RASSEGNA 24/02/2013 «L'APPELLO DEI RETTORI? IN RITARDO, MA DA SOSTENERE» «GIUSTO FINANZIARLI MA GLI ATENEI FERMINO GLI SPRECHI» I RETTORI AI CANDIDATI PREMIER «SALVATE LE UNIVERSITÀ» L'APPELLO DEI MAGNIFICI RETTORI: SALVARE L'UNIVERSITÀ DAL TRACOLLO DA CHE PULPITO, CARI RETTORI ALMALAUREA: LAUREA IN CALO DI ATTRATTIVITÀ OLTRE LA METÀ DEI GIOVANI ALL'ESTERO HA LA LAUREA BLANCO: L'UNIVERSITÀ IN MANO ALLE FAMIGLIE STRANIERI IN ATENEO? SOLO IL 4% VUOI ISCRIVERTI ALL'UNIVERSITÀ? PRIMA DEI TEST DEVI FARE I PRE-TEST RICERCATORI SENZA FUTURO MILANO: RICERCATORE BOCCIATO PER UN'EMAIL NEGATA UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO: QUEL CONCORSO IL CROLLO DEL FALSO MITO DI STUDI «GRATIS PER TUTTI» CAMPUS UNIVERSITARIO VERSO L’AVVIO DEI CANTIERI LA SFIDA DI PROFUMO: DECRETO DOPO LE ELEZIONI NESSUN SITO È INACCESSIBILE BASTA TROVARE IL PUNTO DEBOLE LA CYBER GUERRA DA SALOTTO GLI INVISIBILI CONFINI DEGLI SPAZI DIGITALI ALLA POLITICA SERVE L'OBLIO DEFINIRE PER POTER MISURARE: SALVIAMO L'INTERDISCIPLINARITÀ PREMI E VOUCHER AI DIPENDENTI P.A. COLONIE SU MARTE, LA MISSIONE PARTE DA CAGLIARI AIUTARE GLI ALTRI È UN ANTISTRESS SIAMO TUTTI DISLESSICI? I RISCHI DI UN'IPER-DIAGNOSI TRENTAMILA NUOVI UNA BASE NEUROBIOLOGICA PER LA DISLESSIA ========================================================= MARROSU: RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE: UNA BABELE COMUNICATIVA CURE SBAGLIATE IN OSPEDALE A RISCHIO I RISARCIMENTI LE REGIONI CREANO PROPRI FONDI DI GARANZIA I MEDICI DELL’AOUSS IN RIVOLTA: CHIEDONO GLI ARRETRATI CARCASSI: I RESTI DI CARAVAGGIO O DI UNA SCIMMIA CONTROANALISI DEL DNA UNA ROTATORIA PER ENTRARE NEL POLO UNIVERSITARIO PAZIENTI IN COMA FUNZIONA IL CERVELLO? ITALIANA LA PRIMA MANO BIONICA CON SENSO DEL TATTO ALLERGIE MESSE AL BANDO RIPARERÒ I DANNI DELL'INFARTO" L'ACIDO FOLICO ABBATTE IL PERICOLO DI AUTISMO LA PROTEINA RANKL E IL DIABETE DI TIPO 3 LA RICETTA DEL TELE-PAZIENTE FORME TUMORALI E INFEZIONI DA PAPILLOMA VIRUS: ECCO LE ULTIME RICERCHE RIMEDI PEGGIORI DELLE MALATTIE PER LE NOBILI RINASCIMENTALI MALATTIE RARE MALATI DIMENTICATI ADDIO ALLE SIGARETTE SENZA INGRASSARE I FALSI RICORDI SONO VERI ALZHEIMER, TRIPLICATI I CASI DEPRESSIONE, DA SASSARI UNA NUOVA CURA IL PICCOLO GENIO CINESE CHE VA A CACCIA DEL GENE DELL'INTELLIGENZA OBAMA E LA CONQUISTA DEL CERVELLO UMANO «ALTISSIMI RISCHI DI LEUCEMIE NEI POLI INDUSTRIALI» DALLA LOMBARDIA PARTE IL TELEMONITORAGGIO PER LE MALATTIE CRONICHE DALLE COZZE UNA COLLA UTILE IN CHIRURGIA BERE DOPO AVER FATTO JOGGING RIDUCE IL SODIO NEL SANGUE ========================================================= _____________________________________________________ Corriere della Sera 19 feb. 2013 «L'APPELLO DEI RETTORI? IN RITARDO, MA DA SOSTENERE» Gli studenti: «Sono stati conniventi col governo» ROMA — «Va bene quella lettera, ma potevano pensarci prima». Non è proprio un coro, ma ci va molto vicino: la reazione al documento della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) è polemica. Non perché le sei priorità indicate dai rettori al futuro presidente del Consiglio non siano in gran parte condivise e condivisibili, ma perché sembrano «in ritardo» rispetto ai tempi e alle esigenze dell'università italiana. I rettori chiedono la defiscalizzazione delle tasse, la copertura totale delle borse di studio, l'abbattimento dell'Irap sulle borse post lauream e la defiscalizzazione degli investimenti delle imprese in ricerca. Ma anche il finanziamento dei posti di ricercatore e il blocco del turnover, la restituzione dell'autonomia alle università e l'incremento dei fondi all'1% del Pil. «Bravi — applaude ironico Michele Orezzi, presidente dell'Unione degli universitari —. Stiamo sollevando questi problemi dal 2008, peccato che i rettori non siano scesi in piazza con noi allora. Il silenzio, che i rettori pensavano fosse coraggioso, ha portato gli atenei sull'orlo del default». «La Crui è sempre stata connivente con le scelte scellerate del governo — incalza Mario Nobile, di Link coordinamento universitario —. A partire dalla riforma Gelmini che i rettori hanno sempre appoggiato. Questi punti sono condivisibili ma troppo vaghi e generici». «In realtà sono richieste di buon senso», analizza Giorgio Bolondi, professore universitario a Bologna ma anche più volte consulente di Palazzo Chigi. «Mi sembra ovvio chiedere di poter dedurre le spese per l'istruzione dei miei figli, quando mi è permesso scaricare quelle per la palestra — spiega Bolondi —. Più complessa la questione delle borse di studio: in un sistema ben funzionante ci dovrebbero essere più modi per finanziare gli studenti. E infatti il terzo punto va di pari passo: nel nostro Paese manca un investimento privato sugli studi, investimento che è difficile ottenere se non c'è una politica fiscale adeguata». Promosso anche il quarto punto: «Siamo tutti troppo vecchi nell'università», commenta Bolondi, che invece manifesta «dubbi» sul quinto punto, l'autonomia: «Va maneggiata con cautela». E l'aumento dei fondi? «Ben venga, perché non si tagli più su servizi, ricerca, sviluppo». Infatti l'università non ha solo un problema di tasse e iscrizioni in calo: «Il punto è che bisognerebbe renderla più attrattiva — dice Antonio Marsilio, Cisl —. La situazione in cui ci troviamo oggi, con 20 università a rischio commissariamento, il diritto allo studio massacrato, è frutto della politica degli ultimi venti anni. Non dico che i rettori siano stati completamente assenti, ma sarebbe stata auspicabile maggiore forza». E anche la Cgil parla di necessità di «autocritica»: «Con più decisione avrebbero potuto evitare il disastro», secondo Mimmo Pantaleo. Meno morbido Alberto Civica, Uil: «Hanno avuto un atteggiamento superistituzionale in questi anni. E neanche adesso hanno il coraggio di criticare apertamente la riforma Gelmini: anche se nel punto cinque di fatto la bocciano, lo fanno in modo criptico, come se non volessero disturbare troppo. E in realtà quello è l'unico punto non economico della lettera: sembra che il vero problema dell'università siano le risorse, e non è così». Però è vero che, chi quelle risorse ce le ha, funziona meglio: «Si, è vero che campiamo delle rette degli studenti — ammette Pierluigi Celli, direttore della Luiss —. Ma le risorse poi vanno amministrate nella logica dell'impresa, razionalizzandole e non spendendo, come succede negli atenei pubblici, il 95% dei soldi in stipendi». Valentina Santarpia _____________________________________________________ Corriere della Sera 19 feb. 2013 «GIUSTO FINANZIARLI MA GLI ATENEI FERMINO GLI SPRECHI» ROMA — «Le richieste dei rettori? Sono condivisibili, oggi l'università è in sofferenza ma la posizione della Crui mi sembra anche un poco autoassolutoria». L'ex ministro dell'Istruzione del governo Berlusconi, Mariastella Gelmini, non risparmia critiche all'università italiana e rilancia la piena attuazione della sua riforma, che lo stesso Monti «quando ancora era professore alla Bocconi aveva sostenuto». Quali sono le colpe dell'università? «Quelle di cui abbiamo sempre parlato prima della riforma e che hanno in parte prodotto questa sofferenza. Se oggi non abbiamo università italiane tra le prime 100 nel mondo e gli iscritti diminuiscono bisognerà ricordare i piccoli concorsi truccati, le baronie, le selezioni non meritocratiche, il moltiplicarsi di corsi universitari con pochi studenti, il moltiplicarsi delle sedi, spesso improduttive e dove non si faceva ricerca, sistemi poco trasparenti e produttori di grandissimi sprechi. In tempo di crisi e di pareggio di bilancio si è dovuto intervenire per razionalizzare». L'università è sull'orlo del crac per avere sperperato? «C'è una sua responsabilità. I rettori non possono limitarsi a chiedere soldi, richiesta peraltro legittima, ma devono farsi carico di avere disatteso le speranze degli studenti, di non aver selezionato i corsi di laurea con veri sbocchi occupazionali, di aver prodotto migliaia di disoccupati. Non è esente da colpe. I rettori vogliono l'autonomia? Giusto, io però respingo l'accusa di aver tolto loro autonomia. Bisogna che accettino di essere valutati, l'Agenzia di valutazione non funziona benissimo, va perfezionata. Ma la valutazione è necessaria e io ci credo fermamente». E infatti i rettori vogliono essere valutati ma chiedono anche risorse adeguate. «E questo aspetto, ripeto, è in parte condivisibile. Ma va chiarita subito una cosa: nel 2009 noi abbiamo aumentato il fondo per l'università, poi ci sono stati tagli nel 2010 e nel 2011, tagli che sono serviti a coprire i costi dei professori fuori ruolo a 70 anni, anziché com'era prima a 75. Proprio per aprire ai giovani. Nel 2012 siamo tornati in equilibrio. Poi, con Monti c'è stato questo taglio, inaspettato e ingiustificato, di 300 milioni di euro per il 2013. E il blocco del turnover: le due cose assieme paralizzano». Ma anche Tremonti ha tagliato e bloccato il turnover. «È vero. Ma poi io, con il fondo Letta presso la presidenza del Consiglio, ho potuto ripristinare una parte delle risorse. E con il decreto 180 del 2008 abbiamo cancellato il blocco del turnover». Condivide le richieste dei rettori? «Dico sì alla defiscalizzazione delle tasse universitarie e alle borse di studio, anche se bisogna distinguere tra quelle riservate alle famiglie in difficoltà, che però devono andare di pari passo con il "quoziente famiglia", e quelle per i più meritevoli. Per questi ultimi, bene Profumo che vuole alzare la soglia dei crediti per ottenere le borse. Penso che bisogna togliere i vincoli al turnover e ripristinare i 300 milioni di euro sottratti all'università. Con quei fondi già nel 2013 si potrebbero assumere seimila nuovi ricercatori». Mariolina Iossa RIPRODUZIONE RISERVATA _____________________________________________________ Corriere della Sera 18 feb. 2013 I RETTORI AI CANDIDATI PREMIER «SALVATE LE UNIVERSITÀ» La denuncia: oggi saremmo fuori dall'Ue degli atenei ROMA — Poi si parla di fuga dei cervelli. E ci si stupisce del crollo delle immatricolazioni. Oppure si guarda con ansia alle migliaia di studenti che rinunciano a laurearsi. Ultima fermata, per i nostri atenei, arrivati al capolinea prima del disastro. «Se vi fosse una Maastricht delle Università, noi saremmo ormai fuori dall'Europa». Eppure ovunque ci si volti, dice il presidente della Conferenza dei rettori, Marco Mancini, da nessuna parte si offrono ricette per i mali dell'Università e della ricerca italiane, non ci sono soluzioni nelle agende politiche di chi si candida a governare il Paese. Proprio per questo, la Crui ha scritto una lettera aperta al prossimo presidente del Consiglio con 6 proposte per il futuro dell'Università. «Serve una forte discontinuità con il passato — spiega Mancini —, la politica ci ha messo fra parentesi e parla di futuro? Per noi, sia chiaro, l'Università è un aspetto fondamentale del futuro». I rettori stavolta sono decisi, non si tireranno indietro. Che non si dica poi che sono rimasti a guardare o che si sono limitati a lamentarsi. «Fino ad oggi — prosegue il presidente della Crui — ci siamo molto lamentati, ma questo non ha prodotto alcun effetto, abbiamo offerto un quadro apocalittico senza riuscire a smuovere i governi. Ora suggeriamo una terapia, alcune misure essenziali: si dovrebbe fare molto di più, ma vogliamo almeno evitare il collasso». Terapia d'urto, risposte all'emergenza. Ma quali sono le emergenze? Il calo costante delle immatricolazioni, per esempio, che è il tema di più stretta attualità. Meno della metà (47 per cento) dei diplomati sono attratti oggi dall'Università, mentre 8 anni fa erano il 54 per cento. «Aiutiamo le famiglie a pagare le tasse e i contributi — dice Mancini —. Diamo ai giovani qualche chance in più nel percorso dell'istruzione superiore. Altrimenti saremo sempre più lontani dall'Europa, dove invece aumentano immatricolati, iscritti, laureati e "cervelli" arruolati nei loro Paesi e non costretti a fuggire». Gli studenti meritevoli, chi cerca la migliore Università per puntare all'eccellenza, devono essere sostenuti. Ovunque è ancora così, eppure la crisi economica non ha colpito solo l'Italia. Chissà perché questo però non vale, o vale poco, per lo studente italiano. Le borse di studio negli ultimi tre anni sono diminuite, i fondi nazionali nel 2009 coprivano l'84 per cento degli aventi diritto, nel 2011 solo il 75. In sostanza accade che a migliaia di studenti (ai quali pure spetterebbe) non viene erogata la borsa di studio. «Questa è una cosa che grida vendetta — s'infiamma Mancini —. Quando invece dobbiamo garantire la formazione e incoraggiare gli studenti a scegliere le migliori Università». Altra nota dolente, l'età dei docenti universitari che cresce mentre il loro numero diminuisce. Non c'è una sola situazione uguale in tutta Europa. Oltre il 22 per cento dei docenti ha più di 60 anni, contro il 5,2 per cento di Gran Bretagna, il 6,9 di Spagna, l'8,2 della Francia e il 10,2 della Germania. Solo il 4,7 dei professori universitari italiani ha meno di 34 anni, contro il 31,6 per cento in Germania, il 27 in Gran Bretagna, il 22 in Francia e il 19 in Spagna. Cervelli in fuga? È una emorragia: i giovani dottori che abbandonano l'Italia erano l'11,9 per cento nel 2002 e sono stati il 27,6 nel 2011: più del doppio in appena dieci anni. Le Università vogliono anche vedersi restituita maggiore autonomia. Perché? «Non per fare quello che ci pare, rispondo all'obiezione più comune. Ma per valorizzare gli atenei in relazione al tessuto produttivo su cui lavorano». I soldi? Inutile nascondersi dietro un dito, dai finanziamenti non si può prescindere e non basta fermare l'emorragia, bisogna recuperare un po' del terreno perduto. Le cifre parlano chiaro: in soli 4 anni l'Università ha perso il 13 per cento dei fondi. Oggi più del 95 per cento della spesa complessiva serve soltanto a pagare gli stipendi. «Noi chiediamo che ci venga restituito almeno il livello di fondi del 2009 — sottolinea Mancini —. Da allora ogni anno c'è stato un taglio e per il 2013, con la spending review, ci sono stati sottratti altri 300 milioni di euro». Mariolina Iossa _____________________________________________________ L’Unione Sarda 20 feb. 2013 L'APPELLO DEI MAGNIFICI RETTORI: SALVARE L'UNIVERSITÀ DAL TRACOLLO Melis: «A causa del Patto di stabilità fermi in Regione 60 milioni» Se solo il 4% di docenti associati e ordinari hanno meno di 34 anni, c'è qualcosa che non va. E se la Regione deve ancora 60 milioni di euro a Cagliari e 45 a Sassari, bloccati dal Patto di Stabilità, è evidente che la situazione dell'università sarda sta per scoppiare. Anzi, forse è già deflagrata. Non a caso ieri i rettori dei due Atenei regionali, Giovanni Melis e Attilio Mastino, hanno lanciato un appello unitario al futuro presidente del Consiglio, a pochi giorni dalle elezioni: «Salvi il mondo universitario dal tracollo». LA PROTESTA Pochi giovani che hanno la possibilità di fare carriera, sempre meno soldi a disposizione a causa di Patti e tagli di vario genere, ma soprattutto una cultura, tutta italiana, di non valorizzare il mondo universitario. Entrambi i rettori, però, promettono che non ci saranno grossi aumenti per le tasse universitarie. A precisa domanda Mastino dice che «al massimo ci potrebbe essere una maggiorazione del 5%». Melis prima tentenna, poi però assicura: «Non è questo il periodo per aumentare le tasse, le famiglie non lo sopporterebbero». E allora come sopperire ai tagli? «Stiamo studiando un piano per razionalizzare le risorse». Mastino aggiunge che «in Italia i fondi per l'Università sono lo 0,8% del Pil nazionale, la media Ocse invece supera l'1%. Non è accettabile che molti degli idonei non ottengano la Borsa, e chiediamo che non vengano proposti i “prestiti d'onore”, perchè verrebbero indebitate di più le famiglie». LE RICHIESTE I due rettori sardi hanno ripreso quindi le proposte lanciate dalla Conferenza dei rettori delle città italiane (Crui) ai candidati Premier: defiscalizzare tasse e contributi universitari, prima di tutto. Ma anche sostenere case dello studente, mense e borse di studio, abbattere l'Irap per le borse post-lauream , facilitare il ricambio generazionale. Infine aumentare i fondi per l'Università all'1% del Pil e diminuire il dirigismo ministeriale, che mette troppi ostacoli. GLI STUDENTI In prima fila accanto ai rettori i giovani universitari. Anche se Tommaso Ercoli, presidente del Consiglio degli studenti a Cagliari, precisa che «il Crui si sarebbe dovuto muovere prima. Apprezziamo comunque l'appello lanciato, e aggiungerei un altro punto: cancellare il decreto Profumo, che annullerà il diritto allo studio». «Noi - ricorda Gabriele Casu, presidente del Consiglio dell'ateneo sassarese - avevamo lanciato l'allarme già dopo l'approvazione della riforma Gelmini. Non eravamo stati ascoltati più di tanto». Piercarlo Cicero _____________________________________________________ Il Secolo XIX 19 feb. 2013 DA CHE PULPITO, CARI RETTORI ROBERTO FEDI La Crui è la Conferenza dei rettori delle università italiane: in sostanza, è un organo a metà fra la rappresentanza e il sindacato e, a dirla tutta, molto corporativo. In previsione delle prossime elezioni ha indirizzato una lettera in sei punti al futuro presidente del Consiglio, pubblicata ieri dal Corriere della Sera, con alcune richieste sull'università. Il che è buono e giusto, si direbbe. Le proposte sono semplici: si va dalla defiscalizzazione delle tasse universitarie alla copertura delle borse di studio per gli studenti (oggi nemmeno tre su quattro che hanno diritto la possono ottenere), dall'abbattimento dell'Irap sulle borse post-lauream alla defiscalizzazione per le imprese che assumono giovani. E, ancora. Dal finanziamento di nuovi posti di ricercatore all'eliminazione dei vincoli del turn over (che oggi effettivamente impediscono un rinnovamento della classe docente), dalla richiesta di un'effettiva autonomia delle università a, infine, un aumento del fondo di finanziamento al1'1% del Pil (oggi, per capirsi, è un paio di decimi in meno). Wow, direbbe l'anglofilo Monti. Messa così, chi potrebbe non essere d'accordo? La serie delle richieste costituisce quello che, in retorica, si chiama climax, cioè un andamento progressivo di crescente intensità e importanza. Il punto significativo, insomma, è di solito in fondo: e qui infatti ecco che spuntano cose carine come l'autonomia e i finanziamenti. Su cui si potrebbe fare qualche osservazione. Diciamo allora che secondo molti, e non solo chi scrive, il caos finanziario delle università italiane è cominciato proprio con l'autonomia, di per sé cosa sacrosanta ma non per come è stata intesa qui da noi: poter spendere con una certa libertà, senza per altro impiegare nemmeno un briciolo di tempo nel cercare fondi, è stata la mazzata sotto cui le finanze degli atenei si sono lentamente, e neanche tanto lentamente, piegate. La susseguente proliferazione delle sedi distaccate, sempre per motivi che spesso niente hanno a che vedere con il miglioramento della gestione ma piuttosto con ragioni clientelari, ha dato un'ulteriore sventola, fino al knock out di oggi. Nel frattempo, l'aumento a macchia d'olio del numero dei docenti, con chiamate ad personam di "idonei", divenuti tali in modi spesso ben poco scientifici e grazie alla mefitica legge Berlinguer di oltre dieci anni fa, ha gonfiato gli organici fino all'idropisia. A questo punto, i soldi sono finiti, ed è storia di questi giorni. Se fossimo in un Paese normale verrebbe da chiedersi di chi è la responsabilità. Delle profezie dei Maya? O non piuttosto dei consigli di amministrazione dei singoli atenei? In altre parole: se un'azienda va in bancarotta, è colpa del destino o di chi la amministra? E chi presiede i consigli di amministrazione, gli studenti? No: i rettori. Quelli stessi che ora scrivono letterine a Babbo Natale. Quei rettori che, al di là di ogni logica e decenza, sono attaccati alla loro poltrona, che dev'essere comoda pur con accanto la cassa vuota, nonostante tutto e tutti. Come è noto, e come spesso abbiamo scritto su queste colonne, una delle ragioni per cui l'Università italiana è un caso a parte in Europa sta anche nella prassi delle proroghe dei rettori scaduti e in scadenza (e spesso scadenti, a dirla tutta), ottenute con giochetti che qualcuno considera indecorosi. Tanto per dire, il professor Mancini, presidente della Crui, è rettore a Viterbo dalla fine del secolo scorso, e non è il solo. Questo, soprattutto, è quello che ci tiene lontani dall'Europa. ROBERTO FEDI _____________________________________________________ Il Sole24ore 20 feb. 2013 ALMALAUREA: LAUREA IN CALO DI ATTRATTIVITÀ Formazione. Il dossier Almalaurea LA MAPPA A un anno dal diploma un giovane su cinque sceglie di «snobbare» gli studi per trovare un lavoro: 925 euro il salario medio Claudio Tucci ROMA È un altro effetto tangibile della crisi. Tanti giovani che terminata la scuola si mettono alla ricerca di un lavoro per aiutare i bilanci familiari, piuttosto che proseguire all'università. E così a un anno dal diploma, ha evidenziato il nuovo rapporto 2013 sulla condizione occupazionale e formativa dei diplomati targato AlmaDiploma- AlmaLaurea, quasi un giovane su cinque (il 19%, per l'esattezza) sceglie di "snobbare" gli studi per inserirsi direttamente nel mercato del lavoro. Un altro 14,5% decide di mettersi alla ricerca attiva di un impiego, e c'è anche un ulteriore 5% che, per vari motivi, non cerca lavoro. Mentre poco più del 61% prosegue la propria formazione (ma di questi il 12% frequenta l'università lavorando). A un anno dal diploma - poi - risultano occupati 31 diplomati su 100: si sale al 41% in corrispondenza di chi esce dai professionali e al 36,5% dai tecnici. Si tocca il minimo tra i liceali (21%). Ma la disoccupazione coinvolge il 33% dei diplomati. E tra chi lavora a tempo pieno (senza essere contemporaneamente impegnato nello studio universitario) il guadagno medio, a un anno dal diploma, è di 925 euro mensili netti. A tre anni dal titolo, si sale a 1.084 euro (1.146 per i diplomati professionali); e a cinque anni dal diploma, la retribuzione arriva ad appena 1.169 euro. Una situazione «su cui riflettere», ha sottolineato il direttore di AlmaLaurea, Andrea Cammelli, che richiama l'attenzione del futuro Governo «a investire di più e meglio sui giovani. Anche in tempo di crisi - ha aggiunto Cammelli - si può tagliare su tutto. Ma non sul capitale umano». Del resto, dall'indagine - che ha riguardato un campione di oltre 48mila diplomati del 2011, 2009 e 2007 intervistati a uno, tre e cinque anni dal conseguimento del titolo - è emerso come, se da un lato sia elevata la domanda di lavoro da parte dei diplomati, dall'altro, le condizioni offerte sono molto spesso precarie. Tra i diplomati 2011 (impegnati esclusivamente in un'attività lavorativa), per esempio, la tipologia contrattuale più diffusa è il contratto a tempo determinato, e la quota di lavoro non stabile interessa il 31% degli occupati. All'opposto, il lavoro stabile riguarda 19 diplomati occupati su 100: 15 impegnati con contratti a tempo indeterminato, e la restante quota in attività autonome. Elevata è la percentuale di chi non ha un contratto regolare: il 13% dei diplomati (19% tra i liceali). A tre anni dal diploma, invece, tra gli occupati, è il contratto formativo a risultare il più diffuso (34,5% dei diplomati). Aumenta la quota di lavoratori stabili, che raggiunge il 32,5%; si riduce l'area del precariato (18%) e diminuiscono, pure, coloro che lavorano senza alcun contratto (4%). A cinque anni, il quadro generale migliora ulteriormente. Nel settore pubblico, lo sbocco professionale dei diplomati è molto basso (dichiarano di lavorarvi solo 6 su 100, a cinque anni dal diploma). Circa 3 occupati su quattro, a un anno dal titolo, sono inseriti in un'azienda del settore dei servizi (in particolare del commercio, 32%). Ben 18 su 100 lavorano invece nell'industria (il 6% nella meccanica). Mentre è decisamente contenuta la quota di chi lavora nell'agricoltura: sono circa il 3 per cento. © RIPRODUZIONE RISERVATA _____________________________________________________ Il Sole24ore 18 feb. 2013 OLTRE LA METÀ DEI GIOVANI ALL'ESTERO HA LA LAUREA Sergio Nava Un'età media tra i 25 e i 37 anni, provenienti prevalentemente dal Nord, laureati nel 56% dei casi: l'identikit del nuovo emigrante italiano, secondo i primi dati della ricerca indipendente del Centro AltreItalie sulle Migrazioni Italiane/Globus et Locus, sfata i luoghi comuni sulla fuga dei talenti dalla Penisola. L'indagine, realizzata in partnership con la trasmissione di Radio 24 "Giovani Talenti", analizza solamente gli espatri avvenuti a partire dal 2000 e si basa sulle risposte di 936 emigrati, in maggioranza under 40 e single (il 43%), all'estero - mediamente - da meno di 4 anni. La ricerca conferma e acuisce un trend rilevato anche dalle statistiche ufficiali: ben il 67% del campione è emigrato dal Nord, solo il 33% proviene dal Centrosud. Ma - rispetto agli ultimi dati Istat - la percentuale di laureati è doppia, al 56%. Il 13,3% ha un dottorato, l'8,1% un post-doc. Emigrazione giovane e qualificata, che cerca e trova lavoro qualificato: il 18% degli intervistati è dirigente o quadro, il 21% docente universitario, il 14,6% ricercatore. Dove trovano opportunità? In primis in Germania, seguita da Gran Bretagna, Francia e Usa. Da notare ottava e nona posizione di Cina e Brasile. I motivi dell'espatrio sono - per dirla con il direttore del Centro AltreItalie Maddalena Tirabassi - "un atto d'accusa" verso l'Italia: al di là della motivazione primaria della ricerca di un lavoro, risalta la fuga da un Paese "allo sfascio", "senza alcun tipo di prospettiva", "senza meritocrazia e opportunità", in cui non ci si identifica più. Motivi di studio e una migliore qualità della vita compaiono come secondo e terzo motivo di emigrazione. Le motivazioni che portano all'estero sono spesso le stesse che precludono un ritorno: solo il 18,7% è certo di rientrare in Italia. Ben il 41,3% lo esclude a priori, il 40% è incerto. sergio.nava@radio24.it _____________________________________________________ Italia Oggi 21 feb. 2013 BLANCO: L'UNIVERSITÀ IN MANO ALLE FAMIGLIE Stefano Blanco: anziché finanziamenti a pioggia diamo agli studenti i crediti di imposta Gli italiani sanno scegliere meglio delle commissioni DI GOFFREDO PISTELLI Soldi, soldi, soldi. i rettori italiani, a pochi giorni dal voto, battono cassa. Pier Luigi Bersani, il più indiziato a sedere a Palazzo Chigi, risponde pubblicamente di sì. La grande carestia dell'accademia italiana, cominciata con Giulio Tremonti nel 2008 (ma non è che il Prodi II fosse stato poi così munifico) sembrerebbe finita. Tutto bene dunque? Neanche per sogno. a Milano, dentro una fondazione universitaria, c'è chi mette in guardia dalle soluzioni pronta-cassa. Stefano Blanco, 40 anni, carriera di manager a le spalle (Caterpillar, Humanitas) è da cinque anni direttore generale della Fondazione collegi università milanesi, il progetto voluto dieci anni fa da Umberto Eco, Giancarlo Lombardi (che ancora la presiede), Carlo Scognamiglio, Gabriele Albertini, Michele Salvati, e altri, per creare una Normale all'ombra della Madonnina. Domanda. Direttore, si ritorna a investire sull'università. soddisfatto? Risposta. Se così sarà, non si può che essere lieti, i tagli, troppo spesso lineari di questi anni, e quindi incapaci di distinguere il grano dal loglio, come dice la parabola, hanno ridotto molti atenei allo stremo. Però attenzione... D. Come attenzione, non vorrà mica dire... R. Dico solo che occorre stare molto, molto attenti a come distribuire queste risorse, nel caso poi vengano trovate davvero. D. Che cosa teme? R. La distribuzione a pioggia. Il passato non può non essere di lezione. i finanziamenti irrorati all'ingrosso rischiano spesso di essere male indirizzati. D. Ci vuole la valutazione, vuole dire? R. Naturalmente e in molti lo dicono, per esempio lo stesso Bersani, anche se quando si parla dell'Anvur, mi pare che si preoccupi troppo di perimetrarne i poteri, più che di esaltarne il ruolo. La rivoluzione vera, autentica sarebbe un'altra. lasciar valutare gli amministrati, i cittadini. D. E come? R. Spostando queste risorse, in larga parte, sugli studenti e le loro famiglie, utilizzando magari lo strumento del credito di imposta. Può star sicuro che gli italiani sono in grado di scegliere e scegliere bene, indirizzandosi verso le università migliori, le facoltà efficienti, i corsi di laurea più efficaci come opportunità lavorative. Un meccanismo virtuoso, in grado di generare competizione positiva fra le università. D. Quindi smettiamo di valutare che abbiamo appena cominciato? R. Ma no! La valutazione deve diventare una cultura, non solo della ricerca scientifica, come è giusto che sia, ma anche degli output formativi. Che tipo di laureati mandiamo fuori, qual è il livello della nostra didattica? D. La riforma Gelmini... R. Guardi la riforma ha avuto dei pregi ma c'è stata un'invadenza regolativa che s'è concentrato solo su alcuni temi, come la governance, con uno zelo eccessivo. consiglio di amministrazione da aprire agli esterni, mandati del rettore. Sulla parte formativa invece c'è stato poco. D. Lei non sarà di quelli che vuol togliere l'autonomia alle università? R. Niente affatto. gli atenei devono sapere usare la loro autonomia ma occorre un ministero che torni a programmare. Ma è possibile che nessuno in Italia si prenda la briga di indirizzare la politica universitaria? Su quali lauree su cui vogliamo puntare nei prossimi anni? Vogliamo avere più ingegneri o scienziati della comunicazione? D. Ha voglia di scherzare? Nell'università italiana, uguale per legge da Trento a Palermo, vorrebbe chi desse un indirizzo? R. E questo è il punto. da anni gli atenei non sono tutti uguali. Bisognerebbe avere il coraggio di selezionarne i migliori, dar loro gli strumenti per fare ricerca ad alto livello, di competere internazionalmente. Agli altri di garantire un buon livello di formazione superiore, per alzare i tassi di laurea come chiede Europa2020. Ma è sbagliato che tutti abbiano lauree magistrali nei loro manifesti di studi o che ci siano dottorati di ricerca ovunque. D. Forse sarebbe il caso di abolire il valore legale della laurea... R. Credo che sia inevitabile, D. Una rivoluzione. Cosa manca ancora? R. Un test unico d'ingresso che consenta agli studenti migliori di scegliere. E la didattica in inglese, almeno nelle lauree magistrali. D. Bersani ha promesso 500 milioni per il diritto allo studio. R. Idea interessante. Però rivediamo un po' i criteri, sia perché siamo il Paese dell'evasione facile sia perché la Costituzione parla di "capaci e meritevoli, ancorché sprovvisti dei mezzi», i sostegni devono essere meritati. Sarebbe meglio integrare con un piano di prestiti d'onore come quelli suggeriti da Ichino... D. Che fa, si schiera politicamente? R. No, parlo di Andrea Ichino, il fratello, che insegna a Bologna. Con l'economista Daniele Terlizzese propone un prestito che lo studente restituirà dopo la laurea, nel tempo, se riesce però a conseguire un certo reddito lavorativo. Fatto che responsabilizza lui ma anche lo Stato a creare condizioni per l'occupabilità. _____________________________________________________ Corriere della Sera 22 feb. 2013 STRANIERI IN ATENEO? SOLO IL 4% Gli studenti internazionali snobbano l'Italia, con qualche eccezione Il giovane si è appena brillantemente laureato in ingegneria e, fortuna sua, le proposte di impiego non mancano. Certo non eccezionali, tanto che la migliore è quella di una multinazionale che gli offre sei mesi di stage a 1.000 euro al mese, con, forse, l'assunzione alla fine. «Non dico i nomi dei protagonisti per evitare polemiche, ma l'episodio è appena accaduto», spiega Gianluca Spina, presidente del Mip, la business school del Politecnico di Milano. Sì, perché la vicenda ha una coda imprevedibile e deprimente per il sistema Italia. Quello stesso giovane, infatti, va sul sito francese della medesima multinazionale, si candida e, sorpresa, viene selezionato per un impiego con sede a Parigi: stipendio 2.400 euro e assunzione a tempo indeterminato da subito. «Voi cosa avreste fatto? — domanda sconfortato Spina — Ovviamente il giovane è volato a Parigi. Ma se le cose continuano così, l'Italia sarà messa sempre peggio». Ciò che non dovrebbe continuare è l'emigrazione (senza ritorno) dei giovani talenti italiani causata da un mercato del lavoro che non offre occasioni sufficienti di carriera. Infatti secondo l'Aire, l'Anagrafe italiani residenti all'estero, nell'ultima decade ogni anno sono espatriati 30 mila persone d'età compresa tra 20 e 40 anni. Il dato però è fortemente sottostimato e va almeno raddoppiato poiché l'iscrizione all'Aire non sempre vien fatta e, comunque, spesso avviene dopo anni di permanenza all'estero. «Specularmente poi — continua Spina — il nostro sistema universitario attrae poco gli studenti stranieri, con un bilancio molto negativo tra entrate e uscite di talenti». Secondo l'Istat, infatti, nell'anno accademico 2011-2012 la percentuale di studenti stranieri immatricolati nelle università italiane è stata del 4,1%. Molto poco, salvo le eccellenze di alcuni atenei, tra i quali lo stesso Politecnico di Milano che in quest'anno accademico conta 3.509 studenti stranieri (il 19% del totale) frequentanti la laurea magistrale. Il problema dell'espatrio si pone non solo per i giovanissimi ma anche per i talenti manageriali italiani più maturi, i quali, secondo il network internazionale di executive search Amrop, nel 2012 erano in 5 mila a lavorare all'estero. Un problema che spinge le multinazionali presenti in Italia a inventare strategie per attirare, motivare e trattenere i talenti. È il caso di P&G, Procter & Gamble (che martedì 26 proprio con il Mip organizza un convegno sull'argomento). Filippo Passerini, che è Group president global business services e Cio di P&G e ha un'esperienza estera di 25 anni tutta interna alla multinazionale americana, lancia un messaggio alle aziende: «È molto importante creare ambienti con un elevato livello di meritocrazia che diano un messaggio chiaro: chi si impegna, chi fa bene, verrà riconosciuto e avrà occasioni di carriera. Altrimenti i giovani italiani continueranno a fuggire da una realtà in cui non si riconoscono più». _____________________________________________________ Il Giornale 22 feb. 2013 VUOI ISCRIVERTI ALL'UNIVERSITÀ? PRIMA DEI TEST DEVI FARE I PRE-TEST Per gli studenti che vogliono iscriversi alle facoltà a numero programmato, oltre al tradizionale test d'accesso, anticipato quest' anno a luglio, ci sarà una verifica preliminare attitudinale (non vincolante), da affrontare a primavera, e un simulatore per esercitarsi. Lo ha annunciato il ministro dell'Istruzione, Francesco Profumo, assicurando pure, sul cotè scuola, che non sarà necessaria nessuna proroga del termine perle iscrizioni al prossimo anno: «questo Paese deve imparare che se ci sono regole vanno osservate, organizzandosi per tempo». L'occasione è stata la presentazione del nuovo portale legalità su Ansa. it Soffermandosi sulla questione dei test, il ministro ha assicurato che i quesiti di luglio «valuteranno le conoscenze già acquisite». Per medicina verteranno su cinque argomenti: cultura generale, matematica, fisica, chimica e biologia. «E le domande - ha spiegato - terranno conto dei programmi scolastici studiati alle Superiori». Lo studio per la Maturità coinciderebbe dunque con quello per sostenere il test. A primavera poi gli studenti che hanno deciso di iscriversi a una facoltà a numero chiuso potranno cimentarsi con un test preliminare di attitudine, non vincolante. Il ministro ha difeso la scelta di anticipare di un paio di mesi i test tradizionalmente in calendario a settembre illustrandone i vantaggi. _____________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 19 feb. 2013 RICERCATORI SENZA FUTURO Pubblichiamo la lettera aperta al Presidente della Repubblica inviata dal Comitato ricercatori a tempo determinato delle Università italiane: "Chiediamo diritto al futuro" Caro Presidente, a scriverLe questa lettera è chi rappresenta, o meglio dovrebbe rappresentare, il futuro dell'Università italiana. Siamo "giovani ricercatori" che dopo aver conseguito lauree, dottorati di ricerca e specializzazioni post-doc, con coraggio e speranza studiano e lavorano da anni in seno all'Università italiana contribuendo a portare avanti la ricerca e la didattica dei nostri atenei. Le pur numerose eccellenze del mondo accademico italiano non devono mascherare lo stato di grave difficoltà in cui versa l'Università, con particolare riferimento alla drammatica riduzione dei fondi ministeriali stanziati e la conseguente battuta di arresto del ricambio generazionale negli atenei. Lo scarso investimento nel sistema universitario (1 per cento del Pil) pone indecorosamente il nostro Paese al trentaduesimo posto tra i 37 paesi dell'area OCSE. IL FONDO di finanziamento statale all'Università ha subìto una contrazione tale da risultare inferiore all'ammontare delle spese fisse per l'anno 2013. Contemporaneamente il numero dei docenti universitari si è drasticamente ridotto del 22 per cento negli ultimi 6 anni. Sebbene nel nostro Paese si parli della "questione giovanile" come di una priorità nazionale, tutto sembra andare in direzione opposta e il mondo universitario in questo contesto non è da meno. La recente riforma universitaria ha eliminato la figura del ricercatore stabile e introdotto quella del ricercatore a tempo determinato, penalizzando in blocco una generazione di studiosi che viene confinata in uno stato di precariato troppo spesso senza alcuna prospettiva. Questa condizione è documentata da una spaventosa riduzione delle nuove assunzioni nel triennio 2009-2012, che tocca punte dell'80 per cento nei maggiori atenei italiani, con la concomitante creazione, in soli 2 anni dall'entrata in vigore della riforma Gelmini, di circa 2.200 posti da Ricercatore a Tempo Determinato senza tenure track. Tali posizioni, attualmente finanziate quasi esclusivamente da fondi non ministeriali, lasciano di fatto i ricercatori senza la possibilità di un serio percorso accademico, in uno stato non regolamentato di precarietà e subalternanza, in pratica in una condizione di lavoro e di vita senza prospettive. Gli effetti di questo sconvolgimento sono un ulteriore impoverimento della qualità della didattica e della ricerca, l'aumento della "fuga dei cervelli" e lo svuotamento degli atenei dai giovani ricercatori di tutte le discipline. Siamo convinti che questa situazione danneggi gravemente l'intero sistema universitario, mutilandolo della sua funzione: produrre cultura, progresso e benessere sociale. NOI RICERCATORI a Tempo Determinato scriviamo a Lei che ha sempre mostrato enorme sensibilità rispetto a questi temi, fiduciosi che, nonostante sia quasi al termine del Suo mandato, vorrà farsi garante, nei confronti di chi guiderà il Paese nell'immediato futuro, dell'Istituzione Universitaria italiana e del futuro di un'intera generazione di ricercatori. Se opportuno, saremmo lieti di poterLa incontrare per rappresentare personalmente la specifica questione che ci riguarda. Siamo mossi dalla convinzione che un Paese che non investe nella cultura e nella ricerca è un Paese destinato a subire profonde ferite in ambito sociale ed economico. Un Paese che non protegge la cultura non coltiva la libertà. Seguono le firme di 262 Ricercatori a tempo determinato Italiani _____________________________________________________ Corriere della Sera 20 feb. 2013 MILANO: RICERCATORE BOCCIATO PER UN'EMAIL NEGATA di Gian Antonio Stella Q ualcuno avverta la Statale di Milano: alla fine del 1971, mentre George Harrison e Ravi Shankar organizzavano un concerto per il Bangladesh, Neruda vinceva il Nobel e Leone saliva al Quirinale, in America inventarono le email. La prima fu spedita a un amico, con tanto di chiocciolina, da Raymond «Ray» Tomlinson. Voi direte: lo sanno bene alla Statale che esistono le email! Sarà… Ma a leggere le disavventure accademiche di Pierluigi Gatti il dubbio viene naturale: vuoi vedere che non sono stati informati della novità del web? Gatti, laureato a Milano in letteratura latina con 110 e lode, a 26 anni vince un posto da dottorando in filologia classica alla Humboldt- Universität di Berlino, a 29 ha il suo primo incarico di docenza presso lo stesso ateneo al 27º posto tra le «Humanities» del mondo e a 33, dopo avere accumulato altra esperienza alla «Ben Gurion» in Israele, riceve l'offerta di insegnare alla Goethe-Universität di Francoforte. Insomma, una carriera brillante, tutta all'estero. Ma si sa com'è, casa dolce casa… Così, a un certo punto, prima di andarsene a Francoforte, Gatti cerca di tornare, concorrendo per un assegno di ricerca alla Statale. Sono in due. L'altro «ha un dottorato italiano, qualche pubblicazione in italiano sulla rivista interna dell'Istituto di filologia, zero esperienze didattiche, zero esperienze all'estero, zero conferenze, zero borse di studio». E come va a finire? Indovinato: vince quello. Sconcertato, il giovane trombato chiede di veder le carte e poi scrive al rettore. Denuncia che il vincitore (il nome non importa, conta la storia) «non ha presentato alcun progetto scritto. Dov'è la ricerca preliminare? Come è possibile determinare la validità di un progetto di ricerca? È prassi consolidata presso qualsiasi università, fondazione o ente di ricerca offrire alla commissione un'exposée scritta delle ricerche che si intendono condurre». Di più: «La commissione non ha steso per iscritto i criteri della determinazione del punteggio. Quali sono?». Dopo di che elenca varie contraddizioni nell'assegnazione dei punti e denuncia, sulla base del curriculum del vincitore, come questi sia allievo della presidente di commissione e abbia lavorato con un'altra commissaria e abbia recensito lavori della stessa presidente e della commissaria: «Quale studioso farebbe recensire le proprie pubblicazioni a un allievo?». Le obiezioni sono evidentemente sensate. Al punto che l'università procede all'annullamento della procedura di selezione. Annullamento che Gatti neppure impugna: «Alla Goethe mi pagano quasi il doppio, non ho fatto ricorso». L'aspetto più irresistibile, però, è la motivazione con cui è stato assegnato lo «zero» alle pubblicazioni dello studioso oggi a Francoforte: «Il punteggio 0 è attribuito perché non risultano allegate alla domanda le pubblicazioni, benché il candidato dichiari di averle allegate in formato elettronico su cd». Insomma, il cd era misteriosamente sparito. Va da sé che il bocciato, scadendo i termini, s'era offerto di spedire tutto di nuovo via email. In fondo siamo nel terzo millennio e nel resto del mondo funziona così. Ah no, no, non si può… _____________________________________________________ Corriere della Sera 22 feb. 2013 UNIVERSITÀ STATALE DI MILANO: QUEL CONCORSO In merito alla rubrica «Tuttifrutti» di Gian Antonio Stella (Corriere, 20 febbraio), vorrei commentare brevemente l'episodio cui fa riferimento. Episodio che, per la verità, non era a mia conoscenza; sono Rettore della Statale dal 1 novembre 2012, e l'atto di annullamento della procedura che concludeva il complesso iter ricordato da Stella, è stato firmato dal mio predecessore il 31 ottobre dello scorso anno. Ho provato a ricostruire la vicenda. Volevo rassicurare, prima di tutto, sulla nostra attitudine a utilizzare i moderni strumenti di comunicazione. Si pensi che il colloquio del dottor Gatti è avvenuto via Skype; e dall'esame delle numerose mail scambiate tra gli uffici e il candidato, posso assicurare che sono stati i primi, in un paio di occasioni, a ricordare al Gatti che la mai( di comunicazione della partecipazione al bando, da lui inviata ai nostri indirizzi di posta certificata — occorre ché sia posta certificata, così è richiesto — era stata respinta, evenienza di cui lo stesso proponente non si era accorto. Su nostro sollecito, l'invio della documentazione è avvenuto per raccomandata, entro i termini stabiliti. Ma non scrivo per rispondere a questi aspetti marginali, anche se devo dire che lo stile giornalistico di Stella produce effetti sicuri, e forse ingenerosi per l'Ateneo. E nemmeno per sollevarmi da responsabilità. I due aspetti sostanziali riguardano la motivazione dell'attribuzione del punteggio O alle pubblicazioni, che considero ingiustificata proceduralmente e nel merito; e, più ancora, la valutazione comparativa dei curricula dei due candidati. Le differenze tra i due curricula sono evidenti, e lo sono state anche per la commissione; a tal punto che solo l'attribuzione del punteggio nullo alle pubblicazioni ha spostato l'esito della valutazione. L'atto di annullamento ha infine introdotto un elemento che avrebbe dovuto portare all'emissione di un nuovo bando, identico al primo; se l'errore è nostro, e siamo noi ad ammetterlo, nostra la responsabilità di rimediarvi. Al di là di questo episodio, resta la necessità di insistere nel lavoro di miglioramento dei meccanismi di valutazione. La mia personale convinzione è che questo obiettivo si possa raggiungere certo recuperando il senso di un interesse generale, non corporativo; ma, nell'attesa della desiderata palingenesi, associando agli esiti delle nostre scelte un premio, o una perdita. Non è semplice, ma nemmeno impossibile. Ci proverei, anche, spero, con il vostro aiuto. Gianiuca Vago Rettore Università degli Studi di Milano _____________________________________________________ Il Tempo 24 feb. 2013 IL CROLLO DEL FALSO MITO DI STUDI «GRATIS PER TUTTI» In «Facoltà di scelta» Andrea !chino e Daniele Terlizzese raccontano il mondo dell'università Veronica Meddi La laurea ha un valore legale, la sfida qui è trovare, anche e soprattutto, un (valore reale. Non è questa la solita guida che aiuta lo studente alla scelta della facoltà potenzialmente giusta, è piuttosto una matematica riflessione sulla facoltà di scegliere giocando con il futuro proprio e quello degli altri. Andrea Ichino e Daniele Terlizzese in «Facoltà di scelta» (Rizzoli, pag. 176 euro 14) propongono un ripensamento del sistema universitario, per certi aspetti provocatorio e per cert' altri sensato, d'altronde «ogni valutazione a questo mondo è relativa». Con la cultura si mangia, dunque si domandano il perché tutti pagano per dei servizi che saranno usufruiti solo da pochi. I poveri pagano per un futuro migliore dei figli dei ricchi. L' università italiana non funziona, occupa un posto bassissimo nelle classifiche mondiali. Se poi Robin Hood è ormai al contrario e pure un po' sprecone, tanto vale ripensarci su e cambiare strategia di gioco. La strada giusta è credere nei giovani e metterli in condizione di esercitare una scelta consapevole attraverso l'introduzione di prestiti, affinché possano studiare nell'ateneo che ritengono migliore. In questo modo le risorse si riverserebbero sugli atenei meritevoli, e la pressione concorrenziale aumenterebbe la qualità dell'intero sistema. Nuovi spazi di autonomia per scegliere docenti e programmi, creare corsi di eccellenza e attrarre i migliori; maggiori risorse, raccolte con rette universitarie più alte per chi le può pagare; possibilità per gli studenti di finanziarsi attraverso un sistema di prestiti da rimborsare, con meno rischio, solo dopo aver trovato un lavoro e in proporzione ai redditi futuri. Ma la facoltà di scelta, uscendo da ogni possibile statistica, è qualcosa che spaventa lo studente. La scelta migliore è quella che nasce dentro un impulso motivazionale o quella più comoda che garantisce un futuro lavorativo? Si studia per vocazione o per un guadagno? E soprattutto, queste domande dimostrato che un laureato guadagna 100 ogni tanto e ogni tanto 0. Il diplomato guadagna 50 sempre. Pericolosa è la statistica e con la scusa di parlare del noto pollo Trilussa lo dimostrò. Il falso mito dello studio «gratis per tutti» finisce qui e ha inizio una nuova idea. Per statistica, nella novità, il rischio o un possibile vaccino. La speranza è che sia efficace. _____________________________________________________ Il Manifesto 22 feb. 2013 LA SFIDA DI PROFUMO: DECRETO DOPO LE ELEZIONI UNIVERSITÀ. Firmerà la riforma delle borse di studio Il decreto sul diritto allo studio si farà. Come quello che anticipa i test di accesso alle facoltà a numero chiuso a luglio del 2013, e a primavera nel 2014. E l'ultima sfida del ministro dell'Istruzione Francesco Profumo agli studenti, e ai presidenti delle regioni, a poche ore dalla fine della legislatura. Nel lungo elenco di progetti per la scuola del futuro fatto ieri dall'inquilino uscente di Viale Trastevere, il decreto sul diritto allo studio è quello più importante. Il provvedimento contro il quale si sono mobilitali gli studenti in tutto il paese dovrebbe essere approvato, nella conferenza Stato-Regioni del 28 febbraio. «L'obiettivo è fare un contratto con gli studenti - ha detto Profumo - Se qualcuno vuole far arenare questo provvedimento significa che non crede al diritto allo studio. Io questa responsabilità non me la prendo». Il portavoce nazionale degli studenti di Link, Luca Spadon, è incredulo: «Il ministro di un governo dimissionario da un mese e mezzo, sostenuto da una maggioranza che non esiste più, firma un decreto di questa portata il giorno tre 'giorni dopo le elezioni politiche? Ci chiediamo con quale legittimità possa farlo. Mettiamola così: se venisse confermata questa intenzione ci adopereremo prima e dopo il 28, per bloccarlo». Il decreto stabilisce tre scaglioni Isee (15m.ila-17rnila curo; 17001-19mila euro; 19.001-21mila euro) per accedere alle borse di studio. Per gli studenti è un modo per discriminare i fuorisede. «Questo ministro non ha nessun titolo per firmare il decreto sulle borse di studio- sostiene Michele Orezzi dell'Udu - Quello sui test è formalmente approvato, spetterà al prossimo governo capire che è una follia anticipare le prove a una settimana dalla fine dell'esame di maturità. Sul secondo, quello sulle borse di studio, Profumo può agitarsi quanto vuole, ma avrà bisogno della firma del Ministro dell'Economia Grilli, oltre che del parere degli studenti del Cnsu e della conferenza Stato-Regioni». Quello del ministro sembra tuttavia un aut-aut. «Se Profumo vuole firmare con un governo dimissionario da mesi, dopo le elezioni politiche, probabilmente ha perso il senno o ha perso per strada la definizione di democrazia. Per un intervento di questa portata c'è bisogno del consenso di tutti perchè incide sulla vita degli studenti. Anticipando i test di ingresso all'università Profumo ha dimostrato che non gliene importa granché. Cercheremo di ostacolano in tutti i modi possibili». ro. ci. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 24 feb. 2013 CAMPUS UNIVERSITARIO VERSO L’AVVIO DEI CANTIERI La gara è in corso, finito l’esame delle offerte si procede per l’ok ai lavori del primo lotto da 240 posti letto, 800 posteggi e le fondazioni degli altri edifici CAGLIARI Campus universitario di viale La Plaia: fatto il bando, adessoè il momento della valutazione delle offerte, entro marzo la procedura dovrebbe fare un ulteriore passo avanti e quindi correre verso l’assegnazione dei lavori e l’apertura dei cantieri. L’opera, gestita dall’Ersu nell’ambito della programmazionea favore della residenzialità universitaria, è molto attesa perché i fuorisede in cerca d’alloggio nell’ateneo cagliaritano sono oltre un terzo della popolazione studentesca. La richiesta di alloggi è molto pressante e anche dal rettorato, in diverse occasioni pubbliche, sono arrivati inviti e richieste per moltiplicare le opportunità di alloggio degli studenti fuorisede. Il campus universitario nasce da un accordo lungamente inseguito dal Comune e dall’Ersu, per anni l’opera è rimasta bloccata. Come è noto in via La Plaia verrà costruito un primo lotto di edifici, cui ne seguirà un secondo per arrivare ai 500 posti dell’accordo di programma rimodellato dopo anni di braccio di ferro sul tipo di progetto e sul numero di posti letto. Il campus di viale La Plaia era finito in un’intesa tra la Regione di Renato Soru e il comune di Emilio Floris, disconosciuto dalla stessa maggioranza di Floris che aveva espresso dissenso contro tutte le operazioni immobiliari contenute nell’accordo. Alla fine, mutato il quadro politico e quindi anche la rappresentatività in ciascuno degli enti interessati, ognuno ha fatto il passo indietro necessario e così gli studenti iscritti all’ateneo cagliaritano avranno un’opera non rinviabile. Durante la costruzione del primo lotto si chiuderà il progetto definitivo per il secondo. Il primo lotto comprende la costruzione di 240 posti letto, quella di 800 parcheggi ma anche la realizzazione delle fondamenta degli edifici per gli altri 260 posti letto progettati e per i servizi che dovranno arricchire il campus. Insomma, si procede come stabilito, le sorprese sono finite, i finanziamenti certi e già in cassa, la buona volontà rispetto alla riuscita del progetto è ufficiale e conclamata. Naturalmente, i problemi di residenzialità degli studenti non si esauriscono comunque con il campus di viale La Plaia e quindi il Comune, che ha dichiarato in varie occasioni di voler favorire la presenza degli studenti in città, sta studiando possibilità di accordi con i sindacati degli inquilini. Dall’amministrazione universitaria è arrivata anche una proposta operativa: sconti sull’Imu ai proprietari di case sfitte (a Cagliari moltissime) che mettano a disposizione degli studenti gli appartamenti. E’ un’idea immediatamente realizzabile che non mette in discussione diritti e doveri, ma è un’azione positiva a favore degli studenti. _____________________________________________________ Repubblica 22 feb. 2013 NESSUN SITO È INACCESSIBILE BASTA TROVARE IL PUNTO DEBOLE Raoul Chiesa, hacker pentito: "Con un pc e una connessione si entra ovunque" " SILVIA BERNASCONI on esistono sistemi inaccessibili. Un hacker entra ovunque, Casa Bianca compresa. Nessuno può garantire sicurezza totale contro gli attacchi informatici, si può solo abbassare il livello di rischio». Parola di Raoul "Nobody" Chiesa, uno dei primi hacker italiani, ora consulente per la sicurezza informatica e advisor di Unicri, agenzia Onu con base a Torino che si occupa di criminalità e giustizia. Raoul ha iniziato a 13 armi, nel 1986, per nove anni ha vissuto da pirata informatico fino a quando non è stato arrestato per la violazione, tra le altre cose, del sito della Banca d'Italia nel 1995. Da allora è passato dalla parte di "buoni" e si definisce un ethicalhacker. Si possono violare le Reti più protette del mondo? «Si può entrare ovunque. Anzi, oggi è molto più facile rispetto agli anni Ottanta. Lo definisco il prét-à-porter dell'hacking: vai online e trovi tutto». Cosa serve per iniziare? «Bastano un computer e una connessione a Intemet. In Rete trovi ciò di cui hai bisogno. E sfruttando i social network puoi raccogliere informazioni sull'obiettivo, azienda persona che sia, e utilizzarle per individuare una password o per spacciarti per qualcuno di cui si fida e mandargli un trojan, un troiano, o un malware, chiamiamoli virus per semplicità. Se il bersaglio abbocca, parte il contagio e l'hacker conquista un punto di accesso interno al sistema. Il bersaglio tipo è un dipendente tonto o poco accorto». Come funziona? «L'hacker individua una persona interna a un'azienda, o a un'istituzione governativa, raccoglie informazioni su Facebook o Twitter. Poi gli invia un file con un allegato o un link spacciandosi per collega o amico. Se il dipendente apre l'allegato, il gioco è fatto. Da qualche anno gli attacchi-tipo sono così, utilizzano la vulnerabilità delle persone. Ce ne fu uno clamoroso alla Rsa, società specializzata in chiavi usb: la mail con il virus inviata ai dipendenti si chiamava "stipendi". E qualcuno la aprì». Basta così poco? «Con un accesso non autorizzato al sistema iniziano il contagio e il controllo da remoto del pc "vittima". A quel punto l'hacker ha un piede in azienda e dall'esterno può operare a suo piacimento. Le difese interne sono solitamente più blande di quelle esterne». Come si fa a entrare in possesso di un virus? «I software più semplici si trovano gratis su Internet. Chi ha soldi può acquistare sul mercato nero uno "zero day" ("giorno zero", il momento in cui viene scoperta una falla e inizia l'attacco), una sorta di passepartout per mettere a segno l'attacco». Quanto costa uno "zero day"? «Tra 5mila e 200mila dollari, dipende. Ce ne sono di pubblici, cioè in circolazione da molto, o di privati, i cosiddetti new and fresh, nuovi, i più temibili. Ci sono anche i broker di "zero day". I cyber- criminali li comprano per attaccare. I governi, i principali acquirenti, come antidoto per creare un vaccino al virus. Oppure come arma elettronica per attaccare altri Paesi, quello che pare stia accadendo tra Cina e America». Perché si diventa hacker? «Negli anni Ottanta per sfida e curiosità, era un bel gioco, nei Novanta per gloria. Io ho iniziato a 13 anni, adesso si comincia a 9. Oggi ci sono il cyber- criminale che lo fa per frode e soldi, l'hacker etico che innalza il livello di sicurezza del sistema e l' hactivist, l'hacker attivista confini ideologici, politici o religiosi. Il cyber- crime ha un fatturato annuo intorno ai 12 miliardi di dollari, un business che si autoalimenta». Cosa si può fare per difendersi? «Non aprire mai allegati o link, anche se sembra di conoscere chi li invia il buon senso è la prima difesa». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 24 feb. 2013 LA CYBER GUERRA DA SALOTTO Tutti temono attacchi alle grandi infrastrutture ma i veri rischi sono le violazioni contro i singoli: furti di identità digitale e violazioni dei pc Solo per le aziende italiane sono stati calcolati danni fino a venti miliardi di euro di Antonio Dini Quindici, forse venti miliardi di euro tra danni diretti e indiretti alle aziende italiane. Eventi online dannosi in crescita del 254% tra il 2011 e il 2012, cybercrimine che esplode segnando un +372%. Il dato più preoccupante: attacchi per furto di identità digitale e altri reati in crescita nei social network del 900% anno su anno. Il nuovo Rapporto sulla sicurezza Ict 2013 dell'associazione italiana degli esperti di sicurezza informatica Clusit che verrà pubblicato il prossimo 12 marzo e che Nòva24 è in grado di anticipare è un campo di battaglia in cui si contano morti e feriti. «Lo stato della sicurezza informatica è molto grave – spiega Paolo Giudice, segretario generale di Clusit Italia – perché ogni giorno vediamo accadere cose terribili, centinaia di migliaia di attacchi al giorno con migliaia di "successi" per i cyber-criminali, e non ci sono mezzi, persone e strutture per contrastarli in tempo reale. La finestra media tra quando una azienda viene attaccata e quando se ne accorge è di 18 mesi. E questo secondo i dati in nostro possesso, perché molte aziende non denunciano neanche le violazioni informatiche e, soprattutto, non c'è una legge che li obblighi a farlo». Negli Stati Uniti il Presidente Obama ha puntato l'indice sul problema. Nel discorso sullo stato dell'Unione ha dichiarato che le infrastrutture critiche degli Usa sono bersagli a rischio, e pochi giorni prima aveva firmato un ordine esecutivo per indicare alla aziende la via delle contromisure, investimenti costosi che il presidente non ha voluto però rendere obbligatori. Pochi giorni dopo, la società di cybersicurezza Mandiant ha pubblicato un rapporto super dettagliato, individuando nella Cina il mandante della maggior parte dei cyber-attacchi e arrivando a indicare la famigerata unità 61398, una palazzina nei sobborghi di Shanghai di proprietà dell'Esercito popolare di liberazione, come fonte di molti di questi. «Un grande errore – dice Andrea Zapparoli Manzoni, membro del direttivo del Clusit e uno degli autori del rapporto – perché si crea tensione tra i due paesi senza poter motivare con sicurezza nessuna delle dichiarazioni. Va detta un'altra cosa: il rischio di attacchi catastrofici alle infrastrutture è reale ma improbabile. È molto più pericoloso il rischio di attacchi alle singole persone: furti di identità digitale, violazione dei Pc con virus e altro. Oggi per gli italiani connessi è più probabile venir depredati online che non borseggiati in strada o che gli venga rapinata la casa». La minaccia della tecnologia è fredda. Non la calcoliamo. I danni che sta producendo sono enormi, però, e i rischi giganteschi. Ma non ci sono i John le Carré e i Graham Greene che li sappiano raccontare, romanzandoli. C'è la grande trama dello spionaggio internazionale, del cyber-warfare, che potrebbe essere la mano militare digitale del prossimo conflitto: i virus all'attacco delle centrifughe nucleari iraniane del 2010 sono l'esempio. C'è anche lo spionaggio industriale, che mette a terra migliaia di aziende in tutto il mondo: secondo il rapporto del Clusit le Nazioni unite hanno calcolato in un triliardo di dollari i danni mondiali alla proprietà intellettuale. Il centro del rischio sono i singoli però. «Abbiamo 20 milioni di smartphone in Italia, il 98% privo di qualsiasi genere di protezione – dice Zapparoli Manzoni –. Tablet, Pc, smartphone: è tutto a rischio perché è stato progettato senza tener conto della tecnologia. La nostra società sta guidando una Ferrari senza freni e senza airbag: non basta aggiungere la sicurezza a posteriori, deve essere inserita nel progetto. Altrimenti è facilmente eludibile: la maggior parte delle minacce digitali oggi è in grado di evitare le difese dei più comuni antivirus e firewall». Come mai? Perché scopriamo che la tecnologia è così fragile? In realtà la risposta è semplice: la tecnologia moderna non è stata progettata per essere sicura perché è stata pensata da una serie di geniali figli dei fiori nelle università americane degli anni Sessanta. La loro visione di internet, del software, dei Pc e poi degli apparecchi mobili è basata su una mentalità libertaria e senza malizia, che non si preoccupava di gestione del rischio e aveva una fiducia di fondo nelle relazioni umane. Una visione utopica che si scontra con una realtà moderna e al tempo stesso molto antica: come diceva Thomas Hobbes, homo homini lupus. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 24 feb. 2013 GLI INVISIBILI CONFINI DEGLI SPAZI DIGITALI La rete è un formidabile luogo di scambio per i giovani ma non ne vanno sottovalutate le limitazioni espressive Online non si esplicitano segni non verbali essenziali nelle relazioni interculturali Carla Chamberlin-Quinlisk Nel campo dell'educazione interculturale i media digitali rappresentano al tempo stesso un'opportunità e una sfida. La rete offre la possibilità di entrare in contatto con culture, linguaggi, popoli e idee nuove, come mai prima d'ora. Gli studenti possono confrontarsi con cultura popolare e lingua vera di ogni parte del mondo. Possono essere parte di comunità internazionali e mettere in moto un cambiamento sociale. Possono avere scambi online con studenti dei 4 angoli del pianeta. Nel loro libro Language and Learning in the Digital Age, Gee e Hayes esaltano questi benefici e sostengono che gli effetti dei media digitali non stanno nella forma in sé e per sé, ma nelle persone che li usano. Per altro verso, studi nel campo dell'ecologia dei media rievocano la famosa citazione di Marshall McLuhan, «il mezzo è il messaggio». Da decenni gli esperti di media si interrogano sull'influenza dei mezzi di comunicazione di massa sul nostro contesto sociale ed educativo. Alcuni, come Douglas Rushkoff, sono estremamente preoccupati dalla prospettiva che i media digitali possano controllare e determinare la nostra realtà. Come educatori interculturali dobbiamo cercare di essere consapevoli tanto dei meriti delle esperienze di apprendimento interculturale negli spazi digitali, quanto dei loro difetti. Il mio interesse si focalizza su due questioni in particolare: la qualità dei contenuti presentati sul web e le limitazioni comunicative dei formati digitali. La prima cosa da dire è che quando i media di intrattenimento e gli organi di informazione parlano di persone e culture spesso lo fanno in modo limitato e basandosi su stereotipi. Ad esempio Eric Johnson, nei suoi studi sulla copertura da parte dei mezzi d'informazione delle politiche scolastiche adottate nello Stato dell'Arizona, ha riscontrato un diffuso uso della metafora della "guerra" per svilire l'istruzione bilingue, cioè quei programmi pensati per offrire agli immigrati l'occasione di imparare l'inglese nelle scuole. Nelle ricerche che ho condotto personalmente e insieme a una parte dei miei studenti, abbiamo riscontrato l'uso di metafore simili su organi di informazione online e cartacei. Una di queste è «gli immigrati come sabotatori», trasmessa da titoli come «L'insegnamento dell'inglese mette a dura prova i bilanci delle scuole» e «Il tuo lavoro se lo porterà via un immigrato?». La metafora continua in servizi che descrivono i corsi di lingua inglese come un "fardello" per le nostre scuole, che devono «sopportare i costi dell'istruzione di studenti immigrati». Articoli del genere alimentano un clima sociale di minaccia e sospetto, che rischia di andare a discapito dell'istruzione interculturale. In secondo luogo, al pari di qualsiasi altra modalità di comunicazione, i formati digitali hanno dei limiti che determinano le interazioni. Innanzitutto il fatto che in una comunicazione fra adulti quasi il 70% del significato viene veicolato attraverso forme non verbali. La comunicazione digitale non mette a disposizione gli stessi segnali contestuali e non verbali che usiamo quando dobbiamo misurarci con le interazioni e le relazioni interculturali. Non sempre quindi è appropriato o efficace sostituire le interazioni faccia a faccia con la comodità delle riunioni virtuali. Per esempio chiedo ai miei studenti che vogliono diventare insegnanti di andare sui siti delle loro ex scuole per capire se un genitore immigrato da poco, con una limitata padronanza dell'inglese, possa essere in grado di districarsi fra le informazioni importanti sulla scuola e sull'educazione dei suoi figli. Il loro giudizio è che attraverso la rete è difficile, se non proprio impossibile, riuscire a veicolare informazioni in modo efficace per le famiglie di immigrati. È importante mettere i nostri studenti, a prescindere se diventeranno insegnanti, medici o dirigenti d'impresa, nelle condizioni di scoprire per conto loro i pregi e i difetti dei media digitali nel campo dell'apprendimento interculturale. A questo scopo ho elaborato un modello di «analisi critica dei media», che affronta la questione del l'apprendimento interculturale e insieme il ruolo dei media nelle nostre vite. Per prima cosa gli studenti devono analizzare in modo oggettivo la forma, le immagini e la retorica di un testo, per capire come vengono rappresentate le persone, le culture, gli eventi o le idee. Quindi esaminano queste rappresentazioni in rapporto agli atteggiamenti e alle relazioni sociali. Per esempio, alcuni studenti hanno analizzato l'uso degli accenti nei film per il grande pubblico e nella programmazione televisiva, e hanno riscontrato che i personaggi con accenti "stranieri" spesso sono collegati a comportamenti devianti o a uno status inferiore. In un altro caso hanno analizzato il modo in cui i media locali hanno raccontato il caso di un famoso imprenditore che aveva messo un cartello sulla vetrina del suo ristorante per dire che i clienti devono «parlare solo inglese». Analisi dei media come queste costituiscono un potente catalizzatore per discussioni molto produttive su temi sensibili come l'immigrazione, le politiche linguistiche, la discriminazione etnica e razziale e il multiculturalismo. Carla Chamberlin-Quinlisk, professoressa associata di Linguistica applicata, Università della Pennsylvania, Abington College (Traduzione di Fabio Galimberti) © RIPRODUZIONE RISERVATA «il corpo e la rete» Firenze. Carla Chamberlin-Quinlisk, docente di Linguistica applicata alla Pennsylvania State University, interverrà al convegno «Il corpo e la rete», che si svolgerà a Firenze dal 28 febbraio al 2 marzo. Al centro dei lavori utilizzo dei social network e dell'informatica come strumenti di apprendimento, di scambio tra culture e identità diverse. Parteciperanno esperti tra cui David Buckingham (Loughborough University - Uk), Derrick de Kerckhove (Università di Napoli), Susanna Mantovani (Università Milano-Bicocca), Antonio Casilli (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Parigi). L'evento è organizzato dalla Fondazione Intercultura in collaborazione con l'International Association for Intercultural Education. www.corpoerete.org Archivia _____________________________________________________ Il Sole24Ore 24 feb. 2013 ALLA POLITICA SERVE L'OBLIO Rendere tutto pubblico e trasparente frena la costruzione democratica: non fa emergere contrasti o proposte strane dalle quali può nascere qualcosa di realmente innovativo Roberto Casati Nel 2006 l'allora primo ministro francese propose di trasmettere in diretta televisiva le sessioni del Consiglio dei ministri. Si trattava, nella sua dichiarazione, di una operazione trasparenza: i cittadini avrebbero potuto vedere in diretta il funzionamento della democrazia. Sarebbe stato un modo di colmare il fossato epistemologico tra il popolo e i suoi rappresentanti. Ma ha senso pensare di rendere tutto trasparente? I paladini della web-democracy sarebbero probabilmente i primi a sottoscrivere la proposta. In fondo, i forum politici, le votazioni online, le discussioni sulle liste sono l'esempio stesso della trasparenza: tutto quello che uno dice e pensa è disponibile a tutti i membri del forum, e basta un semplice copia e incolla per portare a conoscenza dell'intero web qualsiasi proposta o decisione, che resta consegnata alla storia. Sembrerebbe esserci una virtù in questo modo di procedere: sapendo che tutti ti tengono gli occhi addosso, farai molta attenzione a quello che dici. Alcuni parlano addirittura di un sigillo della democrazia del Terzo Millennio. Ma è proprio vero? Ci sono istituzioni antiche, come le riunioni a porte chiuse, che continueranno ad accompagnarci per parecchio tempo. Proprio le riunioni a porte chiuse, coperte dal segreto, in cui le discussioni non sono trascritte o registrate, e la cui scomoda sintesi è affidata a un comunicato consensuale. Pensiamoci un attimo. State lavorando con una controparte ostica su un problema complesso e controverso. Se sapete che solo i vostri interlocutori vi ascoltano, e che non resterà traccia, vi lasciate andare; al limite dite cose che in altri contesti sembrerebbero delle sciocchezze o sarebbero inammissibili per i vostri stessi soci, là fuori. Ma dire sciocchezze, e dirne pure tante, è un segno di creatività. Se fai cinquanta proposte strane, può venirne fuori quella che fa veramente avanzare le cose. Se invece il livello delle tue proposte è commisurato alla tua percezione di come saranno attese al varco dai tuoi soci là fuori, non ne uscirà niente di interessante. In realtà le riunioni a porte chiuse servono a proteggere i rappresentanti del tuo partito non tanto dalle critiche del partito avverso; quanto dalle critiche di quelli del tuo partito. Devi poter fare delle proposte che come tali la tua parte (non la tua controparte) non accetterebbe. Il diritto all'oblio aiuta la conversazione. Se vuoi fare dei passi avanti insieme al tuo interlocutore, hai anche interesse al fatto che non sia delegittimato dal suo partito, e una piccola fuga di notizie può riportare tutti alla casella di partenza. Qui misuriamo un chiarissimo e insormontabile limite della e-democracy. La partecipazione democratica è certo incoraggiata dalla possibilità di partecipare a forum di discussione, di inviare messaggi alle liste, di pubblicare sui blog, di mobilitare l'opinione pubblica. Ma la costruzione democratica ha bisogno di spazi di invisibilità e di oblio. Se il livello delle tue proposte è commisurato alla tua percezione di come saranno attese al varco dall'ultimo dei troll su una mailing list, ne uscirà, al più, qualcosa che va bene all'ultimo dei troll su una mailing list. In fin dei conti la trasparenza rende le riunioni qualcosa di molto diverso, le rende delle tribune. Per questo non risultano grandi passi avanti, grandi proposte costruttive uscite dai talk show politici. In quelle sedi si parla di politica e si parla ai propri elettori, ma non si fa politica. Fare politica è uscire insieme dai problemi. Questo significa cercare delle sintesi. Ma le sintesi non sono dei punti di arrivo che devono piacere a tutti; e difatti di solito scontentano un po' tutti. Le sintesi sono dei punti di partenza. Servono a chiudere tutte le discussioni, a farle dimenticare, per andare avanti. Nella e-democracy in cui resta traccia di tutto le sintesi sono impossibili, ed è quindi impossibile la politica. © RIPRODUZIONE RISERVATA Archivia _____________________________________________________ SAPERE 20 feb. 2013 DEFINIRE PER POTER MISURARE: SALVIAMO L'INTERDISCIPLINARITÀ Mario de Marchi Individuare i tratti distintivi della ricerca "inter" disciplinare, che la differenziano da quella "multi" e "trans", è necessario per poter valutare gli studi ibridi che sfuggono alle consuete classificazioni tonano antico sta assumendo un peso crescente nell'ambito della scienza, quello degli studi interdisciplinari, cioè degli studi con nuovi metodi e su problemi di nuovo genere cl-ic non si inquadrano nettamente all'interno dei programmi di ricerca correntemente seguiti in ciascuna disciplina. Questi studi sono un aspetto peculiare dell'attività di ricercatori che operano alla frontiera della scienza, come è il caso di settori all'avanguardia tanto della matematica quanto della fisica (per esempio la teoria delle stringhe) o della chimica e della biologia (per esempio gli studi sulla sintesi in laboratorio di nuove forme viventi). Le attività di ricerca interdisciplinare abbracciano anche campi di indagine già esistenti ma non possono essere inquadrate esclusivamente in alcuno di essi. Con l'andare del tempo e lo sviluppo delle attività scientifiche, i filoni dì studio interdisciplinare in corso in un dato momento possono estinguersi, quando si spenga l'interesse peri terni trattati in essi (Conte in qualche misura sembrerebbe essere avvenuto per l'applicazione alle varie scienze naturali dei concetti della teoria matematica delle catastrofi), oppure dare luogo, nei casi più fortunati, alla gemmazione di settori di studio scientifici interamente nuovi (come sta avvenendo con l'applicazione della fisica quantistica al progetto di calcolatori elettronici). La ricerca interdisciplinare trova stimoli potenti nelle necessita sempre nuove della società e nei problemi che questa pone alla scienza, tua anche degli ostacoli nel suo svolgimento, dovuti fra l'altro alla struttura consolidata del sistema scientifico e alla tendenza a una specializzazione sempre più spinta nella scienza degli ultimi secoli, Per affrontare le difficoltà e rimuovere gli ostacoli alla ricerca interdisciplinare (RID) con delle politiche adeguate occorre chiarire i meccanismi dì funzionamento di questa parte sempre più ampia e dinamica della scienza e gli incentivi che presiedono all'attività degli studiosi, il primo passo per queste politiche è la misurazione della RH), finalizzata a una sua comprensione e valutazione. A tale tema è dedicato il presente saggio, che nella stia prima parte mira a trattare con qualche dettaglio la questione delle dimensioni in cui si sviluppa la ricerca interdisciplinare. UNA POSSIBILE DEFINIZIONE Un'indagine sulla ricerca interdisciplinare (d'ora in poi RIDI si presenta problematica fin dai suoi primissimi passi, quelli da intraprendere con la definizione stessa eli RID. Questa definizione sarebbe necessaria per qualificare l'ambito di indagine e per poter chiarire la natura dei problemi indagati. Ma arrivare a tiri concetto di RID condiviso da tutti o anche solo dalla maggior parte degli studiosi è arduo, per le numerose ,sfaccettature che il tema presenta a seconda dei punti di vista e dei parametri adottati per la definizione. Potremmo in prima istanza prescindere dalle complicazioni metodologiche, rimandandone l'esame a una fase successiva della nostra indagine, e formulare una definizione (d.RID) provvisoria ma operativa di RID, che useremo in quanto segue pur consapevoli delle sue limitazioni, per dare un oggetto teorico chiaro alla nostra discussione. Potremmo in prima istanza definire la RID come un'attività di ricerca che non assuma informazioni, dati, strumenti, prospettive concetti e teorie provenienti esclusivamente da una o più discipline o corpi di conoscenza specializzata. ESSA ha lo scopo cli accrescere la conoscenza cli natura fondamentale o di risolvere problemi la cui soluzione non si collochi all'interno di una o più discipline già esistenti. Questa definizione può essere soddisfacente per certi scopi pratici e di analisi, grazie alla sua ampiezza. Per essere adeguata e sufficiente all'oggetto della nostra riflessione occorre però qualificarla ulteriormente, cosa che sarà fatta nei paragrafi successivi. Come con tutte le definizioni, anche con la cIRID esistono due linee di ragionamento per approfondirne il contenuto: dall'esterno, specificando soltanto che cosa è estraneo alla definizione, o dall'interno, specificando anche quale sia il significato dei termini che la formano. ll problema delle definizioni dall'interno, come si sa, è che esse tendono a generare un regresso all'infinito, poiché i termini che le formano andrebbero a loro volta definiti da altri termini, e così via. Tuttavia, un'analisi del significato dei termini della (1,RID e delle sue implicazioni teoriche appare imprescindibile se si vuole dare una qualche generalità alla discussione. Tale analisi è poi strettamente agganciata alle dimensioni su cui si articola la RID, per esempio alla singolarità o pluralità di studiosi che svolgono la ricerca, al suo carattere teorico o sperimentale. In quanto segue tratteremo distintamente eli alcuni di questi aspetti, cominciando da alcune passibili classificazioni della RID sviluppate a partire da diversi punti di vista sulla materia che privilegiano certe dimensioni del concetto di interdisciplinarità e di concetti a essa prossimi. NÉ MULTI, NÉ TRANS La ricerca interdisciplinare va chiaramente distinta da quella multidisciplinare e da quella transdisciplinare come definite in ambito OCSE (Apostel et Alia, 1971). L'attività di RID di uno studioso può abbracciare nel SUO una o più discipline scientifiche già esistenti ma non è questo che la rende interdisciplinare. La RID interdisciplinare perché comprende anche metodi, problemi e informazioni elle non sono già compresi in tali discipline e non si limita a sintetizzare e a ricomprendere in sé i temi che già la scienza organizzata in settori disciplinari affronta nel presente. La RID si differenzia quindi dalla ricerca multidisciplinare, quella che riguarda nel suo ambito più branche preesistenti, perché implica uno sforzo di sintesi e di innovazione che in questa ultima, dove le varie discipline sono semplicemente affiancate, manca un esempio può chiarire questa distinzione fra interdisciplinarità e multidisciplinarità. L'applicazione dei princìpi della fisica che sono alla base del funzionamento di tino sfigmomanometro, e di quelli della medicina clic sono alla base di una diagnosi conseguente alla misurazione, è un esempio di multidisciplinarità (Fisica medica). L'esplorazione di un problema nuovo, quale quello di far giungere dei principi attivi a delle cellule specifiche del corpo ontano, superando le barriere dì protezione che lo stesso organismo frappone a questa intrusione dall'esterno con lo sfruttare nanotecnologie basate su principi fisici finora non sfruttati può essere considerato un esempio di interdisciplinarità (biofisica). La RID si differenzia d'altra parte dalla ricerca "transclisciplinare" perché non si limita ad abbracciare settori diversi, e i problemi e i temi che in essi si affrontano. La RID non è infatti semplicemente una sintesi assiomatica dei metodi e delle domande che la scienza già LISA e Si pone come avviene nella ricerca transclisciplinare, ma ne affronta di genuinamente nuovi. La ricerca interdisciplinare, come tutta la ricerca, è fatta dalle menti degli studiosi. Dal punto di. vista della sociologia della scienza, un aspetto caratteristico della RII) è che, a volte, le competenze necessarie per il suo svolgimento si possono trovare anche in menti singole, altre volte solo in collettività di persone, ossia gruppi di ricerca. Questa distinzione non viene sempre messa sufficientemente in risalto. E tuttavia, c'è da aspettarsi che la mescolanza e novità di prospettive che caratterizza la KW si potrebbe manifestare a volte in misura maggiore quando essa si realizza in Mia sola mente, dove dare uno sguardo d'insieme a problemi nuovi è Una conseguenza obbligata dell'unità. del soggetto pensante. E quindi opportuno distinguere dall'ambito della RE) svolta obbligatoriamente in gruppo, anche solo transitoriamente, quella che coincide con lo svolgimento e lo sviluppo di intere carriere interclisciplinari da parte cli singoli studiosi. Anche la RID come tutta l'attività scientifica, naturalmente, si dispiega sia in ambito teorico che sperimentale. Dal punto di vista metodologico, questa distinzione ha una rilevanza particolarmente cruciale. Ci possiamo aspettare ragionevolmente che lo spazio per urta speculazione teorica chiusa strettamente nei programmi di ricerca più o meno cristallizzati di una disciplina scientifica sia maggiore di quanto possa avvenire per la ricerca sperimentale, che quasi mai è unicamente unidisciplinare. Infatti, la riflessione teorica su problemi limitati è più facile quando questi problemi sono chiaramente formulati all'interno di una branca consolidata del sapere mentre la scienza pratica, per sua natura, tende a usare dispositivi sperimentali al cui funzionamento presiedono principi complessi e innovativi, non riconducibili a nessuna disciplina esclusivamente. La ricerca interdisciplinare riguarda tipicamente problemi nuovi, che per essere tali non si collocano all'interno di nessuna disciplina preesistente. Questi problemi esodisciplinari sono dati a volte dalla curiosità degli scienziati, ma più spesso provengono dall'esterno della scienza, e in particolare dalla società. La spinta propulsiva dei bisogni della società, opposta a quella di Lifili0hgallillaZi011C disciplinare sempre più frammentata della scienza, produce una tendenza alla RID, che si oppone alla tendenza alla specializzazione del lavoro di scienziato in opera sempre più negli ultimi decenni: la ricerca interdisciplinare riguarda per sua natura problemi nuovi. SOMIGLIANZE CON LA RICERCA DISCIPLINARE Molte delle procedure e molti dei princìpi usati nella misurazione e valutazione quantitativa della RLD sono comuni alla tradizione dello svolgimento di queste stesse attività nell'ambito della ricerca disciplinare. Anche nel caso della RH) possono essere usati indicatori di output e input tipici della misurazione della ricerca in generale: è possibile per esempio misurare il risultato della RH) contando il numero di pubblicazioni (e di citazioni che esse producono) a cui ha dato luogo un'attività di ricerca su problemi interdisciplinari svolta da un singolo o da un gruppo di scienziati. Oppure sì può misurare il valore delle risorse investite nelle attività di RID, come si fa in generale nella scienza, rilevando il tempo dei ricercatori o i finanziamenti destinati ai progetti. Tutto questo non presenterebbe in linea di principio difficoltà particolari se ci si limitasse a considerare la concezione degli indicatori di input e di output in astratto, ma necessita di specificazioni attente se si passa a considerare il modo in cui questi indicatori sono ottenuti e rilevati in pratica. Nei paragrafi successivi affronteremo questi temi e sosterremo che per alcune circostanze fortunate, nonostante la concezione della ricerca interdisciplinare presenti dei problemi anche maggiori di quella della disciplinare, la misurazione della RlI) non è per questo più difficile, anzi, a volte e agevolata dalla natura delle sue dimensioni. SPECIFICITÀ I caratteri idiosincratici della RIO rispetto alla scienza in generale, che entrano in gioco quando si tenta di misurare e valutare quantitativamente la ricerca, sono molteplici. Qui di seguito ne elenchiamo rapidamente alcuni.. allo scopo eli mostrare come sia opportuno rimodulare certi princìpi generali della scientometria quando tale attività si rivolge alla scienza interdisciplinare. Contando pubblicazioni e citazioni è possibile ovviamente misurare e valutare in termini quantitativi la IAD così come avviene per la ricerca disciplinare, ma occorre procedere con cautela particolare. La cautela riguarda il modo in (iati le pubblicazioni vengono originate grazie a peer reviews. Nel caso della ricerca interdisciplinare è infatti molto più difficile trovare degli autentici pari che possano adeguatamente vagliare e giudicare il contenuto degli articoli sottoposti alle riviste dai loro autori. Un'altra circostanza specifica della misurazione della RII) (e delle policies che ne derivano) riguarda finput finanziario alla ricerca e concerne i fondi destinati alle attività scientifiche interdisciplinari: questi fondi spesso non vengono contabilizzati separatamente tua rientrano indistintamente nelle dotazioni disciplinari di università o enti di ricerca. Vi è poi la questione della titolarità della ricerca: se essa sia svolta da un singolo o da un gruppo di scienziati. Nel secondo caso è molto più problematico ripartire quantitativamente i contributi all'avanzamento della conoscenza fra i vari componenti del gruppo, mancando il riferimento di pubblicazioni in ambiti rigorosamente disciplinari nitidamente attribuibili a ciascuno. Infine, in questo parziale elenco, ricordiamo la polarità fra teoria ed esperimento. La ricerca speculativa interdisciplinare ben presto si costruisce un carattere specifico e ben identificato, con il cristallizzarsi di nuovi confini, al problema originale identificato e indagato, il che favorisce la peer review e di conseguenza la misurazione quantitativa, La ricerca interdisciplinare pratica, invece, potrebbe mantenere anche più a lungo un carattere complesso e intricato che meno facilmente si presti al giudizio di scienziati diversi dagli sperimentatori; ciò è dovuto alla novità dei problemi pratici affrontati per costruire gli apparati sperimentali che ostacola all'inizio una valutazione semplice e lineare del valore euristico delle soluzioni ingegnose ai problemi di misurazione e verifica spesso escogitate dai ricercatori empirici interdisciplinari. Da questo sommario excursus emerge chiaramente che la misurazione delle attività scientifiche nel campo della ricerca interdisciplinare solo in pane può procedere con le modalità classiche della scientometria. Per rilevare e valutare la ricerca interdisciplinare occorre trovare anche parametri diversi, che tengano conto delle particolarità della RID e delle conseguenze che esse hanno per la condensazione che avviene nelle procedure impiegate dalla scientometria di entità eminentemente qualitative, come sono le idee, in grandezze quantitative, quali il numero di pubblicazioni o citazioni. OSTACOLI ISTITUZIONALI Un carattere saliente della RID è il suo legame con i problemi di nuovo tipo, esterni alle tradizioni dei programmi di ricerca consolidati a cui Ira condotto in una certa epoca il dibattito fra specialisti interno alle singole discipline. I programmi di ricerca adottati dalla scienza normale in ciascuna delle sue branche propongono agli studiosi che vi si conformano dei problemi passati e le soluzioni a essi trovate e dei problemi presenti accettati come rilevanti dalla collettività dei ricercatori. Finché l'attività di uno scienziato si limita rigorosamente al programma. di ricerca correntemente accettato (Kuhn, 1970), un programma che in larga parte proviene dal passato recente e dal presente della disciplina, difficilmente egli si misurerà con problemi genuinamente nuovi. La creatività e l'originalità che costituiscono uno dei tratti distintivi della maggior parte degli scienziati di maggior talento li spingerebbe a violare i rigidi confini all'orizzonte dei problemi posti dal dibattito generale. D'altra parte, la scienza normale, la scienza che nell'ambito di quel dibattito si svolge e le sue direttive segue, offre il riparo alle incertezze nella carriera futura e nella stessa sopravvivenza accademica che possono essere causate da uno stile di vita avventuroso, quello che privilegia un'originalità spinta, in un mondo estremamente competitivo come è quello della ricerca. Tutto ciò comporta ostacoli agli scienziati che vogliono svolgere RID. Per rimediare a LI 11 contesto così sfavorevole occorrono interventi da parte delle istituzioni accademiche che modifichino gli incentivi, favorendo l'allocazione dei fondi per RID e l'apertura eli posizioni accademiche in questa attività (posizioni accademiche che, del resto possono essere anche soltanto temporanee, visto il carattere fluido e transiente della RID in generale). D'altra parte, altre circostanze sfavoriscono l'effettuazione di RID. Un esempio è quello delle particolari difficoltà che incontra la peer review nel caso della RID: essa è resa più difficile dal fatto che spesso non si trovano dei peers nello stesso campo interdisciplinare degli articoli frutto di RID proposti alle riviste (la maggior parte dei peers disponibili per le review opera in campi scientifici ben definiti) o più semplicemente che il carattere strettamente disciplinare di quasi tutte le riviste scientifiche impedisce agli studiosi interdisciplinari di sottoporre ad esse i loro contributi (Frodeman, 2010). Anche questi problemi sono legati a circostanze istituzionali e richiedono politiche specifiche, come per esempio la decisione delle riviste e delle associazioni o accademie scientifiche che le pubblicano di dedicare numeri speciali rivolti a temi interdisciplinari. Uno dei fondamenti di queste politiche è naturalmente una dettagliata, corretta e oggettiva informazione sulla R1D, un'informazione che sia perciò anche di ordine quantitativo come è quella raccolta e classificata con i principi, le tecniche e le procedure della scientometria. I TRATTI DISTINTIVI DELLA RID La misurazione quantitativa dell'output della ricerca e la sua valutazione nel caso della RID risentono di un contesto diverso da quello che si presenta nel caso delle discipline specialistiche. In queste discipline gli scienziati i mirano normalmente a risolvere problemi sulla cui natura e rilevanza esiste un largo consenso nella comunità dei ricercatori, fornendo risposte basate su metodologie e principi ugualmente già accettati da molti colleghi. Può anche accadere che si verifichi un cambiamento drastico e improvviso nei metodi e nei problemi indagati, ma questa è l'eccezione piuttosto che la regola nella ricerca specialistica. Nel caso della RID, invece tende ad accadere l'opposto: i problemi indagati, e a volte anche i metodi di indagine, sono di solito radicalmente nuovi. Questo talvolta dipende dalla curiosità intellettuale eli certi ricercatori interdisciplinari, ma più spesse) avviene perché tali problemi hanno origine del tutto al di fuori della massa della comunità scientifica, conte nel caso delle esigenze militari ci di quelle della società in genere (esigenze per esempio concernenti l'ambiente). I problemi radicalmente nuovi ed estranei alla scienza !temutile, e quindi difficilmente già affrontati all'interno delle discipline scientifiche già esistenti, sono poi proposti ai ricercatori secondo canali e organizzazioni istituzionali ben diversi da quelli accademici tradizionali più facilmente che dai dipartimenti universitari, la RID e organizzata e commissionata dalle imprese e dagli organismi scientifici pubblici non accademici, come le agenzie statali di ricerca. Di tutto questo si deve tener conto nell'applicare le tecniche della scientometria alla RII). Nella RID ha una maggior importanza relativa il peso dei problemi empirici specifici, rispetto alle risposte assiomatiche astratte esposte in articoli su riviste- che talvolta costituiscono l'esito esclusivo di programmi eli ricerca squisitamente specialistici. È chiaro che risposte del genere riguardanti per eli più i temi esotici della Pii) renderebbero ardua la misurazione quantitativa del suo output e la sua valutazione. Ma proprio lo slittamento dalle risposte astratte generali ai problemi empirici specifici che caratterizza l'obiettivo di molta RII) costituisce una circostanza fortunata riguardo a tale aspetto (National Acaelemy of Science, 2005): può avvenire che, quando si abbia in vista il problema interdisciplinare assegnato dalle imprese o dall'operatore pubblico agli scienziati, tale problema sia qualificato in anodo molto concreto e misurabile quantitativamente. Ciò avviene nel caso della richiesta eli un'impresa eli escogitare una tecnologia che riduca le emissioni eli CO2 di un certo ammontare, o il caso di un'agenzia pubblica per l'energia nucleare che finanzia la costruzione eli una macchina Tomahawk con determinale caratteristiche, o quello di un'agenzia internazionale' per la salute che propone agli scienziati il compito eli scoprire ritrovati che portino all'eliminazione eli una malattia tropicale. In tutti questi casi, la natura quantitativamente ben definita del problema permette di misurare di quanto le soluzioni troviate dagli studiosi siano adeguate perché permettono eli avvicinarsi alla soluzione finale del problema. Per esempio, nel caso della fusione nucleare a confinamento magnetico l'obiettivo assegnato agli scienziati può consistere nel raggiungere un certo tempo eli confinamento del plasma, primo passo verso una reazione di fusione che si adito sostenti. In tutti i crasi di queste) genere, concentrarsi sui problemi e sull'avvicinamento alla loro soluzione in termini quantitativi oggettivi può permettere anche nel raso della ricerca interdisciplinare iuta misurazione dell'output e sua valutazione con parametri di precisione ed efficienza che danno alle politiche pubbliche e alle attività degli imprenditori un contenuto non meno definito e rigoroso eli quanto avviene: con la ricerca specialistica. ? APPROFONDIMENTI KUHN T., The ,YtrUCtitre qf Sc ientific Re )11 ims, ljoiVersity of Chicago Press, Chicago 1970. FRODEMAN R. et Alia, The 01.oty/ fiandPooP (17NTERD/SC7- PLEVAR/TY, Oxford University Press, New Yorle 2010. APOSTEL G. et Alia, I uterdisciplinarity Problems of Tcacbing and Research Unirersities, OECE), Parigi 1972. NATIONAL ACADEMY OF SCIENCES et Alia, 1.(iCilfkltin±; CiPtill(Hy ic'eSearCh, NatiOnai ACACierni('', VA ;1,1113W DC 2005. rie art ah-ire presso l'Islittito Mai de Marchi i ricerca til.11 (' lo sviluppo (('LRIS) del CNR _____________________________________________________ Italia Oggi 23 feb. 2013 PREMI E VOUCHER AI DIPENDENTI P.A. Protocollo d'intesa tra Miur e Inps Cento borse di studio, per un importo massimo di 12 mila euro ciascuna, per consentire per la prima volta a studenti, figli di dipendenti pubblici, dì frequentare una scuola all'estero, per un anno o un semestre. E 2 milioni di euro per finanziare voucher formativi per corsi di perfezionamento e aggiornamento dedicati a docenti e dirigenti, da svolgere in Italia o all'estero. Sono le principali iniziative che vedranno la luce nei prossimi mesi grazie al Protocollo d'Intesa firmato ieri dal ministro Francesco Profumo e dal presidente dell'Inps Antonio Mastrapasqua. L'accordo prevede uno stanziamento complessivo di 6.milioni di euro per promuovere la mobilità studentesca, l'occupazione dei giovani e la formazione del personale della scuola statale. Le 100 borse di studio per frequentare un periodo di scuola all'estero saranno bandite a marzo e nei prossimi mesi saranno messi a bando anche i voucher for- mativi per l'aggiornamento dei docenti e dei dirigenti. Tra le altre iniziative previste dall'accordo, anche borse di studio, dedicate a figli di dipendenti pubblici, per dottorati dì ricerca in azienda, master per giovani non occupati e progetti di alternanza scuola-lavoro all'estero per favorire l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. A breve sul sito dell'Inps verranno aperte le procedure di accreditamento di enti, istituzioni, associazioni disciplinari, associazioni professionali e università che, in una logica sussidiaria, saranno in grado di fornire proposte di qualità in tutti i settori previsti dal Protocollo e individuati nei bandi. «In un momento di crisi», ha commentato il sottosegretario Elena Ugolini, «è fondamentale fare sistema tra le istituzioni per migliorare le possibilità di occupazione dei giovani attraverso una formazione di qualità e per valorizzare la professionalità di insegnanti e dirigenti. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 21 feb. 2013 COLONIE SU MARTE, LA MISSIONE PARTE DA CAGLIARI UNIVERSITÀ. Sì dell'Ufficio brevetti europeo al progetto dei ricercatori sardi Produrre ossigeno, acqua, monossido di carbonio, ammoniaca, fertilizzanti azotati e biomassa edibile utilizzando risorse disponibili su Marte. E consentendo così di affrontare missioni permanenti sul pianeta rosso. Sembra solo fantascienza, invece si tratta di un avveniristico progetto di ricerca dell'Università di Cagliari che nei giorni scorsi ha ottenuto un importante riconoscimento a livello mondiale: «L'invenzione - c'è scritto nel rapporto di ricerca internazionale dell'Ufficio brevetti europeo - presenta tutti i requisiti di brevettabilità». Una autorevole conferma della bontà degli studi condotti dallo staff guidato dal professor Giacomo Cao che ha recentemente ottenuto la risposta positiva sulla domanda di brevetto internazionale depositata lo scorso 24 luglio. «Abbiamo accolto con viva soddisfazione la comunicazione dell'Ufficio brevetti europeo - ha detto il professor Cao -. Anche perché il nostro è un brevetto made in Sardinia, e in ambito internazionale non capita tutti i giorni, specie in un settore complicato e strategico qual è quello delle scienze aerospaziali, di ricevere note positive con ricadute scientifiche, accademiche e imprenditoriali di rilievo mondiale». Il progetto Cosmic - finanziato dal 2009 dall'Agenzia spaziale italiana con 500 mila euro - ha l'obiettivo di sviluppare nuovi processi per l'esplorazione umana e robotica dello spazio. Al progetto, oltre all'Università di Cagliari, collaborano Crs4 di Pula, dipartimento Energia e trasporti del Cnr e Corem srl. Oltre al professor Cao, hanno collaborato gli specialisti del dipartimento di Ingegneria meccanica, chimica e dei materiali, Alessandro Concas, Gianluca Corrias, Roberta Licheri, Roberto Orrù e Massimo Pisu. _____________________________________________________ Panorama 27 feb. 2013 AIUTARE GLI ALTRI È UN ANTISTRESS E RENDE LONGEVI, LO DICE LA SCIENZA Se facciamo qualcosa per gli altri, i primi a beneficiarne siamo noi stessi. Potenziamo la nostra autostima, stemperiamo lo stress, allontaniamo le malattie e, se queste sono le premesse, saremo anche più longevi. Essere altruisti garantisce un tornaconto, per così dire, personale. Lo sostiene uno studio di tre centri americani, coordinati dall'Università di Buffalo, condotto su 846 persone e durato cinque anni. I ricercatori hanno visto che, messi di fronte a situazioni a rischio e malattie, coloro che negli anni precedenti avevano aiutato altre persone mostravano tassi di mortalità più bassi rispetto a chi non l'aveva fatto. Cosa singolare: i benefici extra sulla salute non valgono per chi l'aiuto lo riceve. La conclusione conferma una ricerca precedente (Wisconsin longitudinal study, durato dal 1957 al 2008) che aveva monitorato oltre 10 mila persone osservando una maggiore longevità in chi svolgeva volontariato (1,6 per cento di mortalità contro una media del 4 per cento). «Queste analisi ci dicono che c'è uno stretto legame fra benessere psicologico, emozioni positive e sistema immunitario. Dedicarsi agli altri, anziché aspettare passivamente attimi fugaci di felicità, costituisce un tipo di tensione pro sociale che rende più forti» assicura Stefano Gheno, presidente della Società italiana di positiva. «Certo occuparsi di altri è una fatica e un impegno, però in questo caso parliamo di "eustress", ossia stress buono. Che -on si tramuta in usura e fatica ma porta alla realizzazione di sé, come sosteneva già Aristotele, fattore chiave per mantenersi in salute più a lungo». (Daniela Mattalia) _____________________________________________________ Corriere della Sera 23 feb. 2013 SIAMO TUTTI DISLESSICI? I RISCHI DI UN'IPER-DIAGNOSI TRENTAMILA NUOVI casi all'anno solo in Italia «Ma spesso sui ragazzi si sbaglia» «Un tempo erano bambini discoli, disattenti, disordinati; oggi, tramontata l'epoca delle punizioni, si chiamano dislessici, discalculici, disgrafici. Finalmente la definizione corretta di un disagio che, attenzione, non è una malattia». Giacomo Stella, psicologo clinico, docente all'università di Modena e Reggio Emilia, una sfilza di libri e una vita dedicata alla dislessia, è soddisfatto: in Italia c'è una nuova sensibilità al disturbo, c'è una legge (la 170 del 2010) che gli dà piena identità e stabilisce quali strumenti di appoggio ed esenzioni debbano essere adottati, c'è la presa in carico degli insegnanti. Ma oggi le scuole sembrano traboccare di dislessici; non c'è classe dove almeno un ragazzino non sia in crisi con la lettura, l'ortografia o le tabelline. Le cifre ufficiali parlano del 5 per cento della popolazione scolastica e i nuovi casi superano i trentamila all'anno. È una nuova epidemia, oppure l'attenzione ha preso la mano a tutti? Difficile dirlo anche perché si sospetta che la «trasparenza» dell'italiano, ovvero il fatto che si legga come si scrive, abbia per troppo tempo occultato la reale incidenza del disturbo in Italia, problema prorompente nei paesi anglosassoni, dove sfiora l'8 per cento. Spiega Valentina Bambini, ricercatrice del centro di Neurolinguistica e sintassi teorica della Scuola superiore universitaria IUSS di Pavia: «Se ci esprimiamo in termini di fonemi e grafemi (le unità della lingua parlata e scritta, ndr), la differenza è impressionante: l'italiano ha circa 25 fonemi e 33 grafemi, fra la fonologia e l'ortografia la sovrapposizione è pressoché totale; l'inglese ha 40 fonemi e 1.120 grafemi, una lingua ostica, inevitabilmente, per chi ha problemi con la lettura. Già nel 1985 su mille studenti americani e italiani, una ricerca mise in evidenza una frequenza della dislessia negli Stati Uniti doppia che in Italia». E i metodi di studio del cervello sofisticati, in grado di scoprire quali aree cerebrali sono attive mentre si svolgono certe azioni e compiti, che cosa hanno aggiunto alla conoscenza della dislessia? Qualcosa hanno spiegato di quella che un tempo gli stessi scienziati chiamavano con un'espressione colorita, ma spia di grande ignoranza, la «cecità delle parole», dimostrando, ad esempio, che c'è una diversa densità della materia grigia a livello del lobo temporale sinistro del cervello, quello più implicato nel riconoscimento e l'elaborazione visiva del linguaggio. Una «neurodiversità», la definisce Giacomo Stella. Presente in uguale misura in dislessici adulti inglesi, francesi e italiani stando a uno studio pubblicato sulla rivista Brain da vari ricercatori tra i quali Daniela Perani, neuroscienziata dell'università del San Raffaele di Milano. Diversità che deve essere sostenuta, ma non guarisce «visto che in età adulta — precisa Stella — la dislessia è ancora presente nel 75 per cento di quelli che ne hanno sofferto da piccoli». Confermando l'ipotesi che qualcosa di ereditario ci sia. Il bambino oggi viene aiutato con vari strumenti: registratore, programmi di videoscrittura con correttore ortografico, calcolatrice. «La normativa non prevede l'insegnante di sostegno, per cui il lavoro aggiuntivo può diventare un carico pesante per l'insegnante — ci informa Francesca Conti, professoressa di scienze in una scuola media dell'hinterland milanese —. Fortunatamente cominciano ad essere disponibili, offerti in omaggio dalle case editrici in questa fase sperimentale, libri studiati per i dislessici, che facilitano la lettura attraverso espedienti di colore, di maggiore distanza fra le frasi, di sottolineatura di parole chiave. Ma nel corpo insegnante c'è tanta paura di sbagliare». Fenomeno confermato da Jubin Abutalebi, docente di neuropsicologia all'università del San Raffaele di Milano che vede molti di questi bambini (per legge sono le Asl e gli ospedali che devono fare la diagnosi): «Spesso arrivano alla nostra osservazione ragazzini definiti dislessici dagli insegnanti, che ad un esame approfondito si rivelano normali». Dove sta la verità? Secondo Abutalebi (e non solo) solo studi ulteriori chiariranno meglio questa «diversità» dei dislessici. _____________________________________________________ Le Scienze 20 feb. 2013 UNA BASE NEUROBIOLOGICA PER LA DISLESSIA Utilizzando una sofisticata tecnica di imaging basata sull'elettroencefalogramma è possibile evidenziare nei bambini dislessici un deficit di coerenza nel modo in cui il cervello codifica il linguaggio parlato. Lo dimostra uno studio che indica inoltre come mitigare o risolvere i problemi di lettura con l’allenamento e l’ausilio di un dispositivo in grado di trasmettere la voce di un insegnante direttamente nelle orecchie (red) La dislessia – la difficoltà di lettura non riconducibile a deficit d’intelligenza, di udito o di vista – sarebbe fortemente correlata a un meccanismo cerebrale che collega la lettura alle capacità di codifica dei suoni: è quanto afferma un nuovo studio apparso sulla rivista "The Journal of Neuroscience" a firma di Nina Kraus, docente di neurobiologia, fisiologia e comunicazione della Northwestern University. Da alcuni decenni le ricerche in campo neurobiologico hanno dimostrato che la capacità di lettura è associata alle capacità di elaborazione dei suoni, tra cui le capacità di memoria e di attenzione, di percepire le rime e di categorizzare rapidamente i suoni. In particolare, gli studi condotti in passato nel laboratorio di Kraus hanno documentato che la dislessia è legata a processi sensoriali molto più variabili del normale, ovvero a rappresentazioni del linguaggio parlato incoerenti da parte delle regioni uditive del sistema nervoso, che portano a un deficit nella capacità di riconoscere il significato dei suoni percepiti. In quest’ultimo studio, Kraus e colleghi hanno misurato, mediante una sofisticata tecnica di imaging basata sull'elettroencefalogramma, le onde cerebrali di 100 bambini di età scolare mentre percepivano il linguaggio parlato. Dall’analisi dei dati è risultato che i soggetti che riuscivano meglio nella lettura erano anche quelli in cui la codifica del suono raggiungeva il massimo livello di coerenza. Al contrario, i peggiori lettori era anche quelli in cui tale coerenza era minore. Secondo le ipotesi degli autori, si tratterebbe di un processo che si struttura col tempo, via via che i bambini imparano a connettere in modo efficace i suoni al loro significato. Boissonnet/BSIP/Corbis“Quella che abbiamo scoperto è una sistematica relazione tra la capacità di lettura e la coerenza con cui il cervello codifica i suoni”, afferma Kraus. Dopo questa prima fase, lo studio è continuato con una sperimentazione sulla possibilità di recupero dei piccoli soggetti. Per un anno, i bambini hanno seguito un percorso di allenamento in cui veniva utilizzato un dispositivo in grado di trasmettere la voce del loro insegnante direttamente nelle orecchie. “L’uso di questi dispositivi aveva lo scopo di permettere al cervello di concentrarsi sui suoni dotati di senso dall’insegnante, diminuendo il disturbo delle distrazioni”, sottolinea la ricercatrice. Dopo un anno di allenamento, i bambini mostravano un miglioramento non solo nella lettura, ma anche nella coerenza con cui il loro cervello codificava i suoni del linguaggio parlato, in particolare delle consonanti. "E' raro che si abbiano difficoltà a codificare il suono delle vocali, che sono relativamente semplici e lunghi” spiega la ri. “I suoni delle consonanti sono invece più brevi e acusticamente più complessi: per questo è più probabile che vengano categorizzati in modo scorretto dal cervello. I nostri risultati – conclude - suggeriscono che i buoni lettori traggano profitto da una rappresentazione neurale stabile del suono, e che i bambini con risposte neurali incoerenti siano svantaggiati nell’apprendimento della lettura”. Dal micro- al macromondo: anche il risultato del lancio di una moneta è intrinsecamente casuale, come nei processi descritti dalla meccanica quantistica (© moodboard/Corbis) Nel caso del fluido ipotizzato dai due fisici statunitensi, il principio implica che la traiettoria delle molecole è intrinsecamente incerta. Non solo: l’incertezza aumenta a ogni collisione, cioè si amplifica sempre più con il passare del tempo. E si può anche stimare di quanto con semplici formule matematiche: basta considerare alcuni parametri plausibili per massa e dimensioni delle particelle, per il loro camino libero medio (cioè lo spazio percorso in linea retta tra due collisioni successive) e per la loro velocità media. Secondo i calcoli di Albrecht e Phillips, l’effetto complessivo è che le proprietà macroscopiche di un fluido reale – quale può essere l’acqua o l'azoto sotto forma di gas a temperatura e pressione ambiente – sono influenzate da fluttuazioni di natura quantomeccanica, come avviene nel mondo microscopico delle molecole da cui è composto. Se poi si passa a una scala dimensionale ancora più grande, come per esempio il “testa o croce”, le conseguenze sono notevoli. I due fisici statunitensi infatti sottolineano che, a meno di situazioni sperimentali create ad hoc, in genere una moneta è lanciata e afferrata da una mano, controllata da processi neuronali, che a loro volta dipendono da segnali elettrici che si trasmettono in seguito all’apertura di canali ionici posti sulla membrana dei neuroni. Ora, gli ioni che entrano ed escono dai neuroni si trovano in un ambiente acquoso, nel quale entrano in gioco le fluttuazioni quantistiche come quelle illustrate prima per il fluido ipotizzato dai due ricercatori. In particolare, come dimostrato in uno studio del 2008, citato da Albrecht e Phillips, nel caso del lancio di una moneta, i segnali neuronali responsabili del gesto e riconducibili al flusso di ioni hanno un’incertezza temporale dell’ordine di un millisecondo. Se poi si considera che, come calcolato dagli scienziati, durante la fase di volo la moneta compie mezzo giro in circa un millisecondo, il quadro è chiaro. Tutto questo implica il gesto della mano che discrimina tra testa e croce è intrinsecamente casuale, dato che risente di fluttuazioni quantistiche impossibili da eliminare e tanto meno da non considerare . Chiaramente – ammettono gli autori dello studio – quello del lancio della moneta è un caso abbastanza anomalo: non sarebbe così agevole ricavare l’effetto delle fluttuazioni quantomeccaniche nella maggior parte degli eventi macroscopici di cui siamo spettatori nella nostra vita quotidiana. In ogni caso, lo studio serve a ricordare che spesso ci si affida ai concetti classici di probabilità senza che ne sia stata data una validazione sistematica. Questo problema ha un riflesso importante anche per le cosiddette teorie del multiverso, in cui si ipotizza l'esistenza di universi paralleli al nostro. In queste teorie, sottolineano Albrecht e Phillips, quando si affrontano questioni non risolvibili con la teoria quantistica si ricorre a concetti probabilistici classici, che meriterebbero quindi un'elaborazione formale molto più rigorosa di quella attuale. ========================================================= _____________________________________________________ L’Unione Sarda 24 feb. 2013 MARROSU: RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE: UNA BABELE COMUNICATIVA Il (giusto) peso alla storia del malato di Francesco Marrosu* Il “grido di dolore” sulle cause intentate ai medici del SSN e le prese di posizione da parte delle varie Agenzie della Società Civile ci costringono come parte in causa della nostra “gettatezza mondana” (siamo tutti potenziali pazienti!) a una profonda riflessione. Parto da una considerazione semiseria trovata in un originale libro di economia ( Super-Freakonomics di Levitt & Dubner) sulle cause intentate ai medici Usa; contrariamente al buonsenso, i medici più denunciati sarebbero i più bravi. Perché? I medici meno dotati tenderebbero consciamente o inconsciamente a stabilire rapporti di complicità diagnostico-terapeutica con i pazienti, portandoli a livelli di comune comprensione e condivisione sul da farsi. Probabilmente il tutto è “caricato” dai bravi autori ma... c'è del vero. Il gap tra significato e significante in una proposizione, vecchio cruccio della Linguistica, si sta ampliando a dismisura dentro i linguaggi tecnici, polverizzando di fatto la fruibilità del senso-del- dire nella comunicazione medico-paziente. Questo inciampo comunicativo può anche fare il gioco di chi porta il discorso sulla salute ai livelli di “mistica” medica offrendo una versione secolarizzata della Salvezza con la Cura che in quest'ambito il malato rifiuta di filtrare con la ragion critica (caso Di Bella docet), cercando al massimo di destrutturare l'esoterico verbo del Luminare di turno con Internet. La scissione tra frasario elitario di culture specialistiche (pensiamo al linguaggio dell'economia) e la vita di tutti i giorni è alla radice della percezione di tradimento che il laico (tutti noi, in definitiva) interpreta come perpetrato dalla versione moderna del chierico (tecnico in generale... non solo medico) che, nel nostro caso, porta a rabbiose denunce contro medici e istituzioni. Sono d'accordo con chi vede nell'estrema facilità nel denunciare SSN e medici l'immorale vantaggio che la malafede e il miraggio di facile danaro catalizzano in un'epoca cinicamente deficitaria di valori, ma credo che ci sia di più. C'è una malinconica nota stridente nell'ethos medico rappresentata da una esasperata ricerca di razionalità scientifica spesso troppo destrutturata nel relazionarsi alla persona ammalata in carne ed ossa. Come direttore di Scuola di Specializzazione (in Neurofisiopatologia, ndr ) osservo sempre più spesso come una delle prassi più neglette dallo specializzando è rappresentata dal “pesare” la storia del malato (anamnesi), vista più o meno nella dimensione del segno e sintomo, e quasi mai alla luce delle interazioni del corpo malato con il suo mondo. Questa distonia viene a volte corretta con una empatia ingenua e destoricizzata che si sofferma in particolari superficiali della sfera privata del malato. Dovremmo riquadrare il racconto della malattia sul giusto diapason semantico, comunicativo e ontologico rilevando i vissuti dalla persona ammalata, cosa ben diversa dal copia-incolla di anglicizzazioni trendy da Trattato. Certo, l'applicazione della dimensione antropologica nella comunicazione medica non farà scomparire gli errori, ma poiché li accompagnerà a far parte della comune dolente partecipazione alla dimensione umana del “mondo della vita”, essi saranno capiti e, forse, meglio accettati. *Prof. Ordinario di Neurologia Facoltà di Medicina - Cagliari _____________________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. 2013 CURE SBAGLIATE IN OSPEDALE A RISCHIO I RISARCIMENTI Le polizze stanno raggiungendo prezzi proibitivi O gni paziente riconosciuto vittima di un danno in conseguenza di un trattamento sbagliato, per colpa di un medico e di un altro operatore all'interno di una struttura sanitaria ha il diritto a essere risarcito, nella misura concordata tra le parti o stabilita dal Tribunale. Ogni struttura pubblica o privata (ospedale, Asl o casa di cura) è tenuta a risarcire quel danno, anche se derivante da colpa grave di medici e di altri operatori (salvo poi rivalersi su questi ultimi). Per garantire che il diritto del paziente al risarcimento sia effettivo, la soluzione ritenuta migliore, fino a ieri, è stata quella che la struttura sanitaria si fornisse di una copertura assicurativa. Oggi, però, questo sistema sta mostrando preoccupanti falle, come conferma un recente rapporto della Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali. Vediamo perché. Innanzitutto, le strutture sanitarie non hanno l'obbligo di stipulare assicurazioni per responsabilità civile nei confronti dei loro assistiti e, comunque, non possono assicurarsi per il danno da colpa grave del medico o di altro operatore sanitario. In effetti, secondo il rapporto della Commissione parlamentare, il 26 per cento delle strutture pubbliche censite, ha ugualmente stipulato polizze di questo tipo, esponendosi però al rischio di procedimento da parte della Corte dei conti. E i singoli medici? I medici liberi professionisti o operanti in strutture private saranno obbligati ad assicurarsi per la responsabilità civile derivante da colpa grave dal prossimo 13 agosto (ai sensi del cosiddetto "Decreto Balduzzi", 13 settembre 2012 n.158, e legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189). Non lo sono, invece, i medici dipendenti di strutture pubbliche. Dal canto loro, le compagnie assicuratrici non sono obbligate ad assicurare le strutture sanitarie. E sono comunque sempre meno interessate a farlo, perché, dicono, i rischi superano i benefici. Così, fissano premi sempre più elevati, oppure disertano le gare indette dagli ospedali per la scelta della compagnia con cui assicurarsi. Il risultato? Nonostante tutto, oltre il 72 per cento delle aziende sanitarie — secondo la ricognizione fatta dall'indagine della Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori in campo sanitario — si tutela ancora dal rischio risarcimenti destinando ingenti somme per premi assicurativi sempre più onerosi. Alcune strutture, però, non sono state più in grado di riassicurarsi, mentre altre faticano a trovare compagnie disposte ad assicurarle. E i paziente danneggiato? A parte il rischio di non essere risarcito per mancanza di copertura delle strutture o di riuscire a ottenere (parziale) soddisfazione solo dopo un lungo calvario legale, il cittadino-paziente rischia anche di diventare più temuto che assistito, oppure curato più in funzione delle ansie del medico e delle precauzioni della struttura che per l'obiettività dei propri disturbi, in un clima di sospetto reciproco invece che di fiducia e alleanza. Secondo i dati ricavati dalla Commissione parlamentare d'inchiesta, nel periodo 2006-2011, il premio assicurativo medio pagato dalle aziende sanitarie è aumentato del 35 per cento. I risarcimenti liquidati dalle compagnie, invece, sono diminuiti del 75 per cento come valore complessivo. In pratica, le strutture sanitarie spendono di più e i cittadini ottengono di meno. «Una "forbice", quella tra i premi assicurativi pagati dalle strutture sanitarie e i risarcimenti liquidati, che si è via via allargata — commenta Antonio Palagiano, presidente della Commissione — perché le assicurazioni liquidano meno 'volentierì e accantonano di più, anche nella previsione che con il passar del tempo i ricorrenti si accontentino di liquidazioni meno onerose». Una delle cause di questa situazione — spiegano all'Ania, l'Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici — risiede nell'aumento del contenzioso medico-legale, che ha raggiunto dimensioni tali da condizionare in maniera rilevante sia i bilanci delle strutture sanitarie, sia la relazione fra medico e paziente: secondo le compagnie di assicurazione (dati del Rapporto Marsh 2012), dal 2010 al 2011 il tasso di rischio clinico (cioè la probabilità che una persona subisca un "danno o disagio" imputabile, anche se in modo involontario, a cure mediche durante un ricovero) è aumentato di circa l'8%. Di recente si vanno cercando soluzioni alternative al caro-polizze che rischia di lasciare "scoperte" le strutture, i medici, e di conseguenza i pazienti danneggiati: per esempio, quella di un fondo regionale assicurativo, cioè di una copertura assicurativa gestita direttamente dalle Regioni, oppure quella di un'integrazione Regione-ospedali con risarcimenti a carico delle strutture fino ad una certa cifra, oltre la quale "viene in aiuto" la Regione (vedi articolo sotto). «Comunque, al cittadino-paziente che ritiene di aver subito un danno consiglierei di rivolgersi con serenità agli uffici competenti della struttura sanitaria, per metterli al corrente della propria valutazione dell'esperienza vissuta, — dice l'avvocato Anna D'Andrea, che si occupa di gestione delle problematiche assicurative e del risk management per l'Azienda ospedaliera Niguarda Cà Granda di Milano — in modo che la struttura e il personale possano condividere la sua personale percezione degli eventi. Questo contatto può consentire l'avvio di un percorso di chiarimento, lasciando libero il cittadino-paziente di attivare in qualsiasi momento tutte le forme di tutela che riterrà necessarie, qualora non si trovi un punto d'incontro condiviso e laddove ne sussistano i presupposti». Luciano Benedetti _____________________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. 2013 LE REGIONI CREANO PROPRI FONDI DI GARANZIA Risarcire direttamente i pazienti che hanno subìto un danno, grazie a un fondo destinato a coprire le richieste. Regioni e Aziende sanitarie si stanno orientando verso il fai-da-te per far fronte a polizze assicurative sempre più care o disdette dalle Compagnie. La prima ad avviare la sperimentazione della gestione diretta dei sinistri è stata la Toscana nel 2010. «Una volta raggiunto l'accordo con il paziente, l'Asl liquida direttamente la somma attingendo dal fondo regionale, così si riducono notevolmente i tempi per il risarcimento del danno — spiega Riccardo Tartaglia, direttore del "Centro di gestione del rischio clinico e della sicurezza del paziente" della Regione Toscana —. Se la negoziazione tra le parti non va a buon fine, prima di arrivare al contenzioso si tenta la strada della conciliazione. Oltre a venire incontro alle esigenze dei pazienti, la gestione diretta dei sinistri permette agli operatori sanitari di lavorare con più serenità: secondo un recente studio americano, infatti, un medico impiega circa l'11% della sua vita professionale per seguire contenziosi su presunta malpractice». Dopo la Toscana, anche altre Regioni stanno sperimentando la via dell'autoassicurazione, come per esempio Friuli Venezia Giulia, Liguria, Piemonte, Basilicata e, da gennaio, Emilia Romagna e Veneto. «La maggior parte sta optando per un modello misto: la gestione diretta dei sinistri avviene fino a un determinato importo, mentre si conserva la polizza assicurativa per i risarcimenti elevati in caso di danni "catastrofali" (per esempio, a livello cerebrale in seguito a un errore durante il parto, ndr) — sottolinea Barbara Labella dell'Agenas, l'Agenzia per i servizi sanitari regionali che sta svolgendo un'indagine sui "modelli regionali di gestione di sinistri e polizze assicurative". Il modello seguito in Emilia Romagna, per esempio, prevede che le Asl paghino di tasca propria gli indennizzi al paziente per i danni inferiori ai 100 mila euro; per cifre superiori è la Regione a garantire il rimborso attraverso il fondo cui attingono Asl e strutture accreditate; per i risarcimenti superiori a un milione e 500 mila euro si ricorre alla polizza assicurativa stipulata a livello regionale. Altre Regioni non hanno ancora elaborato un modello generale di gestione diretta dei sinistri, come risulta dai dati preliminari dell'indagine di Agenas. In alcuni casi, come nel Lazio, la scelta è lasciata alle singole aziende sanitarie; in altri, come nelle Marche, la sperimentazione è stata avviata solo in qualche Asl. Così anche in Veneto dallo scorso gennaio. «A sperimentare per prime le nuove modalità assicurative sono le aziende sanitarie e ospedaliere della provincia di Padova» riferisce Valerio Fabio Alberti, presidente di Fiaso, la Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere. Per ora il modello veneto, in attesa di essere esteso a tutta la Regione, prevede l'autogestione interna alle aziende dei sinistri al di sotto dei 500 mila euro e, per cifre superiori, l'accensione di polizze con le compagnie assicurative. «Si procede con prudenza — sottolinea Alberti — . L'esperienza toscana nei primi due anni ha dimostrato di funzionare: tempi di risarcimenti più rapidi, risparmi anche consistenti. Ma il punto è capire se le Asl, e anche le Regioni, saranno in grado di gestire a lungo termine i sinistri — continua il presidente di Fiaso — . Cosa potrebbe accadere se gli eventi avversi dovessero aumentare? O se si dovesse far fronte a un danno "catastrofale"? Finora, poi, lo strumento della conciliazione è stato poco usato nella maggior parte delle Regioni italiane». «Un'escalation di importi potrebbe verificarsi — conferma Tartaglia —. Se l'accordo tra le parti viene raggiunto dopo un pò di anni, si accumulano i risarcimenti da liquidare. Per far fronte a questa possibilità abbiamo previsto un attento monitoraggio dei sinistri, che serve a pianificare gli eventuali rimborsi per gli anni successivi, ma anche a capire perché si è verificato un incidente. Avere più informazioni aiuta a porre in atto azioni di prevenzione, e quindi a migliorare la sicurezza dei pazienti. La gestione diretta dei sinistri può essere realizzata solo se in ogni struttura avviene il controllo del rischio clinico». _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 20 feb. 2013 I MEDICI DELL’AOUSS IN RIVOLTA: CHIEDONO GLI ARRETRATI Animata assemblea nei locali della facoltà di Medicina. Si è parlato anche della mancata formazione SASSARI Consistenti differenze retributive (ai danni dei dirigenti medici) risalenti al 2007 sono state al centro di un’animata assemblea dei dipendenti dell’Aou che si è tenuta lunedì in una sala riunioni di Medicina. Ma i sanitari, convocati da tutte le sigle sindacali del settore, hanno anche parlato del nucleo di valutazione e delle criticità relative alla formazione professionale. La questione più urgente, a detta di tutti i rappresentanti di categoria, è proprio quella relativa alla costituzione dei fondi contrattuali dai quali l’azienda sanitaria dovrebbe attingere per il pagamento della parte variabile dello stipendio. «Tali fondi – si legge in un documento emerso dall’incontro e sottoscritto da Anaao, Assomed, Anmdo, Aaroi, Cgil-Cimo, Asmd, Fesmed-Fvm, Uil Medici e Cisl Medici – risultano non calcolati correttamente fino dal 2007». Tant’è vero che i revisori dei conti non li hanno mai certificati e da tempo le organizzazioni sindacali chiedono alle varie amministrazioni aziendali che si sono succedute, di procedere ai calcoli così come previsti dalla legge in modo che possano essere quantificati gli esatti importi e l’ammontare degli arretrati degli ultimi sei anni. Ma i sanitari chiedono anche che nel nucleo di valutazione dei medici sia inserita una figura sanitaria:una scelta che invece l’Aou non ha fatto. La discussione dei medici riuniti in assemblea si è poi incentrata sulle criticità legate alla formazione e all’aggiornamento professionale «per i quali – dicono i sindacati – l’Aou è inadempiente. I fondi per la formazione, obbligatoria e prevista per legge, non sono stati spesi». E alcuni degli intervenuti hanno aggiunto che in questo campo non c’è un’adeguata programmazione. Infine si è parlato della mancata sorveglianza sull’applicazione del regolamento riguardante l’orario di servizio. Un fatto che provoca, è emerso nell’incontro, disparità nei carichi di lavoro. I medici dunque attendono risposte concrete da parte della direzione aziendale. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 24 feb. 2013 UNA ROTATORIA PER ENTRARE NEL POLO UNIVERSITARIO Presto ci sarà una nuova rotatoria per rendere più sicura la circolazione delle auto sulla provinciale 8, quella che collega Sestu a Monserrato: sostituirà l'attuale ingresso “a raso” per la Cittadella universitaria. Da oltre due anni studenti, medici e pazienti che ogni giorno frequentano il Polo universitario e il Policlinico aspettano l'inizio dei lavori. Domani aprirà il cantiere e l'opera, finanziata dalla Provincia con 500.000 euro, dovrebbe essere conclusa entro l'estate. La decisione di costruire la nuova rotatoria nasce soprattutto da un problema di sicurezza. Quell'incrocio, infatti, viene spesso attraversato ad alta velocità dalle auto che arrivano da Sestu, creando un pericolo soprattutto per chi esce dalla Cittadella, che si trova a dover fare i conti con i veicoli che provengono sia da destra che da sinistra. «Si tratta di un importante intervento che garantisce maggiore sicurezza e, allo stesso tempo, aiuta a decongestionare il traffico nelle ore di maggiore intensità», spiega Antonio Pillai, dirigente della direzione opere pubbliche dell'università. (ma.mad.) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 24 feb. 2013 Ugo Carcassi presenta l'inchiesta di Pacelli e Forgione CARCASSI: I RESTI DI CARAVAGGIO O DI UNA SCIMMIA CONTROANALISI DEL DNA Com'è morto Caravaggio? Dove sono i suoi resti? Una delle più grandi cacce al tesoro della storia dell'arte resta aperta: il presunto ritrovamento delle ossa del grande pittore sarebbe un falso. A smentire la scoperta che due anni fa è stata documentata dal National Geographic Channel e tutta la stampa internazionale è Ugo Carcassi, esperto in genetica molecolare. «La percentuale di compatibilità che esiste tra quelle ossa e Caravaggio è la stessa che esiste tra qualunque uomo e uno scimpanzé». Il professore emerito di Clinica Medica all'università di Cagliari e di Reumatologia all'università La Sapienza di Roma, giovedì ha esposto i risultati di una recente ricerca scientifica durante un incontro degli Amici del Libro all'Hostel Marina di Cagliari. Nel più assordante silenzio della stampa, l'analisi sul Dna che smentisce la scoperta del team di Giorgio Gruppioni e Silvano Vinceti è stata condotta e pubblicata due mesi fa da Vincenzo Pacelli e Gianluca Forgione (“Caravaggio tra arte e scienza”, Paparo Edizioni). Molte le certezze cadute. «L'indagine del team di esperti che ha fatto gridare allo scoop del ritrovamento si è basata su presupposti sbagliati e su una campagna di compatibilità genetica molto superficiale», spiega Carcassi che ha studiato i recenti risultati della ricerca condotta dal suo collega Pacelli, professore ordinario all'università Federico II di Napoli . Nel 1956 vennero rivenuti i resti di individui sepolti quattrocento anni fa in un giardino a Porto Ercole, dove si crede ci fossero anche quelli di Michelangelo Merisi. Si trattava di individuare quali tra questi appartenessero al grande pittore. «Il primo errore è stato quello di dare per scontato che la sua morte sia avvenuta in quel luogo», racconta Carcassi alludendo alla tesi del Pacelli secondo la quale Caravaggio sarebbe finito in un luogo imprecisato, assassinato in un complotto legato non, come alcuni ipotizzano, alla vendetta per la sua uccisione di Ranuccio Tomassoni durante una rissa, ma ad un'offesa arrecata ad un nobile cavaliere dell'Ordine di Malta. Ordine da cui venne espulso. «La selezione dei reperti venne ristretta sulla base della compatibilità genetica con persone che si chiamano Merisi e che sono nativi di Caravaggio. Peccato che il pittore nacque invece a Milano e probabilmente da una relazione extraconiugale della madre con Francesco I Sforza. Inoltre i test di compatibilità sul Dna indicano una coincidenza genetica all'85% che è la stessa che accomuna il nostro Dna a quello degli scimpanzé. Per capire meglio quanto siano stati forzati quei risultati, basta pensare che il 99,5% del Dna è identico in tutti gli individui, uomini e donne. Non a caso i Tribunali di tutto il mondo richiedono una positività favorevole al 99,99% per poter parlare di coincidenza genetica». Il mistero della morte del genio resta aperto. Ci rimangono le tele con cui rivoluzionò la storia dell'arte, il dubbio di una vile congiura e quell'autoritratto in Golia nella tela che inviò al Papa assieme alla richiesta di grazia. Forse il suo ultimo tentativo di esorcizzare la morte. Invano. Cristina Muntoni _____________________________________________________ Panorama 20 feb. 2013 PAZIENTI IN COMA FUNZIONA IL CERVELLO? Dentro quel corpo immobile in terapia intensiva, dopo un incidente, un ictus, c'è ancora una persona, una coscienza? Fino a poco tempo fa i pazienti in stato vegetativo erano un enigma e troppo spesso si pensava che «dentro non ci fosse più nessuno». Gli ultimi studi indicano che così non è, non sempre almeno. Proprio per verificare se questi malati hanno un livello di coscienza sta per iniziare, all'Istituto Don Gnocchi di Milano, una sperimentazione per misurare la comunicazione interna al cervello (condizione essenziale affinché la coscienza possa emergere) tramite uno strumento innovativo che unisce elettroencefalogramma e stimolazione magnetica transcranica. «È un metodo non invasivo per individuare nel cervello segnali elettrici o particelle, una sorta di telescopio metaforico per vedere se c'è un barlume di coscienza» riassume Marcello Massimini, ricercatore al dipartimento di scienze cliniche all'ospedale _____________________________________________________ La Repubblica 19 feb. 2013 ITALIANA LA PRIMA MANO BIONICA CON SENSO DEL TATTO DAL NOSTRO CORRISPONDENTE ENRICO FRANCESCHINI Verrà trapiantata a Roma nei prossimi mesi. IL professor Micera a ITALIANA LA PRIMA MANO BIONICA CON SENSO DEL TATTO Boston: "L'arto sarà connesso direttamente al sistema nervoso del paziente" LONDRA—Una mano bionica in grado di provare le stesse sensazioni di una mano naturale sarà impiantata in un paziente italiano a Roma nei prossimi mesi. La rivoluzionaria operazione potrebbe introdurre una nuova generazione di arti artificiali dotati di percezioni sensoriali identiche o vicine a quelle umane, aprendo un futuro completamente diverso per la riabilitazione di coloro che subiscono amputazioni. L'invenzione è stata annunciata al convegno annuale dell'American Association for the Advancement of Science a Boston e ripresa ieri con ampio spazio dalla stampa inglese. Il paziente, scrivono i giornali di Londra, è un italiano poco più che ventenne che ha perso la parte inferiore di un braccio in un incidente. «Siamo di fronte a un importante progresso», afferma il professor Silvestro Micera della Ecole Polytechnique Federale di Losanna, «sarà la prima mano prostetica che permetterà di provare sensazioni in tempo reale. Ed è chiaro che più una persona a cui è stato amputato un arto è in grado di avere sensazioni corporee, più sentirà come propria la protesi che lo sostituisce». L'aspetto straordinario di questa innovazione è che i fili della mano bio nica saranno collegati direttamente al sistema nervoso del paziente, con la speranza che l'uomo sarà in grado di controllare e dirigere i propri movimenti così come di ricevere sensazioni dai recettori sistemati sulla pelle. La mano, spiega il professor Micera, verrà attaccata al sistema nervoso del paziente con degli elettrodi connessi a due dei principali nervi del braccio. Questo dovrebbe consentirgli di controllare 'amano con i propri pensieri e nel contempo di ricevere i segnali inviati dai sensori al cervello, dunque proprio come avviene con una mano naturale. Ci sarà, predice lo scienziato, un doppio e rapido flusso di informazioni tra la protesi e il cervello dell'uomo. Un modello di mano di questo tipo era già stato temporaneamente attaccato nel 2009 a un altro paziente italiano, Pierpaolo Petruzziello, che aveva perso metà di un braccio in un incidente. Dopo l'intervento, era in grado di muovere le dita della sua mano bionica, di formare un pugno e di afferrare oggetti. Diceva anche di sentire la sensazione di un ago piantato sulla palma della mano. Ma la precedente versione aveva solo due zone sensoriali, mentre il nuovo prototipo invierà sensazioni al cervello datutte e cinque le dita della mano, oltre che dal palmo e dal polso. Restano dubbi su quanto a lungo un paziente potrà tollerare una mano del genere senza avere bisogno di toglierla periodicamente, e un altro problema sarà quello di nascondere gli elettrodi sotto la pelle in modo che non si vedano _____________________________________________________ MF 20 feb. 2013 ALLERGIE MESSE AL BANDO Salute Uno studio ha testato l'efficacia dell'agopuntura sui sintomi della rinite Per rafforzare il sistema immunitario anche talasso e speleoterapia di Cristina Cimato Agopuntura contro le allergie? Alcuni ricercatori del Charite university medicai center di Berlino hanno testato questo rimedio naturale, abbinato ai farmaci, per combattere la rinite allergica Circa 400 pazienti sono stati suddivisi in tre gruppi, uno di essi è stato sottoposto a questo antico trattamento orientale in combinazione con i farmaci, un altro ha ricevuto una sorta di agopuntura placebo, abbinata a farmaci, e un terzo solamente il farmaco. Lo studio, pubblicato sugli Annals of interrtal medicine, ha mostrato miglioramenti a livello sintomatico nei pazienti 'sottoposti alla terapia combinata dopo otto settimane di test rispetto a quelli radunali negli altri due gruppi. Ma il divario è diminuito al momento di follow up a 16 settimane. I ricercatori non sanno dire se le possibili aspettative da parte dei pazienti nei confronti dell'agopuntura abbiano potuto pesare sui risultati, ma auspicano studi ulteriori sul trattamento naturale che lo comparino con altre terapie testate e validate. Di certo il lavoro risponde in parte alle necessità, manifestate dai pazienti che soffrono di questa patologia molto diffusa (il 25% della popolazione ne è vittima), di ricercare terapie alternative a quelle farmacologiche per alleviare i sintomi. La comunità scientifica, inoltre, segnala un aumento dell'incidenza della patologia, soprattutto nei bambini. «Una delle allergie più diffuse in Italia e nel mondo è la rinite allergica associata spesso all'asma bronchiale», ha spiegato Marina Russello, allergologa presso il SanfAnna di Como, in occasione di un recente incontro presso la sede dell'Ordine provinciale dei medici chirurghi e odontoiatri di Como, «la causa principale è da cercare in alcuni pollini di piante diffuse come la betulla, l'olivo, l'ambrosia, la parietaria e le graminacee» Fra le soluzioni naturali per creare uno scudo difensivo dell'organismo alle allergie è stato messo a punto di recente un programma specifico presso il Tombolo Talasso Resort, in Toscana, affacciato sul mare. Qui si possono effettuare due, tre o sei giorni di terapia basata sulla respirazione all'interno delle grotte, dove si crea un aerosol naturale, balneoterapia con idromassaggi arricchiti di alghe e limi e detersione attraverso lavaggi nasali, che regolano e rafforzano il sistema immunitario. All'inizio e alla fine del programma è previsto un check up con Michela Giovannetti, direttore sanitario della struttura, con consigli e dieta capace di stimolare il sistema immunitario. Un'altra meta ideale per chi soffre di asma bronchiale è il Centro climatico di Predoi, situato nella Valle di 'Tures e Aurina in provincia di Bolzano. Qui esiste una struttura dedicata allo studio dei sintomi della bronchite e dell'asma bronchiale e allergica. Si tratta di un'ex cava di rame situata all'interno della montagna, raggiungibile con quello che fu il trenino dei minatori. Il centro, che riaprirà a marzo, presenta condizioni igieniche dell'aria capaci di alleviare problemi allergici alle vie respiratorie. Vengono in aiuto alle persone con allergie anche gli hotel che fanno parte della Respiration health hotels, strutture dotate di arredamenti e tessuti a prova di allergie. Soggiornando in uno di questi alberghi si può beneficiare di uno sconto del 25% sui prezzi del centro climatico. (riproduzione riservata) _____________________________________________________ TST 20 feb. 2013 RIPARERÒ I DANNI DELL'INFARTO" Ricerca italiana: "Una terapia rivoluzionaria che parte dalle proprietà dell'Rna" Come riparare un cuore infranto? Se lo chiedevano i Bee Gees, gruppo cult della disco music, che nel 1971 incise il famoso brano «How can you mend a broken heart». E se l'è chiesto un team di ricercatori del Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologie, I'Icgeb, che in collaborazione con un team di cardiologi dell'Università di Trieste è al lavoro per identificare nuovi farmaci utili in caso di infarto del miocardio e scompenso cardiaco. Ora, i risultati del loro studio, coordinato da Mauro Giacca e pubblicato su «Nature», aprono nuove prospettive, potenzialmente rivoluzionarie, per la cura delle malattie cardiovascolari: è stata identificata, infatti, una possibile chiave per stimolare la riparazione del cuore e rimettere in moto le cellule cardiache danneggiate da infarto. «Cercare di riparare i cuori danneggiati da patologie cardiache o dall'età - spiega Giacca, direttore dell'Icgeb di Trieste - rappresenta oggi uno degli obiettivi più importanti della ricerca medica. Infatti, l'infarto del miocardio e lo scompenso cardiaco stanno assumendo dimensioni epidemiche a livello planetario: sono la causa di 17 milioni di morti ogni anno. Basta pensare che una persona su tre nel mondo muore a causa di una patologia cardiovascolare, con spese sanitarie non indifferenti: la terapia e l'ospedalizzazione dei pazienti costa il 2% del pil dei Paesi industrializzati. Ma i farmaci disponibili sono essenzialmente ancora quelli sviluppati una ventina di anni fa. Ora per la prima volta - aggiunge - siamo riusciti a dimostrare che si può stimolare la rigenerazione del cuore infartuato, agendo direttamente sulle cellule cardiache grazie ai microRna. Si apre così la strada a nuove bioterapie». Professor Giacca, la chiave di volta è custodita in piccole porzioni di Rna, coinvolte nei meccanismi di regolazione dell'espressione dei geni: come riescono a indurre la rigenerazione cardiaca nei pazienti con infarto o insufficienza cardiaca? «Abbiamo identificato 40 piccole molecole di Rna (microRna): sono capaci di stimolare la riparazione cardiaca favorendo la replicazione delle cellule del cuore stesso. I microRna sono regolatori fondamentali di tutte le funzioni cellulari: controllano cioè il destino di tutte le cellule dell'organismo. Nei laboratori dell'Icgeb, grazie a uno screening robotizzato, abbiamo analizzato la funzione di tutti i microRna codificati dal Genoma, scoprendo che proprio 40 di questi sono in grado di stimolare la proliferazione delle cellule adulte del cuore, esattamente come quelli normalmente attivi durante lo sviluppo embrionale, quando il cuore si sta formando». Ma facciamo un passo indietro: cosa succede a un cuore colpito da infarto? «Il cuore ha una scarsissima, se non nulla, capacità rigenerativa: nasciamo con un certo numero di cellule cardiache che pulsano miliardi di volte per tutta la vita. Quando si occlude un'arteria coronaria a causa di un infarto o le cellule cardiache si danneggiano a causa della pressione alta o perché infettate da un virus, come nel caso della miocardite, il cuore va incontro a una progressiva morte cellulare e le cellule perse non si rinnovano. Il cuore, dunque, non pompa più bene e il paziente va incontro alla condizione clinica nota come scompenso cardiaco. Più del 50% dei pazienti a cui viene diagnosticato muore entro quattro anni dalla comparsa dei sintomi. Si tratta, perciò, di una prognosi addirittura peggiore dei tumori». Se il problema-chiave delle patologie cardiache è legato all'incapacità delle cellule del cuore di rigenerarsi, come si può applicare una terapia a partire dai microRna? «Nel corso dei nostri esperimenti, anche su cellule umane derivate da staminali embrionali, abbiamo osservato che, quando questi microRna vengono somministrati a un cuore che ha subito un infarto, sono in grado di rimettere in moto la replicazione dei cardiomiociti, le cellule contrattili che danno al cuore la sua funzione di pompa e, quindi, riescono a stimolare la riparazione del danno non attraverso la formazione di una cicatrice, come avviene normalmente, ma promuovendo la formazione di nuove cellule». L'obiettivo, ora, è sviluppare nuovi farmaci a base delle molecole di Rna? «Stiamo lavorando per trasformare i microRna in farmaci da iniettare nel cuore. Oggi i farmaci utilizzati per il trattamento e la cura di infarto e scompenso cardiaco non agiscono sulla rigenerazione cellulare, ma cercano di aumentare la capacità di contrazione del cuore residuo, cioè la funzione di pompa del tessuto rimasto intatto. Il nostro obiettivo, invece, è sviluppare farmaci biologici che rimettano in moto le cellule cardiache: farmaci che possano risvegliare le cellule dormienti della parte danneggiata, portando così alla guarigione senza lasciare cicatrici». Quanto siete vicini a questo obiettivo? «Prima di avviare la sperimentazione clinica sull'uomo dobbiamo rendere le molecole più stabili, capire come iniettarle nelle arterie coronarie, perché la procedura sia meno invasiva possibile, e con quali sostanze mescolarle per favorirne l'ingresso nelle cellule, verificando che stimolino solo la proliferazione dei cardiomiociti e non, per esempio, di cellule tumorali». Quanto tempo ci vorrà? «Contiamo di arrivare entro tre anni ai trial clinici, grazie a collaborazioni accademiche in Italia e negli Usa». _____________________________________________________ Italia Oggi 20 feb. 2013 L'ACIDO FOLICO ABBATTE IL PERICOLO DI AUTISMO DI ELISABETTA IOVINE L’assunzione di acido folico da parte delle donne in gravidanza sarebbe in grado di ridurre il rischio di autismo nei bambini. A questa conclusione è giunto uno studio norvegese pubblicato sulla rivista Journal of American Medical Association (Giornale dell'associazione medica americana). La sostanza, che andrebbe somministrata alle gestanti quattro settimane prima della concepimento e durante le prime otto settimane di gravidanza, abbatterebbe il pericolo del 40%. L'acido folico, noto anche come vitamina B9, è un elemento indispensabile al buon funzionamento dell'organismo, che riguarda soprattutto la sintesi del dna e il rinnovamento delle cellule. Se la donna incinta ne è carente, cresce il rischio di malformazione del sistema nervoso per il feto. Per ovviare a tele inconveniente, da oltre dieci anni la direzione generale francese della sanità racco manda alle future mamme di assumere 400 microgrammi al giorno di questa sostanza un mese prima del concepimento e nelle due settimane successive. Gli scienziati norvegesi hanno esaminato un campione di 85 mila bambini. La presenza di autismo nei bimbi appartenenti al gruppo di madri che non avevano assunto acido folico era superiore del 40% rispetto all'altro gruppo. I ricercatori hanno precisato che si sa da molto tempo che questa vitamina è indispensabile al buon sviluppo del cervello' del feto e, al contrario, che una sua carenza potrebbe essere associata all'auti smo. Questi risultati permetteranno alla sanità pubblica d'Oltralpe di intervenire con politiche mirate. L'ultima inchiesta francese, condotta nel 2010, aveva evidenziato che soltanto un quarto delle donne incinte assumeva compresse di acido folico. Ma la vera questione, sottolinea il ginecologo parigino Jacky Nizard, riguarda la necessità di farlo prima del concepimento, mentre la maggior parte delle donne lo fa unicamente nel periodo successivo. È innanzitutto un problema di informazione alle dirette interessate. Tutti gli operatori sanitari, argomenta Nizard, devono essere sensibilizzati, dagli specialisti ai medici generici. Se è vero che l'assunzione di acido folico non elimina la patologia dell'autismo, è altrettanto vero che è possibile ridurre la percentuale di bambini che ne sono colpiti. Ma l'importante è arrivare in tempo. Una soluzione sarebbe quella di fornire le informazioni alle donne presso i centri di pianificazione familiare. _____________________________________________________ Il Mattino 20 feb. 2013 LA PROTEINA RANKL E IL DIABETE DI TIPO 3 Il focus Serena Martucci una semplice proteina che però sarebbe in grado di infiammare il fegato e causare il diabete di tipo 2, patologia sempre più diffusa che solo in Balia conta oltre 4 milioni di pazienti. La scoperta arriva dopo numerose ricerche condotte per una ventina d'anni da vari gruppi di ricercatori italiani in collaborazione l'Università di Cambridge e della Harvard di Boston che dimostrano come la Rankl, la proteina responsabile dei processi di generazione di malattie come l'artrite reumatoide e l'artrite psoriasica, potrebbe essere l'interruttore molecolare che sta dietro le disfunzioni del fegato. Lo studio, pubblicato su «Nature Medicine», è partito dall'osservazione di alcune persone che presentavano una maggiore quantità di Rankl nel sangue e avevano dunque un maggiore rischio di sviluppare il diabete. I ricercatori hanno allora modificato geneticamente alcuni topi (aumentando o riducendo la concentrazione di proteina Rankl) e confermato che Rankl è effettivamente coinvolta nel metabolismo del glucosio. Di fatto bloccando la Rankl nelle cavie con il diabete si è ottenuto un miglioramento delle alterazioni metaboliche tipiche della malattia: il livello di glicemia nel sangue calava e anche la sensibilità insulinica a livello del fegato migliorava. Infine i ricercatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma hanno utilizzato topini alimentati con dieta grassa (simile alla dieta scorretta che porta molte persone a sviluppare diabete), dimostrando in modo inequivocabile che diminuendo la concentrazione ematica di Rankl era possibile prevenire la tipica condizione dei picchi di insulina e di ridotta sensibilità dell'organismo a questo ormone (insulino-resistenza) che è il primo passo verso la comparsa del diabete. La scoperta dell'azione infiammatoria svolta dalla proteina Rankl, e il suo coinvolgimento nel diabete di tipo 2, è un risultato importante per almeno due motivi: evidenzia l'efficacia di un team di ricerca internazionale ed europeo, e apre la strada alla sperimentazione di una terapia in grado di affrontare una malattia in continua crescita come il diabete tipo 2. «Esistono già dei farmaci che agiscono sulla Rankl ma sono destinati alla cura delle malattie reumatiche - spiega il prof Andrea Giaccari - E molto probabile che questi farmaci abbiano anche un effetto positivo sulla comparsa del diabete ma i loro effetti collaterali ne sconsigliano l'uso per questo fine». _____________________________________________________ MF 23 feb. 2013 LA RICETTA DEL TELE-PAZIENTE MEDICINA Telbios presenta a Roma il nuovo sistema di monitoraggio a distanza delle patologie croniche. Le cure potranno essere ricevute direttamente a casa. Così finalmente si riducono i costi della sanità di Gianluca Zapponini La rivoluzione tecnologica bussa anche alla porta della medicina. Malattie croniche come il diabete e l'ipertensione, tanto per citarne qualcuna, potranno infatti da oggi essere comodamente curate a casa propria. Come? Grazie a un sistema presentato pochi giorni fa a Roma e messo a punto dal gruppo Telbios, attivo nei servizi di tele-medicina, in collaborazione con Qualcomm Life. Un progetto pilota grazie al quale il paziente potrà ricevere tutte le cure necessarie direttamente a domicilio, assistito dal medico personale e utilizzando specifiche apparecchiature di tele-monitoraggio come elettrocardiografo, bilancia, ossimetro, glucometro, misuratore di pressione e termometro. Il tutto, con la costante supervisione di un triage infermieristico fornito dal Centro servizi Telbios Tutto questo avrà un impatto significativo sul Sistema sanitario nazionale. Curare i pazienti a distanza significa risparmiare sui già enormi oneri della sanità «dal momento che oggi circa 1'80% dei costi sanitari riguarda la cura delle malattie croniche», spiega a MF-Milano Finanza l'ad di Telbios, Renato Botti. «Questo nuovo metodo mira a rendere sostenibile il Servizio sanitario nazionale, dandone un drastico taglio ai costi». Monitorare i pazienti a casa significa infatti decongestionare le corsie degli ospedali e i pronto soccorso. «Il nostro progetto potrà contribuire allo snellimento del lavoro e quindi alla riduzione dei costi» aggiunge Botti. Gli obiettivi sono quindi quelli di uguagliare i risultati rilevati dallo studio clinico effettuato dal National Healthcare System nel Regno Unito denominato Whole System Demonstrator, riducendo gli accessi al pronto soccorso (-20%), diminuendo i ricoveri ospedalieri (- 11%), contrastando la progressione della patologia cronica e migliorando la qualità della vita dei pazienti. Evidente l'impatto positivo sulla spesa sanitaria complessiva, considerando che le patologie croniche interessano il 27% della popolazione, incidendo sul 70%-80% sui costi totali. Il monitoraggio a distanza delle patologie croniche partirà proprio in questi giorni: «Entro questo mese avremo già 100 pazienti mentre da qui a un anno puntiamo ad averne almeno 1.500». Al momento inoltre, hanno aderito al progetto su base volontaria oltre 300 medici di famiglia organizzati in cooperativa con al seguito 37 mila loro pazienti.) _____________________________________________________ Il Giornale 24 feb. 2013 FORME TUMORALI E INFEZIONI DA PAPILLOMA VIRUS: ECCO LE ULTIME RICERCHE Il Centro multidisciplinare per lo studio dell'infezione da papilloma virus attivo presso gli Istituti Regina Elena e San Gallicano diRo, mahaunruolo prioritario. É una realtà polispecialistica che può avvalersi di elevate competenze presenti in entrambi gli Irccs. Si occupa di prevenzione, diagnosi e terapia, ma soprattutto di corretta informazione rivolta a medici e cittadini. L'infezione da HPV è molto comune e frequente, può regredire spontaneamente come può dar luogo a lesioni pre- cancerose. Sebbene 1' avvento dei vaccini renda possibile una prevenzione primaria «l'arma più efficace - ha sottolineato Jack Cuzick, epidemiologo e capo del Centro per la prevenzione del cancro in Inghilterra- restai° screening eseguito con test convalidati scientificamente». Alp papillomavirus umano (HPV) sono correlate varie forme tumorali e non, nella donna come nell'uomo. Si osserva negli Usa, così come in Italia, un aumento di casi ditumore orofaringeo edanale associati all'HPV. Gli uomini non sono solo portatori di HPV, «ma soffrono di tumori associati all'HPV prettamente maschili». Per questo è importante focalizzare l'attenzione anche sulla vaccinazione maschile, nonché sulla prevenzione. «L'informazione dell'opinione pubblica è abbastanza confusa e la formazione delle figure mediche è ancora insoddisfacente», spiegano i coordinatori dell'HPV UnitLuciano Mariani, ginecologo ed Aldo Venuti, virologo .«Negli ultimi 20 anni si è verificata una vera e propria esplosione di studi sul virus HPV, ma non corrisponde una capacità di trasferimento di conoscenze chiaro e puntuale alla classe medica». Riesce difficile anche per gli specialisti rimanere al passo con le nuove scoperte scientifiche ed è imperativo un costante aggiornamento, così da dare all'utenza un'informazione corretta, non allarmistica. «I costi- benefici della vaccinazione ai maschi, che è uno degli argomenti verso cui la comunità scientifica rivolge la massima attenzione- sottolinea Mariani - devono tenere conto non solo degli effetti indiretti sulla patologia femminile, ma anche dei possibili vantaggi diretti derivanti dai potenziali risp anni di spesa generati nelle lesioni ano-genitali e nei tumori maschili correlati all'HPV». _____________________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. 2013 RIMEDI PEGGIORI DELLE MALATTIE PER LE NOBILI RINASCIMENTALI di ELENA MELI D i alcune non conosciamo neanche il nome. Di altre sappiamo moltissimo, perché erano le celebrità della loro epoca e le cronache ne hanno registrato fedelmente la vita e le circostanze della morte. Sono donne vissute secoli fa e i loro resti raccontano molto della condizione femminile nel Rinascimento e di come si vivesse in quei tempi, alle corti nobiliari e fra la gente comune. Analizzare gli scheletri o le mummie arrivati fino a noi è come alzare il velo su quel passato e osservare, ad esempio, Isabella d'Aragona mentre si guarda allo specchio e comincia a spazzolare furiosamente i denti con un bastoncino in pietra pomice (o forse in osso di seppia), per sbiancarli e togliere quell'orribile patina scura che non sopportava. I denti di Isabella si erano anneriti perché intossicata dal mercurio, somministratole per curare la sifilide: proprio attorno al '500, quando Isabella era duchessa di Milano, la malattia cominciò a diffondersi in Europa e i pazienti venivano trattati (inutilmente, ma lo si sarebbe scoperto solo dopo) con unguenti o «fumi» mercuriali che non di rado erano più tossici della lue o perfino letali. Isabella poi, come le donne aristocratiche dell'epoca, aveva scoperto i cosmetici e si dedicava a pratiche che la intossicavano ogni giorno di più: truccava le labbra con un «rossetto» derivato dal cinabro, il minerale rosso da cui si estrae mercurio, e per trattare dermatiti e impurità cutanee o sbiancare la pelle usava l'unguento saraceno, a base della stessa sostanza. Le nobildonne, benché avessero tempo e denaro, non erano molto diverse dalle popolane di fronte a numerose malattie: «La tubercolosi e le altre patologie infettive colpivano allo stesso modo donne ricche e povere — spiega Gino Fornaciari, direttore della divisione di Paleopatologia, Storia della medicina e Bioetica dell'Università di Pisa —. Tutte, poi, erano esposte alla morte per parto: la mortalità femminile fra i 20 e i 30 anni era alta proprio per le complicazioni nel dare alla luce i figli, spesso molto numerosi». Accadde ad esempio a Giovanna d'Austria, prima moglie di Francesco I dei Medici: ebbe cinque figli, tutti con parti travagliati e difficili, ma alla fine della sesta gravidanza morì per la rottura dell'utero. «Anche le malattie respiratorie, come polmoniti o antracosi polmonare, erano diffuse allo stesso modo nei diversi ceti sociali: l'ambiente in cui vivevano e l'aria che respiravano nobildonne e popolane erano sostanzialmente uguali — interviene Luca Ventura, anatomopatologo dell'Ospedale San Salvatore dell'Aquila —. Va detto che per le donne di bassa estrazione sociale i dati sono molto più scarsi, perché sono più rari i corpi da esaminare, e le mummie, dove troviamo preziosi tessuti molli che possono darci molte informazioni, sono poche e di solito più recenti, dal '700 in avanti. Gli indizi ottenuti studiando gli scheletri ci permettono tuttavia di tracciare ipotesi verosimili». Le donne più umili, ad esempio, dovevano fare i conti con un maggior rischio di patologie da lavori usuranti come l'artrosi; le nobili, d'altro canto, più spesso andavano incontro a malattie dovute a eccesso di cibo anche se, come sottolinea Ventura, non è affatto detto che le popolane fossero per forza scheletriche, visto che alcuni reperti hanno mostrato segni della presenza di qualche chilo di troppo. Alla corte dei Medici e degli Aragonesi, peraltro, si seguiva un'alimentazione relativamente salutare perché ricca di pesce di mare: dai risultati delle analisi emerge che in Toscana il consumo si aggirava attorno al 14-30% della dieta, in Campania saliva fino al 40%. Merito, probabilmente, dalla frequente astinenza dalla carne suggerita dalla regola religiosa: durante il Rinascimento la carne era proibita al venerdì, al sabato, alla vigilia di importanti festività e durante l'Avvento e la Quaresima, per un totale che oscillava da un terzo a metà dei giorni dell'anno. Le donne di allora inoltre soffrivano di malattie che a torto riteniamo esclusive della modernità: è il caso del virus Hpv, la cui prima evidenza molecolare si è ottenuta sui resti di Maria d'Aragona, vissuta alla corte di Napoli nel '500. Sulla sua mummia è stata notata una formazione cutanea che poi è risultata essere un condiloma acuminato da papillomavirus: Maria era stata contagiata da Hpv 18, uno dei sottotipi di Hpv ad alto potenziale oncogeno, e aver dimostrato la presenza del virus così tanto tempo fa può aiutare a capire come si sia evoluto e modificato nei secoli. Pure i tumori esistono da sempre. «Lo testimoniano ad esempio le metastasi ossee da tumore al seno che sono state osservate su alcuni scheletri del periodo rinascimentale — riprende Ventura —. Anche in questo caso non ci sono differenze di ceto sociale: a Sermoneta, in provincia di Latina, abbiamo rinvenuto alcuni corpi mummificati nelle cripte di San Michele Arcangelo, una chiesa del vecchio villaggio medievale. Si trattava molto probabilmente di donne della borghesia locale e in un caso abbiamo potuto analizzare tessuto mammario in buone condizioni: sottoponendolo ai raggi X, come per una moderna mammografia, sono emerse microcalcificazioni compatibili con la presenza di cancro al seno. E probabilmente ha sofferto di un carcinoma simile anche Anna Maria Luisa de' Medici, l'elettrice palatina». Va detto però che in passato i tumori erano meno comuni: in parte perché la vita media era più breve, in parte perché non c'erano alcuni inquinanti, dagli idrocarburi alle sostanze radioattive (anche se si faceva largo uso di carni cotte alla brace dove si formano composti nitrosi organici cancerogeni, e infatti sono documentati casi di tumore all'intestino). Unica eccezione il mieloma multiplo, un tumore che pare fosse molto più diffuso qualche centinaio di anni fa: in questo caso è probabile che la continua stimolazione del sistema immunitario da parte di agenti infettivi provocasse più frequentemente di oggi il «deragliamento» in senso tumorale delle cellule immunitarie. «Le malattie delle donne e degli uomini del passato sono espressione dell'ambiente in cui sono vissuti e ci aiutano a tracciare un quadro più preciso della società di allora e della storia delle famiglie illustri, ricostruendo lo stile di vita con dati oggettivi da aggiungere alle ricostruzioni storiche — osserva Fornaciari —. Tuttavia questi dati possono essere utili anche ai medici: confrontare i ceppi di microrganismi antichi con quelli attuali ci insegna come si sono evoluti e potrebbe offrirci nuove armi per combatterli; capire come si comportavano i tumori nel passato può aiutarci a comprendere meglio i loro meccanismi di sviluppo e diffusione anche nei pazienti di oggi». _____________________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. 2013 MALATTIE RARE MALATI DIMENTICATI di SERGIO HARARI* C i sono molti settori nella sanità del nostro Paese nei quali si registrano disparità di accesso alle cure e di trattamento, ma in uno la situazione è particolarmente grave: quello delle malattie rare. In Italia molto si è fatto in questi anni per chi ne soffre, grazie alla sensibilità delle istituzioni, allo straordinario lavoro delle associazioni dei pazienti e all'abnegazione dei medici che se ne occupano. Moltissimo resta ancora da fare: da troppi anni si trascinano problemi irrisolti che ricadono, come handicap su handicap, sulle spalle dei nostri concittadini malati. Mi riferisco, in particolare, a un'inaccettabile disuguaglianza: molti pazienti ancora oggi sono esclusi dai programmi nazionali e dall'esenzione dal ticket perché hanno come unica colpa quella di essere portatori di patologie non comprese nell'elenco nazionale delle malattie rare, ampiamente deficitario e mai aggiornato. Interi capitoli di malattie, come, ad esempio, tutte quelle respiratorie, sono stati dimenticati nella stesura dell'elenco, oltre 10 anni fa; un vulnus mai sanato, per quanto incredibile possa sembrare. A rimediare la situazione ci provò l'ex ministro Livia Turco, in articulo mortis del governo Prodi, ma il provvedimento cadde col successivo governo per la supposta mancanza di copertura finanziaria. Ci riprova oggi il ministro Balduzzi, ma l'impressione che il tutto possa finire come la scorsa volta è forte. Ma tutto questo non basta, ad aggravare la situazione si aggiungono i tempi irragionevoli per la commercializzazione dei farmaci utili, talvolta indispensabili, per alcune di queste malattie, tempi spesi non per condurre studi clinici o particolari valutazioni ma solo perché venga concordato il prezzo di vendita. Si aggiungano poi le disparità di trattamento a seconda delle regioni di residenza, la sempre maggiore difficoltà a ottenere terapie spesso costose (ma meno di tante altre) e poco conosciute. Il 28 febbraio è la Giornata mondiale delle malattie rare: la speranza è che qualcosa in questo Paese cambi anche per questi malati. * direttore U.O. di Pneumologia Ospedale San Giuseppe, Milano, Centro regionale di riferimento per le malattie rare polmonari _____________________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. 2013 ADDIO ALLE SIGARETTE SENZA INGRASSARE Chi vorrebbe smettere di fumare spesso è titubante perché sa che abbandonare le sigarette può comportare ad accumulare chili di troppo. Ora una ricerca presentata a Firenze al Congresso europeo di endocrinologia spiega perché: stando ai dati, raccolti da ricercatori austriaci, la colpa sarebbe di uno squilibrio nella produzione di insulina. La dimostrazione arriva da una sperimentazione condotta a Vienna su un gruppo di fumatori inseriti in un programma per smettere di fumare. A tutti è stato fatto un test di tolleranza al glucosio mentre ancora fumavano e a distanza di tre e sei mesi dal giorno in cui avevano detto addio alle sigarette. Sempre a tutti è stata misurata anche la secrezione di insulina da parte delle cellule beta del pancreas a digiuno e dopo un carico di glucosio e sono stati dosati i livelli di altri ormoni coinvolti nella regolazione dell'introito energetico. Infine, i ricercatori hanno valutato l'appetito dei partecipanti offrendo loro un buffet, da cui potevano prendere liberamente cibo, per capire quanto fossero affamati. Primo dato: si conferma che il temuto aumento di peso in effetti c'è. A tre mesi dall'abbandono delle sigarette il peso dei partecipanti era cresciuto in media del 4 per cento, la massa grassa del 22 per cento; a sei mesi gli incrementi erano rispettivamente del 5 e del 35 per cento. Come hanno osservato i ricercatori, l'abbandono delle sigarette ha aumentato la produzione di insulina dopo un carico di glucosio, associata a un incremento del consumo di carboidrati dal buffet; mentre è diminuita la risposta dell'organismo a una dose-test dell'ormone, segno che il corpo era diventato più resistente all'azione dell'insulina e ne serviva di più per gestire il metabolismo di una stessa quantità di zuccheri. Secondo i ricercatori ciò significa che nei primi tempi dopo l'addio al fumo si ha uno squilibrio della produzione di insulina che, nonostante sia passeggero, basta a modificare l'appetito e provocare nei pazienti un maggior desiderio di carboidrati. Peraltro, i dati mostrano che la produzione dell'insulina è meno «sballata» in chi riesce davvero a smettere di fumare per almeno sei mesi: in chi nel giro di poche settimane cede di nuovo alle sigarette il metabolismo ormonale degli zuccheri è particolarmente squilibrato. Ma questi cambiamenti metabolici costituiscono una buona scusa per chi non vuole smettere di fumare? «Assolutamente no. Il fumo è un fattore di rischio molto "pesante" per cuore e vasi — risponde l'endocrinologo Alfredo Pontecorvi, responsabile dell'Unità di endocrinologia e malattie del metabolismo del Policlinico Gemelli di Roma e membro della Società italiana di endocrinologia —. È invece importante cercare di limitare l'accumulo eccessivo di chili per non vanificare l'effetto protettivo dello stop al fumo su cuore e vasi». Evitare di mettere su peso non è poi così difficile: si possono portare in tavola alimenti con tanto volume, ma poche calorie e buon potere saziante, come la verdura e la frutta. Ed è importante curare la preparazione dei cibi, facendo ampio uso di erbe aromatiche e spezie per dare sapore senza aggiungere calorie. Per non eccedere, può essere utile ricorrere spesso al piatto unico e conviene anche tenere a portata di mano qualche pezzetto di carota, sedano, finocchio, ma anche gomme da masticare. È importante bere acqua — e bevande non zuccherate — in abbondanza, limitando o evitando, però, il consumo di caffè, tè e bevande con caffeina per non aumentare il nervosismo già favorito dalla mancanza di nicotina. Il tutto senza dimenticare il prezioso aiuto che può venire dall'esercizio fisico, non solo per bruciare calorie e aumentare il senso di benessere, ma anche perché aiuta a percepire i rapidi benefici della cessazione del fumo sulla resistenza agli sforzi. Elena Meli _____________________________________________________ Corriere della Sera 24 feb. 2013 I FALSI RICORDI SONO VERI La memoria costruisce eventi inesistenti. La neurobiologia indaga di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI Osserviamo bene la seguente lista di parole, che ci viene richiesto di ben memorizzare: guanciale, sogno, lenzuoli, materasso, sonno. Tra una settimana, ci verrà chiesto se alcune parole apparivano o meno in questa lista. Materasso? Sì. Oro? No. Letto? La stragrande maggioranza di noi, in perfetta buona fede, dirà che era nella lista. Ma non c'era! Adesso immaginiamo di guardare un breve filmato di un uomo che borseggia una donna, estrae il portafoglio dalla borsetta e si dilegua. La donna non sembra nemmeno essersene accorta. Qualche istante dopo ci sediamo in una stanza attigua e un signore (in realtà uno psicologo che sta effettuando un esperimento) commenta con noi il filmato. «Ha visto? Il malandrino ha quasi slogato un polso alla poveretta, torcendole il braccio. Ma come, non ha visto questo? Era evidentissimo!». Niente di tutto ciò era, in realtà, nel filmato. Una settimana dopo, ci viene chiesto di descrivere a parole cosa si vedeva nel filmato. Ebbene, in perfetta buona fede, forse ci ricorderemo che il ladro aveva forzato il braccio della signora. Sul tema dei falsi ricordi, l'impatto dei quali può essere essenziale nelle indagini poliziesche, nei processi e nella vita, sono stati pubblicati nei giorni scorsi due importanti resoconti. Uno del celebre psichiatra Oliver Sachs, sulla «New York Review of Books», e uno di due insigni neuroscienziati cognitivi, Daniel Schacter (Harvard) ed Elisabeth Loftus (Università della California a Irvine) in un numero speciale di «Nature Neuroscience» interamente dedicato alle basi neuronali della memoria. Sachs racconta in un suo libro di aver avuto per tutta la vita due vivissimi e dettagliatissimi ricordi di due scene relative ai bombardamenti sull'Inghilterra, quando era ragazzino. Uno di questi, molto probabilmente, è genuino ma l'altro, come Sachs ha dovuto con sorpresa e sgomento ammettere recentemente, è certamente falso. Suo fratello, di lui più grande, assicura che il piccolo Oliver non era in quella cittadina, in quel momento. Elisabeth Loftus ha studiato a lungo le illusioni mnemoniche di testimoni oculari in sede processuale. È stata spesso chiamata dagli avvocati di difesa come testimone esperto e ha raccolto le sue preoccupanti esperienze in un noto saggio. In anni recenti, ha anche esaminato vividi e sinceri ricordi che alcune persone avevano di molestie sessuali subite in tenera età e ha potuto obiettivamente dimostrare che era impossibile fossero veri. Ne è seguito un pandemonio. È stata accusata (ma era un'accusa senza alcun fondamento) di condonare le molestie sessuali sui minori e di sostenere (di nuovo un'accusa senza alcun fondamento) che tutti i ricordi di molestie sessuali sono falsi. Una petizione con molte firme ha perfino tentato di farla licenziare dall'università nella quale insegna. Per fortuna, ora la tempesta si è placata. Schacter e Loftus, nel loro articolo su «Nature Neuroscience», riportano un caso di falsa identificazione di un presunto colpevole da parte di un testimone oculare, avvenuto in un processo nel New Jersey nel 2011. E sottolineano che, in oltre tre quarti dei 250 casi nei quali la prova del Dna ha scagionato un presunto colpevole, l'ingiusta condanna era dovuta a un errore di identificazione da parte di testimoni oculari. La memoria può ingannarci, senza che ce ne rendiamo conto. La Corte Suprema del New Jersey, che ci si augura sia imitata in altri Stati, ha recentemente decretato che i giudici devono esporre ai giurati la possibilità di errori di memoria e di identificazione, involontariamente commessi dai testimoni in un processo. Schacter e Loftus si soffermano anche in dettaglio sugli strumenti scientifici oggi disponibili per rivelare i falsi ricordi. Numerose pubblicazioni specializzate rivelano che la risonanza magnetica funzionale e raffinati tracciati di elettroencefalogrammi possono essere di aiuto. Ma si tratta di esperimenti di laboratorio, in condizioni di rigorosi controlli sperimentali, in soggetti perlopiù giovani e non emotivamente coinvolti. Quindi, pur sottolineando recenti progressi nella collaborazione tra neuroscienziati cognitivi, autorità inquirenti, giudici e pubblici ministeri, ammettono che una prova del nove dei falsi ricordi su basi neurobiologiche ancora non esiste. Solo progressi tecnologici futuri ce la potranno dare. La prudenza e la consapevolezza della falsità di alcuni (si noti bene, solo alcuni) ricordi è tutto quanto possiamo, per adesso, raccomandare. Allarghiamo ora brevemente il panorama sulla comprensione delle basi neurobiologiche della memoria riportate nel numero monografico di «Nature Neuroscience». Si spazia dall'epigenetica della memoria e dell'apprendimento, cioè i marcatori chimici che l'esperienza quotidiana deposita sul Dna, a come i neuroni dell'ippocampo regolano la percezione dello spazio e la memoria spaziale, al ruolo del sonno e del sogno nel consolidamento dei ricordi, e ben oltre. Chiedo all'insigne neurobiologo cognitivo Lynn Nadel dell'Università dell'Arizona, uno dei pionieri dello studio della memoria, di riassumere la tendenza generale di queste ricerche negli ultimi anni. «Innanzitutto si è passati dallo studio di singoli moduli allo studio di intere reti. Per esempio, l'integrazione tra ippocampo e corteccia entorinale (una struttura contigua all'ippocampo stesso, ndr) nel costruire la memoria spaziale rivela un sistema di immensa complessità che lentamente si comincia a capire. Sorprendentemente, ma sicuramente, questo stesso circuito è responsabile anche della memoria episodica. Inoltre, l'epigenetica è adesso un argomento centrale, cioè come le esperienze più antiche modificano il funzionamento dei neuroni, trasformando l'antica opposizione tra natura e cultura. Tutto l'arco dello sviluppo del cervello, dalla nascita all'adulto, è sotto analisi. Le tecniche di imaging sono oggi immensamente più raffinate». Conclude sottolineando che le nuove aree ibride, talvolta un po' strane, ma interessantissime, come la neuro-economia, la neuro-etica, la neuro- giurisprudenza e la neuro-estetica, spalancano settori di ricerca sperimentale ancora ieri impensabili. Tra tanto comprensibile entusiasmo una parola di prudenza ci viene da Oliver Sachs. Ronald Reagan, nella sua campagna elettorale del 1980, raccontò quasi piangendo un episodio di eroismo di un pilota durante la Seconda guerra mondiale. Fu ricostruito che non era un episodio reale, ma una sequenza di un film di guerra del 1944. Anche i presidenti possono nutrire falsi ricordi. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 19 feb. 2013 ALZHEIMER, TRIPLICATI I CASI Tsunami Alzheimer: la malattia colpirà nel 2050 poco meno di 14 milioni di americani, contro i 4,7 milioni di malati odierni. Il numero dei casi previsti del morbo nei prossimi 30 anni triplicherà, con conseguenze pesantissime sulle casse della sanità pubblica. Lo studio pubblicato sulla rivista Neurology viene considerato particolarmente attendibile in quanto basato su analisi di oltre 10.000 anziani oltre i 65 anni di età, seguiti a partire dal 1993. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 22 feb. 2013 DEPRESSIONE, DA SASSARI UNA NUOVA CURA Depositato il brevetto della Memantina dopo gli studi del farmacologo Gino Serra del dipartimento di scienze biomediche di Gabriella Grimaldi SASSARI La Memantina per curare i disturbi dell’umore. La scoperta, ora finalmente è ufficiale, è targata Sassari. Il brevetto infatti è stato depositato, e formalmente concesso dal ministero dello Sviluppo economico, da Gino Serra, professore di Farmacologia nel Dipartimento di Scienze Biomediche. Un’attesa cominciata nel 2009 con la presentazione della domanda negli uffici romani e che oggi è una bella realtà per l’università di Sassari e per tante persone sofferenti di depressione, una malattia che colpisce una fetta sempre più consistente di popolazione e che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarà la prima patologia al mondo entro il 2020. «Sono molto soddisfatto – commenta il professor Serra, originario dell’Oristanese, ma da diversi anni al lavoro a Sassari, che nel corso di questa ricerca si è avvalso della collaborazione di Paolo D’Aquila –. C’è voluto tanto lavoro ma alla fine il risultato è sotto gli occhi di tutti. Ora non resta che procedere affinchè al farmaco venga riconosciuta l’indicazione terapeutica per questo tipo di patologia». La storia del brevetto risale alle prime ricerche effettuate da Gino Serra quando ancora studiava accanto a Gianluigi Gessa, che è stato il suo maestro. «Lavoravo sui ratti per verificare l’efficacia dei farmaci sulle forme maniaco-depressive fino a che sono riuscito a mettere a punto un modello animale di malattia che non si risolveva con la somministrazione dei farmaci in uso per questa patologia. L’unica sostanza che si era dimostrata efficace era la Memantina. Si tratta di un farmaco attualmente autorizzato per il trattamento della demenza di Alzheimer - spiega Gino Serra - e utilizzato fin dagli anni Ottanta in Germania nel Morbo di Parkinson. Benché la sua efficacia in queste patologie sia modesta, il suo lungo uso clinico ha consentito di dimostrarne la sicurezza nell'uomo e l'assenza di effetti indesiderati importanti». Da queste considerazioni ha preso le mosse il primo studio clinico pilota effettuato in collaborazione con Athanasios Koukopoulos, direttore del Centro Bini di Roma: 75 per cento di pazienti guariti. Oggi, con la concessione del brevetto, arriva il riconoscimento formale dell'originalità della scoperta a livello ufficiale. Il prossimo mese comincerà uno studio clinico controllato, multicentrico e internazionale finanziato dalla Regione e che,con il coordinamento di Gino Serra, sarà condotto presso la clinica Psichiatrica dell'università di Sassari, il Dipartimento di Psichiatria della Sapienza di Roma e il McLean Hospital- Harvard Medical School a Boston. _____________________________________________________ Corriere della Sera 20 feb. 2013 IL PICCOLO GENIO CINESE CHE VA A CACCIA DEL GENE DELL'INTELLIGENZA Per sostenere l'inarrestabile crescita i cinesi ora vanno anche a caccia di cervelli geniali guardando nel Dna. Ne è protagonista soprattutto Zhao Bowen, un ventenne soprannominato il Bill Gates del Celeste Impero perché anche lui spinto da passione e genialità ha abbandonato l'università per mettere subito in pratica le sue idee. Aveva solo 15 anni quando sequenziò il codice genetico del cetriolo e il suo nome comparve come coautore sulla rivista Nature. Ma ora al Bgi, uno dei più grandi centri di ricerca genomica al mondo, dirige a Hong Kong un progetto finanziato pure dallo Stato per scoprire quei tratti del nostro codice genetico che esprimono i più alti livelli di intelligenza. Il lavoro è già in corso ed è partito considerando il genoma di soggetti con un quoziente di intelligenza intorno a 160. Per i cinesi la considerazione del quoziente, in Occidente guardato con un sorriso, è visto invece come una scienza. In media le persone normali esprimono un livello 100 e i premi Nobel 145. La loro richiesta è quindi ancora più elevata. Già hanno raccolto 2.200 campioni di personaggi a livello internazionale, 1.600 dei quali ottenuti da un progetto americano che mirava a scovare tra i ragazzi i migliori cervelli matematici. Poi si sono aggiunti oltre 500 volontari. «La gente ha scelto di ignorare la genetica dell'intelligenza per troppo tempo» ha dichiarato Zhao al Wall Street Journal. Naturalmente sono già emerse contrarierà. «Sono molto preoccupato per l'iniziativa» ha dichiarato Jeremy Gruber presidente a Cambridge (Usa) del Council for Responsible Genetics. Ma intanto vi sono anche dei consensi e nei prossimi tre mesi, Zhao promette di fornire già i primi risultati. Torna la selezione della razza? Giovanni Caprara @giovannicaprara _____________________________________________________ Corriere della Sera 19 feb. 2013 OBAMA E LA CONQUISTA DEL CERVELLO UMANO Mappare la mente come già il genoma. E così curare l'Alzheimer DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Trovare finalmente una cura per malattie degenerative fin qui impossibili da battere come Alzheimer e Parkinson, ma anche individuare meccanismi del funzionamento della mente da trasferire nei computer per sviluppare una «intelligenza artificiale» sempre più simile a quella dell'uomo. È l'ambizioso obiettivo di Brain Activity Map, un progetto decennale di ricerca per venire a capo dei misteri del cervello che Barack Obama intende lanciare nei prossimi giorni, inserendolo nella proposta di bilancio che presenterà al Congresso all'inizio di marzo. Un progetto che ha l'ambizione di essere per la medicina e le tecnologie digitali quello che l'Apollo Program voluto da John Kennedy fu per l'avventura dell'uomo nello spazio negli anni Sessanta: verrà finanziato con fondi federali e metterà insieme istituti di ricerca pubblici e privati, strutture sanitarie e aziende tecnologiche come Google, Microsoft e Qualcomm che, come ha rivelato ieri il New York Times, hanno già partecipato a una riunione preparatoria tenutasi a metà gennaio in California. Ieri la Casa Bianca non ha voluto confermare ufficialmente le indiscrezioni di stampa, ma lo stesso Obama aveva accennato all'iniziativa una settimana fa: nel discorso sullo Stato dell'Unione si era soffermato sulla necessità di non far mancare fondi alla ricerca pur nella necessaria politica di risanamento del bilancio. E aveva citato esplicitamente il cervello umano come una delle aree di ricerca nelle quali vale la pena di scommettere: un filone promettente capace di produrre non solo idee innovative, ma anche di far crescere intere nuove aree di attività scientifica, dalla optogenetica al «fluorescent imaging». E quindi nuove speranze per la medicina, ma anche nuove aree di attività economica capaci di creare molti posti di lavoro. Parole dirette al Congresso dove i repubblicani, che sono maggioranza alla Camera, non vogliono sentir parlare di nuovi, costosi piani d'investimento del presidente. Obama ha già messo le mani avanti notando come ogni dollaro speso per sostenere il progetto di mappatura del genoma ha prodotto 140 dollari di attività economiche. Col cervello la Casa Bianca vorrebbe seguire lo stesso schema, anche se, spiegano gli esperti, il funzionamento della mente umana è materia molto più complessa del dna. E ci sono già dubbi come quelli sollevati da Gary Marcus, un docente della New York University, secondo il quale la materia è troppo intricata e ha troppi aspetti diversi per essere affidata ad un unico piano di studio centralizzato: meglio creare diversi filoni di ricerca indipendenti per decifrare il linguaggio usato dal cervello nell'impartire i comandi, capire come i neuroni sono organizzati in circuiti cerebrali, individuare il modo in cui i geni contenuti nelle cellule influenzano il comportamento. L'eventuale contestazione del piano del governo, se ci sarà, avrà a che fare con la sua genericità e coi timori relativi allo sviluppo di cervelli elettronici «troppo umani», più che con i costi: stando alle indiscrezioni, infatti, il contribuente Usa non dovrebbe sborsare più di 300 milioni di dollari l'anno, 3 miliardi spalmati in un decennio. Per fare un raffronto, la mappatura del genoma umano, iniziata nel 1990 e completata nel 2003, è costata allo Stato 3,8 miliardi e da quel progetto sono scaturite attività economiche per un valore complessivo di 800 miliardi (calcolo fermo a fine 2010). Difficile, comunque, che il governo Usa possa tirarsi indietro. Anche perché, altrimenti, l'America rischierebbe una fuga dei suoi neuroscienziati verso l'Europa, che sta già investendo in quest'area. Lo Human Brain Project varato dalla Ue a fine gennaio con un stanziamento di oltre un miliardo di euro, segue un percorso diverso: l'obiettivo è costruire una vera e propria simulazione del cervello umano usando silicio e circuiti integrati. Secondo molti scienziati americani quella scelta dall'Europa è la strada sbagliata: meglio partire dai problemi concreti e da quel poco che gli esperti già sanno. Nel caso della memoria, ad esempio, sappiamo in che modo e in quali sue parti il cervello seleziona e archivia i ricordi, ma non il modo in cui vengono codificati. Ma, giusto o sbagliato che sia, il progetto della Ue è destinato ad attirare anche esperti da Oltreoceano, se gli Stati Uniti non si danno un programma altrettanto ambizioso. Il campanello d'allarme è già suonato quando uno scienziato di CalTech, l'università californiana che è il punto di riferimento accademico per le neuroscienze negli Usa, ha salutato tutti e se n'è andato a lavorare in Europa. Massimo Gaggi _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 23 feb. 2013 «ALTISSIMI RISCHI DI LEUCEMIE NEI POLI INDUSTRIALI» CAGLIARI «La Procura intervenga per capire cosa è successo e sta succedendo nel sud Sardegna. Da anni le amministrazioni pubbliche competenti - ministero della Sanità, Regione e comuni interessati - sono a conoscenza che la popolazione maschile di Pula, Sarroch e Assemini corre un rischio più elevato di leucemie, quasi triplo rispetto a quanto sarebbe lecito attendersi». Lo affermano le associazioni ecologiste Amici della Terra e Gruppo d’intervento giuridico che ieri hanno inoltrato una richiesta d’informazioni a carattere ambientale, sollecitando provvedimenti agli enti di competenza, oltre che all’Arpas e alla Asl 8. «Da cosa deriva l’elevato rischio di leucemia maschile. Lo vogliamo scoprire o no? Non risultano adottati provvedimenti tesi a limitare il rischio ambientale e sanitario». Stefano Deliperi, portavoce delle due associazioni ecologiste ritiene che «i rischi sono confermati dal rapporto sullo stato di salute delle popolazioni residenti in aree interessate da poli industriali, minerari e militari della Regione Sardegna e dal rapporto Sentieri (studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio di inquinanti), promosso dal ministero della salute e pubblicato nel 2012». Gli ambientalisti citano un articolo di Pierluigi Cocco, docente di medicina del lavoro all’Università di Cagliari, pubblicato su “Epidemiologia & Prevenzione”, rivista della associazione italiana di epidemiologia, nella quale si fa riferimento al ventennio 1974-1993, «nel quale la popolazione maschile, ma non quella femminile, nel distretto di sanitario di Cagliari ovest, escludendo il capoluogo, presenta un elevato rischio di leucemie. I rischi più elevati di leucemie sono nel comune di Pula, Sarroch e Assemini, mentre altri comuni, come Capoterra, Elmas, Teulada o Villa San Pietro. Da che cosa deriva l’elevato rischio di leucemia maschile a Pula, Sarroch e Assemini? Lo vogliamo scoprire o no?» _____________________________________________________ Sanità News 21 feb. 2013 DALLA LOMBARDIA PARTE IL TELEMONITORAGGIO PER LE MALATTIE CRONICHE In Lombardia, grazie ad un sistema di telemonitoraggio e ad una infrastruttura tecnologica messa a punto da Telbios, i pazienti affetti da diabete, ipertensione, broncopneumopatia, scompenso cardiaco, ecc. potranno ricevere a casa propria cure specifiche e personalizzate, seguiti dal proprio medico di famiglia. Telbios ha siglato un accordo con Qualcomm Life Inc., per ridurre le barriere economiche ed operative necessarie ad espandere e scalare piu' velocemente i propri servizi innovativi per l'assistenza ai malati cronici. Si comincia dalla Lombardia, dove da questa settimana, nell'ambito del progetto "Buongiorno CReG", il primo di 1.500 pazienti previsti a regime, comincera' a ricevere servizi di telemedicina in modalita' sicura e appropriata, assistito dal medico di famiglia, utilizzando apparecchiature diagnostiche di telemonitoraggio come elettrocardiografo, bilancia, ossimetro, glucometro, misuratore di pressione, termometro; il tutto, con la costante supervisione di un triage infermieristico fornito dal Centro Servizi Telbios. _____________________________________________________ Sanità News 19 feb. 2013 DALLE COZZE UNA COLLA UTILE IN CHIRURGIA Le cozze, Mytilus edulis, secernono un sostanza adesiva resistente che le consente di rimanere agganciate sulle rocce spazzate via dalle onde. Nel corso della Conferenza annuale dell'associazione americana Advancement of Science (AAAS) è stato annunciato che una versione sintetica di questa colla può avere importanti applicazioni mediche in chirurgia. Le cozze comuni, possono resistere in virtù di questo potente e durevole adesivo ad una pressione dell'acqua molto forte e, secondo Herbert Waite, professore di biologia molecolare presso l'Università della California, "un paio di questi molluschi è in grado di sostenere il peso di un uomo". Tale sostanza è in grado di attaccarsi, con la stessa tenacia, su quasi tutte le superfici inorganici e organiche, secche o bagnate. Phillip Messersmith, docente di ingegneria biomedica presso la Northwestern University, vicino a Chicago ha specificato che "è un processo notevole che consiste nella secrezione di proteine uniche con un'alta concentrazione di un amminoacido chiamato DOPA formando un adesivo liquido che indurisce rapidamente ed è resistente all'acqua". E' stata dunque creata una versione sintetica per diverse applicazioni, tra cui la riparazione delle lesioni nella membrana fetale, (causa di aborti, nascite premature o complicazioni), riparare le ossa o i denti fratturati. _____________________________________________________ Sanità News 19 feb. 2013 BERE DOPO AVER FATTO JOGGING RIDUCE IL SODIO NEL SANGUE Secondo i ricercatori del Loyola University Health System, bere dopo una intensa sessione di jogging può portare ad una eccessiva riduzione di sodio nel sangue, con conseguenze anche i rischi sono soprattutto quelli di provocare delle lesioni al cervello. Paradossalmente secondo questo studio, un eccesso di sali minerali può portare agli stessi effetti di una loro carenza. Il consiglio degli esperti è quello quindi di puntare su di una alimentazione ricca di frutta e verdura per reintegrare nella maniera più giusta i sali persi Physiology and Hydration Beliefs Affect Race Behavior but not Post-Race Sodium in 161-km Ultramarathon Finishers. Winger JM, Hoffman MD, Hew-Butler TD, Stuempfle KJ, Dugas JP, Fogard K, Dugas LR. Source Loyola Stritch School of Medicine, Maywood, IL. Abstract PURPOSE: To determine if beliefs about physiology and rehydration affect ultramarathon runners' hydration behaviors, or if these beliefs increase the risk for exercise-associated hyponatremia (EAH). METHODS: Participants of the 2011 161-km Western States Endurance Run completed a pre-race questionnaire, pre-race and post-race body mass measurements, and post-race assessment of serum sodium ([Na+]). RESULTS: Of 310 finishers, 309 (99.7%) completed the pre-race questionnaire and 207 (67%) underwent post-race blood studies. Twelve (5.8%) finishers had asymptomatic EAH ([Na+] range 131-134 mmol/L). The most common hydration plan (43.1%) was drinking according to schedule, and these runners did so in order to replace fluid lost when sweating (100%) and to avoid dehydration (81.2%). Pre-race drinking plan was not associated with post- race [Na+] or the development of post-race hyponatremia. There also were no group differences between those with and without EAH for any other variables including planned energy intake or knowledge of fluid balance. Runners not planning to drink to thirst trended towards more influence from advertisements (P=0.056) and were significantly more influenced by scientific organizations (P=0.043) than runners with other drinking plans. Finally, runners who believe that EAH is caused by excessive drinking adopted a lower volume drinking plan (P=0.005), while runners who believe that EAH is caused by sodium loss via sweating reported more common utilization of sodium supplementation during the race (P=0.017). CONCLUSIONS: Beliefs regarding the causes of EAH alter race behaviors, including drinking plan and sodium supplementation, but do not appear to affect the likelihood of developing EAH during a 161km ultramarathon.