RASSEGNA 11 NOVEMNRE 2012 L’AUTORITY(POCO )INDIPENDENTE DELL'UNIVERSITÀ PER LA RICERCA FINITI I FONDI: L’ITALIA ARRANCA MELIS: UN TUTOR PER SCEGLIERE LA FACOLTÀ CULTURA, EMERGENZA DEL PAESE MEDICINA: LA LAUREA ROMENA DEFERRARI: LA SELEZIONE È GIUSTA MA VA ANCORA MIGLIORATA LAUREATI AL CAPOLINEA RIFORMA DEI CONCORSI, SARÀ MINI UNIVERSITÀ, PERCORSO PIENO DI OSTACOLI PER I NUOVI TIROCINI GLI ATENEI NON POSSONO MORIRE PER AUSTERITY LA RICERCA: UNIVERSITÀ, DONNE E UOMINI SEGNATI AGLI STEREOTIPI RETTORI IN PROROGA, MA SENZA LOGICA UNISS: AL 4° POSTO IN ITALIA, LE FACOLTÀ MIGLIORANO ANCORA TROPPI AVVOCATI, SCARSA SELEZIONE I NUOVI PROFESSORI HANNO GIÀ 38 ANNI I DUBBI DEGLI EDITORI SUI TESTI SCOLASTICI DIGITALI FILOSOFI E SPORTIVI INSIEME PER DIFENDERE L'ERASMUS I LAUREATI ITALIANI AL LAVORO SENZA LODE INNOVAZIONE, ISOLA SUPER ENTI, OLTRE 40 POLTRONE IN BILICO LE STATISTICHE? SERVE UN GARANTE AMAZON, UN PIANO DA 600 ASSUNZIONI A CAGLIARI SARDI, INCONSAPEVOLI DELLA RICCHEZZA DIFFUSA NELL’ISOLA IL BUON LAVORATORE VA A CASA PRESTO IL FUTURO È AD ARIA COMPRESSA, PER FAVORE: CANCELLATE LE INTERVISTE ALLA GENTE COMUNE ECONOMIA ED ENTI LIRICI: SI STECCA SULLA PRODUTTIVITÀ ========================================================= COME MIGLIORARE EFFICACIA E COSTI DI UN SERVIZIO PREZIOSO NAPOLITANO: GIUSTO RIDURRE LE SPESE MA LA SANITÀ PUBBLICA VA DIFESA BALDUZZI:COSÌ CAMBIERÀ L'ASSISTENZA NEGLI OSPEDALI AOUCA: FARMACO ANTI-EPILESSIA UNISS: IL NUOVO DESTINO DELLE CELLULE SOLO 8 REGIONI SONO IN REGOLA CON I LEA CORSO DI FOLLIA, È LITE FRA SGARBI E DEL ZOMPO EPATITE C, CON NUOVO FARMACO GUARIGIONI SARANNO TRIPLICATE OSPEDALI E POSTI LETTO TAGLI RECORD IN MOLISE LAZIO E TRENTINO UNISS: LA FORMULA DELL'IMMORTALITÀ CUSTODITA IN UN'ISOLA GRECA PERICOLOSE QUELLE TERAPIE CON LE STAMINALI" IN SARDEGNA SI PUO’ PAGARE IL TICKET SANITARIO ANCHE ALLA POSTA LA RIABILITAZIONE È VIRTUALE E’ PARTITO MAXI-PROGETTO CONTRO IL CARCINOMA AL SENO TROPPI FARMACI A MISURA D'UOMO, «QUOTE ROSA» NEGLI STUDI CLINICI CON LA MEDICINA DI GENERE PIÙ RISPARMI E OCCUPAZIONE UNA DENUNCIA AL GIORNO PER L'E-COUPONING SANITARIO L’ATTIVITA’ FISICA REGOLARE ALLONTANA LA DEMENZA FORBICI MOLECOLARI PER DISTRUGGERE LA CORAZZA DEL MALE DIECI NUOVI FARMACI L'ANNO COSÌ SI «DISARMA» IL TUMORE FRETTA VS ACCURATEZZA: COME CAMBIA L'ATTIVAZIONE CEREBRALE GLI UFFICI E IL RAFFREDDORE UNTORI O SCANSAFATICHE? ATENE NON PAGA, NIENTE MEDICINE TUMORI: A MILANO PARTE LA SFIDA ALLA TERAPIA MOLECOLARE CAGLIARI: UNA BANCA REGALA LA SPERANZA NELLA VITA LICINIO CONTU, FINALMENTE IL MIO PROGETTO CANCRO AL SENO E OBESITÀ LA SCOPERTA DEL RUOLO DELLA LEPTINA NASO E CERVELLO COLLEGATI DA UNA SCORCIATOIA CON IL PROFUMO DEI RICORDI AIUTIAMO A RITROVARE LA MEMORIA QUANTO DEVE DURARE IL TENTATIVO DI RIANIMARE ARRESTO CARDIACO COME SI PUÒ «AGIRE D'ANTICIPO» ========================================================= _______________________________________________________________ Il Secolo XIX 05 nov. ’12 L’AUTORITY(POCO )INDIPENDENTE DELL'UNIVERSITÀ L'ANVUR, DI NOMINA POLITICA, GIUDICA GLI ATENEI Ma rischia il semaforo rosso dell'Europa FRANCESCO MARGIOCCO È IRTO di ostacoli il cammino dell'autovalutazione dell'università italiana. In fondo a quel cammino ci sono una maggiore meritocrazia - premiare gli atenei migliori - e una maggiore qualità, eliminare i corsi di laurea peggiori. Obiettivi nobili, in linea con quelli dei Paesi più evoluti d'Europa. Ma è il mezzo scelto dall'Italia per raggiungerli a destare qualche dubbio. Un complicato groviglio di statistiche e questionari da rilevare, compilare e sottoporre all'attenzione dell'Anvur, che avrà l'ultima parola. E che, sulla base delle informazioni ricevute, deciderà quali corsi di laurea meritano di più, quali di meno, quali infine vanno soppressi. L'Anvur è un organismo operativo da un anno e mezzo il cui compito è racchiuso nel suo nome, sigla che sta per Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, e i cui membri sono stati nominati dal ministro dell'Istruzione. Ed è qui il problema. Può un ente di nomina politica svolgere in modo autonomo il proprio lavoro? Secondo i modelli internazionali che la stessa Anvur dichiara di seguire, no. Le "linee guida europee" sull'istruzione superiore fissate dai ministri dell'Università nel 2005 dicono, all'articolo 3 comma 6, che le agenzie di valutazione del sistema accademico devono essere "indipendenti per rispondere direttamente del proprio operato e non essere influenzate". L'Anvur ha bussato alla porta della prestigiosa Associazione europea per la garanzia della qualità nell'istruzione superiore, Enqa, che ha sede a Bruxelles. Vorrebbe entrare in questo club europeo dove già si ritrovano le agenzie di valutazione di molti altri Paesi. «Ma la mia impressione è che non ce la farà, proprio per mancanza di indipendenza dal ministero», dice Alberto Baccini, docente di economia all'Università di Siena dove presiede il nucleo di valutazione, gruppo di esperti nominati in ogni ateneo dal rettore e che ha trai suoi compiti quello di scrivere la relazione annuale su cui l'Anvur dovrà decidere quali corsi premiare e quali eliminare. Quanto ai questionari e ai dati statistici che saranno parte integrante di quelle relazioni, dei primi parliamo nell'articolo qui sotto, i secondi sono tutti da costruire. L'Anvur ha elencato gli indicatori statistici, decine, che vanno dal rapporto tra il numero di crediti acquisiti all'estero e gli studenti iscritti, al rapporto in ogni corso di laurea magistrale tra gli studenti provenienti da un altro ateneo e quelli "autoctoni", alla percentuale di studenti che finiscono il corso di studi, ai crediti acquisiti dallo studente medio alla fine del primo anno. Per ora sono indicatori vuoti, ogni singola università dovrà riempirli con dei numeri precisi. Per farlo, c'è tempo solo fino a giugno. In base alla tabella di marcia il lavoro dovrebbe essere già cominciato il primo di ottobre. In realtà è tutto ancora fermo. Introdotto dalla legge Gelmini, questo meccanismo di (auto)valutazione e accreditamento degli atenei noto in gergo come Ava dovrebbe comunque partire nei prossimi giorni ma ha già, prima ancora di debuttare, diversi detrattori. Uno dei più convinti è Roars, sito internet d'informazione universitaria, che teme «una crescita esponenziale di questionari, relazioni e controrelazioni». Altri invece, come Giuseppe Lo Nostro, che fa parte del neonato "gruppo Ava" dell'Università di Genova, sono ottimisti: «Che il sistema abbia dei limiti è normale. Siamo appena all'inizio, Ava si perfezionerà strada facendo». Ma non è tenera con Ava neppure la Conferenza dei rettori, Crui, che punta il dito sul costo dell'operazione e sul poco tempo a disposizione e chiede un rinvio della scadenza di giugno. Né lo è il Consiglio universitario nazionale, Cun, organo di rappresentanza del sistema universitario, che in una lettera datata 25 luglio mette in guardia il ministro dell'Università contro i rischi di una «pura applicazione automatica di criteri numerici» che «in un periodo di riduzione delle risorse e forte limitazione del turn over» potrebbe «determinare la chiusura anche di corsi di buona qualità e necessari per il Paese». __________________________________________________________________ L’Unità 05 nov. ’12 PER LA RICERCA FINITI I FONDI: L’ITALIA ARRANCA USCIRE DALLA CRISI, MA GLI INVESTIMENTI CALANO CARLO BUTTARONI PRESIDENTE TECNÈ Per La ricerca sono finiti i soldi Già nel 1945, Vannerer Bush, fondatore della National Science Foundation, aveva previsto che per molti decenni a venire la scienza avrebbe rappresentato la base dello sviluppo economico, e affermava anche che la vera sfida dei Paesi avanzati fosse proprio la continua esplorazione di questa frontiera. E proprio l'Italia, Paese che necessita di grande spinta innovatrice per recuperare, dopo la crisi, un ritardo preesistente a essa in termini di competitività e crescita, rappresenta la Cenerentola d'Europa e in generale dei Paesi sviluppati. L'Italia, infatti, investe in ricerca 1'1,3% del Pil, molto meno di Francia e Spagna, Repubblica Ceca, Irlanda, Australia e Cina. La Germania e gli Stati Uniti spendono più del doppio; il Giappone, la Finlandia e la Svezia più del triplo. Se a questo sommiamo la nostra incapacità ad affrontare i cambiamenti indotti dalla crisi economica e la debole crescita, il risultato è che stiamo accumulando un ritardo via via crescente. Un quadro, quindi, in costante peggioramento. È ovvio che non tutti i Paesi sono egualmente capaci di sfruttare la crisi in chiave di forte discontinuità, ma l'alternativa, per Paesi come l'Italia, non può comunque essere quella di rimanere fermi o addirittura sacrificare ulteriormente i già ridotti investimenti nell'ambito della ricerca e sviluppo. Eppure i numeri dimostrano come, nel nostro caso, si stia procedendo proprio in questo senso. Nel 2011, gli investimenti sono crollati a -1,6% rispetto all'anno precedente, a causa dei tagli nel settore pubblico, delle università e delle imprese. La spesa media in ricerca e sviluppo - nel triennio 2009-2011- è stata pari a 19,3 miliardi di euro, con oltre metà degli investimenti effettuati delle imprese (52,9% del totale nazionale), e la parte restante sostenuta dall'università (30,3%), dalle istituzioni pubbliche (13,4%) e dal settore non profit (3,4%). QUADRO DESOLANTE L'elemento più rilevante in questo quadro è che, rispetto alla media europea e agli obiettivi di Lisbona (3% del Pil destinato alla ricerca), la quota di partecipazione agli sforzi è sbilanciata. Se gli indirizzi europei richiedono che i due terzi della spesa in ricerca deve arrivare dagli investimenti del settore privato e solo un terzo dal pubblico, in Italia si nota come il settore privato, invece, contribuisca molto poco. I motivi sono sostanzialmente due. Il primo è rappresentato dalla ragnatela di piccole e medie imprese che caratterizza il tessuto imprenditoriale italiano e che associa al concetto di ricerca quello di alto rischio e di non rientro dell'investimento. Il secondo motivo è che, con la privatizzazione del sistema delle imprese a partecipazione statale, la logica di mercato - fondata sul breve termine e sulla liquidità immediata - ha ridimensionato drasticamente gli investimenti in ricerca e sviluppo. Un calo che ha portato, a cascata, una drastica diminuzione del personale impegnato, alimentando così la migrazione dei cervelli: oltre il 7% dei dottori di ricerca si è già trasferito all'estero. Non solo s'investe poco, ma soprattutto si investe male. Mancano una strategia di sistema e obiettivi chiari. Forse occorre chiedersi che cosa significhi, oggi, fare ricerca nel nostro Paese. Perché se la ricerca ha, innanzitutto, l'obiettivo di costruire un patrimonio crescente di conoscenze da trasferire al sistema in modo da renderlo competitivo, questo non può avvenire senza armonizzare e rendere efficiente il rapporto tra investimenti ed effetti delle attività stesse di ricerca. Non è automatico, infatti, che la ricerca generi innovazione e che quest'ultima, a sua volta, generi competitività. Tale risultato si ottiene solo con una strategia complessiva, dove l'equazione del successo è data da ricerca, innovazione e competitività che crescono in equilibrio con i bisogni individuali e collettivi del Paese. È impensabile prescindere da una logica d'insieme. Il trasferimento delle conoscenze non può essere ricondotto semplicemente a un modello teorico sequenziale, che vede il primo passo nella ricerca di base, cui fanno seguito l'ingegnerizzazione e, infine, le applicazioni. II processo d'innovazione che oggi è richiesto è molto più articolato e richiede un costante dialogo fra il mondo della ricerca e le imprese, in primo luogo facilitando la nascita di programmi concertati con i futuri utilizzatori della ricerca stessa. Perché nel momento in cui la ricerca è fatta insieme a tutti gli attori, nasce già "trasferita". Vanno, quindi, risolti tutti quei difetti strutturali che ostacolano le opportunità di costruire un sistema di ricerca e sviluppo: frammentazione, dispersione, sproporzione e isolamento. Tutto ciò con una visione politico-strategica che ha come obiettivo i mercati e lo sviluppo del Paese. Un approccio che porterebbe a programmare l'attività per commesse strategiche, con una netta distinzione fra il ruolo di committente (la domanda del mercato) e quello di esecutore (l'offerta del mercato). FACILITARE L'ACCESSO ALL'INNOVAZIONE Il sistema deve essere ovviamente tarato sulle esigenze delle aziende e dei settori: non ha senso, infatti, prevedere che tutte le piccole imprese debbano impegnarsi direttamente nella ricerca. Se è vero che l'innovazione non è solo tecnologica, ma anche organizzativa, di mercato, di comunicazione, finanziaria e così via, è parimenti vero che le tecnologie favoriscono anche questi settori. La questione è, quindi, legata anche al tema di come rendere disponibili alle imprese i ritrovati, le conoscenze, i processi che esse non conoscono o rispetto ai quali hanno difficoltà di accesso. Se si creano le condizioni per uno sviluppo competitivo reale, ecco che, tramite iniezioni di tecnologia, si valorizzano tutti quei settori produttivi in cui il marchio made in Italy è sinonimo di tradizione, unita a qualità e originalità. Una tradizione importante come quella rappresentata dai distretti industriali di un tempo, oggi va ripresa e trasformata in una dimensione di distretti tecnologici. Ciò significa non solo nuova tecnologia, ma il superamento della distinzione fra "settori tradizionali" e "settori innovativi". Non è ragionevole immaginare un'Italia che fa soltanto hi-tech, né un'Italia che non lo faccia per niente. L'obiettivo deve essere un Paese che investe con il duplice scopo di presidiare i settori tradizionali e di generare conoscenze che mantengano competitivi i settori più avanzati del nostro sistema produttivo. Fare sistema significa puntare sulla costruzione di una rete tra settori produttivi e competenze scientifiche, in grado di rendere l'Italia competitiva in sede internazionale. Il tema della ricerca è centrale, incrocia il futuro e ha bisogno, per dare i suoi frutti, di tempi più lunghi di una legislatura o della durata di un governo. __________________________________________ Unione Sarda 08 nov. ’12 MELIS: UN TUTOR PER SCEGLIERE LA FACOLTÀ UNIVERSITÀ. Il rettore Giovanni Melis a tu per tu con la commissione Cultura del Consiglio regionale Via al progetto-orientamento: aiuterà gli studenti universitari a prepararsi «Stiamo lavorando per un processo di miglioramento della didattica, per consentire a docenti e studenti delle scuole superiori di capire quali aspetti devono essere approfonditi in vista degli studi universitari». Lo ha detto il rettore Giovanni Melis, nel corso dell'audizione davanti alla Commissione Cultura del Consiglio regionale, presieduta da Carlo Sanjust.  «L' Ateneo - ha spiegato Melis- ha attivato il progetto Orientamento, dopo aver somministrato più di 4 mila test nelle scuole dell'Isola per testare la preparazione culturale degli studenti: i risultati migliori si riscontrano nella comprensione verbale, nelle materie letterarie e nella lingua inglese, ma restano purtroppo al di sotto dei coetanei del resto d'Italia. Per questo, dall'anno scorso abbiamo attivati una sessantina di corsi di riallineamento della preparazione all'ingresso in università». Anche l'istituzione dei speciali tutor nelle facoltà ha consentito di ridurre gli abbandoni e il numero dei fuoricorso, e aumentare il numero degli studenti attivi (coloro che sostengono esami) e il numero dei laureati (passati dai 4090 del 2008 ai 4400 del 2011). Riferendosi alle polemiche sulla cosiddetta «decadenza», il Rettore ha precisato che «nessuno è stato dichiarato decaduto, molti hanno ripreso a studiare e hanno concluso il loro percorso universitario». Al centro del colloquio con i commissari, anche il rapporto tra il numero dei laureati e lo sviluppo economico: «Trovare un'occupazione è difficile per tutti - ha spiegato il Rettore - lo è ancora di più per chi non ha un titolo di studio elevato: oggi, senza la laurea, non si può nemmeno emigrare. Non pagano le tasse i figli dei cassintegrati, di coloro che hanno perso il lavoro e gli studenti che si sono diplomati con il massimo dei voti». L'impegno dell'Ateneo è cresciuto anche sul fronte della preparazione degli insegnanti delle superiori: Cagliari è sede di 575 tirocini abilitanti e delle lauree magistrali abilitanti. Quanto all'ipotesi di cancellazione degli enti per il diritto allo studio, di cui si discute in questi giorni in Consiglio regionale, il Rettore ha chiesto ai membri della Commissione che «venga assicurata comunque una presenza universitaria qualificata negli organi che in futuro si occuperanno di diritto allo studio». ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 nov. ’12 CULTURA, EMERGENZA DEL PAESE Il futuro è nell'industria culturale e creativa ma il brand Italia perde competitività a livello internazionale. L'«Indice24» e i quattro punti concreti da cui ripartire Pier Luigi Sacco Il Manifesto della Cultura del Sole 24 Ore ha proposto un percorso in 5 punti, che riportiamo a fianco, per dare alla produzione culturale un ruolo centrale all'interno del modello di crescita futura del nostro Paese. A pochi giorni dagli Stati Generali della Cultura che danno attuazione concreta al primo dei punti, nella consapevolezza del tempo limitato per ritrovare la capacità di crescere e di competere più efficacemente nell'arena globale ribadita dal piano Europa 2020 per il nostro continente (e forse ancor di più per il nostro Paese), è necessario ridare al sistema culturale italiano risorse, slancio ed energie per tradurre le sue immense potenzialità in qualità della vita, sviluppo umano ed economico. È con questo spirito che proponiamo qui un'agenda di misure adottabili a breve termine che inizino a tradurre i principi del Manifesto in scelte concrete, che coinvolgono e responsabilizzano tutti gli attori del sistema Paese. Le elaborazioni condotte dal Sole 24 Ore sulla base dei dati forniti dal recente rapporto Symbola-Unioncamere sull'industria culturale e creativa in Italia evidenziano le difficoltà attuali: a fronte di un peso occupazionale notevole, corrispondente al 5,6% degli occupati, in gran parte concentrati nei settori dell'industria culturale e soprattutto creativa, esiste ancora una modesta capacità di circolazione dei contenuti e delle innovazioni culturali tra i vari settori della macro-filiera. Il moltiplicatore culturale che dà una prima misura di tali flussi mettendo in rapporto il valore aggiunto prodotto dal settore culturale e da quello creativo, che è oggi in Italia pari circa a 1, mostra ancora una capacità limitata del comparto creativo di creare valore a partire dai contenuti del comparto culturale vero e proprio. Non è un problema di contenuti in sé: i dati sulla produttività dei settori (non industriali) del patrimonio storico-artistico, delle arti visive e dello spettacolo dal vivo sono abbastanza allineati a quelli del settore creativo, mostrando così che la nostra cultura sta imparando a razionalizzare l'uso delle risorse sempre più scarse a disposizione, e la produttività del settore culturale è persino superiore a quella del settore creativo, per quanto il primo sia meno esposto al mercato in termini relativi. Ma le debolezze del sistema diventano palesi quando si considerano gli indici di orientamento all'esportazione, che per il settore creativo sono tre volte e mezzo la media dell'economia italiana mentre per il settore culturale non arrivano a un terzo. In altre parole, la filiera culturale estesa italiana non riesce a produrre abbastanza valore perché soffre, soprattutto nei settori chiave dell'industria culturale, di una bassissima capacità di penetrazione nei mercati internazionali, e ciò finisce per influenzare negativamente la competitività dell'intero sistema produttivo. Questa situazione si riflette in modo evidente nell'Indice 24, elaborato dal Sole 24 Ore a partire dai database Google-Harvard e Google Trends che ci permettono di misurare quanto il "brand" Italia sia associato a livello globale, rispetto ai principali Paesi concorrenti, ai settori culturali e creativi e ai relativi attributi di valore. I dati mostrano come, su scala secolare, l'Italia abbia perso quote significative di capacità di influenza in tutti i principali settori della produzione culturale, mantenendo in qualche modo le posizioni nei settori simbolo della sfera creativa come il design e la moda e mostrando un unico vero caso di influenza crescente nel settore del food, che non a caso è quello in cui a un lavoro efficace in termini di ricerca e innovazione si è accompagnata una azione sistematica di miglioramento della partecipazione e delle competenze a livello del grande pubblico. Ma in settori non industriali chiave come l'arte e il patrimonio storico-monumentale, l'incidenza dell'Italia si è ridotta rispettivamente a un sesto e a meno di un terzo dei valori di inizio Novecento. L'Italia continua così a dilapidare una rendita storica, diventando sempre meno capace di rendere visibili e attraenti a livello globale i propri contenuti culturali, e di trasmetterli efficacemente alle catene del valore dei settori di eccellenza del made in Italy. Per reagire a questa situazione, occorre elaborare una nuova strategia che punti a favorire l'investimento privato e l'imprenditorialità culturale, facendo un uso estremamente accorto ed efficace delle limitate risorse pubbliche disponibili per un forte rilancio competitivo dei nostri settori culturali e creativi. Ecco alcune priorità concrete da perseguire: 1. Accesso al credito e sviluppo dell'imprenditorialità Il ricambio generazionale dell'imprenditoria italiana nei settori culturali e creativi è oggi molto modesto. Una delle principali difficoltà è rappresentata dall'accesso al credito, tradizionalmente limitato nel settore a fronte di tassi di default inferiori alla media: si tratta quindi di un deficit di informazione e di conoscenza da parte del sistema creditizio. A questo problema rimedierà presto il programma Creative Europe, lanciato dalla Commissione Europea per il nuovo ciclo 2014-2020, che istituirà un fondo di garanzia a cui le banche potranno accedere per ridurre il rischio di credito verso le imprese culturali e creative, in cambio di condizioni di credito agevolate e di allocazione di quantità significative di impieghi verso il settore. Una novità importante, che il sistema creditizio italiano potrebbe anticipare e cavalcare. Strettamente connesso è il tema dell'incubazione di impresa creativa già dagli ultimi anni della carriera universitaria, un altro tema che potrebbe trovare grandi spazi analogamente a quanto comincia ad accadere nella sfera scientifico-tecnologica, e che è strettamente connesso al primo. * * * 2. Un'agenzia per l'esportazione della produzione creativa italiana Per penetrare i mercati globali è necessario intraprendere un'azione coordinata di accesso organizzato ed efficace, piuttosto che procedere in ordine sparso e frammentario come si è per lo più fatto finora. Dutch DFA, l'agenzia olandese per la promozione del design, della moda e dell'architettura, ha ad esempio avuto un ruolo di primo piano nel lancio professionale a livello globale delle nuove generazioni di creativi olandesi. Una agenzia di questo genere dovrebbe avere costi gestionali leggerissimi, essere totalmente centrata sulle competenze e sulla provata esperienza di sviluppo di relazioni internazionali nell'ambito creativo, e potrebbe anche essere interamente finanziata dai proventi delle licenze sui maggiori marchi culturali nazionali di cui al punto successivo. * * * 3. Una strategia di valorizzazione globale dei brand culturali italiani L'operazione del Louvre Abu Dhabi mostra chiaramente come si possa valorizzare un brand culturale globale sia dal punto di vista del licensing (che nel caso suddetto ha prodotto di per sé un introito di circa un miliardo di euro) sia da quello della circolazione di collezioni poco esposte, creando allo stesso tempo una vetrina di visibilità per la cultura nazionale e favorendone la capacità di esportazione. Nel caso italiano nulla vieta di sviluppare operazioni analoghe, se accompagnate da un'opportuna politica di registrazione internazionale dei rispettivi marchi ed eventualmente da un allentamento a livello legislativo del vincolo massimo di permanenza all'estero delle opere di interesse culturale nazionale, se inquadrata all'interno di operazioni di tale natura. I relativi proventi potrebbero offrire la leva finanziaria per potenziare operazioni come la suddetta agenzia di promozione dell'export creativo italiano, o il sostegno alla nuova impresa creativa export-oriented. * * * 4. Una maggiore capacità di integrare la produzione creativa nel manifatturiero di qualità Il nostro settore manifatturiero può oggi contare su grandi potenzialità di sviluppo legate a una integrazione con la produzione culturale e creativa, se diventa maggiormente capace di trasferirne i risultati più interessanti nel proprio sviluppo di prodotto e nella propria comunicazione. Occorre allora creare centri di trasferimento creativo del tutto analoghi a quelli di trasferimento tecnologico per potenziare la capacità di integrazione tra i due ambiti. Questo obiettivo potrebbe essere fatto proprio dallo stesso sistema delle imprese come asse strategico innovativo su cui lavorare nei prossimi anni sviluppando alcune iniziative pilota. Particolarmente interessante in questo senso è l'esperienza finlandese, basata su un'innovativa National Design Policy. Si tratta, come si vede, di misure che non hanno tanto bisogno di ingenti risorse pubbliche quanto di una radicale presa di coscienza delle trasformazioni delle filiere culturali e creative e dello sviluppo di una azione di razionalizzazione delle risorse e delle forze in campo chiara, concreta ed efficace, alla luce degli scenari competitivi globali esistenti. Per l'Italia sarebbe una vera rivoluzione copernicana. Per le giovani generazioni significherebbe poter ancora guardare al proprio paese come un luogo su cui scommettere per il proprio futuro imprenditoriale e professionale. © RIPRODUZIONE RISERVATA Fabrizio Galimberti, Antonio Cognata, Walter Santagata e altri alle pagine 34-35 i 5 punti del manifesto 1. Una Costituente per la cultura. Cultura e ricerca, secondo l'articolo 9 della Costituzione. 2. Strategia di lungo periodo. In un'ottica simile alla ricostruzione economica che sancì la svolta del Dopoguerra. 3. Cooperazione tra ministeri. La funzione dello sviluppo sia al centro dell'azione di Governo. 4. L'arte a scuola e la cultura scientifica siano promosse a tutti i livelli educativi. 5. Sgravi, equità fiscale e merito. Complementarità tra pubblico e privato _______________________________________________________________ Repubblica 06 nov. ’12 MEDICINA: LA LAUREA ROMENA Centinaia di futuri medici . Diplomati negli atenei di Timisoara. Così gli italiani si attrezzano contro il numero chiuso. Con qualche rischio TIM I SOARA MA guarda dove sono finiti, i nostri futuri dentisti, per imparare il mestiere: in Transilvania, vicini di casa dell'uomo dai canini più famosi del mondo, il conte Dracula. Più di 600 studenti italiani alla privata Vasile Goldis di Arad, una cinquantina alla statale di Timisoara; un altro migliaio sparpagliati nel resto della Romania, tra lasi e Bucarest, tra Cluj e Costanza. Metà studiano per diventare odontoiatri, l'altra metà sarà medico. Ma stanno arrivando anche dozzine di infermieri e veterinari. C'era una volta la fuga dei cervelli italiani, oggi anticipiamo i tempi: esportiamo direttamente il semilavorato. Secondo gli ultimi dati disponibili (rapporto Migrantes 2011) 42mila ragazzi hanno varcato i confini e studiano all'estero. Migliaia di candidati medici sono rimbalzati contro «quei test assurdi» per due, tre, quattro anni consecutivi prima di decidersi a coltivare i sogni in un terreno meno ostile. Virtù dell'Europa unita: ti laurei dove riesci, eserciti dovevuoi. Moltihanno scelto la Spagna, ma costa una fortuna tra tasse e carovita. Così a ogni iscrizione sciamano a centinaia in Romania, ogni anno più numerosi: in una mano la valigia dell'emigrante, nell'altra quella di mamma o papà che paga e conforta. Quando partono per la Transilvania sembrano Claudio Bisio e Angela Finocchiaro in Benvenuti al Sud. Benvenuti in Romania, invece: «Mia figlia — racconta la psichiatra Nicla Picciariello — era la migliore della classe, al liceo, ma ha provato quattro volte il test a Medicina e non è passata: lo sanno tutti che ì posti erano già assegnati. Sconfortante, melo lasci dire. Così si è iscritta alla statale di Timisoara. Per noi è stata una ferita: non dovremmo avere pregiudizi». Ma è un Paese arretrato, tanti criminali... Siamo partite insieme, le ho detto di togliersi i brillanti, viale borse di Chanel, solo vestiti dimessi Quando sono arrivata qui mi sono vergognata. È un sogno, altro che inferno! Le auto si fermano due metri prima delle strisce, le facoltà hanno ottimi laboratori e mi sento molto più sicura a girare sola e ingioiellata qui che in Italia». Vale il reciproco: «Un giorno — racconta Alessandro Nicolò, II anno di odontoiatria ad Arad — ho detto a una professoressa che arrivavo da Reggio Calabria ed è sbiancata: "Oddio ma lì sparano per strada, è pericoloso, c'è la 'ndrangheta!" Le ho risposto: accidenti, guardi che da noi dicono lo stesso della Romania». A Timisoara e Arad, l'eldorado degli aspiranti camici italiani, quasi tutti vengono dal Mezzogiorno. «Certo, spero di tornare al più presto nel mio Paese — racconta Marzia Russo, ventenne di Foggia, II anno di Medicina in inglese ad Arad— ma sarò per sempre grata alla Romania. in Italia mi sarei dovuta laureare in una disciplina che non mi interessa. Qui ho già iniziato tirocinio, entro in sala operatoria, cambio medicazioni e assistito a operazioni delicate. In Italia? Farei solo teoria». In realtà, le nostre università non permettono facilmente il reintegro, una volta aggirato il test. «Ma quest'anno 29 ragazzi sono riusciti a tornare all'Università di Bari», sorride Nino Del Pozzo di Tutor University, che offre assistenza logistica alla Vasile Goldis di Arad. Ogni anno quasi 90mila italiani affrontano il test delle facoltà mediche, e 1'80 per cento vengono dal Centro- Sud. Ne passa uno su otto. «In Italia per iscriverti ai test — spiega Maria Vincenza M., uno dei 170 ammessi quest'anno ad Arad su 300 candidati italiani — spendi da 50 a 100 euro ogni tentativo. Poi ci sono i corsi: ío ho speso 4mila euro ma il listino aveva soluzioni da 9, IO e anche 12mila euro tra teoria, esercizi, simulazioni e glossario. In più ho speso 500 euro di libri». «Fate la somma, moltiplicate per 90mila studenti e capirete perché in Italia questa follia dei test non la cancelleranno mai», dice un papà, Raffaele, in cerca di casa perla figlia. «In questi dieci anni — dice Giuseppe Lavra, vicepresidente dell'Ordine dei medici di Roma — ci troveremo con 40mila medici in meno. Il guaio è che non mancano ancora, così non facciamo nulla per risolvere il problema». Un paradosso che costa milioni: in Romania ogni studente spende in media 4mila euro di tasse ogni anno, che «diventano 10 o 12mila con affitto, mantenimento e trasferimenti». Per duemila italiani fanno una ventina di milioni di euro ogni anno che le famiglie avrebbero speso volentieri in Italia, invece che in Romania. E anche l'esodo in conto studi diventa business. «Pervenire qui a Arad — dice Del Pozzo — da noi spendono 3mila euro per l'iscrizione e l'assistenza ai test di lingua, e fino a lOmila con il tutor. Ogni tanto ci arrivano telefonate strane, gente che pensa che studiare qui sia una finzione. Beh, ragazzi, non avete capito niente: 15 giorni di vacanze a Pasqua, una ventina a Natale e poi luglio e agosto, il resto dell'anno non ti muovi. C'è obbligo di frequenza e vi conoscono uno a uno, non ci si passano i badge come in Italia». «Una volta superato il test iniziale di romeno, che per fortuna è semplice da imparare -- dice Antonino Nicolò, 25 anni, futuro dentista figlio d'arte e rappresentante di tutti gli studenti— si studia mattina e pomeriggio, teoria e pratica in laboratorio, test ogni sei mesi e se non passi ripeti l'anno come al liceo. I professori sono eccellenti, abbiamo strumenti e tecnologie per laboratorio e ricerca e il mestiere lo impari davvero: al quarto anno ho iniziato a fare devitalizzazioni, una pratica difficile perché tocchi il nervo. Abbiamo tre studi a Reggio, ma se avessi studiato in Italia sarei arrivato da mio padre come gli altri, senza saper fare nulla». Antonino parla il romeno meglio dei romeni. Lo conoscono tutti: «Se ti si rompe un tubo in casa, se cerchi un avvocato o un marito basta chiamare lui... Antonin0000», scherza Anamaria Nyeki al compleanno di Sebastian Popescu, un amico comune. Gli hanno già offerto, dice, di restare come assistente, a fine corso. «Mi sento a casa, ma lo stipendio è bassissimo. Vedremo». Ad Arad — 180mila abitanti e un'architettura asburgica deliziosa, ma diroccata —le famiglie appena arrivate dall'Italia le incontri a colazione nella hall del migliore albergo. Quasi sempre almeno uno dei genitori è medico, a volte primario: «Insegno radiologia alla Sapienza — dice Francesco Briganti— e sono qui per mia figlia. La mia presenza dimostra che il test è una cosa seria, e che in Italia molte cose non funzionano». Da qualche anno, in Romania le lauree false sono nel mirino. Alla Grigore T. Popa di lasi hanno stracciato 62 titoli conquistati da italiani senza imparare una parola di romeno. E nel 201011 rettore della Spiru Haret di Bucarest è stato sospeso: «Nel 2009 avevano rilasciato 50miladiplomiha raccontato in tv l'ex ministro dell'Istruzione E caterina Andronescu— e lo stesso l'anno precedente». Lauree facili, facilissime. Per discernere il loglio dal grano, Andronescu ha proposto di far ripetere gli esami in università irreprensibili, «pubbliche o private». E tra queste «la Vasile Goldis di Arad», la più amata dai ragazzi italiani. Il guaio è il riconoscimento incerto della laurea. Nella Ue sarebbe automatico, ma gli scandali inducono prudenza. «Monitoriamo da tempo — spiega il ministero della Salute italiano — un preoccupante fenomeno di titoli rilasciati a seguito di corsi ad hoc, formalmente validi ma nella sostanza privi di valore. Le richieste di riconoscimento sono in netta espansione. In Romania, solo in una decina di casi è stata accertata la regolarità del corso». Loro, gli studenti, sono disposti a scommetterci sei anni di vita. Affittano camera a 200 euro, montano Sky in italiano «anche se non si potrebbe» e vivono il loro sogno tra caffe "ristretto" e coerigi caldi, le cialde ammazza-fame. Vita universitaria, amori e amicizie senza frontiere. Se metti piede fuori dalla cittadella, ad Arad, sprofondi nella povertà e nel latifondo. Ma il centro è dei grandi edifici pubblici e del teatro austro-ungarico, con bar e ristoranti affollati da ragazzi romeni e italiani, da studenti israeliani e tunisini. «Mai una violenza, un furto o un'aggressione», assicura Antonino al ristorante. Un gigante romeno si avvicina per salutarlo. È il capo della polizia anticrimine. «Chiede di spiegare ai nuovi arrivati di non fare sciocchezze: non è come in Italia, un solo spinello e ti arrestano per spaccio internazionale. Lo stesso per l'alcol: se guidi, tolleranza zero». _______________________________________________________________ Repubblica 06 nov. ’12 DEFERRARI: LA SELEZIONE È GIUSTA MA VA ANCORA MIGLIORATA ELENA DUSI No. Anche se mio figlio fosse bocciato tre volte ai test, non gli con' sceglierei di iscriversi lì » dice convinto Giacomo Deferrari, ex preside di Medicina e oggi rettore all'Università di Genova. Il numero chiuso sta fallendo? «Non scherziamo. Non ci si iscrive a Medicina o ad altri corsi di studio a numero chiuso solo per interesse culturale, ma per svolgere una professione. E la facoltà deve essere in grado dí preparare un professionista. Se avessimo mille iscritti e aule affollate all'inverosimile, insegnare il mestiere sarebbe impossibile. Il numero chiuso resta necessario». Ma iscrivendosi all'estero viene di fatto bypassato. «Non possiamo impedire ai ragazzi di iscriversi all'estero. Però possiamo contrastare il fenomeno migliorando le condizioni in Italia». In che modo? «Allargando un po' le maglie del numero chiuso. Oggi la sproporzione fra chi partecipa ai test di accesso a Medicina e chi li supera è enorme: ogni anno gli iscritti sono il triplo o il quadruplo dei posti disponibili. Questo non dipende tanto dalla scarsità del lavoro, perché il numero di medici nel nostro Paese è in calo e aumentare i laureati non creerebbe grandi scompensi. Il problema è che gli studenti vanno seguiti, soprattutto nel momento in cui entrano in reparto e imparano l'aspetto pratico di un mestiere. Ed è qui che il sistema italiano mostrale sue carenze. Finché non verrà risolto questo imbuto sarà impossibile frenare il fenomeno dei ragazzi che si iscrivono in Romania Albania». Ci sono soluzioni? «Certo, e a costo zero. Creando delle strutture che io chiamo "ospedali per l'insegnamento e la ricerca" permetteremmo agli studenti di essere coinvolti nell'attività di tutti i reparti». Perché oggi cosa avviene? «A Genova, per esempio, abbiamo l'Istituto San Martino che è composto per metà da reparti universitari e per metà da reparti ospedalieri. Il raccordo fra i due mondi purtroppo non è sempre ottimale. Negli ospedali per l'insegnamento e la ricerca, al contrario, tutti i reparti sarebbero aperti agli studenti. Questo sistema non comporterebbe aggravi per nessuno e farebbe aumentare le possibilità di seguire i ragazzi nel loro lavoro pratico. Strutture simili rappresentano la norma negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni in genere. Sono nate circa un secolo fa e da lì si sono diffuse anche in Francia». Da noi invece? «Se ne parla. Molti ministri si sono detti interessati. È stata anche istituita una commissione per studiarne la fattibilità. Si è riunita una sola volta. Non mi chieda il perché. Non lo so». Gli ospedali per l'insegnamento e la ricerca permetterebbero di abolire il numero chiuso? «Sarebbe auspicabile allargare le maglie del numero chiuso. Ma non ritengo assolutamente che sia il caso di abolirlo. I risultati di alcuni test di ammissione sono inguardabili e il numero di studenti deve essere commisurato alle possibilità di insegnamento di una facoltà. Chi si farebbe visitare da un medico che non ha mai visto un malato durante tutto il suo corso di studi? Il numero chiuso è una garanzia per tutti noi che prima o poi avremo bisogno di un professionista». ___________________________________________________________ Il Manifesto 11 nov. ’12 LAUREATI AL CAPOLINEA Alessandro Robecchi La pergamena costa troppo, ragazzi. D'ora in poi le vostre lauree, specie quelle in materie umanistiche, verranno rilasciate su speciali rotoli di carta morbida che già dalla formavi suggeriranno l'uso che potete fame. La corsa finisce qui. Capolinea. Prima serviva la laurea, senza laurea non sei nessuno e non vai da nessuna parte. Poi contrordine: ci vuole il master. Anzi, possibilmente il master all'estero. E il dottorato? Dove lo mettiamo il dottorato, eh? E un po' di ricerca sotto- pagata non la vogliamo fare? E su, coraggio! Poi, dopo i trentacinque anni, eccoti pronto per il posto di lavoro, che ovviamente non può prescindere da qualche capacità manuale. Come per esempio cancellare dal curriculum la laurea, il master e il dottorato, altrimenti al callcenter temono di assumere un pericoloso intellettuale. Alcune centinaia di migliaia di dottori italiani, appena appesa la loro laurea in salotto, si sentono dire che servirebbe di più un diploma tecnico, anzi, non esageriamo, qualche anno come garzone di elettricista soddisfarebbe meglio l'esigenza di professionalità attualmente richiesta nel paese. Dopo aver passato la prima metà della vita a sentirsi dire che bisogna studiare di più, eccoci passare la seconda metà della vita a sentirsi. dire che era meglio studiare di meno. Tranquilli, vi aiuteranno, per esempio con l'aumento delle rette universitarie (quest'anno in media più sette per cento). Non ce l'hanno con voi, amici. Niente di personale. È semplicemente la famosa manina del mercato: c'è una sovrapproduzione di ceto medio, con curriculum da ceto medio e aspettative da ceto medio. Ifigli del ceto medio giacciono invenduti nei magazzini. Capite anche voi che non è possibile, e che questo rischia di mettere in crisi il mercato delle classi sociali: troppa offerta di classi medie e molta domanda di sano proletariato. Dai, siete laureati, no? Come possono sfuggirvi queste elementari dinamiche sociali? Su, da bravi, caricate sul camion questa cassetta di cipolle e non fate polemiche. Anzi, state proprio zitti, muti. Se no il caporale si accorge che avete studiato. __________________________________________________________________ Italia Oggi 06 nov. ’12 RIFORMA DEI CONCORSI, SARÀ MINI Un decreto per nuova gara a giugno. Ma il ministro ha tempi stretti per mantenere la promessa Profumo intanto deve difendersi dai ricorsi per illegittimità DI ALESSANDRA RICCIARDI Una promessa da mantenere. Un nuovo concorso a giugno. Anche se neppure questo sarà come lo avrebbe voluto e come aveva annunciato, ovvero aperto solo ai giovani e con una quota di assunzioni preponderante rispetto a quelle fatte con le graduatorie a esaurimento. Non una riforma a 360 gradi dunque, per la quale servirebbe una legge, ma una miniriforma. A giorni, secondo quanto trapela da viale Trastevere, il ministro dell'istruzione, Francesco Profumo, dovrebbe firmare il regolamento che ridefinisce, grazie a una delega aperta dall'ex ministro Beppe Fioroni (legge 244 del 2007), i criteri di accesso a un nuova selezione per insegnanti. Intanto però il ministero deve difendere con le unghie e con i denti l'attuale gara dai ricorsi di illegittimità avanzati da chi è stato escluso. Il regolamento fissa la durata biennale delle graduatorie del concorso. Chi non riesce nei due anni ad avere il contratto di assunzione a tempo indeterminato non avrà nessuna speranza di confluire nella lista ad esaurimento, che resta chiusa e che assorbirà il 50% delle assunzioni annualmente disponibili, ma, analogamente a quanto avviene in altre amministrazioni, dovrà provare a rifare il concorso successivo. Che ci sarà appunto dopo due anni La cadenza biennale è una delle novità più importanti del nuovo assetto, che dovrebbe garantire la periodicità dell'accesso ai ruoli dei docenti e così scardinare il sistema del precariato. Sistema di stop and go, di supplenze in giro per le città e per le scuole, incarichi a volte rinnovati, altre no, come è successo a Carmine Cerbera, il docente precario di storia dell'arte che si è ucciso perché rimasto senza lavoro. Alle selezioni potranno partecipare i docenti abilitati: i precari iscritti nelle graduatorie a esaurimento, i laureati di scienze della formazione primaria, quelli che usciranno dai Tfa in corso di svolgimento e probabilmente gli abilitanti dei Tfa speciali, ossia i corsi di formazione iniziale riservati ai docenti che potranno vantare requisiti di servizio tra l'anno scolastico 1999/2000 e il 2011/12, dati per imminenti a giugno da Profumo e non ancora autorizzati. Il provvedimento di riforma è un decreto ministeriale, e questo rappresenta già un passo in avanti, visto che non dovrà superare il vaglio del consiglio dei ministri Ma è prevista una procedura rafforzata, e dunque , prima della firma definitiva, è necessario acquisire i pareri delle commissioni competenti di camera e senato, il via libera del Cnpi, la registrazione del Consiglio di stato. Nella migliore delle ipotesi, se l'iter dovesse essere avviato entro metà novembre, si chiuderebbe a fine gennaio A ridosso dello scioglimento delle camere. Quello che pare certo è che comunque sarà il successivo ministro a bandire il nuovo concorso, con tutto il carico di polemiche che inevitabilmente accompagnerà la vicenda. Come già avvenuto con la gara in corso, molti precari abilitati lamenteranno di dover fare una nuova selezione quando sono già iscritti nella graduatoria ad esaurimento. Ma anche che in questo modo si rubano posti allo scorrimento delle stesse liste alle quali va il 100% dei posti autorizzati se non c'è concorso. Critica quest'ultima che prenderà ancora più piede nel prossimo futuro, giacché i posti che si libereranno con i pensionamenti, dopo la riforma Fornero, saranno ridotti al lumicino. Salvo un piano straordinario di immissioni in ruolo. Intanto al ministero stanno sulle barricate per difendere il concorso già autorizzato e in corso di svolgimento. Ricorsi sono stati annunciati dall'associazione dei consumatori Codancos così come dall'Anief. Nel mirino l'esclusione dei semplici laureati non abilitati e il divieto di partecipare imposto ai docenti già di ruolo. Divieto ritenuto illegittimo, visto che l'esclusione configurerebbe una violazione del principio di eguaglianza nell'accesso al pubblico impiego. Del resto, il divieto non riguarda i dipendenti di altre amministrazione che possono tranquillamente fare domanda. __________________________________________________________________ L’Unità 05 nov. ’12 UNIVERSITÀ, PERCORSO PIENO DI OSTACOLI PER I NUOVI TIROCINI Stallo degli accordi tra facoltà e alcuni ministeri Protesta degli studenti: «Deve intervenire il governo» MARIO CASTAGNA ROMA Era il 25 gennaio e il decreto «Cresci Italia» prometteva importanti novità per i giovani professionisti. All'insegna della liberalizzazione si permetteva ai giovani che avessero voluto intraprendere la carriera all'interno di uno degli ordini regolamentati (avvocati in primis), di iniziare il tirocinio obbligatorio (per 6 mesi sui 18 complessivi) durante l'ultimo anno del percorso di studi, promettendo quindi una decisa accelerazione nel percorso a ostacoli verso la libera professione. Sino a quel momento i mesi di praticantato obbligatorio erano 24 e per due anni gli studi di avvocati avevano a disposizione manodopera qualificata disponibile a lavorare anche gratuitamente in cambio dell'agognato certificato di avvenuto praticantato. Le nuove norme prevedevano quindi una riduzione della durata del tirocinio ma soprat tutto che i primi sei mesi potessero essere svolti, in presenza di apposita convenzione quadro tra il Consiglio Nazionale Forense e il MIUR durante gli anni di studio universitari. La norma non è mai stata chiara. Dapprima sembrava che tutti i praticanti fossero coinvolti nella riduzione della pratica forense. Dopo qualche mese il ministero della Giustizia diceva invece che la norma aveva effetto solo per l'avvenire. Dopo proteste e mobilitazioni a dirimere definitivamente la questione fu il ministero dell'Università con una circolare che precisava come la norma fosse immediatamente applicabile, sottolineando che la volontà del legislatore era facilitare l'accesso dei giovani al mondo del lavoro. Risolto il problema del «quando» rimane però il problema del «come». Infatti, come recitava la circolare ministeriale, «per i primi sei mesi, il tirocinio può essere svolto in concomitanza con gli studi, in presenza di un'apposita convenzione quadro stipulata tra i consigli nazionali degli ordini e il ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca». Ma se oggi si apre uno qualsiasi dei siti delle facoltà di Giurisprudenza delle università italiane, alla voce tirocinio e praticantato, si aprirà un laconico avviso che annuncia che i tirocini universitari non possono essere attivati, in attesa della famosa convenzione Una beffa per i tanti ragazzi che, alle soglie della laurea, si vedono sbarrare una strada facilitata e sono costretti ad intraprendere il tradizionale calvario di praticantato lungo e malpagato. Gaetano Caravella, dell'esecutivo nazionale della Rete Universitaria Nazionale, sta promuovendo in questi giorni una campagna per costringere governo e ordine degli avvocati a firmare la convenzione: «Quello che chiediamo è che il governo intervenga, superando le resistenze degli ordini professionali e promuovendo la stipulazione della convenzione prevista dalla normativa che consentirebbe un più veloce ingresso dei laureati nel mercato del lavoro». Sul banco degli imputati chiaramente ci sono gli ordini professionali: «Le resistenze degli ordini professionali sono fortissime e difficilmente superabili». Una situazione di stallo che riguarda anche un'altra situazione simile. Dopo che la legge 92/2012 ha introdotto l'obbligo di rimborso spese per gli stagisti sono saltati tutti i bandi di stage che la fondazione Crui organizzava all'interno della pubblica amministrazione (molto richiesti erano quelli organizzati nelle ambasciate italiane all'estero in collaborazione con la Farnesina). Le procedure di presentazione delle domande presso le università sono bloccate da mesi «in attesa di un accordo in conferenza Stato-Regioni che definisca le linee guida sui tirocini». __________________________________________________________________ Liberal 10 nov. ’12 GLI ATENEI NON POSSONO MORIRE PER AUSTERITY: TUTELIAMO IL DIRITTO ALLO STUDIO L'aumento senza precedenti della "tassa per il diritto allo studio" umilia gli universitari sardi. La Regione Sardegna conferma di non essere interessata alla formazione dei giovani. A Sassari l'importo dovuto passa da 62 a 140 euro, un rialzo che, con tutta probabilità, dovranno subire anche gli iscritti dell'Ateneo cagliaritano. Il tutto a fronte di un calo verticale nella qualità dei servizi erogati dall'Ersu. Il numero di borse di studio è calato pericolosamente e la chiusura di alcune Case dello studente di Cagliari ha assunto connotati grotteschi. L'aumento della tassa sarebbe dovuto alla "spending review" votata dai partiti della maggioranza di Governo; testo che impone per tutte le Università italiane un balzello di 120 euro per ogni iscritto. Come mai l'Assessorato regionale alla Pubblica istruzione non è intervenuto con dei provvedimenti correttivi? Chiediamo che la prossima Finanziaria regionale stanzi risorse adeguate. La tutela del diritto allo studio deve essere effettiva e non virtuale. Gli investimenti in formazione e cultura sono fondamentali in un periodo di recessione economica come quello attuale. Gli Atenei non possono morire per troppa austerity. Un gruppo di universitari sardi __________________________________________________________________ Il Secolo XIX 10 nov. ’12 LA RICERCA: UNIVERSITÀ, DONNE E UOMINI SEGNATI AGLI STEREOTIPI MASCHI, femmine e scelte scolastiche. Ancora oggi la parità non esiste. Lo dice a chiare lettere la ricerca presentata dalla consigliera di parità della Regione Liguria, Valeria Maione, insieme al vicepresidente della Regione Liguria, Nicolò Scialfa e ad Alda Scopesi, prorettore, a cura della commissione orientamento dell'Università di Genova. La ricerca mette in luce la presenza di stereotipi di genere nell'orientamento alla scelta universitaria. In pratica in Liguria uomini e donne sarebbero condizionati nelle loro scelte formative dall'essere maschi o femmine. Un fatto che può diventare un boomerang se le scelte effettuate dalle ragazze non tengono conto della spendibilità del percorso formativo sul mercato del lavoro, ma solo di una generica affinità alla materia in grado di farle sentire più libere e soddisfatte. Dall'indagine che ha effettuato uno studio sulla transizione d studentesse e degli studenti dalla scuola superiore all'Università per realizzare azioni di orientamento mirate emerge che studenti e studentesse si suddividono nelle facoltà in funzione del genere. Ad esempio a Ingegneria e Economia, facoltà che l'immaginario collettivo considera maschili, prevalgono in effetti gli uomini. Mentre le studentesse sono di più in facoltà come Scienze della formazione, Lingue e letterature straniere, Lettere o farmacia. Per la precisione a Lingue le donne ammontano all'81,7%, al 67,5% ad Architettura, a 67,1% a Farmacia, al 65,7% a Lettere. Scendono al 64% a Giurisprudenza al 62,4% a Scienze politiche e al 56,8% a Medicina. Per essere poi superate in numero dagli uomini a Scienze Naturali dove ammontano al 49,6%, a Economia dove sono il 47% e a Ingegneria dove sono il 28,5%. Un quadro che conferma il più classico degli stereotipi di genere: corsi più adatti alle femmine versus corsi più adatti ai maschi. Diverso invece è il discorso sul rendimento: l'indagine campionaria compiuta da Iris, indicatore di rendimento interfacoltà studenti, evidenzia il maggiore rendimento delle studentesse, rispetto ai colleghi maschi, quasi in tutte le facoltà, smentendo così lo stereotipo secondo il quale le ragazze otterrebbero i migliori risultati prevalentemente nell'area umanistica e faticherebbero nei percorsi tecnico-scientifici. «L'indagine mette in evidenza - spiega Maione - che nonostante i numerosi attori coinvolti nella lotta contro i pregiudizi (scuola, Università, enti territoriali, famiglie), i luoghi comuni influenzano ancora le scelte educative e provocano nel mercato del lavoro un'auto-segregazione di genere da cui ne deriva una sotto rappresentazione delle donne in settori professionali dove potrebbero portare il loro prezioso contributo». «Di fatto - continua la consigliera di parità Maione – assistiamo ad uno spreco di risorse che non ci possiamo più permettere __________________________________________________________________ Il Mondo 16 nov. ’12 RETTORI IN PROROGA, MA SENZA LOGICA Finisce tutto in Tribunale o nelle Procure. Com'era facile immaginare, la storia dei geronto-rettori che in decine di università rimangono al potere di proroga in proroga, adesso ha preso una deriva giudiziaria. Con qualche non-senso logico. A Messina i magistrati hanno aperto un'inchiesta per abuso d'ufficio (contro ignoti): il magnifico Francesco Tomasello nel 2010 si era autoprorogato il mandato insieme con quello degli organismi elettivi. A quel tempo, il suo obiettivo era farsi trovare ancora al comando nel novembre 2011 e godere, con la legge Gelmini, di un allungamento fino al 2012. Nel frattempo le cose sono cambiate, a vantaggio di tutti i magnifici al vertice da Parma all'Aquila, da Perugia a Milano Bicocca. E questo grazie al polverone che si è sollevato attorno al significato di «adozione» degli statuti. La legge prevede, dal giorno successivo, poltrona gratis per un anno. Qui arriva il paradosso. Di più, la situazione illogica in cui ci si trova attualmente. Per capirlo, basta guardare quanto è accaduto a Parma, Il 23 ottobre il Tar dell'Emilia Romagna ha negato le elezioni indette dal decano. La sentenza lascia ancora al vertice Gino Ferretti, magnifico dal 2000. Quali sono le motivazioni? Il Tribunale ha applicato quanto è scritto, per mano del governo, in un comma della spending review allo scopo di «garantire una corretta transizione al nuovo ordinamento». E cioè: «l'adozione deve considerarsi completata con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale". Che a Parma è avvenuta il 3 febbraio di quest'anno. Seguendo la logica, la proroga doveva quindi partire dal giorno 4, non prima. Peccato però che a quella data Ferretti, e come lui gli altri capi di ateneo, godeva già (da novembre 2011) del prolungamento voluto da Gelmini. L'unico, accettato da tutti. Ma che oggi, alla luce di quanto precisato dal governo, appare privo di senso: quei rettori infatti non dovevano già più essere in carica. ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 10 nov. ’12 UNISS: AL 4° POSTO IN ITALIA, LE FACOLTÀ MIGLIORANO ANCORA SASSARI Febbre, sudore, epidemia artistica: un morbo che si traduce in un’improvvisa passione ed entusiasmo che ha travolto i professori universitari, i docenti, gli studenti. Tutti sono impegnati a lavorare per dare gambe alla grande riforma che cambia l’università italiana, tenendo fede al nuovo statuto di cui l’ateneo di Sassari si è dotato. Il rettore Attilio Mastino cita Luciano di Samosata per parlare di quel vento che spira sull’ateneo turritano che cresce e affronta i cambiamenti. Ieri si è chiuso il 450° anno accademico, celebrato nell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia, con la visita a Sassari del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e con la consegna del candeliere d’oro speciale «che ha sottolineato le radici, il rapporto forte, intenso, identitario - ha detto Mastino -, che lega l’Università alla città di Sassari e al territorio». Ieri sera, nell’aula magna dell’ateneo turritano, di fronte a una platea di docenti, autorità e studenti, il rettore Attilio Mastino - con il prorettore Laura Manca e il senato accademico -, ha inaugurato il 451° anno accademico. Ed è stata l’occasione per stilare un bilancio del suo terzo anno di mandato e valutare le prospettive per i prossimi due, dopo la proroga prevista dalla riforma Gelmini. «Non ci rassegniamo ad essere un’università di seconda scelta, non mitizziamo classifiche e graduatorie che pure ci vedono ai primi posti in Italia, ma siamo decisi a migliorare le nostre perfomance»: tra i 17 medi atenei delle classifiche Censis 2012, Sassari occupa il quarto posto dopo Siena, Trento e Trieste. Ha perso una posizione rispetto all’anno scorso, seppure ogni singola facoltà abbia migliorato notevolmente la propria posizione, guadagnando posizioni di tutto rispetto: Agraria passa dall’8° al sesto posto, Architettura resta stabile al secondo posto (era al primo due anni fa), Economia dal 27 passa al 24 (su 48 facoltà), Farmacia dal 14 al settimo posto, Giurisprudenza sale dal 24 al 14° posto (su 45 facoltà), Lettere e Filosofia dal 33° al 29° (su 40 facoltà italiane), Lingue dal 15° al 13° su 18 facoltà, Medicina guadagna un punto e passa al 25° posto su 37 facoltà. Scienze è stabile al 7° posto; performance migliore per Scienze politiche che guadagna sette punti e si assesta all’undicesimo posto nel confronto con le altre 29 facoltà italiane. E ci sono le premesse per migliorare anche la sostenibilità di bilancio, pur considerando i tagli intorno al 15% da parte dello Stato, che hanno ridotto il bilancio da 82 a poco più di 70. Per questo sarà necessario chiedere alla Regione di trasferire i 50 milioni che la giunta regionale ha previsto. Mastino ha anche parlato delle opere incompiute che sarà possibile realizzare con i Fondi Fas, come l’Orto botanico, il dipartimento di Economia, la ristrutturazione dell’ex istituto dei ciechi acquistato dal Comune, e il palazzo del vetraio. Intanto, in via Rockefeller, ieri è stato inaugurato il nuovo Ced (centro elaborazione dati, nella foto), che è però ancora inutilizzabile perché alimentato da luce di cantiere: da un anno è atteso l’allaccio dell’Enel. (v.m.) ___________________________________________________________ Corriere della Sera 10 nov. ’12 TROPPI AVVOCATI, SCARSA SELEZIONE Va riorganizzato il Corso di studi Troppi rispetto agli altri Paesi Ue e alle effettive esigenze difensive, a volte impreparati e demotivati, ritenuti responsabili della proliferazione delle cause e della loro eccessiva durata, gli avvocati italiani (233mila) fungono da capro espiatorio del malfunzionamento della giustizia. In realtà all'origine delle inadeguatezze di molti dei nuovi avvocati sono le incongruenze della riforma universitaria (3+2) varata nella XIII legislatura che ha disarticolato cicli di studio e soppresso percorsi formativi affinati nel tempo. Così l'abolizione della laurea quadriennale in Giurisprudenza e delle 21 scuole di specializzazione, sostituite da 2 lauree triennali, poste in sequenza con una laurea specialistica biennale, e da un'unica scuola per le professioni legali, ha gravemente depauperato la formazione scientifica, professionale e culturale dei giuristi. Riduzione dei canali di studio, frantumazioni disciplinari e menomazioni nei programmi di insegnamento hanno provocato disorientamento negli studenti con il progressivo calo dei laureati e della loro preparazione. Dal picco dei 25.204 laureati quadriennali nel 2004 si è scesi nel 2011 a 3.130 laureati specialistici e ad appena 11.793 con la laurea quinquennale in Giurisprudenza varata nel 2005. Rigidità e squilibri nell'ordinamento didattico di questa nuova laurea hanno dilatato le carenze formative dei giuristi: molti posti di uditore giudiziario restano scoperti nonostante la numerosità dei candidati che poi ripiegano verso la sempre più «abbordabile» avvocatura. Per arginare questa deriva dequalificante il ministro della Giustizia pensa al numero chiuso. Occorre, invece, tornare alla tradizionale laurea quadriennale ma a frequenza obbligatoria e potenziata da insegnamenti innovativi (analisi economica del diritto, economia della giustizia) e riaprire tutte le scuole di specializzazione. ___________________________________________________________ Corriere della Sera 10 nov. ’12 I NUOVI PROFESSORI HANNO GIÀ 38 ANNI «Vecchi». «no, Esperti» L'Italia e l'età degli iscritti al concorsodi PAOLO DI STEFANO L'esercito dei 321 mila candidati si avvia a marciare verso il concorso per ottenere un posto di insegnante tra gli 11.542 messi a bando dal ministero. «Marciare per non marcire» era il motto, diventato un detto di tristissima memoria fascista e coniato da Marinetti all'alba della Grande guerra. Qui si tratta di non marcire di precariato e disoccupazione, dunque tanto vale marciare. Chiuse il 7 novembre le iscrizioni, sono stati diffusi i numeri: otto su dieci sono donne, la metà degli iscritti proviene dal Sud, il 29 per cento dal Nord, il 20 dal Centro. Ma quel che colpisce è l'età anagrafica. Uno su due è tra il 36 e i 45 anni, per una media di 38,4 anni; oltre 45 mila sono quelli tra i 46 e i 55 e quasi 3 mila superano i 55 anni. Con questi numeri si può immaginare il ricambio in una scuola già vecchia? Massimo Raffaeli insegna da un trentennio. Oltre a essere un critico letterario noto, tra i migliori in Italia, è docente di materie letterarie all'Ipsia Bettino Padovano di Senigallia (Ancona): «Sono entrato quando avevo 25 anni: esattamente ogni mattina faccio quel che facevo nell'82 e mi costa un'enorme fatica rapportarmi con i nuovi linguaggi, le modalità e le culture dei miei allievi. Io a volte mi sento un giurassico. Ora, saltata la generazione dei padri, entrerà nella scuola un esercito di professori nonni. La media dei concorrenti, invece, dovrebbe essere di dieci anni meno, ma il nostro è un sistema patologico». Quel che resta da capire è che cosa hanno fatto, i candidati cinquantenni, nei decenni precedenti: precariato delle supplenze, altri mestieri saltuari, disoccupazione? «Probabilmente — dice Raffaeli — hanno passato il loro tempo a cercare di sfangarla: sarà pure stata un'esperienza umana straordinaria, ma ne viene fuori giustamente gente indurita, fiaccata, incavolata. Per appassionarsi a questo lavoro ci vuole la tranquillità e l'entusiasmo che gli aspiranti professori hanno perso per strada, costretti come sono alla transumanza perpetua e l'un contro l'altro armati. È indecente che il nostro Paese non sia riuscito a garantire la continuità e la trasmissione tra le generazioni». I colleghi più giovani? «Splendidamente motivati, disponibili, preparati, spesso migliori di noi, ma tutti precari». La competenza e la passione. C'è chi parla di vocazione per l'insegnamento. Chi di missione. Pochi parlano semplicemente di professione. Mariapia Veladiano è oggi preside dell'Istituto Comprensivo di Rovereto, elementari e medie, dopo 27 anni di insegnamento. Scrive romanzi bellissimi: il secondo, Il tempo è un Dio breve, è appena uscito per Einaudi. «Non si fanno concorsi da dodici anni e adesso immettiamo in ruolo persone che dovrebbero essere a due terzi della carriera». Gente già delusa, forse esaurita da mille vicissitudini. Due sono le parole chiave di Veladiano: competenza e passione. E se è così, non è detto che i giovani insegnanti siano migliori. «Certo, sarebbe bene che le età dei docenti fossero mescolate, in modo da favorire lo scambio di esperienze e di strumenti, ma io non ho il mito della gioventù: quel che conta davvero è la capacità di tener vivo il desiderio di far bene un lavoro bellissimo. Gli allievi apprezzano non l'età ma la passione e la bravura del professore. Un giovane insegnante poco motivato dura ben poco: e sarebbe giusto che la scuola allontanasse chi non lavora bene, indipendentemente dall'età». È pur vero che la stanchezza può subentrare anche a forza di tagli e riforme sbagliate, di diffidenze e di parole d'ordine abusate: gli insegnanti fannulloni, sfigati... «In Italia non esiste immaginario positivo o narrazione costruttiva sulla scuola. Romanzi, cinema, fiction non fanno altro che dipingere l'insegnante non come un professionista soddisfatto del proprio lavoro, ma come un poveretto che per essere felice deve fare altro: l'investigatore, il giornalista... Servirebbe una nuova etica della scuola che spazzi via i cliché tristissimi o le affermazioni generiche a cui siamo abituati». «È inutile concentrarci sui grandi temi se ci manca l'essenziale e dobbiamo battagliare con la mancanza di banchi e di sedie», dice Giancarlo Visitilli, autore di un libro, recente, E la felicità, Prof? (Einaudi), in cui racconta un serrato confronto, per un anno, con gli adolescenti di una classe di maturità alla ricerca di un equilibrio e di un'identità. Visitilli insegna Lettere in un liceo scientifico di Bari e rivendica l'attualità della lezione di don Milani. «L'età dei concorrenti aumenterà la distanza, già abissale, tra insegnanti e allievi». Ricorda che c'è gente che rinuncia al concorso perché ha trovato un posto da vigile urbano, pur avendo magari più lauree. «Diciamo la verità, alcuni cinquantenni che concorrono oggi non hanno trovato un'occupazione e ripiegano nella scuola». Figurarsi con che entusiasmo: «Il risultato è che affossiamo sempre di più la scuola pubblica, perché è vero che spesso quando si entra di ruolo ci si siede». Per lo meno i giovani insegnanti avranno il vantaggio di uno slancio maggiore e una mente più fresca. O no? «Macché, i sessantenni sono più vivaci, disposti ad aggiornarsi, e sentono come un dovere l'andare al cinema, a teatro, in libreria. I più giovani, che magari stanno mettendo su famiglia, parlano solo di mobili, divani, sedie. Può darsi che siano più preparati didatticamente, ma non hanno interessi culturali: e durante l'anno di prova non fanno che stare davanti al computer a fare taglia e incolla per superare l'esame». ___________________________________________________________ Corriere della Sera 10 nov. ’12 I DUBBI DEGLI EDITORI SUI TESTI SCOLASTICI DIGITALI ROMA — Il futuro è ineluttabile e quindi in discussione non c'è il passaggio al digitale, peraltro ricco di nuove opportunità. Semmai è il come che va analizzato a fondo, studiando i tempi e i modi dell'operazione, per evitare che la migrazione verso la scuola 2.0 crei problemi agli studenti e alle famiglie. Non solo economici, ma anche di contenuti. Per questo l'Aie, l'Associazione italiana editori, chiede di modificare alcuni punti del decreto Crescita approvato dal consiglio dei ministri e adesso in Parlamento per la conversione in legge. Un testo che prevede, dal prossimo anno scolastico, l'adozione obbligatoria del libro digitale o almeno misto, cartaceo più digitale, nelle scuole superiori, mentre per elementari e medie si partirà un anno dopo. Quali sono le richieste degli editori? Prima di tutto il rinvio di un anno della scadenza fissata per le superiori: libri digitali obbligatori dal 2014-2015, come già previsto per elementari e medie. La solita richiesta di rinvio ogni volta che c'è un cambiamento? Una lettura troppo semplice. La pianificazione didattica, cioè l'intero processo necessario per confezionare un volume scolastico di buona qualità, richiede secondo gli editori dai 18 ai 24 mesi. E invece il decreto interviene in corso d'opera, quando all'avvio del nuovo anno scolastico mancano ormai dieci mesi. Da chiarire, poi, cosa voglia dire che libri cartacei e libri digitali debbano essere «accessibili o acquistabili in rete anche in modo disgiunto». Due editori diversi per il formato tradizionale e quello in formato software, d'accordo. Ma il testo digitale rientra tra quelli consigliabili, e quindi facoltativi, oppure tra quelli di testo e dunque obbligatori? Sembra una questione puramente tecnica, ma non lo è. Come tutte le rivoluzioni tecnologiche pure il passaggio al libro digitale può avere dei costi iniziali che, anche se ammortizzabili nel tempo, rischiano di bloccare l'intero processo. E in questo il decreto approvato dal governo è un po' ambiguo. Dà per scontato che ci sarà una «riduzione dei costi» perché con il digitale verrà diminuita la cosiddetta dotazione libraria, cioè il numero totale di pagine di tutti i libri di testo. Ma stampare meno pagine non vuol dire per forza avere meno costi, specie nell'immediato quando la transizione potrà avere bisogno di investimenti non trascurabili. Non solo. Il decreto dice che questo risparmio deve essere sfruttato per far entrare anche i tablet e i programmi digitali nel tetto oggi previsto per l'acquisto di tutti i libri, variabile a seconda dell'anno di corso. Un'operazione scivolosa secondo gli editori perché, almeno nell'immediato, quel risparmio è tutto da dimostrare. Anzi. L'Iva del 4% sui prodotti cartacei è applicabile ai prodotti digitali solo se questi sono collegati ai libri. Altrimenti si applica direttamente l'aliquota più alta, il 21%. L'acquisto disgiunto e l'inserimento nel tetto di software e tablet, quindi, potrebbe dirottare una parte delle risorse dai prodotti didattici alle tasse, portando di fatto a nuovi tagli all'istruzione. E non è facile trovare una soluzione perché Paesi che hanno tentato di cambiare le regole per conto loro, come la Francia che applica l'Iva del 4% anche ai prodotti digitali puri, sono stati messi sotto osservazione dall'Unione europea visto che quella sul valore aggiunto è una tassa armonizzata in tutto il territorio comunitario. Senza contare poi l'acquisto del tablet in quanto tale, che tra progresso tecnologico e mode potrebbe di fatto «mangiarsi» tutto il tetto. «Lo sviluppo indicato dal ministero — dice Giorgio Riva, direttore generale di Rcs education — va nella direzione giusta. È necessario però che i principi delineati vengano declinati operativamente, valutando fattibilità e coerenza, e tenendo imprescindibilmente conto della qualità del processo formativo, basato in particolare su insegnanti e contenuti didattici». Non un no secco, ma un invito a collaborare: «Gli editori e l'Aie che li rappresenta — dice ancora Riva — possono essere un partner fondamentale per il ministero in questo processo di cambiamento». Lorenzo Salvia lsalvia@corriere.it ___________________________________________________________ Corriere della Sera 11 nov. ’12 FILOSOFI E SPORTIVI INSIEME PER DIFENDERE L'ERASMUS Oltre cento personalità dell'Unione Europea scendono in campo a difendere Erasmus, il programma universitario per gli scambi fra studenti di diversi Paesi che rischia un drastico ridimensionamento. Si tratta di nomi illustri del mondo dell'istruzione, dell'arte, della letteratura, dell'economia, della filosofia, dello sport, che hanno sottoscritto una lettera aperta ai capi di Stato e di governo dell'Ue. Fra i firmatari, che provengono da tutti gli Stati membri, il regista spagnolo Pedro Almodóvar, il presidente del Barcellona calcio Sandro Rosell, il premio Nobel Christopher Pissarides, il filosofo e scrittore Fernando Savater, l'ex calciatore della repubblica Ceca Pavel Nedved e, per l'Italia, l'astrofisica Margherita Hack, il conduttore televisivo Federico Taddia, la schermitrice Elisa Di Francisca, medaglia d'oro ai Giochi olimpici del 2012, e lo scrittore e giornalista del Corriere della Sera Beppe Severgnini. Insieme hanno inteso in questo modo rispondere alle preoccupazioni legate ai posti e alle borse di studio Erasmus a causa delle dispute sui bilanci Ue 2012 e 2013. Quest'anno il programma sta registrando un deficit di 90 milioni di euro. Negli ultimi 25 anni, il programma Erasmus ha permesso a quasi tre milioni di giovani europei di studiare fuori del loro Paese. Il possibile «taglio» non poteva giungere in un momento peggiore. La disoccupazione europea nella fascia di età fra i 15 e i 24 anni è infatti aumentata del 50% dall'inizio della crisi; oggi uno su cinque (più di 5 milioni in termini assoluti) è senza lavoro. La commissaria europea Androulla Vassiliou ha accolto favorevolmente la pubblicazione della lettera: «Erasmus ha cambiato vite e aperto menti per 25 anni. Che possa continuare a farlo ancora a lungo!». __________________________________________________________________ Il Manifesto 10 nov. ’12 I LAUREATI ITALIANI AL LAVORO SENZA LODE Choosy: Il 25% dei giovani con titolo accademico ha un'occupazione con bassa o nessuna qualifica. Oltre il 30% svolge un impiego diverso da quello per il quale ha studiato IL RAPPORTO: Uno studio di Bankitalia smentisce la ministra Fornero: i neo-dottori pronti a tutto Roberto Ciccarelli La svolta è avvenuta tra il 2009 e il 2011. Secondo Bankitalia, che ieri ha diffuso nel rapporto sulle economie regionali, circa il 40% dei giovani tra i 24 e i 35 anni in possesso di una laurea almeno triennale svolge un lavoro a bassa o nessuna qualifica. Quelli italiani sono i giovani meno choosy (schizzinosi) d'Europa, accettano di lavorare in settori che non hanno alcun rapporto con la laurea, i tirocini o gli stage svolti durante il periodo della formazione universitaria. Nulla a confronto con la Germania dove i giovani overeducated che accettano mansioni inferiori rispetto agli studi compiuti sono solo il 18%. I meno choosy, e i più flessibili, sono insospettabilmente i laureati nelle discipline umanistiche. Dopo la laurea il 67,5% di loro trova un lavoro, ma quasi il 40% si mette sul mercato del lavoro informale, nero, vive insomma in quella fascia che lo studio di Bankitalia definisce «di bassa o senza nessuna qualifica professionale». Il 70% di loro svolge comunque impieghi diversi da quelli per cui ha studiato. Quindi niente scuola, ricerca o università. Si lavora nelle attività commerciali e nei servizi, nell'agricoltura o nella pesca, di sceglie di fare l'operaio, oppure i «conduttori di impianti» e gli «addetti al montaggio». In altre parole, vanno a ingrossare le professioni che non hanno nome, ma sono fondamentali perché sorreggono un mercato del lavoro sempre più disarticolato e frammentato. Tecnicamente, sottolineano gli esperti di Bankitalia, questo fenomeno si chiama «disallineamento» e riguarda tutti i laureati che accedono al mercato del lavoro, i quali non sempre riescono a trovare un lavoro che corrisponde esattamente alle aspirazioni personali o alla tipologia di laurea posseduta. Dal 2009, il «disallineamento» sembra essersi allargato al punto da assomigliare à un baratro. Tutti i laureati, e non solo quelli umanistici, si sono ritrovati nella terra oscura che gli studiosi hanno perimetrato con le categorie di overeducation e mismatch. Il primo indicatore si riferisce ai laureati occupati che svolgono mansioni a bassa o nessuna qualifica. Il mismatch segnala le mansioni diverse da quelle per cui hanno studiato ed è un indicatore che si calcola solo per i laureati e non per i diplomati. Nel rapporto il tasso di overeducation è risultato più alto al Centro (il 29,7%) e nel Nord Est (26,3% degli occupati laureati) e inferiore nel Nord Ovest (23,3%) e nel Mezzogiorno (22,9%). In tutte le regioni del Paese il fenomeno degli overeducated ricorre più spesso tra gli occupati laureati nelle discipline umanistiche (39%) e nelle scienze sociali (34%). Coloro che invece svolgono la professione medica, fanno gli architetti o gli ingegneri hanno la vita relativamente più semplice: il loro tasso di occupazione è più alto, mentre quello di overeducation è più basso. Il mistero avvolge un'altra categoria, che Bankitalia si limita a definire «altro», quella che raccoglie i laureati in scienze della formazione, agraria, veterinaria e servizi. Anche loro non sono affatto schizzinosi e navigano tra un impiego a termine, sotto qualificato, e un'attività non dichiarata. ,Non poteva essere più clamorosa la smentita della posizione della ministra del Welfare Elsa Fornero secondo la quale, invece, i laureati italiani «non devono essere troppo choosy, meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale». L'indignazione sollevata dall'ennesima dichiarazione sprezzante aveva spinto poco dopo la ministra a tornare sui suoi passi poco dopo. Su basi minimamente scientifiche il rapporto di Bankitalia conferma una serie di dati noti da tempo. Sempre ieri il sistema informativo Excelsior di Unioncamere ha confermato che i nuovi assunti tra i giovani compresi nella fascia d'età fino ai 35 anni sono precari. Sulle oltre 218mila assunzioni (158mila lavoratori alle dipendenze e 60mila «autonomi») nelle imprese dell'industria e dei servizi nell'ultimo trimestre, il 19% sarà a tempo indeterminato, un contratto su cinque. Nel lavoro subordinato, il saldo si manterrà rigorosamente negativo, con 120 mila dipendenti in meno, 12 mila a termine. Rispetto a questa realtà il governo insiste sulla strada della riforma dell'apprendistato, una misura che non riguarda i «giovani» tra i 24 e i 35 anni.•1112 e 13 novembre, un giorno prima della giornata di sciopero europeo, sarà questo l'oggetto dell'incontro tra la titolare del lavoro Fomero e il suo omologo tedesco Ursula von der Leyen a Napoli. A differenza della Germania, che resta la stella cometa del governo italiano nel mondo dell'inoccupazione generale, nel nostro Paese la disoccupazione giovanile intorno al 34% è tre volte quella generale. «Dobbiamo trasformare l'apprendistato in un motivo di orgoglio» ha detto Fornero. I movimenti napoletani hanno annunciato la loro presenza al vertice. In Italia, tra il 2009 e il 2011, il tasso di occupazione dei giovani tra i 25 e i 34 anni in possesso dì una laurea almeno triennale che avevano terminato gli studi era del 75,1%; il valore più elevato nel Nord Ovest (84,7%), quello più basso nel Mezzogiorno (58,6%). Tabella accanto: il quadro di occupazione, overeducation e mismatch del giovani (elaborazioni su dati Istat) per tipo di laurea. (2) Tasso di overeducaton Quota di laureati occupati (che hanno terminato gli studi) che svolgono mansioni a bassa o nessuna qualifica sul totale degli occupati laureati in una data classe. (3) Tasso di mismatch Quota di laureati occupati (che hanno terminato gli studi) che svolgono mansioni diverse dall'ambito tematico di laurea sul totale degli occupati laureati in una data classe. (4) Include i corsi di laurea in scienze della formazione, agraria, veterinaria e le lauree nei servizi. __________________________________________ Unione Sarda 07 nov. ’12 INNOVAZIONE, ISOLA SUPER IL REPORT. Focus della Commissione su 190 regioni dell'Unione europea È l'unica area italiana che migliora da cinque anni È un ventaglio che muove ossigeno, quello sventolato dalla Commissione europea sulla Sardegna nel quadro di valutazione dell'innovazione regionale, Regional Innovation Scoreboard 2012 . L'Isola, classificata come “innovatore moderato” è l'unica (a parte la Calabria) ad essere sempre cresciuta negli ultimi 5 anni. Tanto da venire espressamente citata nel report per il «suo balzo impressionante»: da modest medium a moderate low , da innovatore modesto a innovatore moderato.  L'ANALISI Non siamo in vetta alla classifica (le migliori sono Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio) ma a leggere il report abbiamo evidentemente resistito alle bordate della crisi. Per la Sardegna ne viene fuori una ventata d'aria fresca, perché l'innovazione riguarda soprattutto la capacità di intraprendere dei giovani, e “pulita” in quanto le aziende ad alto contenuto innovativo e tecnologiche non soffrono dei problemi cronici che gravano sull'Isola come trasporti o costo dell'energia e, infine. Insomma, se la crescita economica è l'obiettivo, l'innovazione è il mezzo per raggiungerla. FONDI EUROPEI Quanto ai fondi Ue destinati all'innovazione, rispetto al periodo di programmazione precedente (2000-2006) quando era un low absorber (regione con basso utilizzo di fondi strutturali per innovazione imprenditoriale e bassa partecipazione al programma quadro per la ricerca e l'innovazione), nell'attuale periodo (2007-2013) la Sardegna si configura come full absorber , ovvero regione con utilizzo medio-alto dei fondi strutturali per innovazione industriale e servizi. Risulta invece basso l'utilizzo delle tecnologie d'informazione e comunicazione, infrastrutture digitali e tecnologie ambientali. E se è sempre bassa la partecipazione generale al programma quadro ricerca, risulta medio-alta quella delle Pmi del settore privato. L'ITALIA NEL REPORT Il quadro di valutazione dell'innovazione regionale ha messo a confronto le 190 regioni dell'Unione europea e di Croazia, Norvegia e Svizzera, per vedere a che punto si trovano, quali risultano essere le migliori e quali invece hanno maggiori difficoltà. Sono state suddivise in 4 gruppi principali - leader dell'innovazione, regioni che tengono il passo, innovatori moderati e regioni in ritardo - in base a 12 parametri che vanno dal numero di abitanti al Pil, alla quantità di investimenti in ricerca e sviluppo all'insieme delle attività di innovazione delle Pmi.  L'Italia è tra i moderati, dato che la maggior parte delle regioni (12 su 20) rientra in questo gruppo. Le 5 migliori (categoria followers) sono Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio.  Emanuela Zoncu __________________________________________ Unione Sarda 06 nov. ’12 ENTI, OLTRE 40 POLTRONE IN BILICO Oggi in commissione la norma che cancella tutti i Cda Negli organismi di vertice molti candidati non eletti nelle elezioni regionali del 2009 Più di 40 poltrone a rischio, forse 50: quasi l'equivalente di un altro Consiglio regionale, nascosto nelle pieghe di enti e agenzie. La legge di cui si parla oggi in commissione Autonomia potrebbe spazzar via, attuando il referendum di maggio, un plotoncino di consiglieri d'amministrazione. Persone che - tranne qualche eccezione - non sono lì perché hanno vinto un'elezione. Anzi, molti sono lì perché le elezioni le hanno perse: sarà una coincidenza, ma nei vari cda c'è un notevole affollamento di candidati non eletti alle Regionali del 2009. NOMINE Li si trova un po' dappertutto: per esempio dalla lista nuorese dei Riformatori sono stati ripescati il primo dei non eletti (Salvatore Liori, presidente dell'Istituto etnografico) e il secondo (Giovanni Poggiu, presidente dell'Ersu di Sassari). Il partito piazza anche i candidati cagliaritani Alessio Mereu (Ersu) e Roberto Porrà (Sfirs), nonché l'ex consigliere regionale Giovanni Pileri, candidato in Gallura, all'Arst. Insieme a Luigi Perseu, candidato Udc nel Sulcis e sindaco dimissionario di Iglesias, e di un altro ex onorevole, Giuseppe Atzeri (Psd'Az). Correva per i sardisti, ma a Oristano, anche Efisio Trincas, oggi all'Area. Accanto a lui siede Vittorio Randazzo: nella scorsa legislatura stava in Consiglio col fratello Alberto nei banchi dell'Udc, poi entrambi sono passati al Pdl. Ma mentre nelle liste berlusconiane Alberto ha conservato il seggio (nel collegio cagliaritano), Vittorio è il primo dei non eletti nel Sulcis. Anche Sergio Marracini (Sfirs) aveva tentato la rielezione tre anni fa, con l'Udc. ALTRI CASI Al netto delle anime belle, tutti sanno che si tratta di nomine politiche: la gran parte della Giunta, altre del Consiglio regionale. Il Consiglio delle autonomie locali indica i tre sindaci dell'Ente foreste (Tatti, anche lui un non eletto, Deiana e Melis) e due nomi del vertice di Area (Ara e Collu). In ciascuno degli Ersu di Cagliari e Sassari ci sono un rappresentante eletto dai docenti universitari (Gianmario Demuro e Ciriaco Carru) e uno eletto dagli studenti (Alice Marras e Giosuè Cuccurazzu). I PRESIDENTI La nuova legge sostituirà i cda con direttori generali o amministratori unici. «Una guida monocratica a volte può bastare», riflette Maria Paola Corona, presidente di Sardegna ricerche, «ma in certi casi si perderanno pareri utili. Penso a organizzazioni complesse come l'Ente foreste». I risparmi sulla materia «sono opportuni, tutti siamo chiamati a una spending review. Farei attenzione anche alle consulenze: spesso sono la porta di servizio da cui rientrano i costi usciti dalla porta principale». Giovanni Caria presiede l'Arst, spa che gestisce un servizio pubblico in tutta l'Isola, con un bilancio da 150 milioni: «Tecnicamente - osserva - tutto si può fare, anche nominare un amministratore unico. Certo, mi chiedo se sia opportuno, nel nostro caso, eliminare le rappresentanze territoriali. È una scelta politica, e ci atterremo fedelmente alle decisioni del Consiglio». I PARTITI Decisioni che consentirebbero un risparmio stimato da qualcuno in 2 milioni di euro annui. «Difficile quantificarlo, gli enti sono restii a fornire dati», rivela Roberto Capelli (Api), che da anni propone emendamenti alla Finanziaria per sopprimere i cda: «Bocciati dalla maggioranza, Riformatori compresi», ricorda. «Ora la Giunta ha varato una delibera in materia, ma con vigenza dalla prossima legislatura». «I posti di sottogoverno, spesso utili solo a garantire equilibri politici, vanno azzerati», dice Giampaolo Diana (Pd). Giacomo Sanna (Psd'Az) afferma che «i problemi della gente vengono prima dei posti nei cda. Ma se daremo tutti i poteri ai direttori generali, bisognerà scegliere tra persone di provata capacità, non tra curriculum rimaneggiati». Giuseppe Meloni ___________________________________________________________ Corriere della Sera 11 nov. ’12 LE STATISTICHE? SERVE UN GARANTE DAL NOSTRO INVIATO BOLOGNA — Sono «indicatori di ignoranza di un Paese il numero di fatti sbagliati citati dai politici e la quota dei giocatori alla lotteria». Enrico Giovannini, presidente dell'Istat, ripesca la «Filosofia della Statistica», opera scritta nel 1826 da Melchiorre Gioia. La guida potrebbe tornare buona anche oggi, perché l'opinione pubblica rischia di perdersi nel «diluvio di dati» che rimbalzano nei talk show televisivi e nelle dichiarazioni dei leader riportate dai media. Servirebbero, dunque, anche nuove regole. E il presidente dell'Istat, ospite della ventottesima edizione della «Lettura del Mulino», organizzata dalla casa editrice di Bologna, formula tre proposte. Primo. In Italia esistono altre «18 autorità statistiche nazionali»: sono i centri studi dei ministeri e di altre istituzioni. Ciascuno di loro fornisce numeri e ricerche a volte contraddittori, con gravi conseguenze per i cittadini. Giovannini non fa esempi, ma è facile richiamare il caso degli esodati e della polemica tra l'Inps e il ministro del Lavoro Elsa Fornero. Il presidente dell'Istat, allora, suggerisce che venga adottato «un sistema come quello delle banche centrali». A livello nazionale l'Istat dovrebbe diventare una specie di Banca d'Italia della statistica, con il compito di condurre «la supervisione approfondita sugli altri produttori nazionali di dati». Ma negli ultimi anni è cresciuta anche la «statistica privata», in cui operano, per esempio, l'ufficio studi di Confindustria, quelli dei sindacati o di altre realtà come la Cgia degli artigiani di Mestre. Dice Giovannini, senza mai citare alcuna organizzazione: «I produttori privati di statistiche sono liberi di fare ciò che vogliono. E non c'è dubbio che approfittino appieno di questa opportunità, con la complicità dei media, i quali non pretendono da loro lo stesso grado di trasparenza sulle metodologie che, giustamente, richiedono all'Istat e agli altri produttori pubblici». Morale: è arrivato il momento «di regolamentare anche la statistica privata affidando a un'Autorità esistente, forse la stessa Agcom (Garante delle comunicazioni ndr), il compito di fissare standard minimi». Terzo e ultimo consiglio: «Le testate giornalistiche, vecchie e nuove, dovrebbero istituire, come avviene all'estero, la figura dello statistics editor, con il compito di supervisionare le citazioni dei dati statistici». Il Parlamento ha già affidato al governo una legge delega per riformare il «sistema statistico nazionale». Ieri, ad ascoltare Giovannini nell'ex chiesa di Santa Lucia, ora trasformata nell'Aula magna dell'Università, c'era anche il ministro dei Rapporti con il Parlamento Piero Giarda (insieme con il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco e Romano Prodi). Si vedrà se le proposte di Giovannini si riveleranno «inutili», come le «prediche» di Luigi Einaudi (1955) da cui ieri ha preso le mosse per costruire la sua Lettura del Mulino. Giuseppe Sarcina gsarcina@corriere.it __________________________________________ La Nuova Sardegna 06 nov. ’12 AMAZON, UN PIANO DA 600 ASSUNZIONI A CAGLIARI Non c’è ancora la comunicazione ufficiale sull’apertura a Cagliari di un grande data center di Amazon.com, la potentissima compagnia americana di commercio e servizi elettronici ma l’operazione sembra arrivata alla fase conclusiva. L’ufficio stampa della Amazon Italia logistica srl per ora non smentisce ma neppure conferma («non è nostro costume anticipare le notizie» ha detto il rappresentante della Mirandola comunicazioni, Alessandro Saccon) quanto l’ex governatore Renato Soru ha annunciato in un convegno a Lodine, una notizia che il tam-tam della rete ha poi diffuso in questi giorni suscitando enorme interesse: si tratterebbe di 300 assunzioni immediate da fare entro il 15 gennaio 2013, più altre 300 nei mesi successivi per un data center destinato a servizi cloud – una sorta di provider su cui far girare applicazioni a distanza e Amazon S3 per lo storage di dati con altri servizi – che non troverà spazio nella sede di Tiscali, come sembrava in un primo momento ma nei locali della Dedoni trasporti in viale Monastir, dove si trova la sede di Tre Sardegna. Ad Amazon servono ingegneri e personale tecnico qualificato, più numerosi operatori di customer care, vale a dire l’assistenza e i rapporti con i clienti. Si parla anche di alcune altre centinaia di chiamate per ruoli amministrativi e di vendita legati a un contratto d’appalto con la multinazionale di Seat, ma su questo aspetto non filtrano informazioni. A condurre le trattative per la sede operativa del call center è Martin Angioni, un manager sardo che vive a Dublino, figlio del celebre colonnello Paolo Angioni che nel 1964 vinse la medaglia d’oro nell’equitazione alle olimpiadi di Tokyo. Angioni opera in tutta Europa e di recente anche nell’isola: stando alle indiscrezioni preparava da anni questo regalo al mondo del lavoro isolano convinto che Cagliari, grazie anche alla presenza di Tiscali con la sua fibra e le sue connessioni ad alta velocità, sia la sede ideale per accrescere e consolidare la presenza di Amazon in Italia. Certamente sarebbe un colpo straordinario per la Sardegna, in una fase storica segnata soltanto da chiusure di aziende, stabilimenti industriali e tagli alle imprese. Nel suo intervento a Lodine, Soru ha dato l’operazione in dirittura d’arrivo e in alcuni siti internet già fioccano le informazioni su come trasmettere i curricula, che prevedibilmente arriveranno da ogni regione d’Italia e forse anche dall’estero. Amazon Italia però non ha ancora lanciato ufficialmente la selezione del personale, per quanto nei siti più informati nel campo dell’e-commerce circolino con insistenza informazioni dettagliate sull’operazione in corso. Amazon è nata nel 1994 a Seattle, il fondatore è Jeff Bezos. Partita con la vendita via internet di libri, cd musicali, dvd e materiale elettronico l’azienda statunitense ha allargato il campo a software, hardware, videogiochi, abbigliamento, arredi, cibo, giocattoli e dal 2006 ai servizi di cloud che ora dovrebbe portare nella nuova base sarda. In Italia, dopo aver aperto un negozio online, ha allestito un gigantesco polo di distribuzione della merce a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, dove lavorano regolarmente centinaia di giovani. Un centro che si occupa di immagazzinare, gestire e spedire gli articoli richiesti ai clienti italiani. Gli altri uffici italiani si trovano a Milano e la prossima sede dovrebbe essere Cagliari, dove già esiste un ufficio aperto in silenzio qualche anno fa in cui lavorano una quarantina di persone assunte con contratto trimestrale: il primo passo sarà con ogni probabilità la stabilizzazione di questi dipendenti, poi saranno selezionati gli altri. Per ora non si parla di logistica e di magazzino merci, gli investimenti futuri sarebbero legati ai risultati dell’iniziativa. A consultare il sito Amazon.com risultano alla sezione Amazon Careers (lavora con noi) già ora offerte di lavoro in Italia e all’estero. Chi è interessato può compilare un form e spedire il proprio curriculum. Indispensabile conoscere la lingua inglese ma è molto probabile che la ricerca del personale riguardi giovani in grado di parlare anche altre lingue. Secondo le informazioni contenute su Wikipedia Amazon.com ha chiuso il 2010 con un fatturato di 54 miliardi di dollari e un risultato operativo di un miliardo e 406 milioni, l’utile netto è stato di un miliardo e 152 milioni di dollari. All’inizio del 2012 aveva 56200 dipendenti distribuiti nelle sedi degli Stati Uniti, dell’Europa e dell’Asia. A parte le vendite e i servizi, Amazon.com ha prodotto fra l’altro cinque cortometraggi diffusi poi online in collaborazione con la società di Ridley Scott, il regista inglese di Blade Runner, il Gladiatore e Black Hawk Down.  _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 05 nov. ’12 SARDI, INCONSAPEVOLI DELLA RICCHEZZA DIFFUSA NELL’ISOLA Riflettori su un museo unico al mondo, il Parco dei Petroglifi, pietre scritte, parlanti, storia sacra e profana, 37 tombe della notte dei tempi, firma indelebile del Neolitico recente, religiosità prenuragica. Un lungo altare bianco di calcare è incorniciato dal verde delle campagne di Cheremule, ai piedi del vulcano spento di Monte Cuccuruddu. Lunghi filari di prugnoli con i frutti viola, agretti da mangiare ma ricchi di sapore, i muretti a secco colorati dalle bacche rosse dei biancospini. In cielo volteggia una poiana. Per terra un tappeto di pere selvatiche per la gioia dei cinghiali. Domanda d'obbligo: a che serve "cust'opera divina"? È giusto che ad appagarsi sia solo lo spirito? La denuncia è tanto netta quanto autorevole. "La Sardegna, le sue amministrazioni non hanno saputo rispondere, né sanno rispondere oggi, all'eccezionalità del tesoro artistico ereditato. È come se San Pietroburgo non sapesse valorizzare l'Ermitage, come se Firenze snobbasse Gli Uffizi, o Torino facesse invadere di erbacce il suo Museo Egizio. Manca la consapevolezza generale di questa ricchezza diffusa in tutta l'isola e ci priva anche di una risorsa economica. Un esempio su tutti: il Meilogu è la regione storica col più vasto patrimonio archeologico disponibile perché i Comuni hanno avuto la lungimiranza di acquisire tutte le aree monumentali". Quale è il ritorno? "Pressoché nullo, in raffronto a quanto ci è stato regalato dal passato. Abbiamo una miniera d'oro ma non ce ne accorgiamo". Chi parla è Antonietta Boninu, archeologa, fino allo scorso aprile storico direttore della soprintendenza ai Beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro. Insiste: "Parlo di consapevolezza perché se queste eccellenze archeologiche non vengono sentite come tali dai cittadini non si può fare molto strada nell'opera di valorizzazione. Questi siti sono una risorsa. Ma richiedono professionalità non abborracciate, competenze diffuse, i paesi dovrebbero fare rete per attirare flussi costanti di visitatori, lo dovrebbe capire la Regione dando plusvalore alla storia vera dell'Isola. Invece ci si scontra con una realtà deprimente: perché la Sardegna - grande parco archeologico - non ha saputo creare occasioni scientifiche ed economiche adeguate, direttamente proporzionali al valore che questi monumenti hanno. Anche per questo la disoccupazione intellettuale cresce". Salvatore Masia, 38 anni, geometra, sindaco di Cheremule: "Per far amare questi monumenti dobbiamo fare in modo che creino reddito. Ma è necessario un progetto ampio, non può agire un singolo campanile, vanno create professioni diffuse e adeguate a questa sfida". Una risposta sconsolante è venuta da uno stupro paesaggistico con un gigantesco impianto fotovoltaico a pochi passi dall'altare bianco e dai petroglifi. Ma come si fa a miscelare storia e modernità cancellando del tutto il valore della prima? Sarebbero concepibili cento pale eoliche attorno alla reggia nuragica di Barumini? O attorno a quell'incanto che nulla economicamente rende nel grandioso complesso di Santu Antine a Torralba? Ricopriamo di alluminio e fibre di carbonio anche le domus di Sant'Andrea Priu, altra eccellenza che gli amministratori di Bonorva non sanno portare a reddito? È ammissibile che qui a Cheremule il Parco dei Petroglifi, nei siti di Museddu, Tènnero e Mattarigotza richiami visitatori solo quando la magia della tromba di Paolo Fresu crea concerto in un altipiano carico di significati scolpiti in una storia millenaria? Qui c'è la Sardegna ma anche la storia dell'uomo: celle, cappelle mortuarie, qui si celebravano funerali di popolo per capitribù di rango. Era una zona produttiva: i reperti dimostrano che la campagna era popolata di vigne, all'interno delle necropoli esistevano impianti di vinificazione, vasche comunicanti, fossette di decantazione, cantine private con la tecnologia di tremila anni prima di Cristo. Ecco perché Antonietta Boninu parla di "mancata consapevolezza" e spera in un ripensamento delle politiche locali. "Oggi la Sardegna ha la fortuna di avere un quadro normativo di primo piano: c'è la Costituzione che protegge questi tesori, il Testo Unico degli enti locali, la legge regionale 14 sui beni culturali. Nonostante questa buona intelaiatura legislativa, tra le migliori in Italia, sono sì partiti i servizi di gestione ma non c'è stato alcuno sviluppo di impresa turistica. Non basta un ristorante con tavoli bianchi in plastica bianca davanti a un nuraghe o a una chiesa romanica. Occorrono altre professionalità che creino reddito qualificato nei territori, ognuno con caratteristiche specifiche. Occorre una più diffusa conoscenza delle lingue straniere, saper accogliere e saper sorridere ai turisti. Ecco perché sogno una rivoluzione nel fare turismo: dall'abuso indiscriminato dei suoli si deve passare a una conoscenza reale dei territori, della loro storia, delle loro valenze geologiche e botaniche. Serve insomma un altro turismo: che punti sul grande museo sotto il cielo della Sardegna. Ma la Sardegna deve guardarsi allo specchio. E conoscersi meglio". Antonietta Boninu nasce a Foresta Burgos, dove il padre Giovanni Salvatore lavorava come civile al centro allevamento dei cavalli selezionati per l'esercito. È quarta dei sei figli di mamma Giovanna Antonia Brundu. Prima elementare a Foresta, maestra era Luisa Mura ("bravissima, quando nevicava faceva lezione all'aperto"). Smantellato il centro di selezione, il padre viene trasferito a Ozieri al deposito chimico dell'artiglieria e qui Antonietta prosegue fino al diploma al liceo classico Duca degli Abruzzi. "Un ottimo liceo, per noi Omero era un Dio, latino e greco con Delfina Orani, matematica con la sorella Egle, una classe affiatata, tra le compagne avevo la filosofa Anna Maria Loche". La scelta dell'università a Cagliari è scontata. I primi presidi sono due storici e archeologi del mito, Alberto Boscolo e Giovanni Lilliu. Tesi di laurea con Giovanna Sotgiu e Piero Meloni, presidente di commissione un altro dei giganti che hanno popolato nei primi anni del dopoguerra l'ateneo del capoluogo, l'antropologo Alberto Mario Cirese. Tesi in Epigrafia latina sulle alae, i reparti di cavalleria. Boninu studia molto. Ancora studentessa firma una pubblicazione sulla ceramica sigillata chiara del Museo archeologico di piazza Arsenale, un unicum, prende il nome delle "forme Boninu". Vince un concorso e va a scavare in Calabria, a Sibari, insediamento romano detto La Casa Bianca, poi Crotone. Nel 1974 scatta l'avventura tra i muretti a secco in Sardegna. Conosce Fulvia lo Schiavo e Alessandra Bedini, prende corpo lo scoop dei Giganti di Monti Prama. E poi Portotorres, "un altro sito che meriterebbe ben diversi numeri di visitatori". Dal 1977 con un concorso approda alla Soprintendenza di Sassari e Nuoro. Nasce il centro di restauro. Un anno dopo è direttore. "Eravamo in trenta, con la legge 285 passiamo a 350 e apriamo sedi a Nuoro, Olbia, Portotorres, Perfugas, Ozieri. Nascono i musei civici di Ittireddu, La Maddalena, Torralba, Padria, Nuoro, Dorgali, Teti, Laconi, Perfugas, Viddalba, Bonorva". Un impegno costante fino allo scorso aprile. "Devo finire i lavori avviati a Portotorres, sito straordinario col Palazzo Re Barbaro, l'anno venturo dovremmo ospitare in Sardegna il congresso internazionale sul megalitismo, forse a Laconi, fra le statue menhir". Il vero obiettivo? "Creare economia archeologica, artistica nel Meilogu, per i 16 mila abitanti rimasti". La palla passa agli amministratori che però viaggiano eternamente divisi: a Banari e Siligo, Bessude e Thiesi, Torralba e Borutta, Bonnanaro e Cossoine, Pozzomaggiore e Giave, Semestene e Bonorva. Cheremule è qui, con i suoi gioielli. Aspetta che l'altare sacro di pietra bianca avvii il miracolo economico. I Petroglifi sono un ottimo biglietto da visita.  ___________________________________________________________ Corriere della Sera 11 nov. ’12 IL BUON LAVORATORE VA A CASA PRESTO di DANILO TAINO Si tira tardi per coltivare relazioni e fare carriera: il contrario di un sistema meritocratico I risultati dell'overtime? Perdita di efficienza, creatività e rinuncia alle risorse migliori Q ualche giorno fa, Chiara — 38 anni, due figli, ingegnere — si è vista sorpassare in carriera da un collega che tutti in ufficio sanno essere meno esperto e meno meritevole. Ha chiesto spiegazioni e le è stato risposto che «è più disponibile». «Nel senso — dice lei — che passa il giorno a navigare in Internet, ma poi la sera si ferma in ufficio con il boss fino alle otto o alle nove». Elena no: alle sei sgombra la scrivania, corre dai figli, prepara la cena, li mette a letto e, semmai, alle dieci riapre il computer sul tavolo da pranzo per dare un'occhiata a un progetto. Una storia minuscola, uguale a quelle vissute da migliaia di donne, in Italia. Ma che racconta una storia enorme. Perché gli italiani, i maschi italiani, spesso tirano tardi sul lavoro? Perché, a differenza degli europei del Nord, finito l'orario non se ne vanno a fare altro, ma restano in ufficio? E perché questo è un tratto comune a molti dei Paesi dove le relazioni, sul lavoro e fuori, sono statiche, verrebbe da dire vecchie? C'è una statistica che ogni volta provoca sorpresa. E confusione. Se si guardano le ore lavorate dagli europei ogni settimana si nota che i greci battono tutti: 42,2 ore di media (fonte: l'Ufficio nazionale di statistica britannico). I tedeschi, invece, 35,6. I due Paesi ai poli opposti della crisi europea, in altre parole, sembrerebbero a testa in giù: in Grecia gran lavoratori, in Germania quasi fannulloni. E anche in Bulgaria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania, Slovacchia si lavora in media più di 40 ore. Mentre nella virtuosa Danimarca nemmeno 34 ore e in tutti i Paesi del Nord molto meno delle classiche 40 alla settimana. Il fenomeno ha una spiegazione semplice, ma ramificazioni complesse. La spiegazione si chiama differenza di produttività: se per innaffiare l'orto ho una pompa che prende acqua dal pozzo ci impiegherò un'ora; se devo prendere l'acqua con i secchi ce ne metterò quattro. A parità di risultato avrò lavorato il quadruplo. È evidente che all'estremo occupato dalla Germania ci sono aziende organizzate e di notevoli dimensioni, tecnologie moderne, opportunità finanziarie, catene di fornitura e di distribuzione avanzate, poca corruzione. All'estremo della Grecia, il contrario: dunque si lavora più tempo con risultati minori. Fatta cento la produttività della Ue, la Germania è a 123,7, la Grecia è a 76,3. Quella dell'Italia è a 101,5. E infatti, secondo l'Ocse, il 7% dei maschi italiani lavora più di 50 ore la settimana, contro il 2% delle donne. Ma se si contano le ore in ufficio non pagate la percentuale sale parecchio. Un'indagine condotta da Regus ha stabilito che il 45% degli italiani lavora tra le 9 e le 11 ore al giorno, contro il 38% della media mondiale. Stabilito che non è il numero di ore lavorate a creare ricchezza ed efficienza, si tratta di capire perché in molti Paesi e in particolare in Italia alcuni, soprattutto manager, stanno troppo in ufficio. La ragione di base sta nel fatto che in molte imprese si fa carriera con le relazioni, non grazie ai meriti. Stare in ufficio tardi crea solidarietà, soprattutto maschili dal momento che la maggior parte delle donne va a casa. E in organizzazioni in cui si avanza per cordate, l'appartenenza e la fedeltà sono decisive. Non è ovunque così. Ma, di certo, l'azienda in cui si sta troppo tempo sul posto di lavoro non punta sulla qualità e sulla produttività. «Quando l'orologio batte le cinque, il team va a casa — sostiene Max Cameron, amministratore delegato di Big Bang Technology, un'impresa hi-tech canadese —. Dico a tutti che il gioco è finito e hanno perso». Cameron ritiene che la mentalità dell'eroe che si sacrifica per l'azienda sia altamente dannosa per l'azienda stessa. Da una parte porta al burnout, a una decadenza mentale di chi lavora troppo ed è sotto stress. Dall'altra, soprattutto, crea un ambiente dove nessuno può essere leader senza sacrificare qualcosa della sua vita: chi non lo fa non può quindi essere promosso anche se ha le qualità per esserlo. «Erode la leadership», dice Cameron. Bary Sherman, amministratore delegato dell'americana Pep Productivity Solutions, dice che i motivi non economici per i quali qualcuno lavora overtime sono due: «Il primo è che non vuole andare a casa e il secondo è che non sa come si lavora efficacemente». Chi non vuole andare a casa lo fa probabilmente per compiacere il capo e fare carriera, ma anche perché l'ambiente esterno lo permette. In Svezia, per esempio, stare in ufficio oltre l'orario prestabilito è considerato disdicevole dal punto di vista sociale: è visto come una scelta egoista di chi non ha interesse nei confronti degli altri, del mondo esterno, a cominciare dalla famiglia. Tanto che solo l'1 % degli svedesi lavora più di 50 ore (Ocse) e, soprattutto, un maschio in media dedica 177 minuti al giorno per cucinare, lavare e curare i figli, contro i 249 minuti delle donne: in Italia, i maschi spendono 103 minuti per le attività legate alla famiglia contro i 326 delle donne. Carriera e relazioni sociali dentro e fuori l'ufficio, dunque, spiegano molto dell'overtime. Un Paese dove il merito è poco premiato, ma prevalgono le relazioni, e dove la società ha ancora muri alti tra maschi e femmine, è il Giappone. Secondo i sindacati, lì, in media, un funzionario su dieci lascia l'ufficio dopo le 11 di sera e l'84% dei lavoratori sfora abbondantemente l'orario stabilito. Al punto che esiste una parola, karoshi, che significa morte da troppo lavoro. Situazioni simili, dove si sta in ufficio finché il boss non va a casa, si vivono in Corea del Sud e a Singapore. Poi c'è chi lavora troppo per disfunzioni organizzative. In questo caso il problema è serio per l'azienda, che forse otterrà un certo presenzialismo, ma di certo non potrà avere alti livelli di qualità e ancora meno di creatività. Con, inoltre, problemi seri per i lavoratori: una ricerca recente dell'Istituto per la salute e l'occupazione finlandese ha stabilito che chi lavora regolarmente più delle otto ore classiche al giorno aumenta tra il 40 e l'80% la probabilità di avere problemi cardiaci e corre maggiori rischi di demenza senile a causa della «prolungata esposizione allo stress», dice la dottoressa Marianna Virtanen, che ha guidato la ricerca. Quando sentite la parola workaholic, dunque, alzate la guardia: ci sono guai nel management, o nella meritocrazia, o nei rapporti sociali esterni, o nel lavoratore. Spesso in tutti, direbbe Chiara. @danilotaino ___________________________________________________________ Unione Sarda 11 nov. ’12 IL FUTURO È AD ARIA COMPRESSA, nasce in Sardegna la tecno-auto di GIORGIO PISANO Sembra un uovo ipertecnologico, un insetto marziano, un guscio per andare ventimila leghe sotto i mari. Non ha volante e neppure portiere, almeno quelle che siamo abituati a vedere. Non ha batteria e neanche un motore vero e proprio. Volendo, si ricarica a casa: basta avere a portata di mano una presa elettrica. A guardarlo, si resta sospesi: è la grande rivoluzione del futuro o un pio naufragio del XXI secolo? Si chiama Airpod, sbagliato definirla automobile anche se può ospitare a bordo tre persone. Siccome pesa meno di quattrocento chili, è classificata quadriciclo. Funziona ad aria compressa, come i carrelli delle miniere a fine '800. Rappresenta l'evoluzione di un'idea già nota che, per ragioni sulle quali è meglio non indagare, hanno preferito tenere in un cassetto mentre fiammeggiava all'orizzonte il motore a scoppio. Di qui a poco potrebbe cambiarci la vita. Nata da un'idea di Guy Negré sviluppata da suo figlio Cyril, Airpod sarà costruita in Sardegna e contemporaneamente nei pressi di Nizza. Si comincerà con assaggi sul mercato europeo (gli stabilimenti in Italia dovrebbero essere quattro in tutto) per poi passare ad una politica più aggressiva di vendita. Tutto dipende dalla risposta del mercato. E dalla capacità di opporsi di chi metterebbe volentieri in freezer un'iniziativa come questa. Di sicuro il professor Massimo Locci, cagliaritano, 51 anni, due figli, sta facendo la scommessa della sua vita. Quando parla di Airpod s'illumina di speranza e pare trasformare la sua scrivania in un quartier generale d'alta ingegneria. Figlio di un ferroviere, insegnante di elettronica in una scuola superiore, sta provando da sempre a fare l'imprenditore. Ha cominciato con la riparazione dei piccoli elettrodomestici per mettersi in grande non appena è iniziato il boom del fotovoltaico. Titolare (assieme ad un socio) della Chip elettronica, è in squadra anche con un'altra azienda (Esolar). Quattordici i dipendenti e fatturato massimo di nove milioni. Senza scender dalla cattedra (continua ad insegnare ancora oggi), s'è impegnato a resistere quand'è cambiato il vento sulle energie alternative e si prepara adesso «a una conversione». Il nuovo mito, stavolta, è l'aria compressa, propulsore di un'automobilina che potrebbe imprimere una svolta clamorosa alla sua vita e a quella di molti altri.  Colpa di una passione che non poteva morire nelle aule scolastiche, Massimo Locci ha voluto incontrare Negré, discutere a lungo con lui della possibilità di passare dalle parole ai fatti. Airpod, che ha già ottenuto l'omologazione in Lussemburgo, viene utilizzata per il trasporto del personale nell'aeroporto di Amsterdam. «Mi chiedevo se si potesse fare un altro salto, trasformare questo quadriciclo in quelle che oggi si chiamano city-car, auto da città. Sì, si poteva, si può. Dunque ci proviamo». Impossibile valutare il costo dell'operazione. «Vi ricordate quando il telefonino cellulare era un capriccio per pochi? Airpod, se la fortuna ci assiste, potrebbe avere lo stesso destino». Con quali conseguenze, quali reti di assistenza, quali prospettive nello smisurato ventaglio dell'offerta automobilistica? Ecco il senso di una grande sfida. Pensate di sbaragliare il mercato? «Visto che i sogni non sono tassati, rivendichiamo il diritto a sognare. Coi piedi per terra, però. Ipotizziamo che uno spazio di mercato ci sia. Esordiremo con autovetture leggere, l'importante è favorire un cambiamento di mentalità». Cioè? «Siamo abituati a portarci dietro una tonnellata d'automobile per spostare ottanta-cento chili, il peso medio di un passeggero. Tenuto conto della crisi che stiamo vivendo, forse è il caso di riflettere su questo aspetto». I numeri dell'operazione? «Partiremo in piccolo, aprendo una fabbrica che produrrà fra i mille e i duemila pezzi l'anno. Nel frattempo cercheremo di capire se il mercato accoglie volentieri la nostra piccola rivoluzione. In questo caso, i numeri si moltiplicheranno in misura sensibile con l'apertura di stabilimenti in altre tre regioni italiane».  Quando ha incontrato Negré? «Tre anni fa, grazie ad un amico comune, ho potuto conoscerlo. Abbiamo pensato che i tempi per mettere in piedi una fabbrica fossero maturi. Negré è un personaggio-chiave: sua l'invenzione dell'Airpod, suo il brevetto». Chi lo ha sostenuto? «La Tata motors, gigante indiano del settore. Che ha svolto studi e sperimentazioni». Come mai il brevetto non è stato venduto ai francesi? «Negré non ha venduto e non intende vendere il brevetto. Anche perché sa molto bene che lo acquisterebbero per non fargli vedere la luce. A lui interessa altro: vuol vedere la “sua” macchina sulle strade, non diventare ricco». Questo è un investimento da? «Aprire la fabbrica in Sardegna costerà fra i cinque e i sei milioni di euro. Tuttavia la spesa sarà doppia perché puntiamo a fare in modo che gli impianti, proprio come l'Airpod, siano anch'essi ad emissioni zero. Il fabbisogno energetico per realizzare l'auto verrà da fonti rinnovabili». Contributi pubblici? «La Regione ha mostrato interesse. Sfruttiamo incentivi di legge. Opereremo a Ottana-Bolotana dove possediamo alcuni capannoni. Faremo base, insomma, in una piana industriale da dove sono fuggiti perfino i topi. Andiamo in controtendenza: porteremo acqua al deserto». Dipendenti? «Nella prima fase, saranno una trentina. Poi si vedrà». Quando si parte? «Nella primavera del 2013. Contiamo di mettere in piazza la prima auto alla fine dell'anno o al massimo agli inizi del 2014. A fine mese abbiamo l'ultimo incontro per definire nei dettagli la linea di produzione». C'è fretta? «Sì, perché il momento è ideale. Secondo noi si sente il bisogno di un'auto come la nostra. Bisogna cavalcare l'attimo». Avete anche un'opzione nell'area industriale di Cagliari. «Sì ma riguarda la fase 2. Se la partenza andrà bene, pensiamo di aprire in tempi rapidi un secondo stabilimento in quella che, speriamo, dovrebbe essere dichiarata nel frattempo zona franca. Lì costruiremo un nuovo modello di Airpod». Quanti ne avete previsto? «Quattro. L'Airpod tradizionale, tre posti. Poi c'è l'Airpod-baby, che si potrà guidare a quattordici anni, l'Airpod-family (quattro posti) e una versione cargo». Come mai è stata scelta la Sardegna? «Credo sia stato determinante l'incontro con Negré, che è un visionario. Io stesso sono considerato tale. Per fare questa operazione serve un pizzico di sana follia». D'accordo ma la Sardegna? Qui si viene per rapinare fondi pubblici e scappare. «La situazione, nel nostro caso, è molto diversa. Superando un vecchio tabù, siamo riusciti a consorziarci, ossia mettere insieme un gruppo di imprenditori che credono in questo progetto. Il tempo dirà se abbiamo ragione». Negré ha affermato che la Sardegna è l'area ideale per questa innovazione .  «Esatto. Ha detto proprio così perché ci crede». La Sardegna è area ideale solo per la miseria. O no? «Negré si riferisce al fatto che, inizialmente, Airpod può essere utilizzata in campo turistico, cioè un'auto destinata ai vacanzieri». Profilo del possibile acquirente? «Airpod è l'ideale per un turista che, arrivando a Cagliari, voglia visitare liberamente la città. Pensiamo poi a chi vive nella cintura urbana, a chi ha bisogno di fare economia di spazi e di mezzi. Col prezzo della benzina che vola alle stelle, ecco una risposta concreta e pulita». S'è già fatto sentire qualche politico per chiedere posti di lavoro? «Per il momento, no. Comunque, non mi fa orrore una raccomandazione; mi fa orrore raccomandare qualcuno che non vale nulla». Raccontano Negré sotto pressione perché non vada avanti. «Certo. Sappiamo di trovare diffidenze e paletti che si alzeranno sempre di più. È inevitabile: stiamo proponendo un'auto a emissioni zero che costerà da sette fino a un massimo di diecimila euro nelle versioni più sofisticate». Qual è l'autonomia di Airpod? «Cento-centoventi chilometri, velocità massima ottanta km/h». A chi dà fastidio questa macchina? «Sicuramente, e tanto, al mondo del petrolio». E alle grandi case automobilistiche. «Potrebbe. Per il momento è una macchinetta di nicchia, per cui all'inizio il fastidio sarà quello di un moscerino. Se però questo moscerino va in giro e ronza sempre di più, allora diventerà un problema. L'importante è creare quello che gli americani chiamano appeal». Vale a dire? «I migliori passaparola dovranno essere gli acquirenti. Liberarsi per sempre dalla benzina, dal dover andare a un distributore, cambiare olio o batteria, li convincerà della bontà di un'auto che praticamente non ha costi di gestione. Credo sia una proposta rivoluzionaria». E l'aria compressa? «Si può ricaricare avendo a disposizione una presa di corrente. Un po' come si fa per qualunque auto elettrica». Tempo? «Quattro ore. Ma noi confidiamo in una distribuzione che garantisca il pieno in tre minuti. Costo, intorno a uno-due euro. Non solo: stiamo studiando, nella prima fase, un servizio di ricarica a domicilio. Pensiamo di creare siti di stoccaggio dell'area compressa (dopotutto, si tratta di bombole) per avere, quando occorre, il pieno in pochissimo tempo». Standard di sicurezza? «Sono legati alla tipologia del quadriciclo. Quello che andiamo a costruire, più leggero di quattro quintali, avrà i sistemi di routine previsti per questo genere di veicolo». Niente volante, giusto? «Airpod si guiderà con un joystick, e questo - secondo noi - sarà un grande richiamo per i giovani. Il joystick, una manopolina che somiglia a quelle della playstation, conquisterà anche i meno giovani perché è facile da usare. Solo la versione Airpod-family avrà un volante». Altro? «L'aria condizionata è compresa, anzi naturale visto che fa parte del motore della macchina. Sfruttando la decompressione, siamo riusciti anche a realizzare un piccolo frigobar. C'è infine un optional che ho suggerito io». Sarebbe? «Visto che l'auto emette aria a zero gradi, diventa facile, grazie ad un filtro, fare in modo che lo scappamento irrori aria profumata: chessò, al mirto o al timo. Quindi, oltre a non inquinare miglioriamo la qualità dell'aria». Secondo lei, siamo di fronte a una svolta epocale. «Senza dubbio. Questa tecnologia esiste dagli inizi dell'altro secolo ma è stata abbandonata per ragioni, come dire?, strategiche, industriali. È accaduto lo stesso coi motori elettrici, che esistevano dai primi del Novecento ma non si è mai portata avanti la ricerca». Altra novità, niente concessionari. «Vogliamo ridurre i costi al minimo e quindi evitiamo tutto quello che può appesantire il listino». Carrozzeria in alluminio e vetroresina: garanzie? «A parte la leggerezza, è l'equivalente di una qualunque city-car oggi presente sul mercato. L'aria compressa tra l'altro ci consente di mettere a punto airbag della migliore qualità». Controindicazioni? «Al momento non riusciamo a vederne. Eppoi, non sono la persona giusta a cui fare questa domanda. Io, queste macchine, devo venderle». pisano@unionesarda.it ___________________________________________________________ Corriere della Sera 11 nov. ’12 PER FAVORE: CANCELLATE LE INTERVISTE ALLA GENTE COMUNE di ALDO GRASSO Vorrei avanzare un'immodesta proposta: l'abolizione nei telegiornali, o in altri programmi informativi, delle interviste alla cosiddetta gente comune. Provo a proporre dieci buon motivi per la loro definitiva cancellazione. 1) Innanzitutto, non servono a niente, sono piene di banalità, fanno colore e basta; 2) Sono altamente manipolabili: il giornalista fa dieci interviste e manda in onda quelle tre o quattro che servono a sostenere la tesi del servizio; 3) La gente, pur di apparire, è pronta a dire qualunque cosa, a sostenere qualsiasi tesi, come hanno dimostrato le gag del «tg della strada» di Geppi Cucciari. La stessa persona, intervistata per un finto Tg3 diceva bianco, intervistata per Studio Aperto diceva nero; 4) Il passante disposto a farsi intervistare per strada da un tg o è un perdigiorno o un esibizionista. Spesso entrambe le cose; 5) L'uomo della strada viene spesso spacciato come opinione pubblica (altro fantasma temibile) o come «vox populi», il che non è vero. È solo sbornia demagogica; 6) Le intervista per strada (alla cui famiglia appartengono anche le interviste al citofono) servono solo al giornalista per non assumersi la responsabilità etica di quello che sta mandando in onda; 7) Con l'abolizione dell'intervista all'uomo della strada si eviterebbe che il cronista si avvicini a una persona che ha appena subito una grave disgrazia e l'assalga con la fatale domanda: «Cosa ha provato in quel momento?» oppure «È pronto a perdonare l'assassino di sua figlia?»; 8) Bisogna oscurare per sempre i vicini di casa, quelli che richiesti di un parere sul «mostro» che abita sul loro pianerottolo rispondono ogni volta: «Era una persona normale, a posto, tranquilla». E stanno parlando di uno che ha appena compiuto una strage; 9) Quando Winston Churchill ha pronunciato la famosa frase — «la democrazia è la peggior forma di governo possibile, eccezion fatta per tutte le altre» — aveva in mente le interviste radiofoniche alla gente comune; 10) Esiste la fondata possibilità che gli intervistati non capiscano la domanda, soprattutto per come è stata posta dai giornalisti. Quindi, meglio evitare. ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 nov. ’12 ECONOMIA ED ENTI LIRICI: SI STECCA SULLA PRODUTTIVITÀ I nostri teatri d'opera stanno morendo di debiti, i costi di produzione negli ultimi 10 anni hanno toccato i 558 milioni: colpa di regole inadeguate, alla base di una «malattia d'inefficienza» di Antonio Cognata Nonostante le Fondazioni Liriche ogni anno assorbano circa il 50% del Fondo Unico per lo Spettacolo, i principali teatri d'opera italiani stanno morendo di debiti. Dal 2001 al 2010 questi teatri hanno accumulato perdite d'esercizio per oltre 254 milioni di euro e i debiti hanno raggiunto la considerevole cifra di 328 milioni di euro. Nello stesso periodo i costi di produzione hanno toccato l'iperbolico picco di 558 milioni di euro. Secondo qualcuno questi numeri sono l'ineluttabile conseguenza di un fenomeno chiamato "malattia dei costi", originariamente descritto dall'economista americano William Baumol. L'argomento può essere sintetizzato con un esempio. Per l'esecuzione di un trio di Haydn, di una sinfonia di Beethoven o di un'opera di Verdi oggi sono necessari lo stesso numero di musicisti che impiegano lo stesso tempo utilizzato dai loro colleghi quando i pezzi furono eseguiti per la prima volta. Le performing arts sarebbero dunque un settore "stagnante" per tre ragioni: 1) l'impossibilità di realizzare incrementi di produttività per la mancanza di progresso tecnico, 2) un processo produttivo a prevalente intensità di lavoro e 3) salari che comunque crescono come nei settori "progressivi". In questo modo i costi nel tempo sono condannati a crescere più rapidamente dei ricavi, generando uno squilibrio di bilancio sempre maggiore. Secondo questa visione c'è un solo modo per curare la malattia dei costi: incrementare le risorse esterne, cercare donazioni private o chiedere sempre maggiori finanziamenti pubblici. L'estrema semplicità della cura – per salvare lo spettacolo dal vivo bisogna solo dargli più risorse – ha certamente contribuito alla diffusione e alla popolarità della teoria della malattia dei costi. Sono molti quelli che nelle discussioni sulle politiche artistiche citano la malattia dei costi, la cui retorica si spinge fino a rappresentarla addirittura come una giustificazione (economica) per il finanziamento pubblico delle attività artistiche (che invece trova i suoi argomenti nella welfare economics). Tuttavia, ci sono molte buone ragioni per dubitare della solidità della teoria della malattia dei costi, soprattutto nei teatri d'opera. Tra le diverse forme di spettacolo, l'opera è decisamente la più complessa e la più costosa. I costi elevati derivano dal fatto che l'opera richiede la combinazione di numerose risorse: cantanti solisti, orchestra, coro, uno staff di tecnici che progettano, realizzano e governano scene e costumi; e anche comparse, mimi e/o danzatori. A queste risorse va aggiunto un insieme di complicate attrezzature: proiettori per illuminare, sedie, leggii, pedane, macchinari per realizzare e movimentare le scene, fino ai palcoscenici e alle sale prove computerizzate. Nella produzione operistica c'è dunque una parte rilevante dove l'innovazione tecnologica contribuisce sensibilmente ad aumentare la produttività e a ridurre i costi. Dalla progettazione di uno spettacolo alla vendita dei biglietti, gli esempi sono talmente tanti che non vale la pena fare un'elencazione riduttiva. Eppure i teatri italiani sono tradizionalmente poveri d'investimenti in capitale fisico. Il settore avrebbe bisogno di nuove regole che incentivino la sostenibilità economica, ma sulla natura degli interventi c'è poco o nessun consenso. I molti Va pensiero che solitamente sono intonati a difesa della nostra tradizione operistica dovrebbero andare dritti verso i fundamentals del settore, verso quei numeri e quelle regole cui, invece, nella patria del bel canto, nessuno rivolge il benché minimo pensiero. Un esempio? Pochi sottolineano uno dei maggiori problemi dei teatri italiani: la bassa produttività. Nel confronto internazionale, a fronte delle risorse impiegate il numero di spettacoli è decisamente basso. Nel 2009 i nostri maggiori teatri hanno messo in scena in media ciascuno 77 recite d'opera contro, per esempio, le 226 recite della Staatsoper di Vienna, le 225 del Metropolitan di New York, le 203 dell'Opernhaus di Zurigo, le 184 dell'Opéra di Parigi, le 177 della Bayerische Staatsoper di Monaco o le 161 della Royal Opera House di Londra. Queste differenze non sono il risultato dell'utilizzo di minori risorse, ma si spiegano con le diseconomie determinate dalle regole (contrattuali) e dalle consuetudini che definiscono l'organizzazione del lavoro teatrale. Il risultato del mantenimento di queste regole è paradossale, perché l'auspicato aumento di produzione diventa economicamente insostenibile. Questo è piuttosto il risultato di una perdurante "malattia d'inefficienza". Le Fondazioni Liriche sono il frutto innegabile di una forte e importante tradizione culturale e di un sistema di finanziamento pubblico tipico dell'età dell'abbondanza. Ma il quadro economico è profondamente cambiato e con esso, se vogliono sopravvivere, dovrebbero cambiare anche i teatri. Invece di addossare ogni colpa alla mancanza di risorse pubbliche, serve che i teatri affrontino i problemi di qualità della spesa, servono principi di premialità amministrativa nella ripartizione delle risorse pubbliche e incentivi per reali aumenti di produttività. Della loro tradizione si sente ancor di più la necessità, perché nei tempi difficili i teatri diventano ancora più importanti, e proprio per questo il loro cambiamento diventa inevitabile. © RIPRODUZIONE RISERVATA Archivia economia della cultura Rivitalizzare una risorsa sprecata Tra i primi cinque Paesi europei, il nostro ha il più basso grado di attrattività culturale pur avendo il più importante patrimonio Fabrizio Galimberti Si parla molto di catene di offerta, di prodotti pensati in un luogo e realizzati, fase a fase, filo a filo, bullone a bullone, in tante parti del mondo. Ma c'è un'altra catena che ci interessa, ed è quella che lega il pensiero alla concezione, la concezione al progetto, il progetto al processo, il processo al prodotto... L'Italia si vanta – giustamente – di essere un grande Paese manifatturiero, ma cosa c'è all'origine di quest'altra catena, la "catena del valore"? C'è – forse la cosa potrà sorprendere – la cultura. La cultura in senso lato, un senso che comprende il sistema educativo e la ricerca. Ma comprende anche – ed è qui il tratto italiano di questa "cultura" da cui zampillano produzione e benessere – l'immenso patrimonio artistico del nostro Paese. Un patrimonio che è molto di più di una collezione di musei e parchi archeologici. Perché è dalla linfa di quel passato, dal "saper fare" accumulato nei secoli e tramandato di generazione in generazione, dall'amore per il lavoro ben fatto, da quella mescita di innovazione ed emulazione che segna le inimitabili fattezze dei distretti industriali («è come se i segreti del mestiere volteggiassero nell'aria», diceva Alfred Marshall) che derivano i successi della nostra manifattura. Ma oggi – e non da oggi – il Paese arranca. In che misura la povertà della crescita italiana dipende dalla scarsa attenzione a quella culturale e primigenia sorgente, a quel segmento dell'economia troppo spesso considerato come il parente povero dei settori economici? E che cosa si può fare per liberare quella sorgente dai detriti che la ostruiscono e riaprire quei canali che scorrono dalla cultura al prodotto, passando per l'immagine e il "racconto" dei nostri volti produttivi? Abbiamo voluto rispondere a questa domanda costruendo un indice di "interesse per la cultura" e correlandolo all'andamento dell'economia (vedi il primo grafico in alto). La correlazione c'è, e la correlazione ha un'implicazione sorprendente. Un euro in più speso per la cultura scende lungo gli anelli della catena del valore, cancella la connotazione di sussidio e si rivela un investimento. Non è il seme gettato fra i rovi né quello gettato fra i sassi o sulla strada. È il seme gettato "sulla terra buona", capace di dare "frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta". Tanto più che le spese per la cultura, essendo rivolte a persone a attrezzature stabilmente insediate nella penisola, presentano una minor "fuga" di importazioni ed esercitano quindi anche un maggior effetto moltiplicativo. Oltre all'effetto diretto sulla domanda vi è anche il cruciale impatto – indiretto ma reale – sulla immagine dell'Italia nel mondo, un'immagine che impatta su tanti volti del nostro Paese, dallo spread al Made in Italy. Purtroppo, non è possibile quantificare con scientifica precisione il frutto di "quell'euro in più" speso per la cultura. I dati non lo permettono. Ma, in questo processo indiziario, gli indizi sono convergenti e pesanti. È sotto gli occhi di tutti l'incuria per il nostro patrimonio artistico (basti citare Pompei), l'incapacità di usare dei nostri capolavori per farne "racconti" capaci di proiettare un'immagine diversa: non l'immagine di oggi, l'immagine (come scrive in queste pagine Pier Luigi Sacco) di un «Paese mediocre che vive di un grande passato» ma quella di un Paese che attinge al passato per proiettare, qui e oggi, la coda brillante di una cometa che solca da secoli i cieli del globo. Questo "indice di attrattività culturale" (vedi la scheda per la sua costruzione) rivela che la disattenzione all'importanza di questa sorgente non è un male solo italiano. Ma è tuttavia significativo che l'Italia, che pure, fra i cinque maggiori Paesi europei (vedi il secondo grafico in basso), ha di gran lunga il più importante patrimonio artistico, presenta, nell'ultimo dato disponibile (settembre 2012), il livello più basso dell'indice. Fervono, nel nostro Paese, le tristi polemiche sul "declinismo". Polemiche che lasciano il tempo che trovano se non sono assortite di rimedi, se alle diagnosi e alle prognosi non seguono le cure. La diagnosi l'abbiamo appena esposta. L'Italia ha distolto lo sguardo dalle sue sorgenti, ha lasciato deperire le sue vere ricchezze, ha dimenticato di curare e innaffiare quella terra dove giacciono le sue radici. Ed è la diagnosi che detta la cura. È solo mettendo al centro dell'attenzione la questione cruciale della cultura, intesa nel senso lato descritto da Pier Luigi Sacco, che potremo ritrovare, attraverso una proficua collaborazione fra il pubblico e il privato, attraverso la moltiplicazione delle iniziative intese a una manutenzione ordinaria e straordinaria dello sterminato patrimonio culturale, l'orgoglio del nostro passato, la fiducia nel nostro presente e lo slancio verso il nostro futuro. © RIPRODUZIONE RISERVATA L'«Indice 24» della competitività Questo indice è stato costruito utilizzando i dati resi disponibili ogni giorno da Google Trend. I dati rappresentano la frequenza di ricerche Google che danno, con riferimento a ogni Paese, il numero di ricerche contenenti parole chiave che mettono in relazione il Paese e diciotto indicatori (quality, art, literature, innovation, culture, design, education, history, cinema, architecture, theatre, heritage, music, luxury, fashion, media, style, university). Questi dati, disponibili a partire dal 2004 e normalizzati a picco = 100, sono stati ribasati a 2004 = 100 e "lisciati" con medie mobili di 6 termini centrate sull'ultimo. «Indice 24» di esportazione dell'impresa culturale italiana L'indicatore di competitività culturale (a destra) indica come l'Italia, in cento anni, abbia perso le posizioni di leadership rispetto ad altri Paesi in merito ad arte, architettura, moda, design. Utilizzando l'archivio digitalizzato Google-Harvard, che è in grado di contare l'incidenza di uno o più termini in un database di libri digitalizzati che comprende più di 8 milioni di esemplari in lingua inglese pubblicati dal 1800 al 2000, si misura l'incidenza del termine "Italia" associato a termini come "arte", "architettura", "design" e la si confronta con quella degli stessi termini associati ad altri Paesi, ottenendo una misura globale di quanto vasta sia la produzione di contenuti di un determinato Paese. ========================================================= ___________________________________________________________ Corriere della Sera 10 nov. ’12 COME MIGLIORARE EFFICACIA E COSTI DI UN SERVIZIO PREZIOSO di GIUSEPPE REMUZZI «Il Servizio sanitario nazionale istituito 34 anni fa fu un grande balzo in avanti». Lo ha detto ieri il presidente Napolitano alla giornata per la ricerca sul cancro. Prima della legge 833 non c'era di fatto da noi il diritto alla salute nonostante fosse sancito dalla Costituzione. Con la legge del 1978 ci siamo impegnati a garantire a tutti di potersi curare, indipendentemente dalle possibilità economiche e dal ceto sociale. È la cosa più preziosa che abbiamo e non costa nemmeno tanto. E così oggi a noi sembra normale che se uno è malato possa essere ricoverato in ospedale, curarsi e guarire. E che uno possa avere un trapianto di cuore o di fegato e le cure più avanzate per il cancro senza spendere nulla. Ma in molti Paesi del mondo non è così. Negli Stati Uniti ancora oggi nonostante l'impegno personale di Obama, almeno 23 milioni di persone non hanno accesso alle cure, nemmeno a quelle più necessarie. Là per afroamericani e ispanici mortalità infantile e aspettativa di vita sono quelle dei Paesi poveri. Noi questi problemi non li abbiamo, certo che i soldi li dobbiamo spendere bene. Napolitano ha detto fra l'altro che «si può anche razionalizzare purché si cerchino soluzioni innovative». Proprio così anche perché la popolazione invecchia, ci sono sempre più farmaci e sempre più costosi e una tecnologia sofisticatissima che metterebbero in crisi qualunque sistema sanitario se tutto questo non venisse governato. E allora? Serve un grande progetto che parta dai bisogni veri dei cittadini di una determinata area, stabilisca cosa serve davvero e se gli ospedali sono troppi o troppo pochi (e si deve avere il coraggio di chiudere quelli che non servono). Poi bisogna stabilire se quello che si fa è appropriato, e vanno eliminate le attività ridondanti e quelle inutili. E si dovrebbero poter integrare tutte le competenze di Province e Regioni in un sistema efficiente ma soprattutto efficace (si parla sempre di efficienza, mai di efficacia, che vuol dire: quanti ammalati abbiamo guarito? Quanti sono vissuti più di quanto ci si poteva aspettare? Per quanti abbiamo migliorato la qualità della vita?). Per un sistema così serve che la medicina del territorio e gli ospedali (ma anche le strutture private che da noi sono basate su fondi pubblici e sostenute dalla fiscalità collettiva) condividano le stesse finalità. Una su tutte: che la preoccupazione principale sia comunque il bene dell'ammalato. Così il richiamo del ministro Balduzzi a tagli non lineari e a una assistenza che risponda di più ai bisogni della gente è importantissimo a patto che lo si riesca a fare davvero. Certo se i medici si associassero come vorrebbe il ministro e fossero disponibili 24 ore su 24, di letti negli ospedali ne servirebbero di meno. Succederà davvero? Forse, salvo che non prevalgano gli interessi di qualcuno o di tanti e che l'iter della legge non si inceppi fra convenzioni e pareri delle Regioni. E poi si devono trovare i soldi. Vedremo. Quello che si potrebbe fare subito lo ha indicato ancora Napolitano «guardare avanti, e più ricerca scientifica». Proprio così. In medicina quello che si può fare è praticamente illimitato, ma non tutto serve. Non si dovrebbero poter usare farmaci costosi o costosissimi se non ci sono studi convincenti a dimostrare che siano meglio dei farmaci fuori brevetto. E se proprio vogliamo usare l'ultimo farmaco o l'ultima tecnica, facciamolo nell'ambito di progetti di ricerca, in questo modo fra l'altro paga l'industria che avrà il vantaggio di ricavarne informazioni preziose molto più in fretta di quanto non succeda oggi. E poi si devono formare i giovani medici alla ricerca scientifica come succede nei Paesi più avanzati, se no passi avanti non se ne fanno. È così che il servizio sanitario pubblico «cura». «Ma si spende di più» dirà qualcuno. No, si spende di meno. ___________________________________________________________ Corriere della Sera 10 nov. ’12 NAPOLITANO: GIUSTO RIDURRE LE SPESE MA LA SANITÀ PUBBLICA VA DIFESA «È una conquista: salvaguardia compatibile con la selezione delle risorse» ROMA — «In tempi di crisi» è indispensabile «utilizzare al meglio le risorse dei cittadini», cercando in tutti i modi di «evitare le critiche distruttive e i giudizi sommari» ma anche guardandosi da «atteggiamenti puramente conservativi e difensivi dell'esistente». Giorgio Napolitano parla di sanità alla cerimonia della Giornata nazionale per la ricerca sul cancro. E ci tiene a sottolineare che resta assolutamente convinto del fatto che, nel lontano 1978, l'istituzione del sistema sanitario nazionale fu «una conquista, un grande balzo in avanti per il progresso del Paese» e non a caso «fu approvato con il voto di tutte le forze politiche». Tuttavia, anche il sistema sanitario, in tempi di crisi come quelli attuali, deve essere «compatibile anche con una prospettiva di maggiore selezione della spesa pubblica», dice il presidente della Repubblica, subito aggiungendo che secondo lui ciò è ancora possibile. La salvaguardia del Servizio sanitario nazionale, ha detto, davanti a decine di medici e associazioni, e in presenza del ministro Renato Balduzzi, «credo che sia compatibile anche in prospettiva di una maggiore selezione e riduzione della spesa pubblica a patto che ci sia la ricerca di soluzioni razionalizzatrici e innovative». Dunque un sì netto alla salvaguardia del Servizio sanitario senza tuttavia pretendere che resti tutto com'è e anzi scegliendo, per esempio nella ricerca, una sempre maggiore complementarità tra «l'investimento pubblico e l'investimento privato», che «sono priorità da far valere ancor più in tempi duri come questi». Riguardo invece alla Sanità pubblica, bisogna mantenerla senza voler conservare tutto a ogni costo ma cercando di spendere al meglio i soldi dei cittadini, concetto sul quale, è sembrato ritrovarsi perfettamente il ministro Balduzzi che ha riconosciuto al presidente Napolitano di aver colto l'occasione per confermare la dinamicità del Servizio sanitario «scelto con lungimiranza nel 1978 e che oggi ci mette nei primi posti al mondo». Ovviamente c'è un ma, e per Balduzzi significa che «per poterci rimanere occorre una manutenzione straordinaria, una trasformazione strutturale». Il ministro, nel corso della cerimonia al Quirinale promossa dall'Airc, ha voluto ribadire che per la lotta ai tumori l'Italia ha un ruolo preminente nella ricerca a livello internazionale: «Occorre guardare più in là della crisi — ha detto Balduzzi — avere fiducia nelle giovani generazioni e continuare le conquiste sociali della nostra democrazia e del lascito costituzionale». Perché se è vero che le casse dello Stato non permettono più le spese di un tempo, è anche vero, come dice il direttore scientifico dell'Istituto europeo di oncologia di Milano, ed ex ministro Umberto Veronesi, che «questa crisi economica non ferma la scienza, la creatività, l'innovazione. Indipendentemente da qualunque spread, non si può fermare il nostro pensiero». Veronesi si dice ottimista sulla sfida al cancro. «Stiamo per entrare in una nuova era della ricerca scientifica — prosegue — che noi chiamiamo Grin, acronimo di genetica, robotica, informatica, nanotecnologie, con cui pensiamo di far fare un enorme balzo in avanti alla società». «Sono il primo a sostenere la scelta di razionalizzare le spese e ridurre al massimo gli sprechi», è il commento del senatore del Pd Ignazio Marino, medico e presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del Servizio sanitario nazionale. «Tuttavia — continua — i tagli cosiddetti lineari sono sbagliati. Tagliare le risorse in maniera uguale alle strutture ospedaliere d'eccellenza e a quelle mediocri è un errore strategico che ci costerà in termini di efficacia e di efficienza delle cure». A Napolitano, che poco prima aveva ricevuto in udienza gli accademici della Crusca che gli avevano conferito l'alta onorificenza, «per i suoi alti meriti nel sottolineare a più riprese e solennemente il valore della lingua nel processo di unificazione nazionale», l'Airc ha consegnato uno «speciale riconoscimento», «per il suo impegno a valorizzare i risultati della ricerca sul cancro e nel promuovere quella di domani». Mariolina Iossa ___________________________________________________________ Corriere della Sera 09 nov. ’12 BALDUZZI:COSÌ CAMBIERÀ L'ASSISTENZA NEGLI OSPEDALI In corsia soltanto il tempo necessario» Caro direttore, saranno molti di meno i posti letto per acuti che diminuiranno in Italia per effetto del decreto sulla spending review rispetto a quelli indicati ieri dal Suo giornale basandosi su dati elaborati da un notiziario online. Non i 30 mila ipotizzati, ma 7.389. Ha scritto bene il Corriere nell'articolo firmato da Margherita de Bac che non si tratta di tagli lineari, come qualcuno si affretta continuamente a dire, ma di una ristrutturazione, di una riconversione dell'offerta assistenziale in modo che essa sia più rispondente alle necessità e al bisogno di salute degli italiani. Diminuire i posti letto per acuti non significa ridurre i servizi ma organizzare meglio l'assistenza sanitaria, circoscrivendo la presenza in ospedale ai soli casi e giorni necessari. In alcune Regioni diminuiranno i posti letto per acuti ma aumenteranno quelli che servono alle cure riabilitative dopo la fase acuta della malattia. Oggi la popolazione italiana è sempre più anziana, con una maggiore incidenza di alcune patologie, e quindi abbiamo bisogno di un numero di posti letto per riabilitazione e lungodegenza più alto di quello attuale. Inoltre la razionalizzazione della rete ospedaliera non significa solo diminuire i posti letto, ma anche metter ordine nella mappa dei reparti, evitando negli ospedali sovrapposizione di servizi e a volte veri propri doppioni a pochi chilometri di distanza. La sanità ridisegnata dalla spending review e dal decreto recentemente convertito in legge dalle Camere sarà più vicina al cittadino, più razionale nell'offerta dei servizi, meglio governata, anche dal punto di vista della trasparenza e non solo dal punto di vista del risparmio della spesa. L'obiettivo comune di entrambi i provvedimenti è quello di arrivare in tempi certi alla riorganizzazione complessiva dell'assistenza, potenziando soprattutto i servizi della salute sul territorio. Il riassetto delle rete ospedaliera deve essere visto in questa prospettiva. La rete territoriale degli ambulatori, con la nuova formula prevista dal decreto, cioè le aggregazioni obbligatorie di medici e pediatri di base attive 24 ore su 24, dovrà naturalmente integrarsi con la rete ospedaliera e viceversa. Renato Balduzzi Ministro della Salute __________________________________________ Unione Sarda 07 nov. ’12 AOUCA: FARMACO ANTI-EPILESSIA Premiati gli studi di un docente cagliaritano Una nuova frontiera nella cura dell'epilessia: l'ha aperta Marco Pistis, professore associato di Farmacologia del Dipartimento di Scienze Biomediche dell'Università cagliaritana. Il suo progetto sperimentale è risultato vincitore di un bando promosso dalla Fire (Fondazione italiana ricerca epilessie) e dall' Aice (Associazione italiana ricerca sull'epilessia). Martedì prossimo, 13 novembre, la consegna del premio a Roma nella sede del Senato al termine di un convegno patrocinato dalla Commissione Igiene e Sanità di Palazzo Madama.  IL BANDO La Fire e l'Aice hanno finanziato congiuntamente progetti di ricerca utilizzando i fondi raccolti attraverso il cinque per mille e donazioni volontarie. Il bando era destinato a ricercatori impegnati a sviluppare nuovi studi sulle forme di epilessia resistente ai trattamenti farmacologici.  «Il progetto vincitore», spiega una nota, «ha l'obiettivo di caratterizzare i meccanismi di una specifica forma di epilessia (l'epilessia notturna del lobo frontale) e di testare un nuovo trattamento farmacologico». Secondo le più recenti statistiche, un'elevata percentuale di pazienti affetti da questa malattia (più di un terzo) non risponde adeguatamente alle terapie antiepilettiche convenzionali. «È quindi urgente - prosegue la nota - individuare nuove strategie terapeutiche potenzialmente utili anche per altre forme di epilessia». TRATTAMENTI Recentemente il gruppo di ricerca coordinato dal professor Marco Pistis ha individuato dei meccanismi molecolari che potrebbero rappresentare un obiettivo per lo sviluppo di nuove cure per questa forma di epilessia. L'efficacia dei nuovi trattamenti, a base di farmaci già in commercio per altre patologie non neurologiche, sarà testata non solo su modelli animali della malattia, cioè topi geneticamente modificati portatori della stessa mutazione che nell'uomo è responsabile della malattia, ma anche sui pazienti.  I PAZIENTI Una parte molto importante del progetto è lo studio clinico, condotto in collaborazione con il gruppo diretto da Francesco Marrosu, professore ordinario di Neurologia al Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Clinica e Molecolare. In parallelo agli studi sugli animali, verrà, infatti, studiata l'efficacia del trattamento farmacologico aggiuntivo in un gruppo di pazienti con epilessia farmacoresistente seguiti dalla Neurologia dell'Azienda Mista Ospedaliero-Universitaria di Cagliari. __________________________________________ Unione Sarda 10 nov. ’12 UNISS: IL NUOVO DESTINO DELLE CELLULE Sassari nel team Un mese fa il Nobel per la Medicina è stato assegnato a John Gurdon e a Shinya Yamanaka per le loro ricerche sulla possibilità di riprogrammare le cellule già differenziate e trasformarle in qualunque tipo di tessuto o organo. Quello che era solo un sogno sta diventando sempre più reale: ringiovanire un organismo o modificarne alcune parti. È sulla stessa linea la scoperta annunciata ieri a Bologna, definita, per colpire l'immaginazione, “la macchina del tempo” delle cellule. A differenza del metodo sperimentato da Yamanaka, basato sui vettori virali, questa nuova metodica stimola le cellule al punto di trasformarle: le cellule riprogrammate hanno dimostrato la stessa efficienza di trasformazione di cellule staminali embrionali. E la novità della scoperta risiede proprio qui: anziché riportare “indietro nel tempo” una cellula adulta non staminale fino a farla ridiventare una cellula embrionale i ricercatori italiani sono riusciti a far comportare questa cellula adulta come una staminale embrionale. Lo studio, al quale ha fornito un contributo rilevante il Dipartimento di Scienze biomediche dell'Università di Sassari (Margherita Maioli, Sara Santaniello, Gianfranco Pigliaru e Sara Gualini), è stato pubblicato su “Cell Transplantation”. La chiave della scoperta è la tecnologia REAC (Radio Electric Asymmetric Conveyer o Convogliatore Radio Elettrico Asimmetrico) in grado di produrre i deboli campi elettrici utilizzati negli esperimenti, brevettata da Salvatore Rinaldi e Vania Fontani dell'Istituto Fontani di Firenze. «Questa tecnologia - spiega Rinaldi - induce in modo sicuro, cioè senza rischio tumorale, cambiamenti nel destino cellulare legati alla modulazione dell'espressione genica e della rete di segnali molecolari e fisici. Per la prima volta la riprogrammazione delle cellule adulte è stata ottenuta grazie a un campo radioelettrico a bassissima intensità». Le finalità sono estremamente ambiziose e riguardano la medicina rigenerativa per la cura di malattie gravi, in grado cioè di riparare organi o tessuti utilizzando cellule della pelle. Andrea Mameli ___________________________________________________________ Sanità News 06 nov. ’12 SOLO 8 REGIONI SONO IN REGOLA CON I LEA I l rapporto del ministero della Salute sui Lea relativi all’anno 2010, pubblicato pochi giorni fa sul sito del ministero evidenzia che sono soltanto otto le regioni promosse: Lombardia, Emilia Romagna, Umbria, Toscana, Marche, Veneto, Piemonte, Basilicata. Due regioni vengono “rimandate “ con debito perchè hanno comunque mostrato miglioramenti: Liguria ed Abruzzo. Bocciate senza appello Molise, Lazio, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Praticamente tutte quelle coinvolte nei piani di rientro dal deficit sanitario. Dal rapporto sono escluse Valle d’Aosta, Bolzano e Trento, Friuli Venezia Giulia e Sardegna perchè queste aree non rientrano nella ripartizione del 3 per cento del fondo sanitario nazionale destinato a chi rispetta i Lea. Il rapporto prende in considerazione tra l’altro le coperture vaccinali obbligatorie e quelle raccomandate; l’assistenza agli anziani ed ai malati cronici; la percentuale dei parti cesarei. Insomma tutte quelle prestazioni che rientrano nei piani di prevenzione e di assistenza del ministero della Salute e che vanno garantite ai tutti i cittadini gratuitamente o in alcuni casi dietro pagamento di ticket. Sulle vaccinazioni raccomandate per la primissima infanzia (morbillo, parotite, rosolia) è evidente la disuguaglianza tra la copertura vaccinale ottimale in quasi tutte le regioni, oltre il 90 per cento della popolazione interessata, e invece l’81 per cento della Campania e l’83 della Calabria oltretutto in forte diminuzione rispetto agli anni precedenti. Desta preoccupazione anche il dato sulla vaccinazione antinfluenzale per l’anziano in forte diminuzione nel 2010 rispetto agli anni precedenti: dal 62 del 2008 al 57,29 del 2010 in Lombardia; dal 68 del 2008 al 58,18 del 2010 in Campania; dal già scarso 70 per cento del 2008 al 55,83 del 2010 in Calabria. Un dato che quest’anno rischia di peggiorare a causa del ritiro precauzionale di due tipi di vaccino antifluenzale dal mercato a campagna di prevenzione già iniziata. Ancora insufficiente la diffusione degli screening per la diagnosi precoce dei tumori del collo dell’utero, del seno e del colon. Sulla base di un punteggio ideale dove il voto 9 indica una copertura sufficiente di test diagnostici sul territorio soltanto Emilia Romagna, Toscana, Veneto e Umbria registrano un numero sufficiente di test preventivi. Bocciate sul tema prevenzione Sicilia, Calabria, Puglia, Lazio, Campania. ___________________________________________________________ Unione Sarda 11 nov. ’12 CORSO DI FOLLIA, È LITE FRA SGARBI E DEL ZOMPO VEDI LA FOTO Lui sostiene che la follia è una scelta di libertà, una via di fuga da un mondo dove si può esistere solo in un certo modo. Lei precisa che la follia è una malattia che reca con sé un'indicibile sofferenza. C'è un'idea filosofico-romantica e una medico scientifica. Un'idea per cui la follia è l'impossibilità di adattarsi a un mondo che ci chiede di rinnegare noi stessi, e una per cui è impossibile compiere scelte consapevoli. E avrebbero potuto dialogare, Vittorio Sgarbi e Maria Del Zompo. Del resto entrambi, il critico e la farmacologa, si trovavano l'altro ieri alla Fiera di Cagliari per il corso completo di Follia dell'Università di Aristan. Un luogo appropriato per discutere di follia in maniera inusuale. Certo non era facile dialogare (impossibile, dirà lei) dopo un monologo di oltre due ore, un profluvio di trivialità, un personale elenco di folli (Celentano, Grillo, Andreotti, Casini, Montezemolo, Gesù e altri) e, qua e là, osservazioni condivisibili: che ce ne facciamo di un centinaio di cacciabombardieri a 127 milioni l'uno con la miseria che dilaga? A un certo punto lui lancia il microfono per aria (non prende lezioni), lei abbandona l'aula (il confronto è un'altra cosa). Parlano due lingue diverse, il deputato e la professoressa.  Lui pontifica: parlare di follia è ciò che più piace a una mente libera, la follia esalta la libertà di pensiero. Un po' lo diceva anche Bertrand Russel: l'equilibrio tranquillizza, ma la pazzia è molto più interessante. Lui cita Ariosto ed Erasmo da Rotterdam, ma poi vira verso derive meno letterarie. Gli esseri umani vivono in una condizione di servitù, dice, per esempio lavorano e non c'è nulla di più contrario alla natura umana del lavoro. Compila il suo catalogo di folli: quel crisantemo di Monti, quel pazzo puro di Cossiga, il giudice Caselli, «un pazzo con una grande fantasia». Lei legge le parole di una psichiatra americana affetta da sindrome bipolare: la fatica enorme della sua malattia, ma anche la profonda sensibilità che essa le dona.  Eppure tra l'idea di follia come potere di dire di no alla società, che stabilisce chi dobbiamo essere e cosa dobbiamo fare, e quella della follia come malattia c'è molta più sintonia che distonia. Come ha detto Gianluigi Gessa, nel backstage della lezione, i matti veri non sono liberi, la malattia decide per loro. Vero è, però, che il mondo e la sua idiosincrasia per la diversità hanno il potere di fare ammalare le persone. Folle, dunque, non è Tizio o Caio, ma l'essere umano che anziché spalancare le porte al pensiero, innalza, con diabolica perseveranza, inespugnabili prigioni mentali. Franca Rita Porcu ___________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 nov. ’12 EPATITE C, CON NUOVO FARMACO GUARIGIONI SARANNO TRIPLICATE BOSTON Contro l’epatite C, la più insidiosa malattia del fegato, che nel mondo colpisce due persone ogni ora e rappresenta la prima causa di decesso per malattie infettive trasmissive, arriva anche in Italia boceprevir, il primo di una classe di farmaci inibitori della proteasi, che agisce direttamente sul virus. L’annuncio ufficiale è stato dato nel corso del congresso American Association for the Study of Liver Diseases che si sta svolgendo a Boston in questi giorni. Per più di un milione e mezzo di italiani con infezione cronica da virus dell’epatite C la buona notizia è che il farmaco ha superato con successo l’esame della Commissione e del Consiglio di amministrazione dell’Aifa. L’Agenzia ha tuttavia disposto che il suo utilizzo sia monitorato attraverso registri che saranno attivati. Grazie all’azione diretta sul virus, il più temibile perché più refrattario ai trattamenti, il farmaco antivirale raddoppia e addirittura triplica la percentuale di guarigione, aprendo la strada all’eradicazione definitiva del male. Una malattia che può essere contratta anche con tatuaggi, piercing, manicure o pedicure se non effettuati in ambienti che rispettano un’igiene rigorosa. ___________________________________________________________ Corriere della Sera 08 nov. ’12 OSPEDALI E POSTI LETTO TAGLI RECORD IN MOLISE LAZIO E TRENTINO Il ministero: trentamila da eliminare ROMA — Trentamila letti in meno negli ospedali italiani. Assume concretezza la prospettiva, delineata dal decreto sulla revisione della spesa (spending review) della scorsa estate. Entro il 31 dicembre le Regioni dovranno indicare dove e come effettueranno la riduzione. Si dovrà passare nel prossimo triennio 2013-2015 a un rapporto di 3,7 letti ogni mille abitanti dall'attuale 4,2, la media nazionale. Lo 0,7% devono essere dedicati a riabilitazione e lungodegenza di malati che hanno superato la fase acuta. Alcune Regioni, come Emilia Romagna, Veneto, Toscana o Lombardia, hanno già avviato questa operazione, altre invece devono cominciare quasi da zero e non a caso sono quelle con maggior deficit, sotto piano di rientro. Il Molise è quella che deve ridurre di più (-33,2%), seguita dalla Provincia autonoma di Trento (-20,9%) e Lazio (-19,9%). Si marcia dunque verso un sistema più moderno. Le parole chiave: meno ospedali (molto costosi e fonte di sprechi), più servizi territoriali, più appropriatezza. I criteri in base ai quali procedere sono indicati in uno schema di regolamento sugli «standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi dell'assistenza ospedaliera». Salvo sorprese verrà esaminato la prossima settimana dalla Conferenza Stato-Regioni, per l'approvazione. Il documento è pronto, frutto del lavoro del ministero della Salute attraverso l'agenzia per i servizi sanitari (Agenas) diretta da Fulvio Moirano, che ha in mano anche il cosiddetto programma per la valutazione delle performance delle singole strutture. Più che di sforbiciata, è corretto parlare di riconversione visto che i letti non verranno aboliti ma riutilizzati per funzioni diverse ad esempio residenze per anziani, lungodegenza. Il taglio non sarà attuato attraverso tanti piccoli interventi, un posto in meno lì, due in meno lì, secondo la logica della mediazione, specie nelle università. Spariranno interi primariati-doppione (oggi si chiamano unità operative complesse) selezionati in base al bacino di utenza e al rendimento. Questo a garanzia dei pazienti. Più una struttura accumula esperienza e casistica, più è sicura, soprattutto per quanto riguarda le alte specialità. Centri trapianti, cardiochirurgia, neurochirurgia. In molte realtà sono troppi e lavorano poco perché devono spartirsi i malati, a discapito della qualità. Per alcune specialità (ad esempio by pass coronarico) vengono fissati dei limiti al di sotto dei quali non si dovrebbe scendere: almeno 150 l'anno. A Roma, tanto per fare un esempio, solo una cardiochirurgia delle 8 presenti rispetta questo ritmo. In Lombardia 10 su 18. «Chiudere i primariati? Un'impresa, spesso non ci si riesce, si incontrano molte resistenza politiche», racconta Giuseppe Zuccatelli, oggi subcommissario della Sanità abruzzese, intervenuto su questo tema al convegno organizzato a Roma da «Meridiano Sanità» sulla salute in Italia in tempo di crisi economica. «Bisogna raggiungere l'indicatore sui letti stabilito dal ministero attraverso l'eliminazione di reparti interi, unico modo per ottenere risultati duraturi ed efficaci sul piano economico e di recupero di personale. Infermieri e ausiliari da utilizzare altrove e per coprire il turn over», analizza Zuccatelli. Dunque non tagli lineari, ciechi o effetto di spinte e pressioni. Lo schema di regolamento suddivide gli ospedali in tre categorie (hub, spoke e integrativi) in base a grandezza e strutture. Si insiste sull'indice di occupazione dei posti letto che deve attestarsi su 80-90%: in reparti di 30 posti, ne devono essere occupati in media 26. Le misure antisprechi funzionano così. Margherita De Bac mdebac@corriere.it ___________________________________________________________ Corriere della Sera 06 nov. ’12 UNISS: LA FORMULA DELL'IMMORTALITÀ CUSTODITA IN UN'ISOLA GRECA Ikaria: i 90enni sono il doppio della media nazionale A novantasette anni Stamatis Moraitis è ancora lì, a lavorare l'orto dietro casa. A coltivare frutta e verdura. A bere ogni giorno il latte di capra e il fliskouni, il tè delle montagne con foglie di menta. A farsi le sua pennichella pomeridiana. A ritrovarsi con gli amici, vecchietti arzilli pure loro, per giocare. Nel 1976, a Stamatis Moraitis, negli Usa, avevano diagnosticato un cancro ai polmoni. «I medici mi avevano dato al massimo nove mesi di vita», racconta lui al magazine del New York Times. «Ma io sono ancora qui. Loro, i dottori, sono tutti morti». Il «qui» di Moraitis si chiama Ikarìa. Un'isoletta greca nell'Egeo di circa 10 mila abitanti dove l'aria è buona. Le strade un continuo sali-scendi. Le case bianche e basse. Ikarìa è anche una «blue zone». Non per il colore del mare. Ma perché gli abitanti superano con facilità il secolo di vita. «Abbiamo semplicemente dimenticato di morire», racconta una donna di 101 anni a Dan Buettner, giornalista scientifico che si occupa da tempo di longevità. Di «zone blu», nel mondo, ce ne sono poche. Una si trova nell'Ogliastra, in Sardegna. Altre aree sono l'isola di Okinawa, in Giappone, la penisola di Nicoya, in Nicaragua, Loma Linda, in California. Il termine si deve all'italiano Gianni Pes e al belga Michel Poulain quando nel 2000, studiando la longevità nell'Ogliastra, usavano un pennarello blu per segnare le aree ad alta concentrazione di centenari. «L'Ogliastra è la zona dove soprattutto i maschi vivono più a lungo», spiega al Corriere proprio Gianni Pes, ricercatore presso il dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell'università di Sassari. E i fattori sarebbero almeno tre: «L'intensa attività fisica legata alla pastorizia, l'inclinazione elevata del terreno, la distanza dal luogo del lavoro». Poi, certo, l'alimentazione. La scoperta della longevità degli abitanti di Ikarìa è importante «perché il territorio dell'isola e gli stili di vita sono quasi identici a quelli dell'Ogliastra», sottolinea Pes, che ha iniziato a studiare l'isola greca nel 2008-2009 insieme a Poulain e Buettner. I ricercatori hanno controllato la sorte dei nati di Ikarìa tra il 1900 e il 1920. Poi hanno analizzato le cause di morte. Infine hanno trascorso settimane con gli anziani. Scoprendo che gli over 90enni sono più del doppio della media nazionale, che sono meno depressi e presentano tassi di demenza senile ridotti. «Tra le cause di morte, a Ikarìa come nell'Ogliastra — spiega il ricercatore italiano — le malattie cardiovascolari sono all'ultimo posto. Il contrario di quello che succede in Occidente». La mancanza di stress, poi, sembra essere un altro dei fattori che aiutano a raggiungere i cent'anni di vita. «Facciamo sempre la pennichella», ha raccontato Ilias Leriadis, medico del posto. «Eppoi qui il tempo non ha importanza». Quanto al cibo, a Ikarìa si consumano molta maggiorana e salvia, menta e rosmarino, finocchio e artemisia. La colazione è a base di latte di capra, tè o caffè, pane e miele. A pranzo non mancano lenticchie e ceci, patate e verdure. Per cena, invece, si sta leggeri: pane e, di nuovo, latte di capra. E il patrimonio genetico quanto conta? «Poco o nulla», risponde Pes. «Al massimo pesa per il 20-25%, ma uno studio che sto concludendo in questi giorni riduce ulteriormente l'impatto del Dna sulla longevità». Insomma, arrivare a cent'anni resta ancora una questione di stile. Di vita. Leonard Berberi lberberi@corriere.it ________________________________________________________ Repubblica 05 nov. ’12 PERICOLOSE QUELLE TERAPIE CON LE STAMINALI" Il ministero della Salute bocia il metodo Vannoni, Torino, verso il rinvio a giudizio dei 12 indagati ALBERTO CUSTODERO ROMA — «Pericolose per la salute». Il ministero della Salute boccia definitivamente quello che è stato definito il "metodo Di Bella delle staminali". Ovvero, la presunta terapia proposta dalla Stamina foundation di Davide Vannoni, laurea in lettere e filosofia (si auto definisce «neuroscienziato»). E di Marino Andolina, medico coordinatore del "Dipartimento trapianti adulti e pediatrico" presso l'Irccs Burlo Garofalo di Trieste. La loro terapia staminale è stata al centro di una querelle politico -giudiziaria-scientifica nazionale: messi sotto inchiesta dal procuratore torinese Guariniello. Legittimati da due giudici che ne hanno autorizzato la cura su due bambine, Celeste a Venezia, e Smeralda a Catania, entrambe affette da gravissime malattie degenerative. Poi di nuovo stoppati dal Tar, quindi «convenzionati» e accolti in una stanza nell'Asl "Spedali civili" di Brescia. Il loro inserimento in questa struttura sanitaria pubblica bresciana aveva fatto scattare un'inchiesta da parte di una commissione voluta dal ministro della Salute Balduzzi composta da Iss, Nas e Aifa con il fine di riportare ordine nella caotica vicenda. Ora, finalmente, è arrivata l'ultima relazione della Commissione ministeriale redatta da uno dei massimi esperti di biologia delle cellule staminali in Italia, Massimo Dominici. Le sue conclusioni sono senz'appello. Nanni Costa, dell'Iss (e presidente del Comitato trapianti del Consiglio d'Europa), ne spiega, in sintesi, i principali punti. «Il metodo Stamina — dice Costa — è pericoloso per la salute perché a volte ai pazienti è inoculato materiale biologico prelevato dallo stesso malato. Ma altre volte vengono iniettate cellule prelevate da terze persone, con il rischio di contagio batterico evirale che ciò comporta». «Le metodologie di preparazione dei preparati— aggiunge —sono grossolane, con errori marchiani, e del tutto fuorilegge. I laboratori sono in luoghi non adatti. Sui vasetti che conservano i tessuti prelevati ci sono etichette scritte a matita, per lo più incomprensibili. Quelli di Stamina, poi, hanno detto che con le loro cellule vogliono fare alcune cose, in realtà quelle cellule possono avere effetti collaterali imprevisti. Hanno fatto confusione con i brevetti e non hanno mai pubblicato un risultato delle loro ricerche nelle pubblicazioni scientifiche». Il documento di Dominici consente ora al procuratore Guariniello, che ha chiuso l'indagine preliminare, di procedere al rinvio a giudizio dei 12 indagati che avevano proposto le loro cure a una settantina di persone. Il laboratorio torinese delle cellule staminali di Vannoni, Andolina e soci «era ricavato — scrive Guariniello — in uno scantinato abusivo gestito da due ucraini». Ma si avvalevano anche di un altro scantinato nella repubblica di San Marino «nell'intento palese di sfuggire ai controlli delle autorità italiane». Per convincere ad accettare il loro metodo, gli esperti della Stamina, onlus senza fine di lucro (che, però, si faceva pagare dai 7 ai 50mila euro), mostravano ai familiari dei malati i video «di un ballerino russo affetto da Parkinson che si alzava dalla carrozzella e tornava a ballare». «Di una giovane paralizzata dalla Sla che riprendeva a camminare». «Di un uomo che guariva da una grave forma di psoriasi alle mani». Ma si trattava solo di un inganno: di qui, la contestazione da parte del procuratore torinese del reato di associazione per delinquere e truffa. __________________________________________________________________ MV 06 nov. ’12 LA RIABILITAZIONE È VIRTUALE Salute Le novità hi-tech per il recupero funzionale neurologico o di un arto dopo un trauma Terapie in ambienti 3D, robotica e tecnologie della Nasa, come l'antigravitetà dl Cristina Cimato Realtà virtuale e tecnologie mutuate dall'ingegneria aerospaziale vengono in aiuto a chi deve effettuare una riabilitazione neurologica o solo ripristinare il corretto movimento di un arto. Nel recupero funzionale dopo un trauma o una malattia sono sempre più spesso utilizzati strumentazioni tecnologiche e simulatori, così da rendere l'esercizio non solo più efficace ma anche più divertente. L'azienda olandese Motek Medical, per esempio, ha messo a punto una gamma di prodotti per la riabilitazione che assomiglia più a videogame di ultima generazione che a strumenti per ricominciare a camminare con una corretta postura o a correre dopo un incidente. Caren è un sistema che crea un ambiente virtuale in cui il paziente si muove su una pedana capace di rilevare il movimento. In aggiunta c'è uno schermo in cui viene proiettato uno scenario dentro il quale il paziente sì trova immerso, proprio come in un videogioco. Un altro strumento ha il compito di analizzare in tempo reale tutti i parametri relativi all'andatura ed è utilizzato principalmente per la riabilitazione di tipo neurologico, ortopedico, muscoloscheletrico e per le persone anziane che fanno fatica a deambulare. La riabilitazione tecnologicamente evoluta prende in prestito la conoscenza anche dall'ingegneria aerospaziale. Agli Istituti Clinici Zucchi è di recente approdata un'apparecchiatura sviluppata dalla Nasa che ha l'obiettivo di ridurre in modo uniforme il peso del paziente fino all'80%. La struttura di Alter G, un tapis roulant racchiuso all'interno di pareti di plastica, crea una sorta di ambiente con ridotta gravità, grazie a un involucro d'aria nel quale il paziente può correre o camminare a diverse velocità. Questo tapis roulant antigravitario rappresenta un'alternativa alla riabilitazione in acqua, consentendo un recupero funzionale degli arti inferiori, dalla caviglia al ginocchio, grazie all'assenza di peso sugli arti danneggiati. La riabilitazione è indicata per il postintervento chirurgico, per esempio dopo una ricostruzione del crociato, nel caso di protesi o di frattura di bacino e femore. Un progetto tutto italiano mirato a sfruttare le tecnologie in ambito di riabilitazione motoria è stato appena premiato alla terza edizione di Start-Cup, competizione promossa dal Cnr. Ideato dai ricercatori dell'Istituto Italiano di Tecnologia Jody Saglia e Lorenzo Masia, Rehab Tech- fornisce uno strumento capace. di misurare in modo continuo e oggettivo il recupero motorio del paziente e adattare l'esercizio terapeutico alle condizioni di disabilità Tech ha a disposizione già due prodotti per la riabilitazione motoria, un robot per la riabilitazione della caviglia e uno per quella del polso. «Una macchina e un software con cui il paziente interagisce, permettono di registrare posizioni e grandezze, con in più il vantaggio della ripetibilità del movimento», ha spiegato Jody Saglia. «Lo strumento consente di effettuare esercizi avanzati rispetto alle macchine tradizionali, con traiettorie e obiettivi da centrare su uno schermo». In un'ottica di sviluppo, il progetto punterà alla telemedicina, così da dare la possibilità al paziente di utilizzare i robot a casa propria, con la supervisione via rete di personale specializzato e sulla realtà virtuale. «In collaborazione con un gruppo di ricerca dell'Iit, integreremo il sistema all'interno della realtà virtuale e tridimensionale», ha concluso Saglia. (riproduzione riservata) __________________________________________________________________ TST 07 nov. ’12 E’ PARTITO MAXI-PROGETTO CONTRO IL CARCINOMA AL SENO Dalla cellula al sistema: i progressi degli studi sui "tripli negativi" Ogni cellula è un microcosmo armonico. Poi, , quasi mai all'improvviso, il suo equilibrio interno si altera e compete alla ricerca scientifica riconoscere e «fotografare» i primissimi segnali di un cambiamento che, se non ostacolato, determina la trasformazione della cellula da sana a tumorale. «Firme molecolari» del tumore: così Giannino Del Sal chiama questi segnali e qualunque tratto molecolare che caratterizzi le singole fasi della progressione della malattia. Direttore del Dipartimento di scienze della vita dell'Università di Trieste e responsabile di una delle équipe del Laboratorio Nazionale de] Consorzio Interuniversitario per le Biotecnologie, Del Sal è uno studioso di cancro al seno— il tumore più frequente nelle donne - e si occupa di quel 2O% che rientra sotto la definizione di carcinomi «tripli negativi», tumori molto aggressivi e con una particolare propensione allo sviluppo di metastasi. E a lui che nel 2010 l'Airc ha affidato il coordinamento di un progetto quinquennale, finanziato con le donazioni del 5 per mille: si tratta di una squadra di 88 ricercatori, in 10 unità. operative, che mira a identificare nuovi strumenti diagnostici, prognostici e terapeutici per questo tipo di tumori. Perché «tripli negativi»? La definizione si riferisce al fatto che le cellule di questo sottogruppo di carcinomi non esprimono tre dei classici bersagli a cui mirano le attuali terapie: i recettori per gli estrogeni, quelli per il progesterone e la proteina Her2, appartenente alla famiglia dei recettori per il fattore di crescita epidermico umano Egf. «Per questi tumori non esistono al momento terapie mirate spiega Del Sal -. L'unica arma a nostra disposizione è la chemioterapia, che funziona bene e in circa la metà dei casi migliora le condizioni cliniche delle pazienti. Purtroppo, però, come accade per molti pazienti oncologici, anche alcune di queste donne possono con il tempo sviluppare forme di resistenza ai trattamenti». Colpire al cuore. «Le metastasi sono la principale causa di morte per tumore. Allo stato attuale i fattori che promuovono l'aggressività tumorale e il processo metastatico sono solo in parte compresi. Noi ci proponiamo di studiarli. Per esempio intendiamo affinare l'identikit di quelle cellule che, colpevoli dell'insorgenza del cancro, delle recidive e della resistenza ai trattamenti, sono considerate il cuore della malattia». Del Sal si riferisce alle cellule staminali tumorali e in particolare alle staminali tumorali della mammella. A partire da modelli cellulari studia la capacità delle cellule tumorali di perdere forma e legami con il tessuto di appartenenza, di assumere tratti delle staminali e la propensione a invadere altri organi. Il metodo. Il team italiano sta seguendo tre linee di ricerca principali: potenziare l'efficacia dei trattamenti chemioterapici che già funzionano, riuscire a predire quali pazienti possono trarne reale beneficio dalle terapie, individuare nuove molecole capaci di ostacolare il percorso metastatico. «I nuovi trattamenti potrebbero essere somministrati da soli oppure in combinazione con altri. A questo proposito ci stiamo occupando anche di "drug repositioning", vale a dire di individuare tra i farmaci già efficaci per la cura di altre malattie quelli dotati' di meccanismi d'azione ancora inediti e utili al fine di contenere l'aggressività dei carcinomi tripli negativi». Le firme molecolari. E ormai chiaro che molti dei segnali della trasformazione tumorale provengono da fattori che, quando tutto va per il meglio, contribuiscono a tutelare la salute della cellula, controllandone la proliferazione, il funzionamento e la comunicazione con l'ambiente esterno, fino a programmarne la morte. A determinare il comportamento cellulare maligno è il modo in cui alcuni di questi elementi, alterati o fuori controllo, agiscono in concerto. «Come ricerca di base ci stiamo concentrando, tra i vari aspetti, sulle funzioni delle forme mutate del fattore p53. Le mutazioni a carico del rispettivo gene, infatti, sono molto frequenti nei tumori umani e in particolare in quelli mammari. Stiamo inoltre analizzando altri attori molecolari, come Notch, Pini. o il soppressore tumorale Sharpl». L'obiettivo più vicino. Nel 2013 si chiuderà il terzo anno di lavoro del progetto Airc e si dovrà valutare come trasferire alla clinica i risultati raggiunti. A oggi il team di Giannino Del Sal ha già a disposizione una manciata di nuovi marcatori, tra proteine e microRna, in grado di caratterizzare le diverse tipologie di carcinomi tripli negativi. «Abbiamo già avviato, con risultati preliminari promettenti, le indagini per stabilire se la presenza o l'assenza di espressione di questi marcatori permette di prevedere quali pazienti risponderanno alla chemioterapia e quali no. Non mancano all'appello alcune molecole, che promettono di essere principi attivi efficaci nel fermare la malattia e che ora sono al vaglio della sperimentazione». ___________________________________________________________ Sanità News 10 nov. ’12 IN SARDEGNA SI PUO’ PAGARE IL TICKET SANITARIO ANCHE ALLA POSTA Roma, 02 nov. - In Sardegna la sanita' si avvicina sempre piu' al cittadino. La Regione sarda fa da apripista nell'offrire un nuovo servizio all'utente, ovvero la possibilita' di pagare nei 251 uffici postali di Sportello Amico, sparsi in tutta l'Isola, il ticket per le prestazioni specialistiche del Sistema sanitario regionale e per il pronto soccorso. Il servizio e' attivo gia' dal 1 settembre su tutte le 11 aziende sanitarie e ospedaliere della Sardegna. Il tutto grazie alla Convenzione quadro tra Regione, Poste Italiane firmato a Cagliari lo scorso 21 maggio e previsto nella delibera 31/3 del 2011, ''Interventi di miglioramento del servizio di riscossione del ticket sanitario e migrazione verso un Centro unico di prenotazione in versione web''. ''Questo nuovo servizio - spiegano il presidente della Regione Ugo Cappellacci e l'assessore della Sanita' De Simona De Francisci - si inquadra nell'ambito degli interventi finalizzati a semplificare il rapporto tra il cittadino e il Servizio sanitario regionale. Si rivelera' particolarmente utile nella nostra regione, considerato che chi vive in paesi lontani dagli ospedali potra' pagare il ticket nell'ufficio postale vicino a casa, senza piu' essere costretto a trasferte nei centri principali dell'Isola. Stiamo lavorando contestualmente per consentire ai sardi di poter scegliere o cambiare il medico di famiglia on line, al Fascicolo sanitario elettronico, alla prenotazione on line delle prestazioni sanitarie, e altri servizi presto attivi''. La Regione Sardegna e' l'unica regione in Italia ad aver attivato questo servizio in tutto il suo territorio (nel resto del Paese e' attivo solo in singoli Comuni, come Firenze e Cosenza). Questa capillarita' e' stata resa possibile grazie al Sistema informativo regionale Sisar (Sistema informativo integrato sanita' regionale), che ha permesso alla Regione Sardegna di essere la prima in Italia a dotarsi di un sistema di prenotazione unificato a livello regionale (in fase di potenziamento con la versione web); di avvalersi dell'integrazione tra il sistema di pagamento CUP/ticket regionale Sisar e tutti i 27 Pronto soccorso della Regione, dotati anch'essi di un unico sistema Sisar. Dal 1° settembre dunque, grazie all'integrazione tra il Sisar e Poste Italiane, ogni cittadino puo' procedere al pagamento del ticket comunicando semplicemente all'operatore postale il proprio codice fiscale e il numero di prenotazione. Il codice di prenotazione e' stampato sul foglio rilasciato dallo sportello o e' comunicato telefonicamente dall'operatore del Cup. La commissione a carico del cittadino richiesta da Poste Italiane per ogni operazione di prenotazione di 1,30 euro esenti Iva. I ticket sanitari che vengono pagati annualmente in Sardegna sono circa 1.110.000 (dati 2011). Le strutture pubbliche dove si puo' pagare il ticket nel territorio regionale sono circa un centinaio, le cui informazioni sulla dislocazione degli sportelli sono reperibili sui siti web delle Asl e su www.sardegnasalute.it. Nei 251 uffici postali di Sportello Amico e' possibile il pagamento delle prestazioni di pronto soccorso (codice bianco e codice verde) erogate in un qualsiasi Pronto soccorso regionale e di quelle specialistiche del Sistema sanitario regionale (visite, prestazioni di diagnostica strumentali, esami di laboratorio), prenotate al Cup regionale (1533, sportelli CUP ecc.) ed erogate in una qualsiasi struttura sanitaria pubblica regionale (non e' possibile pagare le prestazioni erogate dai centri convenzionati, ne' le prestazioni erogate in libera professione). ___________________________________________________________ Corriere della Sera 07 nov. ’12 TROPPI FARMACI A MISURA D'UOMO, «QUOTE ROSA» NEGLI STUDI CLINICI Una pastiglia per il mal di testa, un diuretico per curare l'ipertensione, un antistaminico per tenere a bada un'allergia: farmaci comunissimi che possono rivelarsi pericolosi per le donne. Molto di più che per gli uomini. I diuretici antipertensivi, per esempio: secondo uno studio olandese dell'Università di Rotterdam provocano quattro volte più effetti collaterali nel sesso femminile che in quello maschile, a partire da nausea e confusione mentale fino al coma. E lo stesso vale per il warfarin: un anticoagulante, usato per prevenire trombosi e ictus, colpevole di determinare un maggior numero di emorragie nelle donne che nell'uomo. Anche gli antipsicotici, prescritti per curare depressioni gravi, disturbi bipolari (dove si alternano episodi maniacali con crisi depressive profonde) e stati di ansia, provocano molti disturbi collaterali nelle donne. Per finire con gli antistaminici che, su queste ultime, hanno un effetto soporifero particolarmente accentuato. Il motivo? Sono tutti farmaci sperimentati per lo più nei maschi che biologicamente sono molto diversi dalle femmine. E quando vengono prescritti alle donne possono rivelare effetti inaspettati e pericolosi. È la discriminazione di genere negli studi clinici, quegli studi che dovrebbero verificare efficacia e sicurezza di una cura. Le donne non sono amate da certi ricercatori, quando vogliono sperimentare rapidamente gli effetti di una medicina sull'organismo umano: le donne hanno fluttuazioni ormonali mensili che interferiscono con il metabolismo dei farmaci, possono rimanere incinte e non è etico esporre il feto ai potenziali danni di un composto chimico in sperimentazione e, in menopausa, cambiano completamente la loro biologia. Meglio l'uomo. Soprattutto quando un'azienda farmaceutica vuole mettere in commercio in tempi rapidi un prodotto e non spendere troppi soldi nelle verifiche cliniche. Ora la situazione sta cambiando e molte associazioni, come ha appena ribadito il quotidiano inglese Daily Mail, stanno promuovendo l'ingresso delle donne negli studi clinici. L'obiettivo è sperimentare i farmaci tenendo conto delle peculiarità del sesso femminile: il peso corporeo per esempio (come si fa a somministrare una medicina ai dosaggi standard sperimentati sull'uomo quando una donna pesa molto meno?), i recettori che mediano l'effetto delle medicine (che dipendono dagli ormoni femminili), il tessuto adiposo più abbondante (molte molecole si legano ai grassi e hanno un effetto più duraturo), un rene che elimina più lentamente i farmaci (che quindi viaggiano più a lungo nell'organismo e aumentano le probabilità di effetti collaterali, nelle donne, appunto). Ma rimangono altri problemi da risolvere. Per esempio: come valutare gli effetti collaterali di farmaci, come gli antidepressivi, sulle donne incinte? Questi farmaci possono provocare aborti, parti prematuri, problemi di crescita per i neonati, secondo quanto hanno evidenziato i cosiddetti studi retrospettivi, condotti dopo che i farmaci sono entrati in commercio. Ma non basta, la ricerca va ripensata. A favore delle donne. Adriana Bazzi abazzi@corriere.it ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 06 nov. ’12 CON LA MEDICINA DI GENERE PIÙ RISPARMI E OCCUPAZIONE Lucilla Vazza «Promuovere la salute femminile è una missione impegnativa. Per questo l'associazionismo è uno dei terreni più adatti su cui far crescere progetti concreti, laddove gli enti pubblici richiedono tempi molto più lenti». Flavia Franconi, docente di farmacologia e da anni promotrice della medicina di genere, spiega così l'impegno che scienziati, economisti, ma anche persone semplicemente sensibili all'argomento portano avanti nella ricerca di soluzioni terapeutiche, ma non solo, a misura di donne. «Nel gruppo Giseg per la promozione della salute di genere, di cui sono presidente, siamo riusciti in poco tempo a portare avanti diverse iniziative parlando a target molto ampi. Attraverso la comunicazione sul web, con un linguaggio molto semplice, abbiamo realizzato, per esempio, una campagna sull'incontinenza femminile, che provoca disagi e imbarazzi in una notevole percentuale di over 45, ma che nemmeno è riconosciuta come patologia invalidante e i cui farmaci non sono rimborsabili dal Ssn». Ma la medicina di genere, in tempi di spending review della sanità pubblica, possiamo permettercela? «La salute attenta ai generi produce risparmi – continua Franconi –, perché permette di spendere meglio, dosando correttamente i medicinali, scegliendo quelli giusti. Inoltre, i Paesi più avanzati ci dimostrano che le politiche di genere producono occupazione». «Oggi negli ospedali, ma non solo, parlare di salute di genere non è più qualcosa di insolito - puntualizza Francesca Merzagora, presidente dell'Osservatorio nazionale sulla salute della donna -. Quando è nata la nostra iniziativa sentivamo il bisogno di colmare una lacuna di informazione rispetto alla salute femminile e con l'istituzione dei "bollini rosa" per gli ospedali più a misura di donna abbiamo misurato i passi avanti concreti delle aziende sanitarie». Un esempio è il numero crescente dei presidi che aderiscono a iniziative come "Ospedali porte aperte" di Onda, con l'erogazione di servizi gratuiti rispetto a una particolare patologia. Siamo ancora lontani dai livelli di eccellenza dei Paesi nordeuropei, però qualcosa si muove. Lo dimostra l'impegno della Sif, Società italiana di farmacologia, che quest'anno conferirà borse di studio del valore di 30mila euro per la "gender innovation" in campo farmacologico. Così come lo dimostra il cambio di mentalità nelle politiche di prevenzione al femminile, che non parlano più solamente di salute riproduttiva, ma spostano il focus sulle patologie cardiocircolatorie, sulle cronicità o sulle malattie respiratorie, in cui i livelli di mortalità delle donne sono in crescita costante. Nel 2013, l'Istituto superiore di sanità metterà a punto le prime linee guida di genere sulle malattie cardiovascolari, aprendo così le porte principali alla medicina di genere. Ma il ruolo del non profit resterà fondamentale: «La crisi chiede alle associazioni più servizi e meno teoria – chiarisce Annamaria Mancuso, fondatrice di Salute Donna Onlus, in prima linea sulla prevenzione dei tumori –: anche nell'associazionismo è tempo di spending review». ___________________________________________________________ Sanità News 08 nov. ’12 UNA DENUNCIA AL GIORNO PER L'E-COUPONING SANITARIO Una denuncia al giorno dei consumatori per disservizi riguarda le prestazioni sanitarie e di benessere comprate sul web. E' quanto emerge dai dati 2012 di Cittadinanzattiva. "In totale sono circa 9 mila gli esposti arrivati e di questi, il 4% (360), ovvero uno al giorno, è una segnalazione dei consumatori per casi che riguardano il mondo della salute online. Il 50% di queste denunce ha come oggetto il sistema dei gruppi d'acquisto online, con in testa Groupon e Groupalia", spiega Isabella Mori, responsabile dei Progetti integrati di tutela di Cittadinanzattiva-Tribunale del malato. Groupon e Groupalia sono due siti specializzati che offrono a prezzi scontati beni e servizi con la modalità dell''e-couponing' (distribuzione di coupon e buoni sconto). A collaborare con queste piattaforme ci sono medici che le utilizzano per farsi conoscere e promuovere il proprio lavoro sulla rete offrendo tariffe a basso costo. "Anche se un 4% di segnalazioni sembra un dato non sostanziale - precisa Moro - è però cresciuto di colpo in un solo anno. Infatti, prima del 2011 era pari a zero". Le segnalazioni arrivate all'associazione vanno dalla pubblicità ingannevole ai mancati rimborsi, dai medici privi di autorizzazioni all''overbooking', ovvero l'eccesso di prenotazioni. "Ma ci sono state anche denunce per prestazioni di scarsa qualità - spiega l'esperta - abbiamo utenti che hanno acquistato pacchetti completi per una visita dal dentista e invece, una volta nello studio, hanno scoperto che c'era solo una blanda pulizia dei denti. Oppure, le tariffe erano diverse da quelle pubblicizzate o la pulizia dei denti era troppo superficiale". Secondo Cittadinanzattiva, il sistema del 'couponing' sul web non va demonizzato, ma "deve rispettare regole certe e trasparenti - sottolinea Mori - perché è un settore che può agevolare il consumatore con la sua politica dei prezzi e proprio per questo deve garantire la massima trasparenza". "Solo dopo il nostro intervento - osserva l'esperta - gli utenti sono riusciti a ottenere il rimborso monetario rispetto al servizio richiesto. Perché in molte occasioni i siti non volevano restituire i soldi, ma dare un altro 'e-coupon' equivalente. E questo è un tipico caso che dimostra come sia necessaria una regolamentazione più specifica per questo settore. Ad esempio - sottolinea - servirebbero meccanismi automatici per riavere indietro quanto speso, se non si è usufruito del buono, o la pubblicità di un numero verde per i consumatori. Infatti, Groupon e Groupalia sono difficili da raggiungere via telefono o mail". A fronte delle tante segnalazioni degli utenti, Cittadinanzattiva si è infatti mossa con alcuni esposti all'Antitrust, come del resto avevano già fatto anche la Federazione degli ordini dei medici (Fnomceo) e l'Associazione nazionale dei dentisti italiani (Andi). "Il medico - afferma Mori - risponde al paziente per la parte professionale e per la qualità e sicurezza della prestazione. Se però questi siti specializzati - avverte - pubblicizzano un prodotto che poi si rivela inappropriato o non adeguato, e l'utente ha pagato in anticipo, il consumatore che si sente frodato può rivalersi sulla società". Nelle denunce raccolte da Cittadinanzattiva ci sono anche alcuni casi di abuso della professione medica: una volta che l'utente arriva all'appuntamento prenotato, scopre che il professionista manca delle adeguate certificazioni o autorizzazioni. "Non ci sono regole chiare sull''e-couponing' - afferma Mori - il mercato è in grande espansione, ma manca una normativa specifica, per assicurare tutte le garanzie del caso" a chi per utilizza il servizio. "Un primo passo - chiosa l'esperta di Cittadinanzattiva - potrebbe essere la pubblicazione dell'elenco dei medici o professionisti che collaborano con Groupon o Groupalia, e anche una maggiore trasparenza sui periodi in cui poter usufruire dei servizi acquistati online, perché spesso all'utente viene annullato l'appuntamento per 'overbooking' - conclude - dopo che ha già pagato e si è recato, ignaro, allo studio". Se lo strumento del 'coupon' sul web è un fenomeno abbastanza recente per il mercato italiano, i connazionali sembrano cercare sempre di più su internet le risposte ai loro bisogni di salute. Secondo una recente ricerca del Censis, un italiano su tre (32,4%) utilizza la rete per ottenere informazioni riguardanti benessere e malattie. Di questi, il 90,4% effettua ricerche su specifiche patologie, il 58,6% cerca medici e strutture cui rivolgersi, il 15,4% prenota visite ed esami attraverso la rete, il 13,9% frequenta chat, forum e web community dedicate ai temi sanitari per lo scambio di informazioni ed esperienze, il 2,8% (che corrisponde solo allo 0,9% degli italiani) acquista farmaci online. ___________________________________________________________ Sanità News 06 nov. ’12 L’ATTIVITA’ FISICA REGOLARE ALLONTANA LA DEMENZA Un'attivita' fisica regolare potrebbe aiutare i piu' anziani a ridurre le probabilita' di soffrire di demenza. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Stroke ha mostrato che gli anziani non disabili che regolarmente facevano esercizio fisico riducevano il rischio di malattie legate alla demenza vascolare del 40% e il peggioramento cognitivo del 60. Lo studio e' opera dell'Universita' di Lisbona. L'effetto protettivo dell'attivita' fisica avveniva al netto dell'eta', dell'istruzione e dei cambiamenti della materia bianca cerebrale, oltre che della storia diabetica o cardiovascolare del soggetto. "Noi suggeriamo fortemente una attivita' fisica di moderata intensita' di almeno 30 minuti tre volte alla settimana per prevenire il degrado cognitivo", ha spiegato Ana Verdelho, fra gli autori della ricerca. Lo studio ha coinvolto 639 persone di eta' compresa fra 60 e 80 anni che praticavano per almeno 30 minuti al giorno, tre volte alla settimana, ginnastica, una camminata oppure un po' di movimento in bicicletta hysical Activity Prevents Progression for Cognitive Impairment and Vascular Dementia Results From the LADIS (Leukoaraiosis and Disability) Study 1. Ana Verdelho, MD,  2. Sofia Madureira, PsyD,  3. José M. Ferro, MD, PhD, 4. Hansjörg Baezner, MD, PhD,  5. Christian Blahak, MD,  6. Anna Poggesi, MD, 7. Michael Hennerici, MD,  8. Leonardo Pantoni, MD, PhD,  9. Franz Fazekas, MD, 10. Philip Scheltens, MD, PhD,  11. Gunhild Waldemar, MD, DMSc,  12. Anders Wallin, MD, PhD,  13. Timo Erkinjuntti, MD, PhD,  14. Domenico Inzitari, MD and  15. on behalf of the LADIS Study +Author Affiliations 1. From the Department of Neurociences, University of Lisbon, Santa Maria Hospital, Lisbon, Portugal (A.V., S.M., J.M.F.); the Department of Neurology, University of Heidelberg, Klinikum Mannheim, Mannheim, Germany (H.B., C.B., M.H.); the Department of Neurological and Psychiatric Sciences, University of Florence, Florence, Italy (A.P., L.P., D.I.); the Department of Neurology and MRI Institute, Karl Franzens University Graz, Graz, Austria (F.F.); the Department of Neurology, VU Medical Center, Amsterdam, The Netherlands (P.S.); the Memory Disorders Research Unit, Department of Neurology, Copenhagen University Hospital, Copenhagen, Denmark (G.W.); the Institute of Clinical Neuroscience, Göteborg University, Göteborg, Sweden (A.W.); and the Memory Research Unit, Department of Clinical Neurosciences, Helsinki University, Helsinki, Finland (T.E.). 1. Correspondence to Ana Verdelho, MD, Department of Neurosciences, University of Lisbon, Santa Maria Hospital, Av Prof Egas Moniz 1649-028 Lisbon, Portugal. E-mail averdelho@fm.ul.pt Abstract Background and Purpose—We aimed to study if physical activity could interfere with progression for cognitive impairment and dementia in older people with white matter changes living independently. Methods—The LADIS (Leukoaraiosis and Disability) prospective multinational European study evaluates the impact of white matter changes on the transition of independent elderly subjects into disability. Subjects were evaluated yearly during 3 years with a comprehensive clinical protocol and cognitive assessment with classification of cognitive impairment and dementia according to usual clinical criteria. Physical activity was recorded during the clinical interview. MRI was performed at entry and at the end of the study. Results—Six hundred thirty-nine subjects were included (74.1±5 years old, 55% women, 9.6±3.8 years of schooling, 64% physically active). At the end of follow-up, 90 patients had dementia (vascular dementia, 54; Alzheimer disease with vascular component, 34; frontotemporal dementia, 2), and 147 had cognitive impairment not dementia. Using Cox regression analysis, physical activity reduced the risk of cognitive impairment (dementia and not dementia: ?=?0.45, P=0.002; hazard ratio, 0.64; 95% CI, 0.48–0.85), dementia (?=?0.49, P=0.043; hazard ratio, 0.61; 95% CI, 0.38–0.98), and vascular dementia (?=?0.86, P=0.008; hazard ratio, 0.42; 95% CI, 0.22–0.80), independent of age, education, white matter change severity, medial temporal atrophy, previous and incident stroke, and diabetes. Conclusions—Physical activity reduces the risk of cognitive impairment, mainly vascular dementia, in older people living independently. ___________________________________________________________ Corriere della Sera 10 nov. ’12 L'ONCOLOGO PREMIATO«FORBICI MOLECOLARI PER DISTRUGGERE LA CORAZZA DEL MALE» Ippocrate descrisse diversi tipi di tumore. Chiamò i benigni «oncos» e i maligni «carcinos». Celso tradusse il greco «carcinos» nel latino «cancro», che significa anche granchio o gambero. Oggi Stefano Piccolo si ricollega agli antichi maestri greci per scoprire in laboratorio che l'organizzazione cellulare di un tumore si differenzia dai tessuti sani perché non ha uno scheletro, ma crea una corazza al cui interno esprime la diversità maligna. E che «rompendo» tale corazza si può riportare alla norma qualcosa che finora è apparso come invincibile. Vincitore del premio Firc «Guido Venosta» 2012, Stefano Piccolo, padovano, classe 1967, dopo quattro anni all'Howard Hughes Medical Institute dell'università della California a Los Angeles, a Padova è tornato nel 1998 a portare avanti le sue teorie e firmare successi scientifici con il suo team. Prima come ricercatore, oggi come docente di Biologia molecolare e oncologo sperimentale. «Le cellule dei nostri tessuti sani non sono sospese nel vuoto, ma hanno tutta una struttura di sostegno che le avvolge: altre cellule e anche materiale di tipo fibroso, chiamato matrice extracellulare — è la premessa di Piccolo —. Nel cancro l'equilibrio si sbilancia, le cellule tumorali riempiono le cavità, l'organo si destruttura in una architettura aberrante, le cellule nutrici si superattivano e la matrice si indurisce». Come la corazza del granchio. Continua Piccolo: «Noi abbiamo scoperto che tutto questo converge a mandare un segnale, una molecola del nucleo, chiamata Yap o Taz, che rende le cellule del tumore resistenti alla chemioterapia e le fa muovere in giro (metastasi) generando un secondo tumore... Quello che ci piacerebbe provare è attaccare questi segnali da fuori, rinormalizzando l'ambiente intorno al tumore, per esempio, con delle forbici molecolari, rendere il tumore più "morbido"». Aprire cioè la corazza del granchio per colpirlo nelle parti molli. Con Michelangelo Cordenonsi e Sirio Dupont (che firma come primo nome il lavoro su Nature), Piccolo ha compreso che non ci sono solo fattori che viaggiano da cellula a cellula, ma anche altri segnali quali l'architettura dei tessuti: da qui partono messaggi ai geni, si attivano staminali (tumorali se la struttura è tumorale). Rinormalizzando l'architettura si può bloccare il cancro e annullare la proliferazione delle staminali malate. I ricercatori padovani sono partiti da una semplice considerazione: le cellule sono immerse in un ambiente tridimensionale in cui sono continuamente sottoposte a stimoli di tipo meccanico. Solo rispettando le caratteristiche biomeccaniche, come sofficità o durezza di un certo tessuto, è possibile indirizzare lo sviluppo delle cellule staminali verso un certo destino. Per esempio si potrà ottenere nuovo osso solo in un ambiente duro, mentre nuovo tessuto adiposo (grasso) si svilupperà solo in un ambiente particolarmente morbido e così via. Ma come fanno le cellule a trasformare un segnale meccanico in un ordine da impartire nel linguaggio chimico e molecolare? Grazie alla proteina (e quindi al gene) chiamata Yap. A Padova sono riusciti a variare il processo di differenziamento delle cellule staminali, abbassando o aumentando i livelli di Yap. «Un tumore non è un nodulo duro perché è maligno, semmai è vero il contrario: è maligno perché è duro», ribadisce Piccolo. È l'ambiente, l'architettura del tessuto nel suo insieme, a governare il destino della malattia. Mario Pappagallo ___________________________________________________________ Corriere della Sera 10 nov. ’12 DIECI NUOVI FARMACI L'ANNO COSÌ SI «DISARMA» IL TUMORE Lo studio delle terapie che bloccano la malattiadi SIMONE FANTI Non esiste un tumore, ne esistono tanti che colpiscono lo stesso organo. Forse uno per malato. Non si tratta di cellule impazzite, ma sono le nostre stesse cellule sane che trovano una sorta di immortalità forse per difendersi da un ambiente malato. Poi però diventano il problema. E la cura parte dall'essere finalmente arrivati a comprenderne la complessità. Fino ad arrivare a ipotizzare che ogni malato deve avere la propria cura. Personalizzata. Le molteplici armi del cancro sono in realtà ciascuna un'opportunità di cura. Dieci sono le caratteristiche — o meglio proprietà biologiche comuni — di tutti i tipi di cancro e sono proprio le carte vincenti che la ricerca può giocare: l'instabilità genomica, la proliferazione incontrollata, l'angiogenesi, la resistenza all'apoptosi, l'immortalità, il blocco dei geni oncosoppressori, le metastasi, l'infiammazione, il metabolismo e l'inibizione delle cellule immunitarie. L'Associazione per la ricerca sul cancro (Airc) è in campo su questa strada e grazie agli studi che finanzia sta portando la scienza italiana a brillare. Con un concetto di oncologia a 360 gradi, dal laboratorio al letto del malato. Con diagnosi e cure mirate. Su queste tematiche i ricercatori Airc sono impegnati con un lavoro intenso e senza tregua, che sta cambiando il modo di fare diagnosi e di proporre le terapie, ma anche il modo stesso di considerare la medicina clinica. Ciò comporta un nuovo metodo, che potremmo chiamare medicina personalizzata, dove le caratteristiche genetiche del singolo tumore sono studiate in laboratorio, in modo che sia la diagnosi sia la terapia siano mirate. Oggi almeno alcuni dei complessi meccanismi molecolari dei tumori possono essere bloccati con farmaci molto specifici, più efficaci e meno tossici delle terapie tradizionali. Oltre 50 di questi nuovi farmaci sono già in uso nel mondo e un'altra decina viene approvata ogni anno. Una nuova cultura che l'Airc l'altro ieri ha divulgato nelle Aule Magne del politecnico di Torino e delle università di Trieste, Perugia e Catanzaro. Incontro con i giovani. In campo i «fiori all'occhiello» dei ricercatori Airc. Biologi, medici, genetisti, fisici, ingegneri, matematici. Tutti al letto del paziente. Il titolo della giornata: «Disarmare i tumori: una nuova stagione nella cura del cancro è già cominciata». Un video e un dibattito. A Torino, Paolo Comoglio, dell'Istituto per la ricerca e la cura del cancro di Candiolo (Torino), ha affrontato il tema chiave della complessità della malattia tumore. Lui, pioniere della cultura dell'oncologia a 360 gradi. E ieri giornata di consacrazione al Quirinale. Piero Sierra, presidente di Airc, ha donato un particolare riconoscimento a Giorgio Napolitano per il suo impegno nel «valorizzare i risultati della ricerca sul cancro di oggi, e nel promuovere quella di domani». Napolitano, a sua volta, ha consegnato al ricercatore Stefano Piccolo il premio Firc «Guido Venosta» 2012. M. Pap. ___________________________________________________________ Le Scienze 10 nov. ’12 FRETTA VS ACCURATEZZA: COME CAMBIA L'ATTIVAZIONE CEREBRALE La logica del corvo Il cervello, e in particolare la corteccia prefrontale, cambia modalità di attivazione quando passa da una situazione in cui occorre prendere una decisione accurata e ponderata a una in cui è necessario decidere rapidamente. È quanto emerso da uno studio sulle scimmie, i cui risultati contraddicono il modello attuale che prevede un'unica modalità di funzionamento del cervello in questo tipo di processo decisionale (red) La sede cerebrale delle decisioni comportamentoneuroscienze Quando si tratta di prendere decisioni con rapidità, il cervello passa a una modalità di funzionamento diversa rispetto a quella all'opera nel caso di decisioni ponderate e accurate. Lo hanno dimostrato Richard Heitz e Jeffrey Schall della Vanderbilt University con una ricerca pubblicata su "Neuron", che smentisce il modello di riferimento attuale dell'attività del cervello in questo tipo di processo decisionale. Il compromesso tra velocità e accuratezza è un problema essenziale per la capacità di prendere decisioni ed è stato studiato sia nel campo del comportamento sia in termini di funzionamento cerebrale, fino all'elaborazione di un semplice modello, secondo il quale il cervello usa essenzialmente la stessa modalità per decidere in modo ponderato oppure in modo rapido. Secondo questo modello, per ridurre il tempo dedicato a un processo decisionale semplicemente il cervello riduce l'attività neuronale richiesta prima di prendere una decisione. Questo implica che nel caso di scelte istantanee il cervello si basi su una quantità di informazione minore rispetto a quella che entra in gioco nelle scelte più ponderate e accurate. Come conseguenza, quindi, aumenta la probabilità di commettere un errore. Tuttavia, prima dello studio di Heitz e Schall, l'analisi del processo decisionale non è era mai arrivati a livello di singoli neuroni. Infatti, sebbene siano disponibili test con cui indurre in soggetti il passaggio da una modalità di funzionamento all'altra, i metodi di misurazione dell'attività cerebrale umana non hanno la velocità o la risoluzione necessaria. Nel caso delle scimmie, invece, sono disponibili adeguate tecniche di misurazione, ma non era noto un metodo con cui far cambiare agli animali la velocità di una decisione. La svolta è arrivata con lo sviluppo, da parte di Heitz e Schall, di un metodo con cui addestrare le scimmie a passare da una decisione lenta e accurata a una rapida, scegliendo uno degli oggetti di un gruppo visualizzati al computer. In una condizione sperimentale, le scimmie hanno imparato che solo una decisione ponderata sarebbe stata ricompensata. In un'altra, hanno imparato che la decisione andava presa in fretta, anche commettendo qualche errore. In entrambi i casi, i ricercatori hanno monitorato l'attività di singoli neuroni nella corteccia prefrontale, l'area cerebrale deputata ai processi cognitivi di ordine superiore. Dai dati è emerso che in tutte e due le condizioni sperimentali inizialmente l'attività della corteccia prefrontale aumentava mentre la scimmia decideva come rispondere, ovvero subito dopo la visualizzazione degli oggetti su uno schermo. Le differenze emergevano successivamente: quando l'animale era sottoposto a uno “stress di rapidità", l'attività neurale era amplificata; quando invece le condizioni erano di “stress di accuratezza”, la stessa attività era soppressa. Tutto questo ha permesso di concludere che “una stessa informazione è stata analizzata dal cervello in modi differenti nelle due situazioni di stress”, ha sottolineato Schall. Si tratta di un risultato inatteso, che smentisce l'attuale modello dei processi decisionali, usato anche nella descrizione di disturbi psichiatrici e neurologici. Si apre quindi un conflitto tra differenti modelli di funzionamento cerebrale che potrà essere risolto solo con successive ricerche. ___________________________________________________________ Corriere della Sera 09 nov. ’12 GLI UFFICI E IL RAFFREDDORE UNTORI O SCANSAFATICHE? Il dilemma sulle regole da seguire ai primi sintomidi MARIA LUISA AGNESE Uno spettro si aggira per gli uffici ai tempi della crisi, quello dell'untore, e cioè di chi, raffreddato, pieno di tosse e magari con qualche grado di febbre, resiste, insiste e si trascina per andare al lavoro, incurante dei sintomi e della possibilità di infettare con starnuti e colpi di tosse, i colleghi intorno. Una volta quella di darsi malati era un'arte, che raggiungeva vette ancora più alte in assenza del morbo e incitava a invenzioni fantasiose, dalla mamma malata alla dentista che incombe. E invece, paradosso dell'era precaria, ora anche se il morbo divampa, non si molla la postazione, chi ha un lavoro se lo vuol tenere stretto, perché specialmente se il posto non è fisso, guai a passare per uno scansafatiche. E dover rimpiangere, come l'Alberto Sordi di Un americano a Roma, «A me m'ha bloccato la malattia...». Meglio rischiare la psicosi dell'untore «uno di quei birboni che vanno in giro a unger le porte dei galantuomini», come successe a Renzo ne I Promessi Sposi, denunciato a torto da una donna per strada. E così anche le aziende decidono di correre ai ripari. E mentre un tempo distribuivano ricompense e promozioni a chi si presentava al lavoro in ogni condizione, ora invertono la rotta e con garbo fanno capire che è meglio stare a casa. Anche perché, come ha rilevato Sue Shellenbarger, responsabile della sezione Lavoro & Famiglia del Wall Street Journal, i virus stanno diventando sempre più resistenti e minacciosi, e sarebbe anche in arrivo una nuova ondata di pertosse (la peggiore da cinquant'anni). Naturale che le aziende si preoccupino di evitare contagi, perché come scrive Shellenbarger si possono spargere microbi nell'arco di due metri con tosse, starnuti, ma anche solo parlando animatamente, e non sempre è facile distinguere un raffreddore da qualcosa di peggio. «Sarebbe molto meglio regolarsi anche con gli adulti come con i bambini, per i quali regola vuole che stiano almeno 24 ore a casa da scuola dopo che sono sfebbrati» come ha ribadito al WSJ Loreen Herwaldt, docente di epidemiologia all'Università dello Iowa. Senza contare che spesso chi si intestardisce ad andare al lavoro malato rende molto di meno («La mia linea Maginot è quando capisco che ci metto il doppio del normale a fare qualsiasi cosa» dice Laura Bedrossian, esperta di marketing newyorchese), lo conferma una ricerca del Journal of Occupational and Environmental Medicine: più dei due terzi del calo di produttività correlato alla salute, non derivano da chi sta assente per malattia ma, al contrario, dagli impiegati che, anche in presenza di sintomi cronici e contagiosi, insistono per andare al lavoro: rendendo pochissimo. Molto meglio, dunque, dire tranquillamente «oggi non mi sento tanto in forma e non vengo a lavorare» come suggerisce Evelyn Hamilton, coordinatrice di studenti disabili a Washington, che inventare scuse improbabili, che non sarebbero più necessarie. Paradossi contemporanei, difficili da capire nel Belpaese, culla dell'assenteismo per malattia? Mica tanto perché secondo gli esperti sono solo le contraddizioni di un mercato del lavoro in veloce trasformazione, e questo busillis intorno alla malattia è solo un rompicapo in più con cui si stanno confrontando le aziende a ogni latitudine: soprattutto, dicono, non è facile trovare le parole per dirlo, ai nuovi stakanovisti della scena lavorativa, che è meglio mollare per qualche giorno. «E difatti — conferma Bedrossian — i più difficili da convincere della velocità del rischio contagio in un ufficio, sono i giovani». I più precari. Alla società di ricerca Aon Hewitt e in altre aziende hanno escogitato una specie di premio, distribuiscono un monte di giorni-liberi ai lavoratori che si possono accumulare in una banca-giorni e poi essere usati anche in malattia. Alleato prezioso in questo rovesciamento di prospettiva può essere la tecnologia, chi proprio è malato di zelo quanto di tosse, e non vuole perdersi una svolta lavorativa importante, può restare in contatto con email, Skype, teleconferenze. Ma l'arma finale è sempre l'arte della persuasione, tipo quella usata dal manager Fred Yantz di Hackettstown, Usa: «Caro, non ti vedo tanto bene, che fiori preferisci al tuo funerale?». Musica per le orecchie dei dipendenti della Regione Sicilia che quest'estate hanno battuto tutti i record di assenteismo, guadagnandosi l'ironico appellativo di «Malati di sole». Chissà che invidia, e come applaudirebbero. ___________________________________________________________ Corriere della Sera 06 nov. ’12 ATENE NON PAGA, NIENTE MEDICINE Il gruppo Merck interrompe la fornitura degli anti-tumorali alla Grecia DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES — Nel 1668, quando comprò la «Farmacia dell'Angelo» a Darmstadt in Germania, Friedrich Jacob Merck non immaginava certo che cosa sarebbe diventata: il più antico colosso farmaceutico al mondo, uno dei più potenti e il secondo negli Usa, oltre 40 mila dipendenti in 67 diverse nazioni, ricavi per 2,8 miliardi di euro nei primi 6 mesi di quest'anno, l'11,6% in più rispetto all'anno precedente. E una missione ufficialmente dichiarata: «Migliorare sempre di più la qualità della vita umana». In quei 67 Paesi e altrove. Ma forse non in Grecia, protesta qualcuno ad Atene: perché da ieri la Merck non fornisce più agli ospedali pubblici greci il suo più importante farmaco anti-tumorale. Motivo: troppi pagamenti in ritardo o sospesi, per via della crisi economica. E troppi crediti nei confronti della sanità greca — ma questa non è certo la spiegazione ufficiale — convertiti in titoli di Stato ellenici, poi deprezzatisi con l'aggravarsi della situazione generale (solo la consociata Merck Serono avrebbe accettato, in pagamento dei farmaci, bond per 56 milioni di euro). Il medicinale che viene negato ora agli ospedali si chiama commercialmente Erbitux (principio attivo, il «cetuximab»), è il secondo prodotto più venduto della Merck, risulta prescritto soprattutto per i tumori colon-rettali o per quelli della testa e del collo. Nel 2011, le sue vendite nei vari Paesi hanno toccato gli 855 milioni di euro. Gli ammalati greci potranno sempre acquistarlo in farmacia, è stato fatto sapere: ma in ospedale, come si può intuire, dovrebbe essere meno costoso e più facilmente disponibile. Sempre in queste ore, la Merck Serono ha annunciato che investirà ogni anno un milione di euro per premiare le ricerche più innovative nel campo della sclerosi multipla. Ma il problema greco è tutt'altra cosa, e resta. Non è la prima volta che la crisi incide sui costi della salute e su uno degli aspetti più angosciosi della vita umana, la lotta a un tumore. È già accaduto fin dall'anno scorso, con altre case farmaceutiche, sempre in Grecia e in altri Paesi. Ed è stato già detto che potrebbe accadere ancora, anche in nazioni come l'Italia. La Roche, per esempio, ha sospeso le forniture a credito a 23 ospedali pubblici portoghesi, appellandosi al fatto che avevano accumulato debiti per 135 milioni di euro, e che ritardavano ormai i pagamenti anche per più di 420 giorni. E proprio l'altro ieri, da Bruxelles, la Federazione delle imprese farmaceutiche in Europa ha indirizzato una lettera al governo greco, offrendogli una sorta di «sanatoria», cioè un tetto ai pagamenti dovuti, e chiedendo però che non si accumulino in futuro altri debiti: continueremo a fornirvi le medicine, questo il senso del messaggio, purché d'ora in poi onoriate gli impegni e mettiate ordine nei vostri conti. Ma la stessa Federazione ricorda anche che le aziende farmaceutiche hanno già concesso circa sette miliardi di euro in sconti e rateizzazioni, non solo alla Grecia ma anche alla Spagna, o all'Italia. E anche qui c'è un messaggio, neppure tanto cifrato: qualcosa come «la nostra parte l'abbiamo fatta, non siamo vampiri». Del resto, il rischio sovrano — quello che un governo fallisca per i suoi debiti — è diventato un fattore importante anche per le case farmaceutiche internazionali: non se ne parla molto ma c'è e si fa sentire, come spiegano all'«Ihs Global Insight», un centro-studi che analizza proprio i livelli di rischio economico, finanziario e commerciale in oltre 200 nazioni. La stessa Merck può essere un esempio: ha risentito della crisi europea e nonostante le buone notizie sui ricavi, ha annunciato massicci tagli entro il 2015, fino al 10% della sua forza lavoro in Germania. La polemica continua: forse, non c'è risposta al dilemma fra i legittimi diritti dell'impresa, anche quelli commerciali, e l'altrettanto legittimo — oltre che lacerante — diritto dell'individuo alla salute, a un'esistenza dignitosa. Ma quello della Merck è un caso particolare, che può avere per qualcuno — giusto o no che sia — anche una valenza simbolica: perché la testa o il cuore dell'azienda stanno ancora a Darmstadt in Germania, nella nazione governata da Angela Merkel. La Germania: il Paese che più ha sostenuto le misure di austerità per Atene, quello che più alza la voce nella Trojka, la commissione mista Ue-Fondo monetario-Banca centrale europea che reclama altri tagli immediati al bilancio greco, anche e soprattutto al bilancio sanitario. E Angela Merkel, poi: la cancelliera che solo pochi giorni fa è stata accolta da fischi e qualche bottigliata nel centro di Atene, fra lo sventolare beffardo di bandiere con la svastica, la leader straniera che almeno una parte dell'opinione pubblica greca considera responsabile delle proprie angosce. Da domani, al Parlamento si vota di nuovo sulle riforme dell'austerità, il governo scricchiolante e diviso si gioca tutto: la vicenda della Merck non aiuterà forse a vedere le cose più razionalmente. Neanche questo, avrebbe mai potuto immaginare Friedrich Jakob Merck, quando decise di investire i suoi talleri d'argento nella «Farmacia dell'Angelo». Luigi Offeddu loffeddu@corriere.it ___________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 nov. ’12 TUMORI: A MILANO PARTE LA SFIDA ALLA TERAPIA MOLECOLARE Francesca Cerati Viaggiano, dal Canada all'Italia, in una scatola di piombo completamente schermante. E arrivano a destinazione, all'Istituto nazionale dei tumori di Milano (Int) da dove è partito l'ordine, esattamente quel giorno a quella determinata ora. Tutto deve essere assolutamente ben sincronizzato per iniziare la terapia che prevede l'infusione di microsfere contenenti l'isotopo radioattivo yttrio 90: la prima radioterapia interna per curare il cancro al fegato. In gergo scientifico si dice embolizzazione artificiale del tumore, intervento che ha dimostrato di essere estremamente promettente e competitivo rispetto ai farmaci a bersaglio molecolare, ovvero quelli di ultima generazione. «Gli ottimi risultati ottenuti in fase II su 50 pazienti – spiega il coordinatore dello studio Vincenzo Mazzaferro, direttore di Chirurgia dell'apparato digerente e del trapianto di fegato all'Int – ci hanno permesso di mettere in cantiere per il primo trimestre del 2013 l'avvio di fase III di un trial internazionale, coordinato da noi, in cui i migliori centri di epatologia metteranno a confronto, per la prima volta, un farmaco (a bersaglio molecolare) con un device (le microsfere all'yttrio)». Questo lavoro – che è stato possibile anche grazie al finanziamento dell'Airc – rappresenta davvero una notevole innovazione nella strategia anti-tumorale del fegato. Infatti, quest'organo è molto sensibile alle radiazioni e quindi molto poco trattabile con la radioterapia. Ma il team dell'Istituto milanese ha superato l'ostacolo curando proprio con le radiazioni forme tumorali altrimenti non curabili. E nella maggior parte dei casi è bastato un solo trattamento. «Il tumore viene zaffato dalle microsferette continua Mazzaferro –, ciascuna delle quali emette radiazioni beta per poche frazioni di millimetro – che colpiscono quindi il tumore e pochissimo il tessuto epatico sano – radiazione che decade in un periodo variabile di qualche settimana, diventando innocua». Ecco perché è fondamentale personalizzare la prescrizione delle sferette sulla base del tumore e del paziente. A questo scopo si esegue 15-20 giorni prima una simulazione del trattamento, iniettando un composto a base di albumina per acquisire immagini virtuali e attraverso calcoli complessi si definisce la dosimetria ad hoc. Solo a questo punto si ordina l'yttrio nelle modalità desiderate, che deve arrivare nel tal giorno alla tal ora per non perdere l'efficacia, visto che il sistema decade ogni ora di potenza. Un altro esempio importante di come la ricerca supportata da Airc permetta ai ricercatori di indagare nuove strade per arrivare a bloccare la malattia con interventi molto specifici, più efficaci e meno tossici delle terapie tradizionali. __________________________________________ Unione Sarda 06 nov. ’12 UNA BANCA REGALA LA SPERANZA NELLA VITA BINAGHI. Un reparto raccoglie il sangue cordonale destinato ai trapianti   S i chiama Banca del sangue cordonale, ma non ha niente a che fare con gli screditati strozzini di questi tempi. L'hanno creata per ridare una speranza a persone colpite da malattie gravi: raccoglie il sangue delle placente donate dalle mamme al momento del parto, dalle quali si estraggono preziose cellule staminali destinate ai trapianti. Un atto d'amore gratuito, del tutto privo di rischi. Un tempo quei lembi di tessuto venivano distrutti, oggi consentono di restituire una vita dignitosa a migliaia di persone. IMMUNOEMATOLOGIA La banca si trova all'ospedale Binaghi, di Cagliari, ma è gestita dal servizio di Immunoematologia del Brotzu. Responsabile sanitario, Marino Argiolas, con un altro medico, tre tecnici di laboratorio e altrettanti biologi. Ambiente da clinica svizzera: pareti immacolate, centrifughe per la lavorazione del sangue e grandi frigo nei quali riposano (a -190 gradi) le sacche di cellule staminali emopoietiche, «cioè capaci di auto replicarsi - spiega Argiolas - e di dare origine ad altre cellule del sangue: globuli rossi, bianchi e piastrine. Sono destinate a persone in attesa di trapianto, colpite da 5 gruppi di malattie: genetiche, metaboliche, immunologiche, leucemie e linfomi». Circa 100 patologie trattate anche con staminali del midollo osseo, «rispetto alle quali, quelle provenienti dal cordone ombelicale sono più immature: suscitano meno reazioni di tipo immunologico». I PRESÌDI Nel primo anno di attività la banca ha organizzato una rete di presìdi in cui raccoglie i cordoni ombelicali: reparti di ostetricia ospedalieri e di case di cura: «Sinora, non ci siamo preoccupati solo di lavorare il sangue ma anche di accreditare i punti nascita e di addestrarne il personale. Già coperto quasi tutto il territorio isolano, mancano solo Olbia e Sassari. Stiamo ottenendo buone risposte, che ci hanno consentito di raccogliere 400 sacche: dopo le analisi, ne sono rimaste una sessantina. Non da tutte le placente possono essere infatti estratte le preziose cellule: devono contenere almeno 60 ml di sangue e un miliardo e mezzo di staminali, indispensabili per un trapianto efficace. NETWORK NAZIONALE La banca della Sardegna fa parte del network nazionale ITCBN, che comprende tutte le 19 esistenti in Italia e raccoglie mediamente 35 mila sacche di cellule all'anno: «L'obiettivo è di arrivare a 80 - 90 mila, per coprire l'80 per cento delle richieste provenienti dai centri trapianto. Proprio in questi giorni, abbiamo iniziato a inserire i nomi delle donatrici sarde nel circuito internazionale IBMDR (Registro italiano donatori di midollo osseo), con sede a Genova, nel quale convergono i dati nazionali sulle staminali conservate. Il centro raccoglie le richieste che giungono da tutto il mondo e accerta se c'è un donatore compatibile. Alcune provengono dalla nostra isola, anche per trapianti su talassemici. SOLIDARIETÀ Con la sua Banca, la Sardegna partecipa a una gigantesca azione di solidarietà: «Il nostro primo obiettivo è far accedere tutte le donne alla donazione, attraverso una corretta informazione. Donare è facile e assolutamente indolore: il cordone ombelicale viene prelevato dopo il parto. Prima, bisogna solo compilare un questionario, avere un colloquio col medico e dare il consenso». Senza spendere un euro. CONCORRENZA Contro le banche pubbliche (senza scopo di lucro) si scatena però la concorrenza di società private con base all'estero. In Italia, infatti, la legge le vieta. Consente la raccolta di cellule staminali a scopo solidale (destinate a pazienti sconosciuti), dedicato, (per un familiare malato, ma solo con specifiche patologie), e autologo (trapianto sullo stesso soggetto da cui provengono le cellule). In quest'ultimo caso, le banche private propongono alle mamme di conservare le cellule provenienti dal cordone ombelicale del proprio figlio come una sorta di assicurazione sulla vita. A pagamento: 2000-2500 euro per la raccolta del cordone, più un tanto al mese, «ma le probabilità che quel sangue venga utilizzato variano da una a 25 mila e una a 250 mila. Tanto è vero che delle 60 mila sacche esportate sinora dall'Italia non ne è stata mai utilizzata una. In Internet si dice che ci sono 30 malattie genetiche curabili con le staminali. Una mamma legge e si impressiona. È vero che possono essere curate, ma con cellule di altri non con quelle del suo bambino. È certo: le malattie genetiche non possono essere affrontate usando le proprie staminali. Ci vogliono cellule sane di donatori sani». Lucio Salis __________________________________________ Unione Sarda 06 nov. ’12 LICINIO CONTU, FINALMENTE IL MIO PROGETTO   Ha dedicato la vita ai trapianti di midollo osseo. Anche ora che ha 83 anni, Licinio Contu non molla. É presidente dell'Admo (donatori) e dell'Adoces, federazione di sette associazioni nazionali nate per promuovere la raccolta del sangue midollare e cordonale. Scienziato apprezzato all'estero, già titolare della cattedra di Genetica medica a Cagliari, è uno dei pochi studiosi approdati all'università dalla sanità pubblica. Ha sempre curato la pratica clinica e la ricerca, alternando l'attività in campo scientifico a un impegno sociale portato avanti con passione. Anche la banca del sangue cordonale del Brotzu è figlia di una sua battaglia. Dell'argomento si era occupato già nel 1989, quando è stato chiamato a Parigi dall'ematologa Eliane Gluckman, per collaborare a un trapianto di cellule emopoietiche. Con la stessa Gluckman e Maurizio Bartolini ha contribuito alla creazione della Banca europea del sangue cordonale. «Nel '95 ho tentato di fondarne una in Sardegna, - racconta Contu -: coinvolgendo gli ematologi. Intorno al 2000, ho elaborato un progetto nel quale ho previsto un sistema di criocongelamento e tipizzazione delle cellule da ubicare al Binaghi. Presentato alla Regione, nessuna risposta». Nel frattempo, sono sorte altre iniziative, portate avanti da privati, non andate in porto. Solo con l'arrivo dell'assessore Nerina Dirindin la banca è diventata realtà. «Quando ha saputo che si muovevano i privati, mi ha convocato come responsabile regionale del settore trapianti. E ha deciso di stanziare 800 mila euro per creare una banca in Sardegna». È trascorso ancora qualche anno: nel 2011 è stato inaugurato il complesso del Binaghi. Nel frattempo, Contu era andato in pensione. ___________________________________________________________ Unità 11 nov. ’12 CANCRO AL SENO E OBESITÀ LA SCOPERTA DEL RUOLO DELLA LEPTINA CRISTIANA PULCINELLI ROMA Che ci sia un legame tra l'obesità e il tumore al seno è ormai accertato. Molti studi hanno dimostrato che le donne in sovrappeso o obese presentano un aumento, seppure modesto, del rischio dopo la menopausa. Il rischio sembra essere presente soprattutto per le donne che guadagnano peso durante la vita adulta e riguardare in particolare i tumori le cui cellule hanno i recettori per gli estrogeni. Recentemente, inoltre, uno studio pubblicato su Cancer da un gruppo di ricerca statunitense ha dimostrato anche che le donne in sovrappeso o obese trattate per cancro al seno hanno più probabilità di ammalarsi nuovamente e di morire a causa della malattia. In particolare, le donne obese hanno il 40% in più di probabilità di avere una recidiva e il 69% di probabilità in più di morire rispetto alla media. L'aumento del rischio di cancro al seno dopo la menopausa si pensa sia dovuto all'aumento dei livelli di estrogeni. Ora una ricerca italiana, pubblicata su Cancer Research e ripresa da molte riviste di divulgazione scientifica negli Stati Uniti, fornisce nuove informazioni sul nesso molecolare alla base del legame tra obesità e tumore. Secondo lo studio coordinato da Sebastiano Andò dell'università della Calabria ma a cui hanno partecipato numerose ricercatrici come Stefania Catalano, Ines Barone, Cinzia Giordano e Marilena Lanzino, a svolgere un ruolo chiave sarebbe la leptina. Si tratta di un ormone prodotto dal tessuto adiposo che manda al cervello un segnale quando i depositi di grasso sono sufficienti. Il segnale induce un senso di sazietà limitando così l'assunzione di cibo e quindi la formazione di nuovo tessuto adiposo.