RASSEGNA STAMPA 18/11/2012 UNIVERSITÀ, IN 70MILA PER UN CONCORSO FARSA IL CONCORSO CHE NON ARRIVA FA PROMUOVERE GLI INTERNI IL FRENO ALLE ASSUNZIONI PREMIA LE UNIVERSITÀ CON I CONTI IN DISORDINE UNIVERSITÀ SPESE PER IL PERSONALE, SASSARI È QUARTA SCUOLA E ATENEI: «RIFORMA DA RISCRIVERE» NAPOLITANO: CULTURA E RICERCA PER GUARDARE LONTANO RICERCA SCIENTIFICA, ITALIA AL QUARTO POSTO PER PUBBLICAZIONI RICERCA, ARRIVA IL BANDO DA 120 MILIONI RICERCA, ARRIVA IL BANDO DA 120 MILIONI NUOVO RETTORE, È SCONTRO TRA I MEDICI AL SAN RAFFAELE MIRACOLO A CATANIA, I RETTORI SONO DUE SCUOLA E INSEGNANTI MERITANO DI PIÙ A GENOVA MEGA LABORATORIO DELLA DIDATTICA 2.0 DA RIVEDERE LE STIME DELLA SICCITÀ NEL MONDO? LA RECESSIONE AIUTA I RICCHI INFERMIERA SÌ. PERCHÉ MINISTRA NO? SULLE TRACCE DEI PROTOSARDI I PRIMI SBARCHI IN 4 ONDATE PETROGLIFICI ED ENIGMI NELLA GROTTA VERDE CRS4: LA “RICERCA” DEI GIOVANI TALENTI HARD DISK: MEMORIA RAPIDA E SILENZIOSA ========================================================= TAGLI ALLA SANITÀ PRIVATA RISCHIA LA METÀ DEI CENTRI IL VATICANO VUOLE COMPRARE L'OSPEDALE INCOMPIUTO DI OLBIA PER SUPERARE I TEST DI MEDICINA ORA SI PUÒ ANDARE IN ROMANIA BROTZU:BASTA GUERRE ATTORNO ALL'OSPEDALE SERVONO ASSUNZIONI» BROTZU:TUTTI CON GARAU «SENZA GLI INTERINALI A RISCHIO LE ATTIVITÀ» QUELLE MADRI SEMPRE SACRIFICATE ECOGRAFIE, LA SCOPERTA DI UNA SCIENZIATA SASSARESE DI 30 ANNI RICERCA: NEL DNA UN LEGAME TRA SLA E CANCRO, SCOPERTA ITALIANA LE PAURE SUI VACCINI E LE REPLICHE DEGLI ESPERTI PERCHÉ E COME REALIZZARE UN'EUROPA PIÙ UNITA ANCHE SULLE VACCINAZIONI EMENDAMENTI BIPARTISAN PER IL SALVATAGGIO DEI FARMACI GRIFFATI ORDINE DEL GIUDICE: TEST PRENATALE ANCHE NEGLI OSPEDALI PROCREAZIONE, SODDISFATTO VERONESI L'INFLUENZA DIRETTA DELLA LUCE SU UMORE E APPRENDIMENTO LE CELLULE DELLA LUCE ECCO PERCHÉ L'OSCURITÀ CI RENDE DEPRESSI VEDERE MEGLIO CONSUMANDO DI MENO INDIVIDUATO UN NUOVO MODO DI FERMARE LA SPERMATOGENESI IN ARRIVO DAGLI USA UNA MAMMOGRAFIA IN 3D L’ABUSO DI PARACETAMOLO PUO’ CAUSARE L’EPATITE L’ABUSO DI PARACETAMOLO PUO’ CAUSARE L’EPATITE I NEUROCHIRURGHI OPERAVANO GIÀ NELLA ROMA IMPERIALE LA BIOLOGA CON LA SCLEROSI «RICERCA SULLE CAVIE INUTILE» LA BIOLOGA CON LA SCLEROSI «RICERCA SULLE CAVIE INUTILE» IL PROGETTO DEL CAMPUS VA AVANTI CONTRO L'EPATITE DUE NUOVI ALLEATI A CACCIA DI INFERMIERI OLBIA NE CERCA 110 ========================================================= ___________________________________________________________ L’Unità 18 nov. ’12 UNIVERSITÀ, IN 70MILA PER UN CONCORSO FARSA * Le domande per l'abilitazione si chiuderanno il 20 novembre * I numerosi ricorsi presentati minano la validità della futura prova I veri posti a disposizione sono infatti pochissimi MARIO CASTAGNA ROMA Settantamilaottocentotrentuno. Sono le domande arrivate sul sito che il ministero dell'Università ha predisposto per l'abilitazione scientifica nazionale. Un numero enorme, al di là di ogni aspettativa, simile al grande numero di partecipanti al prossimo concorso nazionale della scuola. Segno che esiste una patologia tutta italiana nei sistemi di reclutamento dei professori e dei ricercatori nella scuola e nell'università italiana. Un vero e proprio popolo di giovani ricercatori e di precari che affolla quotidianamente le aule delle università italiane. Il numero dei candidati è anche destinato a salire dal momento che la scadenza per la presentazione delle domande è fissata al 20 novembre. Il raggiungimento di questo numero di richieste è stato annunciato durante lo svolgimento del convegno «Il sistema dell'Università e della Ricerca in Italia» che Roars, rivista telematica dedicata ai temi dell'università e della ricerca in Italia, ha organizzato per festeggiare il suo primo anno di attività. La storia di questa rivista è un caso tutto da raccontare. Nato grazie alla rete di persone, relazioni, esperienze che hanno animato il movimento anti-Gelmini dell'autunno del 2010, questo sito internet è arrivato in pochi mesi a diventare un punto di riferimento per tutti coloro che in Italia si occupano di questi temi. Un'esperienza di successo visto che in un solo anno il sito è stato visitato da quasi due milioni di persone. Nell'intenzione dei fondatori del sito c'è sempre stata l'idea che l'attacco all'università fosse soprattutto un attacco culturale. Ora, i redattori di Roars, dopo tante analisi solo virtuali, hanno deciso di incontrarsi dal vivo per la prima volta pubblicamente con i loro lettori. È stata l'occasione per fare il punto, a quasi due anni dall'approvazione della legge Gelmini, sull'applicazione di questa riforma e sullo stato di salute dell'università Italiana. La questione che più ha tenuto banco è stata quella dell'abilitazione scientifica nazionale, il processo attraverso il quale il ministro Gelmini aveva pensato di immettere tra le fila dei docenti universitari migliaia di giovani. Come si diceva prima sono circa 80mila le domande arrivate per conseguire l'abilitazione scientifica nazionale, il processo che la Gelmini aveva pensato per immettere in ruolo migliaia di giovani professori universitari. Secondo le previsioni di chi è intervenuto al convegno tutto questo non accadrà. Due le principali questioni sul tappeto. La prima riguarda i numerosi ricorsi che pendono di fronte al Tar del Lazio che potrebbero inficiare la legittimità di tutto il processo, qualora venissero accolti. Se infatti finora era solo il ricorso promosso dall'Associazione Italiana dei Costituzionalisti a mettere a rischio tutto il processo, oggi si sono aggiunti quelli di numerose altre società scientifiche nazionali come quella dei matematici. La seconda questione riguarda il numero dei possibili abilitati. Il processo di abilitazione, secondo le intenzioni dell'Anvur, l'agenzia che è a capo di tutto il procedimento, dovrebbe essere un processo di riconoscimento oggettivo della qualità dei concorrenti: al superamento di alcuni valori si dovrebbe automaticamente ottenere l'abilitazione per diventare professore associato. La maggior parte delle persone ha fatto richiesta sapendo di poter superare questi valori piuttosto esigui. Ora le commissioni che dovranno giudicarli si troveranno di fronte al dilemma se abilitare tutti o se imporre una stretta. Se l'abilitazione sarà concessa a tutti ci si chiederà a che cosa sia servita la partecipazione all'ennesimo concorso che promette solo sogni. I veri posti a disposizione infatti saranno poi pochissimi. Se, al contrario imporranno una stretta, ci si chiederà perché l'Anvur sia stata finora impegnata nella definizione di criteri oggettivi e prescrittivi per poi ridurli ad un'indicazione di massima per le commissioni. Tutto il processo sembra essere destinato a creare l'ennesima promessa che non potrà essere mantenuta: un esercito di giovani abilitati, con numerose pubblicazioni alle spalle, che rischia di vedere infranto il loro sogno di impegnarsi nello sviluppo culturale e scientifico del nostro Paese. Una grande lotteria e non è strano che ieri un precario che provava a registrarsi nel sito internet veniva dirottato su un sito di scommesse on line. Oggi il problema informatico è stato risolto ma molti, registrandosi telematicamente, penseranno lo stesso di partecipare ad una estrazione a premi. __________________________________________ Il Sole24Ore 12 nov. ’12 IL CONCORSO CHE NON ARRIVA FA PROMUOVERE GLI INTERNI Far avanzare di grado un professore dell'ateneo «pesa» meno della metà rispetto all'inserimento di un docente dall'esterno A coprire i «punti organico» distribuiti fra le università statali secondo il metodo scritto nella riforma Gelmini non saranno i titolari dell'«abilitazione nazionale», il nuovo titolo previsto dalla stessa riforma. Per avere i primi abilitati occorrerà infatti aspettare. E sperare che i tanti inciampi nella costruzione di indicatori e procedure, e il rischio ricorsi che pende sull'intero meccanismo, non allunghino ancora i tempi che già hanno superato le previsioni iniziali del Governo. Le assunzioni rese possibili dal decreto del ministero pescheranno quindi ancora fra gli idonei dei vecchi concorsi, che negli anni scorsi hanno prodotto centinaia di aspiranti professori ancora senza la cattedra "vinta" nelle selezioni. La riforma Gelmini avrebbe voluto incentivare la mobilità fra gli atenei, ma nei fatti il meccanismo finisce per aprire ancora una volta una corsia preferenziale alle "promozioni" interne. La ragione è semplice e risiede nei criteri di calcolo dei punti organico, l'unità di misura che regola gli organici universitari sulla base dei costi medi determinati dalle diverse collocazioni nella gerarchia accademica. In generale, un ordinario vale un punto organico, un associato 0,7, un ricercatore 0,5. La misura, però, è piena solo per chi viene dall'esterno, perché se un ateneo "promuove" a ordinario un proprio associato, deve conteggiare solo la differenza di costi fra i due stipendi. La conseguenza, ovvia, è che l'avanzamento interno costa meno ai fini dei punti organico, e permette di occupare più caselle rispetto a un'assunzione dall'esterno. Per evitare che il meccanismo si traducesse solo in promozioni interne la riforma ha imposto quote minime di assunzioni dall'esterno, ma ovviamente se il contatore si azzera all'inizio di ogni anno il vincolo finisce per avere un'efficacia limitata. Tutto il sistema, come accennato, attende di essere "rivoluzionato" dall'abilitazione nazionale, passaggio obbligato anche per far ripartire la macchina dei concorsi ferma da anni, ma le incognite sono ancora parecchie. Agenzia nazionale di valutazione e mondo accademico sono ancora impegnati in un dibattito ormai infinito sui criteri con cui sono state costruite le «mediane», cioè l'indicatore sulle pubblicazioni che i docenti devono superare per far parte delle commissioni, e sulle modalità di scelta delle riviste «scientifiche» da cui sono tratte le pubblicazioni. Chi ambisce al titolo è impegnato in questi giorni nelle domande per partecipare (il termine scade il 20 novembre), e l'ultimo calendario ufficiale dice che la prima tornata di abilitazioni va attribuita entro il 27 gennaio: ma il percorso è a ostacoli. G.Tr. __________________________________________ Il Sole24Ore 12 nov. ’12 IL FRENO ALLE ASSUNZIONI PREMIA LE UNIVERSITÀ CON I CONTI IN DISORDINE TRA LEGGE GELMINI E SPENDING REVIEW La riforma attenua i limiti a chi spende troppo e li peggiora a chi ha bilanci più virtuosi Gianni Trovati I conti delle università statali peggiorano, ma i limiti alla spesa di personale si fanno più rigorosi solo per chi ha i bilanci in ordine, mentre negli atenei in cui le spese sono fuori controllo le regole si alleggeriscono rispetto al passato recente. Un paradosso forse non del tutto voluto da Governo e Parlamento, che però emerge chiaro dalle assegnazioni degli spazi assunzionali appena fissati per decreto dal ministero e che nasce dall'incrocio sfortunato fra le regole di attuazione della riforma Gelmini e le strette emergenziali, uguali per tutti, imposte dal decreto di luglio sulla revisione di spesa. Per scoprire il risultato basta estrarre due esempi dal mazzo. L'università di Foggia, che dedica al personale la quota più alta di entrate fra le università statali, non incorre in alcun blocco delle assunzioni come previsto dalle vecchie regole per chi aveva nei bilanci troppe spese per buste paga; all'altro capo della classifica il Politecnico di Milano, la Bicocca o l'ateneo di Catanzaro, che con le vecchie norme avrebbero potuto coprire con nuove assunzioni la metà dei posti liberati dalle uscite dell'anno prima, si vedono limitare di quasi il 60% le possibilità assunzionali. Per capire il problema occorre sbrogliare la matassa di percentuali e indicatori affastellati dalle tante leggi degli ultimi mesi sull'università, ma il gioco vale la candela se si bada alla sostanza. E la sostanza è rappresentata, secondo le parole della stessa Conferenza dei rettori, dalla «crisi irreversibile» in cui si sta infilando l'università, schiacciata dal fatto che l'assegno statale non basta più nemmeno a coprire le spese fisse per il personale. Due numeri lo confermano: secondo la tabella allegata al decreto sui «punti organico» professori e tecnici costano 6,62 miliardi all'anno, mentre l'anno prossimo il fondo di finanziamento ordinario si dovrebbe fermare poco sopra i 6,4 miliardi. Un sorprasso a suo modo storico, che senza interventi in extremis metterebbe secondo i rettori un'ipoteca seria sulle chance di sviluppo delle nostre università. In un quadro così compromesso, il decreto sulle assunzioni distribuisce in totale 558 «punti organico», l'unità di misura del personale universitario in cui gli ordinari valgono 1, gli associati 0,7, i ricercatori 0,5 e in generale i tecnici 0,3. Dieci «punti organico», dunque, possono essere tradotti in 10 associati, oppure in 5 ordinari e 7 associati, e così via. Cancellati i blocchi tout court alle assunzioni, le regole attuative della riforma Gelmini che debuttano con questo decreto prevedono una griglia di vincoli fondata su due indicatori: il rapporto fra spese di personale ed entrate stabili dell'ateneo, rappresentate da fondo statale, risorse pubbliche per la programmazione e contributi studenteschi, e il rapporto fra indebitamento ed entrate stabili al netto delle stesse spese di personale. Al di là dei tecnicismi, l'obiettivo è riservare qualche vincolo in più agli atenei che già spendono troppo per il personale o che hanno i bilanci che si incurvano sotto il peso degli interessi sul debito. I vincoli, però, appaiono parecchio leggeri: l'unico limite stretto, che consente di sostituire solo il 10% del personale uscito nell'anno precedente, si applicherebbe a chi supera entrambi i tetti massimi (80% nella spesa di personale e 10% nell'indebitamento), ma nei fatti non capita a nessuno perché gli atenei sovraindebitati spendono meno del massimo per il personale e le 13 università che hanno sforato i tetti nei costi delle buste paga ha poco debito. A chi è fuori linea sul solo indicatore di personale si permette di sostituire il 20% del personale uscito, ma il 20% è anche il vincolo generale al turn over imposto a tutte le università dalla legge sulla revisione di spesa. Agli atenei «virtuosi», insomma, non rimane altro che un piccolo vantaggio, cioè un bonus concesso dal decreto attuativo della legge Gelmini e misurato sul 15% della distanza che separa le entrate stabili dalle spese di personale. Dall'incrocio di queste variabili con il numero di docenti e tecnici che hanno lasciato il lavoro lo scorso anno esce vincente l'Alma Mater di Bologna, a cui il decreto offre 42 punti organico, seguita da Padova (35,6) e Roma La Sapienza (30,4). Diverso è il quadro relativo ai limiti all'indebitamento. I cinque atenei che hanno sfondato il tetto del 15% non possono accendere mutui o altre forme di finanziamento fino a quando non rientreranno nel limite. In testa alla graduatoria c'è l'Università di Siena, che anche in questo campo paga i buchi scavati nello scorso decennio ora al centro di un'inchiesta della magistratura che coinvolge anche due ex rettori. Chi è fra il 10 e il 15% può firmare nuovi mutui, ma per farlo deve prima approvare il bilancio unico d'ateneo e un piano che attesti la sostenibilità finanziaria dell'operazione. __________________________________________ La Nuova Sardegna 17 nov. ’12 SCUOLA E ATENEI: «RIFORMA DA RISCRIVERE» di Antonio Meloni wSASSARI Per garantire futuro all’istruzione occorre rimettere mano alla riforma Gelmini che ha costretto scuole e atenei a una drastica dieta dimagrante. Esponenti di Scuola e Università lo dicono a chiare lettere nella sala Angioy durante l’incontro con lo storico Miguel Gotor. Diversi i temi affrontati durante l’iniziativa, promossa giovedì pomeriggio nel Palazzo della Provincia dal comitato “Tutti per Bersani” in previsione delle primarie. Il dibattito precede di pochi giorni l’arrivo del segretario del Pd, Pierluigi Bersani, che lunedì, alle 16, incontrerà la città al teatro Verdi. E non è un caso che l’evento sia anticipato dall’incontro con Gotor, storico, giornalista e saggista, considerato l’ufficiale di collegamento tra il segretario del Pd e il mondo culturale. A più riprese Gotor ha detto che per far ripartire l’economia bisogna rimboccarsi le maniche e liberarsi dal giogo del populismo che, secondo la sua valutazione, ha contribuito a fiaccare il paese. Lo storico non risparmia critiche riguardo alla questione della riforma che considera anche l’esito della «corresponsabilità di molti rettori italiani che non hanno saputo opporre resistenza durante la fase di applicazione della legge». Immediata la replica di Attilio Mastino, presente in sala: «Non tutti i rettori sono uguali - ha detto - c’è chi non si è piegato alla Gelmini e non va dimenticato che il testo è stato redatto anche con il contributo del centrosinistra». Tutti, comunque, concordano con la necessità che l’istruzione debba essere un bene pubblico e che bisogna bloccare l’emorragia prodotta dai tagli delle riforme che negli ultimi anni hanno trasformato il sistema dell’istruzione italiana. È l’opinione del consigliere regionale Marco Meloni che sostiene la necessità di tornare subito a investire nella ricerca e nella cultura. Altro nodo da sciogliere è quello dei beni culturali da valorizzare: «Non rimettendo tutto alla buona volontà del singolo amministratore - fa notare però Dolores Lai, assessore alle Culture del Comune - ma inserendo capitoli specifici nel programma politico di una compagine che aspira a diventare forza di governo». A chiudere l’incontro, coordinato da Salvatore Rubino, presente, tra gli altri, il sindaco Gianfranco Ganau, pensa il segretario regionale del Pd Silvio Lai che rilancia il valore delle primarie come momento importante di riavvicinamento alla politica. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 18 nov. ’12 NAPOLITANO: CULTURA E RICERCA PER GUARDARE LONTANO Il testo del memorabile discorso che il Presidente della Repubblica ha pronunciato agli Stati Generali della Cultura, tenutisi giovedì scorso a Roma. Un forte richiamo alle responsabilità della politica Giorgio Napolitano Roma, Teatro Eliseo, 15 novembre 2012 Sono stato invitato e ho accettato di venire qui perché sono convinto – e non solo per quello che riguarda me stesso, ma per la responsabilità che ricopro – che quando i padri costituenti hanno scritto la nostra Carta fondamentale non hanno immaginato per il Capo dello Stato un ruolo che si risolvesse (come si dice per i re in altri Paesi) nel tagliare nastri alle inaugurazioni. Ho ritenuto che il Presidente della Repubblica dovesse, secondo la nostra concezione costituzionale, prendersi delle responsabilità, senza invadere campi che non sono suoi: le responsabilità del Governo non sono quelle del Presidente della Repubblica, e viceversa. Ma credo di dovere sempre cercare di interpretare le esigenze, gli interessi generali del Paese, anche in rapporto a scelte del Governo – che rispetto, perché non posso assolutamente sostituirmi a chi ha la responsabilità del potere esecutivo – attraverso un dialogo al quale intendo dare il mio contributo. Innanzitutto – se posso dire qualcosa a proposito del titolo di questa assemblea – forse «emergenza dimenticata» non è l'espressione più adatta. Perché non è una questione di emergenza: quando parliamo di cultura parliamo di una scelta di fondo trascurata in un lungo arco di tempo. E le questioni che abbiamo davanti oggi non sono nate un anno fa, con questo Governo; la scelta che auspichiamo per la cultura resta da fare perché non è stata fatta in modo conseguente per anni, per non dire per decenni, nel nostro Paese. Il Manifesto del Sole 24 Ore e il Rapporto 2012 di Federculture ci dicono molto a proposito della cultura come motore o moltiplicatore dello sviluppo – questa espressione è ritornata anche nell'intervento del ministro Fabrizio Barca – perché quello che ci deve assillare è come rilanciare lo sviluppo nel nostro Paese: sviluppo produttivo, sviluppo dell'occupazione e, soprattutto, prospettiva di valorizzazione delle personalità e dei talenti dei giovani, delle giovani generazioni. Questo deve essere il nostro assillo. E dobbiamo sapere che la cultura può rappresentare un volano fondamentale per avviare una nuova prospettiva di sviluppo non solo in Italia ma anche, più in generale, in Europa. Ho apprezzato anche il contributo che in questi documenti si dà a un'analisi delle diverse componenti della cultura, sotto il profilo delle ricadute sulla crescita dell'economia e concretamente sulla crescita del Pil. Lo ha fatto, in modo particolare, in un suo studio il professor Sacco, che ha individuato sette componenti: da un cosiddetto «nucleo non- industriale» alle industrie culturali e alle industrie creative, alla scienza e alla tecnologia, e ha misurato quale sia il peso occupazionale di ciascuna di queste componenti della sfera complessiva della cultura, e anche quale sia – cosa molto significativa – il grado di propensione all'export, e di successo nell'export, di queste componenti delle attività culturali. Persiste in Italia – perché non è nata ieri – una sottovalutazione clamorosa di queste tematiche, di queste analisi, di queste ricerche: una sottovalutazione clamorosa da parte delle istituzioni rappresentative del mondo della politica, del governo nazionale, dei governi locali e anche di diversi settori della società civile. C'è una sottovalutazione clamorosa, quindi, delle conseguenze che invece bisognerebbe trarne sul piano delle politiche pubbliche; e non inganni la parola "pubbliche", perché politiche come quella fiscale vanno rivolte a sollecitare e rendere sostenibili anche iniziative private, del settore privato e del settore sociale: non si tratta di affidare tutto al pubblico, tutto allo Stato. Comunque, a monte di tutte le carenze che qui sono state denunciate, di tutte le cecità di cui soffre la condizione riservata alla cultura oggi in Italia, c'è la scarsa consapevolezza – l'ho ripetuto anche qualche giorno fa – dell'importanza decisiva per il nostro Paese di uno straordinario patrimonio, «ben più largo – ha detto Giuliano Amato – di quello costituito dalle opere d'arte e tuttavia nutrito dallo stesso patrimonio genetico». Ma non voglio ritornare su questa accezione più larga, che il presidente Amato ha assai bene prospettato ed esemplificato. Riprendo invece la sua difesa della scelta dell'Assemblea Costituente. Difendo l'articolo 9 come uno dei principi fondamentali della Repubblica e della Costituzione, come scelta meditata, lungimirante e di sorprendente attualità; anche per come ha saputo abbracciare in due righe tutti gli aspetti essenziali del tema che ancor oggi dibattiamo (e voglio rendere omaggio a quei signori che sapevano scrivere in due righe una norma: sapevano scrivere in italiano le leggi, e innanzitutto la Legge fondamentale). Vogliamo rileggerle, quelle due righe? Cito anche il primo comma, non solo il secondo: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» – e già questo è un accoppiamento che non dovremmo mai trascurare nei nostri discorsi: cultura e ricerca scientifica e tecnica. L'articolo quindi continua: «La Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione». Ebbene, quanto oggi le istituzioni della Repubblica «promuovono» e «tutelano»? Promuovono e tutelano ancora pochissimo, in modo radicalmente insufficiente. Quale peso – ci dobbiamo chiedere, al di là delle proclamazioni – si sta di fatto riconoscendo a quel dettato costituzionale, e dunque a una corretta visione del rapporto tra cultura e scienza, da una parte, e sviluppo dell'economia e dell'occupazione dall'altra? Non vorrei ragionare soltanto in termini economici: quale peso si sta riconoscendo al rapporto tra cultura e scienza, ulteriore incivilimento del Paese, benessere dei cittadini misurato secondo nuovi indici qualitativi, valorizzazione dell'identità e del prestigio dell'Italia nel mondo? Perché non c'è soltanto da valutare quale aiuto diano alla crescita del prodotto lordo la cultura e la scienza, ma come esse siano parte integrante del nostro stare nel mondo, con il profilo e il prestigio che le generazioni che ci hanno preceduto hanno assicurato all'Italia. In effetti, ripeto, si sta prestando a tutti questi fattori un'attenzione assolutamente inadeguata. E io ho posto, e ancora oggi intendo porre, questo problema in via prioritaria e di principio, cioè per quel che di per sé esso significa, prima di venire a considerazioni relative a temi di intervento legislativo e di finanza pubblica. Ma non eludo questi temi, e non esito a esprimermi con spirito critico anche nei confronti dei comportamenti dell'attuale governo nel suo complesso, pur conoscendo la sensibilità e l'impegno dei singoli ministri, e non perdendo di vista quel che l'Italia deve al governo del Presidente Mario Monti per un recupero incontestabile di credibilità e di ruolo in Europa e nel mondo. Sappiamo – anche se qui non si tratta di fare i ragionieri, ma di ragionare politicamente: fare i ragionieri e ragionare sono due cose diverse – che è stato e resta necessario fare i conti con un livello di indebitamento pubblico raggiunto nel corso di decenni e con un grado di esposizione ai rischi del mercato dei titoli del debito sovrano nella Zona Euro, e quindi resta indispensabile perseguire obbiettivi rigorosi, in tempi stretti, concertati in sede europea, di riduzione della spesa pubblica e di contenimento della sua dinamica. Se non facciamo questo, a quale livello schizzeranno gli interessi dei nostri titoli pubblici? Quanto dovremo pagare? C'è anche tanta gente modesta che ha comprato buoni del tesoro: come facciamo a non rendere loro gli interessi che ci siamo impegnati a pagare e che rischiano di crescere? Oggi, dobbiamo pagare fino a 80 miliardi all'anno di interessi sul debito pubblico: che cosa potremmo fare anche solo con una piccola parte di questi 80 miliardi? Dobbiamo scrollarci dalle spalle questo peso insopportabile. E dobbiamo farlo perché altrimenti questi sono i casi e i modi in cui uno Stato può fallire, e non credo che possiamo giocare con questo rischio oggi e nel prossimo futuro, nel nostro Paese, chiunque governi e qualunque situazione politica e parlamentare esca dalle elezioni. Però, io pongo una domanda, chiaramente molto problematica, anzi critica: ma è fatale che per riuscire in questo sforzo di risanamento della finanza pubblica si debba ancora procedere con tagli rilevanti a impegni di finanziamento in ogni settore di spesa, tagli più o meno uniformi o, come si dice – è diventato un termine abbastanza consueto – «lineari», senza tentare di far emergere una nuova scala di priorità nell'intervento pubblico, e quindi nella ripartizione delle risorse? Non credo, onestamente – pur avendo grande considerazione per chi deve far quadrare i conti pubblici: badate che non è uno scherzo per nessuno – che ciò sia fatale e che ci si debba arrendere a fuorvianti automatismi. La logica della spending review dovrebbe essere di ottenere risparmi di spesa, in qualsiasi settore, attraverso modifiche strutturali, modifiche di meccanismi generatori di spreco e distorsioni pesanti, e attraverso l'avvio di processi innovativi nella produzione di servizi pubblici e nella costruzione di programmi di intervento pubblico. Questa logica dovrebbe però far salva un'attribuzione di maggiori risorse e finanziamenti da considerare finora sacrificati, a impegni che sono invece essenziali per una ripresa e una nuova qualificazione dello sviluppo del Paese. Si deve salvaguardare una quota accresciuta e consistente di risorse, pur nella generale riduzione della spesa pubblica, per cultura e ricerca, tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Perché il contenimento della spesa pubblica e soprattutto della sua dinamica, e innanzitutto la riduzione della sua entità attuale, non comportano che non ci debba essere e non ci possa essere selezione. È molto arduo scegliere e dire: "questo sì e questo no", ma questa è la politica; la responsabilità della politica sta nello scegliere, nel dire dei «no» e nel dire dei «sì». E io credo che debbano essere detti più «sì» a tutto quello che riguarda la cultura, la scienza, la ricerca, la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio. Qualche spunto specifico. Ritorno innanzitutto sulla ricerca scientifica, di cui ho detto qualche giorno fa in occasione della «Giornata per la ricerca sul cancro». L'Italia ha in campi fondamentali della ricerca tradizioni ed energie vive, dei talenti e un prestigio di cui molti, a ogni livello, nella sfera istituzionale e nell'opinione diffusa, non si rendono conto. Abbiamo dei tesori ignorati, delle capacità, un dinamismo di competenze e di passione per la scienza che vengono largamente ignorati. Parlo di talenti che operano anche fuori d'Italia: qualche giorno fa, in Quirinale, alla «Giornata per la ricerca sul cancro» c'era, fra gli altri, il professor Pier Paolo Pandolfi, un italiano che vive in America da vent'anni e da cinque dirige il Centro di Ricerca Oncologica di Harvard, uno dei più importanti al mondo, ed è venuto a dirci: voi avete tali istituti e tali talenti che dobbiamo lavorare insieme, io italiano dall'America e voi italiani in Italia. continua a pagina 22continua da pagina 21 Voglio parlare anche di quei tanti italiani che vivono e operano servendo in istituzioni di ricerca europee. Sono andato a Ginevra e ho incontrato centinaia di ricercatori italiani al Cern; sono andato a L'Aja, all'Estec, centro di ricerche e tecnologie spaziali: altre centinaia di italiani che sono andati lì anche poco dopo i vent'anni, dopo aver preso la laurea o il dottorato, e che sono chiusi tutti i giorni, dalla mattina alla sera – in luoghi che non sono Roma, che non sono belli come le nostre città – mossi non solo dalla passione per la ricerca e dall'impegno per onorare la tradizione scientifica del nostro Paese. È qualcosa che deve far riflettere profondamente, anche quando sentiamo dire: aiutateci, non solo con finanziamenti. Per esempio, i due centri che ho citato sono naturalmente finanziati dalle istituzioni europee, e noi – non ce lo dimentichiamo – siamo tra i maggiori contributori, e quindi contribuiamo a finanziare sia la ricerca spaziale, sia le ricerche del Cern; però, è giustissimo dire: "non solo questo, non solo i soldi, occorre dell'altro". Occorrono capacità operative, occorre liberarsi dal peso delle procedure burocratiche – lo ha detto bene e con forza Ilaria Capua – e anche dal peso crescente di una oramai impraticabile foresta legislativa e normativa che non fa che crescere da una settimana all'altra. Abbiamo talenti e abbiamo istituzioni. E io mi domando – vi svelo un particolare – come sia stato possibile qualche tempo fa che un oscuro estensore di norme abbia preteso di redigere un articolo di legge che prevedeva la immediata soppressione di 12 istituti di ricerca. Il lavoro di questo signore è finito nel cestino, perché abbiamo cercato – non è vero, ministro Profumo? – di tenere insieme gli occhi aperti. Ma è una spia di che cosa può significare la peggiore mentalità burocratica quando è chiamata a collaborare a scelte di governo, che devono invece essere libere da queste incrostazioni. Un secondo spunto: tutela del paesaggio e del patrimonio. Tutela, cura e valorizzazione del territorio, perché questo è qualcosa che spesso – ma la signora Ilaria Buitoni lo sa benissimo, e lo sa benissimo il Fai – sfugge: si pensa solo al costruito e non si pensa al dove si costruisce, alla messa in sicurezza del territorio. Quello che stiamo vivendo in questi giorni con le alluvioni, in tante parti del Paese, ci allarma. Sono stato mesi fa, dopo le alluvioni nelle Cinque Terre, a Vernazza, e – scusate se mi ripeto, ma certe volte è inutile inventare qualcosa di diverso – ho detto lì: «Abbiamo alle spalle una lunga storia di piani per la difesa del suolo, l'ultimo del 2010, con cui si stanziava credo un miliardo; ebbene, è una lunga storia di piani, di stanziamenti via via disgregatisi, persisi per strada, non portati a compimento. Questa è la dura storia, questa è la realtà. Quante volte abbiamo aperto questo capitolo, a partire dall'alluvione del 1966 a Firenze, e poi ce ne siamo dimenticati o lo abbiamo chiuso alla meglio, abbiamo rinviato a un successivo piano quello che non eravamo stati capaci di fare, realizzando il piano precedente! E questo rischio antico si è fatto più acuto, ha assunto dimensioni diverse, forme più violente perché siamo – piaccia o no – nell'epoca del cambiamento climatico». Oggi le alluvioni non sono quelle di sempre, le frane non sono quelle di sempre, e abbiamo bisogno di un impegno ancora più forte, ancora più determinato e soprattutto operativo. E non ci siamo: non ci siamo né nella comprensione del problema né nell'azione conseguente a tutti i livelli, innanzitutto – dico – a tutti i livelli istituzionali. Ora, se mi consentite, io vorrei fare anche qualche osservazione per così dire di carattere "trasversale", cioè che riguarda tutti i settori di attività culturale a cui ci siamo riferiti. Le considerazioni da fare sono abbastanza semplici. Innanzitutto, dobbiamo assicurarci che ci siano anche comportamenti individuali e collettivi nuovi (ecco in che senso "educare", "far crescere" il Paese), perché ci sono – parliamoci chiaro – comportamenti che recano ingiuria e danno al nostro patrimonio monumentale, che non solo non si tutela ma spesso si lascia devastare, si lascia ferire, vandalizzare. Abbiamo bisogno di comportamenti responsabili in questo senso; e abbiamo bisogno di comportamenti sensibili anche per quello che riguarda la spesa per i consumi, la spesa delle famiglie. Viviamo in un periodo difficile, perché si restringono le entrate disponibili per moltissime famiglie, c'è mancanza di lavoro, c'è cassa-integrazione, ci sono giovani che vedono un'ombra pesante sul loro futuro. Nello stesso tempo, proprio in questo periodo di restrizioni dure e obbligate, vediamo anche i segni di una evoluzione nuova nel costume, nelle scelte dei consumi. E il fatto che diminuiscono sì tanti consumi di beni durevoli o abituali beni di consumo, ma invece non diminuisca la spesa per la fruizione del patrimonio culturale, né la spesa per i musei, né la spesa per quel che riguarda la partecipazione ad attività culturali, e di arricchimento morale e civile, questo è un segno molto incoraggiante che noi dovremmo riuscire a generalizzare nella realtà del nostro Paese. Poi c'è qualche cosa che non posso sottacere. Badate che in tutti i settori, anche in quelli che fanno capo ad attività culturali, occorrono scelte non conservative per quel che riguarda le strutture e per quel che riguarda le realtà che si sono venute accumulando e incrostando nel corso del tempo. Guai se dovessero prevalere atteggiamenti difensivi, di difesa e conservazione di tutto l'esistente; e anche, diciamo pure, guai se dovessero prevalere atteggiamenti puramente difensivi di posizioni acquisite in termini di categoria, in termini corporativi. Abbiamo bisogno di innovare soprattutto nel senso – come giustamente si è detto – della sburocratizzazione e del miglior uso delle scarse o limitate risorse disponibili nel complessivo bilancio dello Stato. Non dobbiamo, in questo modo, farci imbrigliare: non tutto quel che c'è in ognuna delle nostre istituzioni che si occupano di cultura e di scienza è difendibile, non tutto è valido, non tutto è produttivo. E dobbiamo avere il coraggio di innovare, se vogliamo salvaguardare l'essenziale, la funzione e il futuro di queste nostre attività. Infine – ma non entro nel merito e spero che oggi pomeriggio si sviluppi anche questa dimensione del dibattito – i soggetti: quali sono i soggetti che debbono entrare in campo per portare avanti una nuova politica, una nuova visione del ruolo della cultura in tutte le sue espressioni? Il ministro Barca ha detto provocatoriamente – però ha fatto bene – che non è questione di soldi, o non è solo questione di soldi. Penso che se io vi avessi detto: "non esiste nessuna questione di soldi", non mi sareste stati a sentire, perché una questione di soldi esiste, per la cultura, per la scuola, per l'università e per la ricerca; esiste, e l'ho già detto. Però esiste anche una questione fondamentale che si chiama capacità progettuale, realizzatrice e gestionale. Questo significa innanzitutto che abbiamo bisogno in questo senso di una nuova qualificazione delle istituzioni pubbliche. Per esempio le Regioni: non getto l'anatema sulle Regioni – ci mancherebbe altro – però dell'esperienza dei fondi europei per il Mezzogiorno dobbiamo sentire tutto il peso – stavo per dire la vergogna, ma non voglio esagerare – per non avere utilizzate risorse preziose o per averle utilizzate male. Credo che l'impegno con cui il ministro Barca si è messo all'opera per perseguire il recupero e la riprogrammazione delle risorse dei fondi europei determinando delle scelte sapienti – che hanno dato un posto di grande rilievo, per esempio, a progetti per la cultura, come per Pompei – sia uno dei segni positivi venuti da questo Governo, e dobbiamo incoraggiarlo. Soggetti istituzionali da riqualificare e soggetti del privato e del privato sociale da chiamare a raccolta, da stimolare: lei lo sa presidente Squinzi, io dico sempre che c'è un problema di più forte impegno negli investimenti pubblici e privati per la ricerca, e quindi anche da parte delle aziende, soprattutto di quelle maggiori, ma delle stesse medie aziende che oggi competono sul piano internazionale con successo in quanto hanno alle spalle non solo un'eredità – quella di cui ci ha parlato Giuliano Amato, il grande background della creatività italiana – ma perché hanno investito in ricerca e innovazione. Abbiamo bisogno di investimenti privati, abbiamo bisogno di investimenti pubblici, abbiamo bisogno di mobilitazione nuova di soggetti sociali e cooperativi, anche adeguando – come ha detto la signora Buitoni – la legislazione italiana all'esigenza di valorizzare questi apporti. Io capisco – voglio dirlo francamente – tante impazienze. Naturalmente, io ho fatto nel passato il "comiziante", e quindi sono abituato anche ad affrontare battibecchi in piazza, non soltanto cioè parlando io e prendendo gli applausi di chi mi ascolta. Ma oggi faccio un altro mestiere, e vorrei dire con molta pacatezza e senso di responsabilità: fate valere le vostre legittime preoccupazioni, esigenze, insofferenze, proteste, fatele valere con il massimo sforzo di razionalità e di responsabilità perché solo così potremo portare la cultura più avanti e il Paese fuori dalla crisi. Giorgio Napolitano ___________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 14 nov. ’12 RICERCA SCIENTIFICA, ITALIA AL QUARTO POSTO PER PUBBLICAZIONI La 'fuga dei cervelli' va in soffitta: in una ricerca scientifica sempre più globalizzata cambiano i parametri per valutare la produttività scientifica di un Paese così come cambia il modo di valutare l’eccellenza. E' il quadro proposto dal primo Forum nazionale sulle politiche di ricerca organizzato dalla casa editrice Elsevier in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr). La circolazione dei cervelli è il nuovo punto di forza dei Paesi che puntano sulla ricerca. Tanto che i ricercatori che restano fermi, senza nemmeno un’esperienza all’estero, restano indietro in termini di produttività. Lo dimostra lo studio condotto analizzando i dati della banca dati bibliometrica Scopus. Quest’ultima raccoglie 15 anni di dati relativi alle pubblicazioni scientifiche. Grazie ad essi è possibile 'tracciare' la produttività di un ricercatore, ha detto il vicepresidente senior della Elsevier, Michiel Kolman. L'attività di ogni ricercatore o gruppo di ricerca ha spiegato può essere registrata per mezzo delle pubblicazioni. In questo contesto Iltalia si colloca al quarto posto nel mondo per numero di pubblicazioni, dopo Francia, Germania e Stati Uniti. Il dato riguarda i ricercatori più aperti a collaborare o a trascorrere un periodo all’estero, che in Italia sono il 32,6%, con un indice di produttività maggiore del 52% rispetto alla media nazionale. Chi non ha mai lasciato Iltalia, pari al 58%, ha invece una produttività minore del 40% rispetto alla media nazionale. Un dato, secondo Kolman, dal quale emerge che l'Italia non soffre di fuga dei cervelli, ma di scarsa mobilità dei ricercatori. La circolazione dei cervelli e delle idee è l’elemento che caratterizza il nuovo scenario internazionale della ricerca, con l'emergere di nuovi protagonisti: sono Singapore, Corea, India e Cina, come emerge dalla ricerca internazionale presentata da Andrea Bonaccorsi, dell’università di Pisa e membro del Consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per la valutazione della ricerca (Anvur). Nel nuovo contesto riconoscere le eccellenze significa ancora una volta valutarle in termini di pubblicazioni su riviste di rilievo internazionale e di citazioni. Ad essere valutati sono i contributi a ciascuna disciplina da parte di singoli dipartimenti. In questo senso, molte realtà italiane si piazzano in buona posizione, come quelle che fanno parte delle università Sapienza di Roma, Statale di Milano, Padova, Bologna, Torino, Pisa, Ferrara, la Federico II di Napoli. Cambiano, infine, anche i criteri per valutare l’eccellenza, ha rilevato Emanuela Reale, del Cnr, per la quale l’eccellenza è un concetto politico. _________________________________________________ Il Sole24Ore 17 nov. ’12 RICERCA, ARRIVA IL BANDO DA 120 MILIONI Risorse recuperate in parte dai risparmi di altri bandi, in parte dai fondi della coesione L'IMPEGNO DEL MINISTRO Profumo: «Due gli obiettivi, realizzare sinergie tra enti di ricerca, università e imprese, ma anche creare nuovi posti di lavoro» Marzio Bartoloni Aiutare chi sogna di creare un'impresa innovativa o una start up nell'innovazione sociale, nelle tecnologie, nell'hi-tech e, perché no, anche nella cultura. Con due corsie privilegiate: una per il Sud e l'altra per i giovani under 35. È questa l'idea di fondo del bando da 120 milioni che vedrà la luce all'inizio del prossimo anno e su cui il ministro dell'Istruzione, Francesco Profumo, scommette per dare un nuovo segnale di scossa sul fronte della ricerca e dell'innovazione. Un impegno, questo, che lo stesso Profumo ha preso di fronte alla platea degli Stati generali della cultura che, non senza qualche protesta, ha chiesto interventi concreti ai rappresentanti del Governo presenti giovedì a Roma: «Il bando – ha spiegato il ministro – avrà due obiettivi: creare una sinergia tra università, enti di ricerca e sistema delle imprese, esistenti e nuove. Ma anche creare posti di lavoro. L'idea di base è coniugare creatività e innovazione». I tecnici del Miur sono al lavoro per definire nel dettaglio modalità e accesso ai fondi che saranno recuperati in parte dai risparmi di altri bandi e in parte dai fondi della coesione. Con il vincolo però già deciso di destinare oltre 50 milioni ai progetti che arriveranno dal Mezzogiorno. Gli strumenti possibili allo studio per sostenere la nuova imprenditorialità potrebbe basarsi su di un mix di interventi: dai finanziamenti a fondo perduto per lo sviluppo di competenze o per lo sviluppo embrionale dell'idea d'impresa al "seed capital" (partecipazioni nel capitale) fino ad altre forme ibride come i prestiti partecipativi. Su questo ancora non si è deciso, ma l'idea è anche quella di sfruttare la strada già aperta dal decreto Sviluppo bis che ha messo in campo una serie di agevolazioni fiscali e uno snellimento all'osso della burocrazia per chi vuole dare vita a una start up. L'obiettivo del ministero guidato da Profumo è anche quello di provare a dare concretezza, con questo ultimo bando che sarà messo a punto nelle prossime settimane, ai progetti di ricerca che il ministero ha già finanziato nei mesi scorsi, facendo sbocciare lì dove possibile nuove imprese e occupazione. Sono due i maxi bandi che guardano di più all'innovazione nel segno dell'alleanza tra imprese e centri di ricerca e che il Miur ha finanziato già con quasi 1,5 miliardi. Si tratta del bando sui «cluster tecnologici nazionali» per cui sono stati stanziati 408 milioni e quello sulle smart cities che vale in tutto 900 milioni (240 solo per il Sud e 655 per l'intero Paese). Il primo si è chiuso a fine settembre con 11 domande e 44 progetti pervenuti nei nove settori strategici della ricerca individuati dal dicastero (chimica verde, aerospazio, mobilità, scienze della vita, agrifood, ambienti di vita, energia, fabbrica intelligente, tecnologie per smart communities). Il secondo – quello sulle smart cities che sostiene l'innovazione urbana e dei territori – si è chiuso nei giorni scorsi con ben 148 domande presentate da oltre mille soggetti (tra imprese, università ed enti di ricerca). E con la cultura (tra i 16 settori coinvolti) a fare la parte del leone con 13 progetti (per un valore di 215 milioni su 2,3 miliardi totali). Da qui e dal prossimo bando da 120 milioni il ministero vuole ripartire per "allenare" il sistema di ricerca italiano e farlo trovare pronto nella gara ai fondi europei che finora ci vede indietro, tanto che ogni anno almeno 400 milioni dei fondi che giriamo all'Ue li "regaliamo" agli altri Paesi per fare innovazione. Il quadro degli impegni in ricerca e innovazione SMART CITIES Si sono chiusi lo scorso 9 novembre i bandi Smart cities & communities, aventi come obiettivo la costruzione di capacità industriali e prototipi nelle tecnologie smart 895 milioni DISTRETTI AL SUD 930 milioni È atteso un impatto sul medio periodo dal bando scaduto a inizio agosto per rafforzare il rapporto università, impresa e trasferimento di conoscenza nelle regioni del Mezzogiorno LE RISORSE CLUSTER HI-TECH 408 milioni Punta alla costruzione della specializzazione tecnologica intelligente delle regioni il pacchetto di risorse messe a disposizione con un bando chiuso il 28 settembre scorso LE RISORSE SOCIAL INNOVATION 40 milioni I progetti innovativi a carattare sociale per i giovani under 32 nel Mezzogiorno avranno un impatto nel breve termine. Il bando è stato chiuso lo scorso 9 luglio LE RISORSE ACCORDI REGIONALI 110 milioni Come per il Sud, in Piemonte, Toscana e Lazio finanziate le iniziative per rafforzare il rapporto università-impresa e il trasferimento di conoscenza (scadenza bando 6 agosto) LE RISORSE IL NUOVO BANDO 120 milioni Creare un'impresa innovativa o una start up nell'innovazione sociale, nelle tecnologie e nella cultura. Favorendo il Sud e gli under 35. È l'obiettivo del bando che arriverà all'inizio del 2013 Unione Sarda 12 nov. ’12 Aperti i bandi: l’Università cerca anche ingegneri, botanici e fisici DOTTORATI DI RICERCA, 282 POSTI A CAGLIARI Anche l’Università di Cagliari ha pubblicato il bando di concorso per assegnare i dottorati di ricerca per l’anno accademico 2012-2013. I posti messi a disposizione ammontano a 282 e riguardano diversi dipartimenti: dall’Ingegneria industriale alla Progettazione meccanica, dalle Scienze della terra alla Botanica ambientale. FACOLTÀ In particolare, il dipartimento di Biologia e biochimica dell’uomo e dell’ambiente seleziona 18 ricercatori e mette a bando anche sei borse di studio. Molti anche i dottorati disponibili in Fisica, Ingegneria elettronica e informatica (dove si cercano rispettivamente 16 laureati) e Tossicologia (14 posti a bando). Sul sito web dell’ateneo cagliaritano (www.unica.it), alla pagina “Dottorati di ricerca”, sono disponibili le schede su ciascuno dei corsi e le informazioni necessarie per partecipare. BORSE Le borse di studio rese disponibili dall’Università per la frequenza dei corsi di dottorato sono in totale 141, di cui 81 sono state finanziate con le risorse europee del Por 2007-2013. Diciassette sono quelle sovvenzionate direttamente con fondi del bilancio dell’Ateneo di Cagliari, le altre con stanziamenti erogati dal Ministero e dall’Inps. REQUISITI Per partecipare è necessario aver conseguito la laurea specialistica o magistrale secondo il nuovo ordinamento o secondo il vecchio schema. Possono fare richiesta anche i laureandi che però dovranno conseguire la laurea prima dell’inizio delle procedure di selezione. In questo caso l’ammissione al concorso avverrà con riserva. DOMANDA L’Università ha previsto una procedura ben precisa per la partecipazione al concorso. È infatti obbligatorio utilizzare la registrazione on-line dall’indirizzo https://webstudenti.unica.it/esse3/Start.do. Sul sito dell’ateneo si trovano anche le informazioni da seguire per accedere alla procedura. Il termine entro cui presentare la domanda on line è fissato per il 29 novembre, mentre per consegnare la documentazione necessaria c’è tempo sino alle 12 del 5 dicembre. Per informazioni, per prendere visione del bando e dei requisiti necessari per partecipare, è possibile collegarsi al sito dell’Università di Cagliari. Annalisa Bernardini ___________________________________________________________ Il GIornale 16 nov. ’12 NUOVO RETTORE, È SCONTRO TRA I MEDICI AL SAN RAFFAELE I «Sigilli» di don Verzè nominano Antonio Scala. Ma il corpo docente non lo vuole. Lui si difende: «Ho un lungo curriculum di Stefano Zurlo on era mai successo Antoni° Scala, professore dalla biografia pesante ma dal curriculum leggero, si è insediato come rettore di quella polveriera che è l'università Vita-Salute ma non ha mandato un messaggio di saluto, neppure due righe due, ai professori dell'ateneo. L'ultima provincia dell'impero San Raffaele rimasta nelle mani della vecchia guardia, i Sigilli di don Verzè. Scala viaggia sott' acqua, come un sottomarino, e forse attende, come i generali dello Zar davanti a Napoleone, che la tempesta passi. Ma i colleghi sono sul piede di guerra, a medicina hanno congelato tutti gli incarichi interni alla facoltà nelle mani del ministro Francesco Profumo. E una filosofa di prestigio come Roberta De Monticelli affonda non una ma due volte il coltello della perfidia componendo sul suo blog un ritrattino definitivo: «Delle sue risposte alle domande che gli sono state rivolte chi scrive assumendo si la personale responsabilità delle affermazioni qui fatte ha tenuto conto nella misura in cui ha potuto capirle, pur ritenendole complessivamente insoddisfacenti». Insomma, par di capire che il neorettore non abbia il passo per governare l'università, che attraversa un momento drammatico, e abbia lo sguardo rivolto all'indietro. Verso un mondo che è finito in pezzi. Si può obiettare che la De Monticelli sia l'icona dello snobismo, un tratto distintivo degli intellettuali italiani. Può essere. E però Scala, a lungo professore di chimica alla Statale, è sbucato all'improvviso ed è stato catapultato alla testa dell'ateneo contro i voti messi nell'urna delle primarie dai docenti. Dalle votazioni era emersa una terna di candidati. I nomi sono stati bocciati su tutta la linea dall'Associazione Monte Tabor che, dopo la morte di don Verzè, il suicidio del suo braccio destro Mario Cal, gli scandali e gli arresti, haperso l'ospedale ma non la voglia di combattere. E si è arroccata fra le cattedre e i banchi delle tre facoltà: medicina, filosofia e psicologia. Così è stata Raffaella Voltolini, presidente del cda, a prendere in mano il timone e lanciare un messaggio chiaro che più chiaro non si può: no al rischio di «imbastardimento». Ovvero, un no assoluto alla nuova proprietà di Giuseppe Rotelli. Ecco, dunque, la nomina di Scala. Che però non trova il gradimento necessario. In università ricordano la sua amicizia con Ferruccio Fazio, che nel 2010, quando era ministro della salute gli concesse una sontuosa consulenza costata al contribuente la bellezza di 60 mila euro, ma lunga solo sei mesi, agosto incluso. E poi c' il curriculum, ancora più corto. Se si prendono ad esempio i lavori svolti negli ultimi dieci anni, Scala si ferma quota 8. Quando la soglia, stabilita dalla riforma Gelmini, per l'idoneità come professore associato, primo importante traguardo nella progressione accademica, è fissata a 21 pubblicazioni. E l'asticella viene collocata al livello di 32 scritti per l'aspirante ordinario. I numeri, per quel che può valere questa simulazione, sono poveri. Quel misuratore dell'autorevolezza scientifica che è l'H-index contemporanea boccheggia a quota 4. Quattro come un brutto voto in pagella. Lontano, lontanissimo dall'il che servirebbe per correre verso l'ordinariato. Scala però non ci sta: «Il mio curriculum non è per niente corto. Sono salito in cattedra negli anni Settanta, vincendo un concorso tutto per sorteggio. E poi sono stato per quindici lunghi anni preside di medicina alla Statale. Ma soprattutto è scorretto valutare la mia produzione sulla base dell'ultimo decennio : ho 73 anni e al San Raffaele, dove sono arrivato nel 2004, non avevo nè laboratori nè spazi. La verità è che stanno cercando di mettermi in mezzo ad una guerra per bande». Il rettore non arretra ma porge un ramoscello d'ulivo: «Ho accettato la nomina perché lo stallo durava da troppo tempo e avrebbe nuociuto agli studenti. Però non sono un uomo di potere. Sarò un rettore di transizione». ___________________________________________________________ Il Mondo 23 nov. ’12 MIRACOLO A CATANIA, I RETTORI SONO DUE Alcuni anni fa tutti chiedevano una riforma della governance per rendere gli atenei più gestibili. Dare maggior potere ai rettori e togliere di mezzo architetture un po' barocche che funzionavano in fotocopia, come Senato accademico e consiglio di amministrazione. Fatta la riforma, oggi nelle università il caos è totale. Accanto ai casi noti dei geronto- rettori che restano sulla poltrona di proroga in proroga, per esempio, Fontanesi di Milano Bicocca o situazioni come Parma dove Il Tar Emilia- Romagna ha negato le urne lasciando in sella il magnifico (dal 2000) Gino Ferretti, spuntano situazioni curiose. A Teramo, la numero uno Rita Tranquilli alla fine di ottobre ha compiuto 70 anni. Per lei era arrivata l'età della pensione, quindi l'abbandono della carica, sebbene il mandato finisse nel 2013. Dopo un lungo braccio di ferro con il senato accademico, tra accuse e minacce di mozioni di sfiducia, la professoressa a inizio novembre ha detto addio, suo malgrado. Le nuove elezioni si profilano per i primi mesi del 2013. Tra i possibili successori circola il nome di Luciano D'Amico, preside di Scienze della comunicazione. A Catania, succede il miracolo: i rettori saranno addirittura due, ma non si capisce chi comanda. Infatti, per il 21 febbraio del prossimo anno sono indette le elezioni. Fino a quella data, Antonino Recca, attuale numero uno, dovrà «limitare la propria attività istituzionale a quella ordinaria” come ha stabilto una mozione del Senato accademico. Si tratta di una sorta di periodo bianco, terminato il quale Recca non lascerà, ma resterà ancora al potere fino alla scadenza naturale, aprile 2013. Solo allora scatterà la staffetta. Più lineare il percorso di Roma Tre: Guido Fabiara è destinato a uscire di scena e c'è chi scalda i motori in vista della successione. Per esempio, Pietro Grilli di Cortona, ordinario di studi internazionali a Scienze politiche. ____________________________________________________ Corriere della Sera 13 nov. ’12 SCUOLA E INSEGNANTI MERITANO DI PIÙ La scuola è in agitazione. Non solo i tagli, ma ora pure il tentativo, per fortuna fallito, di aumentare le ore di lezione! Sempre con l'idea che l'insegnamento sia un lavoro minore. Se non fosse così d'altronde non occuperebbe soprattutto le donne. È stato dimostrato che le professioni, nella storia, sono strettamente legate ai generi. Appena una carica scade di valore e di pregio, viene affidata in massa al mondo femminile. Tipico il caso delle infermiere e dei dottori. Delle insegnanti delle scuole inferiori e degli insegnanti di università e così via. Secondo le classifiche internazionali lo stipendio medio italiano a fine carriera è pari a 43.666 dollari, ben 4 mila dollari in meno, circa, rispetto alla media Ocse (47.721). In Germania alle medie a fine carriera un professore guadagna 68.592 dollari, in Francia 51.301, in Spagna, 58.065, nel Regno Unito, 44.145 dollari. Un segnale anche simbolico della scarsa considerazione in cui sono tenute le scuole. Quasi che l'educazione fosse una cura minore, un impegno che pesa sulla comunità senza rendere nulla. Gli insegnanti d'altronde, come leggo in una lettera della Cida, (Associazione nazionale dirigenti e altre professionalità della scuola), non negano la necessità di rendere piu efficiente e qualificata la professione. Non negano neppure la possibilità di un aumento delle ore di scuola, purché sia accompagnata da un progetto di riqualificazione dell'insegnamento nel suo insieme. Essi chiedono «l'innovazione metodologica e disciplinare, le iniziative di recupero e di sostegno, la valutazione degli apprendimenti e di istituto, la certificazione delle competenze, la formazione e l'aggiornamento culturale e professionale, la promozione degli accordi di rete tra scuole e dei rapporti con i territori nell'ottica del sistema formativo integrato». Il lavoro dei docenti è «implicitamente considerato di così poco momento da poterne variare l'entità in qualunque misura e in qualunque occasione, senza alcuna condivisione con gli interessati e senza corrispettivi sostanziali». Ecco, credo che l'ira degli insegnanti si possa interpretare soprattutto come una reazione a quello schiaffo, che si aggiunge ai tanti altri schiaffi dati alla scuola in questi anni di riforme mai realizzate, di promesse deluse, di tagli sconsiderati, di colpevole abbandono. Siamo tutti d'accordo che bisogna fare dei sacrifici per ripagare i debiti, condizione necessaria per rimanere in Europa. Ciò che si discute è il modo di pretendere questi sacrifici e il modo di distribuirli, lasciando intatte le grandi ricchezze, ritirandosi timidamente di fronte alle potenti lobby, non punendo le speculazioni finanziarie, soprattutto chiudendo un occhio e anche due, sugli inquietanti contributi dati alla politica che, dal canto suo, li ha spesi male, con tracotanza, inseguendo prima di tutto i suoi interessi privati. La scuola è il piu grande investimento di un Paese per il futuro e noi abbiamo bisogno di futuro. __________________________________________ La Nuova Sardegna 14 nov. ’12 UNIVERSITÀ SPESE PER IL PERSONALE, SASSARI È QUARTA Cagliari ventesima. I rettori: classifiche scorrette, le uscite sono sotto controllo ma i tagli aumentano di Pier Giorgio Pinna SASSARI L’università di Sassari è al quarto posto in Italia per le spese del personale, Cagliari al ventesimo. Non si parla di numeri assoluti, certo, ma del rapporto percentuale tra le uscite per pagare gli stipendi a professori, tecnici, impiegati e quelle entrate che gli amministratori chiamano "stabili". Ossia le entrate che derivano dal monte-risorse, sempre più in calo, generato dal fondo di finanziamento ordinario statale, dagli stanziamenti per la programmazione, dalle tasse pagate dagli studenti. Gli atenei sardi tuttavia hanno percentuali d’indebitamento risibili. E sono piazzati bene circa i parametri sui "punti organici" per le assunzioni. Da qui le critiche per classifiche “che non fotografano i fatti” e per i tagli decisi a Roma. Primi e ultimi. I nuovi dati emergono da graduatorie rese note dal ministero dell’Istruzione, il Miur. Ieri li ha pubblicati il Sole 24 Ore. Classifiche, secondo i rettori di Sassari e Cagliari, un po’ troppo totalizzanti, che confermano l’ «impossibilità di ricondurre a schemi omogenei realtà del tutto differenti». «Paragonare l’isola a regioni del nord è del tutto improprio e fuorviante», sostengono sia Attilio Mastino sia Giovanni Melis. E spiegano subito il perché. «I nostri atenei si contraddistinguono entrambi per una oculata politica di attenzione ai bilanci _ afferma il rettore dell’università di Cagliari _ Restiamo insomma nei parametri richiesti. Ma non possiamo cogliere tutte le premialità previste dalla normativa perché queste statistiche sono viziate all’origine da impostazioni non corrette». Al primo posto per “uscite” legate ai dipendenti figura Foggia, agli ultimi la Normale e Sant’Anna di Pisa. Ma, da economista qual è, Melis osserva che «in Italia si adottano criteri uguali per atenei che si trovano in condizioni del tutto differenti». «Prendiamo proprio il caso delle spese per il personale - prosegue nella sua analisi il rettore _ A Cagliari abbiamo circa 300 tra infermieri, tecnici e amministrativi che svolgono esclusivamente attività sanitaria per Medicina e che naturalmente comportano costi. Allora chiedo: come si fa a predisporre un raffronto tra atenei come il nostro, e come quello di Sassari che si trova nella stessa situazione, rispetto a università che non garantiscono l’assistenza perché non hanno Medicina?». Non è finita. Dice ancora Giovanni Melis «Non è corretto neppure confrontare il nostro ateneo, che ha 5mila studenti esonerati dal pagamento delle tasse, con quelli del settentrione dove tutto questo non succede. Allo stesso modo è sbagliato mettere sullo stesso piano nei raffronti un politecnico come quello di Milano o di Torino con un’università generalista come la nostra che, per di più, opera in un’isola».In definitiva, secondo i vertici accademici, le graduatorie ministeriali andrebbero ristudiate a fondo con estrema attenzione. «Quel che invece va messo in rilievo è che Cagliari ha zero debiti: i mutui risultao pressoché inesistenti e gli affitti sono stati considerevolmente ridimensionati», rileva Melis. Che aggiunge: «Nel 2012, considerato che negli anni precedenti avevamo bandito diversi concorsi per docenti, ci sono state poche chiamate solo tra i tecnici e gli amministrativi, e sono stati a ogni modo assunti 56 ricercatori». Come chiosa il rettore di Foggia in una lettera «è dunque sul fronte delle entrate che si registra il trucco». Fondi. Le graduatorie s’inseriscono in un contesto culturale dove le università sarde rappresentano due tra le maggiori realtà economiche dell’isola. Cagliari ha 36mila studenti, Sassari poco meno di 15mila. Il primo ateneo può contare su 1.050 docenti stabili. Mentre altri 1.070 dipendenti rientrano tra il personale tecnico-amministrativo a tempo indeterminato. In quello turritano, che nei giorni scorsi ha festeggiato l’apertura del suo anno accademico n. 451, operano 731 tra ordinari, associati, ricercatori. Oltre a 633 tra impiegati e tecnici. «Ma nel caso di entrambe le categorie si è assistito in questi anni a una contrazione degli organici, sebbene si siano onorati tutti i bandi di concorso predisposti nel recente passato _ sottolinea Attilio Mastino _ Per il prossimo novembre, poi, si annunciano altri pensionamenti: quindi i livelli delle spese per il personale sono già, e saranno anche per il futuro, assolutamente sotto controllo». Secondo il rettore di Sassari non c’è da preoccuparsi da alcun punto di vista perché «sulla base dei "punti-organico" accumulati finora si continuerà a poter assumere». «Quel che allarma è invece un’altra circostanza che si somma alla debolezza economica del nostro territorio: ovvero il crollo in pochi anni, dal 2010 al 2012, del fondo di finanziamento ordinario, che per noi è passato da 82 a 72 milioni», afferma Mastino. Che rimarca ancora: «A fronte di queste difficoltà abbiamo comunque assicurato l’efficienza dell’ateneo e garantito la competitività dei corsi di laurea: non è poco se si pensa che nel frattempo continua a diminuire il numero degli iscritti per via del calo demografico della popolazione nell’isola. E se è vero che possiamo migliorare alcuni percorsi, va detto che queste classifiche, al contrario di quelle del Censis, si basano su indicatori non proprio illuminanti per comprendere le diverse situazioni». Gestioni. Ulteriore precisazione: non è che a Sassari e a Cagliari si pagano salari più alti, gli stipendi sono gli stessi in tutt’Italia a parità di livelli e anzianità. «Da noi invece gli studenti pagano tasse tra le più basse d’Italia, ma è il nostro parametro sull’indebitamento che si rivela particolarmente significativo – prosegue il rettore dell’ateneo turritano – In un paio d’anni abbiamo diminuito le uscite per locazioni d’immobili, da 800mila a 250mila euro. E oggi abbiamo un unico mutuo. Così, in un Paese dove ci sono università che superano il 30 e il 35% d’indebitamento, noi col 4,55% siamo tra le migliori». «Il punto di fondo è insomma evitare le stime uguali per tutti ed entrare piuttosto nel merito delle specifiche situazioni – è la conclusione di Melis – Se si vede che un ateneo non è indebitato e adotta corretti criteri di gestione, non lo si può penalizzare perché in astratto devono valere per tutti certi parametri». ___________________________________________________________ Italia Oggi 13 nov. ’12 A GENOVA MEGA LABORATORIO DELLA DIDATTICA 2.0 Ibrna il salone della scuola di Genova che quest'anno diventerà un laboratorio a cielo aperto per le scuole. La rassegna nota come ABCD+Orientamenti apre i battenti da domani fino a venerdì 16 novembre, dalle 9 alle 18.30. Attesi a Genova, come ogni anno, tantissimi visitatori soprattutto scuole, docenti e studenti. I numeri sono quelli dei grandi appuntamenti: in tutto 479 gli eventi in programma per docenti, dirigenti scolastici, famiglie e studenti, 314 gli espositori, 11 sale convegni e 14mila mq espositivi. Come sempre al centro dell'attenzione l'orientamento e le tecnologie didattiche. La scuola 2.0, l'innovazione e la sostenibilità, saranno gli assi attorno ai quali nuoterà l'edizione del salone di quest'anno, che vedrà intervenire mercoledì mattina lo stesso ministro per l'Istruzione, l'Università e la Ricerca Francesco Profumo. Spiega Sara Armelia, presidente della Fiera di Genova, che il ministero quest'anno «ha deciso di trasformare il salone in un mega laboratorio scolastico dell'innovazione». Ira gli altri appuntamenti le scuole potranno assistere a convegni su importanti progetti di innovazione tecnologica come Classi 2.0 del miur. AI centro dell'attenzione, comunque, l'esigenza di fare rete e comunità attraverso le tecnologie e lo sviluppo dell'autonomia scolastica. Importante in questo senso sarà anche il contributo dell'Indire. Tra i momenti più significativi promossi da viale Trastevere, si segnala anche la tavola rotonda sull'editoria digitale, tenuta il giorno d'apertura della manifestazione, e durante la quale interverranno rappresentanti dell'associazione italiana editori (aie), e del gruppo di lavoro del ministero «Tecnologie applicate alla didattica e qualità dell'istruzione». Spicca infine fra gli altri, l'appuntamento per la presentazione, il 15 novembre, delle prime linee guida sull'architettura digitale delle scuole. __________________________________________ Le Scienze 15 nov. ’12 DA RIVEDERE LE STIME DELLA SICCITÀ NEL MONDO? © Theo Allofs/Corbis Negli ultimi 60 anni, l'estensione delle aree colpite da siccità nel mondo non sarebbe aumentata: lo afferma un nuovo studio, che rimette in discussione parametri e modelli per valutare l'impatto del global warming sull'ecosistema. In particolare, non sarebbero stati presi in considerazione diversi fattori, come la velocità del vento, l'umidità relativa e l'irraggiamento solare. Inoltre, indicare la temperatura come causa della siccità trascura il fatto che in condizioni asciutte il rapporto causale è spesso invertito: è la siccità a indurre un aumento delle temperature(red) L'intensità e la frequenza degli episodi di siccità in futuro aumenteranno. È quanto si prevede, tenuto conto del cambiamento climatico in corso, per effetto della diminuzione delle precipitazioni locali e dell'incremento dell'evaporazione dovuto al maggior caldo. Ma se il fenomeno appare incontrovertibile nelle linee generali, la sua intensità nelle varie zone del mondo è molto incerta. Con una diversa valutazione dei dati disponibili, l'estensione delle aree colpite negli ultimi sei decenni non risulta aumentata: è quanto afferma Justin Sheffield, del Dipartimento d'ingegneria civile e ambientale della Princeton University, in un nuovo studio apparso su “Nature”. Le previsioni dell'impatto del riscaldamento globale vengono effettuate sulla base della valutazione del trend che si è manifestato negli ultimi decenni, valutazione che, secondo Sheffield e colleghi, è affetta da un errore sistematico. Sotto accusa, in particolare, sono le stime condotte usando uno strumento denominato Palmer Drought Severity Index (PDSI), che tiene conto di un semplice modello di bilancio dell'acqua che entra ed esce dal terreno, di cui fanno parte come variabili le precipitazioni mensili e le temperature rilevate. Ruscello asciutto nel deserto di Atacama, in Cile (© Theo Allofs/Corbis)L'inaridimento del terreno consiste in una perdita via via più marcata dell'umidità del suolo. In termini teorici, i fattori che lo determinano sono ovviamente una mancanza di precipitazioni e/o un incremento del processo di evapotraspirazione, un termine che comprende sia la traspirazione attraverso le piante sia l'evaporazione diretta dalle superfici umide, dai corsi d'acqua e dai laghi. Ma come contribuisce l'evapotraspirazione alla siccità? La maggior parte dei modelli teorici si esprime in termini di evapotraspirazione potenziale, un'astrazione risalente agli anni cinquanta che può avere differenti formulazioni, che a loro volta portano a stime diverse dei trend di siccità nell'arco dei decenni. In particolare, nell'approccio PDSI l'evaporazione potenziale è stimata come se dipendesse unicamente dalla temperatura e dalla latitudine. Si tratta della cosiddetta formulazione di Thornthwaite, che trascura il ruolo di diversi fattori, quali per esempio la velocità del vento, l'umidità relativa e l'irraggiamento solare. Inoltre, indicando la temperatura come causa della siccità si ignora il fatto che in condizioni asciutte il rapporto causale è spesso invertito: è la siccità a indurre un aumento delle temperature. Negli ultimi anni la siccità ha avuto effetti pesanti sull'agricoltura in molte parti del mondo: nella foto, un coltivatore di cotone passeggia, nel mezzo di una tempesta di sabbia, tra le piante essiccatte dalla siccità che ha colpito il Texas nel 2002 (© Jim Brandenburg/Minden Pictures/Corbis) Oggi queste difficoltà possono essere superate perché esiste un database completo di misure di queste variabili, che consente di valutare con più precisione l'impatto sui trend di evaporazione potenziale e della siccità risultante, grazie a una formula detta di Penman–Monteith. Applicando questo metodo di calcolo, Sheffield e colleghi mostrano che i trend mondiali della siccità sono assai meno drammatici di quelli ottenuti con la formulazione di Thornthwaite. In definitiva, argomentano gli autori dell'articolo, le prove di un fenomeno di espansione delle aree colpite nei sei decenni passati sono limitate. Continua dunque il dibattito nella comunità scientifica per definire meglio gli scenari climatici futuri e il loro impatto sul pianeta. Come si legge nel recente rapporto IPCC dell’ONU sugli eventi estremi e sui disastri ambientali, “esiste ancora un ampio margine d’incertezza nei trend globali che riguardano il fenomeno della siccità”. __________________________________________ Corriere della Sera 18 nov. ’12 LA RECESSIONE AIUTA I RICCHI di FEDERICO FUBINI La crisi finisce per bloccare la mobilità sociale Una soluzione? Investire sull'istruzione infantile D i recente una lettrice ha mandato alla redazione un rapido quadro della sua contabilità domestica. «Cerco di spendere una media di 75 euro alla settimana e, per stare in questa cifra, rinuncio alla carne. Come proteine vivo con le uova delle mie galline e acquisto una confezione di pesce alla settimana. Non compro verdure, se non il minimo necessario». Racconti non molto diversi arrivano da varie parti d'Italia. In provincia di Frosinone, aumenta il ricorso all'assistenza comunale con lo scadere degli assegni di mobilità degli ex addetti del distretto della chimica. E nell'ultimo anno, in vari capoluoghi del Sud più di un abitante su cinque si è rivolto almeno una volta al sostegno del Banco alimentare. Anche all'altra estremità della scala dei redditi certe volte sembra di vivere nel mondo del Grande Gatsby, un'età di diseguaglianze, non nel dominio del ceto medio in cui credevamo di essere nati. Improvvisamente per esempio dai porti turistici sono spariti gli yacht. I loro proprietari non li hanno venduti a causa dell'austerità, per lo più li hanno trasferiti a Capodistria, o ad Ajaccio, per pagare meno tasse. E quando si faranno i conti, è possibile che l'Italia di oggi non risulti molto diversa dall'America obamiana degli ultimi quattro anni: lì l'uno per cento più ricco della popolazione ha catturato il novanta per cento dell'aumento del reddito, qui il reddito è diminuito ma la sua distribuzione dev'essere piuttosto simile. Diseguaglianze su questa scala sono (anche) il prodotto della peggiore recessione dagli anni Trenta e adesso rischiano di ossificarsi come una frattura non ricomposta. In questo l'Italia sta diventando davvero americana. Patrizio Piraino, dottorato a Siena e oggi cattedra di economia all'Università di Cape Town, mostra su dati Bankitalia che prima della crisi la mobilità sociale dell'Italia era già fra le più basse in Occidente, su livelli simili agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna: se un padre viaggia al doppio del reddito medio della sua generazione, il figlio italiano guadagnerà circa una volta e mezzo (in Danimarca o in Germania, la seconda generazione tende invece a riallinearsi al reddito medio). E quando l'offerta di lavoro si restringe, le aderenze e i rapporti di un padre semmai contano di più. Miles Corak dell'Università di Ottawa sostiene che un figlio di ricchi parte relativamente ancora più avvantaggiato quando c'è una recessione. Cinque anni di crisi possono lasciare dietro di sé decenni di opportunità diseguali. Ma davvero è solo colpa di padri troppo premurosi? Forse perché negli Stati Uniti l'erosione del ceto medio è partita prima ed è a uno stadio più avanzato, gli studiosi iniziano a pensare che ci sia anche qualcosa di più complesso. Certi fenomeni affondano le radici nell'infanzia dei figli, non solo nell'agenda del telefono dei padri o nella loro capacità di pagare la retta di una di quelle università che i banchieri di Wall Street setacciano in cerca di «talenti». James Heckman dell'Università di Chicago, premio Nobel dell'Economia nel 2000, ha condotto per due decenni un esperimento in cerca dei canali attraverso cui la ricchezza e la povertà si ereditano. Heckman è partito notando l'evidenza: più si studia, più si guadagna e questo effetto è sempre maggiore negli anni. Daniele Checchi della Statale di Milano nota che ciò è vero anche per l'Italia, dove ogni anno in più di studi conferisce in media tra il 4% e il 6% di reddito supplementare, dunque una laurea produce un 25% o 30% di guadagno in più all'anno rispetto a un diploma di maturità. Heckman osserva anche che meno anni si passano sui banchi di scuola, più diventa probabile finire poi in prigione, o diventare padri e (soprattutto) madri single, o avere problemi di salute, oppure non votare alle elezioni; anche in Italia le tendenze sono simili, su livelli molto meno acuti. Quello che in Italia non è ancora stato rilevato, ma può fare un'enorme differenza, è il passaggio successivo. Heckman ha condotto test su un campione di bambini di tre anni, la prima età in cui si riescono a misurare la capacità di prestare attenzione, di esprimersi e capire, o di apprendere dall'esperienza. Il risultato è da Grande Gatsby dell'asilo d'infanzia: a tre anni i figli dei laureati hanno un punteggio pari a 100 sui test di Heckman, i figli di chi ha iniziato ma non finito l'università sono a 50, quelli di chi ha fatto solo le superiori sono a 30 e quelli di chi non ha finito o neanche iniziato le superiori sono tra dieci e venti. Il discendente di genitori che vivono di sussidi sociali ascolta poco più di seicento parole all'ora, quello di genitori professionisti oltre duemila; quando arriva all'età di 26 mesi, il primo bambino sa esprimersi con un vocabolario di meno di duecento parole mentre il secondo è già a ottocento. Heckman ha seguito gli stessi bambini fino alla maggiore età e si è accorto che le distanze già presenti a tre anni restano o, semmai, crescono. Nei giovani adulti quegli scarti produrranno diverse facoltà di concentrazione e di motivazione, scarti nelle capacità di interagire e convincere, più tenacia, più salute, più produttività. Alla lunga, più ricchezza. È per questo che Heckman propone ai governi di investire il più possibile nella cura e istruzione dei bambini nei primissimi anni: il premio Nobel parla di «pre-distribuzione» delle risorse pubbliche, a suo avviso più efficace della «re-distribuzione» fatta quando le distanze si sono già allargate e rimediare diventa difficile e più costoso. E l'Italia? Probabilmente l'infanzia a molte velocità diverse esiste anche qui. Daniele Checchi ed Elena Meschi, quest'ultima di Ca' Foscari, mostrano un dato che lo fa pensare: nei test sulle competenze cognitive alla Heckman, i figli laureati di padri con la licenza media mostrano lo stesso punteggio dei figli con la licenza media di padri laureati. In altri termini, l'intero corso di studi serve a chi ha origini più umili solo per colmare il ritardo con cui sono usciti dall'infanzia. Forse non è una ragione per ridurre il welfare a favore gli adulti. Certo lo è per rafforzarlo, e mirarlo meglio, a vantaggio dei bambini. @federicofubini __________________________________________ Corriere della Sera 18 nov. ’12 INFERMIERA SÌ. PERCHÉ MINISTRA NO? di PAOLO DI STEFANO Il sessismo non è un problema grammaticale (il neutro non esiste in italiano), ma sociale Accettato dalle donne che negli anni 90 confusero parità e omologazione al modello maschile P uò apparire fin troppo banale ricordare che la lingua italiana, a differenza di altre lingue, possiede due generi grammaticali, il maschile e il femminile. Non è però inutile, se si pensa che questa possibilità di distinguere tra i sessi non viene sfruttata come potrebbe (e dovrebbe). Ci sono eccezioni che però, come scrive Cecilia Robustelli, una linguista che studia la discriminazione linguistica di genere, rimangono «del tutto ininfluenti sul piano del sistema»: per esempio, la parola guardia che pur essendo femminile si riferisce per lo più a persone di sesso maschile. Un gruppo compatto di altre eccezioni riguarda i termini che definiscono professioni o ruoli istituzionali di prestigio declinati al maschile anche quando hanno un referente femminile. I casi sono innumerevoli, ma basti cominciare a segnalare esempi come «l'architetto Gae Aulenti», «il ministro Elsa Fornero» o «il segretario generale della Cgil Susanna Camusso». Per quali ragioni viene infranta la regola grammaticale che imporrebbe le forme femminili architetta, ministra, segretaria, perfettamente compatibili con i meccanismi morfologici di formazione delle parole? Evidentemente la risposta non rientra più nella sfera grammaticale, ma in quella socioculturale. Fatichiamo, sul piano linguistico, ad attribuire funzioni importanti alle donne, visto che siamo abituati per tradizione a collocarle su piani inferiori rispetto ai maschi: tant'è vero che, mentre evitiamo di dire ingegnera, non abbiamo nessuna difficoltà a parlare di ragioniera, lavandaia, portiera, sarta o infermiera. Eppure l'italiano è cambiato moltissimo e continua a cambiare rapidamente sotto gli influssi dei mutamenti sociali: basti pensare alla straordinaria permeabilità della nostra lingua rispetto al lessico tecnologico inglese o ai gerghi televisivi. Capita poi che la resistenza conservativa metta a dura prova la coerenza grammaticale di certe frasi, quando per esempio si tratti di scegliere la concordanza di articoli, aggettivi, pronomi e participi. Non di rado, infatti, nel linguaggio giornalistico, ci troviamo di fronte a costruzioni contraddittorie del tipo: «la ministro Carfagna...», «il presidente Marcegaglia è stato accolto...», o «l'architetto Aulenti è morta». «Sembra che l'italiano — scrive Cecilia Robustelli in un saggio su L'uso del genere femminile nell'italiano contemporaneo — mostri ancora esitazioni a riflettere nel suo lessico il percorso di emancipazione femminile che si è snodato in tutta Europa a partire dalla fine dell'Ottocento per quanto riguarda la conquista di nuovi ruoli e professioni da parte delle donne». E ciò avviene nonostante il linguaggio si configuri ormai come uno strumento essenziale nella costruzione della parità tra uomo e donna. La questione della rappresentazione della donna attraverso il linguaggio, specialmente nelle sue conseguenze in ambito amministrativo, non è nuova. Già nel 1987, quando il dibattito sulla parità era alla ribalta politica, l'anglista Alma Sabatini produsse un lavoro fondamentale, intitolato Il sessismo nella lingua italiana, che denunciava il «principio androcentrico» della lingua italiana, secondo cui «l'uomo è il parametro intorno a cui ruota e si organizza l'universo linguistico». E proponeva una serie di «raccomandazioni» per ovviare alle dissimmetrie grammaticali e semantiche che, nella generale inconsapevolezza del parlante, finiscono per rendere il linguaggio, appunto, «sessista». È passato, da allora, un quarto di secolo e quasi nulla è stato recepito sul piano istituzionale, per non dire dell'uso comune. È pur vero che una legge del 1977 sulla parità tra uomini e donne in materia di lavoro recitava testualmente: «È vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività a tutti i livelli della gerarchia professionale anche (...) in modo indiretto (...) a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l'appartenenza all'uno o all'altro sesso». Ma il risultato fu la coniazione di un'improbabile etichetta come quella del cosiddetto «maschile neutro» (il neutro è inesistente nella nostra grammatica) usato indifferentemente per uomo e donna. Va detto, a questo proposito, che fino ai primi anni Novanta l'idea di parità, anche negli ambienti del femminismo ortodosso, sembrava orientata verso un'omologazione della donna al modello maschile, al punto che essere chiamate chirurgo, consigliere, direttore, architetto era per le donne il segno di una equità finalmente raggiunta. Gae Aulenti, cresciuta in un contesto professionale particolarmente maschilista, ha sempre bandito il femminile «architetta» e molte «avvocate», maturate politicamente nel clima del '68, ci tengono tuttora a rimanere «avvocati». La prova della sospirata parità era (e rimane per molte) l'assimilazione al mondo maschile. Dunque: chirurgo e mai chirurga, consigliere e mai consigliera, direttore di un giornale e non direttrice. In realtà, la sociolinguistica tende oggi a sottolineare come queste forme finiscano per rafforzare la tradizione «androcentrica». Ma non si può negare che forme come ingegnera, sindaca, prefetta, chirurga, pur essendo ineccepibili sul piano morfologico, rimangono ancora rarissime. È recente il caso di don Maurizio Patriciello, il prete di Caivano pesantemente redarguito dal prefetto di Napoli per essersi rivolto alla sua collega di Caserta con un semplice «signora», forse per evitare l'inusuale «prefetta». Non era, per la verità, il segno di un maschilismo consapevole, ma un uso conservativo e molto usuale della lingua, di fronte alla quale il prefetto ha reagito con arroganza (di casta) degna di miglior causa. Dagli anni Ottanta, l'importazione in Italia del concetto americano di gender, come insieme delle caratteristiche socioculturali che si accompagnano alla appartenenza all'uno o all'altro sesso, ha cambiato la prospettiva: si tratta ora di riconoscere le differenze di genere per far valere la propria identità. Riequilibrare un lunghissimo periodo di discriminazione significa dunque, anche sul piano linguistico, rendere «visibili» le donne. Alcune amministrazioni locali (Firenze) o regionali (il Veneto) paiono più sensibili di altre a questa esigenza di pari opportunità. Pazienza se rimane inevitabile il maschile cosiddetto «inclusivo» nei participi plurali («Marco e Paola sono andati), ma pure nell'uso quotidiano, se volete essere corretti (non solo politicamente, ma anche grammaticalmente), dovreste usare: sindaca, architetta, avvocata, chirurga, commissaria, deputata, impiegata, ministra, prefetta, notaia, primaria, segretaria (generale); e nulla impedisce consigliera, sul modello di infermiera, oppure assessora, revisora, ambasciatrice, amministratrice, ispettrice, senatrice. Per non cadere nell'eccesso opposto e quindi nel ridicolo, sarebbe bene continuare a usare professoressa, dottoressa e direttrice, ampiamente consolidate dall'uso, piuttosto che le irragionevoli dottora, professora, direttora. Tra le strategie di «visibilità» non peserebbe troppo contemplare la formula doppia almeno nei contesti istituzionali: «tutti i consiglieri e tutte le consigliere prendano posto nell'aula». Infine, «lavoratori e lavoratrici» dovrebbe entrare nell'uso, anche quando non venga detto da politici e politiche in cerca di voti. ______________________________________________ La Nuova Sardegna 18 nov. ’12 SULLE TRACCE DEI PROTOSARDI I PRIMI SBARCHI IN 4 ONDATE Secondo gli studiosi si è estinto il ceppo iniziale vissuto a Perfugas e a Ottana I nuragici deriverebbero dall’«Homo sapiens sapiens» arrivato molto più tardi Le ricostruzioni degli specialisti Un mondo misterioso in parte da scoprire Le tesi più recenti fissano le traversate a una fase tra 600mila e 20mila anni fa di Pier Giorgio Pinna wSASSARI A volte la fine segna un nuovo inizio. Il ritrovamento di utensili preistorici nella piana di Ottana fa riaprire pagine di un passato lontano. Lo scoop scientifico riaccende l’interesse sui primi uomini arrivati dalla terraferma. Sì, perché, se esiste un argomento che suscita attenzione, è quello dei tanti rebus legati agli albori della civiltà. Tema da sempre al centro di un libro avvincente in Sardegna: ora i suoi capitoli si arricchiscono, grazie a scoperte che consentono di ricondurre ad almeno 4 fasi gli sbarchi sull’isola. Le ultime ricerche portano infatti a una revisione delle originarie tesi sulla protostoria in questa parte del Mediterraneo. E c’è qualche novità recentissima. Ecco i fatti. La prima svolta avviene lungo le rive del rio Altana, a Perfugas, e risale alla fine degli anni Settanta. «Allora indagini stratigrafiche permisero d’individuare strumenti riferibili a un momento antico del Pleistocene medio, ossia a circa mezzo milione di anni fa: riconducibili, più precisamente, a un’industria litica realizzata nella tecnica chiamata Clactoniana – spiega Alberto Moravetti, docente di Preistoria e protostoria all’università di Sassari – Inoltre, a Sa Pedrosa-Pantallinu, vicino a Laerru, vennero riconosciuti depositi alluvionali risalenti a un periodo più avanzato del Pleistocene». «Non abbiamo tracce dirette così remote dell’uomo, ma solo le testimonianze che ci ha lasciato attraverso i suoi manufatti», aggiunge Paolo Melis, assistente di Moravetti. «Circa gli arrivi in Sardegna, poi, si possono ipotizzare fasi distinte – prosegue Melis – La prima, documentata dai ritrovamenti di Perfugas e ora nella piana di Ottana, va da 600mila a 100mila anni fa». Niente a che vedere, dunque, con la presenza riscontrata nell’isola (e in particolare nell’area di Fiume Santo) degli oreopitechi, primati forse derivati da scimmie, alti poco più di un metro, considerati un ramo collaterale degli ominidi e comunque vissuti svariati milioni di anni fa. Tra i 600mila e i 100mila gli antropologi sono invece inclini a rilevare una specie evoluta, con caratteristiche fisiche e genetiche precise, in grado di costruire appunto attrezzi e utensili. «In Sardegna la seconda fase, nel Paleolitico superiore, tra 100mila e 40mila anni fa, coincide così con l’arrivo di cacciatori a piccoli gruppi – continua Paolo Melis – Poi, tra i 40mila e i 20mila anni fa, si può ritenere possibile lo sbarco d’individui riconducibili all’Homo sapiens sapiens. Per chiudere con un periodo che coincide con grandi ondate partite da Nord Africa e Vicino Oriente: migrazioni che nell’isola segnano l’introduzione dell’allevamento e dell’agricoltura, a partire da 10-8mila anni fa». Lo studioso Franco Germanà – un medico sassarese che ha dedicato molte delle sue indagini alle fasi comprese tra Paleolitico ed età nuragica – nell’opera “L’uomo in Sardegna” (Edizioni Delfino) investiga a fondo sull’identità degli individui vissuti in quel lontano periodo. E ipotizza che «i paleosardi dell’Anglona potrebbero avere avuto una conformazione fisica a mosaico”: ovvero con caratteri somatici in parte evoluti e in parte arcaici. Parecchi genetisti, inoltre, sono convinti che almeno alcuni dei clan arrivati in Sardegna nelle prime due fasi si siano estinti. E che perciò i nuragici, e prima di loro i mitici Shardana o Popoli del mare, se mai sono esistiti con queste denominazioni, siano i discendenti dell’ultima fase migratoria. «Non esistono tracce di continuità tra i diversi gruppi», non si stancano infatti di sottolineare gli esperti. D’altronde, se gli arnesi trovati a Perfugas e più di recente nella piana di Ottana gettano sprazzi di luce su epoche ancestrali e se in Corsica sono state osservate tracce umane dirette risalenti a 80mila anni fa, in Sardegna non mancano reperti recenti. Come i frammenti di ossa. I più antichi sono quelli della Grotta Corbeddu, a Oliena. Nell’anfratto sono stati scoperti una falange e altri frammenti cranici, risalenti a un’epoca tra i 7.500 e i 14mila anni fa. E l’industria litica rilevata nella caverna documenta a ogni modo la presenza di famiglie attive in quella parte dell’isola già molto prima, grosso modo 20mila anni fa. «Nelle ricostruzioni è comunque indispensabile la massima prudenza, dato che ancora adesso ci sono autorevoli specialisti che dubitano persino che i resti rinvenuti in Anglona siano riconducibili a un periodo così remoto», ammonisce il professor Moravetti. «È insomma corretto porsi la questione di quando l’uomo sia sbarcato in Sardegna, ma sarà bene ricordare che le teorie si avvicendano non senza controversie scientifiche perché il Paleolitico pone sempre grossi problemi», aggiunge. «Sulla base dei dati disponibili si è a ogni modo ipotizzato che il popolamento della Corsica e della Sardegna sia il risultato di frequentazioni episodiche, occasionali, da parte di gruppi provenienti dall’arcipelago toscano, arrivati durante le glaciazioni che hanno determinato l’emersione della piattaforma costiera», conclude il docente. Poi, in epoca storica, sono sbarcati i più stretti progenitori dei nuragici. Ma ora gli archeologi sperano in nuove scoperte. Obiettivo finale: risolvere gli altri rebus che costellano il passato remoto dell’antica Ichnusa. ©RIPRODUZIONE RISERVATA __________________________________________ La Nuova Sardegna 18 nov. ’12 PETROGLIFICI ED ENIGMI NELLA GROTTA VERDE Riscoperti i calchi dei graffiti: netta corrispondenza con le foto a lungo unico documento dei disegni SASSARI Dal passato ancestrale a più recenti fasi della storia umana: un lungo viaggio con qualche sorpresa a effetto. Soprattutto in Sardegna. Dove l’archeologia continua a riservare colpi di scena. L’ultima è il ritrovamento nei depositi della soprintendenza sassarese dei calchi di quei petroglifici scoperti a metà del Novecento nella Grotta verde, sulla Riviera del corallo. Una novità tutt’altro che trascurabile. Per almeno due motivi. Entrambi validissimi, secondo gli specialisti. La prima ragione d’interesse è che della serie originale d’iscrizioni lasciate dai nostri antichi progenitori del Neolitico sulle pareti all’interno degli anfratti 75 metri a picco sul mare di Capo Caccia non si riesce a rilevare più traccia ormai da parecchio tempo. Forse perché si trovano in un tratto non ancora interessato alle operazioni di restauro, forse perché il mutamento nel livello interno dell’acqua in certi punti della grotta le ha rese momentaneamente non più visibili. La seconda ragione d’interesse sta invece nel rilievo che questa documentazione ha per approfondire lo stato attuale delle ricerche e delle conoscenze. «Sino a qualche mese fa potevamo contare con certezza solo su due piccoli calchi in possesso del libraio sassarese Piero Pulina e sugli scatti fatti negli anni Settanta dal fotografo Giulio Romano Pirozzi al momento della delicatissima riproduzione eseguita da nostri tecnici subacquei», dice Graziella Dettori, della soprintendenza ai Beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro. «Ma, dopo un’attenta ispezione, i calchi più significativi, quelli a a grandezza naturale, di gesso, sono venuti fuori dai magazzini della soprintendenza, in piazza Sant’Agostino, a Sassari – continua l’esperta - Bene: quei calchi sono preziosi perché danno l’idea esatta dell’importanza del ritrovamento compiuto a suo tempo sulla costa algherese e perché evidentemente possono venire usati per ottenere copie di petroglifici attraverso un’imprimitura». Ma che cos’è la Grotta verde? E perché conserva tanto fascino misterioso? Al suo interno ci sono testimonianze lasciate dai primi uomini vissuti lungo la costa algherese 6-7mila anni fa. Vasellame e sepolture, ritrovate vicino a straordinarie stalagmiti. Più di recente, poi, è stato rinvenuto lo scheletro di un uomo che con ogni probabilità è vissuto a cavallo tra primo e secondo millennio dopo Cristo. E a suscitare enorme richiamo, comunque, sono sempre quei meravigliosi graffiti rupestri. Disegni al centro di enigmi (alcuni sono convinti che gli originali siano ancora recuperabili sotto uno strato di concrezioni). In ogni caso si potrà adesso lavorare per ricostruirli. Magari attraverso un lavoro che può andare di pari passo con la valorizzazione dei reperti: utensili e arnesi d’uso quotidiano, tutti di stupenda fattura. E affascinanti come gli antichi pittogrammi. Così, tra passato e presente, tante storie s’incrociano. E a ben guardare costituiscono gli aspetti di maggior appeal verso un mondo che continua a intrigare parecchi appassionati. L’ultima riprova? Tra i molti cultori del genere anche sul web in quest’ultimo periodo si è sviluppato un acceso dibattito proprio su questi graffiti. C’è stato infatti chi ha dubitato che le foto a colori fatte negli anni Settanta corrispondessero ai calchi di gesso. «Ma dopo questa riscoperta nei depositi di Sant’Agostino si è potuto constatare come i miei scatti raffigurassero proprio il rilievo dei petroglifici fatto dai tecnici della soprintendenza, che in passato avevano comunque già rilasciato inequivocabili dichiarazioni in questo senso», ricorda adesso Giulio Romano Pirozzi, a 77 anni visibilmente soddisfatto di come l’accuratezza del suo lavoro abbia resistito al passare del tempo. (pgp) __________________________________________ Unione Sarda 17 nov. ’12 CRS4: LA “RICERCA” DEI GIOVANI TALENTI Con i progetti regionali gli studenti sardi scoprono il mondo del Crs4 Un workshop per sviluppare la ricerca al servizio dei nuovi talenti. Lo sviluppo e l'innovazione tecnologica sono infatti centrali per la crescita (economica e non solo) della Sardegna e per questo sono fattori strategici nelle politiche regionali. Sul tema, ieri è stato organizzato a Cagliari un incontro dal titolo “Sviluppare talenti. Sistemi, modelli e strumenti per accompagnare la crescita”, organizzato dall'assessorato regionale della Programmazione insieme a Sardegna Ricerche. L'obiettivo era quello di mettere a confronto le esperienze e i progetti già avviati e condividere le prospettive per il futuro. I REPORT Durante la giornata sono stati illustrati i risultati di diversi progetti di ricerca che hanno coinvolto i giovani. Con le “summer studentship” i ragazzi delle scuole superiori (con indirizzo industriale) hanno potuto studiare e interagire per 3 settimane con i ricercatori del Crs4, dell'agenzia Agris, di Porto Conte e di un laboratorio privato. Un progetto che, secondo quanto è stato raccontato, «è servito per mettere in contatto i ragazzi con il mondo del lavoro e a trasferire le conoscenze ai più giovani». Le summer school adesso saranno ripetute e includeranno anche gli studenti dei licei scientifici e classici. I bambini delle elementari, invece, sono stati inseriti in un progetto triennale di 10 tappe in altrettanti laboratori di ricerca. STRATEGIA «La cultura, con l'educazione e la formazione, è la seconda risorsa strategica del nostro Programma regionale di sviluppo che possiede e richiede una contestualizzazione nelle radici storiche e nella collocazione geografica ed è proiettata nella dimensione internazionale o globale», ha detto il vice presidente della Regione e assessore della Programmazione, Giorgio La Spisa. La Regione intende valorizzare e premiare le eccellenze e i risultati, dunque favorire lo sviluppo. «Abbiamo l'obiettivo di far sì che le intelligenze e le eccellenze, rimangano o tornino in Sardegna per aumentare la capacità produttiva della nostra regione e permettere ai giovani sardi di poter competere a livello internazionale pur rimanendo nella propria terra». STUDENTI Le iscrizioni nelle facoltà scientifiche diminuiscono anche in Sardegna, per questo, «per contrastare questa disaffezione dei giovani verso lo studio della scienza, Sardegna Ricerche da diversi anni realizza progetti di avvicinamento dei più giovani alle scienze e alla ricerca», ha assicurato Ketty Corona, presidente di Sardegna Ricerche, «che coinvolgono in particolare i centri di ricerca, le imprese e i laboratori delle due sedi del Parco tecnologico della Sardegna di Pula e di Alghero». ( an. ber. ) __________________________________________ Il Sole24Ore 18 nov. ’12 HARD DISK: MEMORIA RAPIDA E SILENZIOSA Tra quattro anni la metà dei pc venduti avrà unità allo stato solido che garantiscono alte prestazioni e affidabilità. Ma i costi per ora restano elevati Grazie a tablet, ultrabook e ai server il mercato cresce in maniera esponenziale Antonio Dini Memorie di massa allo stato solido. Costano 20 volte più dei dischi rigidi tradizionali e hanno una vita corta la metà, ma sono più veloci, silenziose e risparmiose in termini di energia. Dopo che Ibm ha inventato nel 1965 il primo disco rigido moderno "350 Ramac" (grande quanto un'utilitaria, dotato di 50 dischi rotanti e capace di archiviare meno di 4 megabyte), sta cambiando il paradigma sul quale ci siamo basati finora: le unità allo stato solido (Ssd), gli hard disk senza piatti rotanti, stanno crescendo. Sono a bordo di un pc ogni 10 e saranno su un pc ogni tre in due anni. La tecnologia degli Ssd è analoga a quella delle chiavette di memoria Usb: si tratta delle memorie Nand Flash, inventate nel 1980 da Fujio Masuoka nei laboratori giapponesi della Toshiba. Dopo quasi due decenni di sviluppo (e lo scontro con la tecnologia concorrente creata da Intel, Nor Flash, soprattutto per le prime schede di memoria delle fotocamere) da 10 anni le memorie Ssd sono diventate un'opzione possibile. Nel museo all'interno del stabilimento Samsung di Hwaseong alle porte di Seoul, il cammino di questa evoluzione è palese. Dai primi pezzi venduti negli anni 90 che costavano decine di migliaia di dollari a quelli commercializzati oggi il salto tecnologico è impressionante: miniaturizzazione, evoluzione e affinamento delle tecniche di produzione, riduzione degli scarti di fabbrica lungo linee di produzione che costano 10 miliardi di dollari. Oggi con un wafer standard di silicio da 300 millimetri si possono produrre memorie Ssd con lavorazioni da 21 nanometri, in futuro anche da 14 e poi 11 nanometri. Ma la cosa più interessante è che diventano sempre più affidabili le tecnologie più avanzate che permettono correzioni di errore e compressione dei dati, arrivando a offrire unità Ssd in sostituzione agli hard disk dei computer portatili a un costo di un dollaro a gigabyte, contro gli 0,5 centesimi al gigabyte per i dischi rigidi. Grazie a tablet e ultrabook, ma anche ai server nei data center che hanno bisogno di memorie ad accesso super-veloce, il mercato sta crescendo in maniera esponenziale. Per Samsung la crescita è del 183% per gli Ssd, con la media del 20% nel settore server e il 231% per quello dei notebook. E se fino a due anni fa cambiare il disco rigido con un Ssd con molta meno memoria voleva comunque dire spendere più di 2mila dollari, oggi si possono spendere meno di 300 dollari per avere un Ssd di buone dimensioni. I vantaggi degli Ssd sono tre: maggiore velocità di lettura e scrittura, consumi molti più bassi (e temperature molto più basse) con errori meccanici inesistenti perché privi di parti in movimento ed estrema silenziosità. I problemi derivano invece dal ciclo di vita ridotto rispetto ai dischi magnetici o magneto-ottici: le tecnologie più costose permettono fino a 100mila cicli di lettura-scrittura, mentre le tecnologie più economiche si fermano a meno di mille cicli. Quanto basta comunque per usare un Ssd tutti i giorni, 24 ore al giorno, per un anno. La preoccupazione maggiore per il mercato rimane il costo per gigabyte, tanto che le maggiori case produttrici stanno sfruttando la possibilità di creare dischi ibridi, con una quota di memoria Ssd e la maggior parte tradizionale su disco per poter avere i vantaggi dell'accelerazione e sfruttare una grande capacità a prezzi contenuti. Il punto chiave, però, sostengono i ricercatori di Samsung, è che entro pochi anni i dischi rigidi non avranno più senso sia in termini di costi che di velocità di utilizzo. Ora nel mercato dei pc sta l'esplosione dei volumi siamo al 5-10% del mercato pc con Ssd, nel 2013 saremo al 20% e per il 2016 la metà dei pc venduti avrà un Ssd a bordo, senza contare tutti i tablet e gli ibridi. © RIPRODUZIONE RISERVATA la guida pro Più veloci di qualsiasi disco rigido tradizionale di cento volte, gli Ssd (le unità allo stato solido) permettono soprattutto di leggere e anche di scrivere le informazioni come mai prima. Completamente silenziose perché prive di parti in movimento, sono fatte solo di puro silicio. Ad alto risparmio energetico perché alimentate con tensioni più basse e non necessitano di raffreddamento, inoltre possono operare in un range di temperature molto più ampio dei dischi. contro Il costo è molto elevato anche se negli ultimi cinque anni si è ridotto di venti volte. Adesso un gigabyte su Ssd con tecnologia Mlc o Tlc costa un dollaro o poco meno. L'aspettativa di vita di una unità Ssd è di 100mila a solo mille cicli a seconda della tecnologia, e tende a perdere capacità (cioè spazio) mano a mano che le singole celle si bruciano. Le tecnologie usate per la gestione dei dati nelle celle rendono più difficile recuperare le informazioni in caso di rottura dell'Ssd o, paradossalmente, di cancellarle in modo sicuro. la capacità varia 1 bit Single level cell Ogni cella di memoria contiene un solo bit, cioè due possibili informazioni (1 e 0). I vantaggi sono minor consumo, maggior velocità e maggior durata delle celle (fino a 100mila cicli di lettura/scrittura) ma i costi di produzione sono maggiori e quindi i prezzi più alti. 2 bit Multi-level cell Ogni cella contiene due bit, cioè 4 unità di informazione. I margini di errore sono molto elevati e occorre un processore (tipicamente Arm) e memoria Ram per gestire l'unità Ssd proprio come se fosse un piccolo computer, in maniera invisibile per l'utente 3 bit Triple-level cell Riescono a contenere un numero molto elevato di informazioni (3 bit, pari a 8 unità) a prezzi bassi ma hanno una durata di vita ridotta, sono più lente e consumano più energia per il continuo lavoro di correzione degli errori ========================================================= __________________________________________ Corriere della Sera 16 nov. ’12 TAGLI ALLA SANITÀ PRIVATA RISCHIA LA METÀ DEI CENTRI Gli istituti convenzionati sotto gli 80 letti sono 257 MILANO — La geografia degli ospedali italiani è destinata a cambiare pesantemente. Così in queste ore gli assessori alla Sanità stanno facendo i conti. L'obiettivo è capire l'impatto dell'ultimo giro di vite del ministro Renato Balduzzi sull'offerta di cure a livello ospedaliero. All'ordine del giorno, infatti, non c'è solo la diminuzione di oltre settemila posti letto (sugli oltre 230 mila attuali) come previsto dalla spending review. In discussione c'è anche il rischio di chiusura per 257 ospedali privati accreditati (e, dunque, equivalenti ai pubblici per la gratuità delle cure). Sono quelli con meno di 80 letti. La loro estromissione dal sistema sanitario è prevista dalla bozza di regolamento sulla riorganizzazione della rete ospedaliera appena stilata dal ministro Balduzzi, di concerto con il ministro dell'Economia Vittorio Grilli. Nel documento («Definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all'assistenza ospedaliera») vengono definiti i criteri da adottare per attuare i tagli. Adesso rischia di saltare, di fatto, la metà delle strutture private accreditate (in totale sono 406). La questione sarà affrontata la prossima settimana in Conferenza Stato-Regioni, la sede dove il Governo ascolta il parere di Governatori locali e assessori sui più importanti atti normativi di interesse regionale. Luigi Marroni, assessore alla Salute della Toscana, ammette: «È un tema estremamente delicato. Lo scenario che si apre andrà valutato attentamente. Il tentativo è di trovare una posizione comune da discutere con il ministro Balduzzi». L'elenco delle strutture che rischiano di chiudere è stato elaborato dagli esperti di Quotidiano Sanità in collaborazione con l'Associazione italiana ospedalità privata (Aiop). Il grafico riportato in pagina fotografa quel che può succedere nelle principali città italiane. I dati, però, sono in aggiornamento continuo. Su Milano, per esempio, l'assessorato della Sanità prevede che le case di cura destinate a sparire siano quattro: la San Carlo, la Capitanio — entrambe entrate a far parte dell'Istituto Auxologico Italiano —, l'Istituto Stomatologico Italiano e la San Giovanni. La Capitanio, invece, non è inserita nella lista di Quotidiano Sanità-Aiop. Le differenze mostrano la difficoltà di reperire con certezza i dati sul numero dei letti accreditati. «Ma è corretto che un provvedimento tanto delicato non passi dal Parlamento? — si domanda Gabriele Pelissero, presidente dell'Aiop —. I criteri adottati per riorganizzare la rete di cure sono estremamente rigidi ed è come se mettessero in una gabbia di ferro il sistema ospedaliero. Non solo: da una prima valutazione del provvedimento per gli ospedali privati accreditati ci sarebbe una perdita di circa 10 mila posti letto e altrettanti posti di lavoro». Già sul piede di guerra c'è poi il governatore della Lombardia Roberto Formigoni che ha annunciato: «La Regione si batterà in ogni sede, a partire dalla conferenza Stato- Regioni, per cambiare i contenuti del decreto». Il dibattito è aperto. In Conferenza Stato-Regioni ci saranno con ogni probabilità dei margini di trattativa con il ministro della Salute, Renato Balduzzi. Del resto, in base ai dati del Governo, in Italia ci sono troppi posti letto per malati in fase acuta, mentre mancano quelli di riabilitazione. Un'ipotesi allo studio potrebbe essere, allora, la riconversione dei primi nei secondi. Oppure l'unione di due o tre mini- strutture in una più grande. Una cosa, però, è certa: in gioco c'è la più importante riorganizzazione della rete ospedaliera da decenni. Simona Ravizza __________________________________________ Corriere della Sera 12 nov. ’12 IL VATICANO ADESSO VUOLE COMPRARE L'OSPEDALE INCOMPIUTO DI DON VERZÉ Perso il San Raffaele di Milano, con Malacalza punta a quello di Olbia MILANO — Il Vaticano torna in pista per comprare un grande ospedale. È il San Raffaele di Olbia, il sogno incompiuto di don Luigi Verzé. È un'operazione complessa, da quasi 150 milioni di euro. Il negoziato è in una fase decisiva: l'obiettivo è firmare l'accordo entro dicembre. In cordata con la Santa Sede c'è, ancora una volta, la famiglia di industriali genovesi Malacalza, insieme ad altri investitori. Si ripropone così il tandem Vaticano-Malacalza che era sceso in campo per salvare dal crac e acquisire il polo sanitario milanese di don Verzé, poi vinto all'asta per 405 milioni dall'imprenditore della sanità Giuseppe Rotelli. Il San Raffaele di Olbia, che non faceva parte del «pacchetto» acquistato da Rotelli, è l'ospedale sognato per vent'anni dal prete-manager, che però è morto prima di vederlo in funzione e dopo aver speso 185 milioni. È il pezzo pregiato del patrimonio rimasto in mano ai liquidatori della Fondazione Monte Tabor, l'ex holding del gruppo, che stanno bruciando i tempi per far cassa e rimborsare i debiti lasciati da don Verzé. Proprio la Santa Sede e i Malacalza si erano visti «soffiare» il San Raffaele dopo averlo gestito per sette mesi, fino al concordato preventivo (l'accordo in Tribunale con creditori e fornitori). Questione di soldi: l'offerta di Rotelli — resa possibile da un provvedimento del Tribunale fallimentare che ha riaperto i giochi al rialzo — era troppo anche per lo Ior, la banca vaticana che forniva parte dei capitali alla cordata guidata da Giuseppe Profiti, il presidente dell'ospedale Bambin Gesù di Roma. Chiuso quel capitolo, le ambizioni del cardinale Tarcisio Bertone di far crescere la «holding della sanità cattolica» sembravano finite. Oltretutto la vicenda San Raffaele aveva lasciato una scia di polemiche, non solo tra le varie correnti d'Oltretevere, ma anche tra gli stessi protagonisti. Nell'ultima fase dell'asta sul San Raffaele di Milano vi fu uno scontro fortissimo proprio tra gli uomini della Santa Sede e Vittorio Malacalza che non voleva uscire dalla partita. Ora sembra tutto ricomposto e nel mirino c'è il polo sanitario della Gallura, nato da un progetto di don Verzé del 1988; i cantieri della costruzione sono stati aperti, però, solo una ventina d'anni dopo. Il negoziato, in fase serrata e riservata, è triangolare: i potenziali compratori (Vaticano-Malacalza) hanno come interlocutori da una parte i liquidatori della Fondazione Monte Tabor, titolare del leasing stipulato per la costruzione dell'ospedale, dall'altra le banche che hanno messo i soldi. Capofila è Sardaleasing (gruppo Banca Popolare Emilia), che ha la fetta più consistente del credito (26%). Adesso l'accordo appare a un passo, anche se non è escluso l'inserimento nelle trattative di altri eventuali concorrenti. I lavori per la realizzazione dei 40 mila metri quadrati dell'ospedale della Gallura, comunque, sono praticamente finiti. Dopo anni travagliati che hanno visto rimandare all'infinito l'apertura e l'autorizzazione a operare con il sistema sanitario, il San Raffaele di Olbia ha ora un futuro. L'edificio, su sette piani, ha 250 camere. Nei (vecchi) piani socio-sanitari della Regione Sardegna è previsto che vengano sviluppate soprattutto le cure oncologiche (in particolare a indirizzo nefro-urologico), la chirurgia vascolare, le neuroscienze e la dialisi. È un progetto pensato anche per dare ai sardi nuove alternative di cura a casa propria, senza dover intraprendere lunghi viaggi della speranza. Se non ci saranno sorprese, a breve tutto ciò si concretizzerà sotto la guida della Santa Sede e del suo manager più fidato, Giuseppe Profiti. Ma l'ospedale di Olbia non è il solo pezzo in vendita dell'(ex) impero di don Verzé. I liquidatori, ad esempio, sono al lavoro anche per le cessioni dell'ospedale di Bahia (Brasile), un hotel, vari appartamenti e terreni. Complessivamente il valore di queste proprietà è stimato in 50 milioni di euro. Il liceo classico di ricerca sperimentale del San Raffaele di Milano, invece, è appena stato venduto al prezzo di un euro all'associazione Monte Tabor che fa capo ai Sigilli, i fedelissimi di don Verzé. Mario Gerevini mgerevini@corriere.it Simona Ravizza _____________________________________________________ Unione Sarda 18 nov. ’12 PER SUPERARE I TEST DI MEDICINA ORA SI PUÒ ANDARE IN ROMANIA Non serve più superare il test d'ammissione per accedere alle facoltà sarde a numero chiuso: basterà passare la prova preselettiva in qualsiasi altra nazione della Comunità europea e, successivamente, fare domanda di trasferimento al secondo anno se l'organico non è al completo. LE SENTENZE Sono tre sentenze destinate a far discutere, quelle pronunciate venerdì dal Tar Sardegna, se non altro perché si collocano in un orientamento diverso della giurisprudenza del Consiglio di Stato che, ad aprile e a maggio di quest'anno, aveva stabilito che il riconoscimento reciproco a livello europeo riguarda solo «i titoli di studio e professionali» e non anche le «procedure di ammissione». L'ORIENTAMENTO Il collegio della prima sezione del Tar cagliaritano, confermando un proprio orientamento espresso in altre due sentenze di quest'anno, ha invece deciso di accogliere il ricorso di tre studenti italiani che, dopo essersi immatricolati in Romania, hanno deciso di trasferirsi in Sardegna per studiare medicina. A rivolgersi ai giudici per conto degli universitari sono stati gli avvocati romani Michele Bonetti e Santi Delia, domiciliati in città nello studio dell'avvocato Francesco Bolasco. LA STORIA I tre studenti, iscritti al primo anno di medicina alla “West University Vasile Goldis” di Arad, in Romania, avevano presentato richiesta di trasferirsi in Sardegna, constatando che vi erano posti liberi al secondo anno. Pur avendo presentato l'attestazione che indicava il superamento della preselezione romena, non avevano potuto iscriversi perché non avevano fatto quella italiana. Una violazione, secondo i legali dei ragazzi, della convenzione di Lisbona dell'11 aprile 1997 che riconosce i titoli di studio superiore nei paesi dell'Unione europea. LE MOTIVAZIONI Il Tar Sardegna, presieduto da Aldo Ravalli (a latere Giorgio Manca e Gianluca Rovelli) si è detto «consapevole» dell'orientamento diverso del Consiglio di Stato ma ha confermato il proprio già espresso in altrettante decisioni. «Va ribadito» cita la sentenza, «che per il caso in esame il passaggio fra università appartenenti a diversi Stati membri non viola il principio del numero chiuso previsto per l'iscrizione al primo anno». Accedere al secondo anno, essendoci posti disponibili, è «coerente col principio di libera circolazione degli studenti». Francesco Pinna __________________________________________ Unione Sarda 18 nov. ’12 BROTZU: «BASTA GUERRE ATTORNO ALL'OSPEDALE SERVONO ASSUNZIONI» «C'è un modo per uscire dal pantano nel quale il Brotzu è stato trascinato anche a causa di interessi trasversali: attivare una selezione per infermieri e dare seguito all'impegno assunto un anno fa dal direttore generale e dall'assessore regionale alla Sanità che prevedeva un incremento in deroga della dotazione degli operatori socio sanitari utilizzando la vigente graduatoria concorsuale». La Uil, il sindacato più rappresentativo nel più grande ospedale dell'Isola, suggerisce qualche soluzione ai problemi legati all'assunzione di 201 lavoratori interinali. Una strada scelta dalla direzione generale per coprire i vuoti d'organico ma resa «illegittima» dopo l'approvazione, il 17 ottobre scorso, di una legge che limita il ricorso ai lavoratori “in affitto”. «L'assunzione di 50 operatori socio sanitari sarebbe una grande vittoria di tutta la classe politica isolana. Un epilogo di cui essere orgogliosi perché, finalmente, ci sarebbero solamente vincitori senza vinti», sostiene Attilio Carta, segretario aziendale della Uil. Secondo l'esponente del sindacato, «in questi ultimi giorni si stanno accavallando una serie di atti ed atteggiamenti, in azienda e in consiglio regionale, che anziché risolvere i gravi problemi del Brotzu li esasperano. Per questo», sostiene, «ritengo che la nostra proposta, coinvolgendo tutti, possa contribuire a rasserenare gli animi evitando la sovraesposizione che sciaguratamente ha messo l'ospedale al centro di una battaglia politica e giudiziaria». La Uil, tuttavia, al fine di sgombrare il campo da ogni possibile strumentalizzazione, «stende un velo pietoso sul discutibile percorso che ha portato, nell'ottobre scorso, alla dolorosa gestazione della legge 385/A». Secondo Carta «è concreto il rischio che la stessa possa realmente aggravare la già precaria organizzazione interna. Ma è altrettanto forte la preoccupazione che la ventilata riduzione di posti letto, minando l'offerta sanitaria del Brotzu, possa essere foriera di un indebolimento della complessiva competitività della sanità pubblica, ancor più nell'imminente ventilato ingresso in Sardegna di solide strutture continentali private». Considerata la gravità della situazione, «dopo mesi di inspiegabile indugio, ancora una volta la Uil ribadisce all'azienda l'urgenza di assumere personale, in attesa che vengano espletati i concorsi». ____________________________________________ Unione Sarda 17 nov. ’12 BROTZU, TUTTI CON GARAU «SENZA GLI INTERINALI A RISCHIO LE ATTIVITÀ» Lettera dei capi dipartimento e dei coordinatori infermieristici L'assunzione del personale interinale? Necessaria per garantire la continuità delle prestazioni. Senza quei dipendenti “a tempo determinato”, insomma, il Brotzu non avrebbe potuto garantire nei tempi necessari trapianti, interventi chirurgici, attività di pronto soccorso. I direttori dei dipartimenti e delle strutture complesse del più grande ospedale sardo scendono in campo - tutti senza eccezioni - in difesa della decisione del direttore generale Tonino Garau di assumere 201 tra infermieri, operatori socio-sanitari, ausiliari, tecnici di radiologia, ostetriche, tecnici di laboratorio e di fisica sanitaria, fisioterapisti, assistenti e coadiutori amministrativi. In una lettera aperta, «firmata anche dal 95% dei coordinatori infermieristici», i dipendenti del Brotzu parlano di «strumentalizzazione» della vicenda e si dicono «seriamente preoccupati» per l'impatto sulla qualità dell'assistenza che potrebbe avere l'applicazione della norma approvata dal Consiglio regionale il 17 ottobre scorso sui limiti al numero di contratti a tempo. PRESTAZIONI AUMENTATE «Nei primi 10 mesi dell'anno», è scritto nella missiva, «sono stati effettuati oltre 14 mila interventi chirurgici, molti dei quali ad alta complessità tra i quali 600 in neurorchirurgia, 560 in cardiochirurgia e 720 in chirurgia vascolare. Da febbraio 2011, inoltre, è stata introdotta la chirurgia robotica, indispensabile per alcune patologie tumorali, con la quale sono stati effettuati oltre 200 interventi che hanno evitato viaggi della speranza e, dunque, risparmi. I ricoveri ad alta complessità», proseguono i dipendenti del Brotzu, «quest'anno sono stati superiori al 10 per cento, sono stati già effettuati 73 trapianti di organo mentre le attività dei reparti di medicina, nefrologia, cardiologia, neurologia e gastroenterologia fanno fronte a continue urgenze e hanno livelli di occupazione dei posti letto del 100 per cento. Tutte queste attività», aggiungono medici e infermieri, «comportano il coinvolgimento di tutti i servizi dell'azienda, dalla radiologia al laboratorio di analisi, dall'anatomia patologica al settore immuno trasfusionale. Nel settore della radiodiagnostica», è scritto ancora nella lettera, «il Brotzu è l'unico presidio regionale che consente di fare la risonanza magnetica del cuore, dell'encefalo, della mammella, Tac delle arterie coronarie e colonscopia virtuale. E la sezione angiografica è l'unica in provincia a intervenire in particolare nel trattamento percutaneo degli aneurismi cerebrali». PERSONALE NECESSARIO L'aumento delle prestazioni e l'incremento della loro complessità hanno comportato «un impegno crescente non gestibile dal personale della struttura». Da qui - è la tesi dei direttori dei dipartimenti - la necessità di assumere personale interinale. Senza il quale si sarebbe resa necessaria «l'interruzione dell'attività programmata con gravissime ripercussioni in ambito aziendale e regionale». Insomma, il direttore generale «dimostrando notevole sensibilità ha concretamente risposto alle pressanti e continue richieste dei direttori delle strutture». Del resto, concludono, «solo dopo la predisposizione e l'approvazione dell'Atto aziendale che conterrà le nuove piante organiche si potranno fare nuove assunzioni a tempo indeterminato. Nel frattempo l'azienda ha avviato le procedure di mobilità per assumere personale con contratto a tempo determinato». GLI ATTACCHI Ad attaccare Garau è stata, in particolare, la consigliera regionale del Pd Francesca Barracciu che ne ha più volte chiesto le dimissioni perché, sostiene, ha violato la norma che stabilisce, nelle aziende sanitarie, il tetto di spesa per il ricorso al lavoro interinale al 2% del costo del personale. Fabio Manca __________________________________________ Corriere della Sera 17 nov. ’12 QUELLE MADRI SEMPRE SACRIFICATE la Scelta che divide anche i Cattolici Sawita, dentista trentunenne, immigrata dall'India in Irlanda, incinta al quarto mese di gravidanza, quasi al quinto, aveva chiesto di abortire dichiarando di essere afflitta da dolori lancinanti. I medici, però — la notizia ha già fatto il giro del mondo — si sono opposti affermando, così pare, che in un Paese cattolico questo non si poteva fare. Che, se il feto era sofferente, bisognava aspettare che morisse. Morta, però, è Sawita, di setticemia, e assieme a lei naturalmente anche il futuro bambino. Tre sono le possibilità: che i medici fossero fermamente convinti, in nome della religione, che la vita di una madre non vale quella, sia pure ipotetica, visto lo stadio ampiamente incompiuto della gravidanza, del figlio; che i medici fossero, in realtà, cattivi medici, incapaci di diagnosticare il malessere che avrebbe portato Sawita alla morte; che, trattandosi di un'immigrata di colore, avessero trattato il caso con una certa approssimativa disattenzione, secondo un'usanza tristemente diffusa non soltanto in Irlanda, senza davvero impegnarsi a cercare di capire l'inglese forse imperfetto della paziente indiana. Ma è anche possibile, se non probabile, che tutte e tre le cose insieme abbiamo determinato il comportamento dei medici. Di là dal caso specifico dell'infelice Sawita, resta la tormentosa questione di fondo che divide anche i cattolici: davvero è giusto (sul serio lo vorrà Dio?) che, quando si pone l'alternativa, è sempre la madre che va sacrificata in nome del figlio, trascurando la presenza di altri piccoli nonché quella di un marito costretto, in nome di un bambino che nemmeno conosce, a scegliere la vedovanza? Perché la religione «preferisce» il figlio alla mamma? Perché lui rappresenta il futuro e lei (magari trentunenne) soltanto il passato? Il progresso della medicina ha fortunatamente ridotto di molto i casi in cui si pone la drammatica scelta, e, tuttavia, a volte ancora se ne presentano. Come si presentano casi di madri che, colpite da un tumore, rinunciano alla chemioterapia per non danneggiare il feto: ammirevoli al massimo grado — e subito sante per la Chiesa — però come non pensare che in realtà confidino tutte nel miracolo di avere alla fine salva la vita entrambi, mamma e bambino? Isabella Bossi Fedrigotti __________________________________________ La Nuova Sardegna 16 nov. ’12 ECOGRAFIE, LA SCOPERTA DI UNA SCIENZIATA SASSARESE DI 30 ANNI Lucia Gemma Delogu, biochimico, ha individuato un nuovo mezzo di contrasto: i nanotubi in carbonio di Silvia Sanna SASSARI Lei è una delle poche che ha scelto di tornare. Un back volontario, senza incentivi e con poche prospettive. Solo tanta voglia di mettersi all’opera. Lucia Gemma Delogu, 30 anni, nel 2010 ha fatto la valigia e ha salutato gli enormi e attrezzatissimi laboratori di chimica della University of Southern California, a Los Angeles: destinazione Sassari, la sua città, dove si era laureata a 22 anni con 110 e lode in Scienze naturali (tesi in biochimica) dopo la maturità al Liceo classico Canopoleno. Poi il trasferimento a Cagliari, l’esperienza a Shardna (società di ricerca nel settore della genomica, oggi in liquidazione ndr), e il lavoro all’ospedale Microcitemico. Prima del grande salto: la California. È modesta Lucia Gemma, «mi sono laureata così giovane perché ero entrata a scuola un anno prima, non sono un genio», ed è molto orgogliosa, «perché la mia esperienza dimostra che anche qui in Sardegna, nonostante le difficoltà, si possono ottenere risultati importanti». Lei ce l’ha fatta: è sua la firma su un’importantissima scoperta che avrà ripercussioni significative nel campo della diagnostica e della terapia medica. Lucia Gemma ha dimostrato che i nanotubi di carbonio, materiali piccolissimi (nell’ordine del milionesimo di metro), possono essere utilizzati come mezzi di contrasto in ecografia: gli studi – finanziati dalla Fondazione Banco di Sardegna – hanno infatti rivelato che i nanotubi hanno un grande potenziale ecogeno specialmente nel cuore, nel fegato e in genere negli organi dell’addome. E, aspetto certamente non secondario, «non sono tossici – spiega la giovane scienziata – come dimostrato dagli esami istologici ed ematici effettuati su suini sette giorni dopo l’iniezione del mezzo di contrasto». Lo studio, in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico, è durato circa un anno e mezzo, «con gli esperimenti che iniziavano la mattina presto e finivano la notte», ed è fonte di grande soddisfazione per il dipartimento di Chimica e Farmacia dell’Università di Sassari: è la prima volta che una équipe scientifica riesce a raggiungere una certezza simile nel campo dei nanomateriali, come ha evidenziato la rivista Pnas-Proceedings of the National Accademy of Sciences of the United States of America, che alla scoperta ha dedicato un articolo dettagliato. Dietro il lavoro di Lucia Gemma Delogu c’è Alberto Bianco, direttore di ricerca del Cnrs (Centro nazionale delle ricerche scientifiche di Strasburgo), leader internazionale nel campo delle nanotecnologie e massimo esperto di nanotubi in carbonio, di recente ospite dell’ateneo sassarese in qualità di visiting professor. E poi c’è un professore, Francesco Sgarrella, vicedirettore del Dipartimento di Chimica e Farmacia, grazie al quale il rientro dagli immensi States alla piccola Sassari, per Lucia Gemma si è trasformato in un dolce ritorno a casa. «All’inizio è stato uno choc – racconta –. In America sono super organizzati, nei laboratori c’è una squadra di tecnici a disposizione dei ricercatori, se chiedi dei reagenti arrivano il giorno dopo. Qui ti devi arrangiare, il personale è poco, quando devi ordinare del materiale la trafila è obbligatoria, la burocrazia rallenta la ricerca. Però quando sono arrivata il professor Sgarrella mi ha dato fiducia, nonostante fossi solo un’assegnista. Ha ascoltato le mie teorie sui nanotubi di carbonio, alle quali stavo lavorando già a Los Angeles e mi ha detto «vai, coordina il progetto». In America ero un numero, eseguivo ordini, c’era chi controllava tutto quello che facevo. Qui no, ho avuto libertà d’azione. E questa assunzione di responsabilità mi ha fatto crescere moltissimo e ha messo le ali alla mia ricerca». Il lavoro non è finito. Anzi, forse ora inizia proprio la parte più interessante. Perché «dobbiamo capire come è possibile che i nanotubi di carbonio abbiano un così elevato potere ecogeno – spiega Lucia Gemma –, pari a quello del SonoVue, esafluoruro di zolfo, che è un mezzo di contrasto molto diffuso». Le ricerche vanno avanti, insieme a collaboratori vecchi e nuovi: come Gianpaolo Vidili e Roberto Manetti, rispettivamente ricercatore e docente del dipartimento di Medicina clinica, sperimentale e oncologica, ai quali da poco si è aggiunto un pool di scienziati parigini. E lei, Lucia Gemma, continuerà a partecipare a seminari, su e giù per l’Italia e all’estero. Ma poi rientrerà sempre a Sassari, la sua città, la sua Università, «perché a faticare qui c’è più soddisfazione». ___________________________________________________________ Adnkronos 12 nov. ’12 RICERCA: NEL DNA UN LEGAME TRA SLA E CANCRO, SCOPERTA ITALIANA Gli scienziati hanno chiarito il ruolo di una proteina chiamata senataxina nel regolare il processo di trascrizione e replicazione del Dna. E hanno scoperto come la stessa proteina, che risulta mutata nelle persone con una particolare forma di sclerosi laterale amiotrofica, potrebbe essere coinvolta anche nella formazione dei tumori Milano, 12 nov. (Adnkronos Salute) Sla e cancro hanno un punto in comune nascosto nel Dna. A lanciare l'ipotesi è uno studio italiano, condotto dall'Istituto Firc di oncologia molecolare (Ifom) di Milano e dall'Istituto di genetica molecolare del Cnr (Igm-Cnr) di Pavia, sostenuto da Airc e Telethon e pubblicato in questi giorni su 'Cell'. Gli scienziati hanno chiarito il ruolo di una proteina chiamata senataxina nel regolare il processo di trascrizione e replicazione del Dna. E hanno scoperto come la stessa proteina, che risulta mutata nelle persone con una particolare forma di sclerosi laterale amiotrofica, potrebbe essere coinvolta anche nella formazione dei tumori. "Ciò che emerge chiaramente dai nostri risultati spiega Giordano Liberi, ricercatore dell'Igm-Cnr e autore della ricerca è che la senataxina, proteina mutata in due rare patologie neurodegenerative ereditarie (una forma giovanile di Sla e una rara atassia con difetti dei muscoli oculari, l'A0A2), agisce come un vigile che regola il traffico durante la replicazione di zone del Dna particolarmente 'affollate"". La replicazione e la trascrizione del Dna ricorda infatti una nota congiunta di Iforn e Cnr sono due eventi fondamentali senza i quali le cellule non potrebbero duplicarsi e funzionare: durante il primo viene prodotta una copia identica della molecola, mentre con il secondo uno dei due filamenti che costituisce la doppia elica di Dna viene trascritto in Rna. "Questi processi avvengono contemporaneamente e devono essere ben coordinati per evitare che interferiscano tra loro", precisa Liberi. "Compito della senataxina, nelle regioni del Dna dove sono presenti geni molto espressi che ospitano costantemente i complessi di trascrizione continua lo studioso è proprio dare la precedenza alla replicazione, evitando al contempo un pericoloso 'scontro tra la forcella replicativa e il complesso di trascrizione e il blocco della forcella". Quando invece la proteina-vigile risulta alterata, come nelle due patologie neurodegenerative, la trascrizione interferisce con la replicazione rendendo il Dna fragile. Una caratteristica comune anche delle cellule tumorali. Pertanto "questa scoperta potrebbe segnare un significativo passo avanti sia nella ricerca sul cancro, sia nello studio delle due patologie neurodegenerative in cui senataxina è alterata", evidenziano Ifom e Cnr. "Lo studio apre alcune domande osserva Liberi Da chiarire innanzitutto il coinvolgimento della senataxina, quale garante della stabilità genomica, nei meccanismi molecolari alla base della formazione dei tumori, dove l'integrità del Dna risulta gravemente compromessa: un'intersezione ancora misteriosa nella ricerca tra malattie genetiche e cancro. Dobbiamo poi stabilire quali sono le cellule del sistema nervoso in cui le lesioni al Dna contribuiscono allo sviluppo di Sla e atassia A0A2. Ma adesso abbiamo un'idea più precisa di cosa cercare: sappiamo che in assenza di senataxina le cellule sono maggiormente soggette a instabilità genomica". "I risultati di questo lavoro costituiscono un importante tassello nel quadro che sta emergendo nella comunità scientifica sottolinea Marco Foiani, direttore scientifico dell'Ifom Gli stessi ingranaggi che muovono la macchina del tumore spesso si trovano alla base di una vasta gamma di patologie, diverse nella loro manifestazione, ma simili in termini di disfunzioni a livello cellulare. L'instabilità genomica potrebbe essere quindi il comun denominatore tra cancro e malattie neurodegenerative come la Sla. Ancora una volta, in controtendenza rispetto alla settorializzazione della ricerca scientifica, questo studio dimostra il valore trasversale della ricerca di base che, lavorando sui meccanismi biologici fondamentali, perviene a scoperte le cui applicazioni guardano verso molteplici aree di indagine apparentemente lontane". "Lo studio conclude Giuseppe Biamonti, direttore scientifico dell'Igm-Cnr rappresenta un'importante conferma della collaborazione intrapresa dai nostri due istituti per supportare la ricerca dei meccanismi fondamentali alla base della fisiologia delle cellule umane. Ci aspettiamo che i prossimi risultati contribuiscano a chiarire il ruolo che la deregolazione di questi meccanismi fondamentali hanno nell'insorgenza di importanti patologie neurodegenerative e tumorali". __________________________________________ Corriere della Sera 18 nov. ’12 LE PAURE SUI VACCINI E LE REPLICHE DEGLI ESPERTI La stragrande maggioranza dei genitori fa vaccinare i propri figli. La percentuale di chi si oppone, in Italia, non supera il 5%, ma la voce di questa minoranza è talmente forte, soprattutto sul web, da dare l'impressione che il movimento contrario alla profilassi delle malattie infettive sia molto più diffuso di quel che è in realtà. «In effetti, cercando la parola "vaccini" in un motore di ricerca, è facile incappare in siti che alimentano timori ingiustificati» dice Alberto Tozzi, pediatra dell'Ospedale Bambino Gesù di Roma, che da molti anni si occupa di questo tema. Nella rete o in tv si raccontano spesso, con un forte coinvolgimento emotivo, vicende di bambini colpiti da gravi malattie, come l'autismo, imputandole alla vaccinazione eseguita giorni o settimane prima della comparsa dei sintomi. «Si dà per scontato che la relazione temporale tra due eventi implichi necessariamente un rapporto di causa ed effetto» prosegue Tozzi, da due anni impegnato in un progetto dell'Organizzazione mondiale della Sanità per mettere a punto un algoritmo che aiuti a valutare, caso per caso, la possibilità che esista un vero legame, e non solo una coincidenza temporale, tra vaccinazione ed effetto collaterale. «In Francia, per esempio, si verificò un aumento di morti in culla proprio durante l'introduzione di un nuovo vaccino antipertosse — ricorda il pediatra — ma poi ci si rese conto che contemporaneamente era cominciata una campagna che invitava i genitori a mettere i neonati a pancia in giù, prima di capire che questo provvedimento, invece di proteggere, favoriva l'evento». Ma una volta che si è insinuato il dubbio, è difficile ristabilire la fiducia. È bastata la frode scientifica di un solo individuo, il medico britannico Andrew Wakefield (poi espulso dall'Ordine professionale), che falsificò i dati di un lavoro condotto su una manciata di pazienti, per instillare nell'opinione pubblica mondiale, e mantenere per decenni, il timore che il vaccino contro morbillo, parotite e rosolia possa indurre l'autismo. La mole di lavori prodotti in seguito, che ha unanimemente smentito la relazione, non è riuscita a neutralizzare l'effetto mediatico di quel sospetto, di cui ancora paghiamo le conseguenze con una copertura vaccinale per il morbillo inferiore alle attese. «Per paura dei possibili effetti collaterali del vaccino ci si espone al rischio delle conseguenze ben più gravi e frequenti della malattia, che oltre a poter essere mortale può portare con una frequenza che va da un caso su mille a uno su 100 mila a una condizione gravemente invalidante come la panencefalite sclerosante subacuta — spiega Susanna Esposito, presidente della commissione dell'OMS per l'eradicazione del morbillo e della rosolia congenita. «Va detto però che anche i vaccini, come qualunque farmaco, possono avere effetti collaterali — afferma Pierluigi Lopalco, del Centro europeo per il controllo delle malattie —. I più comuni si possono vedere già negli studi che precedono l'immissione in commercio, ma se sono rari non si possono mettere in evidenza fino a quando il prodotto non è somministrato a centinaia di migliaia o milioni di persone». Per questo, anche dopo che le autorità competenti hanno accertato che il rapporto tra rischi e benefici è favorevole, occorre continuare la sorveglianza, come accade per qualunque medicinale: oltre ai controlli di qualità delle aziende, ogni nazione ha un suo sistema di rilevamento degli effetti collaterali dei farmaci, segnalati dai medici alle autorità centrali. «Questi casi però vanno verificati e non è facile accertare che dipendano dai vaccini, soprattutto quando si parla di condizioni rare — prosegue Lopalco —. Per questo a livello europeo è stato istituito il progetto Vaesco, che permette di mettere in comune i dati provenienti da vari Paesi e di accertare di volta in volta la consistenza dei segnali di allarme». Molte preoccupazioni, per esempio, hanno accompagnato l'introduzione del vaccino contro la pandemia cosiddetta suina, del 2009. Il vaccino contro un virus simile, negli anni Settanta, aveva provocato negli Stati Uniti alcuni casi di una forma di paralisi detta di Guillain Barrè. «Attivando la nostra rete in tutta Europa — dice Lopalco — abbiamo potuto constatare che in relazione all'evento del 2009 la vaccinazione di massa non ha influito sul numero di casi di Guillain Barrè che si verifica spontaneamente ogni anno». Viceversa, lo stesso sistema ha dato ragione ai neurologi finlandesi che avevano segnalato un preoccupante aumento dei casi di narcolessia, una condizione neurologica rara, alcuni mesi dopo la vaccinazione pandemica: «Abbiamo potuto confermare — prosegue l'esperto — che questa relazione, se pur rara, solo in Finlandia e Svezia, e con un vaccino che ora non è più in uso, effettivamente c'è stata». Nessuna conferma scientifica hanno invece trovato le altre paure che serpeggiano sui siti contrari ai vaccini. «Come l'idea, per esempio, — riferisce Tozzi — che troppe vaccinazioni possano indebolire le difese dell'organismo o che il sistema immunitario dei bambini piccoli non sia pronto a reagire a questi stimoli. Se così fosse i neonati non sarebbero in grado di reagire al ben maggior numero di sostanze estranee e microorganismi con cui vengono a contatto nella vita quotidiana». Altri sostengono che la pratica delle vaccinazioni, influendo sul delicato equilibrio del sistema immunitario, avrebbe favorito il dilagare delle allergie. «Ma i fatti provano il contrario, — replica il pediatra — nel caso della pertosse, per esempio, chi si ammala rischia l'asma più di chi si vaccina». Poi c'è il timore degli eccipienti e degli adiuvanti: per esempio, del mercurio contenuto nel thimerosal, sostanza che serviva a mantenere sterile il contenuto delle fiale. Per prudenza è stato tolto da tutti i preparati in commercio, anche se non c'erano prove che rappresentasse una minaccia per la salute. «L'alluminio, invece, è ancora contenuto, in quantità assolutamente innocue, in alcuni prodotti, come l'esavalente — precisa Alberto Tozzi —. Ha lo scopo di rendere più vivace la risposta immunitaria con una minore quantità di antigeni, cioè delle sostanze derivate dal microrganismo: l'arrossamento o il gonfiore che può provocare sulla pelle sono solo segni che funziona». __________________________________________ Corriere della Sera 18 nov. ’12 PERCHÉ E COME REALIZZARE UN'EUROPA PIÙ UNITA ANCHE SULLE VACCINAZIONI Non bisogna lasciare rischiose falle nella prevenzione S e in Europa esiste la libera circolazione di merci e persone, questa vale ancor più per virus e batteri, ignari di qualunque frontiera. Per questo negli ultimi dieci anni la Commissione Europea ha investito oltre 500 milioni di euro in progetti che coinvolgono esperti, università, istituzioni di sanità pubblica degli Stati membri — ma a volte anche di altri Paesi limitrofi, come Svizzera e Turchia — nella convinzione che proteggersi dalle malattie infettive nel ventunesimo secolo è ancora importante e che l'immunizzazione ottenuta con i vaccini è una colonna fondamentale, anche se non l'unica, di quest'opera di prevenzione. Filo conduttore delle iniziative la volontà di rispondere in maniera coordinata a minacce vecchie, nuove e possibili in futuro. «Ciò non significa che le strategie debbano essere le stesse in tutti i Paesi — precisa Paolo D'Ancona, del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell'Istituto superiore di Sanità —. Esaminando le differenze è possibile però individuare punti di forza e di debolezza e rispondere in maniera adeguata». Prima di tutto occorre avere un quadro chiaro della situazione, sapere quali Paesi effettuano le varie vaccinazioni, a quali categorie di cittadini, con quali modalità: se per esempio attraverso un obbligo di legge o tramite un'offerta attiva, gratuitamente o con una compartecipazione alle spese. «È questo il principale obiettivo del progetto Venice II, coordinato dall'Istituto superiore di Sanità italiano, che si avvale di un network di esperti di 29 Paesi» prosegue D'Ancona, responsabile del progetto. Gli esperti di Venice hanno studiato le strategie vaccinali nei vari Paesi europei per i principali vaccini, nonché temi specifici come la vaccinazione dell'adulto, o le modalità di introduzione di nuovi vaccini, quelli contro il papillomavirus umano o quello contro il rotavirus, responsabile di gravi gastroenteriti dell'infanzia. Quest'ultimo è un buon esempio di come in contesti sovrapponibili si possano prendere provvedimenti diversi: adottato e promosso in alcuni Paesi, non è invece incluso nel nuovo Piano nazionale di prevenzione vaccinale del ministero della Salute italiano. Perché? «Per essere autorizzati dalle autorità competenti tutti i vaccini devono essere efficaci e sicuri — spiega Susanna Esposito, direttore della prima Clinica pediatrica all'Ospedale Policlinico di Milano e presidente della Società Italiana di Infettivologia Pediatrica —. Poi, la scelta di consigliarli o di offrirli gratuitamente deriva essenzialmente da valutazioni di tipo economico e organizzativo: nel caso del vaccino per il rotavirus, per esempio, si devono somministrare 2 o 3 dosi per bocca a partire dal secondo mese di vita, prima quindi del primo appuntamento per le altre vaccinazioni, e ciò complica le cose». Il vaccino inoltre è abbastanza caro (nel nostro Paese ogni dose costa più di 50 euro) mentre la malattia, pur provocando nella sola Italia migliaia di ricoveri ogni anno, nei Paesi industrializzati difficilmente è mortale o lascia esiti permanenti. Per questo, per il momento, il vaccino è offerto con una partecipazione alla spesa solo in alcune Regioni. «In Italia, la scelta dell'adozione di un vaccino si basa essenzialmente sulla gravità delle conseguenze cliniche della malattia da evitare, mentre altrove si tiene in maggior conto anche il rapporto tra i costi della vaccinazione e quelli diretti e indiretti della malattia» prosegue Esposito. Per questo, restando sull'esempio del vaccino per il rotavirus, mentre in Italia è somministrato solo all'1% dei bambini, in Finlandia, Belgio, Austria si è promossa questa vaccinazione. La stessa logica è seguita negli Stati Uniti non solo contro il rotavirus ma anche contro i virus influenzali: vaccinare tutti i bambini, anche se non sono a rischio, per bloccare la trasmissione del virus e pure per ridurre l'impatto economico e sociale dell'epidemia stagionale. Il vaccino antinfluenzale, peraltro, è sempre oggetto di attenzione: la sua sicurezza è stata ripetutamente accertata, ma sull'efficacia molti studi hanno espresso perplessità. «La sua capacità di proteggere dall'influenza può variare dal 30 all'80% — spiega Pierluigi Lopalco, a capo del programma per le malattie prevenibili da vaccino del Centro europeo per il controllo delle malattie (ECDC) —. Dipende da quanto si rivelano esatte le previsioni in base alle quali si producono ogni anno i vaccini, tenendo poi conto del fatto che i virus possono mutare nel corso della stessa stagione». Per monitorare di anno in anno quanto funzioni il vaccino in 17 Paesi europei, in relazione a modi e tempi di somministrazione, nei diversi gruppi di rischio e per ogni sottotipo virale, c'è il progetto I-MOVE che consente di avere dati indipendenti dall'industria e provenienti dalla popolazione europea, per correggere eventuali errori e migliorare i risultati. «Anche un'efficacia di poco superiore al 30%, comunque, per quanto insoddisfacente, non rende inutile la vaccinazione, — puntualizza Lopalco — perché permette di ridurre di un terzo il rischio di una malattia che nei soggetti a rischio può essere mortale». Una delle ragioni dello scarso entusiasmo di parte dell'opinione pubblica nei confronti delle vaccinazioni è la scarsa percezione della gravità delle patologie che prevengono. Un problema che vale per l'influenza come per il morbillo, una delle malattie che, per il suo forte carico di vittime e disabilità, più preoccupa le autorità europee. «L'obiettivo di eliminare il morbillo dal continente europeo entro il 2015 ormai sembra sfumato — ammette Lopalco —. In Europa abbiamo ancora 4.900.000 persone nate tra il 1998 e il 2008 che non sono vaccinate e l'Italia è tra i Paesi con il più alto numero di casi, che negli ultimi anni aumenta invece di diminuire. Avere più del 90% di copertura non basta, e talvolta può non esserlo nemmeno quella auspicata del 95%: se piccoli non vaccinati si concentrano in un unico ambiente, nemmeno l'immunità del "gregge", come si dice, potrà proteggerli». Oltre al morbillo, l'ECDC tiene d'occhio anche altre importanti malattie del bambino, come la parotite, la rosolia (per le sue conseguenze sul nascituro quando è contratta in gravidanza) e la pertosse (che nei piccolissimi può bloccare i centri del respiro). Un tempo queste malattie erano considerate quasi un passaggio obbligato nell'infanzia e le conseguenze erano ritenute fatalità. Oggi si possono evitare. __________________________________________ Corriere della Sera 16 nov. ’12 EMENDAMENTI BIPARTISAN PER IL SALVATAGGIO DEI FARMACI GRIFFATI ROMA — Nuovo braccio di ferro tra Parlamento e Governo: potrebbe essere cancellato per i medici l'obbligo di indicare nella ricetta il principio attivo al posto del farmaco griffato, in presenza di medicine equivalenti. Una norma introdotta questa estate con la spending review e che già nelle prossime settimane potrebbe sparire. A Palazzo Madama, infatti, attraverso il decreto Sviluppo, diversi senatori stanno tentando di modificare il provvedimento trasformando l'obbligo in semplice «facoltà»: a firmare le modifiche, con emendamenti salva-griffati, sono esponenti di quasi tutti i partiti. Ma il ministro della Salute, Renato Balduzzi, replica: «La norma in vigore è equilibrata e non ci sono ragioni per non continuare sulla strada della valorizzazione della cultura e della pratica del farmaco equivalente che fa risparmiare i cittadini e il Ssn». Dopo la battaglia (vinta) con la spending review, e quella (persa) con il decreto sanità, lo scontro sui farmaci mostra alcune crepe all'interno dell'esecutivo. Infatti il sottosegretario allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, in commissione Industria del Senato ha espresso parere favorevole del Governo agli emendamenti, anche se con l'ipotesi di una riformulazione. Balduzzi però lo ha sconfessato: «Quella del sottosegretario non è l'opinione del Governo, perché non ne abbiamo ancora parlato, e comunque non è la mia». Il ministro della Salute ha spiegato che se alla fine l'esecutivo arriverà a condividere la necessità di cambiare la norma si adeguerà ma, «ho l'ambizione — ha sottolineato — di contribuire a formare l'opinione collegiale del Governo». Resta da vedere che cosa accadrà in Parlamento, visto che in commissione Industria sembra esserci molta determinazione a «difendere l'industria farmaceutica che investe e crea lavoro», ha ricordato il presidente, Cesare Cursi, chiarendo che «il ministro è il ministro, poi c'è il Parlamento». A confortare la tesi della maggiore economicità della cultura del farmaco equivalente arriva la decisione di Assogenerici, l'associazione dei produttori dei medicinali fuori brevetto, di tagliare i prezzi del 5% nel corso del 2013 «con un risparmio di 250 milioni per il Servizio sanitario nazionale». Chi produce medicine griffate con brevetto ormai scaduto, ha fatto notare Balduzzi difendendo le sue norme, «basta che abbassi il prezzo e venderà lo stesso il suo prodotto». Francesco Di Frischia __________________________________________ Corriere della Sera 16 nov. ’12 ORDINE DEL GIUDICE: TEST PRENATALE ANCHE NEGLI OSPEDALI «Un diritto sapere se l'embrione è sano» ROMA — Altre donne prima di lei si erano sentite negare il diritto di sapere in anticipo, prima di avviare la gravidanza, se il bambino sarebbe nato sano. Teresa però (la chiameremo così) non si è fermata. Ha presentato ricorso al Tribunale civile di Cagliari chiedendo che l'Ospedale Microcitemico, il centro pubblico dove aveva cominciato un percorso di fecondazione artificiale, ordinasse ai medici di non negarle questa speranza. I giudici le hanno dato ragione. Con una sentenza resa nota ieri dall'Associazione Luca Coscioni hanno disposto di eseguire la diagnosi preimpianto sull'embrione, l'analisi genetica che consentirebbe a Teresa e al marito di accarezzare il sogno di avere un bebè in piena salute. Lei è malata di talassemia, lui ne è portatore. Hanno il 50 per cento di probabilità di trasmetterla al figlio. Il test sugli embrioni, creati in provetta, potrebbe farli diventare genitori felici. «Non voglio rischiare di avere una creatura destinata a gravi sofferenze. Non voglio essere messa di fronte alla decisione di abortire», racconta Teresa. La sentenza cagliaritana segna un'altra tappa importante della legge sulla procreazione medicalmente assistita, la numero 40. Nel ribadire che la diagnosi preimpianto deve essere eseguita nei centri pubblici in possesso dei requisiti tecnici (secondo o terzo livello) chiarisce che le stesse strutture devono garantire le stesse prestazioni di quelle private, ad esempio il congelamento e la fecondazione di un numero di ovociti superiori a tre. Tecniche contemplate dalla legge, inizialmente piena di divieti e col passare degli anni modificata a colpi di interventi di tribunali e Corte costituzionale (altri sono in arrivo). In particolare, però, nei 76 laboratori pubblici (sui 357 totali) che avrebbero i requisiti per accontentare le coppie infertili sotto tutti i profili, in questi anni si è cercato di non affrontare il problema non essendo del tutto chiara l'interpretazione della legge. Fra pronunciamenti di tribunali, linee guida e raccomandazioni orali, come quello dell'ex sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella definito «diktat» dai Radicali, si era creata confusione. Risultato, le diagnosi genetiche erano diventate monopolio del privato, costo da 6 a 10 mila euro. Ora non dovrebbero più esserci dubbi interpretativi. Per Filomena Gallo, segretario dell'Associazione Coscioni, significa aver ristabilito il principio dell'equità delle cure: «I centri avranno l'obbligo di fornire indicazioni sullo stato di salute dell'embrione. Già una sentenza del 2007 aveva autorizzato una coppia a ottenere la diagnosi preimpianto. Con questa seconda decisione si entra nel merito». Emma Bonino, vicepresidente del Senato, conta le sentenze contro la legge 40: «In tutto 19. La conferma che è un testo ideologico e fuori dal contesto». Favorevole alla «svolta» Giovanni Mommi, responsabile della ginecologia del Microcitemico, dove prima del 2004, anno di entrata in vigore della legge 40, la diagnosi sull'embrione era un fiore all'occhiello. La Sardegna ha infatti un'alta incidenza di talassemia: «Il nostro ospedale non è attrezzato per l'esame. Il giudice però stabilisce che la Asl demandi il test a laboratori privati e paghi». Ironica Eugenia Roccella, deputata del Pdl: «Se fosse vero che i centri pubblici dovranno necessariamente dotarsi delle attrezzature per svolgere la diagnosi preimpianto sarebbe più semplice trasferire le competenze di Asl e Regioni direttamente ai tribunali che, a quanto pare, sono più preparati in questa materia. In quanto al merito i giudici hanno stabilito in pratica che un bambino con talassemia ha meno diritto di nascere rispetto a una persona sana. È un chiaro presupposto eugenetico». Margherita De Bac ____________________________________________________ La Nuova Sardegna 17 nov. ’12 PROCREAZIONE, SODDISFATTO VERONESI CAGLIARI «Molto favorevole»: questo il commento dell’oncologo Umberto Veronesi sulla sentenza del tribunale di Cagliari che ha ordinato all’ospedale microcitemico di eseguire la diagnosi preimpianto per una coppia fertile ma portatrice di talassemia. «Abbiamo combattuto a favore della scienza e delle donne, che hanno il diritto di avere figli sani fin dove è possibile – dice a Milano il grande specialista – E oggi è possibile, anche se una legge bizzarra, stranamente, glielo proibiva. Per fortuna questa magistratura ci aiuta: segue norme legate alla Costituzione e non a momenti di debolezza del Parlamento. Ma adesso la legge 40 andrebbe assolutamente rivista». Non è che uno dei tanti commenti favorevoli alla sentenza di Cagliari. Afferma Luca Gianaroli, direttore scientifico della Società italiana studi di medicina della riproduzione: «La decisione ribadisce l’importanza dell’equità nell’accesso alle cure, che in questo caso non è messa a rischio da restrizioni legali, ma dalla volontà di non applicare le normative vigenti e dalla mancanza di un’informazione chiara ed univoca in materia». Soddisfatta la deputata del Pdl Manuela Repetti: «Il diritto di avere figli sani è sacrosanto e nulla ha a che vedere con ciò che qualcuno, in modo strumentale mostrando totale insensibilità, definisce eugenetica. La “40” è stata una grave forzatura con la quale si sono commessi molti errori sulla pelle della gente: quella legge che va cancellata o modificata nella gran parte della sostanza». Critiche alla scelta fatta a Cagliari arrivano invece dalla Cattolica del Sacro Cuore. In una nota del centro di bioetica dell’università si sostiene infatti che «non si può giustificare la diagnosi preimpianto in nome dell’amore per i figli perchè significa sostenere che sia meglio non nascere che vivere con una patologia: una logica che di fatto si salda con il diffondersi di una mentalità che giudica soltanto come un peso le persone con disabilità anche nelle altre fasi della vita». «L’ostilità della malattia si trasforma impropriamente in ostilità nei confronti dei malati», è la conclusione del team di esperti dell’ateneo che si richiama ai valori e ai precetti della religione cattolica. __________________________________________ Le Scienze 16 nov. ’12 L'INFLUENZA DIRETTA DELLA LUCE SU UMORE E APPRENDIMENTO Una sperimentazione sui topi ha chiarito il meccanismo mediante il quale le variazioni di luce ambientale – per esempio alternando continuamente brevi cicli di luce e di buio della stessa durata - possono determinare disturbi dell'umore, fino alla depressione, e deficit di apprendimento: a mediare questa influenza sono specifiche cellule della retina. Si tratterebbe quindi di un'interazione diretta, che non coinvolge né il sonno né i ritmi circadiani (red) La luce è in grado d'influenzare direttamente le capacità di apprendimento e di disturbare l'umore agendo su specifiche cellule della retina, le cellule gagliari. Lo hanno dimostrato Tara A. LeGates del Dipartimento di Biologia della Johns Hopkins University a Baltimore, nel Maryland, e colleghi di un'ampia collaborazione internazionale, che firmano in proposito un articolo sulla rivista "Nature". E' un fatto acquisito che le variazioni di luce possono alterare negativamente l'umore e sulle funzioni cognitive: per esempio, l'esigua durata del giorno durante l'inverno, particolarmente evidente nei paesi del Nord, può portare a sindromi depressivi. Si è verificato sperimentalmente, inoltre, che studiare in condizioni di luce diurna è più proficuo che studiare di notte alla luce di una lampada. Tuttavia, finora non si conoscevano i circuiti neuronali attraverso i quali si esplica questa influenza delle condizioni di luce, né era chiara la funzione di tali circuiti. L'ipotesi prevalente era che le variazioni dell'esposizione al sole alterassero i ritmi circadiani (i processi che controllano il nostro “orologio biologico” con ciclo di 24 ore). Un altro fattore indiretto sulla funzionalità del cervello, finora ritenuto cruciale, era la deprivazione del sonno. L'alterazione del ciclo luce/buio può influire negativamente sullo stato dell'umore e sull'apprendimento con meccanismi molto più diretti di quelli ipotizzati finoraPer verificare queste ipotesi, LeGates e colleghi hanno sottoposto alcuni topi di laboratorio a un ciclo di luce/buio aberrante definito ultradiano (3,5 ore di luce seguite da 3,5 di oscurità, quindi evitando di far prevalere l'esposizione alla luce o viceversa all'oscurità) verificando che non avesse effetti né sul ritmo del sonno né sui ritmi circadiani. L'isolamento dei diversi fattori implicati ha consentito di dimostrare che la luce regola direttamente i comportamenti collegati all'umore e alle funzioni cognitive. Gli animali hanno mostrato infatti un incremento dei comportamenti di tipo depressivo e chiari deficit di apprendimento. In particolare, i risultati della sperimentazione dimostrano che i problemi di umore precedono quelli di apprendimento, dal momento che la somministrazione dei farmaci antidepressivi fluoxetina e o desipramina ha consentito di ristabilire i corretti ritmi di apprendimento e di sonno nei topi esposti al ciclo di luce/buio aberrante. Con un secondo test, i ricercatori hanno individuato anche la via neuronale che media questa processo: si tratta delle cellule gangliari retinali fotosensibili. I topi mancanti di queste specifiche cellule della retina, infatti, non hanno manifestato alcun deficit di apprendimento né alterazioni nell'umore. __________________________________________ Corriere della Sera 16 nov. ’12 LE CELLULE DELLA LUCE ECCO PERCHÉ L'OSCURITÀ CI RENDE DEPRESSI di EDOARDO BONCINELLI Sappiamo che in alcuni soggetti la scarsezza di luce causa depressione e alcuni tipi di depressione grave vengono curati con un'esposizione a una luce forte. Abbiamo, insomma, bisogno di luce, ma non sapevamo perché. In passato qualcuno aveva addirittura favoleggiato dell'esistenza di un «terzo occhio», da identificare probabilmente con la ghiandola pineale, sensibile alla luminosità dell'ambiente. Si è visto ora che nella retina dei nostri occhi esistono un certo numero di cellule specifiche che misurano l'intensità e la durata dell'illuminazione e queste sono alla base del fenomeno. Si tratta di una sottopopolazione di cellule gangliari, quelle che portano il segnale visivo dalla retina al cervello, che sono state battezzate ipRGC, intrinsically photosensitive retinal ganglion cells. Queste cellule non servono a vedere l'immagine che abbiamo davanti ma misurano appunto specificamente l'intensità e la durata dell'illuminazione. Sono connesse direttamente con varie strutture del sistema limbico, quello che regola il nostro umore, al quale segnalano per esempio la durata del giorno e della notte, per aggiustare i nostri ritmi circadiani. Sulla rivista Nature sta per comparire uno studio di un gruppo di ricerca di Baltimora che ha sottoposto alcuni topi ad un alternarsi di luce e oscurità leggermente diverso da quello al quale sono abituati. Le cose sono fatte in modo da non turbare il loro regime di sonno e non causare altri danni collaterali. Si è visto però che gli animali esposti rivelano chiari segni di depressione e cominciano a perdere la capacità di imparare. I ricercatori dimostrano che questo secondo difetto è direttamente causato dalla depressione, perché se si danno varie sostanze antidepressive a questi animali, quelli riacquistano prontamente la capacità di imparare. Si è visto inoltre che topi privi del tipo di cellule appena ricordate sono insensibili al trattamento. Non c'è dubbio che un meccanismo simile operi anche in noi. Abbiamo così imparato un certo numero di cose fondamentali: il ritmo circadiano è regolato da speciali cellule della retina; turbare questo ritmo genera depressione; e questa può portare direttamente a problemi nell'apprendimento. Occorre fare attenzione quindi tra le altre cose al jet lag e alle giornate buie... __________________________________________ Le Scienze 13 nov. ’12 VEDERE MEGLIO CONSUMANDO DI MENO La percezione del contrasto e della luminosità in condizioni di illuminazione artificiale può essere migliorata adattando il ritmo di emissione della radiazione luminosa alle specificità del sistema visivo umano, uno stratagemma che permetterebbe notevoli risparmi energetici. Lo ha stabilito una ricerca che ha risolto una secolare diatriba fra due modelli della percezione visiva (red) Adattando il ritmo di emissione di luce delle sorgenti artificiali alle caratteristiche della percezione visiva umana si potrebbe ottenere un significativo risparmio energetico. A stabilirlo è uno studio condotto da ricercatori del Barrow Neurological Institute, a Phoenix in Arizona, e delle Università di Vigo e di Santiago de Compostela, in Spagna, il primo ad aver analizzato a fondo le caratteristiche temporali dei dispositivi che emettono luce in modo non continuo ma attraverso una velocissima e impercettibile successione di flash di luce, come, per esempio, i diodi delle lampade LED. La ricerca è descritta in un articolo pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”. I due modelli in competizione (Cortesia Hector Rieiro et al. / PNAS) Il ruolo della durata dello stimolo sulla percezione del contrasto finora non era stato chiarito a fondo. Oltre un secolo fa, i risultati sperimentali avevano portato a due modelli contrastanti. Il primo, noto come legge di Bloch, ipotizza una crescita regolare nella percezione del contrasto all'aumentare della durata dello stimolo, ossia dei singoli flash di luce, fino a raggiungere, a partire da una durata compresa fra i 100 e i 150 millisecondi, un plateau dove l'intensità della luminosità e del contrasto percepiti non varia più. Il secondo modello, proposto da Andre Broca e David E. Sulzer, prevede che, aumentando la durata del singolo stimolo, la percezione aumenti raggiungendo un picco, superiore ai valori previsti da Bloch, per poi decrescere verso lo stesso plateau (vedi illustrazione). Sperimentazioni successive hanno dato risultati contrastanti anche se un numero maggiore di esse sembrava a favore del modello di Bloch. L'esistenza di dati contrastanti ha però indotto Hector Rieiro e colleghi a riesaminare gli studi sull'argomento, scoprendo che nessuna delle ricerche condotte finora aveva adottato misure per evitare le distorsioni dovute a un tipo di preconcetto dei soggetti sperimentali noto come "bias della competenza intrinseca”. Hanno quindi progettato una serie di esperimenti volti a escludere specificamente l'influenza di questo bias, provocato, nel caso delle ricerche sulla visione, al fatto che anche i soggetti "ingenui" , cioè sottoposti per la prima volta ai test, ovviamente hanno affrontato per tutta la vita situazioni che proponevano percezioni ambigue, sviluppando in maniera inconscia apprendimenti relativi alla presunta "interpretazione" corretta di quelle percezioni. E questi apprendimenti possono sedimentarsi in "bias della competenza intrinseca”, come li hanno chiamati i ricercatori. © cultura/CorbisRierio e colleghi hanno così potuto osservare l'effettiva esistenza di un picco di percezione della luminosità e del contrasto quando la durata delle emissioni di lampi di luce è compresa fra i 50 e i 100 millisecondi; il modello Broca-Sulzer - concludono i ricercatori - descrive dunque meglio il comportamento percettivo della visione umana in funzione della durata temporale dello stimolo. Tenendo conto di ciò si potrebbero produrre lampade con un ritmo di emissione corrispondente al picco, capaci cioè di offrire, a parità di energia spesa, una percezione di maggiore luminosità. __________________________________________ Sanità News 17 nov. ’12 INDIVIDUATO UN NUOVO MODO DI FERMARE LA SPERMATOGENESI Roma, 14 nov. - Un composto chimico che induce le cellule spermatiche immature a uscire dai testicoli precocemente potrebbe aprire la strada a nuovi contraccettivi. Gli scienziati che da anni studiano una "pillola maschile" hanno recentemente scoperto diversi modi per ostacolare la produzione di sperma, di solito attraverso lo spegnimento dei geni e/o delle proteine tipiche dei testicoli. Ora un team guidato da C. Yan Cheng del Population Council's Center for Biomedical Research di New York City ha individuato un nuovo modo per fermare la spermatogenesi: interferire con la barriera emato-testicolare, una sorta di 'firewall' cellulare tra i testicoli e la circolazione sanguigna. Quando gli scienziati hanno iniettato un frammento di una speciale proteina nei testicoli di topo, la barriera si e' infranta: in questo modo, lo sperma immaturo e' fuoriuscito dai testicoli troppo presto, prima di essere in grado di fecondare l'ovulo. Un dato ancora piu' importante e' che questi cambiamenti sono stati reversibili. I risultati della ricerca sono pubblicati su Nature Communications. Un potenziale contraccettivo maschile richiedera' comunque molti piu' test: per esempio, non si e' verificato se i topi che hanno subito questo trattamento, poi invertito, hanno avuto meno cuccioli del normale. Secondo Cheng, comunque, il vantaggio di questa proteina rispetto ad altri contraccettivi sarebbe che il corpo la produce naturalmente in piccole quantita', e quindi e' probabile che sia ben tollerata __________________________________________ Sanità News 15 nov. ’12 IN ARRIVO DAGLI USA UNA MAMMOGRAFIA IN 3D Una nuova tecnica di mammografia tridimensionale potrebbe migliorare significativamente l'accuratezza dello screening per il cancro al seno. Lo studio della Emory University e' stato pubblicato su Radiology. L'attuale mammografia a raggi X bidimensionale e' il sistema piu' diffuso per l'individuazione del cancro alla mammella, ma ha qualche limite. Per esempio, il tessuto sano circostante puo' mascherare una lesione che, se e quando individuata, non e' mai stimata volumetricamente. La nuova tecnica oggetto della ricerca si chiama mammografia digitale stereoscopica e attraverso un'immagine 3D riesce a superare queste limitazioni. Questa impiega sempre la tecnologia della mammografia digitale in 2d ma i raggi X sono modificati in modo da muoversi separatamente e creare due differenti prospettive che danno l'illusione della visione tridimensionale. "Nella nostra tecnica i canali dei raggi X funzionano come gli occhi, con due differenti immagini che forniscono differenti viste della struttura interna della mammella", ha spiegato Carl D'Orsi, fra gli autori della ricerca. In un test condotto su 779 pazienti a elevato rischio di cancro, l'accuratezza dell'individuazione del tumore e' risultata migliore nel caso della tecnica 3d: 90,9% contro l'87,4 della mammografia bidimensionale, un aumento statisticamente significativo. tereoscopic Digital Mammography: Improved Specificity and Reduced Rate of Recall in a Prospective Clinical Trial 1. Carl J. D’Orsi, MD, 2. David J. Getty, PhD, 3. Ronald M. Pickett, PhD, 4. Ioannis Sechopoulos, PhD, 5. Mary S. Newell, MD, 6. Kathleen R. Gundry, MD, 7. Sandra R. Bates, MD, 8. Robert M. Nishikawa, PhD, 9. Edward A. Sickles, MD, 10. Andrew Karellas, PhD and 11. Ellen M. D’Orsi, RT(R)(M) Abstract Purpose: To compare stereoscopic digital mammography (DM) with standard DM for the rate of patient recall and the detection of cancer in a screening population at elevated risk for breast cancer. Materials and Methods: Starting in September 2004 and ending in December 2007, this prospective HIPAA-compliant, institutional review board– approved screening trial, with written informed consent, recruited female patients at elevated risk for breast cancer (eg, personal history of breast cancer or breast cancer in a close relative). A total of 1298 examinations from 779 patients (mean age, 58.6 years; range, 32–91 years) comprised the analyzable data set. A paired study design was used, with each enrolled patient serving as her own control. Patients underwent both DM and stereoscopic DM examinations in a single visit, findings of which were interpreted independently by two experienced radiologists, each using a Breast Imaging Reporting and Data System (BI-RADS) assessment (BI-RADS category 0, 1, or 2). All patients determined to have one or more findings with either or both modalities were recalled for standard diagnostic evaluation. The results of 1-year follow-up or biopsy were used to determine case truth. Results: Compared with DM, stereoscopic DM showed significantly higher specificity (91.2% [1167 of 1279] vs 87.8% [1123 of 1279]; P = .0024) and accuracy (90.9% [1180 of 1298] vs 87.4% [1135 of 1298]; P = .0023) for detection of cancer. Sensitivity for detection of cancer was not significantly different for stereoscopic DM (68.4% [13 of 19]) compared with DM (63.2% [12 of 19], P .99). The recall rate for stereoscopic DM was 9.6% (125 of 1298) and that for DM was 12.9% (168 of 1298) (P = .0018). Conclusion: Compared with DM, stereoscopic DM significantly improved specificity for detection of cancer, while maintaining comparable sensitivity. The recall rate was significantly reduced with stereoscopic DM compared with DM. © RSNA, 2012 __________________________________________ Sanità News 13 nov. ’12 L’ABUSO DI PARACETAMOLO PUO’ CAUSARE L’EPATITE Superare il dosaggio di 4 grammi al giorno di paracetamolo o combinarlo con altri analgesici contenenti lo stesso principio attivo, e' rischioso. Un sovradosaggio e' la principale causa di insufficienza epatica acuta in Occidente, che registra un quinto di tutte le morti per overdose accidentale di paracetamolo-correlati. L'allarme arriva da uno studio di Chicago presentato a Boston nel corso del congresso dell'AASLD, American Association for the Study of Liver Diseases. L'uso non intenzionale di assumere oppioidi con paracetamolo con altri analgesici contenenti sempre questo farmaco provoca una epatotossicita', una epatite tossica, fenomeno spesso motivo di ritiro dal commercio di medicinali. Inoltre una overdose da paracetamolo e' difficile da riconoscere. E' fondamentale quindi che il paziente sia sempre piu' consapevole dei rischi causati da mix di farmaci e per questo e' necessario - suggeriscono gli autori - una maggiore chiarezza nelle etichette degli stessi medicinali abolendo le abbreviazioni dei farmaci. Lo studio ha arruolato 249 pazienti; per 4 giorni i partecipanti hanno tenuto un diario su tutti i farmaci assunti, compresi quelli da banco (OTC), senza prescrizione medica. Il 10,8% dei pazienti ha riferito di assumere lo stesso giorno piu' medicinali contenenti paracetamolo. La maggioranza di questi, il 74,1% ha assunto paracetamolo insieme agli analgesici. L'1,6% ha inoltre superato la dose consigliata giornaliera di paracetamolo (4 grammi). E nell'87,3% delle prescrizioni, il paracetamolo e' indicato solo con la sua sigla, APAP o ACET. Corriere della Sera 13 nov. ’12 DALLO STRESS ALLA DIETA, I GENI INFLUENZATI DALL'AMBIENTE La rivoluzione epigenetica«I marcatori agiscono sul dna e si trasmettono ai figli»di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI D omani l'insigne genetista inglese David Charles Baulcombe riceverà in Quirinale, dal Presidente della Repubblica, il Premio Balzan per le scienze. Regius Professor di Botanica, professore di ricerca alla Royal Society e Direttore del Dipartimento di Scienze Botaniche all'Università di Cambridge, Baulcombe è internazionalmente noto come pioniere in un settore della biologia che è, da alcuni anni a questa parte, in enorme sviluppo: l'epigenetica. Letteralmente, dalle radici greche, la parola significa al di sopra della genetica, ma è forse più intuitivo dire che studia ciò che avviene «a valle» delle istruzioni contenute nei geni, cioè nel dna degli organismi viventi. In altre parole, l'epigenetica è il cuore delle ricerche sulle complesse e sottili interazioni tra i geni e l'ambiente in cui gli organismi si sviluppano. Lo studio di questi processi ha ricevuto considerevole impulso, soprattutto grazie a Baulcombe, proprio nella botanica. Gli chiedo di spiegarci come mai. «L'epigenetica è una sorta di ereditarietà lieve (usa la parola soft), perché studia le proprietà delle cellule che vengono modificate dall'ambiente nel quale vivono. Conoscevamo già da gran tempo queste proprietà, ma solo in anni recenti si è cominciato a capirne in dettaglio i meccanismi. Sappiamo che l'ambiente può causare delle lievi trasformazioni chimiche, cioè inserire sul dna dei marcatori che poi vengono copiati quando le cellule si dividono». Aggiungo io per chiarezza che si tratta di un ben noto e piccolo gruppo chimico chiamato «metile», il quale si fissa in certi punti sulla ben più grande molecola del dna, un po' come un sassolino che entra nelle gomme di un grande autobus. Baulcombe prosegue: «Il marcatore non altera la sequenza del dna, ma modula l'attivazione di un gene sul quale esso va a fissarsi». Aggiunge qualcosa che, fino a pochi anni orsono, era considerata anatema: cioè che, in qualche raro caso, il marcatore epigenetico si trasmette attraverso le generazioni, da una pianta al seme e poi alla pianta che si sviluppa da esso, e così via lungo alcune generazioni successive. Negli animali, uomo compreso, i marcatori epigenetici (influenzati anche da inquinamento, alimentazione, stress, invecchiamento, alcol e droghe, farmaci) si trasmettono dai genitori ai figli. Qui si impone, penso, di precisare qualcosa che è lasciato implicito da Baulcombe e ben noto a tutti coloro che lavorano in epigenetica. In un certo senso, solo in un certo senso, si ha un fenomeno di un tipo chiamato Lamarckiano, cioè un'ereditarietà di caratteri acquisiti. Non si ha, però, un vero ritorno del Lamarckismo, perché nei mammiferi tale trasmissione non va oltre la terza o quarta generazione (un po' di più nel moscerino della frutta). E il tratto che viene trasmesso si connette solo molto indirettamente alle risposte al fattore ambientale che lo produce. Chiedo al professor Baulcombe come i suoi studi sulle piante si ripercuotono, piu' generalmente, sul vasto campo dell'epigenetica. «Vi sono molti livelli di complessità nell'interazione tra geni ed ambiente. Una delle frustrazioni oggi emergenti, da quando possiamo fare la sequenza completa del genoma di una pianta o di un animale, è la grande difficoltà nel connettere una sequenza genica con un tratto biologico manifesto. Adesso sappiamo che questo fallimento è dovuto al fatto che molti di questi tratti hanno una componente epigenetica». I meno giovani tra noi ben ricordano il celebre caso, o piuttosto lo scandalo, Lyssenko. Trofim Dennisovich Lyssenko, una canaglia di botanico accademico sovietico, riuscì a persuadere prima Stalin e poi Krusciov che aveva le prove irrefutabili dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti, tesi cara al progressivismo marxista. Fece imprigionare i suoi oppositori scientifici, cioè i veri genetisti, bollandoli come «nemici del popolo». Baulcombe è la persona ideale per dirci, sotto il profilo epigenetico attuale, se Lysssenko non aveva, in fin dei conti — criminalità politica a parte — visto qualcosa di vero. La sua risposta è netta e sferzante: «Nessuna rivalutazione di Lyssenko è legittima. Era un imbroglione imperdonabile, senza alcun dato scientifico accettabile. Fece deportare e poi morire nel Gulag, nel 1943, il grande genetista Nikolai Vavilov. Genetica ed epigenetica sono non solo mutuamente compatibili, ma devono collaborare attivamente, al di sopra di ogni opinione politica». Poi aggiunge: «Le piante possono essere condizionate a resistere alla siccità e poi trasmettere questa resistenza alle generazioni successive. Questo può avere conseguenze importanti in agricoltura». Per finire, gli chiedo un giudizio complessivo su quella che è stata definita da alcuni «la rivoluzione epigenetica». «La rivoluzione è quella della biologia nel suo complesso, e vi sono state varie fasi, dalla scoperta della struttura del dna nel 1953 all'epigenetica attuale. I fenomeni del vivente sono molto complessi, le moderne tecnologie ci aiutano capirli, un po' meglio ogni volta. Cominciamo a capire perché il tutto è più della somma delle sue parti». Mi dichiara che si sente molto fortunato e privilegiato per aver potuto seguire una carriera nella scienza. E aggiunge che è molto lusingato di ricevere il prestigioso Premio Balzan. __________________________________________ Corriere della Sera 18 nov. ’12 I NEUROCHIRURGHI OPERAVANO GIÀ NELLA ROMA IMPERIALE di ALICE VIGNA I l suo nome oggi non lo conosce nessuno, non sappiamo neppure se era un maschietto o una femminuccia. Aveva cinque o sei anni e viveva nel II secolo dopo Cristo a Fidene, piccola cittadina a pochi chilometri a nord della Roma imperiale, sulla via Salaria. Erano gli anni di Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio; l'impero aveva raggiunto la sua massima estensione, le politiche interne erano improntate a tolleranza e buona amministrazione, erano state promulgato leggi a favore degli schiavi, tanto che gli storici hanno parlato di "buoni imperatori" e di "secolo d'oro" dell'impero romano. Fidene in quel periodo era una cittadina di campagna, con alcune ville di nobili ma per lo più abitata da contadini e pastori. Il bimbo era probabilmente figlio di uno schiavo o un liberto di uno dei proprietari terrieri della zona e, quando aveva cinque o sei anni, è stato operato alla testa da un medico che gli ha perforato il cranio in un intervento chirurgico delicatissimo. Il piccolo sopravvisse un mese o poco più. Quindi fu sepolto in una tomba di gente comune, tornata alla luce durante uno scavo a Fidene all'inizio degli anni 90. Gli archeologi si resero subito conto di avere fra le mani un reperto davvero speciale, una delle rare testimonianze di trapanazione cranica nel mondo antico. Oggi, dopo vent'anni, il bambino di Fidene è uno dei fiori all'occhiello del Museo di Storia della medicina dell'Università La Sapienza di Roma. Il cranio, perfettamente conservato, è esposto assieme al resto dello scheletro ed è stata ricostruita la sepoltura come è stata rinvenuta nello scavo. Gli occhi dei visitatori si appuntano sull'enorme foro in testa: sembra incredibile che quasi duemila anni fa, senza antibiotici o anestesie, sia stato possibile un intervento simile. «Questo reperto è unico perché si tratta per ora della più antica prova di un trattamento chirurgico in qualche modo "palliativo", per gestire una malattia cerebrale grave: molto probabilmente il bambino aveva un tumore al cervello», racconta Valentina Gazzaniga, direttore del Museo romano. P roviamo a tornare indietro nel tempo e immaginare che cosa possa essere successo al piccolo. Il suo cranio era più ampio della norma, con le ossa spinte dall'interno da una massa. Il bambino aveva probabilmente fortissimi mal di testa e sintomi gravi, dal vomito alle convulsioni, da crisi epilettiche a stati di torpore assoluto. Forse si è deciso di operarlo con un intervento difficile e pericoloso per tentare di lenire le sue sofferenze: il foro nel cranio e la rimozione di una parte di osso erano l'estremo tentativo di ridurre la pressione interna al cervello. Analizzando l'apertura, di circa cinque centimetri di diametro, i paleopatologi si sono accorti che sui bordi si era parzialmente riformato materiale osseo: segno che il bimbo è sopravvissuto almeno 30, 40 giorni dopo l'intervento, che fu certamente complesso e presumibilmente parecchio costoso. Com'è possibile che un bimbo di umili origini sia stato curato in questo modo? «A quel tempo il padrone era un pater familias, un padre di famiglia per i suoi schiavi e liberti — spiega Gazzaniga —. Aveva obblighi giuridici oltre che morali nei confronti di chi viveva nella sua domus e doveva occuparsi anche della salute dei figli dei propri sottoposti: il bimbo era probabilmente figlio di un liberto e il padrone si fece carico delle sue cure, verosimilmente inviandolo a Roma per l'intervento». Nella Roma imperiale il secondo secolo fu un'età d'oro anche per la medicina e la chirurgia, i medici eseguivano interventi tecnicamente difficili come la rimozione di calcoli, il trattamento di ernie o cataratta. «I chirurghi erano digiuni in tema di anestesia e disinfezione del campo operatorio, ma avevano molte conoscenze empiriche: davano al paziente l'oppio o il vino, lavavano gli strumenti chirurgici con acqua e aceto. Non molto, ma meglio di niente», dice Gazzaniga. Fu soprattutto il famoso medico Galeno a dare le raccomandazioni e le indicazioni per eseguire gli interventi chirurgici, compresi quelli di trapanazione del cranio. Galeno operava a Roma in quegli anni, aveva scritto diffusamente dell'operazione a cui fu sottoposto il bambino di Fidene e quindi, secondo alcuni, potrebbe essere stato addirittura lui a eseguire l'intervento. Non ci sono prove, ovviamente, ma colpisce leggere ciò che scrisse Galeno e immaginare cosa possa aver passato quel bambino, mentre il medico gli somministrava alcol e decotti di erbe sedative e allucinogene prima di usare il kykliskos, uno speciale scalpello adatto a tagliare le sottili ossa del cranio di un bimbo. Stando alla ricostruzione dei paleopatologi, il medico aveva inciso con sicurezza l'osso identificando con buona approssimazione la zona del cervello più compromessa dalla malattia e anche quella dove sarebbe stato più sicuro intervenire, per ridurre al minimo la probabilità di emorragie. Lo scalpello aveva percorso una linea continua, a forma di U, e poi l'osso era stato sollevato e tolto: una tecnica diversa rispetto a quelle usate per la trapanazione in caso di fratture o traumi cranici dai medici dell'antichità, probabilmente scelta perché il paziente era un bambino. La ferita poi era stata fasciata e medicata secondo le ricette di Galeno: polvere delle radici di erbe varie, olio di rosa, sangue caldo di piccione o di colomba, polvere di coralli neri e una mistura di aceto, miele e sale marino in acqua piovana. Purtroppo la ferita dopo qualche tempo si infettò, come ha dimostrato l'analisi delle ossa vicine al foro: un'evenienza ovviamente molto frequente a quei tempi, che verosimilmente ha portato alla morte il bimbo in pochi giorni. N onostante questo tutte le analisi mostrano che di lui si presero cura medici competenti, che fecero di tutto per salvargli la vita: non ci sono segni di stress sulle ossa lunghe o sulla dentatura, segno che la malattia non aveva provocato danni considerevoli fino alla fine. Probabilmente, considerando la bassa estrazione sociale del bambino, oltre al chirurgo si occupò di lui un servus medicus, ovvero uno schiavo che aveva acquisito competenze mediche particolari e curava gli altri schiavi e i liberti. E oggi il bimbo di Fidene è una preziosa testimonianza, la prova che anche secoli fa i medici cercavano con compassione e determinazione di strappare alla morte i loro malati. __________________________________________ Corriere della Sera 18 nov. ’12 LA BIOLOGA CON LA SCLEROSI «RICERCA SULLE CAVIE INUTILE» MILANO — «La sperimentazione su animali? È un artefatto. È inutile. È dannosa. Lo dico da scienziata e da malata». La nuova campagna contro la vivisezione ha il volto e l'anima di Susanna Penco, 51enne biologa ricercatrice e docente all'Università di Genova, che da diciotto anni combatte con la sclerosi multipla. A presentarla, ieri a Milano, i presidenti di tutte le organizzazioni animaliste aderenti alla Federazione italiana associazioni diritti animali e ambiente, tra i quali Michela Vittoria Brambilla, Massimo Comparotto, Gianluca Felicetti, Carla Rocchi e Laura Rossi. Questo manifesto forte è un'ultima chiamata ai senatori perché mercoledì prossimo votino «la norma contro Green Hill», ovvero la legge comunitaria che all'articolo 14 recepisce con restrizioni la direttiva europea 2010/63 sulla sperimentazione animale, prevedendo, oltre all'obbligo di utilizzare analgesia o anestesia per gli esperimenti in vivo, il divieto, introdotto dall'onorevole Brambilla, di allevare sul territorio nazionale cani, gatti e primati destinati ai laboratori. «La sperimentazione in vivo è e resta fortemente impopolare — ricorda l'onorevole —. La norma è rimasta sequestrata in Senato per sette mesi. Ma il tempo è scaduto e invito i senatori ad ascoltare la maggioranza degli italiani, che è ostile a quelle pratiche». E chissà che la storia di Susanna Penco non finisca per pesare su quella decisione. Con il suo viso acqua e sapone, una voce dolce ma decisa, la biologa genovese ieri ha spiegato al pubblico di voler essere lei la cavia per studiare la sua malattia e di aver così deciso di donare il suo cervello all'Associazione italiana sclerosi multipla «affinché il mio sistema nervoso centrale difettoso sia indagato, osservato, analizzato». L'hanno seguita, in questa che è tutto meno che una provocazione, i suoi parenti. «C'è un mondo che va indagato e noi siamo inchiodati sui topi. Doniamo i nostri organi alla scienza, è un atto d'amore. Si comprende oggi di cosa si ammalarono i faraoni, i cadaveri sono utili nelle indagini criminologiche. Ebbene si facciano più autopsie e si studino le cellule umane». A che serve «studiare una cura su una specie diversa da quella a cui la cura è destinata»? Susanna Penco studia metodi di sperimentazione alternativi che lei spera possano diventare «sostitutivi» proprio partendo da cellule umane. Usare gli animali, insiste, è oltre che non etico anche dannoso, perché «distrae soldi, spendendoli in modo inopportuno. I farmaci testati su animali possono creare problemi all'uomo». Paola D'Amico La Nuova Sardegna 13 nov. ’12 DALL’ISOLA DOCUMENTO GUIDA PER GESTIRE L’ANEMIA RENALE I medici americani non hanno sempre ragione: ieri riuniti al convento di San Giuseppe i nefrologi italiani chiamati a valutare le nuove linee guida mondiali presentate a San Diego nel trattamento dell’anemia renale, una malattia che è causa del 50 delle dialisi attualmente praticate, hanno presentato il documento ufficiale che confuta la scelta americana generata anche da esigenze di risparmio e dà forza alla pratica europea. Guidati da Francesco Locatelli “chairman” del programma “linee guida europee sull’anemia locale”, i nefrologi ieri hanno affermato la necessità di continuare a trattare i pazienti bilanciando due farmaci col doppio scopo di ridurre gli effetti dell’anemia del rene, ma anche di minimizzare il rischio moltiplicato di ictus e la possibilità di far riesplodere tumori in pazienti che già si sono curati anche per questo male. Da ieri il documento è disponibile sul sito della Società italiana di nefrologia all’indirizzo www.nephromeet.com, con la possibilità di porre domande dopo essersi registrati. L’argomento è di notevole interesse per la Sardegna, al secondo posto in Italia per prevalenza di pazienti in dialisi, 160 nuovi dializzati ogni anno: i dati provengono da uno studio originale, Progenia, condotto da Francesco Cucca, che conferma anche gli altri dati italiani, vale a dire che «il rene è il bersaglio delle malattie del benessere e la malattia renale cronaca è presente nel 10, 12 per cento della popolazione generale», come ha spiegato Antonello Pani primario di Nefrologia al Brotzu ( sede della scuola universitaria di specializzazione) e docente all’università.La scelta di darsi come risultato non solo il contrasto dell’anemia ma anche la minimizzazione degli altri problemi è sostenuta con forza dai nefrologi sardi (150, che lavorano in rete ed erogano un’assistenza la cui qualità è stata riconosciuta ancora una volta) in omaggio all’idea che il paziente debba vivere il meglio possibile. Il prossimo passo è un protocollo coi medici di base: il rapporto è buono (spiegava Pani) ma spontaneistico, andrebbe organizzato, i modelli ci sono.(a.s.) __________________________________________ Unione Sarda 13 nov. ’12 IL PROGETTO DEL CAMPUS VA AVANTI «Nessuno stop al bando per il campus di viale La Plaia». Lo ribadiscono i vertici dell'Ersu, l'Ente regionale per il diritto allo studio, dopo la sentenza del Tar Sardegna che ha accolto il ricorso del raggruppamento di imprese guidato dalla “Manca Costruzioni Generali Spa”, escluso dalla gara per la progettazione e per la realizzazione del primo stralcio funzionale della futura casa dello studente. «La sentenza» si legge in una nota dell'Ersu, «ha disposto l'ammissione della ricorrente senza alcuna riserva, annullando la clausola del disciplinare di gara che prevedeva l'esclusione. Il profilo impugnato non tendeva a travolgere l'intera procedura, ma solo la norma che implicava l'ipotesi di esclusione». BANDO SALVO Insomma, stando a quanto sostiene l'ente per il diritto allo studio degli universitari, il bando non correrebbe rischi. La questione, precisano sempre dall'Ersu, era già stata affrontata in sede cautelare ed il raggruppamento escluso era stato riammesso con riserva nella seduta del 23 luglio, eseguendo un'ordinanza del presidente del Tar. «La decisione», insistono i vertici dell'ente, «come comunicato dall'Avvocatura dello Stato, non comporta alcun arresto della procedura di gara attualmente in corso». LA SENTENZA Nonostante l'accoglimento del ricorso, con la condanna dell'Ersu a pagare 3500 euro di spese processuali a favore dell'impresa riammessa, il bando e la gara sarebbero comunque salvi. Questo anche se la sentenza della prima sezione del Tar Sardegna, presieduta da Aldo Ravalli, non faccia riferimento ad un annullamento parziale o limitato. Il collegio giudicante, composto anche da Marco Lensi e Gianluca Rovelli, ha bocciato tra i vari atti «il bando di gara indetto dall'Ersu ad oggetto appalto per la progettazione definitiva ed esecutiva e per l'esecuzione dei lavori per la realizzazione della residenza universitaria e servizi di viale La Playa, primo stralcio funzionale, fabbricato a1, parcheggi ed opere accessorie e del disciplinara di gara rettificato il 20 aprile 2012». Nessuna riduzione è presente nella motivazione, anche se, a quanto pare, la società ricorrente aveva impugnato solo la propria esclusione. Ora nessuna delle parti ha interesse all'annullamento totale del bando, come invece parrebbe recitare la sentenza. La gara, dunque, può procedere. (fr.pi.) _____________________________________________________ Unione Sarda 13 nov. ’12 CONTRO L'EPATITE DUE NUOVI ALLEATI Si rafforza il fronte di lotta contro l'Epatite C. Arrivano nuove armi per contrastare gli effetti dell'HCV (epatitis C virus), causa di una malattia del fegato che incide sul tre per cento circa della popolazione mondiale. Con gravi conseguenze quando diventa cronica e può degenerare in Cirrosi epatica e tumore. L'Epatite C oggi è già curata con una batteria di farmaci efficaci, (ma non privi di effetti collaterali) come la Ribavirina e l'Interferone, in grado di assicurare buoni risultati. Fino ad arrivare, in certi casi, alla guarigione del paziente. INIBITORI In un campo che coinvolge una vasta popolazione, con intuibili risvolti sociali, la ricerca è sempre attivissima. Sono così arrivati, anche in Italia, corredati da ponderosi studi, due nuovi farmaci, appartenenti alla categoria degli inibitori della proteasi: Boceprevir e Telaprevir, che promettono ulteriori passi avanti, rispetto alla terapia storica. Ma, come avviene per tutte le innovazioni, con diversi aspetti ancora da approfondire, per focalizzare con la massima approssimazione l'efficacia e non suscitare aspettative miracolistiche nei pazienti. IL CONVEGNO Temi al centro di un convegno tenutosi all'ospedale Brotzu, di Cagliari, al quale hanno partecipato medici sardi, del continente e associazioni di pazienti. Nell'Isola esiste infatti un'attiva scuola di Epatologia, cui concorrono ospedalieri e universitari, di Cagliari e Sassari, che ha come punto di riferimento l'Aes (Associazione epatologi sardi). Un pull di specialisti che ha analizzato le nuove terapie sul piano scientifico, ma inquadrandole anche in un momento congiunturale che impone scelte difficili sul piano economico ed etico. TERAPIE Già con gli strumenti oggi a disposizione, si ottengono comunque buoni risultati. Come spiega Roberto Ganga, direttore della struttura complessa di Medicina 1 del Brotzu (che con le dottoresse Laura Ponti e Debora Murgia ha organizzato la manifestazione): «Con una terapia adeguata, Ribavirina più Interferone, prolungata nel tempo, in un paziente che risponde, possiamo ottenere la guarigione». Cioè interrompere la replicazione del virus, il massimo risultato. La possibilità di raggiungerlo è legata alla risposta positiva ai farmaci che si ottiene sui 4 genotipi che caratterizzano l'HCV: oscilla dal 50-60 per cento a un massimo dell'80. La terapia può durare da sei mesi a un anno. Con diversi risultati possibili: «C'è il paziente che dopo la cura dà una risposta virologica sostenuta, cioè smette di replicare il virus per lungo tempo e guarisce. Altri fanno il cosiddetto relapse: smettono di replicare, ma solo nel periodo in cui assumono i farmaci. Con altri ancora (i non responder) il trattamento non ha successo». NUOVI FARMACI Con i nuovi prodotti si faranno significativi passi avanti? Uno dei due (Boceprevir o Telaprevir) sarà utilizzato in aggiunta a quelli tradizionali, formando una sorta di terapia a tridente: «Rappresentano una possibilità in più, ma non sono la soluzione di tutti i nostri problemi. Consentono di incrementare i risultati positivi sia sui relapse (30 per cento) che sui non responder». Sono inoltre da tener presenti gli effetti collaterali, «che si aggiungono a quelli creati dall'Interferone e dalla Ribavirina: manifestazioni cutanee, dall'orticaria ad altre più importanti, che possono interessare gran parte del corpo, creano un certo allarme nel paziente e vanno trattate dal dermatologo. Si può evidenziare anche anemizzazione, (valori bassi di emoglobina), che teniamo sotto controllo diminuendo la Ribavirina, e in certi casi ricorrendo all'emotrasfusione». SCELTA ETICA Proprio la possibilità di nuove problematiche impone che la nuova terapia «vada gestita da medici esperti e proposta ai pazienti più adatti, sulla base delle loro condizioni: età biologica, presenza di altre patologie. Anche in vista di una nuova classe di farmaci, ancora più avanzati, attesa per il 2015 -2016 ». Si prospettano quindi scelte di carattere etico, ma anche economico: «Un ciclo terapeutico costa dai 20 ai 30 mila euro, da sommare all'Interferone, alle spese per il ricovero ed eventuali trasfusioni di sangue». Particolari, di questi tempi, non trascurabili. Lucio Salis __________________________________________ Unione Sarda 12 nov. ’12 A CACCIA DI INFERMIERI OLBIA NE CERCA 110 Per chi vuole iniziare la carriera di infermiere questo è il momento giusto. Sono infatti molte le opportunità in arrivo da ospedali e cliniche di tutta Italia e anche dall'estero. ITALIA In Sardegna l'Asl di Olbia seleziona 110 infermieri. Oltre questi si cercano anche 70 operatori socio sanitari, 7 anestesisti, 3 pediatri e 5 cardiologi. Per quanto riguarda gli infermieri, si richiede la laurea di primo livello in “Infermieristica”, oppure un diploma, un attestato riconosciuto e per tutti l'iscrizione all'albo professionale. Le domande potranno essere consegnate a mano all'Ufficio protocollo generale dell'azienda (via Bazzoni Sircana 2- 2A, 07026 Olbia), o tramite raccomandata A/R entro il 22 novembre. Stessa scadenza per chi vuole partecipare al concorso per operatore socio sanitario, per cui è richiesto il diploma o comunque l'assolvimento della scuola dell'obbligo e il titolo di Operatore socio sanitario. I bandi sono disponibili nel sito istituzionale dell'Asl (www.aslolbia.it), alla sezione concorsi. Altri 147 posti da infermiere sono stati messi a bando in Puglia. L'Asl di Brindisi ne cerca 50, mentre quella di Taranto 97. La scadenza è fissata per giovedì 15 novembre. I requisiti sono elencati nel bando del concorso. Per informazioni si può consultare la Gazzetta ufficiale numero 81 del 16 ottobre. La figura dell'infermiere è ricercata anche da altri enti. Tra questi, l'Asl di Gorizia ne seleziona 3 entro il 17 novembre (il bando e i requisiti sono disponili nella Gazzetta ufficiale n. 86 del 2 novembre). Ancora, la casa di riposo di Noventa Padovana cerca 4 istruttori infermieri professionali. Il bando è disponibile sul bollettino n. 82 del 5 ottobre della Regione Veneto (http://bur.regione.veneto.it) e scade il 20 novembre. Sempre in Veneto, l'Istituto assistenza anziani di Verona cerca altri 5 infermieri entro il 19 novembre (bollettino numero 86 del 19 ottobre). ESTERO Chi è disposto ad andare all'estero potrebbe puntare sul mercato anglosassone. Eures (il portale europeo della mobilità professionale) in collaborazione con l'agenzia Best Personnel Ltd seleziona 30 infermieri (e un centinaio di medici) da inserire nel National health service inglese. Si offre un contratto a tempo pieno e indeterminato in tutto il Regno Unito. Info: http://ec.europa.eu/eures. ( an. ber. )