RASSEGNA 02 DICEMBRE 2012 ALMALAUREA: UN DIPLOMATO SU 5 PREFERISCE PUNTARE AL LAVORO UNICA:VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ PER I CORSI DI LAUREA UNISS:IL TAR ROMPE IL MURO DEL NUMERO CHIUSO GLI ATENEI? MEGLIO MINI E SUPER TUTTI POTREBBERO VIVERE DA CATTEDRATICI. BASTA ALZARE LE TASSE SCUOLA GRATUITA ONLINE CHE FA PAURA AI BARONI UNIVERSITARI LA RABBIA DEI DOCENTI PER LA FRASE DI MONTI SU ORARIO, SALARI E ASSUNZIONI LO SCONTRO CON GLI INSEGNANTI ARRIVA IL QUIZZONE PER GLI INSEGNANTI: «PROVA UMILIANTE» MONTI E IL CASO DEI «PROF CONSERVATORI» ASCOLTIAMO GLI INSEGNANTI I LIBRI DI TESTO DIGITALI SPIANO GLI ALUNNI NON C'È MONETA SENZA STATO I NUOVI ANALFABETI UNA SOCIETÀ RIPETITIVA: LA COMPLESSITÀ SFUGGE LA DITTATURA DEGLI ALGORITMI QUANDO È IL WEB A RIDEFINIRE LE NOSTRE PERSONALITÀ UNIVERSITÀ LA CARICA DELLE LAUREE ONLINE IL CASO DEGLI «SBORNIA BOND» FAVOLA PER I TEMPI MODERNI BIBLIOTECA EUROPEA L'UTOPIA VA ONLINE GRANDI UNIVERSITÀ, CORSI VIA INTERNET IL BUCO D'OZONO? È IN RITIRATA ========================================================= IL MONITO DI MONTI SULLA SPESA SANITARIA IL FILOSOFO ARABO CHE SCRISSE LA «BIBBIA DEI MEDICI» NEL MEDIOEVO E NEL RINASCIMENTO FONDAMENTALI I DOTTORI RABBINI CON LA TECNO-SANITÀ RISPARMI A TRIPLA CIFRA SANITÀ SOSTENIBILE, LA GRANDE SFIDA CINQUE COSE SULLA SANITÀ E I DUBBI SUL MODELLO USA GIUDICE ALTIERI: «IL DIRITTO ALLA SALUTE NON PUÒ ESSERE LEGATO A VINCOLI DI BILANCIO» SANITÀ, RIPARTITI 106 MILIARDI SI CHIAMA CRISI LA MALATTIA CHE ADESSO MINACCIA GLI ANZIANI I COSTI DEL PAESE CHE INVECCHIA 16 MILIARDI IN PIÙ ENTRO IL 2060 BICOCCA, INGLESI A CACCIA DI INFERMIERI IL GIALLO DEL VIBRIONE«CONTESO» FRA PACINI E KOCH GEMELLI: SE L'OSPEDALE DEL PAPA PERDE IL PRIMATO MICRO E RICOSTRUTTIVA: IL FUTURO DELLA CHIRURGIA PLASTICA" CENTRI DI LETTURA DEL CERVELLO EVIDENZIANO UNIVERSALITA' LA COSCIENZA? UNA QUESTIONE DI TOPOLOGIA I VALORI DEL FARMACO GRIFFATO TROPPI I FARMACI PRESI (MA ANCHE DATI) A SPROPOSITO I DATI AIDS CONFORTANTI MA NON BISOGNA ABBASSARE LA GUARDIA CAMICE BIANCO DA STERMINATORI VACCINO CONTRO L’INFLUENZA DIMEZZA I RISCHI DI INFARTO E ICTUS FARMACISTI: DIMEZZATA LA DISTRIBUZIONE DEI VACCINI ANTINFLUENZALI CONSIGLIATE ANALISI AGGIUNTIVE PER LE DONNE CON SENO DENSO PERCHÉ I NOSTRI FIGLI DIVENTANO GRANDI SEMPRE PIÙ PRESTO TAGLI AI LABORATORI, È RIVOLTA ASSISTENZA PER LE DONNE AL PRONTO SOCCORSO DIAGNOSI PREIMPIANTO, IL BLITZ DI MARIO MONTI AOB: INTERINALI ALL’OSPEDALE, SÌ DELL’AULA ALLA PROROGA POLICLINICO, MASSIDDA IN PENSIONE ========================================================= _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Nov. ’12 FORMAZIONE. RAPPORTO ALMALAUREA: UN DIPLOMATO SU CINQUE PREFERISCE PUNTARE DIRETTAMENTE AL LAVORO Niente laurea per i figli della crisi Cresce il disorientamento: il 42% è «pentito» del percorso di studi IL FUTURO Tra le materie più gradite ci sono scienze biologiche, psicologia, arte, informatica Non piacciono veterinaria e ingegneria industriale Claudio Tucci ROMA Un neodiplomato su 5, il 22% per l'esattezza, alla vigilia della conclusione degli studi secondari superiori, punta solo a lavorare. Una percentuale che sale al 35% tra i ragazzi usciti dagli indirizzi tecnici, e arriva al 53% (più di uno su due, quindi) tra i giovani diplomati lo scorso anno nei percorsi professionali. La crisi sta cambiando (e velocemente) le scelte dei 19enni, con una percentuale, piuttosto alta, di indecisi: «Il 16% di chi ha concluso a luglio scorso l'esame di Stato non sa se andare a lavorare o iscriversi all'università», ha evidenziato il rapporto sui diplomati 2012, realizzato da AlmaDiploma e AlmaLaurea, che verrà presentato oggi a Roma, al ministero dell'Istruzione. Un diplomato su due (circa il 50%) sceglie di proseguire gli studi, andando all'università (una percentuale che tocca l'80% tra i diplomati dei licei classici e il 74% dei diplomati scientifici); e 10 giovani su 100 intendono invece coniugare studio e lavoro. Ma l'obiettivo resta, per tutti, un contratto di lavoro a tempo indeterminato, anche se – ed è questo un aspetto su cui riflettere – si intraprende un percorso professionale non coerente con gli studi fatti o con i propri interessi culturali. E non è un caso che il 42% dei neodiplomati 2012, se potesse tornare indietro, cambierebbe indirizzo o scuola frequentata (e nel 24% di questa coorte il "pentimento" è collegato al fatto che a 14 anni non è stato scelto un percorso di studi che prepari meglio al mondo del lavoro). Ciò dimostra «come scuola, imprese e università debbano trovare forme di collaborazione più strette», ha commentato il sottosegretario, Elena Ugolini: «Per questo stiamo lavorando perchè tutti i ragazzi possano fare un periodo di stage prima della fine della scuola superiore». Ma fondamentale è anche «un buon orientamento già a partire dal penultimo anno di scuola, visto che al primo anno dell'università si perde il 18% delle matricole», ha ricordato Andrea Cammelli, direttore di AlmaLaurea. Dall'indagine, che ha coinvolto 37.998 diplomati a luglio 2012 di 292 istituti aderenti ad AlmaDiploma, sparsi in particolare in Lombardia, Puglia, Lazio, Emilia Romagna, Liguria, è emerso anche come il 42% del campione abbia svolto uno stage (negli indirizzi professionali questa attività formativa è praticamente obbligatoria, mentre è ancora rara – meno del 15% degli studenti – nei programmi didattici dei licei); e 30 diplomati su 100 hanno compiuto un'esperienza di studio all'estero (durano una settimana), preferendo soprattutto il Regno Unito (44% delle esperienze), Francia (14%) e Spagna (11 per cento). Il lavoro svolto nel corso degli studi scolastici – che ha carattere stagionale o saltuario – ha coinvolto il 62% dei diplomati. Mentre terminata la scuola i ragazzi hanno espresso un forte interesse per l'area aziendale organizzazione/pianificazione, per l'area marketing, comunicazione, pubbliche relazioni, e per l'area commerciale/vendite. Tra chi si vuole iscrivere all'università invece le materie più gradite sono risultate: scienze biologiche, psicologia, arte e spettacolo, informatica, geologia e matematica. All'opposto, tra le meno preferite, ci sono: agraria, veterinaria, ingegneria industriale e statistica. _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 nov. ’12 UNICA: VALUTAZIONE DELLA QUALITÀ PER I CORSI DI LAUREA «Quello di Cagliari è l'Ateneo con il maggior numero di corsi di laurea che hanno accettato di completare un percorso di valutazione della qualità». Lo ha sostenuto Fabrizio Fabrini, esponente della Confindustria che ha partecipato all'incontro conclusivo del corso di formazione per rappresentanti del sistema socioeconomico della Sardegna. I dati mostrano che il 95% dei corsi di laurea attivati dall'Università ha accettato di sottoporsi alla valutazione predisposta sui parametri nazionali e seguita dal Centro di Ateneo per la Qualità, diretto da Vincenzo Solinas. Tra gli enti che hanno aderito figurano la Provincia di Cagliari, la Sfirs, la Saras, l'Inps, la Banca di Credito Sardo, Trenitalia Spa, l'Arst, l'INAF - Osservatorio astronomico di Cagliari, l'Istituto tecnico commerciale Martini, Matrica Spa, l'Ordine dei Medici, l'Ordine degli ingegneri, l'Ordine degli psicologi, la Confindustria della Sardegna meridionale, la Confartigianato, la Camera di Commercio, Adoc, l'Associazione nazionale Famiglie numerose, Cgil e Uil. _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 28 nov. ’12 UNISS: IL TAR ROMPE IL MURO DEL NUMERO CHIUSO Accolti i ricorsi di italiani che hanno frequentato il primo anno di Medicina in Romania: ora possono studiare in città di Nadia Cossu SASSARI Il sogno di diventare medico, una passione che appartiene a molti giovani che si affacciano al mondo universitario. Immaginano quel futuro, pensano di avere le carte in regola e la giusta dose di coraggio per prendersi cura degli altri, nel senso letterale del termine. Spesso però quel sogno muore non appena il test di ingresso alla facoltà di Medicina e Chirurgia seleziona senza pietà chi un giorno potrà diventare medico. È per questa ragione – per l’impossibilità cioè di accedere liberamente agli studi per i quali uno sente di esser portato – che molti decidono di prendere altre strade oppure, nella migliore delle ipotesi, di raggiungere i propri obiettivi altrove. La Romania è uno dei Paesi dove scelgono di andare molti degli studenti italiani che non riescono a superare “a casa loro” i test di ingresso a Medicina. La sentenza “storica” del Tar. Con due sentenze depositate il 14 e il 15 novembre scorsi il Tribunale amministrativo della Sardegna ha segnato una svolta epocale. Tre studenti del Lazio e della Sicilia che dopo aver superato un test preselettivo hanno frequentato il primo anno di Medicina alla West University Vasile Goldis di Arad (Romania) potranno continuare i loro studi proprio a Sassari. Gli studenti in questione, infatti, dopo aver accertato che nella facoltà di Medicina e Chirurgia turritana erano rimasti dei posti liberi, avevano presentato domanda di iscrizione al secondo anno per l’anno accademico 2012-2013. Ma l’Università di Sassari aveva negato l’iscrizione sostenendo in sintesi che «pur in presenza di posti liberi al secondo anno, il nullaosta può essere concesso solo dopo aver superato l’esame di ammissione al corso di laurea in Medicina e Chirurgia in Italia, in quanto i ricorrenti provengono da un ateneo non italiano». Il collegio del tribunale amministrativo sardo, evidentemente, non la pensa allo stesso modo e ha confermato l’orientamento già espresso con altre due sentenze del 23 maggio e 19 ottobre 2012 che riguardavano il caso di due studentesse della facoltà di Medicina di Bruxelles. Anche allora, verificata la disponibilità di posti liberi, era stata fatta domanda di iscrizione nell’ateneo turritano. L’Università di Sassari con le stesse motivazioni si era opposta ma il Tar si pronunciò a favore delle studentesse. Come ha spiegato l’avvocato Francesco Bolasco del foro di Cagliari bisognerà attendere le motivazioni della sentenza ma in sintesi il collegio dice che «il passaggio fra Università appartenenti a diversi stati membri (da Arad in Romania a Sassari con iscrizione al secondo anno) non viola il principio del numero chiuso previsto per l’iscrizione al primo anno (ai sensi della legge n° 264 del 1999)» e inoltre «che l’iscrizione al secondo anno, formulata su posto disponibile e vacante (il che non è stato contestato dall’Università) è coerente con il principio di libera circolazione degli studenti universitari fra Stati europei e di riconoscimento dei periodi di studio svolti all’estero». Il Consiglio di Stato. Il Tar va persino “contro” il diverso orientamento espresso dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che con le sentenze del 10 aprile e 18 maggio 2012 sostiene che «il riconoscimento reciproco a livello europeo riguarderebbe solo “i titoli di studio e professionali” e non anche “le procedure di ammissione”». Ma per il Tar, invece, la prova preselettiva superata in Romania piuttosto che a Bruxelles, in sostanza, deve ritenersi valida anche in Italia in virtù di norme ben definite – alle quali ovviamente si sono appellati i legali degli studenti ricorrenti – e dello stesso Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Ha ben ragione quindi l’avvocato Bolasco (presso il quale si sono domiciliati i colleghi del Lazio e della Sicilia Michele Bonetti e Santi Delia) a dire che qualora la sentenza dovesse essere confermata potrebbe cambiare automaticamente l’orientamento del Consiglio di Stato. Un precedente importante. Ora l’Università di Sassari potrebbe decidere di impugnare la sentenza e a quel punto bisognerà attendere cosa succederà in seguito. Una cosa è certa: si sta creando un precedente molto importante. La condicio sine qua non è chiaramente l’esistenza di posti vacanti nell’ateneo. Una volta appurato questo, qualsiasi studente che in precedenza non è riuscito a entrare nella facoltà a numero chiuso della propria città potrebbe chiedere – dopo uno o due anni di studio all’estero – di rientrare nel proprio Paese. E questo potrebbe valere non solo per il corso di laurea di Medicina e Chirurgia ma anche per tutte le altre facoltà che prevedono il superamento di un test d’accesso. Nel caso specifico gli ultimi studenti che hanno presentato ricorso al Tar, Antonello Mecca, Marina Di Bisceglie e Stefano Maglieri, potrebbero tornare in Italia. Non saranno proprio a casa ma di sicuro il disagio verrà ridotto notevolmente. Sia in termini economici che affettivi: non saranno più costretti a spendere cifre spropositate per il viaggio e non dovranno stare lontani dalla famiglia. E, da non tralasciare, avrebbero l’opportunità di formarsi in un’Università che vanta numerose eccellenze. L’Università di Sassari. Con due provvedimenti del 17 luglio e un terzo dell’8 agosto l’Università di Sassari non ha valutato le domande di trasferimento presentate dai ricorrenti e si è costituita in giudizio insieme al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Ma il Tribunale amministrativo, pronunciandosi sul ricorso, lo ha accolto annullando di conseguenza quegli stessi provvedimenti. Scenari futuri. Come era prevedibile nello studio dell’avvocato Francesco Bolasco negli ultimi giorni il telefono continua a squillare. Sono studenti sardi trapiantati altrove che chiedono se sia possibile anche per loro rientrare a casa. La risposta affermativa non può prescindere dalla famosa condicio: l’effettiva presenza di posti vacanti nei corsi di laurea che questi giovani studenti vorrebbero poter frequentare. _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Nov. ’12 GLI ATENEI? MEGLIO MINI E SUPER Il modello: sedi piccole e iper-specializzate per fare innovazione L'ESEMPIO La Normale di Pisa ha il più elevato rapporto tra produzione scientifica e docenti: laboratorio dai numeri piccoli ma con il rating più alto in Europa Fabio Beltram Nel nostro paese manca una cultura della valutazione. A questa si è sostituita la "cultura" del consenso, talvolta della spartizione. Parleremo qui di Università: molte delle storture nell'articolazione e nel funzionamento del sistema universitario derivano da questa mentalità del distribuire un po' a ciascuno, del proteggere, del non saper premiare. Oggi il mantra è: Valutazione. Esiste un'idea diffusa che la Valutazione, sia un processo sacrale che individua in modo assoluto il Merito e lo premia. Non è così semplice. La valutazione è efficace per il sistema universitario se serve a determinare lo stato dell'oggetto valutato rispetto a un modello al quale vogliamo si conformi. Farò quindi riferimento a un processo valutativo in corso dal 2003: l'Academic Ranking of World Universities (ARWU) dell'università Jiao Tong di Shanghai. L'ARWU è basato sulla misura della "produttività" di un ateneo secondo certi parametri quantitativi quali il numero delle pubblicazioni scientifiche su riviste particolarmente prestigiose, dei docenti i cui lavori sono molto citati nella letteratura internazionale, degli allievi che hanno ricevuto il Nobel. Una valutazione "oggettiva", dunque, quanto più produce un ateneo secondo il combinato di questi parametri tanto più alto sarà nella graduatoria mondiale. Quando è uscita la classifica ARWU per il 2012, i due atenei italiani più in alto nella classifica hanno rilasciato - giustamente - dichiarazioni entusiastiche. Nella classifica per il blocco 101-150 si trovano le Università di Pisa e Roma Sapienza. L'ordine è alfabetico. La classifica è infatti dettagliata da 1 a 100 (nessuna università italiana è tra le prime cento) e poi procede per blocchi ex aequo di 50 atenei prima e di 100 poi. Fermo restando il plauso per i due atenei, notiamo che si tratta di due mega atenei che mettono in campo la quantità di "prodotto" - misurata secondo i parametri ARWU- di circa duemila e mille professori, rispettivamente. Nella graduatoria ARWU 2012 seguono le università di Milano e Padova (blocco 151-200) e quindi (201-300) il Politecnico di Milano, la Scuola Normale Superiore di Pisa e le Università di Bologna, Firenze, e Torino (sempre in ordine alfabetico). Ai fini del nostro discorso poco importa se condividiamo questa graduatoria, conta il fatto che la stessa Jiao Tong produce sulla base degli stessi parametri una seconda graduatoria che chiama "per capita performance", graduatoria che fornisce l'intensità di produttività dell'ateneo. Questa è ottenuta dividendo gli indici di produttività per il numero dei docenti che questa produzione realizzano. La ratio è chiara: la quantità totale di "prodotti" dell'ateneo va in qualche modo normalizzata alla dimensione dello stesso. Questa nuova graduatoria è molto diversa dalla precedente. Per esempio la Scuola Normale Superiore, il cui numero di docenti è circa un centesimo di quelli dei mega atenei "vincitori" secondo l'altra classifica, naturalmente sale e diviene non solo la prima in Italia, ma la prima in Europa. A livello mondiale risulta quinta superata da 4 atenei americani (Caltech, Harvard, Princeton, MIT). La Normale è seguita, per completare, come è tradizione, nella top ten, dalla école Normale Supérieure, e dalle Università di Berkeley, Cambridge e Stanford (tutto non in ordine alfabetico). Entrambe le graduatorie sono a loro modo "corrette", sta a noi scegliere su quale basare finanziamenti e scelte di politica della ricerca e della formazione superiore. Questo dipenderà dal modello di sistema universitario che il Paese persegue. Conclusione: non esiste una valutazione neutra. Non esiste la Valutazione. Siamo quindi a chiederci se esiste un modello di università verso il quale il nostro Paese vuole tendere in modo coerente e stabile nel tempo. Dalla nascita del ministero per l'università (epoca del ministro Ruberti) ai tempi del suo riaccorpamento nel ministero dell'istruzione università e ricerca (oggi retto del Ministro Profumo) sono passati diversi decenni, ma un modello esplicito non è mai stato presentato mentre abbiamo registrato indicazioni e linee di tendenza nettamente contraddittorie. È sempre colpa della politica e ora dei "tecnici"? In realtà il mondo universitario ha precise responsabilità e ora, almeno ora, deve utilizzare i residui margini di autonomia rimasti e deve saper immaginare questo modello. Ho già avuto modo di delineare su queste pagine la mia personale visione, un sistema di atenei differenziati e specializzati che garantiscano sì la didattica di base secondo i più alti standard in modo diffuso, ma scelgano (autonomamente) i propri settori strategici. Su questi dovranno concentrare le risorse umane e strumentali disponibili per arrivare a fornire ricerca scientifica e formazione fino al livello dottorale e per competere con i migliori atenei internazionali. Come ho detto in altre occasioni non parlo di atenei di serie A e atenei di serie B, ma atenei specializzati nel settore A e atenei specializzati nel settore B. Perseguire la realizzazione di questo disegno, se condiviso, sarà oggi ancora più arduo per le presenti difficoltà di bilancio. Purtroppo situazioni ben più favorevoli sono state sprecate in passato, ma c'è ormai poco tempo perché la decostruzione del sistema a colpi di emergenza divenga irreversibile. L'università dovrà sapersi ridisegnare velocemente e quindi imporre il suo disegno ad agenzie e ministeri forte della consapevolezza di essere risorsa vitale per il Paese e il suo sviluppo. ________________________________________________ Italia Oggi 1 Dic. ‘12 TUTTI POTREBBERO VIVERE DA CATTEDRATICI. BASTA ALZARE LE TASSE DI DIEGO GABUTTI Edward Fester, in un saggio che appare sull'ultimo numero di «Nuova storia contemporanea», Perché le università sono dominate dalla sinistra, illustra le varie teorie con le quali si è tentato di spiegare il fenomeno che da noi è noto, sia fuori che dentro l'università, come «egemonia culturale». È un saggio spiritoso e illuminante A parte le conclusioni finali, quando Fester, cattolico, professore di filosofia al City College di Pasadena, California, avanza la sua teoria: il sinistrismo rampolla, al pari dell'illuminismo, dalla negazione di Dio. Da Nietzche, da Darwin, dai nichilisti, dalla rivoluzione sessuale, dal rock and roll. È più convincente e feconda, e anche più divertente, l'idea che il sinistrismo sia una specie di malattia mentale, come sostiene una delle teorie prese in esame da Fester: «Che cos'è, se non una forma di follia, credere che le pene non abbiano alcuna efficacia dissuasiva, che la libertà sia possibile anche senza proprietà privata o che le differenze psicologiche e comportamentali tra maschio e femmina non abbiano alcuna base biologica, che il matrimonio sia paragonabile allo stupro e che i rapporti sessuali siano manifestazioni di disprezzo per la donna (Andrea Dworkin), che il comunismo sovietico sarebbe ben valso l'assassinio di 20 milioni di persone se avesse funzionato (Eric Hobsbawm) o che le espressioni della civiltà greca siano state "rubate" all'Africa (Martin Bernal)?» Effettivamente le idee fisse e strambe del sinistrismo americano, anche più di quelle che coltiva il sinistrismo europeo e segnatamente italiano, sono idee inquietanti, oltre che comiche: sono ossessioni da neurodeliri culturale. E si fondano su un crescendo d'idee sbagliate e ridicole, autoreferenzialità, imprudenze (e impudenze) ideologiche, pregiudizi, chimere, che si sono assomate per oltre un secolo — fino a produrre quello che il filosofo definiva «un Himalaya di merda». Continua Fester, illustrando con penna felice un'altra teoria, che «i professori di college agiscono, nella sua vita d'ogni giorno, in un ambiente artificiale. L'assurda fede nelle Nazioni unite, per esempio, o la tendenza a flirtare col pacifismo, diventano meno misteriose quando si tiene conto del modo in cui costoro sono abituati a risolvere i disaccordi: non con la forza o con l'appello all'interesse personale dell'avversario ma attraverso dibattiti e discussioni elevate in aula. Gli è quindi facile credere che le dispute con dittatori del Terzo mondo, terroristi e altri delinquenti possano essere "discutendo intorno a un tavolo" "Gli sembra facile», cioè, «pensare che tutti potrebbero vivere (come lui) se solo le tasse fossero aumentate o se fossero approvate le giuste regolamentazioni. Non gli capita mai di pensare, a meno che non sia un economista, ma a volte neanche in questo caso, che le specifiche forze economiche che rendono possibile la sua vita confortevole sono isolate, molto peculiari, artificiali e parassitarie rispetto a un più vasto ordine economico che verrebbe, completamente distrutto se lo stato cercasse di garantire a tutti gli stessi standard di vita dei professori universitari». Ciò dimostra che l'oppio degli intellettuali continua a bruciare-nella pipa della modernità e che le sue visioni sono sempre le stesse: «Agl'individui, per il loro stesso bene, non dovrebbe essere lasciata molta libertà di scelta, e gli esperti nel gestire gli affari umani dovrebbero trovarsi a dirigere le loro vite al posto loro. L'intellettuale, fantasticando d'essere egli stesso untale esperto, si offrirebbe altruisticamente come volontario per svolgere tale compito. _____________________________________ La Stampa 26 Nov. ‘12 UNA SCUOLA GRATUITA ONLINE CHE FA PAURA AI BARONI UNIVERSITARI Il fondatore di Od project Il mio sogno è che tutti possano imparare gratuitamente, da chiunque, in qualsiasi momento. Ho fondato Oil project e collaboro con Working capital. Se riesco a laurearmi vi invito alla festa». E' l'autoritratto di Marco De Rossi, milanese, 22 anni, uno dei migliori esempi di eccellenza dei nativi digitali. Iscritto ad economia alla Bocconi, è un precoce. Oggi più che uno studente è un imprenditore. A 14 anni strimpella su Internet con gli amici regalando lezioni e ripetizioni. Lì ci sono le basi di Oil project, una scuola gratuita online, aperta a tutti, dove si possano condividere le conoscenze, da Aristotele all'informatica, da Boccaccio al debito pubblico. Il motto che preferisce, è: "Be free to learn".. Tutto gratis. I risultati parlano chiaro. L'accelerazione, a lui che già nel 2009, a 19 anni, è anche country manager della start up austriaca Tripwolf, uno dei più noti social di travelling al mondo, viene dall'aver vinto il bando di Working capital nel 2010, dove trova un po' di soldi, servizi e un confronto di idee. La sua creatura, Oil project, petrolio come conoscenza, ma anche acronimo di Open internet learning, snocciola oltre 2.200 lezioni, 10mila studenti iscritti, una faculty fatta da insegnanti ed esperti, anche di chiara fama, che per passione regalano il loro sapere, e 250mila italiani che almeno una volta hanno visto una lezione negli ultimi 12 mesi. La sua non è una delle tante volonterose realtà sforna-ripetizioni o brutte copie di Cepu, ma il più ambizioso e per ora importante esperimento di free learning in Italia, gestito da un'allegra banda, come si autodefiniscono, di under 24 e qualche over dallo spirito mozartiano. Il modello di business è semplice: primo, mai e poi mai fare pagare i contenuti; secondo, attirare pubblicità per quantità e qualità del traffico. Per la verità, il suo è un ibrido: l'incrocio tra un archivio di video ricco di contenuti e aperto con l'offerta classica di e.learning. Un modello comunque c'è l'ha, ovviamente nato negli Stati Uniti ad opera di un giovane studente originario del Bangladesh, Salman Khan, tre lauree e un Mba ad Harvard, che, guarda caso, anche lui nel 2004 impartisce ripetizioni di matematica su Yahoo. Oggi la sua creatura, la Khan academy, è una non profit che ha impartito 210 milioni e 500mila lezioni nel mondo, ed è stata aiutata dalla Fondazione Bill e Melinda Gates e da Google.org. L'altro mito di Marco è Coursera, nulla a che vedere con via Solferino, ma una delle prime free school online for profit del mondo con 2milioni di utenti. Il suo progetto costa a Marco un certo gruzzolo- d'avvio (65mila euro) e tanto tempo. Addirittura è un esempio di chi inve-ste per costruire contenuti pagandoseli da sé e regalandoli. Il successo di pubblico è evidente. Ad arricciare il naso è l'istituzione universitaria, che si sente minacciata dalla gratuità e dall'open learning. «Cercherò di finire entro un anno l'università - sorride Marco - anche se sono contro il valore legale della laurea». Certo è che per l'università il fiorire di free school sull'esempio di Oil project è una bomba a orologeria. lw. p.] Marco De Rossi, 22 anni, ha fondato Oil project _____________________________________ La Repubblica 27 Nov. ‘12 LA RABBIA DEI DOCENTI PER LA FRASE DEL PREMIER "LA SCUOLA È AL COLLASSO" CORRADO ZUNINO ROMA —L'ultima uscita del professor Mario Monti più che una gaffe sembra un intimo pensiero, ora pubblico. «In alcune sfere del personale della scuola», ha detto il presidente del Consiglio domenica sera in tv da Fabio Fazio, «c'è grande spirito conservatore e grande indisponibilità a fare anche due ore in più la settimana, avrebbero permesso di liberare risorse per fare politiche didattiche. Non esiste il mito bontà-durezza», e qui Monti è sembrato alludere alla frase del bastone e la carota usata dal suo ministro Francesco Profumo, «gli studenti fanno bene a manifestare il loro dissenso, ma i corporativismi spesso usano i giovani per perpetuarsi, per non adeguarsi a un mondo più moderno». Gli insegnanti, in 43 secondi di diretta Rai, sono diventati un esempio di freno alla modernizzazione e alla produttività, pronti a usare i loro studenti per mantenere privilegi. Non poteva che deflagrare, la bomba, visto che dall'il ottobre scorso — dopo un'intervista del ministro Profumo con Repubblica in cui si rivelava il progetto di riforma — i docenti tutti hanno iniziato a contrastare l'articolo della Legge di stabilità che prevedeva l'aumento di sei ore la settimana (sei ore, non due) a parità di stipendio e in cambio di due settimane di ferie extra. Dopo un mese e mezzo di marce anti-Profumo, sit-in al ministero e mail bombing i "prof' hanno vinto: niente sei ore in più. Ma l'affondo montiano, domenica, ha riaperto la ferita. In tempi rapidi gli insegnanti italiani hanno costruito in rete un documento unitario. Questo: «La proposta del ministro Profumo era di aumentare le ore di lavoro frontale dei docenti da 18 a 24, il 33% in più. Di fatto, le ore richieste erano almeno dodici perché a ogni lavoro frontale corrisponde un lavoro sommerso di pari intensità. Senza essere tecnici della scuola è facile capire che se con un orario di 18 ore un docente ha quattro classi, con 24 ore ne avrebbe avute sei. Si continua impunemente a misurare il nostro lavoro in termini di presenza a scuola, come se si misurasse il lavoro degli avvocati solo con la loro presenza in tribunale, oppure il suo lavoro, caro Fabio Fazio — hanno scritto rivolgendosi al conduttore di"Chetempo chefa" — con la sua presenza in studio». Le sei ore plus, tra l'altro, «produrrebbero un importante taglio di posti di lavoro peri precari: naturale ci sia stata una indisponibilità dei docenti a questa stupidaggine economica». Un insegnante di una scuola superiore ha scritto: «Questa è una visione contabile della scuola, cominciata con la Gelmini e proseguita da presunti tecnici che odiano tutto ciò che è pubblico». Ancora: «Dopo più di trent'anni di servizio guadagno 1.800 euro a fronte dei 3.000 euro dei colleghi danesi e inglesi, che lavorano quanto noi». Così la "prof" Giulia Filauro: «Insegno da sei anni, devo pagare le fotocopie, il sapone e alle volte i libri dei miei alunni, lo stipendio mi è arrivato a metà e faccio parte della casta?». Il sindacato della scuola, che da tempo ha disseppellito il conflitto (sostenuto da larga parte del Pd), è andato giù duro anche con Monti: «Il presupposto che i nostri docenti lavorino poco e male è falso. Nel suo governo c'è un carattere autoritario, espressione dei banchieri e dei poteri forti che intendono privatizzare l'istruzione pubblica», ha detto Domenica Pantaleo, segretario della Cgil-Flc: «I veri conservatori sono Monti e Profumo, stanno portando il sistema d'istruzione al fallimento sociale». La classe docente, che pesa sul voto, è schierata da tempo contro il governo Monti. Così gli studenti organizzati, di sinistra e di destra. I moderati della Rete degli studenti hanno detto: «Le parole del primo ministro, professore alla Bocconi, sono completamente scollegate dal mondo del reale». LE ACCUSE Il premier Monti intervistato da Fabio Fazio ha accusato i docenti di indisponibilità "a fare anche 2 ore in più la settimana" LE PROTESTE Centinaia di proteste su Facebook degli insegnanti: "Le ore richieste erano 6, non 2, che valgono il doppio di lavoro sommerso" I SINDACATI Grande indignazione per le parole di Monti anche sul fronte sindacale. Mentre gli studenti rimproverano al governo i tagli ________________________________________________ Il Messaggero 2 Dic. ‘12 SU ORARIO, SALARI E ASSUNZIONI LO SCONTRO CON GLI INSEGNANTI LA TRATTATIVA ROMA Agli insegnanti che, da settimane, stanno protestando in piazza, e anche in centinaia di istituti, affiancati quasi sempre dagli studenti, il premier Monti ieri a Verona ha cercato di dare il messaggio di un interesse comune. Ma il mondo della scuola si sente sempre più in credito di risorse di fronte alle politiche dei tagli crescenti, che vanno a penalizzare soprattutto la didattica e la qualità dell'insegnamento. Ecco quali sono i punti di contrasto tra il governo e la categoria dei docenti. L'AUMENTO DELLE ORE Da 18 a 24 ore alla settimana. Era l'incremento delle ore di insegnamento previste dal decreto di stabilità per i docenti delle scuole medie e superiori. Una scelta, quella del governo Monti, che avrebbe permesso un risparmio, a regime, di 721 milioni di euro. L'incremento delle ore di insegnamento frontale dei docenti, infatti, avrebbe portato ad una riduzione delle cattedre. E a pagarne le spese sarebbero stati soprattutto i precari della scuola. Di fronte al crescendo delle proteste il governo Monti ha fatto dietro- front approvando a metà novembre, in commissione Bilancio alla Camera, un emendamento che blocca il provvedimento. L'emendamento prevede di raggiungere i risparmi attraverso varie misure. Tra queste il taglio di 47,5 milioni di euro al fondo per il miglioramento dell'offerta formati- va (Mof). GLI SCATTI DI ANZIANITA Da mesi i sindacati chiedevano lo scongelamento degli scatti di anzianità. L'intesa è arrivata alla vigilia dello sciopero del 24 novembre scorso. Il governo si è impegnato ad emanare «in tempi rapidi» l'atto di indirizzo all'Aran (l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) per il pagamento degli scatti arretrati del 2011. Una intesa che tuttavia non è condivisa dalla Cgil e dalla Gilda. Le risorse, infatti, verranno principalmente dal Mof. In questo modo, secondo i due sindacati, viene penalizzata la didattica, e a pagarne le spese saranno anche i docenti che si vedranno tagliati una parte del salario accessorio. Rimane ancora aperta inoltre la questione del rinnovo del contratto di lavoro degli insegnanti bloccato al 2009. Così come resta da sciogliere il nodo dei docenti inidonei che dovrebbero passare ai ruoli Ata e dei precari IL CONCORSONE Continua a far discutere il concorso bandito dal ministro Profumo per reclutare 11.542 nuovi docenti nei prossimi tre anni. Un concorso ritenuto «inutile e costoso». Inutile perché, secondo i docenti, andrà a togliere posti di lavoro ai precari della scuola che da anni attendono l'assunzione in ruolo. Costoso perché, nel complesso, costerà circa un milione di euro. Il 17 e 18 dicembre prossimi si terranno in tutta Italia le prove preselettive. Ora, a suscitare polemiche, è la batteria dei 3.500 quesiti a risposta multipla pubblicata il 27 ottobre scorso dal ministero dell'Istruzione e da cui saranno estratti i 50 quesiti per la preselezione. Secondo i concorrenti il simulatore predisposto dal Miur per la preparazione della prova presenta dei problemi per l'utilizzo. Ma fa anche discutere la decisione di pubblicare i test senza la risposta esatta. Una scelta fatta dal ministero per evitare - è stato spiegato - che i candidati potessero imparare a memoria le risposte. Così sui siti internet si moltiplicano le offerte a pagamento per avere i test con le risposte corrette. Messia Campione ________________________________________________ Il Giornale 29 Nov. ‘12 ARRIVA IL QUIZZONE PER GLI INSEGNANTI: «PROVA UMILIANTE» VERSO IL CONCORSO Pubblicati i test di prova Scuola, sindacato e precari accusano il ministero Sul sito 3.500 domande, ma senza le risposte giuste Francesca Angeli Roma «Se si cancella una lettera dalla parola "specchio" quale parola di senso compiuto si ottiene?». Che cos'è? Enigmistica per l'infanzia? No. È una delle domande proposte dal ministero della Pubblica istruzione per esercitarsi alla prova preselettiva. Un test che darà poi accesso al concorso di abilitazione all'insegnamento . Ed è già polemica tra gli aspiranti professori che si definiscono «mortificati». Il ministero, con parecchi giorni di ritardo, ha pubblicato sul suo sito il pacchetto di 3.500 domande, divise in moduli da 35, sulle quali gli iscritti al concorso potranno esercitarsi fino al giorno della prova preselettiva, che si terrà il 17 e il 18 dicembre. Tra queste 3.500 domande saranno scelte quelle da sottoporre ai candidati dunque è davvero importante riuscire a collegarsi col sito e fare pratica. Ma già sul collegamento sono scattatele prime difficoltà. L'Anief, sindacato di docenti e precari, denuncia che l'" esercitatore" (così l'ha chiamato il ministero) destinato ai candidati «fa acqua da tutte le parti». Non appena è scattata l'ora x, l'Anief ha iniziato a ricevere lamentele sulla difficoltà a collegarsi e soprattutto a scaricare le tanto attese domande. L'altro aspetto contestato da tutti i sindacati è che alla fine non c'è riscontro rispetto a quali siano le domande sbagliate. Insomma se rispondi bene il sistema ti dàl' ok e sai di aver azzeccato la soluzione. Ma se sbagli il sistema non ti dice come avresti dovuto rispondere. Una modalità contestata da Marcello Pacifico presidente Anief. «Qualora non si risponda correttamente alle 35 risposte si ha l'amara sorpresa di non conoscere quelle cui si è risposto in modo sbagliato - dice Pacifico - ma allora a che serve esercitarsi?». I maligni ritengono che il sistema sia stato impostato in questo modo per " autotutelarsi". Visto che ultimamente molti fra i test elaborati dagli esperti del ministero si sono rivelati pieni di errori e di smagliature gli esperti questa volta avrebbero cercato di circoscrivere il danno non fornendo le risposte giuste per evitare la solita pioggia di ricorsi. Ma le contestazioni stanno già arrivando e il ministro dell'Istruzione, Francesco Profumo, dovrà rispondere alle perplessità di molti docenti di fronte alle difficoltà di collegamento e al- l' utilità di alcune domande. Sono quattro le aree tematiche scelte per esaminare i candidati: logica, comprensione del testo, competenze digitali e lingue straniere. Un raggio di azione per forza di cose molto ampio visto che i candidati sono 320mila e il concorso è relativo a molte discipline. Non si può però non ricordare che l' età media dei candidati è superiore ai 38 anni e che la maggioranza di loro ha affrontato anni di precariato e magari già un concorso o due senza ottenere una cattedra. Non stupisce quindi che possa sentirsi mortificato da domande come «Trova un sinonimo di infingardo» oppure «Quale tra questi termini è sinonimo di elogio, complimento o encomio: Vituperio, Denigrazione, Critica, Lo de» nei quesiti sulla comprensione dei testi. Insomma la prova preselettiva sembra avere l'unico scopo di riuscire a ridurre l'enorme numero degli iscritti, 320mila, in modo che il vero e proprio concorso non vada in tilt. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 27 Nov. ’12 MONTI E IL CASO DEI «PROF CONSERVATORI» Gli insegnanti rispondono al premier. «Guardi i colleghi universitari» ROMA — Il premier Monti da Fazio a «Che tempo che fa» dice di aver trovato nella scuola, parlando degli insegnanti, «grande conservatorismo e indisponibilità a fare anche due ore in più alla settimana che avrebbero permesso di aumentare la produttività». Si rammarica, il presidente del Consiglio, che «i corporativismi spesso usano anche i giovani per perpetuarsi». Gli dà ragione il capo dello Stato Giorgio Napolitano, lo dice al Quirinale ricevendo i nuovi Cavalieri del lavoro, che nella scuola «non si può restare prigionieri di conservatorismi e corporativismi, come proprio ieri ha sottolineato il presidente Monti». Anche se poi aggiunge che lo Stato deve fare di più «per la scuola e soprattutto per l'università e la ricerca». Corporativi? Conservatori? Di qualunque idea politica siano gli insegnanti, ieri in massa, si sono rivoltati a queste parole. Come del resto hanno fatto sindacati e partiti politici, dal Pd al Pdl. Hanno scritto, indignati, i loro commenti sul profilo Facebook della trasmissione di Fazio. Hanno criticato duramente anche Fazio che non ha concesso un contradditorio, e pretendono adesso che questo torto venga riparato, chiedono di andare in studio a spiegare le loro ragioni. I commenti su Facebook sono un fiume in piena. Scrivono i professori che quelle di Monti sono «affermazioni false e diffamatorie: le ore pretese erano 6 e non 2, differenza non certo irrilevante». Inoltre, «quale categoria, per giunta mal pagata, con contratto nazionale e stipendi bloccati dal 2009 (e secondo la legge di stabilità resteranno bloccati fino al 2014), accetterebbe di lavorare 6 ore in più a settimana, ovvero il 33 per cento in più a stipendio invariato?». E ancora: «Come si fa a pensare di aver ragione quando si scavalca il contratto nazionale e si vuole cambiare il rapporto di lavoro unilateralmente, senza contrattazione, senza uno straccio di tavolo, con una legge d'emergenza?». «Lasci da parte gli odiosi luoghi comuni — dice Francesco Scrima, Cisl —. Non chieda solo alla scuola di dare al Paese ma ci dica anche che cosa il Paese intende dare alla scuola». «Parole offensive e gravissime — commenta Mimmo Pantaleo, Cgil — che confermano il carattere autoritario e liberista del governo Monti, espressione dei banchieri e dei poteri forti». «Il governo si impegni per i veri corporativismi che non sono stati toccati», ribatte Massimo Di Menna, Uil. E Rino Di Meglio, Gilda: «Prima di accusare gli insegnanti di corporativismo conservatore Monti dovrebbe chiedere lo stesso sacrificio ai suoi colleghi universitari». S'indignano anche gli studenti, che in questi giorni occupano le scuole, spesso protestando accanto ai loro insegnanti. «Il presidente del Consiglio farebbe bene a chiedersi perché scendiamo in piazza a protestare. Non siamo manipolati dai docenti ma vediamo e subiamo sulla nostra pelle lo sfascio della scuola italiana», dicono Udu e Rete degli studenti. Mariolina Iossa _______________________________________________________________ Corriere della Sera 29 Nov. ’12 ASCOLTIAMO GLI INSEGNANTI Si dà troppo spazio a voci lontane dalla realtà delle scuoledi CLAUDIO GIUNTA U n'aula scolastica o universitaria di oggi assomiglia ben poco a un'aula scolastica o universitaria di mezzo secolo fa: sono diversi i numeri, gli abiti, i volti, la proporzione tra i sessi, la composizione sociale, le relazioni tra studenti e professori. Ora, a fronte di questa rivoluzione culturale, l'insegnamento scolastico e universitario non è cambiato molto, sia che si guardi alle sue forme (i modi attraverso i quali il sapere viene comunicato) sia che si guardi alla sua sostanza (le cose che si insegnano). Questo conservatorismo di fondo è, a mio avviso, del tutto legittimo, posto che il primo compito della scuola e dell'università è comunicare ai giovani il sapere accumulato. Tuttavia, dire che i giovani devono essere messi di fronte a quanto di meglio la loro civiltà, o la civiltà umana tout court ha prodotto nei secoli passati è una formula ambigua, dal momento che ogni corpus di conoscenze presuppone una selezione, e che questa selezione non può compiersi una volta per tutte ma richiede ogni volta di essere rinnovata e giustificata. Di qui, insomma, la necessità di una verifica, di qui l'opportunità della domanda intorno a «che cosa studiare a scuola». Questa verifica, già ardua di per sé, non mi pare venga facilitata dal profilo dei verificatori. Mi pare infatti che il dibattito sulla scuola sia polarizzato tra, da un lato, enunciati teorici di sublime astrattezza formulati da docenti universitari che vivono per lo più nel mondo della luna e, dall'altro lato, disposizioni pratiche formulate da tecnici della pedagogia altrettanto alieni dalla compromissione con la realtà delle classi scolastiche, quella realtà della quale gli unici veramente esperti, gli unici dei quali sarebbe interessante ascoltare il parere, sono gli insegnanti. Nell'ambito umanistico, che è quello che mi è più famigliare, il problema dell'acculturazione si converte soprattutto in un problema di cronologia, e insomma di distanza delle discipline e degli argomenti insegnati rispetto all'oggi. Da un lato, vogliamo che gli studenti imparino che cosa è successo nella tradizione italiana ed europea, e che entrino in contatto con opere che appartengono a epoche e mondi lontani dalla loro esperienza. Dall'altro, non vogliamo che vivano il presente da stranieri, vogliamo che tengano gli occhi aperti su ciò che li circonda e che imparino a conoscere e ad amare opere che hanno un rapporto meno mediato con la loro vita — non solo libri, dunque, ma anche film, canzoni, fumetti. In altre parole, è ben chiaro che la formazione umanistica passa e deve continuare a passare attraverso le opere d'arte del passato, anche del passato remoto, tanto più quando ogni altra agenzia educativa cospira in una sorta di presentificazione della vita intellettuale: dove dovrebbe sopravvivere, la cura per il passato, se non nella scuola? E tuttavia, la scuola oggi non opera nel vuoto e nel silenzio ma in un ambiente che è saturo di informazioni e di stimoli latamente culturali. Oltre a svolgere la sua tradizionale funzione formativa, oltre a condividere con gli studenti il sapere accumulato, alla scuola spetta perciò anche il compito di dar loro i mezzi per reagire all'infinita quantità di cose che essi assorbono durante la loro vita extrascolastica. Che fare, dunque? Dare ragione al mondo? Almeno in parte sì. E nel caso concreto: rinunciare alla storia? Insegnare letteratura seguendo la traccia dei generi, dei tipi testuali, mettendo in secondo piano, magari obliterando, la cronologia? La sola volta che ho esposto in pubblico queste mie perplessità, uno dei presenti mi ha risposto che «è grazie a idee come queste se gli studenti escono da scuola senza sapere la differenza tra Rinascimento e Risorgimento». È un'obiezione che prendo molto sul serio: non vorrei che succedesse questo. Però vorrei anche osservare due cose. La prima è che io conosco molte persone che, nonostante abbiano «fatto» la storia della letteratura a scuola, si trovano ad avere in testa, anziché conoscenze reali, delle etichette posticce. La macchina scolastica produce ancora troppa retorica, e la retorica produce stupidità: non è detto che ne produrrebbe di meno se cambiassimo i programmi scolastici, ma qualche rettifica potrebbe essere salutare. La seconda è che una conoscenza reale, critica, di un numero limitato di temi vale più della conoscenza superficiale del «tutto» che un corso di letteratura dalle origini ai giorni nostri (o l'equivalente in altri ambiti) promette di dare. Vogliamo formare delle persone che vivano bene il loro tempo, non dei disadattati. Ma insegnare tutto non si può. E non solo perché manca il tempo, ma perché una sola testa non potrebbe contenere tante nozioni, e tanto disparate: verrebbe fuori soltanto confusione. D'altra parte, però, non possiamo neppure accontentarci di ripetere le cose che ci hanno insegnato nel modo in cui ce le hanno insegnate. Occorre una nuova formula, o un ventaglio di nuove formule. Nuove meno negli ingredienti (non s'inventa niente) che nel dosaggio. Tra le tante possibili, ecco due ovvietà. La prima. Posto che attitudini come la concentrazione e la capacità di approfondimento ci stanno più a cuore della quantità delle nozioni apprese, i ragazzi dovrebbero essere incoraggiati a leggere più libri per intero, non tanto i Grandi Libri del passato remoto quanto i romanzi e, soprattutto, i saggi del Novecento. Tuttavia il momento della formazione non coincide con quello dell'informazione: perciò dovremmo resistere alla tentazione di comunicare agli studenti tutti i nostri interessi del momento, o i nostri entusiasmi. Qualcuno, sì; tutti, no. La seconda. Non credo sia ancora abbastanza chiaro a tutti quanto l'esistenza di Internet abbia reso necessaria la conoscenza dell'inglese. Prima era un atout in più per trovarsi un lavoro o per viaggiare. Oggi leggere o non leggere l'inglese, capirlo o non capirlo, significa potere o non potere accedere ai migliori prodotti culturali che circolano in Rete: musica, film, riviste, informazione. Più del digitale (tutti sanno usare Facebook) è questa, oggi, la vera linea di separazione tra i colti e gli incolti, cioè tra i futuri ricchi e i futuri poveri... _______________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Dic. ’12 I LIBRI DI TESTO IN FORMATO DIGITALE SPIANO GLI ALUNNI (E DANNO I VOTI ALL'IMPEGNO) di EVGENY MOROZOV Molti pensano che l'istruzione abbia un brillante futuro. Ad attrarre l'attenzione sono stati soprattutto i cosiddetti «massive online open courses» (MOOCs) — corsi online aperti a tutti. Grazie a società for- profit come Coursera e Udacity e a iniziative non-profit come edX (una collaborazione tra Harvard e Mit), oggi si possono trovare online migliaia di lezioni gratuite. I MOOCs aggiungono una gran quantità di contenuti attendibili ai milioni di testi e videoclip che già circolano in rete in modo caotico. E sono attraenti, perché evitano il rischio di guardare un video di YouTube per poi scoprire che il docente è un ciarlatano. La digitalizzazione dell'istruzione è però accompagnata da un altro fenomeno: anche la stessa infrastruttura dell'apprendimento sta cambiando. Prendiamo una società come CourseSmart, leader indiscussa nel settore dei libri di testo digitali. Fondata nel 2007 da alcune grandi case editrici (tra cui Pearson e McGraw-Hill Education), CourseSmart fornisce più di 20 mila libri di testo in formato elettronico (all'incirca il 90% di tutti i libri scolastici del Nord America); questi testi si possono leggere su computer, tablet, smartphone, sia online che offline. La società ha anche ambizioni globali, si sta espandendo in Medio Oriente e Nord Africa. Ai primi di novembre CourseSmart ha presentato un sistema di verifica online dello studio chiamato CourseSmart Analytics. Dato che i suoi libri di testo sono digitali, CourseSmart è in grado di monitorare la quantità di tempo che ciascuno studente passa su ogni pagina del libro, quali capitoli tende a saltare, quali passaggi gli creano difficoltà. Mettendo insieme queste informazioni, il sistema dà a ogni studente un «voto sull'impegno», che viene comunicato al docente. Presto metterà anche a disposizione degli editori uno strumento che permetterà di vedere come lo studente interagisca con i loro libri. Tre università americane si sono già dette disposte a provare. Il proposito è quello di permettere agli insegnanti di identificare e riorganizzare le parti di un testo che presentano più difficoltà, aiutando la casa editrice a proporlo in una forma più accessibile. Ma è comunque una prospettiva inquietante. Immaginate un corso di letteratura in cui gli allievi debbano studiare 1984 di Orwell su libri di testo elettronici che di fatto li spiano; oppure un corso di storia in cui gli studenti usino i libri smart per apprendere la storia del sistema di controllo della Stasi. Che influenza avranno sulle capacità critiche dello studente questi testi dotati di monitoraggio? Essere «critici» significa imparare a distinguere tra fonti diverse, nuotare contro le correnti intellettuali dominanti e a volte rifiutarsi di leggere i testi assegnati. Dovremmo considerare «disimpegnati» gli studenti che in Unione Sovietica fingevano di studiare i principi del marxismo-leninismo — così come gli insegnanti che fingevano di insegnarglieli? Non tutti possono essere liberi pensatori e difendere in pubblico la propria riluttanza a leggere un testo che trovano improprio; la resistenza è spesso passiva e non particolarmente eroica. Alcuni studenti potrebbero poi non aver bisogno di leggere l'intero capitolo, perché ne conoscono già il contenuto. Il loro «voto sull'impegno» sarà basso, ma non sarà indicativo della loro conoscenza. Oltretutto, una volta che il «voto sull'impegno» fosse inserito nel sistema di valutazione delle autorità scolastiche, vi sarebbero forti incentivi ad aggirarlo — magari semplicemente voltando a vuoto le pagine elettroniche. Questo farebbe salire i voti, ma ancora una volta non ci darebbe indicazioni sulla qualità dell'apprendimento. L'istruzione oggi soffre di molti problemi, ma certo non della mancanza di obiettivi quantificati. Gli studenti vorranno ancora leggere un libro cartaceo se questo non fa salire il loro «voto sull'impegno»? Molti governi — specialmente di Paesi come Arabia Saudita o Zimbabwe — potrebbero voler sapere quali parti dei libri di storia gli studenti trovino noiose e quali interessanti, e nei regimi repressivi questo non fa presagire nulla di buono. Questi governi si doteranno anch'essi di piattaforme come quelle pensate per editori e docenti? Gli studenti con voti bassi su eventi importanti della storia nazionale saranno convocati dagli equivalenti locali del Kgb? Anche nei Paesi democratici è però importante indagare che fine facciano i dati generati dagli studenti: tutti quei clic, quel voltar pagina e sottolineare. Potrebbero sembrare azioni banali, ma integrate con altri dati — ad esempio, gli amici su Facebook o le ricerche su Google — diventeranno molto interessanti per chi investe in pubblicità. Anche in questo caso, il rischio è che i libri elettronici promuovano il conformismo. Se le nostre abitudini di lettura potessero un giorno comparire sul nostro profilo online — visto dai potenziali datori di lavoro — ci penseremmo due volte prima di leggere un libro considerato sovversivo o di non leggere un testo considerato standard. E questo non coinvolge solo le aziende che gestiscono l'ultimo anello della catena del libro di testo elettronico, come CourseSmart; ma anche — e a maggior ragione — quelle che, come Amazon e Apple, realizzano i gadget su cui questi testi vengono letti. Queste grandi aziende tecnologiche non solo influenzano quel che gli studenti imparano, ma anche come lo imparano. Amazon, ad esempio, ha recentemente lanciato una nuova piattaforma, chiamata Whispercast, che consente alle scuole che usano in classe il suo Kindle di limitarne o bloccarne alcune funzioni. È così possibile impedire l'accesso a siti di social network o a Internet, o disattivare le funzionalità di Kindle che possano essere considerate una fonte di distrazione. Tutto questo potrebbe essere utile a breve, ma sembra che gli studenti, presunti beneficiari della «rivoluzione digitale», stiano subendo l'imbroglio della retorica rivoluzionaria. L'era in cui gli studenti possono cercare qualsiasi cosa su tablet o e-reader — come una parola sconosciuta o una figura storica — potrebbe finire prima ancora di cominciare. Si risolverebbe forse il problema della distrazione, e sarebbe già un risultato. Ma c'è il rischio di inibire lo sviluppo di modi di apprendimento altamente interattivi, che potrebbero soddisfare — e persino espandere — la curiosità degli studenti più promettenti, anche se difficili. Libri di testo monitorati ed e-reader controllati non ci darebbero un altro Einstein. @evgenymorozov _______________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Dic. ’12 NON C'È MONETA SENZA STATO di CARLO VULPIO Una scuola di studiosi eretici considera un enorme sbaglio la rinuncia alla sovranità da parte dei Paesi della zona euro N on è più questione di dispute (eterne) tra liberisti (neo o post) e keynesiani (neo o post), quando uno Stato sovrano non batte più moneta propria, come accade nei 17 Paesi dell'Eurozona. Se uno Stato non batte moneta, e se deve addirittura prenderla in prestito da una banca che si chiama Banca centrale europea, ma che della «banca centrale» non ha nulla — poiché non fa capo ad alcuna entità statale (nemmeno in forma federale, come la Federal Reserve per gli Usa) e non è banca di ultima istanza —, quello Stato è destinato a smorzarsi e, con esso, sono destinati all'estinzione o alla pura irrilevanza i suoi cittadini (il popolo «sovrano») e la sua democrazia. Né questo esito sciagurato può essere giustificato con la superiore necessità di ripianare il debito pubblico, perché quel debito, ogni Stato sovrano, se ce l'ha, ce l'ha soltanto con se stesso — in quanto soltanto lo Stato ha il potere, la sovranità appunto, di battere moneta, e cioè di crearla e metterla in circolazione senza doverla prendere in prestito da altri per poi doverla restituire con gli interessi. E questo perché uno Stato (sovrano) non è una famiglia o un'impresa o una persona fisica e quindi non può fallire come questi ultimi quando le uscite superano le entrate e non si possono più soddisfare i creditori. In teoria, e anche in pratica, uno Stato potrebbe spendere denaro senza limiti e indebitarsi senza che ciò costituisca un problema. Al contrario. Se costruisce una strada o un ospedale o una scuola, il debito che lo Stato farà (con se stesso) è una «spesa a deficit positiva», ovvero è creazione di «una ricchezza finanziaria netta», cioè non impoverisce i cittadini, ma li arricchisce. Stesso discorso per le tasse. La convinzione comune è che esse servano a pagare il funzionamento dello Stato. Ebbene, è così soltanto per gli Stati senza sovranità monetaria, come i 17 dell'Eurozona. Non per quelli a moneta sovrana (Usa, Giappone, Gran Bretagna, l'Italia prima del 2002), perché i soldi delle tasse che tornano allo Stato sono sempre (notevolmente) di meno dei soldi che lo Stato stesso ha messo in circolazione. Quindi lo Stato con i soldi delle tasse non paga un bel niente. Le tasse servono a regolare l'inflazione e a sancire il monopolio statale di emettere moneta. Questi, in sintesi, i capisaldi di una teoria economica nata nelle università dell'Australia e degli Stati Uniti — la Mmt, Modern money theory —, che si sta rapidamente diffondendo in tutto il mondo grazie agli studi, ai libri e alle conferenze degli economisti che di questa teoria possono considerarsi i «padri fondatori», gente del calibro di Warren Mosler e Randall Wray, Stephanie Kelton, Bill Mitchell e Alain Parguez, John F. Henry, Mario Seccareccia e Joseph Halevi, William K. Black, Olivier Giovannoni e Pavlina Tcherneva. Li citiamo tutti perché ognuno di loro ha dato il proprio originale contributo al lavoro di Paolo Barnard, che li ha intervistati a lungo ricavandone un libro, Il più grande crimine, il cui titolo, obiettivamente un po' troppo forte, è bilanciato dal contenuto, rigoroso nella citazione delle fonti. Il testo, in formato digitale, si può scaricare liberamente in rete, ma il suo vero successo, oltre al milione e mezzo di download, è stato sancito da incontri pubblici (veri e propri seminari di tre giorni a Rimini, a Cagliari, a Reggio Calabria e prossimamente a L'Aquila) ai quali hanno partecipato alcuni degli economisti citati. Gli studiosi si sono «esibiti» di fronte a migliaia di persone (paganti, 40 euro a testa) rispondendo a tutte le domande e fornendo tutte le spiegazioni possibili. I seminari — proprio come il saggio — hanno sfatato i tabù del prodotto interno lordo, del debito pubblico, del deficit pubblico, del debito estero, di tasse e moneta, inflazione e deflazione, banche commerciali e d'investimento, agenzie di rating e circoli finanziari internazionali, e li hanno riportati sulla Terra, spiegandoli a tutti, sottoponendo ogni tesi alla sua possibile confutazione e proponendo anche delle soluzioni, sintetizzate in un «Manifesto di salvezza economica nazionale» — che si può condividere o meno, ma che sicuramente merita considerazione, visto che ormai è rimasta quasi solo Angela Merkel a sostenere che la crisi è figlia della «dissolutezza fiscale» e di un tenore di vita «al di sopra delle proprie possibilità» (insomma, i soliti vizi dei soliti Piigs, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). Un limite del saggio di Barnard, invece, è aver fatto ricorso alla stampella del presunto Grande Complotto avvolto dal mistero e messo in atto dalle élite finanziarie internazionali da settant'anni a questa parte. Una spiegazione che proverebbe troppo, come suol dirsi, oltre a essere un «déjà vu» piuttosto abusato. Infatti, non è un «mistero» che i Paesi a sovranità monetaria (Usa e Giappone, per esempio, ma anche, nella Ue, Gran Bretagna e Svezia) vivano la crisi globale senza l'ansia e l'isteria dei Paesi che quella sovranità hanno perso. Così come non sono «misteri» la mancata rinegoziazione del Trattato di Maastricht (per coloro che sanno di cosa si tratta), il chilometrico Trattato di Lisbona fatto passare per «Costituzione europea» (idem come sopra), il continuo richiamo alla cessione di «quote di sovranità nazionale», quasi fossero «quote latte» che si possono contrattare in base al numero delle vacche allevate, e altro ancora. Il «mistero» semmai è un altro: perché per _______________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Nov. ’12 I NUOVI ANALFABETI Spot, politica, articoli di giornale Un italiano su due fatica a capiredi PAOLO DI STEFANO C i sono gli analfabeti e ci sono gli «illetterati». Rimanendo nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni, cioè tra i cittadini italiani considerati attivi, secondo il censimento del 2001, gli analfabeti sono 362 mila, gli alfabeti privi di titoli di studio sono 768 mila, le persone che vantano solo la licenza elementare sono quasi sei milioni e mezzo. Nel totale, circa il 20 per cento della popolazione è gravemente carente quanto al possesso degli strumenti culturali di base. Sono questi gli illetterati? Sì e no. Perché nella sfera che gli inglesi chiamano illiteracy si devono aggiungere coloro i quali, pur avendo percorso un regolare iter scolastico, rivelano una limitatissima capacità di utilizzare la scrittura e la lettura, di comporre e comprendere testi semplici. In realtà, l'analfabetismo funzionale (che comprende anche l'incapacità di interpretare grafici e tabelle e le difficoltà di calcolo) non è facilmente quantificabile; ma ci ha provato qualche anno fa l'Ocse con un progetto chiamato All (Adult Literacy and Lifeskills, ovvero «Letteratismo e abilità per la vita»). I risultati italiani, con percentuali alquanto allarmanti, sono stati elaborati e discussi da studiosi vari, specialmente linguisti e sociologi. C'è un grafico inequivocabile pubblicato nel rapporto All, a cura di Vittoria Gallina: il 46,1 per cento della popolazione tra i 16 e i 65 anni si trova al livello 1 della scala di prose literacy (comprensione di un testo in prosa), il 35,1 per cento al livello 2 e il 18,8 per cento ad un livello 3 o superiore. In ambito matematico, siamo messi ancora peggio se il 70 per cento non supera il livello 1. Nel libro-intervista con Francesco Erbani La cultura degli italiani, Tullio De Mauro evoca un'indagine del Cede, l'istituto che valuta il sistema nazionale dell'istruzione, per chiarire una serie di cifre assolute: «Più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi 15 milioni sono semianalfabeti, altri 15 milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione e comunque sono ai margini inferiori delle capacità di comprensione e di calcolo necessarie in una società complessa e che voglia non solo dirsi, ma essere democratica». In definitiva, il 70 per cento per cento degli italiani non possiede le competenze «per orientarsi e risolvere, attraverso l'uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana». Sono numeri che, in una condizione economica ordinaria (e in un Paese consapevole), farebbero scattare subito l'emergenza sociale. Se le cifre del malessere culturale, pur leggermente variabili, denotano una tendenza inquietante, le diagnosi sono ben più complicate. Per non dire delle terapie, che richiederebbero in primo luogo una sensibilità politica al momento del tutto assente. È ciò che sostiene il linguista Francesco Sabatini, presidente onorario dell'Accademia della Crusca: «Mentre l'analfabetismo pieno è facile da documentare, l'analfabetismo di ritorno è sfuggente: forse il dato che potrebbe rivelare il tasso di competenza testuale è la lettura dei giornali. Va tenuto presente però che l'analfabetismo funzionale emerge quando non si riesce a interpretare un testo scritto o orale, sia esso uno spot, un discorso politico, un articolo di giornale». A Bookcity, che si è svolto la settimana scorsa a Milano, il presidente dei bibliotecari Stefano Parise richiamava il dovere crescente, per le biblioteche pubbliche, di adeguarsi alle diffuse esigenze di pronto soccorso socio-culturale. Da anni, del resto, Antonella Agnoli lavora in questo campo: la biblioteca non è più soltanto uno spazio per la lettura individuale, ma anche una sorta di presidio territoriale cui ci si rivolge per la compilazione di moduli, per la scrittura di lettere, di proposte di impiego, di curriculum eccetera. Stiamo scivolando indietro? «Il fatto grave — dice Sabatini — è che non stiamo andando avanti. Per esempio, c'è un allarme nel corpo forense nazionale: gli avvocati non sanno scrivere e non sanno parlare, non dominano la lingua». La prima osservazione è in una domanda ovvia: ma leggeranno altro che non siano i documenti giuridici e giudiziari? «Credo che vada capovolto il rapporto di causa-effetto. L'amore della lettura viene dopo: se la scuola non è riuscita ad abituare all'operazione di decodifica del testo, leggere un libro costa fatica». Si torna sempre allo stesso punto: la radice del male è la scuola? «Gli insegnanti ignorano la linguistica, non sanno che cosa significa interpretare un testo, si affidano alla critica esterna, all'inquadramento storico, alle prefazioni, ma non si preoccupano di capire come funziona la lingua, lo stile… E le grammatiche sono zeppe di errori». Sembra archeologia, parlare di grammatiche scolastiche in tempi di «tablettizzazione» e navigazione digitale diffusa. «Bisognerebbe saper distinguere: la Rete per la reperibilità dei testi è molto utile. Ma ciò che leggi sullo schermo scivola via: la lettura richiede la concentrazione che un tablet non può dare. Lo strumento digitale diffuso nella scuola, come vuole il ministro, sarà nefasto. Per questioni sensoriali, lo scorrere della pagina sullo schermo fa perdere la coesione e la coerenza del testo legate alla stabilità del messaggio e al movimento dell'occhio. Credi di leggere, ma in realtà non comprendi e non sviluppi spirito critico. D'altra parte è pur vero che certa paraletteratura che esce nei libri serve solo a esercitare il muscolo oculare». Forse nessuno più di Gino Roncaglia, che insegna Informatica applicata alle discipline umanistiche, ha indagato le dinamiche della lettura nel passaggio dalla carta all'era digitale, cioè ne La quarta rivoluzione, titolo di un suo saggio. «Più che di un mondo di analfabeti parlerei di un mondo disabituato alla lettura complessa, perché i testi che circolano nel web sono per lo più brevi, frammentari, semplici e informali». Quel che viene meno è il discorso argomentativo, costruito con sofisticate architetture di sintassi e di pensiero. «La Rete è una realtà ancora molto giovane, ha elaborato una sua complessità orizzontale e non verticale, ma questo è un aspetto che progressivamente potrà cambiare, poiché ci si sta rendendo conto della necessità di strumenti più articolati. Dai cinguettii di Twitter si vanno sviluppando strutture per concatenazioni più vaste: per esempio, Mash-up è un'applicazione che mescola contenuti diversi e Storify permette di creare delle storie complesse collegando materiali di diversa provenienza. Siamo all'inizio». Una società di cacciatori-raccoglitori che non è ancora arrivata all'età delle cattedrali, dice Roncaglia: «Non credo che la frammentarietà del web sia strutturale, ma certo la forma paradigmatica di complessità e completezza rimane quella del libro e ritengo che si debba combattere contro la sua scomparsa. La scuola ha una enorme responsabilità e c'è molta confusione nell'adozione dei testi digitali. Va bene lavorare con materiali di rete e modulari, ma il libro di testo come filo conduttore autorevole va conservato. L'autorevolezza testuale non è autoritaria». Resta da colmare la distanza di linguaggio tra molti testi scritti e lo slang ormai diffuso: «Oltre alla lontananza dal tipo di testualità, c'è un divario culturale: non è solo la mancanza di dominio sintattico a porre problemi nella lettura di un giornale o nei discorsi politici, per esempio, ma anche i contenuti, spesso lontani dall'orizzonte di interessi e di conoscenze comuni». Bisogna parlare con Graziella Priulla, docente di Sociologia della comunicazione a Catania, per avere uno sguardo ravvicinato sull'Italia dell'ignoranza, come ha intitolato un suo recente saggio. Priulla punta il dito sull'incapacità diffusa di modulare discorsi argomentativi: «I bambini allattati con il mezzo visivo, tv o computer, hanno un rapporto con la parola viscerale, diretto, frammentato e semplicistico. E se la scuola non ha più autorevolezza e credibilità, non può certo rimediare. I miei studenti universitari fanno errori ortografici, grammaticali e sintattici, ma soprattutto ignorano il ragionamento complesso. Niente ipotassi, abolizione delle subordinate e dei nessi causali tra proposizioni. D'altra parte sono abituati alla digitazione veloce e la miniaturizzazione degli strumenti non aiuta». Una miscela di problemi linguistici e socio-culturali: «C'è una cesura abissale con il passato, la storia li lascia indifferenti. Se affronto il conflitto mediorientale parlando dei bambini morti a Gaza, gli studenti partecipano, ma i motivi della guerra non interessano. L'attenzione è attratta da questioni emotive che esaltano la proiezione narcisistica. La cultura grammaticalizzata, le regole, l'interpretazione intellettuale, l'astrazione, la logica, lo sguardo d'insieme sono archeologia: il 90 per cento dei ventenni apprezza solo il dettaglio, il frammento, la concretezza, l'emotività». Problemi che riguardano anche gli adulti, a quanto pare: «Basta guardare le prestazioni nei concorsi di magistrati, presidi, insegnanti…». _______________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Nov. ’12 UNA SOCIETÀ RIPETITIVA: LA COMPLESSITÀ SFUGGE di ROBERTA SCORRANESE In quanti sono in grado di cogliere al volo il senso della parola «porcellum»? Eppure in questi giorni è una delle più frequenti nei titoli dei quotidiani. «Molte frasi metaforiche non sono di scontata comprensione — dice Vittoria Gallina, pedagogista, docente alla Sapienza nonché autrice di importanti ricerche sull'analfabetismo funzionale — e il motivo è questo: più la frase è di senso complesso e più si fa fatica, perché ci siamo assuefatti a semplificare, ridurre, appiattire». La tendenza alla ripetizione (dai programmi tv a quelli radio) è evidente e così ci si disabitua a cambiare registro, a usare nuovi termini o a provare periodi più tortuosi. E una frase come «Al Trivulzio si apre la partita (politica) del top manager», pur essendo sintatticamente semplice, implica nozioni ulteriori. «Chi occupava il posto del top manager? — si chiede Gallina — quando scadevano le domande, eccetera. Questo testo è di livello 1 o 2, complesso». Il foglietto illustrativo dell'aspirina non è particolarmente complicato, ma «il lessico specialistico — commenta Gallina — è sfibrante. La persona si perde tra tanti termini difficili». Il passo tratto da Papà Goriot, nonostante questo sia tra i romanzi più noti di Balzac, presenta invece un'altra difficoltà: richiede una conoscenza sintattico-grammaticale di alto livello, oggi purtroppo poco allenata. E persino una «vecchia conoscenza» scolastica come il testo dell'Abbagnano, per Gallina, è di media difficoltà. «Recuperiamo — conclude la professoressa — il gusto della varietà sintattica e simbolica». Che non vuol dire incomprensibilità. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Nov. ’12 LA DITTATURA DEGLI ALGORITMI di FABIO CHIUSI Gestiscono tutto: motori di ricerca, musica, finanza, editoria E presto controlleranno anche gli ospedali e la politica G li algoritmi hanno conquistato il mondo, scrive il giornalista e ingegnere Christopher Steiner in Automate This (Portfolio Penguin), uscito recentemente negli Stati Uniti. Una dittatura silenziosa, partita da Wall Street e giunta fino ai confini della nostra quotidianità. Così, se nel 1945 perfino un visionario come Vannevar Bush, precursore della nozione di ipertesto, poteva scrivere che «pensiero creativo e ripetitivo sono cose molto diverse», e argomentare che solo per quest'ultimo ci possono essere «potenti aiuti meccanici», oggi tutto è cambiato. Come racconta il volume di Steiner, infatti, sono gli algoritmi a decidere quali canzoni saranno le prossime hit radiofoniche o a valutare il successo al botteghino di un film prima ancora che venga realizzato. Anzi, subordinandone la realizzazione alle stime di incasso computerizzate. Non solo: in alcuni casi l'algoritmo diventa l'artista. Un artista che non soffre di blocchi compositivi, non invecchia. E non teme rivali. Già nel 1987 Emmy, ideato dal professore emerito alla University of California di Santa Cruz, David Cope, è stato in grado di creare 5 mila composizioni sulla falsariga di Johann Sebastian Bach in una pausa pranzo. Dieci anni più tardi, le sue opere erano talmente credibili da indurre un uditorio di esperti a considerarle umane — passando così una sorta di test di Turing musicale. Alcuni si sono chiesti: lo spartito era di Cope o di Emmy? Ma anche questa domanda sarà presto consegnata alla storia, dato che il nuovo algoritmo di Cope, Annie, «impara a imparare». Certo, Steiner ammette che c'è ancora un dominio dell'umano dove l'automazione arranca. Il poker, per esempio: regno dell'infingimento, del bluff, dell'irrazionale che si rivela tutt'altro che irrazionale. Ma se sono righe di codice a studiare la personalità dei clienti così da fornire a ciascuno l'interlocutore telefonico adatto (grazie ai suggerimenti del software, i call center risolvono il doppio dei problemi nella metà del tempo), e se gli indici di influenza online iniziano a determinare le nostre chance di successo nell'ottenere un posto di lavoro, si comprende come quel dominio sia destinato a restringersi ulteriormente. «Il nostro futuro sarà pieno di bot che ci giudicheranno, indirizzeranno e misureranno», scrive l'autore, sostenendo che «l'abilità di creare algoritmi che imitino, migliorino, e da ultimo rimpiazzino gli esseri umani è l'abilità di primaria importanza dei prossimi cento anni». E che, di conseguenza, gli studenti dovrebbero puntare sulla programmazione: «Questi posti di lavoro non scompariranno». Se creare algoritmi serve a combattere la crisi, giova ricordare come questi ultimi siano anche sul banco degli imputati. Il tema è materia di dibattito, ma non manca chi fa notare che se oggi il mercato azionario statunitense è controllato per il 60% da algoritmi senza alcuna supervisione umana, e se il mercato fallisce, è impossibile considerare l'automazione del tutto innocente. In un'epoca in cui si investono milioni e milioni di dollari e si squarcia il terreno per posare connessioni in fibra ottica che consentano un vantaggio competitivo di pochi millisecondi, il panico finanziario è questione di istanti. Come per il cosiddetto «flash crash» del 2010, quando pochi minuti sono bastati per far perdere, e poi altrettanto misteriosamente riguadagnare, circa 1.000 punti (il 9%) all'indice Dow Jones. All'epoca cinque secondi di stop alle transazioni furono sufficienti per fermare la spirale distruttiva, ma il problema è che — a distanza di due anni — non c'è ancora chiarezza su cosa sia realmente successo. È un aspetto imprevisto della dittatura dell'automatico: non necessariamente coincide con una perfetta conoscenza e prevedibilità delle sue conseguenze. Anzi, «stiamo scrivendo cose che non riusciamo più a leggere», ammoniva il consulente e imprenditore tecnologico Kevin Slavin a luglio 2011 durante una conferenza Ted in cui parlava dell'intrusione degli algoritmi nella creatività come della «fisica della cultura». E se interagire con altri esseri umani dovesse diventare un problema da risolvere attraverso un numero finito, e prestabilito, di passi? La domanda non è peregrina, dato che la scuola, l'ospedale e perfino la politica, secondo Steiner, sono i prossimi territori di conquista dell'automazione. Non c'è il rischio di spersonalizzare i rapporti sociali? «Sarà una sfida», risponde l'autore alla «Lettura», immaginando il futuro: «Credo che finiremo per avere una società segregata non solo secondo fattori classici quali reddito e razza, ma anche secondo il crinale che separerà chi cercherà attivamente interazioni umane da chi non lo farà». Comunque vada, il rischio è che l'offerta di prodotti culturali, alla mercé del giudizio di un codice, sia sempre più omogeneizzata. Steiner concorda. Perché, da un lato, è vero che «le nostre classifiche di musica pop traboccano già di musica assolutamente generica, a volte straziante». Ma, dall'altro, «dobbiamo chiederci: un algoritmo troverebbe i Nirvana?». Difficile, dato che parte della grandezza della band di Kurt Cobain è stata proprio portare alle masse ciò che prima si riteneva di nicchia. Più in generale, pensando alla quantità di funzioni svolte dagli algoritmi — dai motori di ricerca alla crittografia, dal riconoscimento facciale all'e-commerce — parrebbe corretto concludere, con l'imprenditore John Bates, che siano «i nuovi schiavi». Ma, all'alba di un'epoca in cui imparano ad autoregolarsi, il rovesciamento di prospettiva diventa un'ipotesi da prendere in seria considerazione. Senza necessariamente sposare l'assunto computazionalista — la mente è un calcolatore, quindi dal calcolo può nascere una mente — che aleggia in tutto il testo di Steiner. E che forse ne motiva l'unico difetto: la mancanza di approfondimenti critici. Dopotutto, il titolo (in italiano «Automatizza questo») si presta a una lettura di segno opposto: questo, cioè una riflessione sui limiti degli algoritmi, è ancora impossibile da automatizzare. @fabiochiusi _______________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Nov. ’12 IDENTITÀ, DESIDERI, PENSIERO QUANDO È IL WEB A RIDEFINIRE LE NOSTRE PERSONALITÀ di ELENA TEBANO D arti quello che ti serve prima che tu lo chieda: è la promessa, più allettante di quella del genio della lampada, con cui questa estate Google ha lanciato il suo ultimo servizio: Google Now. Incorporato nella nuova versione del sistema operativo per cellulari Android, rappresenta un ulteriore sviluppo di quella «personalizzazione» che è ormai diventata la parola d'ordine del web. Si tratta di una funzione di assistenza a riconoscimento vocale, che usa le capacità di ricerca di Google e l'accesso ai dati personali degli utenti (raccolti a partire dai loro movimenti online) per fornire automaticamente indicazioni relative al contesto in cui ci si trova. È capace, per esempio, di capire che l'utente è arrivato in un'altra città, grazie alla geolocalizzazione, e di andargli a pescare nella posta la prenotazione dell'albergo che gli servirà di lì a poco. Il colosso di Mountain View lo pubblicizza come uno strumento di libertà, perché permette di «organizzare le cose che hai bisogno di sapere, in modo di lasciarti libero di concentrarti su quello che è importante per te». Ma è un esempio dell'evoluzione che secondo molti pensatori sta trasformando il mondo digitale da uno spazio libero e democratico a una «bolla» limitata dai calcoli degli algoritmi. «È un incentivo al solipsismo: invece di aiutarci a interagire con il mondo intorno a noi, rischia di allontanarcene: ci costringe a concentrarci sullo schermo e ci rimanda l'immagine di noi calcolata dal motore di ricerca», dice a «la Lettura» Nicholas Carr, autore di Google ci rende stupidi?. In gioco ci sono due opposte concezioni dell'agire umano: l'idea della libertà come assenza di costrizioni e quella di libertà come possibilità di sviluppare se stessi e la propria creatività nella libera interazione con gli altri. «Gli algoritmi che gestiscono le pubblicità mirate stanno cominciando a gestire anche la nostra vita», sostiene Eli Pariser, in Il filtro (Il Saggiatore). «La maggior parte di noi crede che i motori di ricerca siano neutrali. Ma lo schermo del nostro computer è uno specchio che riflette i nostri interessi perché gli analisti degli algoritmi osservano tutto quello che clicchiamo», scrive Pariser. Così Facebook seleziona i post: invece di inondare la bacheca con tutti i messaggi, mostra solo quelli degli «amici» con cui si interagisce di più o che sono più affini al profilo dell'iscritto. Amazon consiglia i libri ritenuti più adatti all'idea che gli algoritmi si sono fatti analizzando i movimenti online dell'utente. E Google personalizza i risultati delle ricerche dal dicembre 2009, anche a partire dalle informazioni che ricava dalla casella Gmail dei navigatori (dopo le polemiche, sia Google che Facebook hanno iniziato a offrire la possibilità di rinunciare ai filtri personalizzati, ma è necessario cambiare le impostazioni di default). Secondo lo studioso di new media Evgeny Morozov il diffondersi della personalizzazione è una delle cause della «morte del cyberflaneur», il navigatore curioso e giocoso che all'alba del web gironzolava tra i siti, mosso dalla voglia di scoprire qualcosa di nuovo. I nuovi filtri eliminano proprio l'elemento casuale della scoperta: «Nell'insieme, creano un universo di informazioni specifico per ciascuno di noi, una "bolla dei filtri", che altera il modo in cui entriamo in contatto con le idee e le informazioni», e ci fa diventare «sempre più chiusi» in «universi paralleli ma separati», scrive Pariser, che è anche un web attivista e vede in questa evoluzione una minaccia della libertà e universalità di Internet. Se non si può interagire liberamente con gli altri e incontriamo solo ciò che ci «somiglia» viene minacciata la capacità del web di democratizzare le nostre società: la sua idea è che non si possa essere davvero liberi senza confronto e uno spazio «aperto» in cui agire. Il risultato sarebbe un'eterna ripetizione dell'identico, in cui «gli algoritmi trasformano in una formula matematica quello che abbiamo fatto fino a quel momento e poi lo proiettano nel futuro», secondo la definizione di Miriam Meckel, direttrice dell'Istituto per il Media and Communication Management all'Università svizzera di San Gallo. «Le scoperte casuali, importanti per imparare, accrescere la tolleranza e cambiare le nostre prospettive, vengono matematicamente espulse dal nostro mondo di informazioni basato su Internet. Noi però non ce ne rendiamo conto — scrive Meckel sulla "Neue Zürcher Zeitung" — e diventiamo sempre più un riflesso del profilo che i motori di ricerca hanno calcolato per noi». Oggi, sintetizza George Dyson ne La cattedrale di Turing (Codice) «Facebook definisce chi siamo, Amazon cosa vogliamo, Google cosa pensiamo». Per denunciare il pericolo insito in questi sviluppi, Meckel ha coniato il termine «Gogglem», crasi tra Google e Golem, la creatura della tradizione ebraica creata dagli uomini per servirli, che si rivolta contro di loro e rischia di distruggerli. Queste critiche riecheggiano quanto scriveva il filosofo della Scuola di Francoforte Herbert Marcuse nel 1941: «Un uomo che viaggia in automobile sceglie la strada su una mappa autostradale. Città, laghi e montagne si presentano come ostacoli da superare. Altri hanno pensato per lui, e, forse, per il meglio. Hanno costruito aree di parcheggio particolarmente utili, dove si apre il panorama più ampio e sorprendente. Economia, tecnica, bisogni umani e natura si fondono e si armonizzano in un meccanismo razionale e conveniente. Chi ne seguirà le prescrizioni, si troverà perfettamente a suo agio, subordinando la propria spontaneità all'anonima intelligenza che saggiamente ha ordinato tutto per lui». Per Marcuse questo tipo di organizzazione è sì razionale ed efficiente, ma elimina l'autonomia che costituisce il nucleo della libertà umana. L'idea di Google è molto diversa: «Sono sempre stato convinto che la tecnologia debba fare il lavoro duro, così gli utenti possono dedicarsi a ciò che più li rende felici», ha scritto ad aprile uno dei fondatori, Larry Page, agli azionisti dell'azienda. Nel «lavoro duro» di Google Now è compreso segnalare all'utente che è il momento di fare una foto: dal suo database può «vedere» che ci sono molte immagini geolocalizzate in un certo luogo e segnalarlo come «fotogenico». Quello che non può fare è dire se alla prossima svolta c'è una scena inaspettata che nessuno ha mai fotografato prima. @elenatebano _______________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Nov. ’12 UNIVERSITÀ LA CARICA DELLE LAUREE ONLINE Il ministro dell'Istruzione Profumo: presto nuove regole Chi si accredita deve assicurare il numero di docenti attivi DI BARBARA MILLUCCI S ono oltre 42 mila, in aumento del 200% rispetto a 3 anni fa, gli studenti che in tutta Italia scelgono di laurearsi in rete, e poco più della metà ha oltre 35 anni. Non proprio novellini freschi di diploma, ma imprenditori e professionisti che, avendo poco tempo a disposizione per frequentare fisicamente le lezioni, scelgono di studiare con formule snelle ed a distanza, sfruttando il web. Capitale da primato Tra gli aspiranti «dottori» ci sono anche molti disoccupati che, grazie alle lezioni in videoconferenza, sperano di ricollocarsi in fretta nel mondo del lavoro. Le università on line riconosciute ed autorizzate dal Miur ad attivare corsi di laurea sono in tutto 12 e la metà si trovano «fisicamente» nella capitale. «Negli ultimi 3 anni le immatricolazioni sono più che raddoppiate, con un aumento del +204%», precisa Stefano Fantoni, presidente di Anvur, la nuova Agenzia nazionale di valutazione del Sistema universitario e della ricerca. L'agenzia indipendente è stata istituita nel maggio 2011, inglobando due ex organismi ministeriali del Cnvsu, il Comitato nazionale di valutazione del sistema universitario ed il Civr per la valutazione della ricerca, che oggi non esistono più. In termini di iscritti, il primato lo detengono le università romane: Guglielmo Marconi, Unisu e Uninettuno che insieme totalizzano oltre 28 mila studenti, segue Ecampus che passa dai 4 mila e 700 immatricolati del 2010 agli attuali 6 mila. Tra le facoltà più gettonate, in tutti e 12 gli atenei, troviamo Giurisprudenza, Economia, Scienze matematiche e politiche, mentre la maggior parte delle matricole studia fisicamente davanti ad un pc dal Sud (20 mila), 11 mila dal Centro Italia e 9 mila dal Nord.» Negli ultimi 3 anni, i maggiori incrementi, in termini di iscrizioni, li ha registrati Ecampus (+169%), ma il dato più interessante è la percentuale dei laureati di tutte le facoltà: +129%», aggiunge Fantoni. A testimonianza che, chi si iscrive ad una scuola on line è molto più motivato a chiudere in fretta il percorso di studi e ottenere il tanto ambito pezzo di carta, rispetto a chi sta anni parcheggiato nei campus statali. Il padron dell'ex Cepu, Francesco Polidori, è appena rientrato dalla Spagna, dove è in procinto di chiudere un accordo con l'università Uned (Universidad Nacional de Educación a Distancia) per «creare un consorzio interuniversitario tra atenei esteri — afferma — per permettere agli studenti di soggiornare anche in altri paesi», un po' come l'Erasmus. «Con 40 milioni di fatturato, abbiamo chiesto le autorizzazioni al ministero per ampliare la nostra offerta, con nuovi corsi di lauree come Scienze dell'educazione ed infermieristiche, lingue e per le specialistiche. Offriremo poi borse di studio ai giovani, perché vogliamo abbassare l'età degli iscritti» aggiunge Polidori». Riforma in arrivo Ma il problema di tutti questi atenei è la carenza di docenti di ruolo. «Dalle nostre stime, non ancora rappresentative di tutti gli istituti — continua Fantoni — risultano appena 89 professori, più della metà ricercatori, che dovrebbero formare 42 mila persone. Ci sono poi 1.200 insegnanti a contratto, il 49% dei quali è impiegato anche in altre università. Ovvio che così non va». Dello stesso parere anche il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo, al lavoro per mettere a punto un decreto «nei primi mesi dell'anno prossimo» che faccia un po d'ordine nel settore. «Alle università online, a fronte dell'accreditamento — dichiara — verrà richiesta la stabilizzazione di una quota della docenza. Il processo dell'accreditamento ha l'obiettivo di normalizzare queste situazioni e ci dovrà essere un numero predefinito tra docenti di ruolo e corsi di lauree attivabili. Si faranno poi valutazioni periodiche per verificare che l'accreditamento venga mantenuto». Ci sono comunque piattaforme di e-learning, come Uninettuno, che hanno avuto lezioni di Mario Monti e Romano Prodi. «Hanno tenuto lezioni qui da noi — afferma il Rettore Maria Amata Garito —. La nostra offerta didattica è di respiro internazionale, teniamo lezioni in italiano, arabo, inglese e francese ed abbiamo studenti di 40 Paesi del mondo. Sono orgogliosa di aver formato un team di ragazzi egiziani, che hanno creato start up e sono ora inseriti nel tessuto high tech del nostro paese». _________________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Dic. ’12 IL CASO DEGLI «SBORNIA BOND» FAVOLA PER I TEMPI MODERNI Questa è una storiella svizzera. Sembra che il suo autore lavori per una grande banca della Confederazione. «Helga è la proprietaria di un bar, di quelli dove si beve forte. Rendendosi conto che quasi tutti i clienti sono disoccupati e che dovranno ridurre le consumazioni, escogita un geniale piano di marketing, consentendo loro di bere subito e pagare in seguito. Segna quindi le bevute su un libro che diventa il libro dei crediti (cioè dei debiti dei clienti). La formula "bevi ora, paga dopo" è un successone: la voce si sparge, gli affari aumentano e il bar di Helga diventa il più importante della città. Lei ogni tanto alza i prezzi e naturalmente nessuno protesta, visto che nessuno paga. La banca di Helga, rassicurata dal giro d'affari, le aumenta il fido. In fondo, dicono i risk manager, il fido è garantito dai crediti che il bar vanta verso i clienti: il collaterale a garanzia. Intanto l'Ufficio Investimenti & Alchimie finanziarie della banca ha una pensata geniale. Prendono i crediti del bar di Helga e li usano come garanzia per emettere un'obbligazione nuova fiammante e collocarla sui mercati internazionali: gli "Sbornia Bond". I bond ottengono subito un rating di AA+ come quello della banca che li emette, e gli investitori non si accorgono che i titoli sono di fatto garantiti da debiti di ubriaconi disoccupati. Dato che rendono bene, tutti li comprano. Conseguentemente il prezzo sale, quindi arrivano anche i gestori dei Fondi pensione a comprare, attirati dall'irresistibile combinazione di un bond con alto rating che rende tanto e il cui prezzo sale sempre. E i portafogli, in giro per il mondo, si riempiono di "Sbornia Bond". Un giorno però alla banca di Helga arriva un nuovo direttore che sente odore di crisi e, per non rischiare, le riduce il fido e le chiede di rientrare per la parte in eccesso al nuovo limite. Helga, per trovare i soldi, comincia a chiedere ai clienti di pagare i loro debiti. Il che è ovviamente impossibile essendo loro dei disoccupati che si sono anche bevuti tutti i risparmi. Helga non è quindi in grado di ripagare il fido e la banca le taglia i fondi. Il bar fallisce e tutti gli impiegati si trovano per strada. Il prezzo degli «Sbornia Bond» crolla del 90%. La banca entra in crisi di liquidità e congela l'attività: niente più prestiti alle aziende, l'attività economica locale si paralizza. I fornitori di Helga, che in virtù del suo successo le avevano fornito gli alcolici con grandi dilazioni di pagamento, si ritrovano ora pieni di crediti inesigibili visto che lei non può più pagare. Purtroppo avevano anche investito negli "Sbornia Bond" sui quali ora perdono il 90%. Il fornitore di birra inizia prima a licenziare e poi fallisce. Il fornitore di vino viene invece acquisito da un'azienda concorrente che chiude subito lo stabilimento locale, manda a casa gli impiegati e delocalizza a 6.000 chilometri di distanza. Per fortuna la banca viene salvata da un mega prestito governativo senza richiesta di garanzie e a tasso zero. Per reperire i fondi necessari il governo ha semplicemente tassato tutti quelli che non erano mai stati al bar di Helga perché astemi o troppo impegnati a lavorare. Bene, ora potete dilettarvi ad applicare la dinamica degli "Sbornia Bond" alle cronache di questi giorni, giusto per aver chiaro chi è ubriaco e chi sobrio». Giovanni Decio giovanni.decio@ alice.it A gli inizi del Settecento un medico olandese, Bernard de Mandeville, descrisse la nascita del capitalismo in un poemetto satirico, La favola delle api, che dimostrava come la somma dei vizi privati potesse produrre, nel grande alveare della società, una utilissima combinazione di dinamismo, intraprendenza, concorrenza e quindi, in ultima analisi, di maggiore ricchezza per tutti. Ma non aveva previsto che la somma della stupidità e dell'ingordigia potesse distruggere così rapidamente la ricchezza accumulata dalle sue instancabili api. Spero che la favola degli «Sbornia Bond» abbia lo stesso successo di cui ha goduto La favola delle api. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Nov. ’12 BIBLIOTECA EUROPEA L'UTOPIA VA ONLINE di ANTONIO PADOA-SCHIOPPA L a digitalizzazione delle opere a stampa sta procedendo nel mondo con un ritmo impressionante. Da Google all'iniziativa lanciata da Robert Darnton (The Case for Books, 2009), da Gallica ad American Memory, centinaia di istituzioni grandi e piccole stanno procedendo a memorizzare ingenti patrimoni librari, spesso a libero accesso, altrettanto spesso con accesso a pagamento. Eppure, una gran parte del patrimonio librario mondiale ancora non è accessibile online. In questo insieme si inserisce ora anche la Fondazione Biblioteca Europea (Beic), che dopo anni di lavoro preparatorio pubblica sul proprio sito (www.beic.it) i primi duemila volumi. La nuova biblioteca digitale si caratterizza per il suo carattere selettivo, interdisciplinare, multimediale, interconnesso. Mettere in rete, a libero accesso, i testi classici della cultura, dal mondo antico all'età contemporanea, nella lingua originale e in traduzione: una selezione di circa mille grandi autori, dalla matematica alle letterature europee, dalla medicina alla filosofia, dal diritto alle scienze naturali, dalla religione all'economia alla storia. In prospettiva, accompagnare ai testi scritti gli spartiti e le esecuzioni musicali, i video di opere, le immagini di grandi fotografi. Affiancare alle digitalizzazioni compiute ex novo il collegamento diretto con altre opere già liberamente accessibili in rete. Rendere fruibile questo patrimonio con un insieme di «metadati» particolarmente curato. Dare vita a una serie di collezioni speciali: incunaboli in lingua italiana, diritto dell'Europa medievale e moderna, atti di accademie italiane, testi matematici e scientifici antichi e moderni, storia della medicina e altro ancora. Interconnettere la Beic con le reti locali, nazionali e internazionali e con il grande patrimonio librario di Milano e della Lombardia, già digitalizzato o in corso di digitalizzazione. Mettere a disposizione un portale in cui fare progressivamente convergere gli archivi digitali delle principali istituzioni culturali milanesi e non solo. Tali sono le finalità della Beic digitale, che intende costituire a un tempo una struttura aperta di lettura e uno strumento di ricerca interdisciplinare, complementare rispetto alle biblioteche storiche e universitarie. Ai primi duemila volumi seguiranno anzitutto i settemila altri volumi già in corso avanzato di approntamento, digitalizzati attraverso convenzioni con università e biblioteche italiane e straniere che li possiedono. Altre opere e altre collezioni seguiranno. Una serie di testi che non possono andare in rete (tra questi una magnifica raccolta di oltre tremila manoscritti giuridici medievali provenienti da duecento biblioteche europee) sarà consultabile in postazioni riservate, la prima delle quali presso l'università Statale di Milano, Sala Crociera. La nuova biblioteca costituisce il comparto digitale della Biblioteca Europea di cultura e informazione (Beic) che dovrebbe sorgere nell'area di Porta Vittoria a ciò destinata da anni dal Comune di Milano. La Beic è stata approvata dal Parlamento con l'assegnazione di una prima tranche di finanziamenti finalizzati all'elaborazione del progetto dell'architetto Peter Wilson e alla costituzione di una prima parte del patrimonio librario e digitale. Ora si attende che il governo includa la costruzione della Biblioteca tra le infrastrutture finanziate dal Cipe, forse in una dimensione fisica ridotta, dato il particolare momento. Il futuro del Paese si gioca, come sappiamo, sulla ricerca e sulle infrastrutture culturali. E l'Italia manca ancora di una grande struttura bibliotecaria multimediale a scaffale aperto e a libero accesso, a differenza di quanto si è fatto e si sta facendo in Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, Corea e altrove. Solo chi ignora queste realtà, ciascuna delle quali è fruita quotidianamente da migliaia di utenti, può affermare che le biblioteche oggi non servono più. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 23 nov. ’12 GRANDI UNIVERSITÀ, CORSI VIA INTERNET Daphne Koller, docente di informatica a Stanford, ha oltre 100.000 studenti ogni semestre. C'è chi segue il suo corso dalla Romania, chi dal Camerun e chi dall'India. Perché la professoressa Koller insegna online su Coursera, un sito che offre gratuitamente le lezioni di una serie di atenei della Ivy League (come Princeton o l'università della Pennsylvania). I corsi, in formato digitale e interattivo, riguardano tutte le discipline: dall'informatica alla filosofia, dal management alla farmacologia. Nati come supporto per gli studenti lavoratori impossibilitati a seguire le lezioni, i corsi online sono diventati rapidamente uno strumento di divulgazione del sapere. E, inutile negarlo, un mezzo per pubblicizzare i progressi fatti dalle università nei più diversi campi. Non a caso questo tipo di iniziative si sono diffuse in molte accademie statunitensi. Così il Mit (Massachusetts Institute of Technology) e Harvard propongono i loro corsi gratuitamente via web su EdX. Il messaggio che compare sulla home page del sito è chiaro: «Il futuro dell'educazione online. Per tutti, ovunque, in ogni momento». Anche Udacity, il sito fondato da Sebastian Thrum, ex docente di robotica a Stanford e pioniere dell'insegnamento via web, offre corsi (come linguaggi di programmazione oppure intelligenza artificiale) aperti e gratuiti. Il sogno dell'educazione di eccellenza per tutti dal divano di casa, è, dunque, a portata di mano? Occorre fare alcuni distinguo. Prima di tutto coloro che superano gli esami previsti e completano il corso ricevono un attestato ufficiale, ma non crediti formativi. In secondo luogo vi è il problema degli abbandoni. Nel caso di Udacity, per esempio, il corso "Informatica di base: come costruire un motore di ricerca" ha avuto circa il 90% di abbandoni. Va, tuttavia, detto che queste strutture sono ancora in una fase iniziale, di rodaggio. È quindi probabile che introducano progressivamente una serie di accorgimenti volti a ridurre la quota di cadute. Anche in Europa, intanto, qualcosa si sta muovendo. In Francia è stato avviato un processo di apertura delle università a un pubblico sempre più vasto, che non si limita solo agli studenti frequentanti. Oggi numerosi docenti francesi, compresi quelli della Sorbona, mettono a disposizione gratuitamente sul sito dell'università il materiale presentato durante le lezioni. Nel Regno Unito, invece, la Open University, celebre università a distanza, continua a offrire i corsi online a pagamento. Nell'attesa di capire come evolverà il fenomeno dell'educazione gratuita via web. Anna Zinola _____________________________________ Famiglia Cristiana 2 Dic. ‘12 IL BUCO D'OZONO? È IN RITIRATA L'immagine, realizzata lo scorso 22 settembre grazie ai dati raccolti dai satelliti Nasa, mostra nelle tonalità del blu/violetto l'estensione del buco d'ozono nel giorno del suo massimo annuale. La buona notizia è che, con un'ampiezza "appena" di :1,2 chilometri quadrati, è il buco più piccolo degli ultimi dieci anni, e nel corso dell'ultimo ventenni° solo nel 2002 si era osservata una situazione migliore. In effetti, mentre tra la fine degli anni '80 e gli anni '90 il buco d'ozono si è ingrandito sempre più, fino raggiungere il record assoluto di circa 29,9 milioni di chilometri quadrati (un'area grande circa cento volte l'Italia) 9 settembre 2000, nell'ultimo decennio la situazione è andata migliorando e ad annate in cui lo squarcio ha raggiunto dimensioni notevoli, come nel 2006, se ne sono alternate altre in cui il buco si è molto rimpicciolito, nel 2010 e quest'anno. In base alle proiezioni degli scienziati della Nasa, grazie alle limitazioni alte emissioni di Cfc (gas che danneggiano lo strato d'ozono) il buco d'ozono potrebbe richiudersi del tutto fra 50- 60Anni ========================================================= _______________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Nov. ’12 IL MONITO DI MONTI SULLA SPESA SANITARIA «Sostenibilità a rischio». Poi precisa: garantita ma con altri tipi di finanziamento. Ed è polemica ROMA — Si ribellano tutti: da Di Pietro al Pdl, dalla Lega al Pd. Mario Monti ha toccato il funzionamento attuale, e la sostenibilità futura, del sistema sanitario nazionale. Lo ha fatto con queste parole: «La crisi ha colpito tutti. Il campo medico non è un'eccezione. Le proiezioni di crescita economica e quelle di invecchiamento della popolazione mostrano che la sostenibilità futura dei sistemi sanitari, incluso il nostro servizio nazionale, di cui andiamo fieri, potrebbe non essere garantita se non si individueranno nuove modalità di finanziamento e di organizzazione dei servizi e delle prestazioni». Il passaggio "incriminato" è pronunciato dal capo del governo in videoconferenza con Palermo, dove si inaugura il progetto Ri.Med, nuovo centro di biotecnologie, in stretta correlazione con know how e risorse americane (Università di Pittsburgh). Una collaborazione che fornisce al premier un'occasione per una riflessione e un paragone. La prima è amara: «Non sono moltissime in queste giornate, le occasioni per guardare all'oggi con grande conforto o al domani con grande speranza». Il progetto siciliano, «un esempio concreto e luminoso di un'Italia all'avanguardia», è una di queste e per questo «mi spiace non essere lì con voi: la vostra iniziativa ha rilevanza internazionale in grado non solo di trattenere i migliori talenti italiani ma anche di attrarne». Subito dopo l'intervento di Monti, con gli occhi puntati ad alcune eccellenze americane, tocca anche il funzionamento attuale del Ssn: «Anche l'innovazione medico-scientifica - aggiunge il premier - deve partecipare alla sfida» della sostenibilità. E ciò «considerando il parametro costo-efficacia un parametro non più residuale, bensì di importanza critica». Ce n'è abbastanza per suscitare molte reazioni. Compresa quella di Bersani, che pensa «di essere un po' più ottimista, anche se mi piace che ci sia uno del governo che pone il problema. Io penso che il sistema sanitario bisogna garantirlo ed è curioso non si parli di sanità in questi mesi. Nei prossimi anni le difficoltà saranno grandi, anche per le misure prese. Io dico che i tagli lineari non vanno bene, che il cacciavite nella macchina va messo, che le migliori pratiche vanno estese». Se quello del segretario del Pd è un ragionamento critico, poco dopo invece arriva la reazione dura, e allarmata, della Cgil: il presidente del Consiglio, si legge in una nota, «non può permettersi certe preoccupazioni sulla sostenibilità del sistema sanitario nazionale, dopo averlo ridotto all'osso. Se il governo ha intenzione di privatizzare, come denunciamo da mesi, lo dica. Noi lo combatteremo. Ma non può affamare la bestia per poi svenderla». A metà pomeriggio Palazzo Chigi sente il bisogno di precisare il ragionamento del capo del governo, assicurando che la sostenibilità del servizio sanitario nazionale è garantita. «Per il futuro è però necessario — spiega la nota — individuare e rendere operativi modelli innovativi di finanziamento e organizzazione dei servizi e delle prestazioni sanitarie. Il presidente non ha messo in questione il finanziamento pubblico del sistema, bensì, riferendosi alla sostenibilità futura, ha posto l'interrogativo sull'opportunità di affiancare al finanziamento a carico della fiscalità generale forme di finanziamento integrativo». Marco Galluzzo _______________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Nov. ’12 IL FILOSOFO ARABO CHE SCRISSE LA «BIBBIA DEI MEDICI» di ARMANDO TORNO La vicenda inizia a Bukhara, oggi Uzbekistan, in un anno poco prima del Mille. Un giovane abita qui, si chiama Ibn Sîna. Studia il Corano, anzi a dieci anni lo conosce a memoria, eccelle in letteratura, geometria, calcolo indiano e ben presto avrà anche una formazione filosofico- scientifica. A sedici anni divora opere di medicina, metafisica, diritto. A diciassette è chiamato come medico alla corte del sovrano Nûh ibn Mansur e lo guarisce da un male che lo tormentava. Per tale motivo gli vengono aperte le porte della ricca biblioteca reale, dove potrà studiare ulteriormente e approfondire quanto desidera, tanto che a diciotto anni — si mormora — conosceva ogni scienza. Ma il giovane non è mai sazio di sapere. Dalla sua autobiografia, conservataci dal discepolo Giûzgiânî, sappiamo che legge per quaranta volte la Metafisica di Aristotele: si tormenta su questo testo perché non ne comprende il senso ultimo, o almeno crede che gli sfugga. Non ne descriveremo tutta la vita, ci accontentiamo dopo queste premesse di ricordare che nella lingua arabo- spagnola il nome diventerà «Abensîna». Il medioevo latino lo conoscerà come Avicenna. Perché occuparsi di lui? Per un semplice motivo: Olga Lizzini, che con Pasquale Porro aveva tradotto dieci anni fa la sua Metafisica, ora ha pubblicato una monografia su questo filosofo e medico. Nella collana «Pensatori» dell'editore Carocci è uscito, appunto, Avicenna. Un ritratto che spazia dalla logica all'antropologia, dalle definizioni della natura ai percorsi metafisici. La Lizzini, che insegna Filosofia dell'Islam medievale ad Amsterdam, ci offre un saggio basandosi sulle opere. Noi dell'immenso lascito di Avicenna ricordiamo in questa occasione il suo Canone della medicina, tradotto da Gherardo Cremonese a Toledo in latino nella seconda metà del secolo XII e migliorato dal medico bellunese Andrea Alpago (morto a Padova nel 1521), opera che diventerà il testo di riferimento nelle università. Venne considerata «la bibbia dei medici». I l Canone era diviso in cinque trattati: comincia con la medicina teorica e pratica in generale, inclusa l'anatomia del corpo umano; prosegue con i medicamenti semplici, mentre la terza parte fu dedicata alle malattie di una determinata parte del corpo; si trovano poi le sezioni sulle patologie non particolari e si conclude con la composizione e applicazione dei medicamenti. Avicenna ha intuizioni avanzate. Per esempio, raccomanda al chirurgo di trattare il cancro nelle sue fasi iniziali, invitandolo ad accertarsi della rimozione completa del tessuto malato. Ricorda l'importanza della dieta, l'influenza del clima e dell'ambiente sulla salute; inoltre parla degli anestetici orali e del valore medico della musica, la quale ha un effetto particolare sullo stato fisico e psicologico dei pazienti. Una bolla di papa Clemente del 1309 cita il nome dell'arabo accanto a quello di Galeno. Lo si valorizza particolarmente a Bologna e a Montpellier, anzi nella città francese è addirittura ritenuto superiore ai testi della medicina greca onorati dalla tradizione (in verità è anche accostato alle opere del clinico Abu Bakr Razi). Sarà adottato sino al XVII secolo; il programma di una scuola medica che lo esclude reca la data 1557, anche se in quel tempo è continuamente stampato, come prova la superba edizione in folio che esce a Roma nel 1593. Si può affermare che per secoli nessun medico avrebbe potuto ignorare il suo insegnamento teorico, come d'altra parte ricorda Chaucer nel prologo dei Racconti di Canterbury. L'influenza esercitata in Europa cominciò nella prima metà del Duecento, allorché se ne segnala la presenza negli scritti del medico danese Henrik Harpaestraeng. D'altra parte, del Canone si contano poco meno di 90 traduzioni. E questo anche se un sommo conoscitore dei corpi umani quale Leonardo da Vinci rifiutava le concezioni anatomiche del maestro arabo e il medico alchimista Paracelso, morto nel 1541, nel giorno di San Giovanni del 1527 — così vuole la tradizione — con esuberanza e tra gli applausi degli studenti ne bruciò pubblicamente le opere a Basilea. Al di là dei critici, tuttavia, Avicenna penetra profondamente nel sapere europeo. Alberto Magno era ricorso alle sue opere per gli scritti scientifici e, inoltre, lo consegnò al pensiero di Tommaso d'Aquino; la scolastica latina non è pensabile senza la sua filosofia e gli influssi giungono sino alla Scuola di Oxford e fanno eco le lodi che gli dedica Ruggero Bacone, il quale non esita a porlo accanto ad Aristotele e a Salomone. E questo senza contare le tracce che si ritrovano nei testi dei filosofi francescani. Dante, inoltre, lo situa tra i sommi uomini di scienza. I teologi dell'età di mezzo consultano senza requie il Libro della guarigione, o come avrebbe lui detto il Kitâb al-Sifâ, che nelle biblioteche dei monasteri era noto con il titolo Liber sufficientiae: si tratta di una enciclopedia filosofica, la cui parte riguardante «la scienza delle cose divine», è la ricordata Metafisica. Non sono che esempi. E quando si svilupperà, sotto lo sguardo vigile della Compagnia di Gesù, la Seconda Scolastica, Avicenna è ancora presente nelle immense chiose offerte all'opera di Tommaso. Soltanto nel periodo illuminista, in quel Settecento permeato di scienza che con il medico militare La Mettrie intenderà il corpo umano come una macchina, il maestro arabo cederà definitivamente il passo. Si ritirava nella storia. Dopo aver avvisato l'umanità che un «dottore ignorante è l'aiutante di campo della morte». _______________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Nov. ’12 NEL MEDIOEVO E NEL RINASCIMENTO IN ITALIA FONDAMENTALI ANCHE I «DOTTORI RABBINI» A ccanto alla medicina (e alla filosofia) degli arabi, non vanno dimenticate quelle degli ebrei. Medioevo e Rinascimento vedono in innumerevoli città italiane, a cominciare dalla Roma dei Papi, la presenza di medici rabbini, ovvero di eminenti figure che oltre ad essere guide spirituali delle loro comunità praticano l'arte di Ippocrate utilizzando il vasto sapere della tradizione ebraica. Ora un volume, curato da Myriam Silvera, in cui sono raccolti gli atti di un convegno tenutosi nel settembre 2008 presso l'Università degli Studi di Roma Tor Vergata, dal titolo Medici rabbini. Momenti di storia della medicina ebraica (Carocci, pp. 168, 19), consente di conoscere protagonisti e riflessi di una storia che merita attenzione. Ecco allora riapparire figure quali Nathan ha-Meati da Cento, traduttore dall'arabo del Canone di Avicenna e dal greco degli aforismi di Ippocrate; oppure Calonimos ben Calonimos, che ci lascia una traslazione di alcuni testi di Galeno. Si giunge anche in periodi più vicini, per esempio con personaggi quali Isacco Lampronti, al quale, nel volume di Carocci, David Gianfranco Di Segni dedica un saggio. Attivo a Ferrara, dove morì nel 1756, fu autore di una celebre enciclopedia talmudica, Pahad Izchak, che espone in ordine alfabetico questioni di natura rituale, religiosa, medica e scientifica (in Israele, nel 1942, è stata pubblicata una nuova edizione). Una lapide in via Vignatagliata 33 lo ricorda: ma, come riferisce Di Segni, fu affissa nel 1872, «dopo la fine del potere temporale della Chiesa, perché il clero, poco prima che Lampronti morisse, aveva vietato le lapidi alle tombe ebraiche»; anzi, quelle presenti nel cimitero della comunità furono «utilizzate per altri scopi, come per esempio lastricare strade». Ma il ricordo di questa figura resta soprattutto legato alla sua idea di «missione»: esercitò la professione sia tra gli ebrei che i non-ebrei, tanto che questi ultimi lo chiamavano «il famoso medico». Il libro di Carocci non si limita comunque ai personaggi. Si trovano, per esempio, notizie sulle biblioteche dei medici ebrei negli anni che seguono l'espulsione dalla Spagna o questioni di etica, come il saggio di Giuseppe Veltri, sulla medicina nella riflessione talmudica. _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 2 Dic. ’12 CON LA TECNO-SANITÀ RISPARMI A TRIPLA CIFRA Giampaolo Colletti Un giorno ci cureremo anche in rete, le ricette mediche saranno tutte digitalizzate e all'interno di una struttura sanitaria il referto sarà consultabile online, con un coinvolgimento da remoto per più professionisti di ambiti molto specialistici. Questo giorno per l'Italia è ancora lontano, mentre nei Paesi scandinavi e in alcune aree d'eccellenza dell'Europa continentale medical data e e-prescription appartengono alle pratiche quotidiane della buona sanità, anche pubblica. Nuove tecnologie per curare e per ottimizzare le spese. Così la rete potrebbe venire in soccorso del sistema sanitario e la telemedicina alleare con successo spending review ed efficienza di servizio, offrendo vantaggi a pazienti e operatori. Ma il condizionale è ancora d'obbligo. La fotografia appena scattata dal think tank I-Com sull'e-health registra un'Italia che procede col freno a mano tirato, e che potenzialmente potrebbe avvantaggiarsi se investisse in informatizzazione. I dati in esclusiva per Nòva24 sono inseriti nel nuovo rapporto sulle reti di nuova generazione che verrà presentato mercoledì 4 dicembre all'Istituto Luigi Sturzo di Roma. I-Com registra potenziali risparmi a tripla cifra: con l'adozione di nuove tecnologie ogni malato costerebbe 899 euro in meno all'anno. Se il 25% dei malati cronici utilizzasse le tecnologie digitali si risparmierebbe una cifra stimata in 1,2 miliardi di euro annui. Si attesterebbe, invece, a 2,5 miliardi di euro il risparmio nel caso potessero accedere alle nuove tecnologie la metà dei malati cronici. I soli esami clinici in collegamento video per effettuare controlli periodici comporterebbero un risparmio pari a 632 euro all'anno. Numeri rilevanti, considerando che la spesa sanitaria è stimata in 130 miliardi e con un'incidenza sul Pil del 9 per cento. Dal risparmio potenziale alla situazione di fatto, che vede l'Italia drammaticamente posizionata nelle retrovie dell'Europa a ventisette in quasi tutti gli indicatori presi in considerazione. Mentre tirano la volata i Paesi con welfare solido ed efficiente impianto infrastrutturale, risultiamo fanalino di coda seguiti soltanto da Slovacchia, Lettonia e Grecia . Lo score – standardizzato da Deloitte e che prende in considerazione quattro indicatori tra i quali la possiblità di trasferire in modo elettronico medical data – si attesta per l'Italia a 33, molto lontano dal 63 di Paesi Bassi e Svezia. Situazione immutata per la diffusione di banda larga e ultralarga negli ospedali: soltanto il 31% dei nosocomi nostrani dispone di connessioni con velocità superiore ai 50 Mbps, mentre un 58% è zavorrato a meno di 50 Mbps. Si posizionano nella zona alta della classifica Finlandia, Danimarca e Lussemburgo con più della metà delle strutture dotate di ultrabanda (in Danimarca il dato si attesta all'88%). Anche sull'adozione dell'electronic patient record – la capacità di registrare i dati su formati digitali e di condividerli in reti protette – chiudiamo la classifica europea, seguiti da Lituania e Malta. Solo il 48% degli ospedali dispone di strutture centrali digitalizzate in grado di dialogare con quelle locali (la media europea è del 70%). Anche per questa ragione la vera sfida all'informatizzazione sanitaria passa dai link attivabili tra strutture centrali e periferiche. © RIPRODUZIONE RISERVATA Minori costi Euro risparmiati all'anno per paziente 899 Connessi Gli ospedali con connessioni oltre ai 50 Mbps 31% _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 2 Dic. ’12 SANITÀ SOSTENIBILE, LA GRANDE SFIDA Dal 2001 cumulato un buco di 40 miliardi, con le otto regioni commissariate in rosso per 33 RIGORE FORZATO Razionalizzazione e lotta agli sprechi sono ineludibili per un Paese come l'Italia che nel 2050 avrà il 33% della popolazione ultrasessantenne Roberto Turno L'ultimo allarme – forse il più significativo per la sua provenienza (la ex "casa madre" del professor Monti) – è arrivato non più di due settimane fa dal Cergas Bocconi: chi l'ha detto che in sanità «fare lo stesso con meno» sia un «automatismo» scontato? Ovvero, come riuscire nell'impresa impossibile di garantire gli stessi risultati di salute con meno risorse dopo i tagli plurimiliardari di questi anni alla sanità pubblica? Meno fondi, meno capacità di soddisfare i bisogni di salute, è l'equazione sposata dalla Bocconi. Perché lotta agli sprechi e sfide della razionalizzazione e della sana gestione sono ineludibili. Ma non bastano, in un quadro più o meno futuribile di insostenibilità che coinvolge i sistemi sanitari occidentali. Per l'Italia, che nel 2050 avrà il 33% di popolazione ultrasessantenne, a bocce ferme il rischio di far precipitare nel baratro il Ssn non è un mero esercizio teorico. Per questo, la sfida sul futuro della sanità italiana è apertissima. E non può essere respinta o dimenticata a colpi di ideologie. Quale welfare sanitario possibile, quale universalità salvare e come: queste le domande a cui dare risposta. Perché è in un quadro fortemente critico per tutti i sistemi sanitari che vanno lette le parole del premier Monti che hanno suscitato scandalo: «Ssn a rischio se non si trovano altre modalità di finanziamento». Salvo poi derubricare a «discussione aperta», smentendo voglie di privatizzazione e indicando la rotta dei fondi integrativi. Bocconi, Censis, Ambrosetti, Farmafactoring, Ceis Tor Vergata, in fondo concordano. Ma confermando il pericolo di mancata tenuta - dunque di abbandono - del Ssn. Con acccenti che denunciano il crollo della copertura pubblica per gli italiani, il crescere esponenziale della spesa privata, le liste d'attesa che lievitano, la fuga verso il low cost con tutti i rischi del caso. Perfino la scelta che sempre più le famiglie fanno di rinviare le cure (o di rinunciarvi) sotto i colpi della crisi: il Censis ha calcolato 9 milioni di persone «in fuoriuscita» dalle cure, 2,4 milioni anziani e 4 milioni al Sud e nelle isole. Partiti, sindacati, tutti gli operatori – privati compresi – concordano e accentuano i toni del rischio-disfatta. Ciascuno con le sue ricette. Ma tutti interrogandosi su come costruire il nuovo welfare. Ma davvero il futuro e la salvezza possono essere i Fondi integrativi, il secondo pilastro sanitario? Detto che il fenomeno in Italia non è al top ma che vanta 4,5 miliardi di valore delle prestazioni, oltre 350 soggetti in campo, 7,2 milioni di iscritti e 1,5 milioni di assistiti, è chiaro che Fondi, Casse e Mutue non basteranno. E che nel fondo si agita lo spettro di creare assistenza sostitutiva, di espellere intere categorie dall'assistenza pubblica. Che a quel punto retrocederebbe anch'essa. Ipotesi estreme, ma da tenere d'occhio. Tanto che molti economisti rigettano del tutto l'ipotesi "fondi integrativi" e negano che il Ssn sia un buco nero: «Possiamo vantare addirittura uno spread positivo anche verso la Germania», assicura la professoressa Nerina Dirindin dell'Università di Torino. Un riconoscimento della qualità complessiva della sanità italiana, dei passi in avanti che sono stati fatti. Anche se non tutto è eccellenza, col Sud quasi tutto commissariato e sotto tutela. Con i ritardi spaventosi – anche più di 1.600 giorni nella asl 1 di Napoli – dei rimborsi ai fornitori. Il tutto, mentre sta per scattare la tagliola della spending review e la pressione cresce su ospedali, asl, privati. Con la sanità del Lazio, che per commissario ha Enrico Bondi "mani di forbice", dove tutta l'ospedalità privata è in fermento per i nuovi tagli, quella cattolica trema e intanto regala il pessimo esempio del fallimento dell'Idi di Roma. Colpi che deve subire perfino l'ospedale del papa, il Gemelli. I numeri intanto ci consegnano diverse chiavi di lettura e di interpretazione anche per capire cosa è avvenuto in questi anni sotto il cielo del Ssn. Per valutare se sono state solo razionalizzazioni e i tagli sono solo «leggende metropolitane», come afferma il ministro Renato Balduzzi. Dal 2012 al 2015 il Ssn ha subito un definanziamento di 35 miliardi, col fondo nazionale che nel 2013 per la prima volta calerà (- 1%). Ancora dal prossimo anno arriverà un taglio di almeno altri 7.389 posti letto, dopo i 100mila già eliminati dal 1997. I disavanzi dal 2001 ci presentano un conto negativo di 40 miliardi, con le otto Regioni commissariate e sotto piano di rientro che da sole hanno cumulato un rosso di 33 miliardi. Proprio loro che – soprattutto al Sud – non hanno garantito gli standard dei Lea (livelli di assistenza), rispettati in sole otto Regioni. Mentre i ticket pro capite dal 2009 al 2011 sono cresciuti da 14,3 a 21,8 euro. E il 38% degli italiani giudicano peggiorato il servizio nelle Regioni sotto tutela, contro il 23% in media nazionale. A testimoniare che c'è una voragine nella voragine: il Sud. Che con i nuovi tagli, tra l'altro, faticherà ancora di più, se possibile, a uscire dai disavanzi. Nei quali invece rischiano di precipitare anche le cosiddette Regioni virtuose. Per capire: 23 milioni di italiani già hanno la sanità commissariata o sotto tutela da parte del Governo. E ora tocca alla spending review. Nelle corsie i medici potrebbero calare. Come gli ospedali, anche se le cure h24 sul territorio sono solo un mito. Per non dire che nel 2013 saranno ridotti i Lea oggi garantiti: altra sanità a pagamento. Tanti rebus nel grande rebus della sostenibilità o meno del Ssn, in tempi più o meno lunghi. Chissà se poi nella qualità che rischia di precipitare si misurano gli effetti dei risparmi su ricambi e pulizia di divise e biancheria negli ospedali. I fornitori di Assosistema, al collasso con i pagamenti che non arrivano, hanno appena lanciato anche l'allarme sporcizia. E del calo dell'occupazione. La sostenibilità si misura anche così. L'effetto dei tagli 35 Miliardi di euro È il definanziamento previsto tra 2012 e 2015 per il Ssn 7.389 Posti letto È il taglio previsto per il 2013. Dal 1997 ne sono stati tagliati 100mila 40 Miliardi di euro I disavanzi delle regioni. Di questi 33 provengono dalle 8 regioni commissariate 21,8 Euro È il ticket medio pro capite nel 2011. Nel 2009 era a quota 14,3 euro Archivia _______________________________________________________________ Corriere della Sera 29 Nov. ’12 CINQUE COSE (NON DETTE) SULLA SANITÀ I VERI CONTI E QUEI DUBBI SUL MODELLO USA Dopo i tagli dei letti antieconomici (-30%) le uscite per i ricoveri in pronto soccorso calate del 40%di MASSIMO MUCCHETTI Mario Monti avverte che i sistemi sanitari, compreso quello italiano, potrebbero non essere più sostenibili nel tempo dalla fiscalità generale. Secondo il premier, non basterà eliminare sprechi, inefficienze e corruzione, ma ci vorranno anche altre forme di finanziamento che l'economista Fabio Pammolli ha coerentemente individuato nei fondi privati sanitari. Il tema non è nuovo, ma l'alta cattedra dal quale viene riproposto promette di renderlo materia dell'azione di governo. Per questo merita un approfondimento, che schematizzerò in 5 punti. 1) In Italia la salute è un diritto di cittadinanza. Certo, è anche materia di iniziativa economica, ma solo in seconda battuta. Il diritto alla salute coinvolge le ansie e le speranze più profonde delle persone nel momento di maggior debolezza, la malattia. Il premier ha posto un problema reale, ma lo ha fatto in termini ancora generici. Sarebbe augurabile che lo stesso premier o il ministro della Salute entrassero nel merito, per non aggiungere nuove ansie alle vecchie. 2) La spesa sanitaria non è un totem. Il Paese deve decidere se essa debba assorbire sempre la stessa percentuale del Prodotto interno lordo o se non possa crescere un po', certo in modo controllato, seguendo i cambiamenti indotti dall'aumento della vita media. Una famiglia giovane non consuma gli stessi beni e servizi di una famiglia di giovani e vecchi. Sta a noi scegliere se, a parità di risorse, vengono prima l'assistenza ai genitori anziani e alle giovani mamme o lo «smartphone» e la «trophy bag». Sono i valori a determinare l'economia o è l'economia a determinare i valori? La quota pubblica della spesa sanitaria, dicono le statistiche correnti, passerà dal 7,3% del Pil all'8,2% nel 2060. Meno dell'1% in più tra 38 anni. Proiettare a così lungo termine la spesa sanitaria pubblica è un esercizio fattibile. Farlo anche con il Pil è azzardato. Invidio gli aruspici che gettano il cuore oltre gli ostacoli della logica e della storia. Ma li prenderei con le pinze. E intanto partirei dai dati verificati. 3) Al netto degli orrendi scandali e degli insopportabili sprechi che allignano perfino in Lombardia, il sistema sanitario nazionale italiano non è il colabrodo che gli scandalizzati di mestiere dipingono. Costoro, talvolta senza accorgersene, portano acqua al mulino del sistema finanziario e delle burocrazie sindacali, che già fiutano un nuovo affare corporativo sull'assai discutibile modello dei fondi pensione. Dalla tabella che abbiamo ricostruito sui dati Ocse, risulta che l'Italia è il Paese dove la tutela della salute assorbe la minor spesa globale sia pro capite sia in relazione al Pil. E questo accade con un peso della mano pubblica di dimensione europea. Gli Usa, che rappresentano il modello alternativo, basato sulla prevalenza delle assicurazioni, è infinitamente meno efficiente e meno efficace, come rivelano i dati sulla vita media e la mortalità infantile, assai meno buoni negli Usa. 4) Il premier potrebbe andar fiero di quanto è stato fatto prima di lui. Non si parte da zero. In Italia, la spesa per ricoveri e pronto soccorso è scesa al 40% del totale grazie all'eliminazione del 30% dei posti letto antieconomici. La Germania, per dire, è molto indietro sulla strada dell'efficienza sanitaria. Prima di parlare di affari con Generali, Unipol, Allianz e Intesa Sanpaolo, i big delle polizze, il governo farebbe bene a fare il suo mestiere. Che consiste, anzitutto, nel modernizzare il servizio sanitario nazionale partendo dalle esigenze della «clientela». Se il 40% degli assistiti soffre di malattie croniche che assorbono l'80% delle risorse, andranno comunque modificati i servizi prima di pensare a come finanziarli. O vogliamo imitare certe aziende che prima fanno finanza e poi, non si sa quando, lavorano ai nuovi modelli di automobile? 5) Certo, alla fine, i soldi servono. Ma la soluzione sono davvero i fondi sanitari americaneggianti? Oggi nulla vieta di stipulare polizze sanitarie integrative. I fautori dei fondi vorrebbero che queste o altre forme condivise con i sindacati avessero sgravi fiscali tali da favorirne la diffusione. L'idea presenta quattro difficoltà. A) Dal punto di vista della finanza pubblica, la soluzione pare teoricamente neutrale: con i fondi, la maggior spesa sanitaria sarebbe sì a carico delle persone e non dello Stato, e tuttavia il bilancio pubblico, in seguito agli sgravi, perderebbe la relativa entrata fiscale. B) Anche dal punto di vista delle persone nel loro complesso l'effetto fondi sarebbe neutrale: non avrebbero maggiori imposte e contributi, ma dovrebbero accollarsi i premi della polizza. Dal punto di vista dei singoli, invece, verrebbe meno l'effetto solidaristico del servizio sanitario nazionale, perché i ricchi avrebbero una bella polizza (in molti già ce l'hanno) e i poveri ne avrebbero una misera (e non sarebbero i sindacati a migliorarla). C) L'intervento dei fondi avrebbe un senso se, dagli stessi 100 euro, fossero capaci di estrarre maggiori cure rispetto al servizio sanitario nazionale. Purtroppo, l'esperienza smentisce questo assunto. Oltre alla tabella, ricorderemo che i costi amministrativi della sanità pubblica italiana sono pari al 6%, mentre la sanità mista americana viaggia sul 15%. D) L'intervento dei fondi avrebbe di nuovo un senso se, investendo i denari degli assicurati, potessero ricavare maggiori risorse per la cura delle persone. Niente garantisce che così sia. Sul piano del rigore, se la sanità pubblica ha i suoi Daccò, le assicurazioni hanno i loro Ligresti. Una bella lotta. Sul piano finanziario, le performance medie dei fondi, come si evince dai rapporti di Mediobanca, sono deludenti. Senza contare il trasferimento all'estero di un'ulteriore quota di risparmio nazionale che i gestori immancabilmente attuerebbero per proteggersi dai rischi Paese. Morale: se l'intervento di Mario Monti intende costringere una classe politica riluttante a organizzare meglio il prelievo, articolandolo su base regionale, dunque più vicina ai centri di spesa, e per scopi precisi, per esempio l'assistenza ai non autosufficienti o le cure odontoiatriche, va senz'altro sostenuto; se invece sottintende l'importazione del modello americano, allora sarà meglio dichiararlo apertis verbis e farsi misurare alle urne. La scelta del modello sociale, di cui il welfare sanitario è una colonna portante, interroga la democrazia, non la tecnica. _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 nov. ’12 GIUDICE ALTIERI: «IL DIRITTO ALLA SALUTE NON PUÒ ESSERE LEGATO A VINCOLI DI BILANCIO» «Invito Salvatore a contenere la sua protesta nei limiti della sua salute». È l'appello che ieri il segretario del Pd Berluigi Bersani ha rivolto a Salvatore Usala, il malato di Sla di Monserrato che domani sarà a Roma per protestare contro i tagli ai disabili non autosufficienti annunciati dal Governo. Una protesta che potrebbe degenerare se, come hanno minacciato i pazienti, si lasceranno morire staccandosi il respiratore. «Alla Camera abbiamo recuperato 200 milioni di euro e cercheremo di difendere questa scelta», ha detto il leader del Pd. Di seguito l'intervento di Giorgio Altieri, giudice del tribunale di Cagliari. Le cronache di questi giorni difficili sono punteggiate dalle proteste delle persone che, in un periodo di grave crisi economica, soffrono sulla propria pelle il disagio economico e sociale. Dal movimento pastori all'isola dei cassintegrati ai lavoratori del Sulcis, è ormai una rincorsa a forme di protesta estreme che cercano di trasmettere questo disagio alla società, nella convinzione che solo il gesto spettacolare e innovativo rispetto alla tradizionale dinamica dei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro possa smuovere dall'immobilismo quella politica che con molte ragioni è individuata come responsabile della crisi. Con tutta la solidarietà per i problemi che le persone vivono nel quotidiano, ritengo che questa non sia una via condivisibile. Non è urlando di più, minacciando il male peggiore, causando i maggiori disagi ai cittadini che si risolveranno i problemi del lavoro, della salute, della scuola e della ricerca; il rischio, anzi, è che in un momento nel quale vincoli di bilancio e normativi frenano l'azione riequilibratrice dello Stato simili forme di pressione finiscano per far prevalere le scelte più popolari, anziché gli interessi più meritevoli. Altra è la strada del diritto e della ragione: far valere di fronte agli organi pubblici, con gli strumenti della legge, i diritti fondamentali dell'individuo. Pensiamo a un caso del tutto particolare: Salvatore Usala, rappresentante di un'associazione di malati si Sla, ha dichiarato di volersi togliere la vita se non saranno accolte le richieste di ripristino dei fondi pubblici destinati all'assistenza delle persone affette da gravi disabilità. La Costituzione gli riconosce il diritto alla salute e a un'esistenza libera e dignitosa. Questo diritto non può essere compresso da vincoli di bilancio, e gli organi pubblici ne devono assicurare il godimento. È diritto dell'uomo, e responsabilità di chi si riconosce cittadino tra uguali, fare valere questo diritto con le forme che la legge gli riconosce. Giorgio Altieri giudice del tribunale di Cagliari _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Nov. ’12 SANITÀ, RIPARTITI 106 MILIARDI L'agenda per la crescita TRA GOVERNO E AUTONOMIE Accordo Stato-Regioni sui fondi 2012, nulla di fatto sulle risorse 2013 LA DOTE PATTUITA Ai 105,3 miliardi di euro di dotazione netta per quest'anno vanno aggiunti gli 1,4 miliardi destinati agli «obiettivi di piano» Roberto Turno ROMA Arrivano 106,7 miliardi per la sanità alle Regioni, ma il piatto continua a piangere. Nel giorno in cui stroncano senza appello la legge di stabilità 2013 proprio a partire dai tagli assestati alla spesa per la salute, le Regioni incassano con quasi un anno di ritardo i fondi per la sanità del 2012 ma con dotazioni ridotte in corsa di altri 900 milioni dalla spending review di questa estate. Una "conquista" dal sapore amaro per i governatori, tanto più mentre la partita sull'ex legge Finanziaria va inasprendosi e sul versante dei conti di asl e ospedali e sulla riorganizzazione della rete ospedaliera il confronto diventa sempre più acceso. Non è un caso che ieri i governatori abbiano nuovamente messo in guardia il ministro della Salute: «In queste condizioni è difficile pensare che abbia un senso un nuovo Patto per la salute». E probabilmente anche la revisione dei ticket è destinata a finire in naftalina, tanto più nel clima ormai evidente di fine legislatura e di fermo dell'attività di Governo. Il via libera ai fondi per la sanità (si veda www.24oresanita.com) è arrivato ieri con l'intesa raggiunta in Conferenza Stato-Regioni dopo un lungo tira e molla di tabelle riscritte ripetutamente. La dotazione finale "netta" del Fondo sanitario 2012 è di 105,331 miliardi post mobilità, somma che sconta il taglio estivo di 900 milioni (882 di parte corrente, il resto in conto capitale) imposto dal decreto di luglio sulla spending review. In aggiunta a questa dotazione, sono state sbloccate anche le risorse per gli "obiettivi di piano": altri 1,433 miliardi, fermi da tempo tra le mille riserve del Governo che a più riprese ha pensato di "svuotarli". In campo ci sono 17 progetti che spaziano dal sociale al territorio. Mancata intesa, invece, per il Dpcm su costi standard e scelta delle Regioni benchmark per il riparto dei fondi 2013: il Governo a questo punto procederà da solo entro un mese. Ma le partite aperte che toccano il principale nervo scoperto dei conti regionali, la spesa sanitaria appunto, continuano a crescere. Ieri i governatori hanno rilanciato con tanto di numeri – cioè di conti che, secondo le loro stime, non tornano – sul tavolo del Governo anche gli effetti derivanti dall'applicazione della riforma della contabilità relativamente agli ammortamenti frutto del federalismo (Dlgs 118/2011), che rischia di avere pesanti riflessi sui bilanci di asl e ospedali. Il conto negativo sarebbe di 1,3 miliardi tra modifica delle aliquote di ammortamento e maggiori costi per l'ammortamento al 100% dei beni in autofinanziamento. Una vera e propria stangata aggiuntiva legata a interventi operativi inderogabili: adeguamento degli schemi e delle procedure contabili, revisione dei sistemi informativi aziendali, formazione del personale, implementazione della contabilità economico- patrimoniale della gestione sanitaria accentrata. Insomma, la maggiore trasparenza ha i suoi costi, salati e imprevisti. E così nel 2013 anche la questione degli ammortamenti non sterilizzati diventa cruciale, sommandosi a tagli miliardari che mettono in discussione servizi e attività per la salute. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Dic. ’12 SI CHIAMA CRISI LA MALATTIA CHE ADESSO MINACCIA GLI ANZIANI Moltissimi settantenni temono di perdere le cure P ensioni al lumicino, spese che aumentano e la scure della spending review sulla sanità, con i tagli ai posti letto negli ospedali e i Livelli Essenziali di Assistenza da rivedere: la crisi economica non se ne va e l'anello debole della società sono gli anziani, che per motivi anagrafici si ammalano di più e attingono perciò maggiormente alle (precarie) risorse del Servizio sanitario nazionale. E se grazie ai progressi della medicina si può dire che i "veri" anziani ormai non sono più gli ultrasessantacinquenni ma chi ha già spento 75 candeline, di certo si tratta di una fetta consistente della popolazione: gli "over 75" sono infatti oltre 6 milioni in Italia e continuano ad aumentare. È proprio su di loro che la congiuntura economica sfavorevole impatta con maggior forza: secondo un'indagine della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG), condotta in collaborazione con Datanalysis e presentata a Milano all'ultimo congresso nazionale SIGG, l'85 per cento di chi ha più di 75 anni ha una gran paura che la crisi possa ridurre le prestazioni sanitarie rivolte a chi invecchia. «Dopo i 75 anni di fatto gli italiani sono tutti in pensione e spesso alle prese con gli acciacchi dell'età: oltre la metà soffre di due o più malattie — spiega Giuseppe Paolisso, presidente SIGG —. In un clima come questo, in cui ad esempio si teme che i LEA vengano rivisti solo in base al reddito e non tenendo conto anche dell'età come sarebbe più giusto, è inevitabile che l'anziano ritenga in pericolo la sua salute». «Gli anziani reagiscono peggio alle difficoltà, sono spesso soli ad affrontarle e percepiscono di essere fragili: il timore per il proprio futuro può causare una sofferenza tale da aumentare addirittura il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, depressione, insonnia oltre a far precipitare in uno stato di agitazione e disagio che pervade tutto e non si può risolvere con una pillola — interviene Marco Trabucchi, presidente dell'Associazione Italiana di Psicogeriatria —. La reazione è aggrapparsi a ciò che si conosce meglio: l'indagine infatti indica una grande fiducia nel Servizio sanitario da parte degli over 75. Ma, più che da una certezza nella qualità delle cure, questo atteggiamento deriva dalla necessità di affidarsi a un'ancora di salvataggio nota». «Quando l'anziano ha bisogno di assistenza sanitaria per un problema "standard", per il quale teme di non avere risorse sufficienti, preferisce rivolgersi al Servizio sanitario universalistico e non dover sostenere spese — conferma Paolisso —. I dati indicano, però, che in caso di emergenza la scelta cadrebbe sugli ospedali pubblici solo in un caso su due: quando la minaccia per la salute è grave si fa perciò qualsiasi sforzo, anche economico, per garantirsi ciò che appare il meglio a disposizione, senza guardare pubblico o privato». Come "paracadute" di riserva potrebbero esserci le assicurazioni sanitarie, ma tre anziani su quattro non hanno mai pensato a stipulare una polizza e solo il 5 per cento ne ha una (e la percentuale si dimezza al Sud e nelle isole). «Un settantacinquenne di oggi difficilmente dà importanza all'assicurazione, ma anche nel caso in cui ci pensi è raro che stipuli la polizza perché non ve ne sono di davvero adatte a un anziano: anche per questo la SIGG sta cercando di mettere a punto assieme alle compagnie assicurative una polizza tarata sui bisogni sanitari specifici dell'anziano, che sia però economicamente sostenibile — dice Paolisso —. Detto ciò, dovrebbe essere il servizio pubblico a tutelare la terza e quarta età; purtroppo però le circostanze insegnano che non ci si può più aspettare che venga elargito tutto a tutti. La nostra indagine rivela anche che gli anziani in caso di necessità preferirebbero entrare in Residenze Sanitarie Assistite pubbliche nella speranza di non pagare le prestazioni, ma le RSA sono per lo più private e pure per quelle pubbliche l'utente paga una compartecipazione. E di questi tempi chi riesce a sostenere le rette?». Il problema però deve trovare una soluzione: il numero di anziani non autosufficienti cresce e, finito il ricovero in caso di eventi acuti (che peraltro si accorcia sempre di più per ridurre le spese), qualcuno deve prendersi cura di loro, per tempi lunghi o lunghissimi. Le RSA non bastano, le strutture per la lungodegenza sono sovraffollate di malati di ogni genere, dai pazienti oncologici ai casi di ictus: l'anziano che ha bisogno di riabilitazione e di aiuto nella quotidianità dove va a finire? «Torna a casa, ma oggi spesso anche i figli non hanno una situazione economica florida — ammette il geriatra —. Nella maggioranza dei casi si ricorre alle badanti, ma non sempre si tratta di personale con una cultura sanitaria adeguata alle condizioni dell'anziano e l'errore è dietro l'angolo. Con tutti i rischi che ne derivano». L'Italia, spiegano gli esperti, dovrebbe adeguare economia e servizi a una società che invecchia, perché è difficile credere che l'attuale sistema posa reggere l'impatto dei 200 mila ultracentenari previsti per il 2050 (ora sono "appena" 17 mila). In attesa che il Servizio sanitario trovi soluzioni, come tranquillizzare i nostri anziani di fronte alla crisi? «Il taglio dei letti viene percepito dal l'anziano come l'ennesima scelta che lo danneggerà e non come la razionalizzazione di un sistema che ha molti margini di miglioramento: per questo è importante che i medici diffondano fiducia fra gli assistiti, facendo capire che la congiuntura economica è difficile, ma che in caso di bisogno ospedale, medico, assistenza domiciliare, esami, farmaci ci sono e continueranno a esserci per gli anziani che ne abbiano necessità» conclude Trabucchi. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Nov. ’12 I COSTI DEL PAESE CHE INVECCHIA 16 MILIARDI IN PIÙ ENTRO IL 2060 Le uscite toccheranno l'8,2% del Pil nonostante i tagli già in atto ROMA — I numeri dicono più delle parole, i grafici (a volte) ancora di più. E allora per capire cosa ci sia dietro quella frase di Mario Monti e quale futuro ci aspetta, la cosa migliore è leggere uno degli ultimi rapporti della Ragioneria generale dello Stato, l'organo del ministero dell'Economia che ha l'arduo compito di vigilare sulla spesa pubblica. Il vero vantaggio del grafico è il colpo d'occhio. E quella curva che sale da sinistra verso destra è più chiara di mille ragionamenti visto che disegna le «tendenze di medio-lungo periodo del sistema sanitario». Cioè, visto che siamo al ministero dell'Economia, la sua sostenibilità. Nel 2010 la spesa sanitaria copriva il 7,3% del Pil, il prodotto interno lordo, la «ricchezza» del nostro Paese. Nel 2060, ultimo anno preso in considerazione nell'analisi, il rapporto arriverà all'8,2%. Un punto scarso di Pil in più, un costo aggiuntivo di 16 miliardi di euro l'anno ai valori correnti. A volte più dei numeri (e anche dei grafici) dicono i confronti. E allora vale la pena ricordare che quei 16 miliardi di euro non sono esattamente peanuts, noccioline come direbbero gli americani. È la somma che l'Italia ha versato all'Unione europea nel 2011, un contributo che ci tornerà indietro solo in parte sotto forma di fondi strutturali, quelli che poi non riusciamo nemmeno a spendere anche se questa è un'altra storia. È il doppio del giro d'affari di una delle industrie più fiorenti del nostro Paese, quella della contraffazione. E ancora è tre volte il costo previsto per il mini taglio dell'Irpef inserito da questo stesso governo nella legge di Stabilità, quello poi cancellato dal Parlamento per evitare almeno in parte l'aumento dell'Iva. Una cifra importante, insomma, che pesa sui conti pubblici ed è in grado di condizionare le scelte di politica economica e sociale di ogni governo. Ma perché si prevede un aumento del genere? La risposta è a suo modo semplice e irrimediabile. Nel 2010, in Italia, la speranza di vita degli uomini era di 79,1 anni, nel 2060 salirà a 86,2 anni. Quella delle donne era nel 2010 di 84,3 anni e nel 2060 sfonderà quota 90 per arrivare a 91,1 anni. Viviamo sempre più a lungo. Una meravigliosa conquista della modernità, dovuta in gran parte al progresso delle medicina. Che però, come per contrappasso, può trasformarsi in un problema per la medicina stessa, cioè per la sostenibilità economica del servizio sanitario nazionale. Gli anziani usano più medicine, fanno più esami, si ricoverano più spesso. Avere una popolazione anziana significa avere un sistema sanitario costoso. Naturalmente ci sono altre variabili, come i livelli di assistenza che lo Stato decide di garantire o il valore dei ticket imposto ai pazienti. Ma lo studio della Ragioneria si basa sul metodo del cosiddetto «pure ageing scenario» che considera le variazioni del rapporto spesa sanitaria/Pil dipendere solo dalle modifiche nella struttura della popolazione. Un limite, certo. Ma è inevitabile mettere dei paletti quando si prova a disegnare il futuro. In realtà, la curva non sale senza interruzioni. Anzi, proprio in questi anni fa registrare una leggera discesa, fino al 2015. Secondo la Ragioneria dello Stato è il frutto delle drastiche misure decise da questo e dal precedente governo che, tra commissariamento delle regioni in rosso, blocco del turn over e tagli alla spesa per le forniture, riusciranno, al prezzo di duri sacrifici imposti ai pazienti, a invertire (per poco) la tendenza. Ma è solo una parentesi. Dice il rapporto che la curva «mostra una crescita piuttosto regolare tra il 2015 e il 2040». Da quel momento in poi il «ritmo di crescita mostra una leggera flessione dovuta all'uscita delle generazioni del baby boom». Il rapporto evidenza il problema ma, ovviamente, non dice come va risolto. Non indica quale soluzione scegliere tra aumento delle tasse, taglio dei servizi, riduzione degli sprechi o, come dice Monti, nuove forme di finanziamento. Toccherà alla politica decidere, tenendo conto che siamo già vicini al limite. Due giorni fa nel Lazio, regione in deficit dove è arrivato il commissario Enrico Bondi, per la prima volta tutti i sindacati della sanità hanno scritto a Giorgio Napolitano dicendo che il sistema sanitario è «al collasso e i livelli essenziali di assistenza sono a rischio». Uno scenario greco. C'è però un altro dato importante da considerare. L'invecchiamento della popolazione e l'aumento dei costi del sistema sanitario non è certo un problema solo italiano. La stessa tendenza riguarda tutta Europa. E per una volta siamo messi meglio degli altri. Il nostro rapporto fra spesa sanitaria e Pil è più basso rispetto alla media Ue sia nel 2010 sia nella proiezione al 2060. Lo dice un gruppo di lavoro dell'Ecofin, il consiglio economia e finanza di Bruxelles. E lo riporta il documento della Ragioneria che spiega questa dinamica con «gli effetti delle misure di contenimento adottate negli ultimi anni». Se ci saranno altri compiti a casa, non saremo gli unici a farli. Lorenzo Salvia lsalvia@corriere.it _____________________________________ Corriere della Sera 27 Nov. ‘12 BICOCCA, INGLESI A CACCIA DI INFERMIERI Un'agenzia cerca personale specializzato per gli ospedali londinesi di FEDERICA CAVADINI Dal Regno Unito all'Italia, in particolare, all'Università di Milano Bicocca, per reclutare infermieri da inserire nel servizio sanitario pubblico. Come salario trecento sterline alla settimana, per cominciare, con possibilità di aumento. Il contratto è a tempo determinato, la durata è minimo sei mesi, ma il posto può diventare fisso. L'offerta poi include formazione iniziale con rimborso spese e supporto per trovare un alloggio. Ecco fatto. Negli ospedali inglesi sono pronti ad accogliere i nostri laureati e anche futuri infermieri ancora prima del diploma. E verranno a prenderseli direttamente giovedì, al career day dell'università. La proposta di lavoro negli ospedali del Regno Unito verrà presentata dall'agenzia inglese Hcl, specializzata nella ricerca di personale sanitario, che è arrivata alla Bicocca passando per Eures, l'agenzia per l'impiego della Comunità europea. L'ufficio stage dell'ateneo in queste ore sta chiamando laureati e studenti, tutti convocati per giovedì. Sono duecentocinquanta i diplomati del corso triennale a numero chiuso per infermieri. Più numerose le nuove matricole, quasi quattrocento. Per tutte le professioni sanitarie la richiesta resta alta, pronti a iscriversi in Bicocca a settembre c'erano due- mila studenti per seicento posti. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Dic. ’12 IL GIALLO DEL VIBRIONE«CONTESO» FRA PACINI E KOCH di ANTONIO ALFANO L uglio 1883: muore a Firenze Filippo Pacini (1812-1883), illustre anatomico e istologo che per primo, nel chiuso del suo laboratorio, aveva isolato i vibrioni del colera. Agosto 1883: Robert Koch (1843-1910), batteriologo e microbiologo di fama, giunge in Egitto a capo di un'impegnativa spedizione scientifica allo scopo di individuare le cause del colera, ancora ignote per la scienza ufficiale. Pacini e Koch non si conoscevano neanche, ma le loro storie erano accomunate dallo stesso obiettivo: sconfiggere il misterioso agente patogeno del colera, causa di morte in tutto il mondo. In India, nella valle del Gange, fiume sacro degli Indù, la malattia era endemica. I pellegrini che si immergevano nel fiume ne bevevano le acque infette. Così, i misteriosi agenti microbici, rapidi e invisibili, diffondevano il colera nel mondo. Nel 1817 scoppiò la prima grande pandemia che dal Bengala raggiunse anche il Tibet, l'isola di Ceylon, la Persia, estendendosi attraverso le vie seguite dalle carovane fino alle foci del Volga. Una seconda ondata epidemica nel 1828 provocò un enorme numero di vittime. Ancora partita dal Bengala investì Caucaso, Polonia, Romania, Austria, Belgio, Inghilterra, Finlandia, Francia e Italia con effetti devastanti: 103 mila morti in Francia, dei quali 20 mila solo a Parigi; a Napoli 13.800 decessi su 336.400 abitanti; a Palermo 24.014 decessi su 173 mila abitanti e a Roma circa 9 mila morti su oltre 140 mila abitanti. Dal 1841, si susseguirono altre cinque pandemie, fino alla settima, tra il 1902 e il 1926, quando furono messe in atto tutte le nuove misure di profilassi, legate proprio alle scoperte di Pacini e Koch. F ilippo Pacini, nato a Pistoia il 25 maggio del 1812, figlio di un ciabattino aveva abbandonato la carriera religiosa per dedicarsi alla medicina, affermandosi subito come attento e acuto anatomista. Ancora studente aveva scoperto e descritto il funzionamento di strutture nervose della cute, fondamentali per il tatto, tutt'oggi note come "corpuscoli di Pacini", presentate in una pubblicazione sui "Nuovi organi nel corpo umano" (1840). Professore di anatomia descrittiva e poi di anatomia topografica e istologia dell'Università di Firenze, si era imbattuto nel vibrione del colera nel 1854, quando la terza pandemia (1841- 1856) giunta in Italia nel 1849 aveva colpito le province del Nord Est e anche Firenze. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Dic. ’12 GEMELLI: SE L'OSPEDALE DEL PAPA PERDE IL PRIMATO Tagli di 29 milioni al Gemelli: a rischio il maggiore polo sanitario di Roma ROMA — Per quelli che scuotono la testa davanti ai tagli, e buttano lì la solita frase «ma quanto crede che poi si risparmi…», Enrico Bondi ha sempre una battuta pronta: «Anche un euro in meno è un risparmio». E gli chiude la bocca. Il concetto lo ripete ogni volta. Perché entri bene in testa ai suoi interlocutori qual è la missione che gli è stata affidata nel momento in cui, il 16 ottobre scorso, Mario Monti l'ha nominato commissario per la sanità della Regione Lazio: ridurre le spese. Senza compassione e senza guardare in faccia a nessuno. Ma questa volta, si lamentano al Policlinico Agostino Gemelli, c'è andato giù davvero pesante. Così pesante che quando hanno letto i decreti con l'elenco dei tagli, reparto per reparto, poco c'è mancato che gli pigliasse un colpo. La calcolatrice s'è fermata a 28.931.611 euro. Cinque dei quali per la sola emergenza del pronto soccorso. Una botta tremenda, pari al 30 per cento dell'intero taglio assestato al budget di tutta la sanità «accreditata» del Lazio, cioè di quelle strutture ospedaliere private finanziate dai fondi pubblici regionali. Tale da «compromettere», hanno scritto in un comunicato senza precedenti, il piano strategico che già prevede un giro di vite di 70 milioni e punterebbe al raggiungimento dell'equilibrio economico nel giro di un paio d'anni. Una formula che evidentemente lascia aperta per il futuro ogni prospettiva: anche quelle meno augurabili. Come si è arrivati a questa situazione è presto detto. Intanto la moltiplicazione dei policlinici universitari. Il Gemelli è uno di questi: controllato dall'Università Cattolica del Sacro Cuore attraverso l'Istituto Toniolo, è uno degli ospedali più grandi d'Italia. Ha 4.344 dipendenti, 1.777 posti letto, ogni anno ricovera 100 mila persone e accoglie 17 mila pazienti provenienti da altre Regioni. Segno che è considerata una delle strutture sanitarie di miglior qualità del Paese. Ma i policlinici universitari hanno anche un'altra particolarità. Ne è convinto Bondi: quando l'Università si unisce alla sanità, finisce per succhiare maggiori risorse. La struttura dei costi è più elevata rispetto a quella degli ospedali non universitari. Gli investimenti sono certo superiori, ma lo sono anche le spese correnti. Il problema si dovrebbe affrontare per prima cosa separando le due funzioni, ma superare le resistenze della lobby dei medici professori (che in base alle norme percepiscono lo stipendio da docente più una indennità assistenziale) non è cosa da poco. Su 876 medici, al Gemelli appena un'ottantina non sono professori. Come non è facile risolvere tecnicamente le commistioni storiche fra l'una e l'altra funzione. Basti pensare che al Policlinico statale Umberto I ben 3 mila portantini risultano dipendenti dell'Università. Per non parlare del numero di queste strutture. A Roma esistono cinque policlinici universitari: troppi. Due di questi, il Gemelli e il Campus Biomedico di Trigoria, sono privati a tutti gli effetti ma hanno un solido legame con le alte gerarchie ecclesiastiche. Il primo è l'ospedale che cura i pontefici di turno, il secondo è nato sotto la spinta di Alvaro Del Portillo, prelato dell'Opus dei beatificato da Joseph Ratzinger qualche mese fa. E se è improprio parlare di una concorrenza interna, certo è una duplicazione che salta all'occhio. Va aggiunto che il personale del Gemelli aveva un trattamento economico migliore rispetto a quello degli altri ospedali, e anche qualche benefit in più. Altri tempi: ora insieme al giro di vite sui costi sono arrivati il taglio del personale (da gennaio si è ridotto di 200 unità) e la cassa integrazione. Ma negli anni di vacche più o meno grasse l'andazzo era assai diverso. Esisteva la ragionevole certezza che a fine anno il servizio sanitario ci avrebbe messo la solita pezza. Con la presunzione che comunque non era il Gemelli l'anello debole della catena. Un ospedale grande, di qualità, potente. Così da non essere mai trattato come un figliastro: piuttosto, alla stregua di un figlio prediletto. Finché, nel 2011 le difficoltà economiche sono state tali da costringere l'Università a tirare fuori un centinaio di milioni di tasca propria per sistemare il bilancio del Gemelli. E poi, la mazzata di Bondi: un taglio secco del 6,85 per cento del budget 2012. A un mese dalla chiusura dell'anno con tutto ciò che ne consegue, visto che quei soldi erano stati già impegnati. Per paradosso proprio nel momento in cui logica diceva che ci si doveva attendere dal governo di Mario Monti massima protezione. Non fosse altro perché ben due ministri vengono dalla Cattolica. Sono il responsabile della Salute, Renato Balduzzi, e il suo collega dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi: il quale, prima di entrare al governo, dell'Ateneo che controlla il Gemelli era addirittura il Magnifico rettore. La mazzata, inoltre, sarebbe stata più sopportabile se la situazione finanziaria non fosse quella che è. Il Policlinico ha 800 milioni di debiti, la maggior parte con le banche. Questo perché la Regione Lazio ha pagamenti arretrati di analoga entità nei suoi confronti del Policlinico. Ma prima o poi arriveranno, penserete. Già. Però intanto gli oneri finanziari corrono, e poi c'è una bella spada di Damocle. Perché di quegli 800 milioni una bella fetta riguarda un arbitrato concluso nel 2009 e relativo a una vecchia pendenza. Cioè i fondi statali per la copertura degli oneri contrattuali e l'esclusività dei medici: 300 milioni più interessi, annessi e connessi. Un arbitrato coi fiocchi. La Regione Lazio aveva messo in campo l'ex ministro della Funzione pubblica Angelo Piazza, e presidente del collegio era nientemeno che Giancarlo Coraggio, futuro presidente del Consiglio di Stato che giovedì è stato eletto dai suoi colleghi giudice costituzionale. L'esito era stato favorevole al Gemelli, ma la Regione ha deciso comunque di fare ricorso e tutto è tornato in alto mare, aggiungendo al gigantesco volume di debiti una sgradevole dose di suspence. Il fatto è che il Policlinico romano fa le spese di una situazione degenerata lentamente, senza che nessuno abbia mai cercato di porvi rimedio. Conseguenza, questa, dell'assoluta mancanza di scelte strategiche basate sul merito e la qualità del servizio. Quali strutture meritano non soltanto di sopravvivere, ma anzi di essere potenziate e ricevere più finanziamenti? Quali, invece, non hanno senso, e vanno soppresse? Negli ospedali del Lazio ci sono 1.700 posti letto in più: nonostante questo il servizio sanitario nazionale continua a pagare un numero rilevante di cliniche private convenzionate, alcune di proprietà di soggetti legati ai politici. Quando non politici in prima persona. Altro che il Papa... Sergio Rizzo _____________________________________ TST 28 Nov. ‘12 MICRO E RICOSTRUTTIVA: IL FUTURO DELLA CHIRURGIA PLASTICA" È a Shanghai uno dei centri mondiali delle tecniche d'avanguardia FRANCESCO RIGMELLI 42 anni è uno dei chirurghi plastici più famosi della Cina. Cresciuto a Shanghai, dove è professore alla Jao Tong University, Yxin Zhang ha studiato anche alla Duke negli Usa e ora è il numero tre del suo reparto nel «Ninth People's Hospital»: il più grande cinese, 200 posti letto, 85 chirurghi plastici, 5 mila interventi ricostruttivi all'anno, 50 mila di estetica. La sua specialità è la microricostruzione, il trasporto da una parte all'altra di piccole parti del corpo, fino alla frazione di millimetro, anche di osso. Come si nota però dai numeri, nonostante la ricostruzione sia un aspetto di valore del suo lavoro, è l'estetica che gli permette di fare grandi numeri e alti guadagni. Lo racconta lui stesso, spiegando anche il motivo della sua visita a Francesco Castello, responsabile di chirurgia plastica della Casa di cura Fabia Mater di Roma. Professore, cos'è venuto a fare in Italia? «In Cina sta aumentando la richiesta di interventi di estetica. Che, oltre alla tecnica, richiedono esperienza e senso artistico. Sono venuto in Italia a migliorare le mie capacità in questo campo e a insegnare in cambio la ricostruttiva». Partiamo da quest'ultima. In Cina siete molto avanti? «Sì. La microricostruttiva è nata a Shanghai e si è sviluppata in Giappone e in altri Paesi asiatici. Si tratta di una specialità con svariate applicazioni, dai reimpianti alle deformazioni congenite, fino ai traumi e all'oncologia». Quali sono le tecniche? «Il rifacimento della mammella post-mastectomia con uso di lembo addominale attorno all'ombelico. Oppure la ricostruzione mandibolare con lembo di perone dalla gamba». 2 E i rischi? «Ce ne sono vari e vanno messi in conto a seconda del caso specifico. Possono essere la durata anestesiologica non da poco; la possibilità di fallimento, perché la riconnessione al vaso sanguigno della parte importata può non funzionare; le complicanze post-operatorie». E la super-microchirurgia? «Nella microchirurgia si lavora da vasi di due millimetri a 0,3 e ancora più piccoli, i vasi Untatici. Si chiama super-microchirurgia la tecnica con cui si usano vasi piccoli anziché uno grande per la riconnessione di una parte importata, come nel caso di una falange» E nel futuro è vero che si potranno trapiantare anche arti dai cadaveri? «Gli studi sul rigetto permettono di spingerci anche a questo. E in Francia, poi in Cina e in America, si è provato il trapianto di faccia. L'ingegneria tessutale fa passi da gigante, come la rigenerazione in vitro con staminali. Il che potrebbe permettere di togliere un fegato e di metterne uno nuovo. Altra strada è quella della terapia genica, per esempio per ritoccare i geni legati all'infarto e impedirlo». Malia è più forte nell'estetica invece? «Sì, la migliore del mondo. I chirurghi estetici italiani sono i più precisi. E' il posto ideale dove imparare. Un Paese simile alla Cina: lunga storia, rispetto della famiglia, importanza all'estetica. I giovani cinesi vedono i film Usa e la moda italiana e desiderano cambiarsi i connotati. L'Europa è il modello per i corpi cinesi». Quali sono gli interventi più richiesti? «Occhi e naso per avere una faccia più occidentale. La rinoplastica per ingrandire il naso con inserzioni di materiale o protesi. Il rifacimento del con torno occhi, perché i cinesi nascono senza solco tarsale, cioè con una palpebra unica, senza pieghetta. A volte ci associano Pepicantoplastica, l'asportazione dell'eccesso di cute verso il naso. Altro intervento è il botulino nella mandibola per ridurre il muscolo della mascella e l'asportazione delPangolo osseo per ottenere un viso meno rotondo». E cosa immagina per il futuro? «Le cinesi hanno un seno piccolo e dunque lo vorranno più grande. E poi con la moda alimentare occidentale che avanza aumenterà l'obesità: dunque ci sarà più addominoplastica, lifting interno coscia e braccia e liposuzione». Lei che si occupa di ricostruttiva con che spirito approccia queste richieste? «Il paziente è il paziente. La chirurgia dev'essere la migliore in un campo e nell'altro. E, anche se sono vezzi, vanno esauditi». Il sistema come vede il boom della chirurgia estetica? «Per il governo è un modo di dare più lavoro. È stato solo vietato l'allungamento delle gambe perché rischioso». twitter @rigatells È boom di cinesi che vogliono manipolare occhi e naso per avere un viso il più possibile occidentale _________________________________________________________________ Sanità News 2 Dic. ’12 UNO STUDIO SUI CENTRI DI LETTURA DEL CERVELLO NE EVIDENZIA L'UNIVERSALITA' (Sn) - Roma, 29 nov. - I centri di lettura del cervello sono culturalmente universali; che si stia leggendo francese o cinese si attivano le stesse aree cerebrali. La ricerca del National Institute of Health and Medical Research di Gif-sur-Yvette, Francia, pubblicata sulla rivista Pnas, Proceedings of the National Academy of Sciences, ha analizzato due sistemi neurali, uno che riconosceva la forma delle parole e uno che presiedeva ai movimenti fisici usati per fare segni su una pagina. Finora gli scienziati non sapevano con chiarezza se i network cerebrali responsabili per la lettura fossero universali o culturalmente distinti. Coinvolgendo persone di madrelingua cinese e francese osservate con risonanza magnetica funzionale per immagini, hanno scoperto che durante la lettura l'area di Exner e l'area visuale della formazione delle parole si attivavano in entrambi i gruppi di soggetti. Ai volontari e' stato chiesto anche di usare i gesti mentre leggevano e l'unica differenza notata con la risonanza era che gli effetti sul cervello della direzione gestuale erano piu' forti nei cinesi. Universal brain systems for recognizing word shapes and handwriting gestures during reading 1. Kimihiro Nakamuraa,b,c,d, 2. Wen-Jui Kuoe, 3. Felipe Pegadoa,b,c,d, 4. Laurent Cohenf,g,h, 5. Ovid J. L. Tzengi,j, and 6. Stanislas Dehaenea,b,c,d,1 Author Affiliations 1. Contributed by Stanislas Dehaene, October 19, 2012 (sent for review April 16, 2012) Abstract Do the neural circuits for reading vary across culture? Reading of visually complex writing systems such as Chinese has been proposed to rely on areas outside the classical left-hemisphere network for alphabetic reading. Here, however, we show that, once potential confounds in cross-cultural comparisons are controlled for by presenting handwritten stimuli to both Chinese and French readers, the underlying network for visual word recognition may be more universal than previously suspected. Using functional magnetic resonance imaging in a semantic task with words written in cursive font, we demonstrate that two universal circuits, a shape recognition system (reading by eye) and a gesture recognition system (reading by hand), are similarly activated and show identical patterns of activation and repetition priming in the two language groups. These activations cover most of the brain regions previously associated with culture-specific tuning. Our results point to an extended reading network that invariably comprises the occipitotemporal visual word-form system, which is sensitive to well- formed static letter strings, and a distinct left premotor region, Exner’s area, which is sensitive to the forward or backward direction with which cursive letters are dynamically presented. These findings suggest that cultural effects in reading merely modulate a fixed set of invariant macroscopic brain circuits, depending on surface features of orthographies. _________________________________________________________________ Le Scienze 29 Nov. ’12 LA COSCIENZA? UNA QUESTIONE DI TOPOLOGIA Dallo studio di pazienti in coma è emerso che il loro stato di incoscienza non è dovuto a un difetto di funzionalità globale del cervello o dei singoli moduli in cui si raggruppano i circuiti cerebrali, ma al sovvertimento della gerarchia d'importanza fra i centri che fungono da hub di comunicazione fra i diversi moduli. Più che nella buona funzionalità di tutti i circuiti cerebrali, il segreto della coscienza potrebbe risiedere nell'organizzazione topologica della rete complessiva che li mette in comunicazione. A indicarlo sono i risultati di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell'Università di Strasburgo, dell'Hôpital de Hautepierre di Strasburgo, della sede di Grenoble del CNRS francese e dell'Università di Cambridge, che li illustrano in un articolo pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”. Lo studio dei circuiti cerebrali si è tradizionalmente concentrato sulla loro esatta localizzazione anatomica, ma più di recente è aumentato l'interesse per un'analisi dal punto di vista topologico, vale a dire basata sulla caratterizzazione delle loro connessioni, a prescindere dalla specifica collocazione fisica. Sfruttando le tecniche di neuroimaging, sono stati quindi tracciati dei grafi del cervello che evidenziano una serie di nodi corticali e sottocorticali collegati da linee che ne rappresentano la connettività, sia anatomica che funzionale. Come molti altri sistemi complessi, dai chip ad alte prestazioni ai trasporti alle reti sociali, anche queste reti cerebrali hanno una struttura modulare, nella quale alcuni nodi hanno la funzione di “hub”, mostrano cioè una connettività elevata. L'importanza relativa, o grado, di questi hub può essere misurata valutando per esempio il numero complessivo di connessioni, le connessioni con altri hub, la loro relativa centralità o un insieme di questi parametri. In questo modo, anche il cervello, come altri sistemi complessi, può essere visto come un "grafo" matematico formato da nodi connessi in grado più o meno elevato ad altri nodi, che complessivamente mostra una struttura topologica caratteristica. Per capire se – e quanto – questa struttura topologica conti al fine dell'essere o meno coscienti, Sophie Achard e colleghi hanno mappato, attraverso scansioni fMRI, la connettività funzionale tra 417 regioni cerebrali di 17 pazienti in stato di coma a causa danni cerebrali acuti, confrontandola poi con quella di 20 volontari sani. Rappresentaziione grafica delle correlazioni funzionali fra i moduli cerebrali di soggetti sani e in coma. (Cortesia Sophie Achard et al. / PNAS))I ricercatori hanno così osservato che nei pazienti in coma molte delle proprietà globali della rete erano intatte; in particolare, non risultavano anomalie significative nell'efficienza globale, nella modularità complessiva dei circuiti, nel loro raggruppamento in cluster e nel grado complessivo di connettività. Solo esaminando l'organizzazione della rete a un livello più fine, osservando cioè il grado di connessione attribuibile ai singoli nodi, è stata scoperta una significativa anomalia: nei pazienti in coma, l'ordine d'importanza degli “hub” era sovvertito. Regioni del cervello che nei soggetti sani sono nodi con un grado elevato di connessione, per esempio il giro fusiforme e il precuneo, nei pazienti in coma apparivano invece dotati di un basso grado di connessione, mentre altre regioni che normalmente fungono da "hub" di minore o scarso rilievo avevano assunto un'importanza di primo piano. Anche se la ricerca necessita di conferme attraverso ricerche su un numero maggiore di pazienti – osservano gli autori - questi risultati suggeriscono che lo stato di coma possa dunque essere legato a variazioni nell'ordine di importanza degli “hub” cerebrali. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Dic. ’12 I VALORI DEL FARMACO GRIFFATO La ricerca e l'innovazione nel campo delle scienze della vita sono i presupposti per un sentiero di crescita virtuoso, in grado di generare investimenti esteri, miglioramenti e occupazione di qualità. Processo di sviluppo che tutti sottoscriverebbero come miglior lascito per le future generazioni. Mario Monti all'inaugurazione del centro biomedico Fondazione Ri.Med. di Palermo I farmaci dovrebbero costare poco, ma gli italiani malvolentieri comprano i generici. È il sintomo di un problema più grave Gilberto Corbellini Agli italiani, si dice, non piacciono i farmaci generici, cioè quelli venduti con i nomi dei principi attivi, invece che con quelli inventati dalle industrie che quella sostanza chimica o biologica hanno scoperto, acquisito o fatto fare in laboratorio. Un farmaco diventa generico, cioè può essere prodotto da un'altra industria a costi più bassi, quando scade il brevetto che concede dei diritti commerciali all'impresa che ha dimostrato l'efficacia clinica del principio attivo. I farmaci generici hanno un prezzo inferiore e quindi convengono a chi paga le spese: sistema sanitario, assicurazione o cittadino. I generici sono gli unici farmaci che normalmente si può permettere chi vive nei Paesi in via di sviluppo e anche in occidente ormai il consumo supera mediamente il 50% con punte dell'80 nei Paesi nordeuropei e negli Stati Uniti. In Italia, invece, si rimane intorno al 20 per cento. Perché accade questo? Quali libere riflessioni si possono fare a partire da un fenomeno che viene additato come conseguenza della disinformazione dei cittadini italiani? Sul perché gli italiani non comprano i generici la risposta prevalente è che sono disinformati. Ma la cultura, si capisce anche dai temi del Manifesto promosso da questo giornale, non è riducibile a informazione. Una risposta più appropriata potrebbe essere che non si fidano. Mentre sul piano dell'informazione le loro scelte sono influenzate dai medici, che in Italia intrattengono più legami comunicativi con l'industria rispetto ai colleghi che lavorano per esempio nei Paesi nordeuropei. Ora, la mancanza di fiducia dipende sia dagli scandali sanitari sia dal fatto che la classe politica e medica tratta i pazienti/cittadini italiani come bambini, nonostante viviamo in età di consenso informato. Ciò ha come conseguenza che i pazienti si fidano soprattutto dei medici, i quali sono appunto sottoposti a una comunicazione sul farmaco da parte dell'industria, che a volte è più efficace e documentata di quella prodotta e diffusa dal sistema sanitario. Si potrebbero svolgere analisi tecniche, a livello cioè dei fattori economici, farmacologici, psicologici e di controllo/sicurezza portati a sostegno o contro la validità data per assoluta di promuovere politicamente il consumo di generici sulla base del fatto che riducono la spesa sanitaria. Il ragionamento appare in prima battuta lineare: se due sostanze sono chimicamente identiche, ma hanno prezzi diversi, è irrazionale comprare quella che costa di più. Ma questo discorso dovrebbe essere l'obiettivo in Italia anche per altri settori, come la produzione agricola, dove invece si impedisce l'innovazione e la concorrenza invitando i consumatori a pagare di più il cibo. Nella realtà, come normalmente accade, i fattori in gioco nell'azione di un farmaco (chimici, biologici, psicologi e politico-economici) stanno tra loro in rapporti complessi. E come in tutte le semplificazioni e gli approcci ideologici, anche in questo caso si perdono informazioni importanti e si possono fare anche dei danni impostando e decidendo in termini meramente aritmetici su un problema che richiede l'uso di ragionamenti a più ampio raggio e che devono far uso di dati statistici. La refrattarietà degli italiani verso i farmaci generici induce a una riflessione più generale su cosa crea fiducia nei cittadini che vivono in sistemi democratici, per esempio rispetto agli strumenti proposti dallo Stato o da privati per curare la propria salute. Una letteratura imponente mostra che l'elemento chiave è l'affidabilità, ovvero la percezione che si ha sulla base di una storia e di un modo di relazionarsi rispetto a chi offre un servizio o propone uno scambio economico. Ora, il grado di affidabilità di qualcuno, soprattutto riguardo al problema di fornire un aiuto nella cura della salute, dipende dal patrimonio di informazioni e conoscenze a cui questi ha accesso effettivamente, da quanto in precedenti situazioni ha risolto con successo i problemi o è stato capace di rispondere degli errori, correggerli e dalla disponibilità di dialogare con i cosiddetti stakeholder o portatori di interessi (nella fattispecie i pazienti). Nelle democrazie liberali e fondate sempre più sulla conoscenza, questi sono elementi necessari sia a livello dell'impresa sia sul piano delle istituzioni politiche. Ebbene nell'ambito della discussione su generici vs "griffati" si dimentica qualcosa. Nell'assecondare l'adesione emotiva al l'idea, che sembra intuitivamente valida, cioè che sulla salute non ci si dovrebbe speculare e che i farmaci devono costare poco in assoluto, non ci si accorge che si rischia di buttar via, con l'acqua sporca del tanto vituperato profitto, anche quella particolare coniugazione di ricerca scientifica, libero mercato, protezione intellettuale e controllo etico che ha dato luogo all'impresa farmaceutica per come l'abbiamo conosciuta nell'ultimo mezzo secolo. Che tutti i dati empirici ci dicono sia stata la principale fonte dei guadagni in salute. Al di là del fatto che il declino dell'impresa farmaceutica sta avendo anche risvolti occupazionali negativi, non sembra esserci una strategia per preservare in qualche modo il patrimonio epistemologico che ha generato la cultura del farmaco in occidente. Considerando che si sta tagliando anche la ricerca pubblica linearmente, quindi rendendo il Paese non più competitivo nei settori di frontiera della farmacologia basata sulla genomica. È vero che l'Italia segue il trend occidentale. Che nell'ultimo decennio è stato di apprestarsi a consegnare, dopo la manifattura dei generici e dei griffati, anche la scoperta e sperimentazione dei nuovi farmaci ai paesi asiatici emergenti - la Cina in primo luogo. Ma il punto è proprio questo: è sensato discutere solo di come risparmiare soldi, senza ragionare anche su come evitare di abdicare alla produzione creativa, allo sviluppo applicativo e alla regolamentazione d'uso secondo principi etici liberali di strumenti fondamentali per il benessere umano, come i farmaci? Ha senso diventare un mercato povero e con molti malati di patologie cronico-degenerative che dovrà rifornirsi di farmaci pensati secondo un'economia epidemiologica, demografica, industriale e di consumi culturalmente diversa? So bene che tutto sta accadendo secondo dinamiche necessitanti, di cui i fattori economici sono la chiave. Ma l'intelligenza di capire criticamente, e quindi almeno provare a discutere se non sia il caso di allarmarsi per quel che ci aspetta, e che aspetta i nostri figli, potremmo provare a non abdicare d'usarla. Nel campo della cultura d'impresa legata al farmaco l'Italia avrebbe esperienze concrete, cioè capacità imprenditoriali e collaborazioni internazionali finalizzate all'innovazione in settori clinici strategici, da valorizzare sul piano di un disegno politico-economico per agganciare davvero la crescita. Ma non viene alcun segnale dal governo e dalla politica. Tranne informarci di quel che già sapevano, cioè che il nostro sistema sanitario a breve non sarà più economicamente sostenibile. E questo non può che indurre a un pessimismo allarmato, se questa constatazione non si traduce in investimenti per studiare nuove strategie e opportunità. _______________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Dic. ’12 TROPPI I FARMACI PRESI (MA ANCHE DATI) A SPROPOSITO L' intenzione è stringere i cordoni della borsa. Ma anche in tempi di crisi la spesa per i farmaci sostenuta dal Servizio sanitario nazionale tocca livelli ragguardevoli, sebbene negli ultimi anni si sia registrata una lieve flessione: stando ai dati del 2011 dell'Osservatorio Nazionale sull'impiego dei Medicinali (OsMed) si parla di quasi 20 miliardi di euro, a cui se ne aggiungono oltre sei di spesa privata. E si spende soprattutto per gli anziani, come spiega Massimo Fini, coordinatore del Geriatric Working Group dell'Agenzia Italiana del Farmaco: «In media per ogni cittadino il Servizio sanitario spende ogni anno 321 euro in farmaci, ma negli over 65 si sale a 900 euro pro capite. In sostanza, il 22 per cento della popolazione italiana rende conto del 60 per cento della spesa farmaceutica pubblica». Sui 900 euro di spesa pro capite appena 160 sono usati per comprare farmaci equivalenti e l'indagine della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) sugli over 75 mostra che in chi è più in là con gli anni le cose vanno perfino peggio, visto che due anziani su tre non hanno idea di che cosa siano i "generici" e anche chi ne ha sentito parlare non chiede al farmacista di sostituirli al più costoso farmaco di marca. Forse le cose cambieranno con le ricette in cui il medico dovrà indicare il nome del principio attivo e in via facoltativa il prodotto "griffato"; certo è che non usiamo granché una fonte di possibile risparmio (stando ai dati di Farmindustria l'88 per cento dei farmaci ha il brevetto ormai scaduto e all'estero il mercato degli equivalenti è di gran lunga superiore rispetto a quello italiano). «Per l'anziano, metodico e routinario per natura, è comprensibilmente difficile cambiare: solo passare a scatole differenti o a pillole un pò diverse per forma e colore può mettere in confusione e impaurire — interviene Giuseppe Paolisso, presidente SIGG —. Peraltro, se riuscissimo a creare confezioni e farmaci pensati per venire incontro alle ridotte capacità visive e di manipolazione degli anziani, ridurremmo gli errori e i costi sanitari ed economici che questi comportano». «Esistono progetti per rendere omogenei almeno i farmaci di una stessa categoria terapeutica, ad esempio per fare tutti gli antipertensivi di una stessa forma e colore, ma la questione non è stata ancora affrontata davvero e così l'anziano preferisce pagare di tasca propria pur di non rinunciare al farmaco che conosce da anni — riprende Fini —. Un bel pò di denaro poi viene sprecato perché l'aderenza alle cure lascia a desiderare: un over 65 su due non segue la terapia come dovrebbe e anche in questo caso si stanno studiando metodi per migliorare, ad esempio avvertendo via sms i pazienti quando è il momento di prendere la pillola». «Alcuni anziani non si attengono alle cure e non raggiungono il target terapeutico, altri le seguono bene ma ugualmente non centrano l'obiettivo: nel primo caso servono interventi educativi, nel secondo il passaggio a farmaci "di secondo livello" — interviene Niccolò Marchionni, presidente della Società Italiana di Cardiologia Geriatrica —. Per entrambe le strategie servono soldi che potrebbero essere trovati migliorando l'appropriatezza delle prescrizioni: c'è infatti un'ulteriore categoria di pazienti che, nonostante prendano i farmaci male e quando capita, hanno i valori nella norma. Per loro i medicinali rimborsati dal Servizio sanitario sono evidentemente inutili e questi pazienti potrebbero essere gestiti in altro modo, ad esempio con modifiche dello stile di vita. Gli studi mostrano che il 50-60 per cento dei medici prescrive i farmaci con una buona appropriatezza, una percentuale inferiore li abbina al paziente giusto in maniera impeccabile, un'altra quota invece li dà in modi e tempi sbagliati. Per fronteggiare molte delle esigenze di risparmio basterebbe perciò ricollocare le risorse usate in modo scorretto: valutare meglio l'appropriatezza delle prescrizioni è possibile e nemmeno troppo difficile». Gli anziani inoltre vengono "imbottiti" di farmaci: secondo un'indagine del Geriatric Working Group dell'Agenzia Italiana del Farmaco su più di un miliardo di prescrizioni rimborsate dal Servizio sanitario nazionale, un over 65 su due prende ogni giorno da 5 a 10 medicinali diversi, l'11 per cento (ovvero un milione e 200 mila persone) ne assume oltre 10 per tenere sotto controllo le tante malattie che spesso accompagnano la vecchiaia. Così aumenta esponenzialmente il rischio di interazioni, crolla a picco l'aderenza alle cure (prendere al momento giusto dieci o più pillole è un'impresa per chiunque) e schizza alle stelle la spesa sanitaria. Come mettere un freno? «Il geriatra può essere il punto di riferimento per una gestione adeguata ed economicamente sostenibile, perché individualizza le cure valutando a 360 gradi le esigenze di ogni singolo anziano: il suo scopo è non esagerare con le terapie ma anche scongiurare l'abbandono di ogni strategia di trattamento» osserva Alberto Pilotto, direttore dell'Unità di geriatria all'ospedale S. Antonio di Padova. I dati SIGG mostrano però che solo un anziano su tre è andato almeno una volta dal geriatra: quando è opportuno farlo? «Serve quando ci sono due o più malattie, ovvero una situazione complicata che richiede un coordinamento e soprattutto la definizione di una gerarchia di problemi — risponde Marchionni —. Nell'anziano può essere meglio garantire un minor numero di anni di sopravvivenza, ma con una qualità di vita accettabile, concentrandosi su obiettivi realistici e stabilendo priorità. Chi è in salute, ha una patologia singola o una situazione poco complessa può essere seguito dal medico di base o da un solo specialista: oltre che insensato, è impensabile che tutti i 12 milioni di over 65 debbano far riferimento al geriatra». _______________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Dic. ’12 I DATI SULL'AIDS SONO CONFORTANTI MA NON BISOGNA ABBASSARE LA GUARDIA Ieri si è celebrata la Giornata mondiale contro l'Aids. Le cifre comunicate dall'Organizzazione Mondiale della Sanità indicano una tendenza al ribasso dell'infezione da Hiv e della mortalità da Aids. Situazione in parte confortante ma, purtroppo, anche ideale per un ritorno in grande stile dell'infezione. Le ragioni di questo timore sono informate essenzialmente da quattro considerazioni. La prima è che l'Aids è percepita come molto meno minacciosa rispetto al passato, perché c'è una terapia (per chi può permettersela) che la trasforma in una malattia cronica e quindi la paura del contagio è calata. La seconda considerazione, legata alla prima, è che il calo di attenzione si accompagna a una diffusione del virus che non fa distinzione di sesso, età, censo e abitudini, lungi, ormai, dall'essere confinata a comportamenti che una volta venivano definiti «a rischio». Terza considerazione: la circolazione trasversale dell'Hiv è alimentata da un'altrettanto trasversale ignoranza della condizione di sieropositività (si stima che almeno un sieropositivo su quattro in Italia non sappia di esserlo). Quarta, e ultima, considerazione: tendiamo a dimenticarci che questo virus «ci circonda». In Africa è endemico, e veri e propri focolai epidemici sono presenti in diversi Paesi, anche prossimi geograficamente e socialmente al nostro. In altre parole: non possiamo illuderci di liberarci di questo virus «giocando in casa» con l'argine rappresentato dalla terapia antiretrovirale. Insomma, con l'Aids è possibile, se non probabile, che potremmo trovarci a rifare i conti se non si rialzerà la guardia. C'è da sperare di sbagliarsi, ma pronosticare un vaccino davvero efficace al momento appare un esercizio di ottimismo. È possibile che le cure migliorino e si avvicinino di più all'obiettivo di eradicare il virus, e non soltanto di controllarlo. Però l'unica arma certa a disposizione per ora è ancora la prevenzione. Sarà noioso, ma bisogna ripeterlo. Luigi Ripamonti _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 Nov. ’12 CAMICE BIANCO DA STERMINATORI lager nazisti Ad Auschwitz il principio fondamentale delle nostre religioni «non uccidere» era diventato: uccidi con calma, metodicamente, massivamente Gilberto Corbellini La medicina sotto il nazismo è regolarmente oggetto di discussione da parte dei bioeticisti. Le aberrazioni delle sperimentazioni e delle torture mediche sono usate come analogie e con intenti un po' terroristici, a ogni piè sospinto. Anche quando l'analogia non c'entra niente. Ma, in fondo, l'argomento bioetico della china scivolosa si chiama, o no, anche «analogia nazista»? E si pensa al processo ai medici nazisti istruito a Norimberga, e alla discussione sulla sperimentazione umana nei campi di concentramento. Ma questa era la punta di un iceberg della sofferenza prodotta da una macchina per lo sterminio degli ebrei che i medici tedeschi avevano progettato e di cui curavano l'efficienza. La tesi di laurea pubblicata a Parigi nel 1946 dal medico romeno ebreo Désire Haffner, sopravvissuto a due anni e mezzo di prigionia ad Auschwitz, illustra bene i pesi relativi sul piano quantitativo tra sperimentazione e danni causati direttamente dalla gestione medica del campo. In un'intervista rilasciata nel 1996, Haffner commenta che quel che accadeva in quel campo è «qualcosa che si può descrivere, ma non immaginare». Aggiungendo: «Il principio fondamentale delle nostre religioni, "non uccidere", ad Auschwitz era diventato "uccidi con calma, metodicamente, massivamente, ininterrottamente"». Nei campi di concentramento accadevano anche «esperimenti naturali» – in questo caso dovuti anche alle aberrazioni di cui solo la natura umana è capace – dal punto di vista della patologia medica. Nel senso che le condizioni igieniche, lavorative e di violenza erano determinanti di specifiche malattie: da cui derivavano sofferenze fisiche e psicologiche immense, e quasi regolarmente morte diretta o uccisione nelle camere a gas. È l'epidemiologia della patologia medica, o la patocenosi quotidiana in un campo di sterminio, quella che viene descritta da Haffner. Il quale dice subito che «non esiste una patologia specifica dei campi di concentramento. Non vi abbiamo riscontrato alcuna patologia inedita, e l'evoluzione clinica delle malattie corrispondeva, a grandi linee, al quadro classico». Nemmeno tra i disturbi mentali se ne potevano trovare di atipici. La differenza era che le malattie conosciute non le si voleva prevenire, non si consentiva di curarle e si faceva anzi in modo che evolvessero in modo letale. E Haffner insiste sulla rapidità con cui si manifestavano gravi cachessie; cioè sull'aggravamento rapido di qualunque condizione morbosa, contratta o procurata. Esiti che diventavano pretesti per la soppressione fisica dei prigionieri malati. Ovviamente erano favorite alcune malattie rispetto ad altre, per esempio il tifo rispetto alla tubercolosi, che non faceva a tempo a manifestarsi; e poi le fratture erano frequentissime. Quello di Haffner è un testo diverso – anche se vi sono alcune convergenze sul piano dei dati medico-sanitari – dal Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento per ebrei di Monowitz (cioè il campo di lavoro noto anche come Auschwitz III) redatto da Leonardo Debenedetti e Primo Levi e pubblicato nel 1946, come la tesi di Haffner, su «Minerva Medica». Le divergenze patologiche si possono spiegare col fatto che Monowitz, detto anche Aschwitz III, era un campo di lavoro, mentre Birkenau, o Auschwitz II era un campo di sterminio. Ma la differenza principale è che oltre a mostrare, come fece Levi, che «il fenomeno Auschwitz» merita di «essere studiato con particolare attenzione, perché pone in maniera angosciosa il problema stesso dell'uomo», dipinge con pochissime parole quadri paurosamente autentici della natura umana. Prima di tutto per quel che di male essa può fare, che è sempre stato e sarà sempre preponderante nel mondo. Ma anche per quel che di accettabile si può tirar fuori dal nostro «legno storto». Per quanto riguarda il male, Haffner coglie la sociopatia acquisita delle guardie naziste e dei delinquenti comuni polacchi a capo delle baracche, descrivendo come quelle persone risultassero del tutto normali tra loro, e come improvvisamente diventassero in modo altrettanto del tutto naturale sadici torturatori e disgustosi assassini. Colpiscono i passaggi fulminanti sugli intellettuali, cioè sull'irrilevanza della cultura nel proteggere dalla disumanizzazione e sulla permanenza degli impulsi xenofobi. «In questa folla... è difficile individuare un intellettuale... la sola differenza che persiste riguarda la nazionalità. L'avversione reciproca di alcuni popoli è la prima a ricomparire, sia pure in tono minore, non appena le condizioni migliorano». Tra gli atti di altruismo, cioè di bontà, i soffocamenti dei neonati che talvolta venivano al mondo nelle baracche: uccisioni effettuate per non mettere a rischio la vita della madre. E l'effetto placebo, descritto nel libro e prodotto dalla semplice simpatia manifestata dai medici: un effetto tanto più impressionante se si pensa al contesto, e non solo alla mancanza dei più elementari mezzi d'intervento. C'è la tendenza da parte degli storici e intellettuali di formazione umanistica (compiaciuti dallo spettacolo di Paolini, Hausmerzen) a incolpare la medicina in quanto tale, cioè in quanto tecnica già predisposta a dar luogo ad abusi, per le atrocità commesse dai nazisti. Ma non è così. I campi di concentramento erano prima di tutto luoghi innaturali, cioè creati artificialmente allo scopo di schiavizzare, torturare e sterminare persone. La medicina non c'entra niente. È entrata in gioco per il fatto che l'intolleranza razzista e xenofoba considera il diverso come corrotto o veicolo di qualche minaccia patologica. E la tematizzazione medico-sanitaria del razzismo precede di millenni e va alle radici stesse delle predisposizioni umane alla xenofobia. _________________________________________________________________ Sanità News 29 Nov. ’12 IL VACCINO CONTRO L’INFLUENZA DIMEZZA I RISCHI DI INFARTO E ICTUS Il vaccino contro l'influenza dimezzerebbe i rischi di infarto e di ictus cerebrale sia in pazienti sofferenti di disturbi cardiovascolari che in persone sane. Un nuovo studio canadese condotto al Women college hospital and university di Toronto ha seguito per oltre 12 mesi 3.227 volontari di eta' media 60 anni: la meta' di loro e' stata correttamente sottoposta a vaccino contro l'influenza, mentre l'altra meta' ha ricevuto un'iniezione di placebo. Nel corso dell'anno successivo ci sono stati 187 episodi di infato o ictus tra i partecipanti e 65 decessi. Ma i ricercatori hanno osservato tra i volontari che avevano ricevuto il vaccino vero un'incidenza di ictus ed infarti inferiore del 50%, ed una mortalita' piu' bassa del 40%. I dati sono risultati uguali sia tra cardiopatici che tra i pazienti sani. Presentando i dati ad un meeting scientifico, l'autore principale della indagine,il cardiologo Jacob Udell, ha definito l'immunizzazione anti-influenza un ''vaccino per il cuore''. L'ipotesi sui benefici cardiologici del vaccino avanzati dagli studiosi e' che prevenendo l'influenza si previene una forte infiammazione organica che puo' far scattare reazioni a catena che conducono a possibili infarti. _________________________________________________________________ Sanità News 21 Nov. ’12 ALLARME DEI FARMACISTI: DIMEZZATA LA DISTRIBUZIONE DEI VACCINI ANTINFLUENZALI Gli italiani quest'anno hanno boicottato in massa il vaccino contro l'influenza. "La dispensazione in farmacia dei vaccini antinfluenzali, nello scorso ottobre, si e' piu' che dimezzata rispetto allo stesso mese del 2011". E' l'allarme del presidente della Federazione degli ordini dei Farmacisti Italiani, Andrea Mandelli. "E' un dato allarmante che, se la tendenza non si inverte, puo' compromettere la copertura della popolazione, comprese le categorie a rischio indicate dal ministero della Salute come primi destinatari dell'immunizzazione contro l'influenza". Il dato proviene dal sistema di rilevazione della spesa farmaceutica, in particolare quella privata, messo a punto dalla Fofi in collaborazione con la societa' New Line, il cui primo rapporto annuale verra' presentato all'inizio del prossimo anno. Quello relativo ai vaccini e' uno dei molti dati ricavati attraverso il monitoraggio di oltre 3.000 farmacie reclutate nel sistema. "E' evidente che su questa tendenza negativa ha pesato la notizia dei ritiri precauzionali dei vaccini di alcune ditte operati nelle scorse settimane", prosegue Mandelli. "In realta', come abbiamo subito fatto presente ai cittadini, usando i vaccini distribuiti nelle Asl e nelle farmacie, non si e' mai corso alcun rischio, visto che i controlli, e i ritiri che ne sono seguiti, sono scattati, come e' logico, ben prima che i vaccini fossero disponibili alla popolazione. Una forte riduzione della copertura vaccinale della popolazione comporterebbe non solo un aumento delle persone colpite, ma anche delle complicanze, soprattutto per anziani e malati cronici. Insomma, piu' costi umani e una maggiore spesa, evitabile, per il Servizio sanitario". _________________________________________________________________ Sanità News 29 Nov. ’12 CONSIGLIATE ANALISI AGGIUNTIVE PER LE DONNE CON SENO DENSO Le donne con il seno denso dovrebbero eseguire analisi e screening aggiuntivi. Almeno questo e' quanto emerge da uno studio promosso da Jafi Lipson, docente di Radiologia alla Stanford University in California. La ricerca e' stata pubblicata sul sito della Radiological Society of North America www.2.rsna.org e ha concluso che, se le donne dopo essersi sottoposte a una mammografia di routine rivelano un seno denso, e' preferibile che proseguano lo screening con ulteriori indagini. Lo studio e' stato presentato al meeting annuale della Rsna. "Il nostro studio evidenzia la necessita' di educare le pazienti a tenere in considerazione la densita' del proprio seno per valutare se e' meglio approfondire le analisi di routine per la prevenzione del cancro alla mammella", ha spiegato la Lipson. Recenti studi hanno dimostrato che il seno denso e' un forte fattore di rischio indipendente per il cancro. "I tessuti fibroghiandolari del seno denso - ha continuato - appaiono bianchi durante la mammografia, rendendo piu' complessa l'identificazione di un potenziale tumore a uno stato non avanzato e quindi non in chiara evidenza. I nostri risultati dimostrano che e' importante che le donne con seno denso effettuino ulteriori analisi oltre alla mammografia come gli esami agli ultrasuoni e la mammografia con mezzo di contrasto" _______________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Nov. ’12 PERCHÉ I NOSTRI FIGLI DIVENTANO GRANDI SEMPRE PIÙ PRESTO Sia nei maschi che nelle bambine si è abbassata sensibilmente l'età d'ingresso nella pre-adolescenza P iccoli uomini crescono. Troppo in fretta. Anche loro, come già sta succedendo per le bambine, manifestano i primi segni della pubertà da sei mesi a due anni in anticipo rispetto a quanto accadeva alla fine degli anni Sessanta. Secondo i dati che arrivano da uno studio della Società Americana di Pediatria, condotto da Marcia Herman-Giddens dell'University of North Carolina su 4 mila individui e appena pubblicato su Pediatrics, i bambini si incamminano sulla strada della pre-adolescenza attorno ai 10 anni, se sono bianchi o ispanici e attorno ai 9 se sono afroamericani. L'orologio dello sviluppo, infatti, tiene conto anche della genetica. Il fenomeno della pubertà «anticipata» non è soltanto americano: anche da noi si registrano le stesse tendenze. «In Italia — fa notare Gianni Bona, pediatra all'Università del Piemonte Orientale a Novara — già alla fine degli anni Novanta alcuni studi avevano rilevato un abbassamento dell'età di ingresso nella pubertà di almeno un anno rispetto a epoche precedenti, sia nei maschi che nelle femmine. Così oggi una bambina a 8 anni e un bambino a 9 possono cominciare a sviluppare le cosiddette caratteristiche sessuali secondarie. Che per le femmine sono la comparsa del bottone mammario e dei peli al pube e alle ascelle e per i maschi l'ingrossamento dei testicoli (un parametro difficile da valutare e che ha un po' ostacolato gli studi sulla pubertà maschile, ndr) e la comparsa dei peli pubici». Una situazione che, però, non allarma gli esperti. «A queste età — continua Bona — si può ancora parlare di normalità. È il limite minimo fissato dalla statistica che riflette la media di una popolazione. E poi pubertà "anticipata" almeno per quanto riguarda le femmine non significa comparsa anticipata delle mestruazioni. Oggi l'età del menarca si aggira attorno ai 12 anni ed è rimasta stabile negli ultimi tempi». Quello che dimostrano gli ultimi studi, dunque, è un abbassamento dell'età di comparsa dei caratteri sessuali secondari per maschi e femmine, ma non del menarca per quanto riguarda le femmine e della capacità di produrre spermatozoi da parte del maschio, che compare dopo circa due anni dall'inizio della pubertà. A questo punto la domanda è inevitabile: perché i bambini cominciano ad assumere le sembianze di adulti prima che in passato? Le risposte sono le più disparate. A partire da quelle che accusano i programmi televisivi. Una ricerca di qualche tempo fa dell'endocrinologo fiorentino Roberto Salti dell'Ospedale Meyer di Firenze, sosteneva che le scene di violenza e di sesso possono agire sui centri cerebrali che controllano il sistema ormonale e dare il via, in persone particolarmente predisposte, a quelle modificazioni ormonali che innescano la pubertà. Ma ci sono altre ipotesi. La più accreditata prende in considerazione la dieta. Una buona alimentazione favorisce lo sviluppo fisiologico e la maturazione sessuale. Una controprova? Le anoressiche hanno una pubertà ritardata (anoressia a parte ci sono altre cause di ritardo puberale, come l'eccesso di esercizi fisico o un'intossicazione da piombo), chi è sovrappeso ha una pubertà anticipata. «Un concetto da non dimenticare — dice Vincenzina Bruni, che dirige all'Ospedale Careggi di Firenze il primo Centro italiano di ginecologia pediatrica — è che l'orologio biologico si attiva grazie a una serie di messaggi, trasmessi da neuromediatori, che arrivano al cervello dal corpo, dal tessuto adiposo per esempio, dal pancreas o dall'intestino, e che dipendono dallo stato nutrizionale. Il menarca, infatti, si manifesta quando si raggiunge un determinato peso corporeo». Secondo una vecchia considerazione casalinga il peso che fa partire i segnali capaci di dare il via alla prima mestruazione si aggira attorno ai 40 chili. Uno dei fattori che contribuirebbe all'abbassamento della soglia della pubertà potrebbe essere proprio l'obesità, in crescita costante nella popolazione infantile. «Ma c'è un altro fattore che merita interesse — aggiunge Bona — ed è l'inquinamento ambientale. Oggi si parla di endocrine disruptor o interferenti endocrini, sostanze inquinanti che mimano gli effetti degli ormoni e interferiscono sul loro equilibrio». Gli interferenti endocrini possono agire in modi diversi: imitando gli effetti degli ormoni, alterandone la produzione, interferendo con il loro metabolismo e con l'eliminazione. Queste sostanze sono presenti in numerosi prodotti, anche di largo consumo. Alcuni studi condotti negli Stati Uniti hanno, per esempio, dimostrato un pubarca precoce (comparsa di peli pubici) in bambini e bambine che erano venuti a contatto, attraverso la pelle, con creme a base di testosterone usate dai loro padri per migliorare le performance atletiche e le prestazioni sessuali. Molti cosmetici, profumi e shampoo contengono fenoli, ftalati e fitoestrogeni che sono stati associati allo sviluppo mammario precoce da uno studio pubblicato sulla rivista Environmental Health Perspective e condotto su oltre un migliaio di bambini in età prepuberale. Gli ftalati, comunque, non sono ammessi nei prodotti cosmetici commercializzati in Europa, mentre lo sono in quelli venduti negli Stati Uniti. Un'altra «ecocausa» di pubertà anticipata è il bisfenolo A che si trova nei prodotti di plastica policarbonata, come contenitori per alimenti, posate, bicchieri, bottiglie e può avere un'azione estrogenica. Non solo: secondo uno studio condotto alla Seconda Università di Napoli dal pediatra Emanuele Miraglia Del Giudice, il bisfenolo A potrebbe anche essere associato all'obesità infantile che a sua volta anticipa la pubertà. Persino i ritardanti di fiamma, utilizzati per rendere ignifughi stoffe e tappeti, hanno effetti negativi sugli ormoni e sul peso. In definitiva i fattori che possono interferire con lo sviluppo puberale sono tanti ed è difficile pensare a una ricetta universale che aiuti a crescere al momento giusto. Valgono, però, alcune regole generali: offrire ai bambini un'alimentazione sana che non faccia aumentare di peso (con tanta frutta e verdura e non troppa carne rossa che sembrerebbe un altro fattore favorente la pubertà precoce), stimolare un'adeguata attività fisica, possibilmente all'aria aperta, e ridurre le ore passate davanti alla televisione, garantire un buon sonno. E anche una certa serenità familiare. Ricercatori dell'Università dell'Arizona e del Wisconsin hanno evidenziato che situazioni stressanti all'interno della famiglia, come la povertà, i conflitti fra i genitori e cattive relazioni fra genitori e figli, possono anche loro favorire la pubertà precoce. abazzi@corriere.it _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 27 nov. ’12 TAGLI AI LABORATORI, È RIVOLTA SANITÀ. La decisione dopo la riduzione del 60 per cento dei finanziamenti regionali Protesta dei centri analisi: orari e prestazioni dimezzati La Regione punta al risparmio: taglia il 60 per cento dei finanziamenti e i laboratori di analisi minacciano la serrata. La mannaia della Spending review si abbatte su un pezzo portante della sanità isolana. E scatta la protesta in tutti i laboratori: sino al dieci dicembre l'orario è dimezzato, le prestazioni sono ridotte al minimo; saranno garantiti solo gli esami per le donne in gravidanza, quelli per i pazienti oncologici e le terapie anticoagulanti. Analisi al minimo e stato d'agitazione. Ad aderire alla protesta ieri 38 centri analisi convenzionati, sui 52 presenti in tutto il territorio, 28 tra Cagliari e provincia, 17 solo in città. Il malcontento è diffuso: oggi il numero sale. LA PROTESTA A puntare il dito contro le scelte parsimoniose dell'assessorato alla Sanità sono la Assolab, Confapi e Federlab, le associazioni di categoria più rappresentative, oltreché artefici dello sciopero dei camici bianchi. «La nostra situazione è drammatica», spiega Francesco Cogoni, presidente regionale dell'Assolab. «Non ci pagano gli extra budget, e nonostante le prestazioni erogate ci impongono una regressione tariffaria del 99%». Ad accendere la miccia i budget assegnati nel 2006, gli extra budget non pagati, il tariffario fermo al '98 («obsoleto e inadeguato»), e la riduzione del 60% dei rimborsi per venti tipi di analisi. «La Asl stabilisce un tetto massimo per le nostre fatturazioni, non possiamo sforare. Il budget è fermo dal 2006», polemizza Cogoni. «Avrebbero dovuto rimodularlo dopo 6 mesi dalla firma del primo contratto». Son passati sei anni e niente è cambiato. IL TARIFFARIO Nel mirino anche il tariffario. «Il rimborso regionale delle prestazioni di laboratorio a favore delle strutture private - una volta dette convenzionate - avviene attraverso l'uso del Nomenclatore Tariffario», spiega Enrico Tinti di Federlab. «È fermo al 1998, in quattordici anni non è mai stato aggiornato. Eppure l'impegno era di revisionarlo ogni due anni». In campo c'è anche la Confapi. «È inadeguato a coprire le spese vive delle strutture», aggiunge il presidente Giorgio Boscato. A gettare benzina sul fuoco la mazzata di luglio. «Mentre i rappresentanti dei laboratori convenzionati attendevano la convocazione della Commissione paritetica per la revisione delle tariffe, la Regione - con delibera del 31 luglio 2012 - ha stabilito la riduzione del 60 per cento dei rimborsi per un gruppo di 20 analisi», la stoccata parte da Cogoni. «Inaccettabile, nel 2007 l'allora assessore Dirindin fecce la stessa cosa, ci tagliò il 50 per cento del rimborso, abbiamo fatto ricorso al Tar, non ci è stato accolto, poi al Consiglio di Stato, e ci ha dato ragione». Ora il nastro si riavvolge. LA REGIONE Nel 2010 la Regione ha speso 18 milioni di euro per il rimborso delle prestazioni ai laboratori accreditati, 16 tra il 2011 e il 2012, per il ridimensionamento dei tetti. La sforbiciata al tariffario porterebbe nelle casse di viale Trento un risparmio di 8 milioni. Ma non piace alle associazioni. «Cinquecento posti traballanti, 400 - tra medici, biologi, chimici, tecnici di laboratorio e 100 amministrativi». E poi il danno alle casse pubbliche: a rischio 500 posizioni Inps, altrettante contribuzioni Irpef. E poi Irap, Inail, Empam, Ire, l'Iva indiretta, e gli incassi del ticket pagato nei Cup. Totale: 18 milioni in meno nelle casse regionali. L'ASSESSORE Sulla vicenda interviene l'assessore regionale della Sanità Simona De Francisci: «Sul futuro dei laboratori di analisi, da subito la Regione ha aperto un tavolo per la trattativa con gli operatori e lo schema delle nuove tariffe è stato elaborato considerando anche la loro proposta». E aggiunge: «Le tariffe nazionali in corso di definizione sono più basse delle nostre, lo sforzo finanziario della Regione non deve essere sottovalutato né ci si deve arroccare ognuno sulle proprie posizioni». Poi si rivolge agli operatori: «Servono collaborazione e proposte costruttive, che tengano conto della difficoltà economiche che tutto il settore della sanità sta affrontando». Sara Marci _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 nov. ’12 C'è anche il codice rosa ASSISTENZA PER LE DONNE AL PRONTO SOCCORSO VEDI LA FOTO Dopo i codici bianco, verde, giallo e rosso, al pronto soccorso arriva quello rosa. In occasione della “Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne” è stato presentato ieri, all'ospedale San Giovanni di Dio, il nuovo progetto di formazione su violenza di genere e stalking. IL PROGETTO «Un'iniziativa - precisa il direttore generale dell'Azienda ospedaliera universitaria, Ennio Filigheddu - che non ha colore politico». L'obiettivo del progetto, coordinato dal consigliere provinciale Rita Corda, è quello di formare personale specializzato alla conoscenza del fenomeno della violenza contro le donne. Un vero e proprio corso di specializzazione che durerà sei mesi, mirato a sviluppare e approfondire la capacità dei partecipanti rispetto al riconoscimento e al trattamento della violenza subita dalle donne, ascoltandole e accogliendole nel miglior modo possibile all'interno del pronto soccorso. «Il codice rosa è importante perché la vittima spesso arriva con tumefazioni, ma non ammette quello che è successo - dichiara l'assessore regionale della Sanità, Simona De Francisci - tuttavia, con qualche domanda fatta nel modo giusto, si può venire a sapere la verità. La formazione e la conoscenza di questa materia diventa dunque fondamentale». LA CULTURA «Qualche giorno fa è venuta da me una donna che voleva separarsi dal marito - racconta il presidente della Provincia, Angela Quaquero - Mi ha rivelato che l'ultima volta che si sono visti lui l'ha maltrattata, aggiungendo poi che cose del genere capitano un po' in tutte le famiglie. Le ho spiegato che non è vero, e l'unico modo per impedire che si pensino queste cose è la formazione e la sensibilizzazione, sia attraverso i mezzi di comunicazione che nelle scuole». LE FORZE DELL'ORDINE «Le donne che hanno subito violenze e si rivolgono a noi sono devastate, balbettano, non hanno ricordi precisi di quello che hanno subito - dice Gabriella Acca, dirigente della divisione anticrimine della Questura di Cagliari - Spero che l'anno prossimo ci si possa rincontrare con dati che evidenzino una riduzione di questo fenomeno». Davide Angrisani, comandante provinciale dei Carabinieri, snocciola qualche numero: «Nella zona di nostra competenza l'Arma quest'anno ha perseguito 45 casi di violenza di genere, e trentuno persone sono state individuate. Le vittime che si rivolgono alle forze dell'ordine sono sempre di più, e questo significa che sta aumentando la fiducia nei nostri confronti». Piercarlo Cicero _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 2 Dic. ’12 DIAGNOSI PREIMPIANTO, IL BLITZ DI MARIO MONTI di EUGENIA TOGNOTTI I l governo ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo contro la sentenza europea che ha bocciato la Legge 40 di EUGENIA TOGNOTTI Tecnici alla prova dell'etica. In extremis, all'ultimo minuto dell'ultimo giorno utile, il governo dei professori ha presentato ricorso alla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo contro la sentenza che bocciava la Legge 40 in merito alla diagnosi preimpianto degli embrioni, condannando l'Italia per violazione dell'articolo 8 della Carta europea dei diritti umani. Nel negare alle coppie senza problemi di sterilità ma portatrici di malattie genetiche, la possibilità di accedere alla diagnosi genetica reimpianto, di fatto, la Legge 40/2004- che regola la procreazione medicalmente assistita- condizionerebbe, di fatto, le scelte familiari e il diritto all'autodeterminazione nelle opzioni terapeutiche. Quasi contemporaneamente, una richiesta d'inammissibilità del ricorso del governo è arrivata alla Corte, attraverso l'istanza di quattro europarlamentari italiani di vari schieramenti politici – compreso Pdl – in collegamento con l'associazione Coscioni. Rimbalzano così in Europa, e rumorosamente, le infuocate polemiche che hanno accompagnato il cammino di quella discussa legge, contro la quale si sono registrati in questi anni, qui in Italia, ben diciannove pronunciamenti, dalla Corte costituzionale ai tribunali regionali (ultimo quello di Cagliari), che hanno demolito, a pezzo a pezzo, una legge viziata dall'ideologia, e incoerente con la legge sull'aborto. Se la legge 40, infatti, vieta la diagnosi preimpianto, permettendo l'accesso alle cure e tecniche assistite soltanto alle coppie sterili e non anche a quelle portatrici di malattie genetiche; la legge 194 permette l'interruzione di gravidanza in presenza di pericoli seri per la salute della mamma o del bambino. Nella domanda di rinvio, il governo si preoccupa naturalmente di allontanare il sospetto di voler entrare nel merito " delle scelte normative adottate dal Parlamento" nonché di " eventuali nuovi interventi legislativi", puntualizzando che il ricorso si fonda esclusivamente sulla necessità di salvaguardare l'integrità e la validità del sistema giudiziario nazionale; e che presentarlo era un passo necessario. Infatti, l'istanza originaria, cioè quella della coppia portatrice di fibrosi cistica che si era rivolta a Strasburgo - sostenendo che il divieto di diagnosi reimpianto viola il loro diritto al rispetto della vita privata e familiare - era stata avanzata direttamente alla Corte europea, senza che fossero esperiti tutti i livelli di giudizio della magistratura nazionale. Passando sopra questo dato, lamenta l'Italia, la Corte non ha rispettato un criterio-guida della sua giurisprudenza: vale a dire "il rispetto del margine di apprezzamento della legislazione nazionale in questioni eticamente sensibili". Nel ricorso si contesta anche che tra legge 40 e legge 194 vi sia incoerenza, come denunciato dalla Corte. Dato che "la possibilità della donna di abortire non è nella 194 un diritto in sé, bensì la deroga al principio della protezione della vita prenatale, "è chiaro che il divieto di attentare alla vita prenatale è perfettamente coerente con la proibizione della diagnosi preimpianto, e l'esistenza di una deroga non contraddice questi valori". Tra tante eleganti disquisizioni giuridiche e richiami alla giurisprudenza, allo spirito delle leggi, e ai trattati internazionali, non c'è posto per la cosa più importante: i diritti dei cittadini alla salute, senza discriminazioni. Che dire? La diagnosi preimpianto non nasconde nessun pericolo di deriva eugenetica. Dopotutto le coppie a rischio non vogliono mettere le mani nel cuore della vita, non chiedono di avere un bambino biondo e con gli occhi azzurri, ma solo di evitare un aborto e non avere un figlio destinato a un futuro di malattia e sofferenza. _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 28 nov. ’12 AOB: INTERINALI ALL’OSPEDALE, SÌ DELL’AULA ALLA PROROGA CAGLIARI E’ stata respinta con il voto segreto, (43 no e 28 sì), la mozione del centrosinistra, prima firmataria Francesca Barracciu del Pd, sul ricorso ai lavoratori interinali nell’azienda ospedaliera Brotzu di Cagliari. Il dibattito ha affrontato la questione della proroga del contratto di somministrazione di lavoro interinale, avvenuta con una delibera, e riguardante gli operatori socio sanitari . Un provvedimento preso dal direttore generale del Brotzu, Antonio Garau, nonostante l'indicazione di non sforare la soglia di interinali oltre il 2% del bilancio aziendale, vincolo dettato dalla legge regionale. La mozione aveva anche un altro obiettivo: chiedere la rimozione del direttore Antonio Garau. «Dia il buon esempio sul controllo della spesa», ha affermato Barracciu rivolgendosi all’assessore Simona De Frnacisci, «sollevi dall’incarico Garau, che procede come fosse in una libera repubblica indipendente della sanità. È un atto di evidente grave arroganza, di presunzione, di impunibilità», ha detto l’esponente del Pd. Per Barracciu il comportamento di Garau è stato agevolato dal ritardo con cui il presidente della Regione ha provveduto alla promulgazione della legge regionale: «Ci ha impiegato tre settimane, un ritardo mai visto, neanche per la flotta sarda, e questo nonostante la legge sanitaria sia stata portata in quest’aula con urgenza per la spending review. Forse il ritardo della presidenza serviva per dare il tempo al direttore del Brotzu di fare indisturbato le sue proroghe sugli interinali, senza i limiti del 2% imposti dalla legge». Di lì a poco il presidente Cappellacci avrebbe replicato: «Si dice che la proroga è stata adottata in difformità alla legge ma poi si aggiunge che la legge non era ancora promulgata. Peraltro la proroga è stata sollecitata da una lettera sottoscritta dai direttori dei dipartimenti del Brotzu, che paventavano il rischio di blocco dell’attività». _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 nov. ’12 POLICLINICO, MASSIDDA IN PENSIONE È in pensione dal primo novembre ma è difficile immaginarlo seduto su una delle tante panchine di una piazza di Cagliari. Bruno Massidda, 70 anni compiuti il 18 maggio, direttore della scuola di specializzazione di Oncologia medica (e responsabile del Day hospital al Policlinico universitario di Monserrato insieme a tanti altri ruoli e incarichi scientifici), a 47 anni dalla laurea e a 41 dalla vincita del concorso pubblico che lo ha visto entrare di ruolo come medico assistente nella Divisione di Oncologia del Businco di Cagliari, da venti giorni è un pensionato. Fu lui a contribuire a creare a Cagliari il primo reparto di Oncologia medica (diretto allora da Alberto Pellegrini) dove l'attenzione principale era indirizzata nella cura dei tumori. «Era il 12 settembre 1972», ricorda il professor Massidda, «e fu un avvio folgorante perché insieme ad altri centri italiani diventammo uno dei poli più importanti». Oggi a Cagliari lascia «un polo di eccellenza nella lotta contro i tumori, con l'esistenza del presidio oncologico insieme all'azienda ospedaliera del Policlinico di Monserrato, e non sono il solo a dirlo». A Cagliari manca ancora il registro dei tumori. «Cioè quella mappa geografica», conferma Massidda, «che ci indichi l'insorgenza dei tumori». Sembrerebbe un aspetto da poco per i profani ma per chi lavora nel settore «è importantissimo perché ci permetterebbe di attrezzarci meglio e per tempo alle richieste senza farci trovare impreparati». A Sassari e Nuoro c'è. Le ragioni della sua mancanza a Cagliari e provincia? «Chiedetelo al mondo politico. In tutti questi anni abbiamo comunque collaborato proficuamente e nel rispetto dei ruoli». Anche se non la mandò a dire all'allora assessore regionale Nerina Dirindin, quando in un incontro pubblico si lamentò per i suoi allievi di Oncologia medica formati a Cagliari e «costretti a emigrare nel resto d'Italia e d'Europa perché qui da noi non trovano sbocco di lavoro». In quarant'anni trascorsi a combattere sul “fronte tumore” ne è passata di acqua sotto i ponti. «Oggi la nuova frontiera è la biologia molecolare perché siamo ormai entrati nei geni e si possono impiegare i medicinali su un obiettivo ben preciso e non più ad ampio spettro». Gian Luigi Pala