtà mai sostenuti, falsificando le firme dei docenti. Tutto ciò sarebbe stato possibile aggirando il complesso sistema informatico interno dell'Unical. È evidente che si trattava di un sistema assai poco funzionale, se è vero che solo pochi giorni fa lo stesso rettore s'è dovuto recare nuovamente in procura per consegnare centinaia di statini "dimenticati" in qualche armadio della segreteria. L'ultima documentazione consegnata agli atti, potrebbe servire a sollevare da responsabilità molti degli studenti indagati. Perché le vere vittime in quello che fino al terzo grado di giudizio resterà un pasticcio burocratico-tecnologico, sono gli innocenti risucchiati nel vortice giustizialista, quelli che la laurea se la sono sudata, però a distanza di anni sono chiamati a dimostrarlo. E pare siano davvero in tanti. Prima li hanno convocati in procura e interrogati come criminali. Poi sbattuti in prima pagina, con tanto di nome e cognome. Pesanti i sospetti: forse hanno comprato gli esami? Oppure se li sono fatti regalare? Di certo, adesso possono soltanto aspettare che la giustizia segua il suo lungo corso. Vivranno i prossimi sei o sette anni della loro esistenza con l'incubo di vedersi revocato il titolo di studio. È questo l'amaro destino toccato a un'ottantina di laureati presso l'università della Calabria. Indagati, umiliati, sospettati! Tutto è nato da una denuncia presentata dal rettore Latorre sulla base della segnalazione di un docente che non ha riconosciuto la propria firma apposta su uno statino. Alla fine, s'è scoperto che le firme false in effetti sarebbero tante. Di chi è la responsabilità? Intanto l'università si divide tra innocentisti e colpevolisti. Qualcuno sostiene che segnalazioni di irregolarità si registrano da anni Sul versante dei movimenti studenteschi, tutti esprimono cautela e critiche strutturali. Per Davide Merando, del laboratorio politico Ateneo Controverso, «siamo di in presenza della perfetta realizzazione delle contraddizioni innescate da chi ha concepito l'università seguendo logiche di mercato. Quando i saperi diventano un feticcio. ci si deve aspettare di tutto». Secondo Daniela Ielasi, direttrice di Fatti al cubo, periodico indipendente dell'Unical, tutto, o quasi, è destinato a sgonfiarsi. «Innocenti fino a prova contraria: ecco la nostra opinione sui 75 indagati dell'inchiesta "110 e lode" condotta dalla Procura di Cosenza nei confronti di tanti studenti e laureati dell'Unical. Garantisti senza se e senza ma, come dovrebbero essere Rettore, Preside, docenti e amministrativi che si professano vicini agli studenti e invece li abbandonano in una vicenda così delicata. A noi — spiega Lelasi - sembra che il pm Tridico stia colpendo nel mucchio, tirando dentro questa mastodontica indagine anche quegli studenti che hanno conseguito la laurea con onestà e sacrificio. Alcuni hanno già raccontato al pm la loro verità, qualcuno la sta raccontando ai giornalisti, altri sfogano la propria rabbia sul web, molti sono spaventati, si affidano agli avvocati, si chiudono in silenzi amareggiati». Se responsabilità ci sono, secondo lelasi bisogna individuarle in alto: «La parte lesa in tutta questa vicenda sono proprio gli studenti, e lesi doppiamente: una volta quando in prossimità della laurea, all'atto della ricostruzione della carriera in segreteria, hanno scoperto che l'esame (spesso più di uno) che avevano regolarmente sostenuto non risultava caricato; invece di pensare alla discussione della tesi, hanno dovuto sbattersi per tutta l'università, rintracciare il professore e registrare nuovamente, qualcuno ha dovuto rifare l'esame perché intanto il professore era cambiato, oppure ha dovuto rinviare la laurea pagando altre tasse». In sintesi: «L'università dovrebbe assumersi la responsabilità della propria disorganizzazione invece di costituirsi parte civile». NESSUNO SI DIMETTE Tuttavia, è difficile che qualcuno compia il dignitoso gesto di dimettersi. Da queste parti, non si usa farlo. Ed è assai improbabile che si riesca ad individuare qualche livello più alto. Nessuna delle recenti iniziative della procura contro la corruzione e il malaffare, ha colpito le locali gerarchie politiche. In ogni caso, bisognerà lavorare molto di fantasia per restituire all'università della Calabria l'immagine decorosa imbrattata dalle vicende degli ultimi mesi. Sarà importante riconnettere questo luogo con la fiducia di chi lo sceglierà per formarsi. Ma guai a creare nuovi miraggi! Perché in fondo un "ponte sullo stretto", in Calabria, alla fine è stato pure realizzato. È proprio il gigantesco ponte "Bucci" di Arcavacata, che unisce i diversi dipartimenti dell'Unical. Il campus che i padri di questa istituzione sognavano di costruire per consentire ai giovani calabresi di studiare è rimasto un'idea priva di costrutto. Gli studenti provenienti dai quattro angoli della regione si limitano a popolarlo negli orari di lezione. Nessun reale collegamento culturale e professionale è stato allacciato col restante territorio. I neolaureati escono da questa università spaesati né più né meno di tanti altri loro colleghi formatisi presso altri atenei. La differenza di fondo però è che in Calabria, forse più che altrove, si vive e lavora in una condizione di servitù della gleba, a prescindere dal titolo di studio che si inserisce nel proprio curriculum. Che di per sé sarebbe carta straccia. Figuriamoci quando lo si è ottenuto in un'università che finisce tutti i giorni in prima pagina per vicende che sembrano uscite da un filmetto di serie B. __________________________________________________ Corriere della Sera 26 ott. ’12 CALABRIA: ASINO CHI INSEGNA Università della Calabria: "esame di amissione Skuola, scuola, squola: come si scrive correttamente?». Se va avanti così in certe aree d'Italia, per non svuotare le università, saranno costretti a fare dei test d'accesso simili a questo. Lo dimostra un comunicato della commissione d'esame chiamata a valutare i ragazzi che volevano iscriversi al corso di Scienze della Formazione primaria dell'Università della Calabria, corso che, secondo il ministero, dovrebbe «fornire le conoscenze teoriche e le competenze operative necessarie per lo svolgimento delle attività educative e didattiche nella scuola dell'infanzia e nella scuola elementare». Insomma, preparare i maestri e le maestre. Spiega dunque la commissione presieduta dal professore di Letteratura italiana Nuccio Ordine e composta dai docenti Assunta Bonanno (Fisica sperimentale) e Giorgio Lo Feudo (Filosofia del linguaggio) di essere stata costretta a bocciare 592 su 647 concorrenti perché troppo somari per l'università calabrese sconvolta in queste settimane dallo scandalo con migliaia di indagati sulle lauree taroccate. E questo nonostante i test fossero stati semplificati proprio nel tentativo di non assistere alla strage dell'anno scorso, quando solo poco più di cento ragazzi erano sopravvissuti alla carneficina selettiva. Almeno i tre quarti dei giovani, spiega il comunicato, hanno «risposto in maniera errata a domande assolutamente facili. (...) L'analisi degli errori denota una scarsa conoscenza della grammatica italiana, dei principi elementari di matematica e di fisica e delle nozioni di base della storia letteraria». Quello che ha falciato la maggior parte dei candidati è stato il quesito seguente: «5 ragazzi hanno la maglia rossa e 7 la maglia blu. Domanda: ci sono aggettivi numerali?». Chiedetelo a qualunque maestra elementare: gli aggettivi numerali vengono insegnati ai bambini quando hanno nove anni e sono in quarta. Bene: potendo scegliere fra quattro alternative «ben 573 candidati non hanno individuato la risposta corretta, mostrando di non essere in grado di distinguere il 5 come aggettivo numerale dal 7 come pronome». Andiamo avanti: «Analoghe conclusioni si possono trarre dal risultato di un altro quesito (collocato al sesto posto nella classifica delle dieci domande rivelatesi più ostiche): "Questi quadri sono molto belli, quelli sono orribili. Domanda: Quanti sono gli aggettivi dimostrativi?". Anche in questo caso ben 535 candidati non hanno saputo individuare l'unico aggettivo dimostrativo ("questi") presente nella frase». Altra domanda da quarta elementare. Non tutti gli italiani saprebbero rispondere? Vero, Ma per chi vuole iscriversi all'università e fare il maestro almeno un ripasso era obbligatorio. Ma non basta. Oltre ai quesiti di natura scientifica, disastrosi per gli aspiranti insegnanti, anche gli altri erano «ispirati esclusivamente ai test Invalsi per la scuola media inferiore» ed «erano stati selezionati con criteri nettamente al di sotto delle competenze richieste agli studenti da immatricolare a Scienze della Formazione primaria». Una strage anche qui. Insomma, ha spiegato Ordine al Quotidiano, «dai risultati dei test viene fuori che la preparazione era molto al di sotto della barra di decenza». E questo nonostante dalle scuole superiori calabresi escano ogni anno moltitudini di diplomati dai voti non alti ma altissimi. A questo punto, «bisognerà avviare una riflessione. Il problema è che nel Paese si sta abbassando sempre più il livello dell'insegnamento a partire dalle università per passare alle scuole superiori, alle medie e così via: è la logica che ha ispirato tantissime riforme contro cui ci siamo scagliati». __________________________________________________ Italia Oggi 25 ott. ’12 L'ERASMUS HA 25 ANNI E UN MILIONE DI FIGLI Nate migliaia di coppie grazie al programma Ue. Che ora è in bilico Ha 25 anni e un milione di figli. Ma ora lotta per la sua sopravvivenza. Erasmus, il programma che dal 1987 permette agli studenti del Vecchio continente di studiare in un altro paese europeo diverso dal proprio, è, come noto, sull'orlo del fallimento. E se il commissario europeo per la programmazione finanziaria e il bilancio, Janusz Lewandowski, è riuscito a spuntare 90 milioni di euro che potranno pagare le fatture già emesse per il 2012, per l'anno prossimo l'incertezza è totale. Quel che è certo è che Erasmus ha cambiato il volto dell'Europa ed è all'origine di centinaia di migliaia di unioni e, secondo i calcoli dell'eurodeputato Alain Lamassoure, di quasi un milione di figli. Proprio Lamassoure ha lanciato l'allarme sui finanziamenti di Erasmus, «per costringere gli stati a reagire». Del resto, con una figlia francese, un genero spagnolo e due nipoti nati durante le peregrinazioni dei genitori, l'eurodeputato è molto sensibile all'argomento. Una decina di anni fa sua figlia Hélène, studentessa di letteratura alla Sorbona, decise di approfittare di un accordo di scambio con l'università di Saint Andrews, in Scozia. Qui incontrò un giovane ornitologo spagnolo, del quale ben presto si innamorò. Qualche tempo dopo nacque Pablo, seguito da Oscar: due bambini Erasmus come tanti altri. Secondo Lamassoure, però, l'Europa deve assolutamente armonizzare il diritto di famiglia. Perché i problemi con le «famiglie-Erasmus» cominciano presto. Chi è abilitato a registrare la nascita dei bambini? È possibile il rimborso delle spese mediche effettuate per loro? Quale cognome possono usare, paterno o materno? Qual è la loro nazionalità? L'imbroglio giuridico è infinito. «Uno dei miei nipoti», racconta Lamassoure, «ha il cognome del padre e la nazionalità della madre. L'altro, nato in un altro paese, è esattamente il caso opposto». Nel 2008 l'eurodeputato ha deciso di battersi e ha redatto un rapporto, «Il cittadino e l'applicazione del diritto comunitario», nel quale fa diverse proposte per cercare di risolvere questi casi spinosi. Ma il suo lavoro è rimasto finora lettera morta. Erasmus è il programma che dal 1987 permette agli studenti del Vecchio continente di studiare in un altro paese europeo diverso dal proprio __________________________________________________ L’Unità 26 ott. ’12 L'UE ASSICURA: ERASMUS CERTO ANCHE NEL 2013 Il Consiglio e la Commissione Ue hanno ribadito ieri a Strasburgo l'intenzione di assicurare l'adeguata copertura finanziaria del progetto Erasmus (il programma grazie a cui molti studenti hanno la possibilità di vivere e studiare all'estero sostenendo alcuni degli esami del loro corso di laurea) per il 2012 e il 2013. «Vi garantisco che il budget per i progetti di educazione per il 2012-2013 non è in discussione», ha chiarito a Andreas Mavroyiannis a nome della presidenza cipriota. Per il 2012 le risorse dovrebbero venire assicurate dal bilancio rettificativo presentato da Bruxelles ieri. Mentre per il 2013 «gli stanziamenti - ha precisato Mavroyiannis - verranno decisi congiuntamente tra il Parlamento e il Consiglio nel quadro del bilancio per il prossimo anno». Lewandowski ha voluto ricordare che lo stanziamento dell'Erasmus «è solo un tassello del problema, uno dei più piccoli ma dei più visibili» e che «i deficit maggiori si riscontrano nello sviluppo rurale, nella politica agricola, nei fondi di coesione e negli obblighi esterni». Per coprire queste esigenze, Bruxelles ha proposto ieri una correzione di bilancio di 9 miliardi di euro. Durante il dibattito l'eurodeputata del Pdl, Roberta Angelilli, ha ricordato che «non possono essere i giovani a pagare i costi della crisi economica», un concetto ripreso anche dalla collega del Pd, Silvia Costa, che ha chiesto «un chiaro impegno perché non diventino euroscettici anche i giovani».ROBERTO ARDUINI __________________________________________________ Il Giornale 26 ott. ’12 IL GIORNALE: ANCHE NEGLI USA LE CATTEDRE SONO ROSSE CULTURAME Un saggio di Edward Feser su «Nuova storia contemporanea» L'egemonia progressista negli atenei americani è sempre più forte. Ecco i dogmi su cui si regge il suo potere Luigi Mascheroni Perché le Università sono dominate dalla sinistra? Bella domanda. E bellissimo titolo: quello del saggio di EdwardFeser, professore di filosofia nel californiano Pasadena City College, cattolico di formazione aristotelico-tomistica, storico delle idee molto attento al pensiero liberale e conservatore, grande studioso di Rober tNozicke Friedrich von Hayek. Pubblicato in Italia sul nuovo numero della rivista Nuova Storia Contemporanea (nelle libreria dalla prossima settimana), l'intervento di Feser, intitolato appunto «Perché le Università sono dominate dalla sinistra?», è una straordinaria radiografia del mondo accademico statunitense- ma valida con poche varianti anche per il mondo europeo - la cui impietosa diagnosi è: egemonia progressista cronica. Una deriva incontrollata e incontrollabile il cui effetto ultimo, e più pericoloso per Feser, è l'abbandono di ideali e valori propri della civiltà europea e il sovvertimento della tradizione. Mentre la causa prima, la malattia degenerativa - come ricorda Francesco Perfetti nella breve presentazione - è ciò che per Raymond Aron rappresenta «l'oppio degli intellettuali», per James Burnhamd ideologia del suicidio dell'Occidente» e che Augusto Del Noce definiva «neoilluminismo». In una parola: il «sinistrismo». «L'egemonia della sinistra nelle università è così schiacciante che perfino le persone di sinistra non la mettono in dubbio», scrive Edward Feser, che stila un suo personale decalogo dei dogmi (indimostrati e indimostrabili) che ispirano i programmi di studio delle università americane nel campo della storia delle idee, delle scienze sociali, dell'economia e in generale dell'area umanistica. Ad esempio: demonizzazione del sistema capitalistico, benevola valutazione del socialismo al di là del fallimento storico, diffusi orientamenti noglobal e terzomondisti, vocazione all'anti-occidentalismo, pesante inclinazione all'ateismo... È molto raro – scrive Feser - sentire nelle moderne università qualcuno che sfidi seriamente tali posizioni ideologiche, «di solito accettate come talmente ovvie da far credere che ogni visione contrastante sia motivata da ignoranza o interesse personale, e come tale da re spingere immediatamente; oppure si ritiene che non vi siano delle opinioni diverse che meritino la fatica di essere prese in considerazione». Messe in chiaro le premesse, Feser divide il suo saggio in due parti. La prima, interessante, è l'analisi delle teorie elaborate nel corso degli anni per tentare di spiegare «perché l'università sia caduta in pieno dominio della sinistra» e del perché più in generale gli intellettuali tendano a sinistra. Particolarmente curiose a questo proposito ci sembrano la «teoria del risentimento» («Se l'ultimo album del cantante XY vende milioni di copie mentre la magistrale storia del Liechentstein in cinque volumi del professor YX vende precisamente centosei copie, tutte acquistate da biblioteche universitarie, il professor YX inizia a domandarsi se il libero mercato rappresenti il sistema più equo per distribuire le ricompense economiche...») e quella della «testa tra le nuvole» («Per quanto intelligenti possano essere nelle materie astratte e teoriche, nelle questioni pratiche i professori e gli intellettuali sono considerati del tutto privi di buon senso e saggezza quotidiana: non sono cioè "in contatto" con il mondo reale. E poiché gli ideali di sinistra sono paradigmaticamente contrari al senso comune e scollegati dalla realtà, non c'è da sorprendersi che gli uomini di pensiero siano attratti da essi», un principio, aggiungiamo noi, che si adatta perfettamente non solo agli intellettuali che si professano di sinistra, ma anche ai politici che vogliono farsi passare per tecnici. La seconda parte del saggio, ancora più interessante, si concentra invece sui fini di tale orientamento accademico contro il buon senso comune e distante dalla realtà da una parte, e contro gli insegnamenti dei «padri» e la tradizione dall'altro. Dove la tradizione, ovviamente, è quella occidentale, con i principi morali che ne conseguono e «la metafisica che la giustifica» («la religione cristiana non è certo l'unica ad adottare una concezione sovrannaturale dell'origine dell'uomo. Eppure nessun intellettuale, pur non considerando come serie teorie scientifiche i tradizionali resoconti sull'origine dell'uomo degli indù, dei cinesi o degli indiani d'America, si sognerebbe mai di disprezzarli: al contrario, essi fanno parte di quello splendido mosaico di diversità multiculturali che ci chiedono incessantemente di "celebrare"»). Ecco, dunque, il principale obiettivo della battaglia degli intellettuali progressisti (la cui influenza è amplificata dalle stesse università e dai media): la civiltà occidentale che affonda le radici nell'antica Grecia, in Roma e nell'antico Israele. È, insomma, quella civiltà giudaico-cristiana - la quale pone, ecco il punto, una sfida morale inaffrontabile e insopportabile per la Nuova Religione Progressista - che innesta gli ideali politici dei diritti individuali, dello stato di diritto, del governo limitato, dell'ordine economico «capitalistico» e di libero mercato. QUANDO SI DICE IL FEROCE ANTIOCCIDENTALISMO DELLA SINISTRA COMODAMENTE OCCIDENTALE. Tutte le risposte per «passare» sempre gli esami Secondo Edward Feser, i temi- forti che pervadono i programmi di studio delle università americane sono i seguenti: O il capitalismo è portatore di miseria e il socialismo, quali che sia- noi fallimenti pratici, è motivato dai più alti ideali ei suoi luminari, soprattutto Marx, hanno ancora molto da insegnarci e la globalizzazione danneggia i poveri del Terzo Mondo Ole risorse naturali si stanno consumando a un tasso allarmante e l'attività industriale è sempre più minacciosa per l'ambiente e quasi tutte le differenze psicologiche e comportamentali tra uomini e donne sono «socialmente costruite», e le loro differenze di reddito o professionali sono il risultato del «sessismo» O i problemi dell'underclass negli Usa sono dovuti al razzismo, quelli del Terzo Mondo ai perduranti effetti del colonialismo O la civiltà occidentale è oppressiva, specialmente verso le donne e la «gente di colore» O i prodotti della civiltà occidentale sono spiritualmente inferiori a quelli delle culture non-occidentali () le credenze religiose tradizionali, specialmente quelle cristiane, si fondano sull'ignoranza dei moderni sviluppi scientifici e non sono razionalmente giustificabili e gli scrupoli morali tradizionali, riguardanti specialmente il sesso, si basano anch'essi sull'ignoranza __________________________________________________ Italia Oggi 26 ott. ’12 GERMANIA: UN TERZO DELLE MATRICOLE CAMBIA In Germania, il cambio di facoltà entro il primo semestre non viene giudicato male. Anzi Ritenuta utile la verifica sul campo delle proprie attitudini da Berlino ROBERTO GIARDINA Si apre il nuovo anno universitario, e le facoltà tedesche vengono invase da 361 mila matricole. Un buon terzo entro il primo semestre cambierà idea e si iscriverà a un altro corso di studi. Nein problem, non c'è problema, commentano rettori e professori, anzi è meglio così. Per verificare la capacità dei ragazzi la prova sul campo è insostituibile. Test attitudinali all'italiana, colloqui, voti presi alla maturità? Non servono, o non per tutti. Non è una tragedia perdere qualche mese, invece di rovinarsi la vita insistendo su studi per cui non si è tagliati. Ricordo il mio compagno di banco. Voleva fare il medico, allora non c'era il numerus clausus, arrivò al terzo anno prendendo tutti 30 e lode. Poi entrò nella sala di anatomia, svenne, e si iscrisse come me a legge. In Germania ci si iscrive a medicina se si ha almeno un 1,2 di media alla maturità (uno è il voto più alto), ma i professori vogliono poi controllare come reagisci alla vista del sangue. Il 20% delle matricole, che sognano una camera in camice bianco come il Doctor House, in primavera avrà rinunciato. La percentuale è ancora più alta della media per gli ingegneri: quasi la metà, il 48%, si rende conto che essere bravi in matematica al liceo non basta. Il 39% si arrende nella facoltà di scienze naturali, il 33% rinuncia agli studi di agraria, e il 24% alza le braccia perfino nella mia facoltà di legge, che da noi accoglie con generosità tutti quelli che non sanno bene che cosa fare nella vita. «La tendenza è di far giungere all'università un numero sempre maggiore di ragazzi», dice Matthias Jaroch, portavoce della Dhv, l'associazione degli studi superiori, «poi ci si scontra con la realtà. E negli atenei mancano i mezzi per assistere i giovani in difficoltà al primo semestre». Erik Marquardt, rappresentate degli studenti, sostiene che le facoltà sono costrette ad accettare più matricole di quanto vorrebbero: «E cercano di metterle alla prova subito con prove particolarmente difficili, per costringere molti alla resa». Gli studenti nelle università sono 2,381 milioni, con un forte aumento rispetto a dieci anni fa (1,939 milioni). La scuola tedesca è selettiva e chi vuole arrivare al diploma, o al titolo di dottore (che equivale quasi al nostro dottorato di ricerca), è molto motivato. Magari cambia in corsa, ma all'inizio, e poi non perde tempo. Non si incoraggiano i giovani a prendere un titolo qualsiasi che non abbia sbocchi professionali. Gli studi in lettere, filosofia, sociologia magari porteranno in chiesa come pastori luterani. I fuoricorso sono meno che da noi, ma chi non chiude gli studi in tempo non viene giudicato male. Quel che conta per le aziende in cerca di nuovi talenti è il voto, e non il tempo impiegato. Se non si esagera. Il conto si fa per semestri: per una laurea in legge ne occorrono otto, ma un terzo non va fuori tempo. Un anno di ritardo è considerato nella norma. Per gli ingegneri, tre semestri in più non sono un dramma. Per l'ambito titolo di Doktor, che tanto seduce i politici tedeschi inducendoli a copiare, invece possono passare gli anni. Si continua a studiare anche quando già si lavora, e si giunge alla dissertazione ben oltre i trent'anni. __________________________________________________ Repubblica 26 ott. ’12 "IL PROBLEMA SONO I GENITORI PRETENDONO LAUREE INUTILI" direttore del Censis Giuseppe Roma In Germania sei lavoratori su dieci del settore privato hanno il diploma. In Italia c'è un popolo di laureati che non trova impiego. Siamo bravissimi a spingere sempre più in là l'ingresso nel mondo del lavoro: la laurea, appunto, quindi il master e tanti auguri... Con quali risultati, è sotto gli occhi di tutti». Giuseppe Roma, direttore del Censis: i mestieri manuali ci salveranno? «È in corso una riscoperta di lavori considerati a torto di serie B, ma c'è ancora tanto da fare. Scontiamo una mentalità antica, da Paese appena uscito dall'analfabetismo e preoccupato di non restare ignorante. Mamme e papà pretendono che i figli si laureino anche quando hanno dimostrato attitudini incoraggianti per mestieri che non richiedono un titolo di studio superiore. E poi denunciamo da sempre il precariato e non importa a nessuno delle scuole che formano poco o per niente». Un esempio? «I dati dicono che alle imprese servono saldatori. Peccato che con le ultime riforme della scuola negli istituti per saldatori siano state tagliate le ore di pratica». A che cosa è dovuta la riscoperta delle botte- Giuseppe Roma ghe, secondo lei? «La crisi aiuta: si inizia a capire, per esempio, che c'è una forte richiesta di riparatori, si compra di meno e si aggiusta di più. E sì scopre che il mestiere manuale, oggi, non è meno tecnologico e all'avanguardia di altri. L'informatica: non è artigianato anche quello? Le software house, i grafici e i programmatori italiani sono tra i migliori al mondo. Ma ripeto, per far crescere il fenomeno serve una battaglia culturale prima ancora che economica. Giusto finanziare le startup, ottimo rilanciare l'apprendistato:le scelte più delicate, però, si compiono in famiglia II destino dei giovani si decide tra i 20 e i 23 anni Ma da noi le lauree brevi sono diventate il mezzo con cui l'università seduce gli studenti per tenerseli stretti altri due anni Il risultato è che siamo pieni di forza lavoro potenziale: di ragazzi, cioè, formati solo in teoria». Così però sembra che stia scoraggiando i giovani a studiare. «No: la laurea serve, ma non va mitizzata. Ripeto: non ha senso, oggi, vivere nel terrore di tornare all'analfabetismo. Va bene la scuola che "forma le coscienze", ma a patto che non trascuri le competenze». Non è che frequentare una scuola professionale abbia significato, finora, trovare subito un lavoro. Anzi. «Perché, a parte il problema delle ore di pratica, c'è quello dell'offerta di istituti: troppo frammentata, disorienta. Inoltre, lo Stato investe da sempre poco. In Francia esiste un ministero per il commercio e l'artigianato, e si spende moltissimo per pubblicizzare il settore. Nel Paese del made in Italy, abbiamo abbandonato questa cultura a se stessa». __________________________________________________ Italia Oggi 23 ott. ’12 L'INVALSI FA BINGO ALLA MATURITÀ La direttiva sulla valutazione per il 2012-2015: il sistema VAleS entra a regime in ogni scuola Prova nazionale per tutti, ma l'esito resta fuori dal voto finale DI EMANUELA MICUCCI Invalsi alla maturità e VALeS in tutte le scuole. Queste le priorità della strategia 2012-15 dell'istituto nazionale secondo la nuova direttiva triennale sulla valutazione del sistema educativo di istruzione (n. 85 del 12 ottobre 2012). Nessuna novità per l'attuale anno scolastico: resteranno obbligatorie le prove per tutti gli alunni di II e V primaria, I e III media, II superiore. Si partirà il 7 maggio con lettura e italiano alla primaria, per proseguire con matematica il 10, poi toccherà alla I media il 14 maggio e il 16 alla II superiore, per finire il 17 giugno con la prova nazionale agli esami di III media (iscrizioni online per tutte le classi entro il 12 novembre). Poi, si cambia. Arriverà una rivelazione nazionale degli apprendimenti all'ultimo anno delle superiori, distinta per i diversi indirizzi. Ma non significherà né la fine del quizzone né la prova Invalsi alla maturità. Infatti, la rilevazione nazionale sarà fuori dall'esame di stato. Tuttavia, nel corso del triennio, l'attività dell'Invalsi riguarderà anche la maturità: da una parte predisporrà modelli per l'elaborazione delle terze prove disponibili per le scuole; dall'altra realizzerà appositi quadri di riferimento con cui le commissione d'esame potranno valutare la prima prova scritta di italiano e, solo per gli scientifici, lo scritto di matematica. Lo scopo, spiega il ministro dell'istruzione Francesco Profumo, è «garantire maggiore omogeneità deì criteri di valutazione e comparabilità degli esiti delle valutazioni». Potrebbe, invece, sparire la prova Invalsi I media: una decisione che sarà presa nel corso del triennio così da attuarla in quello successivo 2015-19. Le nuove indicazioni nazionali saranno la bussola per definire le prove di italiano e matematica. In II superiore la rivelazione riguarderà anche gli studenti dei percorsi di qualifica professionale. Si andrà verso la valutazione degli apprendimenti in altre discipline, cioè scienze e inglese, pur limitandosi a scuole campione. Mentre le prove saranno progressivamente svolte con il pc. Particolare cura, poi, nella restituzione dei risultati alle singole scuole grazie alle linee guida per la loro lettura, perché se ne possa fare uso nell'autovalutazione e nell'individuare il valore aggiunto della azione formativa. Tutte le scuole progressivamente potranno utilizzare gli strumenti e i processi per autovalutazione e valutazione che l'Invalsi ha messo a punto per il progetto sperimentale VALeS, coerentemente con lo schema di regolamento sul servizio nazionale di valutazione in via di emanazione. Per questo motivo si definirà un quadro di riferimento per elaborare i rapporti di autovalutazione da parte delle scuole e, per il progetto VALeS, i protocolli di valutazione delle scuole. Questi ultimi, valida- ti, successivamente potranno essere utilizzati per la valutazione esterna delle scuole. Per questo scopo l'Invalsi avvierà piani di formazione di ispettori ed esperti del team di valutazione degli istituti. Partendo dal progetto VALeS, inoltre, verranno definiti gli indicatori per valutare i dirigenti scolastici, per poi estenderli a tutti i presidi. Questo «atteggiamento anticipatorio» relativo al progetto VALeS, però, non piace alla Fcl Cgil, che ricorda come si tratti di una sperimentazione appena avviata e non ancora terminata, di cui la direttiva dell'Invalsi già ne «prospetta la generalizzazione», «quasi postulando una coincidenza temporale di fasi che dovrebbero invece svilupparsi in sequenza». In tema di autovalutazione e valutazione compito dell'Invalsi è formare i dirigenti neoassunti. «Questa direzione generale — spiega Carmela Palumbo, direttore generale del Miur - curerà appositi seminari regionali con gli usr, che proseguiranno la capillare formazione di dirigenti scolastici e insegnanti». Al termine del triennio, infine, l'Invalsi stenderà un rapporto sul sistema scolastico italiano che ne consentirà la comparazione internazionale, tenendo conto degli apprendimenti e delle performance delle scuole nei diversi contesti territoriali per individuare le aree critiche. __________________________________________________ Corriere della Sera 28 ott. ’12 OCSE: IL FIORE DELL'ISTRUZIONE. UN PO' APPASSITO di ANNACHIARA SACCHI I dati dell'ultimo rapporto Ocse sui livelli scolastici raggiunti nei diversi Paesi. Ma quello che preoccupa di più è il dato di ragazzi fuori dalla scuola e dal lavoro L' istruzione è un fiore. Petali dai colori diversi che raccontano il livello scolastico della popolazione mondiale in base all'età e al diploma, pistilli e stami che indicano la spesa annua di ciascuno Stato per studente e la percentuale di investimenti rispetto al Prodotto interno lordo. Trentaquattro Paesi a confronto. Dalla Norvegia alla Corea del Sud, dalla Slovenia a Israele. È il delicato, variopinto, disomogeneo risultato di «Education at a Glance 2012: Oecd Indicators», il rapporto annuo sul grado di educazione globale a cura dell'Ocse. Linee interrotte e continue, sfumature di rosa e di viola. Performance e costi. E quel tratteggio nero, indicatore di un dato tanto preoccupante quanto in crescita: la percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni che non fanno niente. Non vanno a scuola, non frequentano un corso professionale, non lavorano. In Italia sono il 23 per cento del totale (media Ocse: 16) e si tratta della quinta percentuale più alta tra i Paesi presi in considerazione dallo studio. Un petalo medio-piccolo, quello italiano. Sovrastato da quelli giganti dei Paesi scandinavi, superato dai blocchi Francia-Germania e Australia- Nuova Zelanda, ma più esteso rispetto a Spagna e Portogallo. Guardiamolo bene: la spesa annua per ogni studente, novemila dollari, è perfettamente in linea con la media Ocse (9.200), ma i diplomati tra i 25 e i 34 anni sono il 71 per cento contro l'82. Per non parlare dei laureati: il 21 per cento (sempre considerando quella fascia di età) rispetto al 38 medio. Quasi la metà. E se si guardano i numeri dei cinquanta-sessantenni (55-64 anni), i diplomati sono il 38 per cento e i laureati l'11 (in quest'ultimo caso la media Ocse è del 23 per cento e questo dato ci fa scendere ai livelli più bassi della classifica). Certo, c'è chi sta peggio: Messico, Turchia, Spagna. E ci sono i grandi: gli Stati Uniti, che spendono 15.800 dollari per studente e hanno quasi nove diplomati su dieci in tutte le fasce di età. O il Canada: 56 per cento di laureati tra i 25 e i 34 anni, 92 per cento di diplomati. Solo la Corea del Sud, con picchi che toccano il 98 e 65 per cento, supera tutti. Petali che si incrociano e si sovrappongono. Che crescono e cambiano forma. Il rapporto Ocse viene pubblicato ogni anno a settembre. Le novità del fiore, come sempre, si inizieranno a vedere (e a studiare) la prossima primavera. __________________________________________________ Il Sole24Ore 28 ott. ’12 PIÙ ANGLOFILI CHE ANGLOFONI Il paradosso è che aumentano le persone che lo studiano e lo parlano, così come la vendita di libri scritti in inglese. Eppure pochi leggono i testi originali A prescindere dall'effetto sul mercato librario il fenomeno dà lo spunto per interessanti ipotesi sulla psiche moderna Tim Parks Poco prima della morte nel 1980, il grande antropologo Gregory Bateson suggerì che gli interventi di ingegneria sociale erano come fare retromarcia con un tir con cinque rimorchi attraverso un labirinto: magari si poteva anche fare, ma con quanti e quali danni non era dato sapere. Pertanto non sorprende che la decisione di molti Paesi europei di prediligere l'inglese come seconda lingua – per facilitare gli scambi commerciali e la ricerca scientifica – abbia avuto qualche conseguenza imprevista, non da ultimo in campo letterario. Anche se a Milano, come si sa, il Politecnico ha annunciato che alcuni corsi verranno insegnati esclusivamente in inglese, l'Italia non è affatto tra le avanguardie. Circa il 56 percento degli europei parla una seconda lingua, e per il 38 percento è l'inglese. In Scandinavia e in Olanda la cifra tocca il 90. Ma anche dove la percentuale è inferiore, la fascia di riferimento resta comunque quella più istruita, che è anche quella che ha maggior dimestichezza con le opere letterarie. Man mano che aumenta il numero delle persone che parlano l'inglese, crescono pure le vendite dei romanzi in inglese. Ma non in modo esagerato. Sorprende invece il notevole incremento nelle vendite di opere scritte in inglese, ma lette in traduzione. Quasi a voler dire che quando si impara una lingua straniera non ci si impadronisce soltanto di un mezzo di comunicazione, ma ci si sente attratti anche dalla cultura di cui la lingua è espressione. Le statistiche fornite dal Fondo olandese per la letteratura parlano chiaro: mentre il numero delle traduzioni da altre lingue è rimasto invariato, con la crescente diffusione dell'inglese si è verificato un enorme balzo in avanti nelle traduzioni da questa lingua. Nel 1946 le traduzioni ammontavano a solo il 5 percento delle pubblicazioni in Olanda; nel 2005 si era arrivati al 35 percento, e nel settore della narrativa la quota sfiorava il 71 percento. Di tutte queste traduzioni, il 75 percento è dall'inglese. Le cifre per i restanti Paesi europei non differiscono di molto. All'università Iulm di Milano abbiamo avviato un progetto di ricerca sugli effetti della globalizzazione sulla letteratura. L'anno scorso mi sono recato in Olanda e ho chiesto a una quarantina di clienti nelle librerie nel centro di Amsterdam quali fossero le loro letture preferite. Gli intervistati erano di età compresa tra i 20 e i 60 anni, uomini e donne; tutti, tranne un signore anziano, hanno ammesso di leggere in prevalenza romanzi stranieri. Quando chiedevo un titolo letto di recente, gli intervistati stessi parevano sorpresi nel rendersi conto che si trattava soprattutto di romanzi inglesi e americani, piuttosto che genericamente "stranieri". Un ricercatore dell'Università di Amsterdam si è preso la briga di annotare tutti i titoli dei romanzi sui suoi scaffali: 58 autori anglofoni, 19 da otto altri Paesi e 20 scrittori olandesi. «Leggo i romanzi stranieri perché sono più interessanti», mi sono sentito ripetere come un ritornello. Ho chiesto ai lettori: perché i libri stranieri erano "più interessanti", in che senso? Nel raccogliere le risposte, si è delineata una certa tendenza: questi lettori avevano imparato bene l'inglese a scuola e all'università, e di conseguenza nutrivano un discreto interesse per la cultura anglosassone. La lettura dei romanzi anglofoni aveva finito per rafforzare questa loro identità alternativa, una sorta di seconda vita, o vita parallela, che completava la loro realtà olandese, facendoli sentire cittadini di un mondo dai confini ben più vasti. A prescindere dall'effetto sul mercato del libro, il fenomeno ci dà lo spunto per interessanti ipotesi sulla lettura e la psiche moderna. Se nella narrativa si avverte sempre una tensione tra evasione e realismo, tra la voglia di leggere qualcosa di serio su cose serie e al contempo il desiderio di sottrarsi ai confini della propria comunità per fantasticare di luoghi lontani, per gli europei di oggi leggere romanzi inglesi diventa un modo per soddisfare entrambe queste esigenze: si parla di una cultura lontana, che appare tuttavia importante ai lettori a causa dell'egemonia culturale americana. Nella maggior parte delle traduzioni poi, rimane sempre qualche traccia della lingua originale, che per quanti hanno sviluppato una qualche familiarità rinforzerà la sensazione di conoscere già quell'altro mondo. Talvolta bastano i nomi di persone o di luoghi, o qualche vezzo sintattico o lessicale che emerge con maggior frequenza nelle traduzioni dall'inglese rispetto alle proprie consuetudini linguistiche. A sentir loro, i miei intervistati olandesi si rendevano conto che il romanzo che leggevano era una traduzione solo quando proveniva da una lingua a loro nota. Ma anziché rinunciare alla versione olandese e affrontare il testo in lingua originale, sembravano quasi contenti nel criticare il traduttore di questa o quella manchevolezza: certi intervistati affermavano addirittura di poter migliorare la traduzione; pertanto la lettura andava a rafforzare la loro autostima. Ovviamente, più si leggono libri scritti da autori americani, più si guardano film e telefilm di produzione americana – per non parlare degli interminabili reportage sulla campagna presidenziale negli States – tanto più ricca e complessa diventa questa seconda vita, e tanto più gratificante, con l'acquisto di un nuovo romanzo americano. È naturale che gli autori di lingua inglese traggono enormi vantaggi da questa situazione, eppure sembrano stranamente ignari della loro fortuna. Durante un dibattito tra scrittori inglesi riuniti in conferenza a Berlino l'anno scorso, sono rimasto imbarazzato quando un collega ha affermato che gli inglesi devono sentirsi orgogliosi di sfornare una letteratura di tale qualità che tutto il mondo si affretta a leggerla. Fatto sta che di questi giorni la situazione è talmente favorevole ai romanzi anglofoni che la questione della qualità appare irrilevante. Ho già scritto in passato di un'altra conseguenza delle buone vendite di romanzi tradotti. Abbandonati dai propri lettori, alcuni scrittori europei sembrano adattare stile e contenuto a un pubblico internazionale. Così siamo giunti a una situazione in cui la narrativa letteraria si piega a scopi diversi e viene vissuta in modo diverso a seconda delle varie comunità nazionali: il romanzo sociale e politicamente impegnato che ha reso celebri tanti scrittori europei nel recente passato (Moravia, Calvino, Sartre, Camus, Böll) è ancora vivo nel mondo anglosassone e viene letto in tutto il mondo, ma sta scomparendo in molti Paesi europei per il semplice motivo che il pubblico legge romanzi che parlano di altrove, mentre il romanziere sospetta che al lettore straniero non gliene importi niente della realtà socio-politica che ispira la sua opera. La globalizzazione non si afferma in modo omogeneo: potrebbe spingere la letteratura in un certo senso da questo o quel lato dell'Atlantico – o piuttosto lungo la faglia linguistica – e in una direzione molto diversa altrove. __________________________________________________ Arena 24 ott. ’12 BONCINELLI: SCIENZA BUONA O CATTIVA? Parla lo storico del male Edoardo Boncinelli, genetista e filosofo, farà il punto su etica e ricerca. «Lo studio è libero per natura ma il controllo sulle scoperte tocca poi alla società» Della Allegretti La scienza è l'asse portante del nostro vivere quotidiano. Le sue applicazioni ci fanno comunicare, lavorare, ci tengono in salute, ci portano sulla luna e a vedere le stelle. Parlare di scienza è quindi parlare di cultura, di sviluppo, di economia, di vivere sociale. E anche di democrazia, Per questo l'Accademia di agricoltura scienze e lettere di Verona, in sinergia con la Fondazione Cariverona e con l'Università di Verona, ha avviato una serie di incontri con scienziati di fama internazionale. Riuscita la scommessa di cercare una platea più ampia della sede accademica in Palazzo Erbisti: all'incontro inaugurale, con Giulio Giorello, filosofo della scienza, il teatro Ristori si è riempito. Domani torna il giovedì della scienza, sempre al Ristori, stavolta con Edoardo Boncinelli. Si parlerà del ruolo della scienza. Boncinelli è professore di biologia e genetica all'Università Vita-Salute di Milano, ricercatore di fama internazionale e attivissimo divulgatore scientifico. Cosa è la scienza? Cosa possiamo aspettarci (o non possiamo) dalla scienza? Questi, tra gli altri, gli argomenti che Boncinelli affronterà nel suo incontro veronese. «Sotto laparola scienza», anticipa Boncinelli, «si assommano tante realtà complesse. Vedremo come, negli ultimi cinquant'anni, la scienza si sia evoluta, confronteremo i cambiamenti». Ma non mancherà, promette, anche un approccio critico all'argomento. Perché la scienza ha meriti enormi, ma anche limiti «Nel pensiero scientifico ci sono positività indubbie», dice Boncin,e1li, «La produzione dì conoscenze affidabili e coerenti, che consentono sterminate applicazioni. Ma la funzione più importante rimane la creazione di una forma mentis, lo spirito critico, l'esercizio del dubbio, la ricerca continua, che sono anche capisaldi della democrazia». Ecco che allora la formazione del pensiero scientifico non può essere solo cosa da scienziati, ma anche necessità per chiunque viva il nostro tempo. Tempo che richiede decisioni informate, scelte di campo, riflessioni sul presente per capire e programmare il futuro. «Non bisogna però chiedere alla scienza quello che non è in grado di dare», sottolinea Boncinelli. «La scienza, ad esempio, non ci può dare la felicità, né ci renderà più saggi». Felicità, sofferenza, dolore. Argomenti che Edoardo Boncinelli, scienziato multidisciplinare, ha trattato ampiamente in una delle sue tante pubblicazioni: Il male. Storia naturale e sociale della sofferenza. Perché Boncinelli è anche scrittore prolifico, con una media di tre libri pubblicati all'anno, che spaziano dalla fisica alla biologia, dalla psicologia alla genetica, dai lirici greci all'etica. Sul rapporto tra scienza ed etica, uno degli argomenti più discussi del nostro tempo, ha pubblicato, con Emanuele Severino, Dialoghi su etica e scienza. «Quando si parla di contrasti tra scienza e morale si parte da un enunciato non corretto», dice Boncinelli. «Scienza e morale hanno obiettivi diversi, sono portatori di linguaggi e percorsi diversi. Il contrasto non è tra scienza ed etica, ma tra portatori di etiche diverse, tra visioni morali contrastanti. Il potere di ricerca, è per sua natura libero. Va invece controllata l'applicazione, quello che succede quando le scoperte escono dai laboratori. Il controllo dell'uso delle scoperte non compete allo scienziato, ma alla società, civile». Una società civile che, purtroppo, non è sufficientemente preparata. «C'è scarsa propensione a inserire la scienza come parte essenziale della cultura. In particolare in Italia, dove la cultura umanistica, è largamente predominante. Certo l'una non deve escludere l'altra. Ci vuole un giusto equilibrio». Boncinelli stesso ne è una dimostrazione. Scienziato di fama internazionale è, nel contempo, fine studioso dei classici greci. Tra le sue pubblicazioni anche: I miei lirici greci. 365 giorni di poesie. Galeazzo Sciarretta, presidente dell'Accademia di agricoltura scienze e lettere, si dice soddisfatto di come si è aperta la manifestazione. «L'incontro inaugurale è stato un successo inaspettato. Il teatro Ristori ha registrato oltre 400 presenze, con buona prevalenza di giovani. Segno che il personaggio, l'argomento, le sinergie attuate, l'informazione e, non da ultimo, il luogo, ci hanno fatto raggiungere il nostro obiettivo: portare la scienza ai giovani e al grande pubblico. E proprio questo primo, positivo segnale, ci fa ben sperare. Edoardo Boncinelli, per altro, oltre alle grandi competenze scientifiche, è anche noto per le sue particolari doti di divulgatore». A questo proposito Sciarretta, cita un libro, Il posto della scienza: realtà, miti, fantasmi. Un libro di Boncinelli che, in modo efficace e diretto spiega i segreti del mondo scientifico, rendendoli coinvolgenti anche per lettori non esperti. Un libro, sostiene Sciarretta, «che dovrebbe essere reso obbligatorio in tutte le scuole». LO SPIRITO CRITICO, ESERCIZIO DEL DUBBIO LA RICERCA PERENNE SONO CAPISALDI DELLA DEMOCRAZIA Edoardo Boncinelli, fiorentino, è considerato uno dei più importanti scienziati italiani. Fisico, si è poi rivolto alla psicologia e quindi alla genetica e alla biologia molecolare. Per vent'anni ricercatore all'istituto internazionale di genetica e biofisica del CNR di Napoli, è poi passato al San Raffaele di Milano. A lui si deve la scoperta di geni che svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo del corpo e del cervello. Boncinelli è stato direttore della Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste e del Centro di farmacologia cellulare del CNR di Milano. Attualmente insegna all'Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano. Ha pubblicato oltre 30 libri di successo. Tiene una rubrica fissa sul settimanale La scienza. E editorialista del Corriere della Sera che, in occasione dei 150 armi dell'Unità, lo ha incluso tra i dieci scienziati italiani da ricordare nella storia d'Italia. DA. Il contrasto non è tra morale e scienza, ma tra visioni etiche che possono essere divergenti __________________________________________________ Repubblica 23 ott. ’12 IL PICCOLO MOTORE ITALIANO SFIDAI GIGANTI DI GOOGLE RICCARDO LUNA QUESTA storia è come un film. Se pensate che sfidare Google, oggi, in Italia, facendo un motore di ricerca tutto italiano, un motore che racconti al mondo la nostra storia, la nostra cultura e quindi in fondo anche il nostro futuro, sia una impresa perlomeno velleitaria, scegliete pure come titolo "Totò contro Maciste" e fatevi una bella risata. Del resto il disastroso lancio diVolimia, "la sfida italiana a Google", firmata dal matematico padovano Massimo Marchiori, appena qualche mese fa, autorizza qualche ironia. Ma questa storia è diversa. Se fosse un film infatti sarebbe un western. Uno di quelli che non finiscono mai nemmeno quando il protagonista firma la propria resa. E la storia di un sogno che si fa ossessione per diventare realtà. E parte da lontano. C'era una volta il web. Il primo web. Gli italiani, sembra strano a dirlo, non se la cavavano affatto male. Era italiano per esempio Paolo Zanella, dal 1976 al 1989 direttore dei servizi informatici del Cern di Ginevra, il più grande laboratorio del mondo per la fisica. Nel 1980 h arrivò per uno stage un giovane fisico inglese: si chiamava TimBemers Lee e trentadue anni dopo un paio di miliardi di persone lo avrebbero applaudito in diretta tvmentre al centro dello stadio olimpico di Londra scriveva le tre lettere che hanno cambiato il mondo: "www". Il giovane Bemers Lee in realtà non sapeva cosa avrebbe fatto: al Cern voleva solo trovare un modo per mettere ordine nella crescente quantità di informazioni che producevano i computer utilizzati per gli esperimenti scientifici. Il progetto inizialmente lo chiamò Enquire: nel 1989 Io ribattezzò world wide web. Quell'anno al Cern il direttore generale divenne il fisico italiano Carlo Rubbia che nel 1984 aveva vinto il premio Nobel. Quando il 30 aprile 1993 il. Cern annunciò che il world wide web era a disposizione dell'umanità, Rubbia era ancora il capo, una circostanza che lo ha portato spesso a ricordare con ironia: «il mio unico merito nella nascita del web è non essermi opposto». Intanto nel novembre del 1990 a Cagliari la Regione Sardegna aveva costituito il Crs4, il centro ricerche per il futuro parco tecnologico. E Rubbia ne era diventato il primo presidente: si portò da Ginevra Paolo Zanella e quella scelta diede la linea: non perdete tempo con altre storie, disse, buttatevi sulla rete. Così fu. Il primo sito web italiano, www.crs4.it, lo fece Luca Zanarini nel 1993.Laprimawebmail del mondo fu quella escogitata da un giovane programmatore, Luca Manunza, nel 1995. Insomma, in Sardegna sulle telecomunicazioni erano bravi: anche per questo qui nel 1998 Renato Soru fondò Tiscali. Fine primo tempo. Nel 1996 a Pisa, dove da sempre batte il cuore dell'internet italiano, c'erano tre studenti che volevano fare un motore di ricerca: Google ancora non c'era. Segnatevi i loro nomi perché fecero un'impresa: quando Olivetti Telemedia — la futura Italia Online — mise sul tavolo i soldi necessari, Giuseppe Attardi, Domenico Dato e Antonio Gai in tre mesi fecero la prima versione di Arianna. Andava dieci volte più veloce del rivale americano Altavista, ricorda oggi Attardi. Tanto che nel 1999, alla vigilia di un trionfale ingresso in Borsa, Renato Sorti decise di comprare tutta la ditta: Ideare. I tre ragazzi di Pisa scrissero allora un nuovo motore, Janas, con un sistema di ricerca, IXE, che iniziò a conquistare pezzi di Europa. Poteva essere l'inizio di una grande storia, ma la fine della cosiddetta new economy avrebbe cambiato tutto. Le aziende legate al web si trovarono a fare i conti con la mancanza di soldi e così quando ne12001 un dirigente di Google si presentò da Tiscali mettendo sul tavolo 10 milioni di dollari in cambio dello spegnimento di IXE, Soru firmò. Non se l'è mai perdonata quella firma. «Non possiamo lasciare il web a Google» disse Soru già in una intervista del 2003 che non era casuale: i "ragazzi di Pisa" gli avevano proposto la realizzazione di un grande motore di ricerca europeo e lui era tentato. Nel 2004 il suo ingresso politica segnò Io scioglimento del team. Ma l'idea non è scomparsa mai. il 26 settembre 2006, per esempio, all'indomani di un incontro fra il presidente del consiglio Prodi e quello della Sardegna Sorti, la Nuova Sardegna in prima pagina annunciava trionfalmente "un Google italiano". Nel 2009 Sorti è tornato a Tiscali. E in breve ha capito che continuare a focalizzare tutto sulla vendita di collegamenti a Internet non aveva molto senso. Bisognava puntare sul web tornando a inventare prodotti. Il primo, un anno fa, è stato Streamago: sulle ceneri di una tvviaintemei mai decollata, è un servizio che consente di mandare in diretta sul web qualsiasi evento. Il secondo, qualche mese fa, è stato Indoona: partito come applicazione per telefonare gratis via Internet, è diventato un social network, basato sui propri numeri di telefono, che ingloba funzionalità di Twitter. Ma il vero progetto è il motore di ricerca. Per questo Soni ha richiamato in servizio il vecchio team. Obiettivo: un Google italiano. La cosa è meno bizzarra di quanto appaia. Nel mondo ci sono svariate decine di motori di ricerca nazionali che nei rispettivi paesi si affiancano a Google e che diventano molto competitivi sui contenuti web domestici. E quindi iStella, si chiamerà così, tiene conto di tre miliardi di pagine: ovvero, tutto il web italiano più le pagine che gli italiani guardano. E poi punta a inglobare la storia d'Italia, gli archivi di enti, fondazioni, istituti che oggi non sono sul web. Il terzo livello è quello degli utenti: tutti possono diventare contributori di iStella: un comune che voglia caricare la propria storia, un ricercatore per rendere disponibile uno studio, una famiglia con il proprio albero genealogico e le foto emblematiche, «perché ogni uomo è una enciclopedia» dice Sorti citando Italo Calvino. A Pisa Attardi non nasconde l'emozione: «Abbiamo il batticuore. Sappiamo di esserci messi in un progetto così ambizioso da sembrare pazzesco». A Cagliari Sorti contai giorni per il lancio: «Non è una sfida a Google, è un' altra cosa». E cita con orgoglio le differenze con il gigante americano. Non proprio trascurabili: «Primo, tutti possono partecipare aggiungendo documenti. Secondo, nessuno viene tracciato quando effettua delle ricerche. Terzo, i risultati delle ricerche saranno obiettivi e non profilati in basi ai nostri precedenti comportamenti. Quarto, la popolarità non è tutto, se uno cerca Dante Alighieri e per qualche motivo una pizzeria Dante Alighieri ha molto successo, da noi troverete sempre primo l'omonimo Istituto. Quinto, i tre miliardi di pagine che scarichiamo, saranno gratis a disposizione di chiunque voglia fare studi sul web italiano». Manca solo la data di inizio, un giorno di novembre. Poi, se iStella dovesse andare bene, cancellate i titoli precedenti e questo film chiamatelo pure "I cavalieri che rifecero l'impresa". __________________________________________________ Corriere della Sera 27 ott. ’12 LE CHIAVI SEGRETE DEL COMPUTER? PASSWORD (TROPPO SPESSO) PREVEDIBILI diSTEFANO MONTEFIORI Ogni anno Slashdata, un'azienda che produce software per la gestione delle password, pubblica una classifica delle 10 peggiori parole chiave del mondo, dopo avere analizzato file con milioni di password rubate messi online dagli hacker. L'intento, evidentemente, è dimostrare quanto i suoi software siano ormai irrinunciabili, quindi diciamo che il maggior pregio della ricerca non è la sua neutralità. Con questa avvertenza, è vero però che il problema della violabilità delle password esiste e tende ad aumentare: molti continuano a scegliere le parole chiave più facili da ricordare e non le più sicure. Nella ricerca Slashdata i primi tre posti sono invariati rispetto allo scorso anno: la password più violata è, non si stenta a crederlo, password, seguita da – 123456 e 12345678. Ci sono poi le nuove entrate jesus, ninja, mustang, password1 e welcome e la vecchia iloveyou. L'azienda raccomanda a chi stesse ancora usando queste password di cambiarle al più presto; se molti ricorrono a barriere tanto banali è perché bisogna ricordarsi ormai decine di nomi utenti e password, e molti utenti stremati finiscono per cedere alla prima parola che viene in mente. La soluzione è ricorrere a uno dei software citati o provare a seguire altri consigli: per esempio quello fornito ormai qualche anno fa dall'esperto di new media Thomas Baekdal. In tempi di falle e attacchi informatici che hanno portato nel giro di pochi mesi alla scoperta di 6,5 milioni di password (LinkedIn) o alla violazione di 1,5 milioni di account sensibili (nel sito di incontri online eHarmony), il sistema Baekdal propone di usare una breve frase composta da parole comuni, piuttosto che una sola parola o anche, all'estremo opposto, complicatissimi codici composti da lettere e numeri. Se un hacker utilizza un programma per provare tutte le combinazione possibili fino a centrare quella giusta, impiegherà 3 minuti per indovinare una sola parola di senso comune come arancia. Per arrivare a identificare una parola inesistente formata da sei lettere, per esempio woosaa, basterà un'ora e 22 minuti, dando ragione all'adagio secondo il quale «dopo 20 anni di sforzi stiamo convincendo le persone a usare parole chiave difficili da memorizzare per gli umani e facili da indovinare per i computer» (dalla striscia a fumetti «Xkcd»). L'accoppiata lettere/numeri, come J4fs2, garantisce invece resistenza per 219 anni, ma la sicurezza eterna si ha con la combinazione di tre parole di senso compiuto: addio password, benvenuta passphrase. La frase «This is fun», secondo i calcoli di Baekdal, potrà essere scoperta da un hacker solo dopo 2.537 anni di tentativi. Abbastanza per dormire sonni più tranquilli. Chi ancora non si accontenta può cominciare a frequentare uno dei crypto- party che si stanno diffondendo in tutta Europa, dopo l'esordio lo scorso agosto in Australia: in quel caso fu l'attivista pro-trasparenza Asher Wolf, a Melbourne, che ebbe l'idea di organizzare un incontro pubblico con esperti di sicurezza per conoscere meglio le tecniche di protezione dell'identità online. Da allora i crypto-party sono diventati di moda negli Stati Uniti e a Londra e Berlino. «È sorprendente come nella sfera pubblica consideriamo e giudichiamo la nostra vita privata come un diritto umano fondamentale — ha detto a Slate.fr uno degli organizzatori delle serate di Berlino, Julian Oliver —. Ma nel mondo digitale ancora non c'è consapevolezza dei rischi che tutti corriamo, di quanto è importante la posta in gioco». Non usare più password come parola chiave è solo il primo passo. @Stef_Montefiori __________________________________________________ Il Sole24Ore 28 ott. ’12 FBI: I VIRUS MINACCIANO SMARTPHONE E TABLET Quei virus compagni di viaggio L'Fbi mette in guardia dalle minacce contro smartphone e tablet: sono a rischio i cittadini, come anche le aziende Ma ci si può difendere Marco Magrini Avete appena scoperto di essere pedinati da settimane. Qualcuno ha registrato le vostre comunicazioni, forse addirittura in video, e ora sa tutto di voi: abitudini, contatti telefonici, pin, password e perfino il volto dei vostri figli. Vi spaventereste? L'Fbi sostiene che fareste benissimo. Lunedì scorso, il Federal Bureau of Investigation ha messo in guardia i cittadini americani – e di conseguenza i cittadini del mondo – dal rischio di attacchi ai danni smartphone e tablet. Con questi potenti computer tascabili, il cybercriminale non ha bisogno di seguirvi di nascosto per la strada: ci pensa il chip Gps nel telefono. Non ha bisogno di cimici per registrarvi: ci pensano il microfono e la telecamera a bordo del tablet. «Nell'ultimo anno il malware indirizzato a colpire gli apparecchi mobili, è aumentato del 700%», commenta Vincent Weafer, vicepresidente di McAfee, il colosso della sicurezza digitale del gruppo Intel, nonché capo dei laboratori di ricerca. «Quasi il 100% degli attacchi ha colpito la piattaforma Android. E abbiamo visto di tutto: spyware, trojan, botnet e virus che sfruttano gli Sms». Certo, non è che gli altri sistemi operativi siano immuni. «Il virus FinSpy apparso pochi mesi fa – commenta Dave Snell, direttore delle soluzioni tecnologiche, incontrato a Las Vegas durante l'annuale conferenza sulla sicurezza di McAfee – colpisce tutti i sistemi mobili senza distinzioni. Invia un sms con un link e gli basta che l'utente lo clicchi, per prendere il controllo dell'apparecchio: può tramettere immagini video senza che nessuno se ne accorga». Gira voce che nel Bahrain lo stiano usando contro i dissidenti politici. La maggioranza degli attacchi arriva però dalle applicazioni. Come noto, l'App Store di Apple è rigidamente controllato (e perfino censurato) dall'azienda, risultando per questo antipatico agli esperti di computing. Al contrario, i mercati digitali per le app Android, a cominciare da Google Play, sono aperti a tutti, come si conviene a una piattaforma open-source. Finora, il malware mobile è riuscito a giocare brutti scherzi (anche finanziari) a pochi malcapitati. Ma se un giorno riuscisse a creare problemi diffusi ai telefoni Android, che hanno il 52% del mercato mondiale degli smartphone? Potrebbe alterare la concorrenza con gli iPhone, oggi al 34%? «In teoria sì – risponde Weafer – nel passato non è successo: la piattaforma Windows ha continuato a prevalere su quella Mac, nonostante fosse colpita dai virus quasi esclusivamente». In ultima analisi, ha ragione l'Fbi: i consumatori non sono abbastanza consapevoli. La soluzione è educarli. «È nell'interesse di governi, industrie e istituzioni finanziarie – rimarca Weafer – che, al contrario dei cittadini, sono consapevoli e preoccupate». Già, perché la dilagante adozione degli apparecchi mobili non consente solo di tracciare gli spostamenti di una vittima (impensabile, nell'era del pc), ma anche di trasformarla in un'arma d'attacco semovente. I botnet (che stanno per «robot network») sono computer che, in seguito a un'infezione, risultano controllati dai cybercriminali senza che nessuno se ne accorga. «I nuovi botnet mobili – dice Gary Davis di McAfee, vicepresidente responsabile del marketing – sono molto più rischiosi: vagando per molte reti wi-fi in tasca all'inconsapevole proprietario, sono in grado diffondere l'infezione» come moderni untori digitali. Le implicazioni per le aziende, sono enormi. Un po' perché le politiche aziendali prevedono ormai quel che gli americani chiamano Byod: bring your own device, porta al lavoro il telefono o il tablet che vuoi. Un po' perché i cosiddetti spyware sono un mezzo impareggiabile per lo spionaggio industriale: c'è chi stima un danno di 250 miliardi di dollari all'anno, solo per i furti di proprietà intellettuale a spese delle sole società americane. Insomma, ora che l'era post-pc è cominciata, ora che ci sono quasi cinque miliardi di dispositivi collegati all'internet («Un nostro dipendente ne ha 41», ha detto ridendo il chief technology officer Michael Fey, durante la conferenza di Las Vegas) le opportunità per i malintenzionati globali crescono e cresceranno ancora. Non è un incoraggiamento alla paranoia. Tuttavia – anche se l'Fbi non la mette proprio in questi termini – è sempre meglio aver paura, che buscarne. _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25/10/2012 VOUCHER E TIROCINI, STANZIATI ALTRI 5 MILIONI CAGLIARI «I voucher, rivolti a chi non ha beneficiato del sussidio di disoccupazione e di altri ammortizzatori sociali, hanno avuto un buon successo, con con un'alta percentuale di proposte di lavoro, perciò abbiamo stanziato altri cinque milioni». Ad annunciarlo è stato l’assessore regionale del lavoro, Antonello Liori, dopo la delibera approvata in Giunta sui tirocini formativi e di orientamento con voucher. I «Tfo» sono rivolti a disoccupati e inoccupati, residenti in Sardegna, con un età minima di 26 anni, se diplomati, e di 30, se laureati. Rappresentano uno strumento di formazione, finalizzato all'acquisizione di competenze e conoscenze specifiche all’interno di un profilo professionale. Ogni tirocinante avrà a disposizione un voucher mensile di 500 euro per sei mesi. «Con questo incremento di fondi si potranno soddisfare ulteriori richieste – ha aggiunto Liori – Col primo avviso, e uno stanziamento di 9,6 milioni di euro, abbiamo erogato 3.200 borse, ma le domande presentate sono state oltre cinquemila». _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26/10/2012 TIROCINI SOTTO TIRO, NUOVI FONDI GIOVANI E DISOCCUPAZIONE NELL’ISOLA Altri 5 milioni dalla Regione per stage da 500 euro al mese Mentre esplode la contestazione per i tirocini finanziati dalla Regione, l’assessorato al Lavoro mette a disposizione altri 5 milioni di euro. I tirocinanti lavorano 32 ore alla settimana per sei mesi con una retribuzione ridicola: 500 euro. Secondo l’agenzia per il lavoro il 25% dei 3.700 tirocinanti avrebbe avuto un’offerta di lavoro. Tirocini contestati, Liori non si ferma Finanziati altri 5 milioni per stage a 500 euro al mese, per sei mesi. Quelli appena conclusi sono stati definiti «da schiavi» di Chiaramaria Pinna SASSARI E’ una politica in pieno stile Fornero: per tutti i disoccupati laureati e diplomati che il ministro invita a «non essere schizzinosi» nella ricerca di un lavoro, arriva un’altra infornata di tirocini pagati dalla Regione: e bisogna essere proprio poco «choosy» per lavorare 32 ore settimanali a 500 euro al mese per sei mesi e con prospettive bassissime per il futuro. In totale saranno 5 milioni di euro dopo i primi 10 appena spesi per 3.700 stage. Quindici milioni, tanto ha destinato in un anno la Regione ai TFO (tirocini formativi). Il Palazzo infatti persevera, e come se le critiche e le delusioni della prima esperienza appena conclusa non fossero mai esistiti, tre giorni fa è stato pubblicato il secondo bando- fotocopia da parte dell’assessorato al Lavoro che però nel giro di poche ore l’ha ritirato a causa di un cortocircuito tra l’onorevole Antonello Liori e l’Agenzia regionale per il lavoro diretta da Stefano Tunis (ma sarà presto corretto). Sintetizzando in una parola le 3.700 esperienze appena concluse, Stefano Tunis ha detto che i dati sono stati soddisfacenti. Questi i numeri dell’orgoglio: il 25% dei tirocinanti ha ricevuto dall’azienda ospitante un’offerta di lavoro. Le cifre, è vero, sono aride, sarebbe quindi interessante sapere in cosa consistano queste 800 offerte di posti di lavoro, e quale contratto sia stato proposto, e se il tirocinante abbia accettato l’incarico. Domande d’obbligo dal momento che gli stage di sei mesi, a cinquecento euro al mese, hanno spaziato in tutti i campi, dal settore delle pulizie a quello scientifico, a quello amministrativo senza tralasciare lo scarico e carico merci anche se erano destinati a diplomati (dai 26 anni in su) e a laureati (dai 30 in poi). Per questo i TFO definiti più volte «da schiavi», sono stati anche oggetto di una interrogazione da parte del consigliere regionale del’ Psd’Az Efisio Planetta, che non ha avuto risposta. Gli elementi necessari per i tirocini, (fondi Por che, se non investiti devono essere restituiti) sono due: da una parte i disoccupati dall’altra «il soggetto ospitante». Asl, ristoranti, bar, falegnamerie, profumerie, uffici legali, in tanti hanno risposto in massa al primo bando felici di offrire un’opportunità di lavoro e ricevere in cambio prestazioni senza sganciare un soldo. A pagare, infatti, ha pensato Pantalone. La Regione ha sborsato oltre 10milioni di euro.«I tirocini, come tutti gli strumenti di inserimento professionale – ha commentato Tunis (che ha scritto un libretto in cui descrive alcune esperienze di inserimenti insperati di altrettanti disperati)– si sono rivelati un’ottima opportunità sia per il datore di lavoro che per chi cerca di inserirsi nel mondo del lavoro, ed è addirittura emersa l’estrema utilità dell’iniziativa che si chiude per ciò con un bilancio più che positivo ben testimoniato dall’analisi del monitoraggio dell’andamento, e dell’efficacia, effettuato dall’Agenzia fino al termine dell’esperienza del tirocinio dei ben 3.700 voucher messi a disposizione dalla Giunta regionale in quest’ultimo anno».Questi alcuni punti del questionario: Domande all’ospitante: qual’è stata la disponibilità all’ascolto e all’apprendimento? Eccellente nel 61% dei casi. La responsabilità e la correttezza? eccellente nel 70,19% dei casi. La capacità di lavorare in gruppo? eccellente nel 59,44% dei casi. Per farl breve, il 90% dei tirocinanti ha ricevuto un giudizio positivo. A questo punto sarebbe più che lecito chiedere che ne è stato degli stagisti? Non si saprà mai, perche all’azienda non è stata fatta la domanda più interessante: Ha assunto il tirocinante? La risposta indiretta si trova nel questionario compilato dal lavoratore. Domanda: alla fine del tirocinio ha ricevuto una proposta di continuare a lavorare presso il soggetto ospitante con un regolare contratto di qualsiasi durata? il 78,25% ha risposto no, il 19,89% sì, (ma non si sa come sia finita) l’1,87% sì, ma non ho accettato. E ancora. Domanda: alla fine del tirocinio ha ricevuto una proposta di lavoro presso un’altra azienda conosciuta durante il tirocinio o indicata dal soggetto ospitante per il quale ha effettuato il tirocinio con un regolare contratto di qualsiasi tipo e durata? No il 95,86%, sì il 3,58%, sì ma non ho accettato lo 0,56. Va detto che il questionario è stato compilato anche da quanti lavoravano da un solo mese e che il 78% era al primo tirocinio. _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26/10/2012 TIROCINI: SEI MESI IN UNA ASL E POI IL SALTO NEL BUIO» La delusione di un veterinario, l’esperienza di un’impiegata, l’amarezza di una portantina SASSARI Per un attimo hanno creduto di svegliarsi dall’incubo della disoccupazione e trasformarlo in sogno. «L’unico dato positivo è che l’esperienza entrerà nel mio curriculum», commenta amaramente un veterinario che ha lavorato in una Asl. «Non avevo alternative, ma come è possibile proporre a un uomo di 30 anni e anche più, 500 euro al mese e nessuna prospettiva?». «Quando ho scelto di studiare veterinaria – prosegue – l’ho fatto dopo aver seguito gli incontri di orientamento. Mi hanno convinto dicendo che sarebbe stata una delle facoltà che avrebbero offerto prospettive di lavoro. Ma quale? dove? Vivo nella speranza di un concorso qualsiasi perchè ho bisogno di lavorare». E intanto, per questo giovane uomo, l’unica proposta di lavoro arriva da un bar: far panini, due volte alla settimana, per 35 euro e tanta umiliazione. E' solo una delle tante storie. Eppure le Asl sono carenti di professionalità come la sua. «Con chi ne parlo? – conclude – abbiamo a disposizione un numero verde che risponde: sapeva benissimo che dopo sei mesi sarebbe finita. Rilegga il bando». Stesso percorso per una portantina che due settimane fa è tornata a casa. «Quando ho accettato ci hanno detto che dopo questa esperienza avremmo costituito una cooperativa di servizi. Tutte storie. La verità è che abbiamo lavorato con una disponibilità totale, coprendo qualsiasi mansione solo nella speranza di essere richiamate. Se ho acquisito professionalità? Non saprei dire che compiti ha un portantino, perchè ho fatto proprio di tutto dal momento che il personale in pronto soccorso era carente». E qualcuno è soddisfatto. Una laureata: «Ho lavorato in un ufficio amministrativo - spiega una laureata – per me è stato importante. Ho superato una pre selezione dell’azienda ospedaliera e sto per sostenere il concorso. Non chiedevo di più». «La verità è che di fronte a un panorama desolante come questo – commenta una collega – in cui ci stiamo abituando all'idea del precariato, uno stage o un tirocinio che mi dia la spinta per uscire da casa è comunque importante. Fermo restando che, nel complesso, questo progetto mi è sembrato poco utile». _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 24/10/2012 IL SITO UFFICIALE DELLA REGIONE AL PRIMO POSTO PER TRASPARENZA CAGLIARI Il sito istituzionale della Regione è al primo posto in Italia per la qualità della trasparenza e l’efficacia dei contenuti. A certificarlo è stata la "Bussola della Trasparenza", che è una sezione del sito del governo e consente alle pubbliche amministrazioni e ai cittadini di utilizzare diversi strumenti per l' analisi e il monitoraggio dei siti web. «L'iniziativa del sito istituzionale – scrive la Regione in comunicato – si è dimostrata in linea con i principi dell'Open Government ed è come sempre mirata a rafforzare la trasparenza e al partecipazione dei cittadini. L'ultimo monitoraggio del 21 ottobre ha posizionato il sito della Regione al primo posto per la qualità della trasparenza e dei contenuti rispetto alle Linee Guida dettate in materia dei siti web delle pubbliche amministrazioni. __________________________________________________ Il Sole24Ore 28 ott. ’12 L'ALGORITMO CHE COMBINA MATRIMONI E TROVA DOTTORI Il Nobel a Roth e Shapley: matematica applicata alla vita reale QUESTIONE DI DOMANDA E OFFERTA In molti casi non sono i prezzi e il mercato a regolare gli scambi È necessario allora individuare formule che fanno convergere interessi e necessità reciproci Fabrizio Galimberti Il mese scorso abbiamo parlato di un premio Nobel dell'economia di molti anni fa, Paul Samuelson. Volevamo aspettare prima di affrontarne un altro, ma l'attualità ci tirato per la manica: questo mese è stato assegnato un altro Nobel a due economisti americani. Prendiamolo al volo, perché è interessante. L'economia è un modo di ragionare, e questo "modo di ragionare" può esercitarsi su tante questioni che non sembrano strettamente economiche. Per esempio, gli economisti hanno affrontato, armati dei ferri del mestiere, questioni come: la pena capitale riduce i crimini? La legalizzazione dell'aborto ha ridotto il tasso di delinquenza? Allora, quali sono i problemi affrontati dai due premiati? Facciamo una premessa. Dei due il più anziano - Lloyd Shapley - ha oggi 89 anni, mentre il secondo - Alvin Roth - ne ha 60. Dietro questa differenza di età vi è un'interessante vicenda. Certe volte scoperte o invenzioni giacciono dormienti per decenni e poi vengono "riscoperte": si scopre, nel nostro caso, che quella che sembrava solo una teoria astratta si può applicare alla vita reale. Nella fattispecie, Shapely, che è più un matematico che un economista, si era occupato negli anni Cinquanta e Sessanta, di un problema che sembra semplice: come assicurare che quando uno vuole qualcosa da un altro, alla fine dello scambio siano tutti contenti. Di solito questo problema è risolto dal mercato: nel mercato ci sono i prezzi, e lo scambio avviene attraverso i prezzi. Se qualcuno paga il prezzo è perché pensa sia conveniente pagarlo, e se qualcuno riscuote quel prezzo e dà qualcosa in cambio, è perché anche lui pensa che quella transazione sia conveniente. Ma ci sono tanti casi in cui i prezzi non esistono, e Shapley tentò di risolvere uno di questi casi dandogli un divertente contorno: il matrimonio, o quanto meno l'appaiamento fra uomini e donne. Supponiamo, disse, che vi siano dieci uomini e dieci donne, ognuno/a dei quali ha certe preferenze rispetto alla persona con cui vuole appaiarsi. Come procedere in modo che alla fine siano tutti contenti? (Nel gergo, questa situazione finale viene detta "stabile", nel senso che non vi sono altre situazioni in cui gli appaiamenti siano preferibili). Shapley (insieme al suo collega David Gale, che non ha avuto il Nobel perché qualche anno fa è morto) dettò questa procedura: all'inizio ogni donna si propone all'uomo che preferisce. Poi ogni uomo guarda alle proposte che ha ricevuto (se ne ha ricevute!), decide quale preferisce ma non l'accetta ancora (si tiene sulle sue...) e respinge le altre. Le donne che sono state respinte nella prima tornata tornano alla carica e indicano il secondo nella lista delle loro preferenze. Gli uomini annotano di nuovo quella che preferiscono fra le nuove proposte. E così via... fino a che le donne non hanno più proposte da fare. Ogni uomo accetta la proposta che ha davanti e il processo giunge al termine. Questa procedura - si chiama un "algoritmo", l'algoritmo di Gale-Shapley - porta sempre (gli autori lo dimostrarono matematicamente) a una situazione stabile, in cui tutti sono soddisfatti dell'appaiamento loro assegnato. Fin qui si trattava solo di un esercizio matematico. Ma qualche decennio più tardi l'altro premiato - Roth - si accorse che quell'algoritmo poteva servire a risolvere problemi molto più concreti di quello (un po' buffo) di organizzare matrimoni con quelle strane procedure. Il problema che Roth doveva risolvere era quello degli internati. I giovani neodottori in America (e anche altrove) devono fare un internato presso un ospedale. Si tratta anche qui di fare incontrare le domande degli interni con l'offerta degli ospedali, e naturalmente il meccanismo dei prezzi non si può usare. Si deve usare qualche altro modo per appaiare le preferenze dei neodottori con i posti resi disponibili dagli ospedali. Le procedure usate non erano soddisfacenti. Sia i giovani che gli ospedali spesso finivano con dover accettare situazioni che erano lontane dalle preferenze di ciascuno. Roth rispolverò l'algoritmo Gale-Shapley e disegnò nuove procedure per far incontrare in modo efficiente (stabile) domanda e offerta. Poi l'invenzione fu affinata ulteriormente: per esempio, una coppia di neodottori vorrebbe fare l'internato assieme, e bisogna quindi che l'algoritmo tenga conto anche dei "doppi appaiamenti". Poi qualche astuto laureato in medicina scoprì che si potevano fare imbrogli: non accettando l'ospedale che in effetti preferivano e conoscendo i meandri dell'algoritmo si poteva finire dove si voleva... In un gioco di "guardie e ladri", Roth dovette rivedere ulteriormente le procedure. E le applicazioni dei Gate-Shipley non finiscono qui. Può essere usato anche per appaiare gli studenti alle scuole pubbliche. A New York, per esempio, gli studenti che vogliano scegliere una scuola possono mandare una lista dei desideri, e poi le scuole scelgono da quegli elenchi. Ma in quella maniera finiva che migliaia di studenti dovevano poi andare a scuole che non erano neanche nella loro lista. Anche qui Roth applicò nuove procedure che ridussero del 90% il numero di studenti che finivano in scuole per le quali non avevano espresso preferenze. Un altro compito assegnato a Roth riguardava le procedure per appaiare i pazienti bisognosi, mettiamo, di un trapianto di rene ai reni disponibili (non si possono certo assegnare al miglior offerente!). L'algoritmo di Gale-Shapley dovette essere ulteriormente affinato per tener conto anche delle incompatibilità, dei rigetti e le procedure si fecero ancora più complesse. Ma il problema doveva essere risolto, e fu risolto grazie all'antico genio matematico di Shapley e all'abilità di Roth nel ridisegnare quegli algoritmi per risolvere problemi della vita reale. fabrizio@bigpond.net.au __________________________________________________ Corriere della Sera 28 ott. ’12 TRA I SETTE DELL'AQUILA NON C'ERA GALILEO di DACIA MARAINI Sinceramente mi sento offesa per il modo superficiale e approssimativo con cui molta stampa ha trattato il caso degli scienziati condannati. E credo che lo siano anche moltissimi aquilani che hanno vissuto e subito il terribile terremoto del 2009. Si è subito sparsa la voce che gli esperti erano stati condannati per «non avere saputo prevedere il terremoto». E in tanti, senza informarsi, senza approfondire, hanno cavalcato questa accusa maldestra e volgare, quasi che i giudici fossero degli affiliati alla Santa Inquisizione. C'è addirittura chi ha paragonato il caso alla famosa condanna di Galilei perché aveva osato scrivere che il sole non gira intorno alla terra come voleva il credo religioso di allora. Un paragone semplicemente ridicolo. Se non fosse per la magistratura, non sapremmo niente della corruzione dilagante, degli abusi di potere e del male che una certa classe dirigente priva di scrupoli ha fatto e sta facendo al nostro Paese. Non è giusto, lo so, che il senso morale, l'etica pubblica vengano affidati alla sola magistratura. Ma quando la politica si dimostra inerte, incapace e corrotta, quando non è capace di trovare da sé il marcio che la decompone, per forza di cose la responsabilità passa alla magistratura, e dovremmo ringraziarla perché, nel suo complesso, compie il suo dovere con coraggio e lealtà. Tornando alla condanna, gli aquilani sanno bene di che si tratta. E mi pare che le cose si siano chiarite abbastanza in questi ultimi giorni con le intercettazioni dei famosi esperti che hanno rivelato la responsabilità precisa di Bertolaso, dominus assoluto della Protezione civile di allora, nel silenziare e sottovalutare il pericolo. Al contrario di quello che si afferma, gli scienziati — ma diciamo meglio questi sette scienziati condannati, da non confondere con il mondo delle scienze nel suo insieme, che ha ben altra serietà e autonomia — hanno proprio affermato che il terremoto si può prevedere. Tanto è vero che hanno escluso pubblicamente e reiteratamente ogni pericolo grave. Quindi è mistificante asserire che sono stati condannati per non avere anticipato il disastro. Loro hanno previsto, eccome, con sicumera e incoscienza la mancanza di ogni rischio, invitando le persone a rimanere a casa e con questo mandandole a morire. Per questo sono stati condannati. Procurare la morte di qualcuno, non per volontà ma per trascuratezza, si chiama per l'appunto omicidio colposo. Ed è di questo che devono rispondere quei cinque scienziati — non per carità tutto il mondo scientifico che però credo faccia malissimo a solidarizzare con i sette senza prima avere approfondito e capito a fondo come si siano svolti i fatti. Gli aquilani sanno bene che in quelle notti che hanno preceduto la grande scossa c'erano state centinaia di scosse minori e che i ragazzi — ricordiamo che L'Aquila era sede di una grande e frequentatissima università — chiamavano i genitori per chiedere consiglio: dobbiamo uscire? Dobbiamo andare via, lasciare le case, o restare? E i genitori cosa hanno fatto? Hanno chiesto lumi alle Istituzioni, ma soprattutto alla Protezione civile, che per l'appunto, servendosi della parola autorevole degli esperti fatti venire in fretta e costretti a sottoscrivere un annuncio prefabbricato, ha garantito che non c'era nessun rischio e che se ne stessero tranquilli a casa. I ragazzi, rassicurati, sono rimasti a casa e sono morti. Pensate al dolore di quei genitori che hanno tranquillizzato i figli, per essere stati a loro volta tranquillizzati, e averli indotti ad andarsene a letto. Mentre se qualcuno avesse detto loro che certo, non si può prevedere con certezza una catastrofe, ma la possibilità di un movimento tellurico grave c'era, oggi questi ragazzi sarebbero vivi. Non vogliamo parlare di una responsabilità grave? Che poi le colpe siano da estendersi anche ai costruttori di case, che durante la notte del terremoto ridevano pensando ai guadagni della ricostruzione, a coloro che hanno lucrato sul cemento, hanno lucrato sulla sicurezza, non tenendo minimamente conto dell'alto rischio sismico della zona, non c'è dubbio. Con altrettanta severità si dovrebbero condannare i costruttori dell'ospedale dell'Aquila che è crollato al primo scossone, e la casa dello studente e tutti gli edifici che non si sarebbero sbriciolati se nel costruirli ci si fosse attenuti alle piu elementari regole antisismiche. «Mi sarei aspettata dalla comunità scientifica una presa di distanza dai comportamenti di quei "cosiddetti scienziati" che, invece di comportarsi da tali, hanno piuttosto assecondato il bisogno politico della rassicurazione, invece del bisogno scientifico dell'informazione», dice Stefania Pezzopane, assessore alla Cultura del Comune dell'Aquila e continua: «Quando un giudice condanna un medico che per negligenza o imperizia ha prodotto menomazioni o morte ad un paziente, è forse un processo alla medicina? O non è molto più semplicemente il processo a quel medico negligente e incapace? Quando si processa un politico che ruba e lo si condanna giustamente, non è semplicemente il processo a quel politico e alle sue ruberie e non un processo alla politica? I medici competenti e i politici onesti ringraziano i giudici che condannano incapaci e disonesti». Vorrei che riflettessimo su queste sagge parole, ricordando che tutta l'Italia è un Paese a rischio sismico, che la prevenzione costa meno della riparazione, che i controlli debbono essere piu rigorosi e certi, e soprattutto che gli esperti debbono essere autonomi dalla politica. Galilei ha ceduto, ma rischiava la vita. Cosa rischiavano i nostri sette savi? Forse solo un malumore di chi li comandava in quel momento. E valeva la pena di perdere il rispetto di sé per questo? ========================================================= _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26/10/2012 AOB: SE PASSA IL RIORDINO SANITARIO SARÀ EMERGENZA INFERMIERI AL BROTZU CAGLIARI Cosa può succedere negli ospedali cagliaritani se passa lo sbarramento del 2 per cento per le assunzioni di personale interinale? Risponde il sindacato nazionale infermieri Nursing up che ritiene ci siano gli elementi per un comunicato che lancia l’allarme e chiede l’intervento della prefettura affinché avvii una mediazione con la Regione da una parte perché sospenda ogni decisione in tal senso e con l’ospedale che verrebbe immediatamente colpito dal provvedimento,vale a dire l’azienda ad alta specialità Brotzu. Così Diego Murracino segretario Nursing Up: «Il Brotzu rischia una imminente paralisi. Una nuova disposizione regionale se applicata dal mese di novembre manderà a casa circa 150 infermieri. L’ospedale principale della Sardegna – scrive ancora il sindacalista – non potrà garantire le cure in emergenza. Tale situazione mette a rischio la salute dei cittadini di tutta l’isola. Pertanto – qui arriva la richiesta – chiediamo l’intervento del prefetto di Cagliari al fine di rinviare tale disposizione regionale, concedendo al Brtozu il tempo necessario all’espletamento della selezione per l’assunzione degli infermieri ed evitare quindi il vuoto assistenziale». Il tema è lanciato, resta da vedere quali margini di manovra esistano. ___________________________________________________ L’Unione Sarda 27/10/2012 BARRACCIU DURA REPLICA SUL CASO BROTZU «Si sa che, in Consiglio regionale, un secondo dopo l'approvazione della norma (su mia proposta) che stabiliva il tetto di spesa per il ricorso al lavoro interinale nella misura del 2% del costo del personale nelle aziende sanitarie, il direttore generale del Brotzu le ha tentate tutte pur di non essere costretto a smantellare l'abnorme sistema di assunzioni discrezionali da lui generato nei suoi tre anni di direzione». L'accusa arriva da Francesca Barracciu (Pd) membro della commissione Sanità del Consiglio, dopo l'allarme sugli interinali lanciato dal direttore del Brotzu su L'Unione Sarda di ieri. «Garau strumentalizza un trapianto di rene rimandato, adducendo quale causa la presunta carenza di infermieri al Brotzu», sostiene il vice segretario regionale del Pd», «la verità è che Garau a oggi ha triplicato la spesa per gli interinali in quanto con lui è passata da 1.878.000 del 2008 e da i 2.541.000 del 2009 ai 3.456.000 del 2010, 5.929.000 del 2011 fino ad un bando pubblico che prevede una spesa di 18 milioni per i prossimi 3 anni e che da solo svela la volontà di Garau di non fare i concorsi e di stabilizzare invece il sistema interinale al Brotzu». Secondo Francesca Barracciu «Garau dovrebbe anche essere più cauto nel dare i numeri della dotazione organica e dei relativi posti vacanti perché è risaputo che nella pianta organica sono comprese le sostituzioni e che andare oltre quella dotazione, come ha fatto lui, di 150 infermieri e oltre 70 fra oss e amministrativi è un abuso ingiustificabile». Insomma, conclude il consigliere regionale del Ps, «la gestione del personale da parte di Garau è inammissibile e mi sarei aspettata da parte del sindacalista Murracino che pretendesse i concorsi e non che difendesse il precariato clientelare degli interinali. Non risulta che ai tempi del direttore generale Franco Meloni, quando gli interinali al Brotzu non esistevano, e di Mario Selis, quando erano ridotti al minimo, il Brotzu non funzionasse, anzi. Sia chiaro che la legge sugli interinali si applica ed è uguale per tutti». _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 26/10/2012 TRAPIANTI, SARDI GENEROSI Via alla campagna per le donazioni d'organo VEDI LA FOTO I sardi sono pochi e isolati, ma generosi e con un cuore grande. La percentuale di opposizione alle donazioni in Sardegna è nettamente inferiore alla media nazionale. Ma se si parla di trapianti non ci si può accontentare. E per sensibilizzare ancora di più sull'importanza della donazione da ieri è partita una campagna di solidarietà. Artefici la Regione e il Centro regionale dei trapianti. Lo slogan è “Donarsi”, uno spot semplice ma d'impatto, ideato dal pubblicitario sardo Gavino Sanna nel 1994. Durerà sei mesi: quotidiani, tv, siti di informazione, una pagina web dedicata (www.donarsi.it), e anche i cinema dell'Isola lanceranno il messaggio. NUMERI Dal primo gennaio di quest'anno a oggi nei 14 reparti di Rianimazione degli ospedali sardi sono stati effettuati 25 trapianti di rene singolo, 2 con doppio rene, 6 rene-pancreas, altrettanti di cuore, 15 di fegato. Attualmente le opposizioni alle donazioni da parte dei familiari sono sotto il 20 per cento. «È una percentuale inferiore alla media nazionale», spiega l'assessore alla Sanità Simona De Francisci. «Il merito è soprattutto delle famiglie, visto che dietro una rinascita c'è sempre un dramma». Ma si può fare di più. «La lista di pazienti in attesa è sempre maggiore rispetto alla disponibilità di organi da trapiantare, per questo è necessario sensibilizzare la popolazione». ESORDIO Nel 1988 il primo trapianto nell'Isola, di rene. Da allora la crescita è stata esponenziale: in ventiquattro anni le donazioni sono diventate 600, e 1149 i trapiantati che grazie a sacrifici generosi hanno ripreso a vedere la vita a colori. «I numeri sono importanti, ma non va dimenticato il dolore di una famiglia che perde il proprio caro e il grande lavoro di squadra di tante figure professionali che contribuiscono alla riuscita di ogni trapianto», ricorda Carlo Carcassi, responsabile del Centro regionale trapianti. TRAGUARDO Fausto Zamboni, direttore della Chirurgia epatica del Brotzu, il 5 marzo ha tagliato un traguardo prestigioso: ha effettuato il duecentesimo trapianto di fegato. «I sardi sono generosi, e i nostri pazienti hanno avuto la possibilità di avere questo dono enorme». Dai primi trapianti eseguiti senza autorizzazione ministeriale fino a oggi, il Brotzu è diventato l'ospedale di riferimento dell'Isola. La campagna di sensibilizzazione è finanziata dalla Regione. «Abbiamo speso 100 mila euro, ma ogni paziente strappato alla dialisi fa risparmiare un costo enorme», spiega la De Francisci. Sara Marci _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26/10/2012 TRAPIANTI IN CALO DEL 10% NELL’ISOLA CAGLIARI Al via in Sardegna, dopo 20 anni, una campagna di sensibilizzazione per la donazione degli organi. «Donarsi» è lo slogan dello spot che riprende il messaggio creato dal pubblicitario Gavino Sanna nel 1994, attraverso una lettera (oggi rivisitata in mail) tra due innamorati. Quest’anno c’è stato un calo del dieci per cento dei trapianti eseguiti nell’isola, eppure (come si può leggere nell’articolo a fianco) i donatori sardi sono in costante crescita e la diminuzione degli interventi è legata a problemi strutturali della sanità sarda. Ma un organo donato, naturalmente, può servire anche al di fuori della Sardegna, e quindi ben venga la nuova campagna, realizzata con 100mila euro e affiancata da un corso di formazione per medici e infermieri delle rianimazioni (250mila euro). L’hanno presentata ieri l’assessore regionale alla Sanità, Simona De Francisci, e il responsabile del Centro regionale trapianti, Carlo Carcassi. Nell’isola l’attività di trapianti è nata nel 1988 e da allora più di 600 persone hanno donato i propri organi dopo la morte, mettendo a disposizione di 1500 persone un cuore, un fegato, un rene o altri organi. Carcassi ha attribuito il calo dei trapianti nel 2012 ad «alcune criticità rilevate nell’azienda Brotzu di Cagliari, all’ospedale di Nuoro e al SS. Annunziata di Sassari». Dal primo gennaio al 23 ottobre 2012 nei 14 reparti di rianimazione della Sardegna e censiti per l’attività di donazione ci sono state 42 segnalazioni (52 nel 2011) e 37 famiglie hanno acconsentito alla proposta di donazione mentre le opposizioni hanno registrato il 19,6% (rispetto al 29,8% della media nazionale). In linea di massima – ha sottolineato Carcassi – le motivazioni riguardano la non conoscenza del sistema, l’incapacità di gestire la comunicazione della morte da parte dei familiari o la non conoscenza della necessità sociale dei trapianti. Riguardo al numero dei trapianti del 2012, al 22 ottobre sono state effettuate 22 donazioni (28 nel 2011) con 25 impianti di rene singolo (46 nei 12 mesi del 2011), due trapianti con doppio rene (quattro nel 2011), sei di rene-pancreas (quattro nel 2011), sei di cuore (10 nel 2011) e 15 di fegato (26 nel 2011). _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26/10/2012 TRAPIANTI: MA C’È IL BOOM DEI DONATORI: 21MILA GLI ISCRITTI ALL’AIDO SASSARI Contro i primati negativi che segnano drammaticamente l’isola in tanti ambiti, la generosità dei sardi emerge quasi come un record dalla disponibilità a donare i propri organi dopo la morte. «Gli iscritti all’Aido hanno toccato quota 21mila», dice Paolo Pettinao, presidente regionale dell’associazione, a lungo direttore sanitario dell’ospedale Brotzu a Cagliari. A quei 21mila nomi, che confluiscono tutti nel Centro- dati nazionale per far fronte a ogni emergenza, vanno aggiunti gli 811 registrati nelle Asl. «Operiamo per cornee, cuore, pancreas e rene: non possiamo fare solo i trapianti di polmone e intestino», spiega Carlo Carcassi, coordinatore generale per questi interventi in Sardegna. «Le tendenze degli ultimi anni confermano la tradizione che vuole gli abitanti dell’isola tra i più sensibili nei confronti di queste tematiche», aggiunge Vincenzo Passarelli, presidente italiano dell’Aido. E forse nei prossimi mesi partirà anche in Sardegna la sperimentazione fatta in Umbria per consentire direttamente ai cittadini di esprimere la volontà di donare al momento del rinnovo della carta d’indentità, così come è stato fatto a Perugia e a Terni. Nessuna indicazione comparirà sul documento. Semplicemente, la comunicazione sarà trasmessa al registro nazionale a cura delle amministrazioni municipali. Sia le iscrizioni dei donatori negli uffici Asl sia queste ultime procedure, comunque, sono state attivate nelle zone dove maggiori erano le resistenze a offrire la propria generosità. «Un genere di difficoltà che in Sardegna non si nota – affermano Pettinao e Carcassi – E, per capirlo, basta un dato: la percentuale di opposizione dei familiari ai quali viene chiesto se la persona alla quale potrebbero essere espiantati gli organi avesse in vita manifestato dissenso verso la donazione, in modo palese o attraverso il suo modus vivendi, è nettamente inferiore alla media nazionale. Di recente, ha generato qualche confusione sul fenomeno la pubblicazione di statistiche parziali su scala nazionale dove l’isola figurava come fanalino di coda. Tutto perché, nei grafici e nelle tabelle estrapolati da tabulati del ministero della Salute, si prendevano in considerazione i soli dati delle registrazioni dei donatori nelle Aziende sanitarie (che in aree come il Veneto o la Puglia hanno picchi percentuali notevoli), e non invece i numeri complessivi. «D’altronde, in generale, se i volontari iscritti all’Aido, e quindi registrati come donatori al Centro-dati italiano, sono un milione e 200mila, quelli che fanno capo alle Asl sono appena 128mila», informa ancora il presidente Passarelli, che l’altra sera, da vero volontario a tutto campo, collaborava a rispondere al numero verde dell’Aido. «La gran parte dei sardi disponibili verso questi temi preferisce rivolgersi appunto alle sedi Aido, forse perché gli sportelli delle Asl, che pure nell’isola esistono e sono operativi, non sempre vengono pubblicizzati a sufficienza», conferma Maria Cossu, che da Sassari segue la problematica dei trapianti. Per aggiungere, spiegando ancora meglio la situazione generale italiana: «Pare che in alcune zone l’apporto delle Aziende sanitarie sia stato sollecitato proprio per cercare di aumentare il numero di donatori, questione che da noi non si pone, visto che nel Centro-Sud la Sardegna è sicuramente tra le regioni migliori da questo punto di vista». La dottoressa infine ricorda come nel nord dell’isola sia stata sospesa l’attività dei trapianti. E in effetti, dopo il lavoro svolto per anni in passato da chirurghi sassaresi come Pier Paolo Manca e Nicola D’Ovidio, tutti gli interventi di questo genere oggi si fanno solamente a Cagliari. «Ci auguriamo perciò che a Sassari l’attività di trapianto possa venire ripresa al più presto, anche considerato che le donazioni si mantengono sempre su una buona media», osserva in ultima analisi Maria Cossu. _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 25/10/2012 MICROCITEMICO: IL DISTRETTO REGIONALE PEDIATRICO Dove oggi sorge il Microcitemico nascerà un grande ospedale-distretto pediatrico regionale. E l'Oncologico sarà potenziato. Sono i progetti che la Regione, d'intesa con la Asl 8 e gli altri soggetti interessati - tra tutte l'Azienda Brotzu e l'Azienda ospedaliero-universitaria - sta portando avanti per offrire all'area vasta di Cagliari e a tutta la Sardegna servizi sanitari di alta specializzazione, più efficienti anche dal punto di vista logistico. Già dalla prossima primavera alcune attività del nuovo presidio pediatrico saranno pronte. Il punto sui lavori è stato fatto durante la visita del presidente della Regione, Ugo Cappellacci, e dell'assessore alla Sanità, Simona De Francisci. A illustrare le novità il direttore generale della Asl cittadina, Emilio Simeone. «Per quanto riguarda il polo pediatrico - spiega una nota della Regione - si punta a riunire in un'unica struttura reparti, specializzazioni e professionalità oggi localizzate in almeno tre centri». Il progetto prevede un pronto soccorso autonomo, e vari reparti (Rianimazione, Cardiologia, Chirurgia pediatrica, Pediatria, Oncologia, Centro trapianti e Neuropsichiatria infantile). Anche all'Oncologico sono in corso interventi di miglioramento: già operativi il polo di Radioterapia e il centro di Medicina nucleare; in fase di potenziamento c'è anche il servizio di Anatomia patologica. (sa. ma.) _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 24/10/2012 AOB: LE ARMI IN PIÙ PER IL CUORE Accordo tra Regione, Brotzu e Asl Cagliari: decolla l'asse Sardegna- Emilia Alta specializzazione sulle malattie congenite Nuove strumentazioni ma anche la telemedicina e gli accordi tra regioni per diagnosticare e curare le cardiopatie congenite nei pazienti sardi. L'assessorato regionale della Sanità, in collaborazione con Azienda ospedaliera Brotzu e Asl, intensifica gli sforzi per venire incontro alle esigenze di chi soffre, ad esempio, di aritmie congenite e che fino a oggi magari era costretto a curarsi nella Penisola. LE NOVITÀ PER LE ARITMIE Nei giorni scorsi l'azienda Brotzu ha acquistato un registratore holter a dodici derivazioni che, unico nell'Isola, riesce a diagnosticare e curare per tempo particolari aritmie, difficilmente individuabili con apparecchiature tradizionali, che possono risultare anche letali nei giovani e negli atleti. La strumentazione (costata 8mila euro), che conferma la vocazione ad altra specializzazione dell'ospedale cagliaritano, è stata comprata grazie ai fondi raccolti con le donazioni per il libro “I colori del cuore, storie d'amore per la vita”, firmato da Roberto Tumbarello e Sabrina Montis, rispettivamente direttore e psicologa della Cardiologia pediatrica del Brotzu, che racconta le storie di genitori e dei piccoli pazienti affetti da cardiopatia congenita. LA TELEMEDICINA Passi avanti anche sul fronte della telemedicina. Nei giorni scorsi il progetto Remote (Risorse e modelli organizzativi in tele-ecocardiologia) è stato presentato anche alla Asl di Nuoro. Remote, attraverso l'innovazione tecnologica e il web trasferiti alla sanità, punta a far collaborare ospedali anche lontani tra loro ed effettuare così un esame diagnostico a distanza e si basa sull'impiego della duplice applicazione della telemedicina: il tele-consulto in tempo reale e la “second opinion”, in cui due clinici collaborano a distanza per arrivare a una diagnosi e a una terapia. L'idea è nata durante la collaborazione tra il Crs4 (Centro di ricerca e sviluppo di studi superiori in Sardegna) e il Brotzu. ASSE SARDEGNA-EMILIA E intanto si rafforzano le collaborazioni tra i reparti di Cardiologia pediatrica della Sardegna e dell'Emilia Romagna. Nei giorni scorsi l'assessore alla Sanità Simona De Francisci ha incontrato Gaetano Gargiulo, direttore dell'Unità operativa di Cardiochirurgia pediatrica del policlinico Sant'Orsola-Malpighi di Bologna, con il quale, sempre sul fronte delle patologie cardiache, si è definito un percorso di cooperazione. In particolare, si pensa all'utilizzazione del teleconsulto tra i reparti di Cagliari e Bologna per casi complessi; si pensa anche a un'ottimizzazione del percorso di ricovero per casi urgenti; ai piani di aggiornamento professionale per le figure mediche e paramediche grazie a stage dedicati. _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 26/10/2012 AOB: SPERIMENTATA UNA NUOVA TECNICA CHIRURGICA Per la prima volta al mondo da un'equipe dell'ospedale Brotzu è stata impiantata a un paziente affetto da aneurisma dell'arco aortico e inoperabile, secondo la tecnica tradizionale «aperta», una particolare endoprotesi necessaria per mantenere la vascolarizzazione del cervello. L'intervento è riuscito: il decorso postoperatorio è regolare, dicono i medici. La protesi, posizionata con tecnica mini-invasiva (accessi dall'inguine e dal collo) è una evoluzione di quella utilizzata per un intervento nel febbraio scorso che, rispetto all'attuale, era dotata di un'unica branca. Il vantaggio della protesi attuale è quello di permettere una miglior vascolarizzazione del cervello mediante due branche piuttosto che un'unica via. L'intervento è stato eseguito dal direttore della Chirurgia Toraco-Vascolare Stefano Camparini con Luigi Pibiri dello stesso reparto, Claudio Ganau di Radiologia, gli anestesisti Maurizio Cocco e Gianluca Noto. «Si tratta di una tecnica molto innovativa», ha spiegato Camparini, «utilizzata per la prima volta al mondo». _______________________________________________________________ L’Unione Sarda 24/10/2012 IL BILANCIO DELL'ASL 8: PERDITA NETTA DI 15 MILIONI Approvato ieri il bilancio di esercizio 2011 della Asl 8, costituito da stato patrimoniale e conto economico. Il risultato di bilancio, pur registrando ancora una perdita, è buono se rapportato con gli anni precedenti: infatti migliora nettamente il risultato del 2010 con una riduzione della perdita di circa 25 milioni, certificando che la Asl cagliaritana ha avviato un percorso di riequilibrio economico. Se si depura il dato complessivo dalle componenti non monetarie, costituite dagli ammortamenti al netto della sterilizzazione e dall'interesse di computo sul patrimonio netto, si determina una “perdita netta” di 21.135.745 euro che si ritiene debba trovare copertura mediante l'intervento finanziario a ripiano da parte della Regione, così come avvenuto per gli esercizi precedenti. Su tale perdita incidono 5.995.356 di partite straordinarie per costi relativi a esercizi precedenti. La perdita netta relativa all'esercizio 2011 è pari a 15.140.389. La perdita iscritta a bilancio per l'anno 2011 è pari a 30.228.192 euro. __________________________________________________ Panorama 30 ott. ’12 LA SALUTE È UNA FORMULA. MATEMATICA Oggi gli algoritmi non solo diagnosticano le malattie ma ci dicono anche con quale probabilità ci ammaleremo dato il contesto fisico, biologico e sociale in cui viviamo. Oppure, come nel caso del premio Nobel all'economia recentemente assegnato ad Alvin Roth e Lloyd Shapley, aiutano ad associare organi da trapiantare a liste di pazienti. Due recenti ricerche sono in questo senso paradigmatiche. Ricercatori del Texas Alzheimer's research and care consortium, negli Stati Uniti,stanno mettendo a punto un algoritmo che distingue una persona sana da un malato di Alzheimer. Uno dei ricercatori, Robert Barjber, spiega a Panorama che, quando il test sarà disponibile negli ospedali, «l'algoritmo sarà in grado di diagnosticare la malattia basandosi sull'analisi di particolari proteine del plasma e alcuni dati clinici». In altre parole, una procedura costituita da semplici operazioni matematiche eseguite in un ben preciso ordine temporale da un computer darà un responso sul nostro stato di salute. Ma non è tutto: un algoritmo può influenzare la percezione del nostro benessere nel futuro. In una ricerca recentemente pubblicata sul Journal of epidemiology and community health, scienziati americani presentano un algoritmo che fornisce la probabilità di sviluppare il diabete dati il nostro indice di massa corporea, l'età, lo stile di vita, la razza, il livello di educazione e altre caratteristiche. Sempre di più gli algoritmi ci classificano come appartenenti a una certa classe di individui, e questa stessa etichetta che ci viene attribuita muta la stessa percezione che abbiamo di noi stessi in un effetto di feedback che influenza i nostri stili di vita, il nostro umore e il modo in cui ci rapportiamo ai nostri simili. Perfino la scelta del nostro partner è per alcuni dettata da un algoritmo. Chi sul serio o per gioco ha utilizzato i siti d'incontri o agenzie matrimoniali su internet sa che, una volta effettuata la registrazione, viene presentato un questionario in base al quale vengono proposti i candidati ideali. E lì che un algoritmo entra in gioco. Supponiamo che vengano poste quattro domande, dai gusti musicali alle idee politiche., dal carattere agli svaghi, e che occorra attribuire un numero da 1 a 10 ad alcune risposte possibili. Ci sono semplici algoritmi che calcolano le differenze tra i numeri scelti da coppie di diversi utenti, le elevano al quadrato, le sommano e ne effettuano una radice per giungere a quella che si chiama media quadratica: un numero che a seconda del valore stabilisce l'affinità tra due persone. Se non suonasse così poco romantico, si potrebbe dire che a cambiarci la vita è un algoritmo, piuttosto che il candidato o la candidata che è risultato «compatibile». Algoritmi che hanno successo in un campo vengono applicati in un altro. Così, silenti, colonizzano porzioni sempre più vaste del reale. Per esempio, gli algoritmi genetici vengono usati nell'intelligenza artificiale o dagli economisti per analizzare l'andamento degli scambi o delle transazioni. In internet un algoritmo usato dal motore di ricerca di Google seleziona le pagine che appaiono come le più rilevanti quando facciamo una ricerca sul web, guidando cosi le nostre stesse scoperte intellettuali. Si chiama Page rank link analysis algorithm ed è stato recentemente applicato all'ecologia. Una recente ricerca apparsa su Plos computational biology stabilisce, per mezzo del Page rank link analysis algorithrn applicato a reti di specie biologiche anziché a reti di link su internet, quali esseri viventi sono critici nella catena alimentare degli ecosistemi terrestri, di fatto suggerendo quali animali e piante dovremo maggiormente difendere. Il termine ecologia viene dal greco «oikos», che significa casa, ciò che ci sta intorno. Gli algoritmi sempre più stabiliranno la forma della nostra «casa» indicando come ricostruirla e preservarla. In questi e altri esempi, altri metodi, come quelli statistici o come quelli sperimentali, vengono usati insieme agli algoritmi per ottenere un dato risultato. Per esempio, non sarebbe possibile diagnosticare una malattia con un algoritmo senza usare anche metodi statistici. Il filosofo della scienza canadese lan Hacking sostiene che o i cerchiamo di conoscere il mondo attraverso una certo numero di quelli che lui chiama «stili di ragionamento», sorta di metodi usati nella scienza per conoscere. Tra questi vi sono: lo stile algoritmico, in cui procedure costituite da semplici operazioni vengono implementate meccanicamente; lo stile della dimostrazione, applicato per esempio in geometria; lo stile sperimentale, per mettere alla prova le nostre teorie; lo stile statistico, con i suoi concetti di probabilità o di media. Hacking nota che in epoche diverse gli esseri umani hanno usato solo alcuni di questi stili di ragionamento, o altri completamente diversi. Per esempio, gli antichi greci non ragionavano in termini di statistica, un concetto nato nell'Europa del 1600; il concetto di dimostrazione si è sostanzialmente sviluppato nella Grecia antica piuttosto che tra gli egizi o i babilonesi; il metodo di sviluppare modelli matematici e sottoporli a verifica sperimentale è entrato a tutti gli effetti nella pratica scientifica nel Sedicesimo secolo. Lo stesso stile algoritmico, pur essendo sorto nelle antiche civiltà umane, si è sviluppato ed è diventato ubiquitario nella nostra epoca grazie allo sviluppo degli altri stili di ragionamento. Se oggi ogni aspetto del reale viene tradotto in formule, se ci sono modelli che simulano il nostro futuro, se pensiamo così spesso in termini statistici, è perché abbiamo inventato e messo a frutto questi stili di ragionamento. Siccome Hacking sottolinea gli aspetti contingenti che li hanno fatti emergere, da quelli sociali a quelli storici, possiamo interrogarci sulla possibilità di un'altra società, diversa dalla nostra, senza le nostre domande, i nostri stili di ragionamento e le nostre scoperte: era inevitabile che la storia andasse verso un mondo pervaso da algoritmi e statistiche, una società che si serve di questi metodi di ragionamento? Nel rispondere a questa difficile domanda, Michele Marsonet, professore ordinario di filosofia della scienza all'Università di Genova, premette: «Alcuni filosofi rispondono dicendo che il progresso scientifico avanza verso ciò che loro chiamano la verità. In questo caso direbbero che gli stili di ragionamento sono emersi nella storia e sono in uso nella scienza moderna perché ci permettono di scoprire la verità». Marsonet non è d'accordo con loro: «lo ho sempre criticato gli scienziati che sostengono che la scienza formulerà la teoria del tutto, una teoria che spiega e collega tutti i fenomeni conosciuti». Il punto di Marsonet è semmai il seguente: «Credo che dovremmo limitarci a dire che i nostri stili di ragionamento funzionano, nel senso che hanno successo. Funzionano per puri motivi pratici: dal fatto che il nostro stile di vita migliora a quello che riusciamo a curare una malattia. Ma questo non significa che possiamo dire che corrispondono al mondo così come realmente è, e che per questo hanno avuto successo, Forse con i nostri sensi possiamo accedere solo a una certa porzione del mondo così da essere lontani dal poterlo comprendere». La risposta di Marsonet è, naturalmente, una delle molte possibili. Una risposta certa non la potremo mai avere. Possiamo solo cercare di immaginare una società senza algoritmi, statistiche e modelli matematici e magari cedere alla tentazione di ritenerla più o meno felice della nostra.. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 25/10/2012 SALUTE, PIÙ CULTURA E MENO RETE «TROPPE INFORMAZIONI ONLINE» IL PROGETTO IL PROGRAMMA-APPELLO DELL'ASSOCIAZIONE PERIPATO Riavvicinare cultura e medicina è l'obiettivo dell'associazione «Peripato» (ogni riferimento alla scuola aristotelica non è casuale) che, ieri, ha annunciato alla città l'ambizioso progetto, attraverso le voci di attori, scienziati, filosofi e, naturalmente, medici. Un obiettivo non più rinviabile, perché «quella che tra le scienze è la più umanistica», ha spiegato Sergio Harari, medico e presidente di «Peripato», oggi sembra ostaggio della tecnologia. Su tutti i piani. A cominciare dai cittadini/pazienti che ? uno su due ? s'informano in rete e sempre più spesso giocano un ruolo attivo nelle decisioni terapeutiche. Questo racconta, infatti, un sondaggio lanciato online dal canale salute di Corriere.it («Salute e informazione: tu come la pensi?»). Il programma di Peripato culminerà il prossimo settembre con un «festival della salute» al quale il Comune, attraverso l'assessore ai Servizi sociali Pier Francesco Majorino ha già dato la benedizione: «È una grande occasione per un dibattito pubblico sul tema della salute ? ha detto intervenendo al Circolo della stampa ?. Il tema della salute va alimentato attraverso il protagonismo di tanti e questo aiuta l'istituzione a non sentirsi un fortino isolato o un palazzo chiuso».Presentati anche 4 cartoon che di Bruno Bozzetto per «ComunicAnimare la salute», progetto di promozione della salute realizzato da Humanitas Gavazzeni con la Asl e l'Ufficio scolastico di Bergamo, per sensibilizzare i giovani sull'importanza della prevenzione. Tecnicismo e razionalità sono «elementi indispensabili per una moderna medicina, ma che soli non bastano per quella che è ancora un'arte fatta di empirismo, esperienza, capacità di contatto umano ? spiega Harari ?. Il fiuto clinico esiste ancora e non risiede in una Tac o nelle nuove tecnologie, esami dei quali non possiamo certo fare a meno ma che da soli non bastano a risolvere i problemi dei malati». Ricongiungere la medicina all'uomo, riavvicinare la cultura umanistica alla medicina in chiave moderna, rimettere in linea due binari che «non possono più essere disgiunti» è molto più che una scommessa. Fa riflettere sapere che la metà di chi ha risposto al sondaggio del Corriere ha ammesso di aver cercato informazioni su internet quando si è presentato un problema di salute. Un tempo si andava dal dottore. Che continua ad avere un ruolo centrale ma che si trova a dialogare con una platea di pazienti che ha accesso anche a troppe informazioni. Il terreno della medicina, precisa Giulio Giorello, filosofo della scienza «è per eccellenza un terreno dove si deve dispiegare la libertà filosofica, l'indagine a tutto campo, la capacità critica che è anche capacità di prendere decisioni accettabili sotto il profilo etico». Non è un caso se il Giuramento di Ippocrate definiva l'impresa comune di medico e paziente come «alleanza» contro il nemico di entrambi, la malattia.pdamico@corriere.itRIPRODUZIONE RISERVATA Paola D'Amico _______________________________________________________________ La Nuova Sardegna 23/10/2012 INVALIDI, INPS PERDENTE IN 9 CAUSE SU 10 SASSARI È guerra legale tra l'Inps e gli invalidi. E in 9 casi su dieci sono questi ultimi a spuntarla. Lo denuncia il presidente provinciale dell'Anmic, Pier Giuseppe Vacca. Che ha collezionato un voluminoso dossier dei casi finiti davanti al magistrato per le lungaggini dell'ente previdenziale nel riconoscere l'invalidità o l'accompagnamento e per la incredibile celerità nel sospendere, al contrario, i pagamenti quando il destinatario deve essere sottoposto a visita di revisione. È uno sfogo quello di Vacca, tenace difensore dei diritti degli invalidi che è, dice, «stanco di scontrarmi da anni con un muro di gomma: noi abbiamo la legge dalla nostra parte ma poi finisce che dobbiamo ricorrere alla magistratura per avere ragione». «E questo comporta, oltre al disagio per l'invalido di vedere riconosciuto con ritardo quanto gli spetta, un esborso di denaro per la collettività– fa presente Vacca –: quando il giudice del lavoro accoglie il nostro ricorso, condanna l'Inps non solo a rifondere gli arretrati dal momento della dichiarazione dininvalidità ma anche a pagare le spese processuali e di consulenza tecnica, cioè diverse migliaia di euro ". La spina nel fianco è rappresentata in particolare dalle procedure di revisione della invalidità. Come si sa in alcuni casi è a tempo e quindi trascorso quel periodo il beneficiario deve di nuovo sottoporsi a visita. Spiega Vacca: «Sei mesi prima della scadenza l'Inps deve perciò comunicare all'Asl che il paziente deve eseguire il nuovo controllo della commissione medica. E invece questo non avviene e così viene sospeso il pagamento dell'assegno. Eppure la legge dice che il verbale con il quale veniva riconosciuta l'invalidità continua la sua efficacia finchè una nuova commissione non stabilisce il contrario. A questo punto l'invalido, anche attraverso il nostro ufficio legale, decide di procedere per le vie legali, attraverso un ricorso ex articolo 700 del codice civile e cioè chiedendo un provvedimento d'urgenza e nella stragrande maggioranza dei casi ci viene dato ragione. Ma anche la giustizia ha i suoi tempi». Vacca cita come emblematico il caso di un invalido al cento per cento che dal 2003 è stato costretto per tre volte alle carte bollate per vedersi riconosciuta l'inabilità al lavoro e l'accompagnamento. Nel 2007 una verifica sanitaria del ministero del Tesoro lo aveva privato dell'indennità di accompagnamento, nel marzo scorso il giudice del lavoro gli ha ripristinato il diritto. Ma è tutto il meccanismo che non funziona. «Per farci parte diligente e cercare comunque di collaborare con l'Inps - spiega ancora Pier Giuseppe Vacca,allora facciamo la richiesta di visita per revisione attraverso la procedura telematica dell'istituto di previdenza. Ma ecco la beffa: il sistema centrale ci risponde che "la domanda è già stata acquisita e non è consentito acquisirne una nuova”. Dunque l'Inps sa di dover chiamare a visita,ma allora perché non lo fa?». Tra i penalizzati del cervellone romano anche una donna con gravi disturbi psichici, per citare solo un esempio, che doveva essere convocata per un nuovo controllo già dallo scorso maggio, e che non essendo stata ancora chiamata, ad oggi non ha percepito nè la pensione nè le altre indennità che le spettano. E ci sono tante altre situazioni paradossali. C'è chi vive in una situazione di limbo da mesi. Ecco cosa è capitato a un'altra donna che vista la gravità delle sue patologie aveva ottenuto di poter contare sull'accompagnamento senz a nemmeno la necessità di ulteriori conferme,. Invece ecco che la commissione medica superiore a Roma-- organismo "fantasma" secondo l'Amnic - decide che l'accompagnamento le spetta fino allo scorso gennaio. A giugno arrivano i soldi arretrati fino a gennaio, quindi a verbale già scaduto. Poi niente. «Noi proseguiamo la nostra battaglia legale, che è una battaglia a livello nazionale, ma non è questo che vorrebbero gli invalidi», conclude Vacca _______________________________________________________________ Sanità News 25/10/2012 ITALIA AGLI ULTIMI POSTI NEL CORRETTO USO DEGLI ANTIBIOTICI Europa spaccata a meta' nel corretto utilizzo degli antibiotici, soprattutto quando si parla di bambini. Se al Nord Europa (Inghilterra, Germania e Belgio) questi farmaci si utilizzano ''meno'' e ''meglio'', piu' indietro rimangono Paesi come Italia, Grecia e Spagna. Se poi mettiamo a confronto i Paesi Europei con quelli meno sviluppati (Asia o Africa), il divario aumenta. Ad incidere sul problema, sono anche fattori di tipo economico, culturale e sociale. Sono questi alcuni dei punti salienti emersi dal progetto ARPEC, uno studio di sorveglianza finanziato dall'Unione Europea nel 2010 e i cui risultati sono stati presentati a Tallinn in Estonia. Tra gli italiani aderenti al progetto, Susanna Esposito, Direttore della UOC Pediatria 1 Clinica della Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che ha commentato i dati raccolti in Italia. Secondo lo studio, nel Nord Europa esiste una prevalenza (numero di pazienti trattati almeno con un antibiotico, su 100 pazienti) piu' bassa nell'uso di antibiotici, con circa il 30%, rispetto al Sud Europa, con circa il 38%. Discorso a parte per la Romania che presenta un picco di prevalenza nell'uso di antibiotici del 72%. Guardano al di fuori dell'Europa (Asia e Sud Africa) nei reperti pediatrici e neonatali si registra una prevalenza nell'uso di antibiotici del 44%, maggiore rispetto a quelli Europei con il 35.4%. In Italia, il consumo di antibiotici arriva a circa il 38% posizionando il nostro Paese al penultimo posto, dopo Portogallo (28.5%) e Spagna (37,7%). Medaglia nera alla Grecia, con un utilizzo che raggiunge il 40%. ''Gli antibiotici - ha sottolineato la professoressa Esposito - sono farmaci preziosi, molto utili in presenza di specifiche infezioni, ma che non funzionano o addirittura possono essere dannosi qualora non vengano utilizzati in modo corretto. E', quindi, molto importante che siano somministrati solo quando li prescrive il pediatra, dopo aver fatto un'attenta diagnosi della patologia presentata dal bambino''. Un elemento di estrema importanza e' quello della resistenza antimicrobica, che rappresenta un problema mondiale di sanita' pubblica: ogni anno, la presenza di batteri resistenti ai medicinali antibiotici provoca la morte di circa 25.000 persone. Oltre ai decessi, il fenomeno comporta un surplus di spese per le Sanita' Pubbliche e perdite di produttivita' per almeno 1,5 miliardi di euro. Inoltre, nelle diverse strutture sanitarie, la resistenza antimicrobica costituisce una minaccia particolarmente grave, che si manifesta sotto forma di infezioni contratte in seguito ad un ricovero in ospedale: basti pensare che, solo nell'Unione Europea, circa 4 milioni di pazienti soffre ogni anno di un'infezione connessa alle cure medico- sanitarie. Tra i fattori responsabili dell'insorgenza di questo preoccupante fenomeno ci sono non solo l'uso inadeguato di antimicrobici terapeutici - sia in medicina dell'uomo, sia in veterinaria - e l'impiego di antimicrobici a fini non terapeutici, ma anche ragioni di natura socio-economica e culturale. Per monitorare la resistenza antimicrobica ed il consumo di antimicrobici, l'Unione Europea ha istituito due diversi sistemi di sorveglianza: la Rete Europea di Sorveglianza della Resistenza Antimicrobica (ENSAR) ed il Controllo europeo sul consumo degli antimicrobici (ESAC) promuovendo, contemporaneamente, politiche di comunicazione per il corretto utilizzo degli antibiotici. _______________________________________________________________ Sanità News 23/10/2012 VERIFICA ANNUALE PER TUTTI I MEDICI INGLESI In Gran Bretagna tutti i medici pubblici verranno esaminati ogni anno, e ogni cinque anni verra' deciso se sono ancora in grado di esercitare la professione. Lo ha annunciato il segretario alla Salute Jeremy Hunt durante un'intervista alla Bbc. Secondo il programma, che iniziera' gia' dal prossimo dicembre, ogni organizzazione che fa capo alla sanita' pubblica britannica dovra' avere un responsabile incaricato di 'rivalidare' i propri medici ogni anno sulla base di una perizia che tiene conto anche del giudizio dei pazienti e dei colleghi. Ogni cinque anni il responsabile deve poi inviare al General Medical Council, un organismo regolatorio indipendente simile al nostro Ordine dei Medici, un rapporto con una raccomandazione sulla possibilita' del medico di continuare a esercitare, o sulla necessita' di un aggiornamento. Da alcune valutazioni di prova, riferisce la Bbc, il 4,1% dei medici testati avrebbe qualche problema, abbastanza grave da pregiudicare l'esercizio della professione nello 0,7% dei casi. ''Il tema e' sul tappeto da molti anni anche da noi, anche se gia' abbiamo alcuni meccanismi di valutazione, che andrebbero pero' resi piu' organici - commenta Amedeo Bianco, presidente della Federazione degli ordini dei Medici (Fnomceo) - se la valutazione e' vista come strumento di sviluppo e non di punizione ed e' chiaro chi giudica cosa un programma simile potrebbe avere degli effetti molto positivi''. _______________________________________________________________ Sanità News 23/10/2012 GLI ECOGRAFI SI TRASFERISCONO SU SMARTPHONE E TABLET Ecografi su smartphone e tablet saranno presto componenti di indispensabili e di routine per gli esami del medico internista che, appoggiandoli sul corpo del paziente, potra' esaminare in tempo reale e con elevata precisione le malattie di collo, torace, cuore e addome con un'ecografia. E' una delle ultime novita' presentate al 113° Congresso della Simi, Societa' italiana di medicina interna, tenutosi a Roma, dove e' stato mostrato il prototipo di un tablet dalle dimensioni medie, spesso due centimetri, con il quale si possono eseguire ecografie direttamente a domicilio. Cosi', senza bisogno di far spostare il malato, si potra' ad esempio verificare un versamento pleurico semplicemente appoggiando la sonda sul torace, o controllare se i dolori addominali dipendono da una colica biliare o renale, o se una gamba gonfia e' causata da una trombosi venosa. ''Saremo fra i primi in Europa, e insieme ai giapponesi nel mondo, a usare un dispositivo di questo tipo per l'ecografia - spiega Vincenzo Arienti, direttore della Medicina Interna dell'Ospedale Maggiore di Bologna, dove stanno sperimentando il nuovo sistema –. Piccoli ecografi sono gia' presenti in pronto soccorso e in Emilia Romagna. L'accreditamento regionale prevede la dotazione del mini ecografo nelle Unita' Operative di Medicina Interna, che consente inoltre al medico di visitare il malato a domicilio e decidere in modo piu' appropriato se ricoverare il paziente''. In futuro anche gli infermieri potranno utilizzare questo tipo di dispositivo per cercare gli accessi venosi dei pazienti (dove cioe' si puo' somministrare farmaci o terapie endovenose) nelle sale operatorie e nei reparti di dialisi, rianimazione e ostetricia: il bambino nella pancia si potra' vedere con il palmare. ''E' un altro passo per evitare il sovraffollamento degli ospedali - commenta Francesco Violi, presidente Simi - L'uso dei palmari permettera' un grande risparmio di risorse e tempi di degenza, senza contare che il malato non verra' esposto a radiazioni e iniziera' subito la terapia, evitando esami inutili''. Secondo uno studio presentati di recente a Bruxelles, la telemedicina ormai e' a portata di smartphone e puo' ridurre i costi dell'assistenza sanitaria, fino al 70% per paziente. Tablet e smartphone stanno infatti prendendo piede tra gli operatori sanitari in Europa e negli Usa come supporti di strumenti diagnostici professionali soprattutto per la misurazione della pressione arteriosa e delle frequenze cardiache, oltre che per la misurazione della temperatura. Senza contare tutto il software, sempre piu' sofisticato, gia' a disposizione dei medici per la compilazione e la consultazione di cartelle mediche, anche attraverso il 'cloud', la nuvola di Internet. Ma anche per il grande pubblico sono ormai in vendita negli 'store', anche online, dei dispositivi a prezzi accessibili con sensori di calore, di pressione o di peso, da accoppiare a smartphone e tablet, per tenere sotto controllo pressione, peso e calcolare la dose di insulina. _______________________________________________________________ Sanità News 23/10/2012 LA MANCANZA DI SPECIFICHE COMPETENZE MANAGERIALI SULLA PRIVACY “La legge sulla privacy e' troppo rigida e limita la ricerca”, un grido di allarme che sempre più spesso viene lanciato da chi effettua ricerche e studi osservazionali. Ma l’accusa è ingiustificata e l’allarme deriva dalla poca conoscenza della normativa ad oggi in vigore in Italia. In realtà su questi temi, essenziali per lo sviluppo ed il miglioramento delle cure, specie in un momento così critico per il sistema sanitario che ha risorse umane e economiche sempre più limitate, il Garante della Privacy ha recentemente individuato con precisione quali sono gli adempimenti che possono autorizzare allo svolgimento delle ricerche e degli studi anche retrospettivi. Lo scorso 26 marzo sulla Gazzetta Ufficiale è stata pubblicata l’”Autorizzazione generale al trattamento dei dati effettuato per scopi di ricerca scientifica”; vengono indicate, per l’anno in corso, le misure e gli accorgimenti che rendono utilizzabili i dati ed i campioni dei pazienti in particolari e comprovate circostanze per le quali sussista l'impossibilità di informare gli interessati e per cui la ricerca non possa essere realizzata mediante il trattamento di dati anonimi o di dati riferiti a individui che sia possibile contattare al fine di rendere l'informativa ed acquisire il consenso. Infatti, le aziende sanitarie e le università, gli enti o istituti di ricerca e i ricercatori qualora debbano avviare studi retrospettivi e non sia possibile informare gli interessati per "motivi etici", ovvero per "motivi metodologici", ovvero per "motivi di impossibilità organizzativa" devono dotarsi di un apposito progetto preliminare relativo allo studio o ricerca stesso, in cui sono individuate in modo analitico le responsabilità del trattamento , le misure minime ed idonee di sicurezza da adottare , ed un successivo motivato parere del comitato etico, che si assume la responsabilità di validare le motivazioni che non rendono possibile in quale caso informare i pazienti e ottenere da loro il consenso. Quindi sì agli studi retrospettivi anche senza informativa e consenso, purchè siano rispettate le misure di tutela e protezione dei dati, con i manager delle aziende sanitarie e con i professionisti del settore che si assumono la responsabilità di usare, dopo aver adottato gli opportuni accorgimenti, dati preziosi per la ricerca. Purtroppo solo in poche aziende sanitarie, e questo giustifica in buona parte l’allarme citato, si possono trovare esperti della materia privacy in grado di gestire, nel pieno rispetto delle previsioni di legge, tutti gli adempimenti necessari a rendere legittimi tali studi, supportando i clinici e i ricercatori affinchè questi possano svolgere in tutta tranquillità il loro importante lavoro. _______________________________________________________________ Il Sole24Ore 25/10/2012 l genitore può chiedere i voti in ateneo La facoltà universitaria è tenuta a rilasciare in favore del genitore che ne faccia richiesta, anche se divorziato, certificazione comprovante sia l'iscrizione in atto della figlia maggiorenne sia gli esami sostenuti dalla stessa (con data di svolgimento e votazione riportata), tenuto conto che il genitore ha, nei confronti della prole maggiorenne, non solo doveri (tra cui quello di contribuire alle spese per gli studi universitari) ma anche diritti, ivi compreso quello di conoscere gli elementi salienti della vita universitaria della figlia. Il principio è stato affermato dal Tar Puglia, sentenza 872 del 2 maggio 2012, e riveste notevole rilevanza pratica, considerato che la dimostrazione della trascuratezza nello studio potrebbe costituire fatto idoneo per ottenere la cessazione dell'obbligo di mantenimento del genitore nei confronti del figlio maggiorenne iscritto, senza profitto, a un corso universitario (si veda, in questo senso, Corte d'appello di Catania 29 maggio 2008, in www.affidamentocondiviso.it). © RIPRODUZIONE RISERVATA _______________________________________________________________ Le Scienze 25/10/2012 Perché (e per chi) funziona l'effetto placebo Nuove strategie contro i superbatteri Identificate per la prima volta differenze genetiche tra i soggetti in cui l'effetto funziona e quelli in cui non ha alcuna efficacia terapeutica. Il fattore cruciale è legato una particolare mutazione di un gene che determina i livelli di dopamina, un neurotrasmettitore coinvolto nei meccanismi di ricompensa e di dolore geneticafarmacineuroscienze L'effetto placebo – l'efficacia terapeutica di sostanze o azioni innocui o privi di qualunque plausibile meccanismo di azione sull'organismo – è un rompicapo che dura da decenni, e per spiegarlo sono stati considerati diversi fattori, primo fra tutti la suggestione. Per la prima volta, uno studio condotto presso il Beth Israel Deaconess Medical Center (BIDMC) e l'Harvard Medical School (HMS) e illustratosulle pagine della rivista online PLoS ONE, ha identificato differenze genetiche tra soggetti il cui l'effetto placebo funziona da quelli in cui non funziona. Il fattore cruciale è costituito dai livelli di dopamina, che determina il livello di sensibilità di un paziente. Il risultato potrebbe avere importanti implicazioni non solo per la cura dei pazienti ma anche per la validazione delle sperimentazioni cliniche “contro placebo”, in cui l'efficacia di un farmaco viene appunto confrontata con la somministrazione di sostanze biologicamente innocue. “Sono sempre più numerose le prove sperimentali che il neurotrasmettitore dopamina viene attivato quando le persone rispondono al placebo”, ha spiegato Kathryn Hall, ricercatrice del BIDMC e coautore dello studio. "Con questa nuova ricerca, siamo ora in grado di utilizzare il profilo genetico di una persona per prevedere se risponderà o meno alla somministrazione di placebo”. dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto nei meccanismi di ricompensa e di dolore. In quest'ultima ricerca, l'attenzione si è concentrata sul gene per la catecolamin-metil-transferasi (COMT), una cui mutazione determina la quantità di dopamina presente nella corteccia prefrontale. Per la precisione, la mutazione nota come val158met a carico del gene COMT determina tre diverse possibili coppie di alleli: due copie per la metionina (met), due per la valina (val) o una copia per ogni proteina. Secondo alcuni risultati, nella corteccia prefrontale dei soggetti con due copie di met vi è una quantità di dopamina da tre a quattro volte superiore rispetto alle persone con due copie di val, con evidenti differenze nel comportamento sociale e nelle capacità cognitive ed espressive. I ricercatori sono partiti dall'ipotesi che diversi genotipi rispetto a questa mutazione potessero influenzare la risposta al placebo. Hanno quindi rianalizzato i dati di un trial clinico del 2008, destinato a verificare l'influenza del placebo sulla sindrome del colon irritabile, ricostruendo la risposta al trattamento dei singoli soggetti e a confrontandola con il loro genotipo. “La regressione statistica ha permesso di scoprire che le risposte al placebo aumentavano linearmente con le copie met, presumibilmente per la maggiore disponibilità di dopamina”, ha spiegato Hall. “I risultati consentono d'ipotizzare che la presenza di due alleli met possa rappresentare un marker genetico per la risposta al placebo, mentre i due alleli val/val sarebbero un marker per la non risposta”. Di grande rilievo sono anche i risultati della valutazione dell'influenza dell'ambiente ospedaliero sui risultati clinici. Nel caso dei pazienti met/met, responsivi al placebo, è stato registrato un miglioramento clinico in risposta a un rapporto positivo con il medico. Nel caso dei pazienti val/val, invece, il rapporto empatico con il personale medico non sembra aver avuto alcun effetto apprezzabile. _______________________________________________________________ Le Scienze 24/10/2012 L'evoluzione del cervello? Tutto merito della cottura © Albert Lleal/Minden Pictures/Corbis * Mail Un'idea sbagliata sulle origini dell'uomo Homo erectus fu il primo dei nostri antenati a cuocere i cibi: questa pratica consentì di ricavare più calorie dalle sostanze consumate e di diminuire di conseguenza le ore dedicate all'alimentazione. Furono così superate, secondo una tesi avanzata da un nuovo studio, le limitazioni metaboliche che negli altri primati non ha permesso uno sviluppo del numero di neuroni e delle dimensioni del cervello proporzionale alle dimensioni corporee (red) Quanto più è elevata la massa corporea, tanto più lo è la massa del cervello. Questa semplice legge evolutiva si ricava scorrendo l'albero filogenetico dei mammiferi. Ma perché l'uomo si distacca da questa legge di proporzionalità, con un cervello che per dimensioni e numero di neuroni non ha paragoni tra le grandi scimmie e tuttavia ha un corpo di dimensioni più limitate? La risposta viene da un articolo apparso su PNAS: il fattore determinante è di natura metabolica, ed è il risultato di un compromesso tra il tempo disponibile per procurarsi il cibo e il consumo energetico del cervello. Teschi di grandi scimmie a confronto in un laboratorio (© Albert Lleal/Minden Pictures/Corbis)Secondo quanto riportato dagli autori dello studio Karina Fonseca-Azevedo e Suzana Herculano-Houzel dell'Instituto de Ciências Biomédicas dell'Universidade Federal do Rio de Janeiro, in Brasile, l'essere umano detiene il record del numero di neuroni rispetto a tutti i primati, e a maggior ragione anche rispetto agli altri mammiferi; tre volte più di gorilla e urangutan, che a loro volta sono i più dotati tra i primati non umani. Le due specie, tuttavia, ci sovrastano per massa corporea; i gorilla, in particolare, possono arrivare a a pesare il triplo di un uomo. Questa discrepanza tra corpo e cervello ha portato a teorizzare che il processo di encefalizzazione, cioè di sviluppo del cervello non proporzionale al resto del corpo, sia una caratteristica peculiare dell'essere umano, accompagnata con tutta evidenza da uno sviluppo delle capacità cognitive senza confronto anche tra le grandi scimmie. Ma bastano le capacità intellettive a giustificare l'encefalizzazione? Gli autori ritengono di no. L'eccezione alla legge di proporzionalità tra cervello e corpo dev'essere considerata come un indizio del fatto che a un certo punto nell'evoluzione dei primati si è trovata di fronte a un bivio: o sviluppare il corpo o sviluppare il cervello. Le due cose non potevano coesistere per motivi metabolici. Teschio di Homo erectus ritrovato a Koobi Fora, in Kenya. La cottura dei cibi, praticata per la prima volta nell'evoluzione umana, ha permesso a questa specie un enorme progresso nel numero di neuroni e nelle dimensioni del cervello (© Carolina Biological/Visuals Unlimited/Corbis)In termini di consumo energetico, il cervello umano è al terzo posto tra i diversi organi, dopo i muscoli scheletrici e il fegato. Percentualmente, in condizioni di riposo, il cervello è responsabile del 20 per cento del dispendio energetico complessivo (negli altri primati non supera il 9 per cento), sebbene rappresenti il 2 per cento della massa corporea complessiva. Che cosa ha rappresentato una simile fabbisogno energetico per l'evoluzione degli antenati dell'uomo? Sicuramente una limitazione, che le due ricercatrici brasiliane hanno stimato quantitativamente. Se si guarda ai mammiferi, un corpo, e di conseguenza un cervello più grandi corrispondono a un metabolismo basale che aumenta secondo una legge di potenza il cui esponente è intorno a 0,75. E quanto più è alto il fabbisogno energetico, tanto più tempo la specie dovra impiegare per alimentarsi, tempo che però è limitato da diversi fattori, quali la disponibilità di cibo, il tempo di ingestione e di digestione, nonché dal contenuto calorico di quanto consumato. L'elevato numero di ore dedicate alla ricerca di cibo e il basso contenuto calorico dei cibi crudi imponeva di raggiungere un compromesso tra massa corporea e numero di neuroni, che spiegherebbe le dimensioni relative del cervello delle grandi scimmie. Queste limitazioni furono probabilmente superate da Homo erectus con il passaggio al consumo di cibi cotti. Questi, rendendo disponibile una maggiore quantità di calorie rispetto ai cibi crudi, hanno permesso di ridurre il tempo necessario alla ricerca di cibo, rendendo meno stringente la necessità di un compromesso metabolico e aprendo la strada a un rapido incremento delle dimensioni cerebali nella successiva evoluzione umana. _______________________________________________________________ Le Scienze 23/10/2012 La radice animale delle nostre abilità matematiche Cellule nervose e comportamento La capacità di gestire sofisticati e precisi concetti matematici si fonda in buona parte sul sistema di valutazione approssimato delle quantità che condividiamo con altre specie animali. Lo ha dimostrato una ricerca su studenti universitari che hanno affrontato compiti di stima numerica non verbale e test avanzati di aritmetica e geometria (red) Le sofisticate capacità matematiche dell’uomo sarebbero strettamente collegate alla capacità non verbale, condivisa con gli altri animali, di valutare in modo approssimativo, senza contarli, il numero di oggetti in un insieme. A confermare questa ipotesi, già avanzata fra gli esperti che si interessano di psicologia e neuroscienze della matematica, è una ricerca condotta presso la Emory University e pubblicata sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”. Molti studi hanno appurato la capacità animale innata di operare valutazioni quantitative approssimate “a colpo d’occhio”. Tuttavia solo l’uomo ha sviluppato la capacità mentale per la matematica formale, che include il ricorso a notazioni simboliche per i numeri, la conoscenza di concetti quantitativi e l'applicazione di operazioni di calcolo. Le differenze fra queste due modalità di pensiero sono rilevanti: la prima riguarda le grandezze in generale, anche non numeriche (come più grande/più piccolo, più vicino/più lontano), ed è, appunto, innata; la seconda invece richiede l’acquisizione di concetti attraverso esplicite istruzioni di carattere verbale, e porta a quantificazioni esatte anche per valori elevati, mentre un sistema approssimato innato soffre di un'imprecisione che cresce linearmente in funzione della dimensione delle quantità considerate. Valentines/imagebroker/CorbisLa possibilità che fra le due abilità esista un collegamento è stata suggerita da alcuni studi recenti, in particolare da indagini di visualizzazione dell'attività cerebrale condotte con la risonanza magnetica funzionale. Questi studi hanno mostrato somiglianze nelle modalità di attivazione nell’area del solco intraparietale durante l’esecuzione dei due tipi di compiti. Per valutare l’effettiva esistenza di questa connessione, Stella Lourenco e colleghi hanno dato a 65 studenti universitari sia un insieme di compiti di stima numerica non verbale (ossia senza conteggio o calcolo esplicito) e dimensionale, sia una serie di test standardizzati di aritmetica e geometria avanzate. Hanno così scoperto che gli studenti che eseguivano una buona stima numerica delle quantità erano anche quelli che brillavano di più nei test di matematica formale, e che gli studenti che riuscivano a fornire le migliori stime di grandezza relativa ottenevano i punteggi più elevati nei test di geometria. Questa correlazione elevata, sebbene non perfetta, era valida anche una volta che i risultati venivano normalizzati rispetto al quoziente intellettivo dei soggetti. D'altra parte, le discrepanze trovate per alcuni test, osservano i ricercatori, possono dipendere da altre abilità cognitive, differenti dalla rappresentazioni di grandezze non simboliche. Così, molti problemi aritmetici di routine mostrano una maggiore dipendenza dalla memoria visivo-verbale che dal calcolo esplicito di grandezze: è il caso di numerosi problemi aritmetici semplici che, come le tabelline, possono essere memorizzati piuttosto che calcolati, e alla cui risoluzione una grandezza non simbolica può contribuire poco o per nulla. __________________________________________________ Il Sole24Ore 28 ott. ’12 SPALLANZANI E LA FECONDAZIONE ASSISTITA Nascite artificiali, una storia naturale La condanna della Chiesa risale al 1897, ma fu un sacerdote, Lazzaro Spallanzani, il pioniere di questa tecnica già nel '700 Sergio Luzzatto Bisognava pur scriverla, prima o poi, la storia della fecondazione artificiale. Bisognava pure che uno storico, affiancando il proprio sapere a quello di medici e giuristi, psicologi e filosofi, riprendesse dall'inizio una vicenda lunga più di due secoli: la vicenda sfociata in Italia sulla legge n. 40 del 19 febbraio 2004, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita. Bisognava pure che qualcuno si incaricasse di spiegare, attraverso un esercizio di storia comparata, quella che sembra altrimenti un'anomalia tanto flagrante quanto incongrua: la vigenza nell'Italia di oggi di una normativa sulla procreazione assistita talmente retrograda da non avere uguali nelle legislazioni degli altri Paesi sviluppati. L'esercizio di storia comparata è quanto ha compiuto Emmanuel Betta in L'altra genesi: un libro che fin dal titolo indica il punto dolente, sottolineando come i progressi della fecondazione artificiale si siano rivelati tanto più problematici quanto più hanno impattato - oltreché sulle fondamenta del rapporto fra natura e cultura - sull'ipoteca del discorso biblico. Sicché la condizione peculiare dell'Italia di oggi va illustrata raccontando, evidentemente, la diffusione nazionale e internazionale di teorie e pratiche relative alla fecondazione artificiale: ma va illustrata anche confrontando le relative risposte delle Chiese. Questa è una storia di esperimenti scientifici, di colture e provette, ma è anche una storia di pronunciamenti dogmatici, di allocuzioni papali e decreti inquisitoriali. Paradossalmente, la storia incomincia da un prete. Incomincia da Lazzaro Spallanzani, il sacerdote emiliano professore di storia naturale all'università di Pavia, che negli anni Settanta del Settecento pervenne a realizzare in laboratorio fecondazioni artificiali sia extracorporee sia intracorporee. Rane, salamandre, cani: l'abate Spallanzani sperimentò un po' su tutto, e teorizzò le proprie scoperte in un articolo enciclopedico del 1779, Fecondazione artificiale. Per parte loro, i maggiori rappresentanti europei della Repubblica delle Scienze non tardarono a riconoscere come esplosive le implicazioni delle sue ricerche. Da Ginevra, Charles Bonnet scrisse a Spallanzani nel 1781: «Non è detto che la vostra recente scoperta non abbia un giorno nella specie umana applicazioni che noi non osiamo pensare, le cui conseguenze non sarebbero certo lievi. Voi mi intendete...». Già una decina d'anni dopo, un noto chirurgo inglese, John Hunter, riuscì a fecondare una donna che non poteva avere figli a causa di un'anomalia genitale del marito iniettandole il seme di questi con una siringa riscaldata. Seguì mezzo secolo di stasi, finché negli anni Sessanta dell'Ottocento un medico francese, Louis Girault, rese nota una sua pratica ormai ventennale di fecondazioni artificiali destinate a riparare alla sterilità maschile come alla femminile. Da allora, il problema della fecondazione artificiale si pose apertamente quale problema non soltanto clinico, ma anche morale. E se non ancora giuridico, fin da allora teologico. Nell'età della regina Vittoria, rimediare alla sterilità attraverso l'inseminazione artificiale significava investire un pilastro della morale sessuale borghese: l'intimità della coppia nella camera da letto. Significava, inoltre, sfidare il riferimento biblico del Genesi sullo spreco di seme operato da Onan: le pratiche terapeutiche più correnti comportavano infatti l'ottenimento del seme attraverso la masturbazione. Significava, ancora, porre la questione sociale della riconoscibilità della figura paterna, e in generale dell'eredità sia genetica che patrimoniale. Perché una volta affrancata la riproduzione dal rapporto sessuale, la fecondazione poteva ben avvenire in forma eterologa anziché in forma omologa: con il seme di un donatore anziché con quello del coniuge. Altrettante ragioni che spinsero la congregazione vaticana del Sant'Uffizio a non attendere oltre il 1877 per decretare (in istruzioni riservate al clero) l'assoluta illiceità della fecondazione artificiale. La Chiesa cattolica dovette fare i conti in quegli anni con un secondo protagonista italiano di questa storia, lui stesso professore all'università di Pavia prima di trasferirsi a Firenze: il fisiologo milanese Paolo Mantegazza. Un liberale e un darwinista della più bell'acqua, che nel suo studio Sullo sperma umano (1866) suggerì due idee pioneristiche: il congelamento del seme maschile, la creazione di una banca per la sua conservazione. «Potrà anche darsi che un marito morto sui campi di battaglia possa fecondare sua moglie anche fatto cadavere, e avere dei figli legittimi anche dopo la di lui morte»: nell'età di Jules Verne, Mantegazza gli teneva testa per capacità visionarie. Correva l'anno 1897 quando la Chiesa cattolica produsse una condanna ormai pubblica della fecondazione artificiale. Non licere, decretarono stringatamente i consultori del Sant'Uffizio, sottoscrisse il papa Leone XIII, stamparono le tipografie vaticane. L'inseminazione artificiale era contraria al diritto canonico, poiché senza rapporto sessuale non si dava consumazione del matrimonio. Era moralmente disonesta, poiché senza rimediare alla concupiscenza del marito schiudeva la porta all'adulterio della moglie con un donatore. Era teologicamente turpe, poiché prevedeva la masturbazione dell'uno o dell'altro. Nei fatti, soltanto con il procedere del XX secolo - a partire dagli anni Venti, dopo il trauma demografico e psicologico della Grande guerra - la fecondazione artificiale divenne opzione terapeutica veramente diffusa nell'Europa continentale, in Gran Bretagna e più ancora negli Stati Uniti. E soltanto allora, intrecciandosi ai progressi dell'eugenetica, divenne una pratica potenzialmente minacciosa per le sue ricadute sociali, cioè giuridiche e bioetiche. Ma all'appuntamento di queste sfide il Vaticano non si fece trovare impreparato: rispolverò tale e quale l'armamentario dogmatico approntato a fine Ottocento. All'indomani della Seconda guerra mondiale, papa Pio XII mobilitò per questo il doppio sapere (di scienza e di fede) del padre francescano Agostino Gemelli: uno snodo obbligato per tanta parte della cultura cattolica del Novecento. Il saggio di Gemelli intitolato La fecondazione artificiale costituì la base per pronunciamenti di Pio XII che dal 1949 al 1956, in nome della «legge divina positiva», condannarono l'inseminazione artificiale «puramente e semplicemente come immorale». E ciò proprio negli anni in cui la Chiesa anglicana si preparava ad approvare sia l'inseminazione intramatrimoniale sia quella con seme di donatore, attraverso un triplice ordine di ragionamento: ridimensionando la gravità della masturbazione ove praticata a fini procreativi; riconoscendo nel figlio nato da coppia altrimenti sterile il cemento di un'unità familiare indebolita dall'assenza di prole; escludendo che la donazione di seme potesse venire ragionevolmente assimilata alla consumazione di un adulterio. Ecco la preistoria - remota e prossima - che Emmanuel Betta ha pazientemente ricostruito nel suo libro su L'altra genesi, e che ci consente di spiegare quanto rischierebbe sennò di apparire inspiegabile. L'abnormità della legge italiana 40/2004 non deriva soltanto dall'abilità politica e mediatica del cardinale Camillo Ruini, che fu capace di mobilitare contro la fecondazione assistita uno schieramento trasversale di parlamentari cattolici, e che seppe boicottare il referendum abrogativo rilanciando ai cittadini italiani l'invito (di craxiana memoria) a frequentare le spiagge piuttosto che le urne. L'abnormità italiana deriva anche - deriva soprattutto - dalla fissità del discorso dottrinale della Chiesa. Un discorso indifferente, da un secolo e mezzo a questa parte, al vissuto delle coppie con problemi di fertilità: un discorso impermeabile alla loro preghiera di trovare nella scienza l'aiuto per realizzare un sogno di fecondità. __________________________________________________ Il Sole24Ore 28 ott. ’12 COLUZZI: EPISTEMOLOGO DELLE ZANZARE mario coluzzi (1938-2012) Entomologo di fama internazionale ha applicato la genetica evoluzionistica per spiegare come si diffonde la malaria Gilberto Corbellini «Coluzzi è l'uomo che sa che cosa pensa una zanzara», diceva uno dei più importanti immunoparassitologi statunitensi di Mario Coluzzi, entomologo e malariologo di fama internazionale, scomparso domenica scorsa all'età di quasi settantaquattro anni. Era il 1990 quando lo conobbi, e iniziammo a collaborare per studiare e valorizzare la tradizione storica della malariologia italiana. Il «professor Coluzzi» – così era chiamato, e un po' lui si compiaceva che quel titolo gli fosse arrivato per comprovata fama e in assenza di una laurea (non si era mai laureato «per non sostenere l'esame di zoologia») – ventidue anni fa era al massimo del suo splendore come scienziato e docente. Ho quindi avuto la straordinaria e unica fortuna di essere guidato da lui, e dal suo modo scientifico – quindi anche non sempre razionale – di esaminare ogni cosa, nel mio avvicinamento ai temi e problemi della storia della medicina. Coluzzi aveva un'intuitiva consapevolezza degli stimoli euristici che possono venire dal confrontare i contenuti della ricerca biomedica di frontiera con i fatti storici e le idee epistemologiche della ricerca fondamentale e applicata. E attribuiva enorme importanza alla divulgazione scientifica, poiché sapeva quanto fosse precaria la sopravvivenza della razionalità scientifica in un mondo umano mosso prevalentemente da pulsioni pleistoceniche. Posso immaginare come sarebbe inorridito di fronte all'oscurantista e tribale sentenza del tribunale de L'Aquila, di cui si parla da una settimana. Ma c'era molto di più. Coluzzi si sentiva parte di una scuola medico- scientifica con una tradizione secolare: la scuola italiana di malariologia, che alla fine dell'Ottocento trascinò una giovane e povera nazione sul palcoscenico internazionale, contribuendo in modo essenziale alle storiche scoperte dei parassiti e dei meccanismi di trasmissione dell'infezione malarica. Una tradizione entrata in sonno dopo l'eradicazione dell'infezione e che lui ha riportato ai vertici mondiali della competitività scientifica. L'ha fatto investendo e scommettendo sempre sui giovani, cioè motivandoli con entusiasmo all'apprendimento e all'uso del metodo scientifico. Il suo interesse per la storia della malaria era dettato anche dalla consapevolezza, mai ostentata ma sobriamente praticata, che lui in quella storia c'era. Era partito avvantaggiato. Aveva assorbito la scienza malariologica preso per mano nell'immediato secondo dopoguerra e nel pieno della campagna di eradicazione della malaria dal padre Alberto. Ma agli inizi degli anni Sessanta era già un entomologo noto internazionalmente per gli studi sul meccanismo d'azione degli insetticidi ad azione residua, cioè sugli effetti del Ddt sul comportamento delle zanzare. La sua prima genialità fu di applicare e innovare l'analisi dei cromosomi politenici allo studio della tassonomia delle zanzare malarigene africane, scoprendo la possibilità di differenziare citogeneticamente come specie diverse, zanzare identiche allo stadio adulto. Mentre metteva a punto le tecniche citogenetiche da applicare sul campo per classificare i vettori di malaria in Africa, tecniche che risultarono essenziali per migliorare le strategie di lotta contro la malattia, gli venne un'altra idea formidabile. Da profondo conoscitore della genetica evoluzionistica pensò di applicarla per provare a spiegare i rapporti tra la distribuzione ecologica e popolazionale dei vettori di malaria, e l'intensità di trasmissione dell'infezione. Iniziava a quel punto un'avventura scientifica da cui è scaturito un capitolo fondamentale delle conoscenze evoluzionistiche sulle origini e gli adattamenti tra parassita malarico, zanzare e uomo che caratterizzano un ecosistema millenario come quello della malaria sub-sahariana. In generale, la malaria, come Coluzzi e la sua scuola hanno per primi dimostrato, è un modello formidabile per capire le basi darwiniane dell'evoluzione biologica. L'autorevolezza di Coluzzi come entomo-epidemiologo della malaria era tale che quando «Science» ha pubblicato il genoma di Anopheles gambiae, con il suo gruppo è stato invitato a riportare i sui dati genetico-evolutivi. L'impegno di Coluzzi è stato esemplare anche sul fronte politico- sanitario, cioè nel tentare di trasferire le conoscenze scientifiche per ridurre l'impatto della malaria in Africa. Oltre all'attività svolta con il ministero degli Affari esteri per condurre ricerche in campo e formare personale locale in Mali e Burkina Faso, ha fatto da tutor e suggeritore a decine di ricercatori ed esperti di sanità pubblica africani, che oggi vedono declinare la malaria grazie alle misure sostenute dall'Oms anche sulla base dei suoi autorevoli e ascoltati consigli. In questo impegno entrava ulteriormente in gioco il suo interesse per la storia della malaria. Riteneva, infatti, che il successo italiano non avesse nulla da insegnare agli africani sul piano dell'ecologia del problema, ma che fosse importante come chiave politico-culturale. La malaria è stata sconfitta in Italia, mi spiegava sempre, anche perché fu costantemente presente una ricerca di base e applicata, e perché la malattia fu oggetto di attenzione politica. Coluzzi ha capito prima di tutti i colleghi che solo un riscatto scientifico-culturale locale avrebbe consentito la soluzione del problema malaria, insieme con altri in Africa sub-sahariana. Mario, come sa chi lo frequentava, si apriva in volto e gli s'illuminavano gli occhi quando metteva a fuoco qualche idea che attirava la sua curiosità intellettuale, o che confermava qualche sua ipotesi. Mentre la lunga e crudele malattia ne cementava inesorabilmente il corpo, imprigionando sempre di più il pensiero e le parole, il suo sguardo ha continuato per anni a trasmettere quella luce critica e raziocinante che per qualcuno, certamente per me, è stata un faro intellettuale di riferimento. E che nel ricordo lo rimarrà sempre. __________________________________________________ Corriere della Sera 28 ott. ’12 SI INASPRISCE LO SCONTRO SUL «METODO ZAMBONI» Uno contro l'altro armati. O quasi. Questa è la sensazione che si ha scorrendo gli studi sul l'insufficienza venosa cerebrospinale cronica (o Ccsvi) e il suo eventuale ruolo nella sclerosi multipla. Sono passati quasi dieci anni da quando Paolo Zamboni, chirurgo vascolare dell'Università di Ferrara, ha osservato che i malati di sclerosi multipla avrebbero, più spesso dei sani, restringimenti od occlusioni delle vene che drenano il sangue dal cervello (azygos e giugulari) e che ciò contribuirebbe alla patologia. Da allora si sono creati due schieramenti, pro e contro, che si battono a suon di lavori scientifici contrastanti: da un lato chi dimostra che la Ccsvi è più frequente nei malati e sperimenta la tecnica di liberazione delle vene, dall'altro chi non trova anomalie nei pazienti e ritiene che la Ccsvi abbia effetti pericolosi perché potrebbe distogliere i malati da terapie di provata efficacia. Chi ha ragione? A Lione è stato presentato il più ampio studio condotto per capire se esista o meno una correlazione fra Ccsvi e sclerosi multipla, lo studio Cosmo: ultimato in poco meno di due anni per la necessità di dirimere la spinosa questione e dare risposte chiare ai malati, è tutto italiano e soprattutto ha coinvolto quasi 1800 persone di cui circa 1200 pazienti con sclerosi multipla, più di 350 controlli sani e più di 200 pazienti con altre malattie neurologiche, sottoposti a ecodoppler in 35 centri in tutta Italia. Uno sforzo considerevole, tutto finanziato dall'Associazione Italiana Sclerosi Multipla, che ha prodotto dati netti: il tasso di presenza della Ccsvi è molto basso nei pazienti con sclerosi multipla e altre malattie neurologiche (poco più del 3% in entrambi i casi) e assai simile nelle persone sane (poco più del 2%). «La Ccsvi è un fenomeno residuale, una variante della normalità: il fatto di trovarla nei sani ci spinge a studiarla, certo, ma non in relazione alla sclerosi multipla — commenta Giancarlo Comi, coordinatore dello studio Cosmo —. Il rigore metodologico dello studio toglie ogni dubbio: i sonologi che hanno effettuato i test sono stati formati appositamente e non sapevano se il paziente che avevano di fronte fosse malato o meno. Una volta emesso il loro referto, l'esame è stato letto in cieco, senza sapere cioè a chi si riferisse il test, da una commissione centrale di tre medici: uno dei massimi esperti europei di sclerosi multipla, il presidente della Società italiana di Neurosonologia ed emodinamica cerebrale e il presidente della Società italiana interdisciplinare vascolare. Valeva il responso della maggioranza, inoltre tutti gli esami sono ancora a disposizione della comunità scientifica, per chiunque li voglia rivalutare». Nulla da eccepire? Non proprio, come osserva Paolo Zamboni (che avrebbe dovuto far parte dei tre esperti centrali ma si è "sfilato" dallo studio Cosmo perché non ne condivideva il metodo): «Credo che i dati siano più deboli di quanto possa sembrare, innanzitutto perché il modo migliore per avvalorare l'efficacia dell'ecodoppler sarebbe stato non far interpretare il test da esperti, ma piuttosto metterlo a confronto con i risultati di un altro esame oggettivo, considerato gold standard per lo studio delle vene, ovvero la flebografia con catetere. In questo modo si è solo evidenziato che l'ecodoppler è scarsamente riproducibile». «Inoltre, — osserva Zamboni — la maggioranza dei referti che secondo il sonologo esecutore dell'esame erano positivi alla Ccsvi è stata "bocciata" come falso positivo dai lettori centrali: significa quantomeno che qualcosa non ha funzionato nella formazione di chi faceva i test». Convinto della sua tesi, Zamboni porta avanti lo studio Brave Dreams: «Valutiamo i pazienti in doppio cieco con ecodoppler e flebografia, per avere un dato solido di presenza o meno della Ccsvi. Quindi dividiamo a caso i pazienti tra chi verrà sottoposto al trattamento di liberazione e chi no: i centri partecipanti sono 12 e puntiamo a reclutare circa 700 casi; per il momento ne abbiamo arruolati una trentina». Un'iniziativa discutibile per la sicurezza dei pazienti, secondo i neurologi. Ma lo "scontro" prosegue. E. M. __________________________________________________ Corriere della Sera 28 ott. ’12 LO SBALLO LEGALE Venduti come analgesici, vengono usati come droga La deriva degli oppioidi: 15 mila vittime all'anno negli Usa A d anticipare il fenomeno, ci ha pensato il Dr. House, il protagonista della fiction tv, costretto a ingoiare manciate di pillole di idrocodone per convivere con un cronico dolore alla gamba. Una sorta di outing involontario che ha fatto del medico di Princeton una curiosa miscela di cinismo e umanità e soprattutto il caso più famoso di dipendenza da antidolorifici. Parliamo di oppioidi, farmaci potentissimi, per lo più a base di ossicodone e idrocodone e che per cancellare il dolore vanno a colpire direttamente il sistema nervoso centrale rilasciando una sensazione di benessere ed euforia che nulla ha da invidiare a un derivato dell'oppio. Appartenenti al gruppo terapeutico della morfina, molti malati iniziano a prenderli per dolori cronici, da quelli associati a stati tumorali fino a quei mal di schiena che non danno tregua, ma poiché il potere di dipendenza è alto, il rischio è di non riuscire più a farne a meno. «Ti senti in cima al mondo senza però perdere il controllo di quanto ti accade — spiega Phil Wright della American Pain Society per la cura del dolore — ci si illude di poterci convivere, ma come con ogni droga, non è così». Negli Stati Uniti c'è chi la definisce una nuova epidemia. Dal 1991 al 2010, il numero delle ricette di analgesici oppioidi sarebbe passato da 75 a 209 milioni, tanto da soddisfare, potenzialmente, l'80% degli americani, praticamente una confezione per abitazione. Non solo, secondo i dati del Center for Disease Control, una persona ogni 20, dai 12 anni in su, li utilizzerebbe per motivi non medici, in pratica per procurarsi quello che è a tutti gli effetti uno sballo legale e dall'appeal trasversale. A rendere queste pillole particolarmente gettonate, la promessa di un «trip» pulito e permesso dalla legge, lontano anni luce dalla fenomenologia della tossicodipendenza. L'antidolorifico lo si tiene in tasca o nella borsetta come una normale pillola per il mal di testa. Lo usano la casalinga, il manager e soprattutto i più giovani perché i pusher, involontari, se li ritrovano direttamente in casa. Secondo la Substance Abuse and Mental Health Services Administration, nel 70% dei casi, gli under 20 reperirebbero gli antidolorifici grazie a mamma e papà. Se poi l'incursione nell'armadietto del bagno di casa non soddisfa, ci sono sempre Internet e il mercato nero di strada dove questi oppioidi stanno rimpiazzando perfino l'eroina, più difficile da reperire dopo il blocco della produzione di oppio in Afghanistan. Ma è soprattutto una questione di sicurezza perché «se la polizia ti trova i farmaci in tasca, non si finisce certo in prigione», spiega Jurgen Rehm, direttore del dipartimento di ricerca sociale ed epidemiologica presso il Center for Addiction and Mental Health di Toronto. E così, oltre che tra professionisti e studenti, i farmaci oppioidi hanno iniziato a diffondersi capillarmente tra gli eroinomani di strada tanto da meritarsi il nome di «hillbilly heroin», droga dei poveri. Nel 1995 è uscito sul mercato l'Oxycontin, il farmaco a base di ossicodone che da lì a poco è diventato un vero blockbuster. Prodotto dalla Purdue Pharma, in cinque anni è arrivato a vendite per oltre un miliardo di dollari. Nel mezzo ci sono stati una quarantina di congressi, una rete di oltre 5.000 medici e strategie per intercettare le fasce di popolazione più colpite da dolore cronico e quindi le utenze più inclini all'utilizzo di analgesici così potenti. Non solo, a decretare il successo di questa pillola, e a ricaduta dei vari cloni, sarebbe stata in particolare una campagna pubblicitaria. Il caso ha dato vita a una class action che ha visto la Purdue ammettere la propria colpevolezza e quindi sborsare 646 milioni di dollari per risarcire i danni ai consumatori. Al centro della querelle, l'aver dichiarato un rischio di dipendenza minore dell'1% quando invece si sapeva che poteva raggiungere il 50 per cento. L'abuso di antidolorifici è un fenomeno che provoca quindicimila morti da overdose all'anno, molti di più rispetto a quelli causati da eroina e cocaina messe insieme. Del resto i referti medici di celebrità morte di recente parlano chiaro: da Heath Ledger a Brittany Murphy, da Anne Nicole Smith a Michael Jackson, tutti avevano in corpo tracce di idrocodone e ossicodone tanto che il consumo di «painkillers», antidolorifici, tra i giovani sarebbe ormai la prima causa di morte. Una strage progressiva che ha portato le autorità competenti come Fda ed Health Canada a correre ai ripari adottando politiche più restrittive per contenere la diffusione di questi narcotici. Tra le misure adottate una maggiore tracciabilità delle ricette mediche, il divieto di surplus produttivi in grado di alimentare il mercato nero e lo sviluppo di formulazioni di nuova generazione che renderebbero le pillole più difficili da inalare o iniettare così come piace ai tossici in cerca di uno sballo più rapido. «È un fenomeno più grande di noi perché è esploso da poco, di pari passo con il progredire della scienza medica — spiega Allan Gordon, direttore del Wasserman Pain Center del Mount Sinai Hospital di Toronto —. Mentre malattie come il cancro o la sclerosi multipla hanno una lunga tradizione e associazioni storiche, fino a 30 anni fa il dolore non era nemmeno una branca della medicina. Ha dovuto essere, per così dire, fabbricato». Man mano che i pazienti parlavano di dolore, ci si rese conto che tra neuropatie diabetiche, stati tumorali e mal di schiena, c'era un quadro comune a circa il 25% della popolazione. «Inizialmente questi oppioidi venivano somministrati solo ai pazienti gravi — continua Gordon — ma quando se ne è compresa l'efficacia, le case produttrici hanno iniziato a spingere per un più ampio utilizzo, dai casi di epilessia e depressione fino al classico mal di denti. È vero che molti si rivolgono a questi farmaci per sballare — spiega Gordon — ma a chi soffre davvero, hanno cambiato la vita». Mentre in Nord America si diffondono le pratiche di accertamento del rischio, per intercettare quel 10% della popolazione che sarebbe ad alto rischio di dipendenza, dopo anni di vincoli burocratici il riconoscimento del dolore cronico sta iniziando a farsi strada anche in Italia. A due anni dall'approvazione della legge 38 sulle terapie del dolore, le prescrizioni di analgesici oppioidi hanno registrato una crescita del 30% passando da 3,6 milioni di confezioni vendute a 4,7 milioni. «Senz'altro un passo importante — spiega Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento delle dipendenze della Asl di Milano — ma bisogna monitorare per impedire che anche da noi si verifichi quello che sta succedendo negli Stati Uniti». In Italia i più gettonati sono ancora antidepressivi e ansiolitici ma gli antidolorifici sono in crescita. «I farmaci si stanno sostituendo alle droghe tradizionali — sottolinea Giovanni Serpelloni, direttore del Dipartimento politiche antidroga — sono legali e fanno molta presa sui giovani. Nel 56% dei casi sono gli stessi genitori a offrirli ai figli, in particolare le benzodiazepine per sopportare stress da esame o incontri amorosi». Quello che più spaventa, conclude Serpelloni, è la tendenza all'automedicazione, al fai da te, tanto che si finisce per non capire più cosa stiamo medicando. Anne Rochon Ford, direttrice del Women and Health Protection Network, segue da anni lo sviluppo del fenomeno a partire da Stati Uniti e Canada: «Quello che mi colpisce è come antidolorifici nati per curare il dolore fisico siano ormai utilizzati per rispondere al dolore psichico, al male di vivere, che è quello che alla fine tutte le droghe, illegali o meno, cercano di fare». __________________________________________________ Corriere della Sera 28 ott. ’12 QUEI FARMACI NATI CONTRO IL DOLORE CHE DANNO EUFORIA di GIUSEPPE REMUZZI Dall'America l'allarme per un'epidemia D avid ha 13 anni, sta male e fatica a respirare, ha passato la serata e parte della notte in casa di amici e pare abbia bevuto. Lo portano al pronto soccorso di un ospedale dello Utah, poi finisce in rianimazione con una macchina che respira per lui. È overdose da ossicodone, un antidolorifico, lo prescrivevano alla nonna di un amico e lui si faceva dare le ricette. David alla fine ce la farà. Ma altri come lui no. Nel 1990 di antidolorifici, quelli che contengono derivati dell'oppio, morivano negli Stati Uniti quattro persone su centomila; nel 2008 erano dodici e oggi sono ancora di più. Soltanto nel 2009 sono arrivate al pronto soccorso 480 mila persone con sintomi da intossicazione da analgesici; e quest'anno sono già più di un milione solo negli Stati Uniti. Ci sono almeno 12 milioni di americani che prendono regolarmente questi farmaci non perché ne abbiano bisogno ma per il senso di benessere che danno. In Italia, secondo il rapporto dell'Aifa, quello che si spendeva per il consumo di oppiacei nel 2005 era lo 0,6 per cento del totale della spesa sanitaria. Molto meno che in Inghilterra, in Germania, in Francia e anche meno che in Spagna. Meglio prepararsi però, di solito quello che succede di là dall'oceano prima o poi arriva da noi. Ma come fanno a procurarsi questi farmaci le persone che ne abusano? Chi li prescrive? Di solito, la gente se li procura con le ricette di qualcun altro, altri li rubano in farmacia (ma questo non succede spesso), piuttosto c'è chi riesce a procurarsi ricette da medici diversi e così si fa una bella scorta di pillole: lo chiamano «doctor shopping». Gli oppiacei non li prescrivono quasi mai gli specialisti, di solito sono medici di famiglia e dentisti, e qualcuno prescrive più di altri, tanto che l'80 per cento degli antidolorifici che si consumano viene dal 20 per cento dei medici. Questi medici sanno benissimo che c'è chi abusa delle loro prescrizioni e sanno anche che tanti pazienti passano le ricette agli amici. Ma li prescrivono lo stesso. Perché? Secondo Anna Lembke — che ha pubblicato un articolo sul «New England Journal of Medicine» solo pochi giorni fa — un po' dipende dall'atteggiamento culturale dell'America di oggi, quello per cui non si deve mai avere dolore, per nessuna ragione. E poi c'è la mania della soddisfazione del paziente. Gli ammalati compilano questionari su questionari per dire come si sta negli ospedali americani e quanto sono — o non sono — bravi i dottori che li curano. E i medici, dentro e fuori l'ospedale, sanno benissimo che più si prescrive più si è bravi. Intendiamoci: queste cose le dico a malincuore perché fra tutte le cose importanti che sono successe in medicina negli ultimi vent'anni, forse la più importante è stata quella di dare agli ammalati la possibilità di liberarsi dal dolore. Ma ogni scoperta si presta a essere usata male e farmaci che dovrebbero aiutare a stare meglio possono fare danni, anche gravi. Ma davvero si può morire per delle pillole che chiunque può trovare in farmacia? Sì, certo, e per uno che muore ce ne sono almeno cinquanta intossicati, centoquaranta che non riescono a smettere e un milione che comunque abusa di antidolorifici (sono i dati più recenti resi pubblici dall'Fda, l'ente di sorveglianza sui farmaci). I derivati dell'oppio si legano ai recettori del cervello, dove riescono a infilarsi con la precisione di una chiave che entra nella sua serratura e soltanto in quella. È in questo modo che tolgono il dolore a chi soffre di artrite o per le metastasi di un tumore. Quello che interessa ai ragazzi e a chi ne abusa è che sulle prime questi farmaci danno euforia. A un prezzo però. Se si continua e se si prendono ogni giorno per esempio — o anche più volte al giorno — subentra uno stato di sedazione, gli atti del respiro rallentano al punto che nei casi più gravi si rischia l'arresto respiratorio. Se poi uno beve è anche peggio, perché l'alcol potenzia l'effetto sedativo dei derivati dell'oppio, così capita che la pressione scenda, si perda la capacità di controllare la temperatura del corpo e si arrivi al coma. Ragazzi e giovani adulti muoiono così di overdose da antidolorifici. Per niente. __________________________________________________ Corriere della Sera 28 ott. ’12 A ME GLI OCCHI, ANZI L'AMIGDALA di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI Nel centro cerebrale delle emozioni, un esperimento sui macachi rivela l'esistenza di neuroni deputati allo sguardo-nello sguardo A l congresso annuale della Società per le Neuroscienze, il più importante del settore, tenutosi nei giorni scorsi a New Orleans, la neuropsicologa Katalin Gothard, dell'Università dell'Arizona, ha annunciato una curiosa e interessante scoperta. Nel cervello del macaco esistono alcuni neuroni che si attivano specificamente quando la scimmia guarda fissamente negli occhi un'altra scimmia. Non a caso, la regione cerebrale nella quale risiedono questi neuroni, specificamente attivati dallo sguardo-nello-sguardo, è l'amigdala, cioè una formazione vagamente assomigliante ad una mandorla, già ben nota come centro nervoso principale delle emozioni. Il delicato esperimento eseguito dalla Gothard e dai suoi collaboratori Clayton Mosher e Prisca Zimmerman, in sintesi, consiste nell'inserire minuscoli elettrodi (ben più sottili di un capello) in un certo numero di neuroni e registrare l'attività di tali neuroni, quando il macaco osserva varie situazioni. In particolare, veniva presentato su uno schermo un filmato di un altro macaco che a tratti guardava fisso, da molto vicino, la telecamera. Il soggetto sperimentale aveva ogni motivo di ritenersi personalmente fissato, appunto, sguardo-nello-sguardo. Si è osservato che esistono, nell'amigdala, dei neuroni definiti «neuroni occhio» (eye neurons), sensibili alla direzione dello sguardo e ai movimenti oculari di un «conspecifico», inclusa la momentanea dilatazione delle pupille. Dato che, ovviamente, gli occhi sono il veicolo principale per comunicare intenzioni e atteggiamenti verso gli altri, non era inatteso che circa il 15 per cento di tutti i neuroni sondati dalla Gothard nell'amigdala (circa 150 in tutto) siano specializzati nel registrare le informazioni contenute nello sguardo. Atteggiamenti aggressivi, neutrali o amichevoli vengono registrati da questi neuroni. Taluni sono attivati da questi diversi tipi di informazione, mentre l'attività di altri neuroni viene soppressa. Ebbene, quattro di questi neuroni occhio sono unicamente sensibili allo sguardo- nello-sguardo. Mandano impulsi solo quando la scimmia fissa lo sguardo della scimmia che fissa la telecamera. Un'immagine statica del volto non eccita questi neuroni. È molto plausibile che tali neuroni esistano anche negli esseri umani, data la similitudine tra noi e le altre specie di primati. Chiedo a Gothard quanti neuroni sguardo-nello-sguardo pensa siano presenti nel macaco. Mi risponde che le ricerche sono ancora in pieno svolgimento e che è plausibile esistano alcune centinaia di tali neuroni. Aggiunge una considerazione interessante: «Il numero di neuroni spesso non corrisponde all'importanza della loro funzione. Appena 600 neuroni nel ratto pilotano il ritmo della respirazione, una funzione di importanza capitale, mentre milioni di altri neuroni presiedono a funzioni molto meno vitali». Le chiedo di parlarci un po' dell'amigdala in generale: «È un centro cerebrale che svolge molte funzioni. Valuta il significato emotivo di tutti gli stimoli che l'organismo riceve e modula le funzioni di tutti gli organi interni che rispondono a stimoli altamente significativi. Segnalare il contatto attraverso lo sguardo è solo una di queste funzioni». I suoi studi sull'amigdala, in oltre dodici anni, hanno messo in luce le diverse specializzazioni dei diversi gruppi di neuroni. Già ben noti, in una diversa area del cervello, chiamata area fusiforme, e ben presenti in noi, sono dei neuroni specializzati nel riconoscimento dei volti. Un danno cerebrale a quest'area produce un deficit chiamato prosopoagnosia, i soggetti ci vedono benissimo, ma non possono riconoscere le persone dal loro volto, nemmeno i più stretti familiari. Un'area vicina, ma distinta, presiede al riconoscimento delle emozioni espresse dal volto. La neuropsicologa olandese Beatrice De Gelder, alcuni anni orsono, ha rivelato un dato sorprendente. Quando l'area fusiforme deputata al riconoscimento di volti è colpita, ma l'area delle espressioni resta intatta, questi soggetti mostrano, senza rendersene conto, di saper ben individuare le espressioni in quei volti che, si noti bene, non riconoscono come volti. Il loro cervello individua paura, disgusto, gioia o ira in quello che a loro appare solo come una macchia ovale indistinta. Chiedo come si rapportino a questi neuroni del volto i neuroni da lei scoperti. «Sono tipi di neuroni assai simili tra di loro, sintonizzati dall'evoluzione delle specie per servire i comportamenti sociali. Ci riconosciamo l'un l'altro e stabiliamo delle relazioni. Tanto le cellule del volto (face cells) che quelle dello sguardo mostrano una selettività molto raffinata per il significato dello stimolo, per le emozioni manifestate dal volto e dallo sguardo». Le chiedo se si possono prevedere applicazioni pratiche, in special modo cliniche e diagnostiche, di questa scoperta. «Occorrono ancora ulteriori ricerche, prima di trovare tali applicazioni, ma questi neuroni possono diventare il bersaglio privilegiato per terapie volte a migliorare dei deficit nella socialità, disturbi dello sviluppo che accompagnano sindromi psichiatriche, come l'autismo, la schizofrenia e l'ansia nella socializzazione». Sottolinea che tutti gli animali sociali hanno nel loro cervello dei neuroni sensibili ai volti, perfino le pecore e le api. Forse, aggiungo io, il ben noto fenomeno dello sguardo che ci segue, in certe foto e in certi dipinti, attiva nella nostra amigdala proprio i neuroni scoperti dalla Gothard. Non vogliamo farci, però, installare quegli elettrodi, seppur più sottili di un capello, per averne una conferma definitiva.