RASSEGNA STAMPA 03/03/2013 LA FORMULA DELLA MERITOCRAZIA SBLOCCATI 655 MILIONI PER LA RICERCA GENOVA: NIENTE MOGLI E MARITI TRA I DOCENTI PROTESTA DEGLI ATENEI PRIVATI «NOI I PIÙ COLPITI DAI TAGLI» PRESTO IN LOMBARDIA DUE NUOVE UNIVERSITA’ PRIVATE DI MEDICINA CURA EUROPEA PER L'UNIVERSITÀ AL COLLASSO UNIVERSITÀ, PRONTI I 5 STELLE «COSÌ CAMBIEREMO TUTTO» STUDENT JOBS, BOOM DI ACCESSI AI SERVIZI ERSU UNIVERSITÀ: IN 10 ANNI CALO DI 58 MILA STUDENTI SASSARI: NO A INGEGNERIA INFORMATICA REGIONE. NIENTE SOLDI PER PER I FUORI SEDE CAPPELLACCI «LE BORSE DI STUDIO, UN SOSTEGNO DECISIVO» NOVE STUDENTI SU DIECI TROVANO UN LAVORO A DUE MESI DALLA LAUREA LA RETE DEGLI STUDENTI: CAMBIA LA DIDATTICA L’INCOMPETENZA AL POTERE DIETRO L’AGONIA DEL CRS4 UNITELSARDEGNA, SUCCESSO STIPENDI PUBBLICI, VERSO IL BLOCCO SE LA RETE RENDE INUTILI I NONNI L'UFFICIO È MOBILE E SULLA NUVOLA TUVIXEDDU, IL PM CHIEDE 4 CONDANNE ECCO MAURITIA, UN CONTINENTE SOTTO L'OCEANO ========================================================= GIOVANI DOTTORI CRESCONO (BENE) CITTADELLA, MAXI ROTATORIA AOUCA: SCARAFAGGI TROVATI IN MEDICINA DUE. LE MANCATE RIFORME SIGNIFICANO POVERTÀ FIOCCANO LE QUERELE, NON SPARATE SUI MEDICI DOTTORI: NON C'È PIÙ IL RISPETTO DI UN TEMPO TUTTE LE POLIZZE D'ORO «LEUCEMIE, RISCHIO ELEVATO» LA SFIDA CINESE SUL DNA IL DENTISTA TRA I CARRELLI DELLA SPESA. NEUROLOGIA: IL SENSORE IMPIANTABILE È ORA WIRELESS CRESCONO GLI INVESTIMENTI NEL MEDICALE INIEZIONI (DI PLASMA) ANTIETÀ RIGENERANO DAVVERO? PER DEPURARE LA CASA NIENTE «FUMI» E LE PIANTE GIUSTE PIÙ SMOG IN SALOTTO CHE IN STRADA UN CALCIO ALL'ALZHEIMER PRIMO TRAPIANTO DI RENE SENZA TRASFUSIONI A UN TESTIMONE DI GEOVA ========================================================= _____________________________________________________ Corriere della Sera 2 mar. ’13 LA FORMULA DELLA MERITOCRAZIA GIOVANNI BUSSI è un giovane fisico italiano. Fa ricerca d'avanguardia, coltiva l'interdisciplinarità e studia sistemi molecolari con modelli di simulazione al computer. Fa il suo lavoro, insomma. E come spesso accade ai giovani ricercatori italiani è precario e ha un problema di soldi. Be', il suo in realtà è che ne ha troppi. A fine zom il ministero della Ricerca gli ha assegnato una borsa di studio da 5o omila euro. Ma la scorsa estate l'European Research Council (Erc) ha rilanciato mettendo sul piatto un milione e 3oomila euro. Fosse un onorevole sindaco o un ministro senatore si sarebbe tenuto i due stipendi. Essendo semplicemente uno dei migliori fisici su piazza ha dovuto scegliere: o il Grant di Roma o quello di Bruxelles. Si è deciso ovviamente per il più corposo, e così per i prossimi cinque anni sarà la Commissione europea a finanziare lui e i suoi tre collaboratori. Come ci si sente ad aver vinto il jackpot? «Niente di speciale, qui alla Sissa una borsa europea è quasi la regola». La Sissa di Trieste, Scuola internazionale superiore di studi avanzati, è uno dei sei istituti di eccellenza riconosciuti dal ministero dell'Università. Come i suoi colleghi, anche il direttore Guido Martinelli, fisico teorico a sua volta destinatario di una prestigiosa borsa europea, lo scorso anno ha tremato di fronte alla forbice della spending review: «Minacciavano di tagliarci quasi due milioni di euro con la paradossale motivazione che spendiamo troppo per la ricerca rispetto agli esborsi per il personale. Per fortuna all'ultimo momento è intervenuto san Giorgio Napolitano, patrono di noi ricercatori». IN REALTÀ ALLA SISSA non si sente aria di crisi: la posizione tra boschi e mare, le aule zeppe di tecnologia, i laboratori d'avanguardia, i computer di ultimissima generazione ne fanno la sede ideale per il corpo a corpo con le incognite della scienza. «Mia moglie è italiana, ma se non fossi docente alla Sissa oggi vivremmo in America» rivela Mathew Diamond, neuro- scienziato statunitense titolare di un Grant da due milioni e mezzo di euro che mantiene lui, la sua ricerca, e i suoi cinque collaboratori. Come dice Bussi, alla Sissa una borsa europea è (quasi) la regola. NEGLI ULTIMI QUATTRO ANNI l'università italiana ha perso quasi un miliardo di euro di finanziamenti pubblici (circa il 12 per cento del totale). È quindi indispensabile trovare fonti alternative, come alla Sissa dove i Grant esterni quasi raddoppiano i venti milioni annui garantiti dallo Stato. Sono borse pubbliche, private, italiane ma soprattutto europee. Quando vanno a Bruxelles i ricercatori "triestini" hanno una marcia in più rispetto agli altri: il 13 per cento degli scienziati targati Sissa ha conquistato una delle succulente borse dell'Ere, contro il 5 per cento della Normale di Pisa, il 3 per cento della Bocconi di Milano, per cento del Cnr. Sono tanti soldi, in futuro saranno ancora di più, ma continueranno a venir erogati con l'unico criterio del miglior ricercatore per la migliore ricerca. L'ex ministro Francesco Profumo si è lamentato che l'Italia contribuisce al capiente fondo della ricerca europea molto più di quanto non riesca ad attingervi. «Almeno noi della Sissa abbiamo fatto la nostra parte» sorride Martinelli. E sì che non è l'istituzione con il suo prestigio ma il singolo ricercatore con il suo progetto a portare a casa il bottino. Bussi spiega che a Bruxelles il processo di selezione è durissimo ma appassionante: «All'ultimo step avevo di fronte venti esaminatori per un fuoco di fila di domande. La tensione è tale che non ci si dice neanche buongiorno: entri e trovi già la prima slide proiettata sullo schermo». Ma perché alla Sissa riescono dove altri istituti italiani arrancano? La risposta di Martinelli ci introduce al comitato di reclutamento della scuola, i panel esterni che valutano ogni scienziato in odore di assunzione, l'allergia alle cordate accademiche per cui è raro che chi ha studiato in Sissa finisca poi per lavorare in Sissa. La formula è complicata ma produce l'acqua calda che la nostra accademia fatica tanto a scoprire: meritocrazia produce merito. IL PROBLEMA È CHE I GIOCATORI sono campioni europei, ma il campo da gioco resta inguaribilmente italiano. «Oltre che per le risorse sempre più scarse, il nostro sistema universitario soffoca per la burocrazia esasperante» sospira Martinelli. Ci fa un esempio? «Sono tenuto a redigere il piano triennale di sviluppo della Scuola. Ma lo devo fare ogni anno». C'è altro? «Un assegno di ricerca non può durare più di quattro anni. Ma gli assegnisti hanno un fondo pensione che consente il ricongiungimento solo dopo cinque anni di contributi». Può bastare? «Devo fare rapporto all'Anvur, organismo che valuta le università. Ma poi anche al Civit, organismo che valuta le amministrazioni pubbliche. Riempio pagine su pagine e non ho mai un feedback, mai che mi segnalassero nemmeno un refuso». Chiudiamo qui. Anche perché nonostante la burocrazia la nave della ricerca va e gli studenti della Sissa continuano a conquistare il mondo: l'8o per cento dopo il dottorato insegna in università, il 4o per cento in Italia, il 38 tra Europa e Stati Uniti, mentre il 13 per cento punta sulle imprese. Non c'è crisi alla Sissa. Se non fosse per quel sinistro tintinnar di forbici che ancora ronza nelle orecchie del direttore. Dall'alto del suo ufficio con splendida vista golfo, Martinelli ci lascia con un avvertimento: «In tempi di tagli lineari è bene ricordare che basta poco per smantellare un polo di eccellenza, ma ci vogliono decenni per costruirlo da zero: se non fosse così perché Oxford e Harvard continuano a contare tanto più delle università degli sceicchi?». "Minacciavano di tagliarci due milioni di euro perché spendiamo troppo per gli studi e non abbastanza per il personale. Paradossale" (Guido Martina*, fisico teorico, direttore della Sissa) "Il processo di selezione dei progetti a Bruxelles è durissimo, ma appassionante. Nemmeno buongiorno, subito il fuoco di fila delle domande" (Giovanni Bussi, fisico, ricercatore alla Sissa) "Ho avuto un finanziamento di due milioni e mezzo, per me e la mia squadra. Se non fossi docente alla Sissa oggi sicuramente vivrei in America" (Mathew Diamond, neurosci enziato statunitense) _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 mar. ’13 SBLOCCATI 655 MILIONI PER LA RICERCA Subito 25 milioni alla «social innovation» - Entro aprile il via ai 630 per le «smart cities» IL MINISTRO PROFUMO «Dai progetti emerge una grande vitalità del Paese, una forte domanda di ricerca e l'interazione tra bisogni sociali e risposta tecnologica» Eugenio Bruno ROMA L'Italia ha una gran fame di ricerca. A confermarlo è la risposta fornita da imprese, enti, università e spin off al bando del Miur su «Smart cities and communities and social innovation» da 655,5 milioni che è arrivato ora al traguardo. Sono stati individuati sia i 40 progetti presentati da giovani under 30 e ammessi al finanziamento da 25 milioni per l'innovazione sociale, sia le 83 idee progettuali per le città intelligenti da valutare per l'attribuzione degli altri 630,5 milioni. In entrambi i casi il perimetro è quello delle «smart communities». E dello sviluppo di modelli tecnologicamente innovativi per affrontare congiuntamente tematiche socio-ambientali che possono migliorare la vita dei cittadini. Identici sono anche i 16 ambiti di intervento: sicurezza del territorio, invecchiamento della società, tecnologie welfare ed inclusione, domotica, giustizia, scuola, waste management, tecnologie del mare, salute, trasporti e mobilità terrestre, logistica last-mile, smart grids, architettura sostenibile e materiali, cultural heritage, gestione risorse idriche, cloud computing technologies per smart government. La selezione è stata svolta da 35 esperti internazionali scelti dalla banca dati ad hoc della Commissione Ue. E affiancati, su singole tematiche, da valutatori nazionali inseriti nell'apposito albo gestito dal dicastero di viale Trastevere. Ma passiamo agli assegnatari delle risorse. A differenza del bando smart cities da 240 milioni destinato nei mesi scorsi alle 4 Regioni convergenza (Calabria, Campania, Sicilia e Puglia) quello in questione ha interessato l'intera penisola. E a rispondere è stato soprattutto il centro-nord. Tant'è che dei 40 progetti di «social innovation» selezionati, 12 sono giunti dal Piemonte, 11 dalla Lombardia e 5 dalla Toscana. Il settore più gettonato si è rivelato quello delle tecnologie del welfare e dell'inclusione. Con 11 domande ammesse al finanziamento per un valore complessivo di 6,7 milioni e i destinatari più vari: da "Braille Lab" per i non vedenti a "Parloma" per la comunicazione tra persone sordocieche, a "Coll@bora" per aiutare genitori e operatori di disabili. Al secondo posto si è posizionata l'architettura sostenibile con 5 progetti scelti per un valore di 3,1 milioni. Tra i quali spiccano "MuteMovida" per ridurre la rumorosità urbana e "Agritetture 2.0" per aiutare le fattorie urbane nell'area metropolitana di Napoli. Ancora più composito è il quadro offerto dalle 83 idee progettuali che dovranno dividersi gli altri 630,5 milioni previsti dal bando. Il lavoro di scrematura, che dovrebbe concludersi entro fine aprile, non si annuncia facile. Anche perché il valore complessivo delle proposte è di 1,3 miliardi, cioè più del doppio del "montepremi" a disposizione. Qui la Regione più attiva è stata il Lazio con 66 iniziative promosse, davanti alla Lombardia (61) e alla Toscana (40). Tra i comparti ha prevalso invece la sicurezza del territorio con 9 idee accettate per un valore di 154 milioni. Subito dietro si sono posizionati l'invecchiamento della popolazione e la salute con lo stesso numero di proposte (9) e un investimento pressoché identico (136milioni contro 135). Il ministro Francesco Profumo evidenzia come dalla risposta al bando emergano tre aspetti: «La vitalità progettuale del sistema Italia, un forte bisogno di innovazione e l'interazione tra la domanda sociale dei cittadini e la risposta in termini di tecnologia». I progetti presentati – sottolinea l'ex presidente del Cnr – «sono tutti a basso capitale di avviamento e alta replicabilità, quindi possono creare una filiera per un nuovo modello di sviluppo del Paese». E qui Profumo fa un parallelo con l'industria dell'auto negli anni '50 quando partendo dalla meccanica si è arrivati «a un nuovo modello di sviluppo delle autostrade, della logistica, del commercio e perfino delle relazioni tra le persone». Affidando dunque ai «sensori» e alle loro infinite declinazioni il ruolo che oltre mezzo secolo fa è stato dell'auto. _____________________________________________________ Corriere della Sera 28 Feb. ’13 GENOVA: NIENTE MOGLI E MARITI TRA I DOCENTI La scelta agita l'ateneo di Genova «Norma anti nepotismo». Ma non tutti i prof votano sì Chissà che direbbe il «papà» della chimica Antoine de Lavoisier, che con la moglie Marie Anne lavorava gomito a gomito; oppure la fisica Marie Curie, che nel 1903 conquistò con il marito Pierre il premio Nobel. Tempo scaduto per gli emuli di Barack e Michelle Obama che, da colleghi-coniugi nello stesso studio di Chicago, sono arrivati fino alla Casa Bianca. All'Università di Genova, da ieri, non si potrà più lavorare con moglie o marito nello stesso dipartimento. Il Senato accademico, in seduta straordinaria, ha approvato con maggioranza piena (18 favorevoli, un contrario e un astenuto) il divieto alle chiamate di professori e il reclutamento di ricercatori che siano sposati con altri docenti dello stesso dipartimento. Il «conflitto di interessi» è stato messo a fuoco dall'Università di Genova, lo scorso ottobre, quando la direzione generale ha emanato una circolare per fare chiarezza su un caso di reclutamento di una ricercatrice sposata con un professore ordinario. Per prevenire casi di nepotismo si è intervenuti sulla legge Gelmini, la 240 del 2010, che all'interno di una stessa struttura accademica impedisce le chiamate di docenti con «un grado di parentela o affinità fino al quarto grado con un professore del dipartimento che effettua la chiamata, con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione». L'Università di Genova ha voluto estendere il «divieto» ai coniugi, disciplinando così un porto franco. «Abbiamo colmato una lacuna del legislatore, dato che fino a oggi si poteva impedire la chiamata della cognata, ma non quella del coniuge», spiega il rettore dell'Ateneo Giacomo Deferrari, che ora però deve schivare le accuse di discriminazione nei confronti del matrimonio e addirittura delle relazioni eterosessuali. «Ovviamente ci sono anche le coppie di fatto e quelle gay: ma intanto abbiamo messo dei paletti a un'ampia casistica». La relazione tra carriera e parentela, all'interno degli atenei, è un tema caldo da sempre. Nel suo «Measuring nepotism: the case of italian academia» Stefano Allesina, cervello matematico in fuga a Chicago, nel 2011 ha scoperchiato la pentola dei baroni. Spulciando la banca dati del ministero dell'Istruzione ha rilevato come tra gli oltre 61 mila professori e ricercatori a tempo indeterminato delle Università italiane, ci sono 4.583 cognomi ripetuti due volte e 1.903 che compaiono tre volte. La «convivenza» lavorativa dei coniugi ha conosciute fortune alterne anche fuori dalleUniversità: nel 2010 il gruppo Richemont, polo svizzero del lusso, ha introdotto un codice di comportamento per dissuadere i ventimila collaboratori a intrattenere relazioni sentimentali tra di loro. Più tollerante la Norvegia, solo per motivi pragmatici: uno studio ha dimostrato che chi ha il coniuge in ufficio lavora di più. «Ma per quanto riguarda l'Ateneo ligure non c'è nulla da obiettare: mi sembra che sia stata fatta una lettura corretta della norma», osserva l'avvocato giuslavorista Vittorio De Luca. «L'Università ha colmato una lacuna delle legge 240, che all'articolo 18 disciplinava la materia per parenti e affini, ma non contemplava il caso di coniugio». L'intento è quello di introdurre criteri sempre più meritocratici, «in linea con il codice di reclutamento dei ricercatori, che agisce nella prospettiva della creazione di un mercato del lavoro europeo attrattivo, aperto e sostenibile», aggiunge De Luca. Ma è proprio sul merito che si innestano le critiche di chi ha votato contro la decisione del Senato accademico. «Se il marito è intelligente è giusto che sia discriminato per il fatto di essere coniugato con un ordinario?» protestano i contrari alla norma. E ancora: «Chi disciplina la chiamata di un amante o di un convivente nello stesso dipartimento dove lavora il "mentore"?». L'Avvocatura dello Stato, interpellata dagli organi di governo dell'Università prima della decisione, non è entrata nel merito e ha ribadito come occorra una modifica del regolamento d'ateneo sulle chiamate dei professori di prima e di seconda fascia, sia in caso di coniugi, che di conviventi. Probabilmente in un futuro neppure lontano potrebbe toccare alle coppie di fatto e a quelle gay. Michela Proietti _____________________________________________________ Corriere della Sera 27 Feb. ’13 PROTESTA DEGLI ATENEI PRIVATI «NOI I PIÙ COLPITI DAI TAGLI» MILANO — Prima, lunedì scorso, l'appello della Conferenza dei rettori ai partiti: le università italiane sono al capolinea, servono fondi e autonomia. Oggi a rilanciare è il numero due della Crui, il vice presidente Giovanni Puglisi (rettore di una privata, lo Iulm di Milano), che aggiunge: «Le non statali sono ancora più penalizzate. Hanno subito i tagli più consistenti. Si parla sempre di università pubblica in ginocchio e di private favorite, ma non è così». Ecco i numeri di Puglisi: se per le statali la riduzione dei fondi negli ultimi cinque anni è stata del 12% (il Fondo di finanziamento ordinario 2012 è di sette miliardi) per gli altri atenei il taglio è stato del 64%. «Siamo scesi a 66 milioni. E con un governo di centro destra», sottolinea il rettore. E poi sono diminuiti gli aiuti ed è aumentato il numero dei beneficiari: «Alle 14 università non statali rappresentate nella Crui (che ne conta in totale 84) se ne sono aggiunte altre cinque, fra cui due telematiche. Insomma sempre meno risorse e più commensali». E l'elenco potrebbe allungarsi ancora. «Le università telematiche sono undici. Dovremo dividere gli aiuti anche con queste?». Gli atenei non statali, dalla Cattolica alla Luiss, dalla Bocconi allo Iulm, sono sempre più penalizzate, è la denuncia di Puglisi. «Il danno per noi è doppio, triplo, quadruplo. Anche i fondi per l'edilizia universitaria ci sono negati». Nel conto il vice presidente della Crui ci mette anche il rimborso di tasse e contributi previsto per gli studenti meritevoli. «Fino a qualche anno fa era compensato in parte dallo Stato, adesso non più. Ma noi dobbiamo offrire comunque i servizi. Inevitabile la ricaduta sugli studenti. Perché dobbiamo attingere dal bilancio, cioè da tasse e contributi di tutti gli iscritti». «Alle università non statali nemmeno un euro per il personale docente, né per la ricerca — aggiunge — Eppure sistema pubblico e privato devono fornire gli stessi servizi, rilasciano titoli che hanno uguale valore, hanno gli stessi vincoli, rispondono agli stessi requisiti di qualità». Sui pari requisiti però è di questi giorni la polemica fra statali e private: è appena stato introdotto il sistema Ava (autovalutazione, valutazione e accreditamento delle università) coordinato dall'Anvur. «Per le non statali meno vincoli», dicono i rettori. Parla di «trattamento differenziale» anche il presidente Crui, Marco Mancini. Esempio. L'Ava fissa (anche) il numero di docenti che un ateneo deve avere per attivare un corso: «Per Economia ne servono otto, ma ne bastano sei se l'ateneo è privato». Puglisi precisa: «Un vantaggio minimo e per un periodo di transizione». Ma «più flessibilità» è quello che chiede la Crui «per tutti gli atenei». La Conferenza dei rettori presenta in queste ore al Ministero un documento sui punti critici dell'Ava. La proposta è di rinviare la partenza: «Sia un anno di sperimentazione con adesione volontaria». «Troppi vincoli, troppe rigidità — dicono i rettori —. A partire dal fatto che le università dovrebbero avere più docenti per offrire la stessa didattica, adesso che le assunzioni sono di fatto bloccate. Rischia di essere non una seleziona sulla qualità, ma un taglio lineare». Federica Cavadini _____________________________________________________ Sanità news 28 Feb. ’13 PRESTO IN LOMBARDIA DUE NUOVE UNIVERSITA’ PRIVATE DI MEDICINA La Lombardia potrebbe presto avere due nuove università private di medicina. Una targata Humanitas e voluta dalla famiglia Rocca e l'altra targata San Raffaele e tenuta a battesimo dal nuovo patron dell'impero di via Olgettina, Giuseppe Rotelli. Ieri si sono riuniti i rettori lombardi ed hanno espresso «apprezzamento» per i due progetti. L'assessore uscente alla Sanità Mario Melazzini si è anche spinto oltre dando l'ok esplicito della Regione Lombardia. Si tratta solo di un primo passo e ovviamente, in mancanza di un piano di sviluppo triennale degli studi, è ancora presto perché il coordinamento universitario regionale possa dare un parere positivo ufficiale. Ma l'interesse c'è, ed è tanto. L'ultima parola spetterà comunque al prossimo ministro dell'Università. Se i tempi fossero contenuti all'osso, le prime matricole potrebbero essere arruolate già dal prossimo anno accademico. L'apertura delle due nuove università di medicina amplierebbe l'offerta formativa per gli aspiranti medici. Ma creerebbe anche parecchio scompiglio, soprattutto nel caso del San Raffaele. I rettori infatti pongono una clausola al progetto di Rotelli: «Va bene l'eventuale attivazione dell'università del San Raffaele purché sia contemporanea alla disattivazione dell'università Vita e Salute». Non ci saranno quindi due corsi di medicina in via Olgettina, semmai verrà spazzato via l'ateneo Vita e Salute voluto da Don Verzé e tuttora «gestito» dai Sigilli a lui fedelissimi. Il comitato dei «magnifici» si è tuttavia pronunciato anche sulla protesta in atto da parte degli studenti del Vita e Salute, spaventati dalla separazione in casa tra ateneo (in mano alla fondazione Monte Tabor, roccaforte dei Sigilli) e ospedale San Raffaele (in mano a Rotelli) in vista della scadenza della convenzione nel 2014. Ma sulla possibile alleanza dell'ateneo con un altro ospedale che non sia il San Raffaele, i 12 rettori hanno messo in chiaro: «Innanzitutto va salvaguardato il diritto degli studenti iscritti a proseguire i percorsi formativi. E questo può avvenire o con l'attivazione di una nuova università o, come auspicato dal ministro Profumo, con il raggiungimento di un accordo tra proprietà dell'ospedale San Raffaele e la Fondazione Monte Tabor». Dita incrociate all'Humanitas: l'istituto clinico di Rozzano già ospita, in convenzione, alcuni corsi di studio dell'università Statale di Milano e dal 2003 ha anche avviato un corso di laurea interamente in inglese. Ma non ha mai avuto un'università realmente sua. La famiglia Rocca lo scorso 28 dicembre ha presentato al ministero dell'università la domanda per aprire la Humanitas University: corsi per medici, infermieri e tecnici di radiologia e radioterapia. In tutto 738 posti per gli studenti, di cui 567 solo nella facoltà di medicina e chirurgia. Il progetto sarebbe totalmente finanziato con risorse private e potrebbe usufruire anche di un fondo speciale, frutto di una donazione, di 10 milioni di euro destinati allo sviluppo del campus universitario. Una bella risposta, insomma, alla carenza di posti negli atenei pubblici. E una possibilità in più per gli studenti che devono fare i conti con il numero chiuso. (Sn) _____________________________________________________ Corriere della Sera 26 Feb. ’13 CURA EUROPEA PER L'UNIVERSITÀ AL COLLASSO di LIVIA MANERA L' immagine usata la settimana scorsa dalla Conferenza dei rettori, quella secondo la quale, se vi fosse una Maastricht delle università, l'Italia sarebbe ormai fuori dall'Europa, riflette come i tagli inflitti all'istruzione superiore in questi ultimi anni abbiano drammaticamente amplificato le differenze tra le università europee. A partire dalla crisi del 2008, gli atenei dell'intero continente hanno subito una forte pressione per aumentare le rette, tagliare i costi e dare impulso alla formazione al lavoro. In questo quadro, otto Paesi particolarmente colpiti dalla recessione — tra cui Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e Ungheria — hanno tagliato i budget dell'università di oltre il 10%. Con il risultato che la Spagna è stata costretta ad allungare le vacanze per risparmiare su luce e riscaldamento. Che oggi in Irlanda un professore guadagna un terzo in meno rispetto a cinque anni fa. E che in Ungheria i laureati devono rimanere a lavorare in patria almeno due anni per ogni anno di università frequentato a spese dello Stato, perché per gli studenti fuori corso è iniziata la tolleranza zero. In Francia, chi può se ne va a studiare in Inghilterra. E questo benché sia uno dei pochissimi Paesi, con Germania e Svizzera, che negli ultimi cinque anni hanno aumentato il budget destinato all'istruzione (+5% solo nel 2010). Malgrado ciò, gli studenti francesi si sentono imprigionati in un sistema antiquato e punitivo, che premia l'eccellenza ma penalizza brutalmente chi deve accontentarsi di frequentare le facs (compresa la Sorbonne). Perciò tutti corrono a Londra, malgrado una stanza di nove metri quadri in un dormitorio universitario costi 900 euro al mese e il governo abbia triplicato le spese a carico degli studenti, portandole a 10.500 euro l'anno. Pur essendo diventato il terzo Paese più caro al mondo per gli studi superiori dopo Stati Uniti e Corea del Sud, il Regno Unito è ormai il grande hub europeo dell'istruzione, dove i ragazzi non hanno altra scelta se non studiare perché divertirsi, mangiare decentemente, andare alle mostre e ai concerti è immancabilmente «troppo caro». Inoltre, nel Paese dove fino a ieri per avere accesso a una brillante carriera in banca era preferibile avere studiato filosofia a Oxford, gran parte delle risorse è stata spostata su discipline più «produttive», come ingegneria o economia. Ecco spiegato perché oggi sempre più famiglie, in Italia come in Francia, affrontano sacrifici per mandare i figli a studiare in Inghilterra. E se in Germania questo non accade, è solo perché è uno dei pochi Paesi che hanno aumentato l'investimento nella cultura. L'unico punto in comune a tutte le università d'Europa è l'idea di sottoporre d'ora in poi a una severa verifica l'operato degli insegnanti, i quali dovranno dare prova di meritare gli eventuali aiuti. E questo fa pensare che in Italia il problema dell'anzianità degli insegnanti e della mancanza di ricambio sarebbe un ulteriore freno in un sistema che persino i rettori hanno definito «al collasso». _____________________________________________________ L’Unione Sarda 1 mar. ’13 STUDENT JOBS, BOOM DI ACCESSI AI SERVIZI ERSU La carica dei 9 milioni Nove milioni di contatti nella pagina facebook, 1.500 utenti unici in media al giorno (di cui il 70% donne e il 30% uomini), quattro mila “like”, 2.640 notizie pubblicate in due anni. Sono i numeri del progetto “Student jobs”, nato nel 2010 e portato avanti dall'Ersu con la collaborazione di vari partner, anche istituzionali. IL SERVIZIO Student jobs nasce con l'obiettivo di migliorare l'offerta dei servizi dell'Ersu attraverso l'interazione fra studenti e istituzioni pubbliche, enti per il diritto allo studio, università e associazioni no profit, cercando così di soddisfare le richieste e le esigenze del mondo studentesco. In particolare il progetto ha offerto servizi per attività culturali, artistiche, ricreative e turistiche, di informazione e orientamento professionale, sanitarie e di medicina preventiva, promozione sportiva e studenti disabili. Oltre allo sportello “Trovo casa” e la consulenza legale per gli affitti. SETTIMO PIANO Inoltre proprio ieri è stato inaugurato lo spazio “Welcome Day”. Un intero piano all'interno del Palazzo dell'Ersu, nel Corso, a disposizione degli studenti. Un punto d'appoggio per i giovani universitari dove poter studiare, usare il web, leggere, confrontarsi. Dotato di un internet point e altre sale attrezzate, si potranno inoltre organizzare riunioni, tavole rotonde, work shop. Rimarrà aperto dal lunedì al giovedì, dalle 9 alle 19, e il venerdì dalle 9 alle 14. IL PRESIDENTE «Un progetto che all'inizio aveva incontrato delle difficoltà, in quanto innovativo - spiega Daniela Noli, presidente dell'Ersu - siamo riusciti a creare una rete di partner attraverso la quale lo studente si rivolge al nostro sportello e chiede informazioni a ragazzi che sono stati selezionati esclusivamente in base al merito, e sono stati preparati con corsi di formazione specifici». L'augurio della Noli e dei ragazzi coinvolti nel progetto è che la Regione possa rifinanziare Student jobs: «Il messaggio che deve arrivare da queste iniziative - spiega Stefano Tunis, direttore dell'Agenzia regionale per il Lavoro - è il desiderio che hanno i giovani sardi di risalire la china e rilanciare l'economia dell'Isola». IL CAMPUS Una battuta la Noli l'ha riservata anche per il futuro del campus universitario, che secondo i progetti dovrebbe sorgere in viale La Plaia: «Entro questo mese si concluderà la fase di verifica delle proposte arrivate, poi ci sarà l'aggiudicazione». Ma l'iter è ancora lungo. Fra progetti e permessi da chiedere, l'appuntamento è per il 2017. Piercarlo Cicero _____________________________________________________ Sardi News 28 Feb. ’13 UNIVERSITÀ: IN 10 ANNI CALO DI 58 MILA STUDENTI Cagliari e Sassari ne hanno perso 14.942 Il rapporto annuale del Cun, Consiglio universitario nazionale: previsioni nere per il futuro di Carla Colombi In dieci anni gli immatricolati alle università italiane sono passati da 338 mila a 280 mila. Un calo secco di 58 mila studenti. E si riduce ovviamente il numero dei professori. La Sardegna – ancora all’ultimo posto in Italia nel rapporto popolazione/laureati - non fa certo eccezione con l’aggravante degli abbandoni scolastici nelle scuole medie e superiori a livelli nazionali record. Meno della metà (47 per cento) dei diplomati oggi sono attratti dall’università, proprio non ci pensano e spesso non possono. Otto anni fa era il 54 per cento. A guardare i numeri delle iscrizioni all’università è come se fosse scomparso un intero ateneo di grandi dimensioni. Il dato è emerso all’inizio di febbraio da un documento del Cun (Consiglio universitario nazionale) e non è l’unico a far parlare di «emergenza nazionale» visto che il segno negativo compare anche accanto alle voci laureati, dottorati, docenti e, naturalmente, fondi. Una eccezione - L’ateneo di Bologna ha alzato la mano per obiettare che in casa propria ha registrato un incremento delle immatricolazioni dell’1 per cento nell’arco dell’ultimo triennio, del 6 per cento nell’arco degli ultimi cinque anni e addirittura l’aumento, a carico dell’ateneo, del 10 per cento dei fondi destinati al diritto allo studio. Ma non basta a dipingere un quadro più rassicurante. Il calo delle immatricolazioni riguarda la gran parte degli atenei e la verità è che ai diciannovenni, il cui numero è rimasto stabile negli ultimi cinque anni, la laurea interessa sempre meno: le iscrizioni- al di là delle ragioni demografiche - sono calate del 4 per cento in tre anni, passando dal 51 per cento nel 2007-2008 al 47 nel 2010-2011. E le cose peggiorano nell’anno accademico in corso. Sardegna – Dall’anno accademico 2002-2003 a oggi gli studenti nelle due università solo calati di 14.942 unità, di cui a Cagliari 10.403 e a Sassari 4459. Nel 2005 i docenti a Cagliari erano 1119, quest’anno sono ridotti a 1048 (-71). A Sassari erano 928 nel 2005 e sono oggi 770 (- 158). A Sassari (anno accademico 2002-2003) gli studenti erano 17.457, oggi sono 12.888 (erano 17.408 nel 2005, poi scesi a 16.807 nel 2010, e ancora a 15.794 nel 2001. A Cagliari gli iscritti erano 39.459 nell’anno accademico 2002-2003, stabili nel 2005 a 39.731, calati a 33.040 nel 2010, ulteriormente precipitati a 30.866 nel 2011 e oggi a quota 29.056. Italia maglia nera in Europa - Non va meglio sul fronte dei laureati: siamo largamente al di sotto della media Ocse (34/o posto su 36 Paesi) e soltanto il 19 per cento dei 30-34enni possiede una laurea, contro una media europea del 30 per cento. Il 33,6 per cento degli iscritti ai corsi di laurea è fuori corso e il 17,3 non fa esami. Al calo dei laureati contribuisce anche la diminuzione, negli ultimi tre anni, delle risorse per finanziare le borse di studio: nel 2009 i fondi nazionali coprivano l’84 per cento degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75. L’emorragia non è solo di studenti. In soli sei anni (2006-2012) il numero dei docenti si è ridotto del 22 per cento. Nei prossimi tre anni si prevede un ulteriore calo dei docenti di ruolo. Contro una media Ocse di 15,5 studenti per docente, in Italia la media è di 18,7 (includendo sia i docenti strutturati che quelli a contratto. E questi ultimi, che in genere assicurano un raccordo reale fra università e mondo del lavoro, saranno i più penalizzati. A risentirne sarà l’università). Pochi soldi – Un capitolo inquietante riguarda gli stanziamenti per il settore: dal 2001 al 2009 il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), calcolato in termini reali aggiustati sull’inflazione, è rimasto quasi stabile, per poi scendere del 5 per cento ogni anno, con un calo complessivo che per il 2013 si annuncia prossimo al 20 per cento Su queste basi e in assenza di un qualsiasi piano pluriennale di finanziamento moltissime università, a rischio di dissesto, non possono programmare la didattica né le capacità di ricerca. Un allarme lanciato anche a dicembre dai rettori. «Il taglio di 400 milioni di euro al Fondo di finanziamento ordinario per l’anno 2013 provocherà - avevano avvertito - una situazione di crisi gravissima e irreversibile per il sistema universitario italiano». Negli ultimi quattro anni di governo Berlusconi e del ministro Maria Stella Gelmini i fondi destinati all’università in Italia sono calati del 13 per cento. Tasse raddoppiate - La denuncia del Cun ha trovato subito una sponda nelle associazioni studentesche. «Vogliamo ricordare che le tasse universitarie sono raddoppiate in appena dieci anni e sia il sistema universitario sia il diritto allo studio pesano sempre più sulle spalle degli studenti» ha osservato l’Udu e Link ha denunciato la «totale assenza di soluzioni ai problemi dell’Università italiana all’interno del dibattito elettorale attualmente in corso». Il Pd ha promesso che il primo provvedimento del Partito Democratico al governo riguarderà il diritto allo studio, ma per ora resta il fatto, come ha sottolineato il presidente del Cun, Andrea Lenzi, che «la costante, progressiva e irrazionale riduzione delle risorse finanziarie e umane destinate al sistema universitario ne lede irrimediabilmente la capacità di svolgere le sue funzioni di base, di formazione e ricerca». Visione meno fosca – Il coordinatore del rapporto Stella sull’occupazione dei laureati Nello Scarabotto osserva: “Il calo generale degli scritti è certo ma bisogna considerare che dieci anni fa erano appena state introdotte le lauree triennali e c’era stato un boom di immatricolazioni, ecco perché il calo appare più pesante”. Studenti e Cgil - Marco Lezzi, del Consiglio nazionale studenti universitari: “Il sistema del diritto allo studio è inefficace, solo il 10 per cento degli studenti riceve il sostegno, è per pochi, sempre meno, ed è insufficiente. La borsa arriva al massimo a 5000 euro, e in una città come Milano non bastano. Ma non bastano neanche a Palermo e Cagliari, neanche a Sassari o Urbino. Ecco perché molto rinunciano”. Secondo la Cgil-scuola “in Italia studiare è sempre più costoso e non paga, i laureati sono disoccupati quanto i diplomati. In alcuni casi le famiglie preferiscono mandare i figli all’estero dove, in certi atenei e città, spendono meno che in Italia”. Iscritti: -17 per cento-In dieci anni gli immatricolati sono scesi da 338.482 (2003-2004) a 280.144 (2011-2012), con un calo di 58.000 studenti (-17 per cento). Come se in un decennio - quantifica il Cun - fosse scomparso un ateneo come la Statale di Milano. Il calo delle immatricolazioni riguarda tutto il territorio e la gran parte degli atenei. Ai 19enni, il cui numero è rimasto stabile negli ultimi cinque anni, la laurea interessa sempre meno: le iscrizioni sono calate del 4 per cento in tre anni: dal 51 nel 2007-2008 al 47 per cento nel 2010- 2011. No borse di studio - Il numero dei laureati nel nostro Paese è destinato a calare ancora anche perché, negli ultimi tre anni, il fondo nazionale per finanziare le borse di studio è stato ridotto. Nel 2009 i fondi nazionali coprivano l’84 per cento degli studenti aventi diritto, nel 2011 il 75 per cento Eliminati 1195 corsi di laurea - In sei anni sono stati eliminati 1.195 corsi di laurea. Quest’anno sono scomparsi 84 corsi triennali e 28 corsi specialistici/magistrali. Se questa riduzione è stata inizialmente dovuta ad azioni di razionalizzazione, ora dipende invece in larghissima misura - si fa notare - alla pesante riduzione del personale docente. Dottorandi cercansi - Rispetto alla media Ue, in Italia abbiamo 6.000 dottorandi in meno che si iscrivono ai corsi di dottorato. L’attuazione della riforma del dottorato di ricerca prevista dalla riforma Gelmini è ancora al palo e il 50 per cento dei laureati segue i corsi di dottorato senza borsa di studio. I giovani dottori che hanno abbandonato l’Italia nel 2011 sono stati pari al 27,6 per cento. Nel 2002 la percentuale era dell’11.9. Ricercatori – Rispetto alla forza lavoro i ricercatori sono negli Stati Uniti il 9,2 per cento, in Europa il 6,3 e in Italia ci si ferma al 3.8 per cento. Fuga dei cervelli – Negli ultimi dieci anni – si legge nei documenti Crui – hanno lasciato l’Italia 68 mila neolaureati. La loro formazione – si calcola – è costata 8.5 miliardi di euro, cifra analoga ai finanziamenti concessi in un anno all’università e alla ricerca. Meno professori - In soli sei anni (2006-2012) il numero dei docenti si è ridotto del 22 per cento. Nei prossimi tre anni si prevede un ulteriore calo. Contro una media Ocse di 15,5 studenti per docente, in Italia la media è di 18,7. Pur considerando il calo di immatricolazioni, il rapporto docenti/studenti è destinato a divaricarsi ancora per una continua emorragia di professori che non vengono più assunti. Il calo è anche dovuto alla forte limitazione imposta ai contratti di insegnamento che ciascun ateneo può stipulare. Professori anziani – Docenti canuti in Italia: Gli over 60 rappresentano nel nostro Paese il 22 per cento del corpo docente, contro il 5.2 del Regno Unito, il 6.9 della Spagna, l’8.2 della Francia e il 10.2 della Germania. Al contrario i professori under 34 sono in Spagna il 19 per cento, il 22 per cento in Francia, il 27 in Uk, il 31.6 per cento in Germania e un deludente 4.7 per cento in Italia. Spese superano i fondi - Dal 2001 al 2009 il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), calcolato in termini reali aggiustati sull’inflazione, è rimasto quasi stabile, per poi scendere del per cento ogni anno, con un calo complessivo che per il 2013 si annuncia prossimo al 20. Su queste basi - osserva il Cun- non possono programmare né didattica né ricerca. Laboratori a rischio - A forte rischio obsolescenza le attrezzature dei laboratori per la decurtazione dei fondi: anche i finanziamenti Prin, cioè i fondi destinati alla ricerca libera di base per le università e il Cnr, subiscono tagli costanti: si è passati da una media di 50 milioni all’anno ai 13 milioni per il 2012. Infatti dai 100 milioni assegnati nel 2008-2009 a progetti biennali si è passati a 170 milioni per il biennio 2010-2011 ma per progetti triennali, per giungere a meno di 40 milioni nel 2012, sempre per progetti triennali. Appello dei rettori ai candidati premier La Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui), presidente Marco Mancini, ha rivolto un appello ai candidati premier e chiede da subito un impegno pubblico per salvare le università italiane, luogo di formazione delle giovani generazioni e motore dello sviluppo del Paese. “Se vi fosse una Maastricht delle Università, noi saremmo ormai fuori dall’Europa”, scrivono. La Crui propone sei misure urgenti. 1) Defiscalizzare tasse e contributi universitari per aiutare le famiglie a non dover abbandonare a causa della crisi economica; 2) Assicurare la copertura totale delle borse di studio per garantire formazione mobilità; 3) Abbattere l’Irap sulle borse post-lauream e defiscalizzare gli investimenti delle imprese in ricerca per favorire la competizione nei settori ad alta intensità tecnologica; 4) Finanziare posti di ricercatore da destinare ad almeno il 10 per cento dei dottori di ricerca e togliere i vincoli al turnover; 5) Restituire l’autonomia responsabile all’università, valorizzare le scelte di qualità e le vocazioni dei differenti atenei; 6) Incrementare i fondi all’1 per cento del Pil, promuovere le eccellenze nei processi di valutazione, favorire la competitività a livello internazionale. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Feb. ’13 SASSARI: NO A INGEGNERIA INFORMATICA Ingegneria informatica a Sassari non si farà. Il Senato accademico e il consiglio di amministrazione dell'Università hanno deciso di bocciare la nuova facoltà, che sarebbe stata aperta soltanto per il corso di laurea triennale, senza la possibilità quindi della laurea specialistica: altri due anni fondamentali, che consegnerebbero allo studente una laurea spendibile da subito sul mercato del lavoro. La decisione era nell'aria: la domanda sarebbe importante, in un settore sempre più in espansione, come quello dell'informatica, con competenze sempre più richieste all'esterno. La sensazione è che il Senato avrebbe potuto decidere altrimenti nel caso della possibilità di laurea specialistica. Per l'Università di Sassari e per i suoi studenti è un treno perso, almeno per ora. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 2 mar. ’13 REGIONE. NIENTE SOLDI PER PER I FUORI SEDE Niente soldi per gli studenti, mozione del Pd Sulla vicenda dei contributi agli studenti fuori sede per l'affitto delle case, interviene il consigliere regionale del Pd, Gian Valerio Sanna. È stata depositata ieri mattina all'assemblea sarda la mozione, primo firmatario proprio l'esponente del Pd, sul “mancato riconoscimento e pagamento da parte dell'assessorato regionale della Pubblica istruzione dei contributi fitto-casa per gli studenti universitari fuori sede, con richiesta di convocazione straordinaria del Consiglio ai sensi dei commi 2 e 3 dell'articolo 54 del Regolamento”. Come annunciato dallo stesso Sanna, nell'interpellanza presentata lo scorso 21 gennaio, «poiché la Giunta non ha dato alcuna risposta all'urgente istanza di provvedere ai pagamenti dei contributi fitto casa in arretrato già dal settembre 2011, si è provveduto alla trasformazione dell'interpellanza in mozione». La Regione, spiega sempre Sanna - a partire dal settembre 2011 non ha più erogato i fondi, non rispettando le prescrizioni scritte nel testo sulle modifiche alla legge regionale 15 Marzo 2012, n.6 , che riportava una disposizione di priorità proprio in riferimento all'esigenza di garantire l'erogazione dei fondi per l'istruzione e la ricerca. «La Giunta regionale - attacca Sanna - ha la responsabilità sul buon esito della carriera universitaria degli studenti che hanno fatto la scelta obbligata di andare via dalla Sardegna per accedere a percorsi accademici in grado di assicurare maggiore professionalità, possibilità lavorative e che oggi si ritrovano in un contesto di aggravata condizione economica per le proprie famiglie, costretti ad abbandonare gli studi, saltare sessioni di esami o rimandare date di laurea e altri impegni accademici». Con la mozione l'esponente della minoranza intende richiamare in Aula la Giunta per avviare un confronto dove emerga la volontà di erogare subito i fondi destinati al sostegno dello studio e della conoscenza dei giovani sardi. CAPPELLACCI «LE BORSE DI STUDIO, UN SOSTEGNO DECISIVO» Lettera aperta al governatore Cappellacci: «Ogni anno ero solita ricevere una borsa di studio regionale per merito e per una ragazza come me, era un grande aiuto per affrontare delle spese scolastiche e personali e per non gravare sulla situazione economica della mia famiglia. Quest'anno invece, a causa dei pochi fondi regionali disponibili, io e tanti altri studenti che si sono impegnati durante l'anno scolastico raggiungendo ottimi risultati, non siamo stati premiati con la somma tanto attesa proprio in questo periodo di crisi in cui le nostre famiglie a stento arrivano alla fine del mese. È stata una notizia deludente che mi tocca in prima persona perché non ho i mezzi per partecipare al viaggio d'istruzione benché il mio indirizzo di studi, turistico progetto Iter, disponga l'obbligatorietà dei viaggi e delle visite a scopo didattico. Tale situazione mi fa riflettere su quanto le istituzioni trascurino le problematiche giovanili e preferiscano destinare i finanziamenti ad altri scopi a parer mio inutili, come le missioni militari all'estero e l'acquisto di F-35, piuttosto che incrementare i fondi per aiutare i giovani ad inserirsi nella società e nel lavoro. Spero vivamente che questo problema non si presenti anche l'anno prossimo quando andrò all'università e avrò bisogno di pagarmi gli studi poiché la mia famiglia non mi potrà sostenere, altrimenti studiare diventerà veramente un privilegio di pochi». Martina Corona _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 mar. ’13 UNIVERSITÀ, PRONTI I 5 STELLE «COSÌ CAMBIEREMO TUTTO» Il boato di Grillo rilanciato da molti ragazzi. Ma parecchi altri non sono convinti: «Demagogia facile, mancano del tutto proposte per realtà come la nostra» dopo IL VOTO»GLI STUDENTI luna biancu e gaia clateo Troppo populismo: le soluzioni di problemi complessi non sono tanto semplici andrea furesi Non ci sono idee di destra o di sinistra, solo idee giuste o sbagliate raffaella e sonia Molti nostri colleghi si sono espressi con decisione a favore del MoVimento di Pier Giorgio Pinna wSASSARI Bum! Il botto di Grillo si è sentito fin dentro l’università. Tra gli studenti sono in tanti ad aver votato per il MoVimento: «Vogliamo cambiare tutto, solo 5 Stelle può farcela» non si stancano di ripetere. Ma molti loro compagni non sono d’accordo. Anzi, sparano a zero sul “garante” di M5S. E comunque un fatto è certo: in atenei dove lo scontro per le rappresentanze dei ragazzi sino a oggi ha coinvolto solo due schieramenti (un centro moderato-cattolico e una sinistra militante) il quadro si fa variegato, decisamente più complesso. A Sassari, nella Casa dello studente che a Corte Santa Maria ospita 250 fuorisede, il dopo-voto è al centro dei commenti. Nella hall, pulitissima e dotata di confortevoli poltroncine, tanti sono impegnati a ripassare. «Non ho potuto votare per via di un esame – dice Fabio Floris, 20 anni, di Marrubiu, iscritto in Chimica farmaceutica – Avrei dato la mia preferenza più al MoVimento che ad altri. Perché? Mah, non ho totale fiducia in Grillo, ma dopo aver assistito al suo comizio in piazza d’Italia ho visto che quantomeno ha studiato i problemi di ogni singola regione». Non è d’accordo un suo collega di corso, Michele Nieddu, 20 anni anche lui, di Orotelli: «Lui, Beppe, ha trovato semplicemente il momento giusto per cavalcare l’indignazione. Si limita a elencare le cose che la gente vuole sentirsi dire, dagli ultimatum ad Abbanoa agli appelli per il lavoro, nel Sulcis come in tutte le aree dell’isola ». Un’altra ragazza, di un paese barbaricino, preferisce non essere citata con nome e cognome. Ma si chiede: «Per quale ragione anche in questi giorni parla solo lui? Prima del voto, si è appena preso la briga di presentare i suoi sostenitori candidati...». Ma chi sono nelle università sarde gli attivisti del MoVimento? Quali i tratti distintivi e le classi sociali di provenienza? Secondo recenti report, l’identikit dell’elettorato di M5S vede protagonisti per il 30% proprio gli studenti. In questa base, risultano poi 27 diplomati e altrettanti laureati ogni cento potenziali adepti del MoVimento. Le famiglie d’origine, invece, attraversano tutti i settori. Se a questo si aggiunge che la gran parte dei seguaci del Grillo Pensiero è tra gli under 35, appare evidente come siano stati davvero in parecchi negli atenei a votare 5 Stelle. I conti, del resto, sono presto fatti: tra i 50mila universitari sardi e gli altri 10mila partiti dall’isola per facoltà del continente, il bacino è forte. Mentre lo è meno il consenso di centinaia studenti Erasmus. I quali, con un pronunciamento simbolico, hanno in generale manifestato più sostegno a Bersani e a Monti. «In ogni caso all’università molti si sono sentiti rappresentati dal programma di M5S», sottolinea Sonia Ortu, 23 anni, di Siniscola, iscritta in Ostetricia. «È ora di cambiare mandando a casa una volta per tutte la vecchia classe politica», aggiunge Raffaella Moro, 23 anni, di Fonni, che frequenta Lingue. A Sassari, nell’atrio del Quadrilatero che ospita diverse aule di fronte ai giardini pubblici, i discorsi sono dominati dalle attese per il nuovo governo. «Meglio nessuna alleanza, non ce n’è bisogno: il MoVimento si esprimerà di volta in volta a favore o contro le singole leggi», ribadisce Andrea Furesi, 25 anni, di Economia. «Anche perché – aggiunge – secondo me non esistono idee di sinistra o di destra, ma solo idee giuste o sbagliate». «Beh, io non la penso certo così», sostiene Gianpaolo Orani, 26 anni, laureando nel corso in Direzione aziendale e consulenza professionale. «Grillo è un attore da tempo scomparso dalle scene teatrali che ha pensato di rilanciarsi su un altro palcoscenico – incalza – Ma io domando: quali competenze hanno lui e il MoVimento per prendere decisioni che riguardano la stabilità dell’Italia in Europa? Credo siano queste le valutazioni da fare. E siccome penso che M5S non sia all’altezza delle sfide che ci attendono, ho preferito votare per il Pd». A guardarsi in giro, lo tsunami sembra aver sfiorato laboratori e dipartimenti lasciando appena segni visibili: a Cagliari come a Sassari, solo qualche manifesto e, in alcune bacheche, i volantini che ricordano i punti programmatici di 5 Stelle. «Comunque, tra i giovani, i candidati sardi portati da Grillo hanno preso un sacco di voti – afferma con convinzione Luca, 20 anni, al primo anno di Medicina, che preferisce non rivelare il proprio cognome ma accetta di farsi fotografare – C’è voglia di facce nuove, di cambiamento. E io stesso mi sono espresso per il MoVimento: le persone che ha presentato in Sardegna mi sono apparse le uniche in grado di garantire questa svolta». A due passi, un amico ventenne, Alessandro Tedde, che studia Economia, scuote invece la testa perplesso: «Se è vero che c’è necessità di volti nuovi – dice – è anche vero che, almeno dalle loro interviste, i candidati di M5S non mi sono sembrati preparati. Insomma, alla fine non ho votato per loro: non mi hanno convinto e non mi sono piaciuti». E allora? Dopo il coro dei bum! comincia già uno sboom? Chissà. È presto per dirlo. Nell’isola, tra i 27 Cinque Stelle in lizza domenica e lunedì scorsi, c’erano l’algherese Simone Cocco, 33 anni, studente di Architettura, e la sennorese Ellinor Muresu, 27 anni, fresca di laurea in farmacia. Nessuno dei due è rientrato nella rosa dei sei parlamentari sardi eletti da M5S. «Ma sono certa che gli studenti ci hanno largamente sostenuto con consapevolezza e senso critico, guardando con interesse ai nostri programmi – afferma Ellinor – Noi, per esempio, vogliamo abolire la legge Gelmini e far aumentare i finanziamenti agli atenei, tagliando le spese militari e quelle per la politica. Sono temi che toccano tutti da vicino. E poi intendiamo rilanciare la meritocrazia attraverso stage nelle aziende in vista di un lavoro certo per il futuro». «Dopo una classe politica tanto fallimentare, solo una nuova leadership può ridare fiducia alla gente e attuare questi progetti», conclude Muresu. Eppure, la linea di M5S non persuade tutti. Meno che mai due ragazze di Scienze politiche e Lettere, Luna Biancu e Gaia Clateo: «In questi giorni all’università si vedono due scuole di pensiero: una contro, l’altra pro Grillo. Lui ha avuto tantissimo successo. Ma noi non siamo favorevoli alla gran parte delle sue idee. Come mai? È solo un comico che pensa alle relazioni con l’Europa e alle questioni economiche in maniera semplicistica. Fa troppa demagogia, troppo populismo. Sogna. E così non riuscirà a far nulla. Mentre oggi quel che interessa davvero è la soluzione dei problemi, non i buhhh in rete ai vecchi politici». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Feb. ’13 NOVE STUDENTI SU DIECI TROVANO UN LAVORO A DUE MESI DALLA LAUREA Spesso non fanno in tempo a laurearsi. Già prima del diploma, infatti, numerosi ingegneri in uscita dal Polo territoriale di Lecco vengono contattati dalle aziende per un'offerta di lavoro, in media 9 su dieci trovano impiego in due mesi. Il tasso di disoccupazione, che storicamente a Lecco si attestava ai minimi nazionali, attorno al 2%, è triplicato in pochi anni restando però ancora quasi la metà del dato italiano. Gli immatricolati a Lecco sono in crescita costante, con una crescita del 32% dal 2006 a oggi e un aumento degli studenti internazionali, grazie alla presenza di lauree magistrali in lingua inglese. I risultati occupazionali sono particolarmente positivi per il corso triennale in ingegneria della produzione industriale, dove in 34 giorni trova lavoro il 100% dei giovani mentre in ingegneria civile ed ambientale il 92% entra nel mondo del lavoro con un'attesa media di 43 giorni. Anche nelle lauree specialistiche i risultati sono ottimi, con il 92% di occupati in 56 giorni per l'ingegneria meccanica. Qui, in particolare, è forte il legame scuola-lavoro, con il 94% degli studenti che effettua stage. L.Or. _____________________________________________________ Il Corriere della Sera 3 mar. ’13 LA RETE DEGLI STUDENTI «DATI DEGLI ALLIEVI DI TUTTO IL MONDO PER CAMBIARE I MODELLI DIDATTICI» di SERENA DANNA Aprite le orecchie: l'Italia è un Paese competitivo nel campo dell'educazione digitale. Ad affermarlo non è un «furbetto delle start- up» dell'ultima ora, ma l'istituzione inglese numero uno al mondo per l'apprendimento online: la Pearson. La buona notizia è stata confermata durante la presentazione del bilancio 2012 del gruppo, quando — mentre l'amministratore delegato John Fallon smentiva la notizia della vendita del «Financial Times», quotidiano finanziario di proprietà del gruppo — sono stati presentati dati che dimostrerebbero una via italiana alla rivoluzione digitale delle scuole. Raggiungiamo Fallon alla fine della conferenza stampa londinese: l'azienda ha annunciato un taglio dei costi di 250 milioni di euro (che coinvolgerà anche posti di lavoro) da reinvestire nel digitale. I primi cinque minuti di conversazione sono dedicati alle elezioni politiche italiane: come tutti gli investitori stranieri, anche Fallon, 50 anni, neoamministratore delegato del gruppo da 7 miliardi di euro, vuole essere rassicurato. In Italia la scuola pubblica versa in una condizione di sofferenza perenne per mancanza di fondi, investimenti e strutture adeguate. Davvero possiamo sperare in una transizione digitale? «Al momento abbiamo seimila studenti registrati a MyEnglishLab, una piattaforma integrata con i manuali di testo che permette di monitorare l'attività dello studente e di verificarne l'apprendimento. È solo l'inizio: abbiamo stretto accordi con il ministero dell'Istruzione per lavorare con le scuole pubbliche italiane e fornire strumenti, formazione degli insegnanti, didattica». Il sistema nordamericano è il più avanzato e redditizio nell'e-learning, ma le sperimentazioni coinvolgono soprattutto istituzioni private. Stesso discorso per il Sud Africa dove Pearson controlla la più importante rete di università private del Paese. Non crede che in Europa, da sempre attenta alla pubblicità dell'istruzione, sia più difficile sperimentare? «Ci vuole più tempo ma ce la faremo. C'è un tema di equità sociale legato all'istruzione in Europa che a volte rischia di rallentare il processo di innovazione ma credo che si risolverà presto in una maniera molto più semplice di quello che pensiamo». Cioè? «La diffusione di smartphone e tablet sta per superare quella dei pc. Significa che tra poco non sarà la scuola a dover fornire agli studenti gli strumenti per studiare, tutti li avranno già. Si tratterà di renderli adatti all'e-learning». Anche se fosse così, non basta certo dare l'iPhone agli studenti per digitalizzare la scuola... «Assolutamente no. I tool sono necessari ma sono solo un elemento della trasformazione che coinvolge studenti, spazi da abbattere, insegnanti da formare, nuovi parametri di valutazione delle competenze (quello globale proposto da Pearson è l'«Indice globale sulle capacità conoscitive e il raggiungimento del livello d'istruzione», ndr). È l'idea stessa di scuola intesa come ambiente fisico coercitivo che può essere rivoluzionata: negli Stati Uniti stiamo lavorando molto sulle lezioni one-to-one a distanza che consentono di realizzare quello che è il nostro obiettivo: formazione personalizzata. Per ottenerla abbiamo bisogno di informazioni sul ciclo di apprendimento degli studenti così da valutare le loro performance, capire dove sono deboli e dove invece dimostrano più attenzione. Facciamo tanto lavoro di raccolta dati per incrociare le informazioni collettive e individuare, ad esempio, all'interno della classe i leader». Si tratta di data-mining, ovvero di estrazione e analisi dei dati. Come lo effettuate? «Grazie alle piattaforme, ai siti e alle applicazioni a cui si registrano studenti e insegnanti. I seimila italiani registrati a MyEnglishLab, ad esempio, sono valutati costantemente dai loro docenti grazie al monitoraggio delle informazioni che rilasciano online. Sento di poter dire che il gruppo Pearson diventerà a breve il più grande provider di dati sugli studenti di tutto il mondo». Una promessa per qualcuno che può suonare come minaccia per la privacy... «Abbiamo progetti sofisticati in corso che richiedono competenze tecnologiche di altissimo livello, questo significa anche garantire, e avere come priorità, la sicurezza e la privacy delle persone coinvolte». Sebbene il 50% dei ricavi di Pearson arrivi dal digitale e l'obiettivo sia arrivare al 70% entro il 2014 puntando sui mercati emergenti, l'altra metà della cassa aziendale dipende da produzioni «analogiche»: questo è l'anno della fusione tra Penguin Books, casa editrice di vostra proprietà, e Random House, controllata dalla media company tedesca Bertelsmann. Una joint venture che porterà a coprire il 25% del mercato editoriale americano. «Penguin Books è con Pearson da quasi 40 anni. Visto che il mondo è cambiato e Pearson è cambiata, anche la nostra casa editrice "speciale" deve avviare una trasformazione digitale. Anche perché i fatti parlano da soli: a partire dal 2004 la vendita di testi nelle librerie ha cominciato a diminuire e il processo è irreversibile. Parallelamente però è cresciuta moltissimo la distribuzione online di libri cartacei, sul modello Amazon. Un mercato che nel 2004 valeva il 5% oggi per noi costituisce il 30%». Farete concorrenza ad Amazon anche sugli ebook? «Il mercato degli ebook nel 2009 praticamente non esisteva e adesso prende il 20% dei lettori negli Stati Uniti. Seguono Australia e Inghilterra. Sono convinto che esploderà anche in Europa e da voi in Italia molto presto. È inevitabile: attualmente i canali di distribuzione online e gli ebook prendono la metà del mercato editoriale. Noi ci saremo». Che progetti avete per il «Financial Times»? «Nel 2012 per la prima volta gli abbonamenti digitali del quotidiano hanno superato le vendite e gli abbonamenti cartacei. Ci sono in questo momento più persone che sottoscrivono un abbonamento online di quelle che si recano in edicola a comprare il giornale. Abbiamo studiato formule di sottoscrizione "premium" per offrire al lettore contenuti multimediali esclusivi. Peraltro anche in questo settore stiamo lavorando moltissimo per capire chi sono e cosa vogliono i nostri lettori». In che modo? «Studiando le abitudini di navigazione online: cosa leggono, per quanto tempo, quando. L'obiettivo è poter offrire loro prodotti sempre più personalizzati, contenuti ad hoc per interessi e bisogni, e indirizzare al meglio anche la pubblicità». @serena_danna _____________________________________________________ Sardi News 28 Feb. ’13 L’INCOMPETENZA AL POTERE DIETRO L’AGONIA DEL CRS4 di Giacomo Mameli La maledizione tragica dei “Ventenni” continua a essere nefasta. Non solo in politica. Era durata vent’anni la vera epopea mineraria che creava lavoro ma lasciava sul campo anche duemila croci per silicosi e stragi nelle gallerie del Sulcis. È durata vent’anni la grande industria chimica e metallurgica sarda. Poi le ciminiere si sono frantumate seminando rovine dall’Asinara al golfo degli Angeli, lambendo le sponde del Tirso e spingendosi sotto le falde del Gennargentu. È durato vent’anni anche il sogno della Sardegna-Silicon Valley al centro del Mediterraneo, nata un po’ prima del 1990 per una delle idee veramente geniali della prima Autonomia. Perché quel parco tecnologico inaugurato in un palazzotto tra viale Trieste e Sant’Avendrace di Cagliari, poi trasferito a Piscina Manna tra cervi e foreste fronte-mare, sta per diventare un fantasma. È scomparso non solo dalle cronache sarde, ma soprattutto dai giornali internazionali e dalle riviste scientifiche che contano. Tranne gli addetti ai lavori, nessuno all’esterno – dopo anni di successi - sa quali collegamenti il Crs4 crei col resto del mondo, quale valore aggiunto dia alla Sardegna, quali meccanismi virtuosi inneschi per le aziende isolane che di innovazione hanno disperato bisogno. Di certo si sa solo una cosa. Quel Parco lascerà le colline che si affacciano sul teatro romano di Nora e – nel rispetto della lobby cagliaritana del mattone- si trasferirà nel capoluogo, tra Tuvixeddu e Santa Gilla. Qui, un tempo, osava una cementeria. Adesso c’è un polo privato dell’informazione (di centrodestra) e – fra desktop e open space, menabo elettronici e skype - svettano palazzine desolatamente vuote, costruite da un immobiliarista che si occupa anche di editoria (di nome fa Sergio e di cognome Zuncheddu). Il quale otterrà un bel regalo. Cash. Glielo sta infiocchettando una sua ex socia in affari (di nome – per gli intimi – fa Ketty e di cognome Corona, uffici privati in via Alghero di Cagliari). Perché Maria-Paola-Caterina-Ketty Corona, nominata a suo tempo assessore agli Affari generali dal presidente semper ridens Ugo Cappellacci, giubilata dopo pochi mesi fatui di governo, totalmente priva di ogni competenza nella new economy, all’oscuro di che cosa sia il calcolo matematico o la biomedicina, è da un po’ di tempo a capo di Sardegna Ricerche, che controlla a sua volta il Crs4. Che fare? Semplice. Attuare l’alta politica del trasloco di Sardegna Ricerche. Portarla nel cortile di casa anziché lasciarla a bocca di laboratorio. Occupare parte dell’invenduto di santa Gilla, dare un po’ di soldi necessari al vecchio collega in affari Zuncheddu e far popolare di pipistrelli leprotti e furetti i laboratori di Pula. Davanti a queste bassezze politico-imprenditoriali da affittacamere, si prova sconforto e rabbia perché si constata che, su una delle poche eccellenze battezzate e cresciute nell’Isola, sta per cadere una notte davvero buia. Come se sia stata programmata a tavolino. Con metodo. E così, anche sulle nuove frontiere dell’Information and Communication Technology, basate sui collegamenti fra la Sardegna e il resto del mondo, si sta profilando il vuoto pressoché assoluto. C’è la conferma – al di là delle comparsate elettorali di questi giorni - di vivere una desolante stagione con una Sardegna alla deriva, senza guida, senza classe dirigente. Priva di capacità. Siamo nell’Isola leader della Mediocrità, col reply di quello stesso tramonto di idee che ha fatto morire la grande industria, con la stessa incapacità che continua a non saper dare orizzonti alla pastorizia, all’agricoltura, all’artigianato. E sulla frontiera delle nuove tecnologie si sta ripetendo lo stesso sfascio che ha fatto naufragare il nostro turismo diventato sempre più marginale nel panorama italiano e internazionale. Riflettere oggi su che cosa è stato il Crs4 (Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna) presieduto da Carlo Rubbia e da Nicola Cabibbo con la presenza saltuaria di Rita Levi Montalcini; pensare che era nato con partner che si chiamavano Ibm, Texo, S.T. Microelectronics; ricordare – giusto per citare veri leader – che Mario Melis, Antonello Cabras con altri presidenti di Regione volessero un Parco scientifico e tecnologico per spezzare i nodi storici del ritardo isolano; registrare che la Sardegna ha strappato primati internazionali nei collegamenti a Internet; che è stato il Crs4 a realizzare il primo sito web italiano; che lo stesso Crs4 abbia contribuito in modo rilevante a far decollare Video On line. Ebbene: assistere oggi a questo evaporarsi del progetto tecnologico, vedere al potere l’incompetenza e l’incapacità premiando ancora una volta l’appartenenza più servile, non può che aggravare una situazione economica regionale che definire fragile è semplicemente eufemistico. Resta per fortuna il miracolo di Tiscali con altre realtà d’avanguardia (Paperlitt, The Net Value, Prossima Isola, Sardegna.com). Tutte nate tra Pula e dintorni. Cifre impietose. Nel 2010 i fondi regionali per il Crs4 erano stati di 10 milioni di euro, calati a 7500 nel 2011, ridotti a 7300 nel 2012. Quest’anno si arriverà a sei milioni. Col rischio che dalla prossima primavera non sia più possibile pagare gli stipendi ai 184 ricercatori (che erano 211 nel 2010 e 197 lo scorso anno. E che scenderanno, così si legge in documenti ufficiali depositati alla Regione, a 162 nel 2014). Certo. Anche nel passato non tutte le rose erano profumate. I soci privati mica si erano svenati nell’investire capitali propri. C’era mamma Regione e la sfruttavano, la succhiavano. Ma si notava almeno un clima favorevole all’innovazione. Ciononostante il Crs4 ha brillato - e miracolosamente continua ancora a far parlare di sé con Enrico Gobetti – per i processi di visualizzazioni delle immagini tridimensionali. Ernesto Bonomi è un guru nella modellizzazione dei giacimenti di petrolio, i rapporti di lavoro con l’Agip-Eni sono importanti anche come introito finanziario. Il settore energetico, col solare termodinamico, è di qualità internazionale. Così come, con Gianluigi Zanetti, il Crs4 viaggia su standard elevati nell’informatica per la sanità e nella telemedicina. Per non parlare di una delle eccellenze della prima ora, Pietro Zanarini, che continua nelle innovazioni dei sistemi Gis primeggiando nel mondo web e creando un gruppo di tecnici sardissimi. Non si può dimenticare la biomedicina, gli studi sulla genetica, le ricerche positive del polo di Tramariglio e di Porto Conte con la regia di Sergio Uzzau. Su tutto ciò sta cadendo la notte. Più che verso l’eutanasia si va alla morte programmata, con un imbrigliamento di tutte le attività. C’è un motivo su tutti. La dirigenza politica e amministrativa è scivolata sul basso livello (né sono mancati i contrasti fra le proposte al ribasso del presidente della Regione e quelle professionali dell’ex assessore Giorgio La Spisa). Si è perfino assistito – e c’era da rabbrividirne – che vice pro tempore di Carlo Rubbia sia stato anche qualche politicante da strapazzo senza arte né parte (escluse competenze in traffici di malte cementizie). Perché si premiano le appartenenze di bottega, non le competenze. Come possono competere le nostre mediocrità dirigenziali – per fare solo un esempio- con chi guida il Parco di Trieste, cioè con Adriano De Maio? O col vicepresidente Roberto della Marina che ha girovagato fra Cern, Csem Sa e Colibrys Sa, società leader mondiale nei dispositivi Mems? Facciamo il raffronto fra il curriculum di De Maio e di Ketty Coroncina? Crediamo che la Sardegna del futuro possa nutrirsi di ignoranze scientifiche? Si è infranto il rapporto con le università sarde che, per la verità, mal sopportavano ricercatori fuori dalle sterili camere degli atenei. Nel contempo si foraggiano progetti privati che scavalcano il Crs4, o lo scopiazzano malamente. E ottengono euro a pronta cassa. Nelle tecnologie d’avanguardia procediamo verso la tabula rasa. Burocratizzazione spinta all’eccesso, blocco delle assunzioni, nessuno stimolo per calamitare ricercatori esterni, al macero investimenti pregressi e attrezzature. E il conseguente stop alla ricerca. Che era basata sul calcolo ad alte prestazioni. Col Crs4 che ha perso la sua autonomia, legato a doppia mandata col pachiderma Sardegna Ricerche, non si può andare da alcuna parte. C’è da studiare fra agende digitali e startup, tra bande larghe e domotica, tra cellule staminali e biobanche, tra le reti 4G e le cento diavolerie legate a smartphone o tablet. La Sardegna vuol rinunciarci del tutto? Come raddrizzare la strada smarrita? Sperare nella costituzione di una Fondazione che sia svincolata dall’abbraccio mortale della politica bottegaia? Forse. Di strade possono essercene più d’una. Anche in giorni di vacche magre. Purché trionfino le competenze. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 2 mar. ’13 UNITELSARDEGNA, SUCCESSO La tecnologia al servizio della formazione Favorire l'adozione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione nei settori dell'istruzione e della formazione. È questo l'obiettivo di UnitelSardegna, il consorzio per l'Università telematica della regione fondato nel 2005 dagli Atenei di Cagliari e Sassari, che ha approvato nei giorni scorsi il bilancio 2012 con una variazione positiva nel saldo finale del 40% rispetto all'anno precedente. Un successo, dicono i soci, determinato dal livello di qualificazione raggiunto nelle tecnologie e-learning per i diversi settori della formazione. Il Consorzio fornisce attualmente i propri servizi alle Università dell'Isola, alla presidenza del Consiglio dei Ministri, al Ministero dell'Interno, alla Regione sarda, alle Province e a diversi enti pubblici e privati. UnitelSardegna lavora per favorire l'evoluzione della formazione verso modelli blended , caratterizzati dalla contemporanea presenza di attività frontali e approcci mediati dagli strumenti informatici, secondo i più recenti dettami dell'e-learning. Ma tra le altre iniziative c'è anche un corso di lingua sarda, con discenti sparsi in ogni angolo del pianeta, dall'Argentina al Giappone, e che viene arricchito ogni anno con delle novità. E poi c'è il Progetto Orientamento Unica: un'attività di raccordo tra scuole e atenei, iniziative di potenziamento dell'orientamento universitario e strumenti di accompagnamento e sostegno per gli studenti del primo anno. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 mar. ’13 STIPENDI PUBBLICI, VERSO IL BLOCCO Pronto il decreto che congela gli aumenti fino al 2014. Il governo: «Nulla di deciso». No dei sindacati ROMA «In merito alle misure di blocco delle progressioni e degli scatti degli stipendi della pubblica amministrazione nulla è stato ancora deciso», precisa il ministero dell’Economia. Ma il nodo della estensione al 2014 del blocco degli stipendi per il pubblico impiego (già operativo quest’anno), una possibilità prevista dalle norme di contenimento della spesa pubblica varate dal governo Monti, arriverà comunque sul tavolo del prossimo Consiglio dei Ministri, probabilmente la prossima settimana, come confermano dal ministero della Funzione Pubblica. Sarà in quella sede che verrà detta l’ultima parola, per una decisione impopolare, e di cui va valutata anche l’opportunità in un momento in cui il dossier è in mano ad un governo uscente. Intanto le indiscrezioni sulla possibilità di un imminente varo del provvedimento, circolate già nei giorni scorsi ma da ieri con più insistenza, hanno innescato lo scontro con i sindacati. Per la leader della Funzione Pubblica della Cgil, Rossana Dettori, sarebbe «davvero inopportuno un decreto approvato dal Governo Monti, una forzatura ai danni dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni. Non credo - dice - che l’esecutivo uscente possa permettersi di prendere scelte politiche così importanti proprio in questi giorni», non «fin quando il quadro politico non sarà più chiaro». «Il ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi - chiede la sindacalista - dovrebbe smentire le voci che annunciano un decreto come imminente». Non è così, da Palazzo Vidoni arriva informalmente la conferma che «il nodo», non un provvedimento già definito, arriverà presto sul tavolo dell’esecutivo. «Un Governo al termine del suo mandato, e bocciato sonoramente dal voto popolare, non può continuare a colpire le condizioni di lavoro in tutti i comparti pubblici», avverte il segretario generale Flc-Cgil, che rappresenta anche i lavoratori della scuola, Mimmo Pantaleo: «Si pone una questione democratica - dice - perchè un atto di tale rilevanza per le condizioni dei lavoratori dovrebbe essere discusso con le organizzazioni sindacali e attraverso una piena assunzione di responsabilità da parte del Parlamento». «Un’altra proroga al blocco dei contratti pubblici sarebbe inaccettabile», aggiungono i segretari generali Funzione pubblica e Scuola della Cisl, Giovanni Faverin e Francesco Scrima: sarebbe, dicono, «un atto sbagliato che colpirebbe il bersaglio sbagliato». _____________________________________________________ Corriere della Sera 1 mar. ’13 SE LA RETE RENDE INUTILI I NONNI I ragazzi e i consigli cercati online di EDOARDO SEGANTINI L'esperto: «Per parlare ai giovani imparino il loro alfabeto» In principio erano il nonno e la nonna. Punti di riferimento pratici e fonti di saggezza a cui attingere informazioni e consigli, dalle faccende domestiche alla visione del mondo. Poi è arrivata Internet. E oggi i nipotini «tecno», nativi digitali, preferiscono cercarsi da soli le risposte su quell'incredibile enciclopedia universale che è la Rete. Risultato: se un tempo il ruolo dell'anziano era centrale, oggi la dritta giusta arriva da Google, da Wikipedia, da YouTube, fonti istantanee, lontane e privilegiate. Il trend — evidenziato nel 2012 da una ricerca dell'authority britannica Ofcom, che spiegava come la metà dei bambini di 3-4 anni sia già «tecnologicamente istruita» — viene confermato da un'indagine, riportata dalTelegraph, secondo la quale solo un anziano su quattro, in Inghilterra, oggi si sente rivolgere dai nipoti domande su argomenti di carattere domestico (come si attacca un bottone, si cucina l'arrosto, si cuoce un uovo) rispetto a quanto faceva il 96% degli attuali nonni con i membri anziani della famiglia. Insomma: un motore di ricerca sostituirà i genitori di papà e mamma? «È un problema reale, molto serio e fino ad oggi sottovalutato — commenta Anna Rezzara, docente di Pedagogia all'Università di Milano-Bicocca —: i ragazzi tendono a padroneggiare completamente un alfabeto che non solo gli anziani, ma spesso neppure i genitori e la scuola sanno usare in modo evoluto. È vero, non si può ridurre tutto a tecnica, computer e smartphone: ma se non parli quella lingua non puoi dialogare con loro. Il rischio è che si ribalti definitivamente l'asimmetria sulla quale si basa la relazione educativa: un anziano che insegna, un giovane che impara». Di più. L'ignoranza del nuovo alfabeto può aggravare quella sorta di cortocircuito, di autentica «emergenza» educativa per effetto della quale la famiglia delega il proprio ruolo alla scuola, una scuola che non lo accetta. Con Anna Rezzara concorda in parte Enzo Del Prete, esperto di informatica e padre di un bambino di 9 anni con una spiccata predisposizione alla tecnologia. «Se non imparano questo alfabeto — dice — i nonni rischiano di essere relegati a ruoli di manovalanza, autisti e accompagnatori ai vari appuntamenti dei bambini, che hanno talvolta agende da top manager. Ma il rischio più grande è quello di perdere credibilità agli occhi dei nipoti, che pure continuano a riconoscere loro la nobile funzione di raccontatori di storie, di cui i bambini sono avidi, e in cui per ora gli anziani sono insostituibili». La tecnica non è tutto ma conta: i nonni per esempio devono sapere che l'acquisto delle figurine dei Pokemon è solo un primo passaggio «fisico», ma il vero piacere del gioco consiste nel guardare su YouTube gli altri bambini (di tutto il mondo) che aprono con gli occhi sgranati le preziose bustine e, nei casi fortunati, condividono in Rete la gioia sublime di aver pescato la figurina rara. Sono dettagli però fondamentali. Particelle elementari di una nuova grammatica. Per questo Anna Oliverio Ferraris, psicologa dello sviluppo, ritiene che la cosa più importante da fare sia quella di «stare accanto ai propri nipoti: quando guardano la tivù, quando navigano su Internet e, sperabilmente, quando giocano a qualcosa di più fisico. In modo da trasmettere e ricevere. Insegnare e imparare. Che poi è l'essenza del dialogo». È, in altre parole, il «progressivo avvicinamento generazionale» di cui parla Silvia Vegetti Finzi, psicologa e saggista, nel suo bellissimo libro Nuovi nonni per nuovi nipoti, dove spiega che «la "nonnità" svolge una funzione essenziale, ma proprio per questo è sottoposta più che in passato a un carico di aspettative, richieste e pressioni che non è riducibile alla sola competizione con la tecnologia». Se vogliono restare centrali, i nonni devono darsi molto, molto da fare. SegantiniE _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 mar. ’13 L'UFFICIO È MOBILE E SULLA NUVOLA Microsoft Office 365 e Google App sono i principali concorrenti in campo. Le suite di produttività gratuite stanno migliorando ma sono senza cloud di Alessandro Longo Microsoft ha lanciato questa settimana nuovi pacchetti e funzioni Office 365 per le aziende, in un clima di crescente competizione con Google. E in un mercato dove le alternative si stanno moltiplicando in fretta, visto che trovano propri spazi anche nuovi attori "open" come LibreOffice. Ciascun prodotto ha, in realtà, proprie caratteristiche e soddisfa certi tipi di aziende più di altri. Con l'ultima mossa, Microsoft conferma la propria strategia cloud, caratterizzata dall'essere complementare a quella software tradizionale (su desktop). Il nuovo pacchetto Office 365 per le aziende piccole-medie (fino a 25 utenti), Small Business Premium include infatti anche le versioni desktop di Word, Excel, Powerpoint, Outlook, OneNote, Access, Publisher e Lync (fino a cinque dispositivi), a 124,80 euro per utente all'anno. È una delle principali differenze con il precedente pacchetto Small Business (49,20 euro l'anno), rispetto al quale in più include inoltre l'accesso mobile app su smartphone e tablet. Tra le novità lanciate questa settimana, per Office 365, ci sono anche le versioni aggiornate di strumenti social come SharePoint e Yammer, e di Lync-Skype per la messaggistica istantanea e le chiamate. «Microsoft Office 365 e Google Apps sono di gran lunga i principali concorrenti sugli strumenti cloud business per la produttività», dice TJ Keitt, analista di Forrester. «Ma vediamo che adottano Office 365 soprattutto le aziende che vogliono aggiungere nuovi modi di lavorare, cloud e mobili, a quelli tradizionali. Google invece è adottato perlopiù da chi preferisce qualcosa davvero di diverso, portando il lavoro tutto sul web», aggiunge. Office 365 ha infatti una profonda integrazione con gli strumenti desktop (il Crm ed mail, per esempio). «Consente su cloud di dedicare alcune risorse a specifici utenti, mentre Google lavora sempre in ambiente condivisi», continua Keitt. «Molti clienti Google Apps si lamentano per le limitate funzioni di sicurezza e le scarse informazioni sulla roadmap degli aggiornamenti. Ha fatto passi avanti nel supporto tecnico, che in passato era carente», aggiunge Matthew Cain, analista di Gartner. Di contro, «le Google Apps sono preferite per il prezzo, la semplicità e il cambio di passo che offrono», continua Cain. I prezzi stanno tendendo a convergere, tuttavia: le Google Apps for Business costano 40 euro all'anno e si passa a 8 euro al mese (per utente) per avere in più funzioni avanzate di sicurezza come l'archiviazione dei dati aziendali di importanza critica. Google è partita molto prima di Microsoft sul cloud, però, e quindi ha un ecosistema più robusto. Gli utenti Google Apps possono condividere informazioni tra servizi disparati di terze parti. «Microsoft è all'inizio di questo cammino», dice Keitt. Le funzioni base sono più o meno le stesse: documenti, posta elettronica, chat video, calendario, spazio storage online. Ad alcune aziende possono bastare i documenti e allora è interessante la crescente popolarità di LibreOffice, gratuito, indipendente da qualunque azienda e gestito da The Document Foundation. Buona parte della comunità che sosteneva OpenOffice si sta spostando su LibreOffice, che quindi si sta giovando di aggiornamenti più frequenti. Stanno passando a LibreOffice molte Pa (ministeri francesi, la Provincia di Cremona e molti comuni) e stanno migrandovi Regione Umbria, Provincia di Milano e Provincia di Bolzano. Certo, bisogna rinunciare al cloud, a servizi diversi dai documenti e, anche per questi, ad alcune (poche) funzioni avanzate presenti solo in Microsoft Office. Il vantaggio è che di LibreOffice e OpenOffice si paga solo il supporto dedicato. «Circa 50-75 euro all'anno a utente, per una piccola azienda», dice Roberto Vignoli, consigliere di amministrazione di The Document Foundation. «E poiché sono sistemi aperti, l'azienda può ottenere anche che la community ne corregga bug, su richiesta. Per i prodotti proprietari, invece, bisogna attendere la patch ufficiale». LibreOffice e OpenOffice non hanno strumenti ad hoc per il business, ma non è detto che servano. «Secondo una nostra ricerca, l'81% delle Pmi (10-249 addetti) utilizza strumenti consumer per la produttività individuale, come il 56% delle grandi aziende (250-999 addetti) e il 31% di quelle grandissime (oltre 1.000)», spiega Alessandro Piva, della School of Management- Politecnico di Milano. le offerte Microsoft Office 365 Il pacchetto Office di Microsoft in cloud è ora in diverse versioni per il business. Per piccole aziende a 49,20 e 124,80 euro l'anno per utente. Pro: ideale per chi vuole restare con i prodotti Office a cui è già abituato e vuole aggiungervi un accesso cloud e mobile. Completo di funzioni per il business e attento alla sicurezza. Contro: un po' più caro di Google Apps. Non davvero web centrico. Libre Office La nuova alternativa a Microsoft Office. Discende da Open Office. È gratuita, open source. Pro: gratuito (eccetto il supporto individuale dedicato), indipendente, supportato da una community mondiale in rapida crescita. Alta frequenza di aggiornamenti. Contro: non ha funzioni cloud ma ha in programma di svilupparle. Non ha servizi di comunicazione. Alternativa ancora poco nota. Open Office È gratuita, open source, e ha software per database, fogli elettronici, grafica vettoriali, presentazioni, videoscrittura, formule matematiche. Pro: gratuito (eccetto il supporto individuale dedicato). Contro: non ha funzioni cloud né ha in programma di svilupparle. Non ha servizi di comunicazione. Manca di alcune funzioni evolute. Google Apps Il principale concorrente di Microsoft Office e anche il più noto prodotto per la produttività su cloud. A 40 o 96 euro l'anno per utente. Pro: quasi tutte le funzioni del rivale diretto (Office), ma a un prezzo più basso. Prova gratuita. Forte ecosistema di terze parti. Contro: vive solo sulla cloud (limitate le funzioni offline). Funzioni di sicurezza non allo stato dell'arte. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 28 Feb. ’13 TUVIXEDDU, IL PM CHIEDE 4 CONDANNE Cagliari, l’ex sovrintendente archeologico accusato di falso e abuso d’ufficio: avrebbe spostato i confini dei vincoli di Mauro Lissia CAGLIARI Il sovrintendente archeologico Vincenzo Santoni li assecondava, spostando in base alle esigenze immobiliari i confini del vincolo destinato a difendere dal cemento l’area storica di Tuvixeddu. Poi i lavori sull’area sepolcrale, stravolti rispetto al progetto originario, le tombe attraversate e in parte coperte da muraglie e piramidi di cemento e pietre. Convinto che attorno alla necropoli punica più importante del mondo si sia giocata una partita truccata, il pm Daniele Caria ha chiesto al tribunale la condanna a due anni di reclusione per l’ex sovrintendente archeologico Vincenzo Santoni accusato di falso e abuso d’ufficio, un anno e mezzo per l’ex archeologa ministeriale Donatella Salvi imputata di falso e per l’ex dirigente dell’edilizia privata comunale Paolo Zoccheddu, che risponde di danneggiamento come l’ingegnere del servizio pianificazione del territorio Giancarlo Manis, per il quale la richiesta è di un anno. Per il pm devono uscire assolti dal processo il costruttore Raimondo Cocco, che ha beneficiato anche della prescrizione per una delle accuse, e il direttore dei lavori Fabio Angius per non aver commesso il fatto. Tre i filoni d’inchiesta che si sono intrecciati sul colle dei Punici, il pm Caria li ha trattati separatamente nelle tre ore e mezzo di una requisitoria magistrale, servendosi di mappe e immagini proiettate su uno schermo sistemato davanti al tribunale, presieduto da Mauro Grandesso. Il palazzo Cocco. Secondo l’accusa il sovrintendente Santoni ha modificato il vincolo sull’area ai piedi di Tuvixeddu, in viale Sant’Avendrace, la sola rimasta salva dall’edificazione, per garantire all’impresa Cocco la costruzione di un palazzo di cinque piani a due passi dalla tomba punica della Spiga e dei Pesci: «Su quella superficie, ceduta dal Comune al privato, c’era un vincolo diretto fin dal 1991 - ha sostenuto il pm - e Santoni l’ha trasformato in indiretto». La conseguenza è stata l’apertura del cantiere, una tomba distrutta e un’altra murata: «Come se la priorità - ha detto Caria - fossero gli interessi del privato rispetto alla conservazione del bene culturale». Sarà l’amministrazione regionale guidata da Renato Soru a sanare il disastro in corso, offrendo al costruttore un’area alternativa dove mettere in piedi il palazzo. Il rustico sotto il colle verrà demolito dal proprietario nel 2008 e la «porta» su Tuvixeddu ritornerà alle condizioni dell’origine. I gabbioni. L’amministrazione comunale condotta da Emilio Floris voleva circoscrivere l’area archeologica di Tuvixeddu per trasformarla in un parco pubblico, ma per l’accusa il progetto esecutivo «è stato stravolto». Al posto di strutture leggere, in legno e vegetali, per una scelta che l’accusa attribuisce al dirigente Paolo Zoccheddu e al tecnico Giancarlo Manis il Comune ha costruito 398 metri di enormi gabbioni-fioriera, che sarebbero stati 894 se i forestali del commissario Fabrizio Madeddu non fossero intervenuti e la Procura non avesse messo il cantiere sotto sequestro. «La gran parte delle opere - ha spiegato il pm - non era presente nel progetto e questi gabbioni impressionanti, inamovibili, non seguono il perimetro dell’area archeologica, ma sono stati sistemati a casaccio. Ne risulta anche uno extra, che nel progetto non esisteva. Così come le piramidi: non erano previste. Non c’è alcun legame tra queste strutture e la futura fruizione del parco, anche in questo caso le ragioni dell’edilizia prevalgono su quelle del bene culturale». E Santoni? «In questo caso non c’è prova che sapesse, è stata la Salvi - ha affermato il magistrato - a consentire l’esecuzione di lavori difformi dal progetto approvato». La commissione. Quando la giunta Soru nomina una commissione per il paesaggio e annuncia il vincolo per notevole interesse pubblico per fermare il piano immobiliare di Nuova Iniziative Coimpresa del gruppo Cualbu, il sovrintendente Santoni viene chiamato a farne parte ed è il solo a opporsi all’imposizione dei nuovi livelli di tutela della necropoli. Santoni - ha spiegato Caria - nega che dal 2000, quand’erano stati firmati gli accordi di programma per il piano Coimpresa, si fossero registrati nuovi ritrovamenti di tombe fuori dai confini del vincolo: «Invece sono stati più di mille – ha sostenuto il pm - sia nel vincolo diretto che all’esterno». Santoni non lo sapeva? «Lo sapeva e lo sapeva bene anche la Salvi» ha detto Caria, mostrando sullo schermo immagini e testi di uno studio elaborato dalla sovrintendenza tra il 2003 e il 2006 insieme agli studenti del liceo Siotto: compare la Salvi che mostra ai ragazzi tombe puniche «scavate nel 2004 – ha insistito Caria - ampiamente censite, con tanto di corredi funebri, in un’area priva di vincolo». Quindi le «nuove» tombe c’erano e dichiararlo era fondamentale per giustificare il nuovo vincolo che la giunta Soru voleva imporre, una tutela rigorosa e vasta della quale ad aprile del 2011 il Consiglio di Stato ha confermato definitivamente la legittimità. Ma perché Santoni era così «omertoso e ostile» all’imposizione del nuovo vincolo, lui che faceva il sovrintendente archeologico? «Perché la figlia ingegnere aveva firmato un progetto per tre palazzi per conto di Coimpresa – ha spiegato il pm - e per quello Santoni doveva obbligatoriamente astenersi dai lavori della commissione, ma non l’ha fatto». Qui, per il pm, starebbe l’abuso d’ufficio. Il 13 marzo parleranno i difensori, poi la sentenza. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 25 Feb. ’13 ECCO MAURITIA, UN CONTINENTE SOTTO L'OCEANO Si chiama Mauritia ed è un continente “perduto” scoperto in fondo all'Oceano Indiano. Si trova sotto le isole Reunion e Mauritius ed è stato “rintracciato” da un gruppo di ricerca internazionale coordinato dal norvegese Trond Torsvik, dell'università di Oslo, che lo descrive sulla rivista specializzata “Nature Geoscience”. Si tratta - spiega lo studioso - di un micro-continente nascosto sotto enormi masse di lava e sarebbe un frammento che si è staccato dalle placche continentali del Madagascar e dell'India quando è avvenuta la separazione circa sessanta milioni di anni fa. Questi micro-continenti sepolti negli oceani, secondo gli esperti, potrebbero essere più numerosi di quanto si immagini. Il frammento si sarebbe staccato a causa dei pennacchi di magma attualmente situati al di sotto delle isole Marion e Reunion, che con la loro attività hanno fatto nascere il bacino che ospita l'Oceano Indiano. I pennacchi sono gigantesche bolle di roccia fusa, ossia magma, che salgono dal mantello in profondità e ammorbidiscono le placche tettoniche dal basso, fino a quando le placche si rompono. La zona di rottura si trova appunto ai limiti delle masse continentali del Madagascar e dell'India. Un altro frammento, ma emerso, che si è staccato durante la separazione di queste due masse, è costituito dalle isole Seychelles. I ricercatori hanno scoperto il micro-continente Mauritia analizzando la composizione della sabbia della spiaggia dell'isola di Mauritius nel versante occidentale dell'Oceano Indiano. Fra questi grani sono stati scoperti piccolissimi zirconi, pietre semi-preziose che - sempre secondo gli autori della ricerca - sono da considerare piccolissime “briciole” del continente perduto perché si sono formate nei processi geologici della crosta continentale sepolta sotto strati di lava. I minuscoli zirconi sarebbero stati trasportati quindi alla superficie dall'attività vulcanica più recente, quando il magma ha premuto sotto la crosta continentale. Questi dati sono stati integrati dagli scienziati con un modello della tettonica a zolle, che spiega esattamente come e dove i frammenti sono finiti nell'Oceano Indiano, durante la separazione di Madagascar e India. «Da un lato, il modello mostra la posizione delle placche rispetto ai due punti caldi al momento della rottura», osserva Bernhard Steinberger, del Centro di ricerca tedesco per le geoscienze. «D'altra parte - aggiunge lo studioso - siamo stati in grado di dimostrare che i frammenti del continente hanno continuato a vagare quasi esattamente sopra il pennacchio di Reunion, e questo spiega perché successivamente sono stati coperti dalla roccia vulcanica». _____________________________________________________ Il Corriere della Sera 3 mar. ’13 LA FRENATA DELLA GLOBALIZZAZIONE Consumi, delocalizzazioni, banche Così sono stati riedificati i confini di DANILO TAINO Che la Storia non fosse finita lo abbiamo saputo l'11 settembre 2001. Ora possiamo anche dire che nemmeno la Geografia è finita. Che il mondo non è «piatto» come sosteneva Thomas Friedman del «New York Times». Non solo i confini ci sono ancora: con la Grande Crisi sono diventati più difficili da valicare. La globalizzazione sta tornando indietro. Si è fermata nel 2007 e da allora ha iniziato una marcia a ritroso, non per le proteste dei sindacati, non per le manifestazioni No Global, non per il buon sapore del chilometro zero. Perché il vento che le gonfiava le vele ha cambiato direzione: nella finanza, nei commerci, nelle scelte delle aziende, ma anche nelle istituzioni, nella politica e, soprattutto, nelle idee che danno forma al mondo. Per alcuni è un bene. Più probabilmente è un pericolo. Anche la prima globalizzazione si arrestò, e lo stop fu drammatico, cristallizzato nella Grande guerra e in quasi tre decenni di trincee, di morti e di odi nazionalisti. Non che debba finire così anche questa volta: un pianeta più chiuso, però, non promette bene. La nostra Belle Époque è durata un quarto di secolo, forse una trentina d'anni. Anni selvaggi. Belli e spietati. Miliardi di persone sono uscite dall'indigenza: le Nazioni Unite dicono che nel 2015 sotto la linea di povertà ci saranno 920 milioni di persone, la metà che nel 1990, nonostante la popolazione del mondo sia passata dai 5,2 miliardi di allora agli oltre sette di oggi. La democrazia e la libertà hanno preso piede: i Paesi dove si vota sono 117 e l'organizzazione Freedom House calcola che nel 2012 le nazioni ad alto tasso di libertà sono state 90, contro le 44 del 1985. I viaggi si sono decuplicati. Internet ha messo in rete la Terra. La finanza e le banche globali hanno portato capitali in ogni angolo, e ciò ha fatto crescere decine di economie. La Cina, fino al 1978 del tutto chiusa, è diventata la fabbrica del mondo. L'India, nel 1990 ancora un'economia di piano in stile socialista, è il Paese emergente più giovane e con il futuro più brillante, se saprà affrontare le sue immense contraddizioni. E via così, in decine di luoghi, con il pianeta delle meraviglie. Che naturalmente aveva anche una faccia oscura. In Occidente in quel quarto di secolo molte fabbriche hanno chiuso perché spostate dove il lavoro costa meno. Gli sweatshop del Terzo Mondo, popolati da donne e bambini sfruttati, si sono moltiplicati: anche la vergogna è diventata un fenomeno globale. Persino le malattie — ricordate la Sars? — prendevano l'aereo per spostarsi da un continente all'altro. La cultura era solo americana, uguale ovunque, senza sfumature. «Nonostante diverse culture, la gioventù della classe media di tutto il mondo sembra passare la propria vita come se fosse in un universo parallelo, scriveva nel 1999 Naomi Klein nel suo bestseller No Logo. Si svegliano al mattino, indossano i Levi's e le Nike, afferrano i loro cappellini e i loro zaini e il Sony personal Cd e se ne vanno a scuola». Nonostante Apple abbia dato altro pane di riflessione alla signora Klein e l'iPhone sia diventato l'oggetto di maggiore concupiscenza di massa del secolo, con la Grande Crisi questo mondo con tante luci e parecchie ombre si è fermato. Prima là dove la catastrofe è scoppiata, poi via via quasi ovunque. Dopo il crollo della Lehman Brothers nell'autunno del 2008, gli Stati sono intervenuti per salvare e spesso nazionalizzare le banche, hanno imposto nuove regole alla loro espansione, hanno spinto, soprattutto in Europa, per limitare le attività degli istituti di credito dentro i confini domestici. Il risultato è che il modello di banche con una spinta globale è tramontato. Alla fine del 2011, i prestiti non nazionali delle banche sono crollati di 799 miliardi di dollari, 584 dei quali per la ritirata in casa di quelle europee. E la tendenza è continuata nel 2012. Il Fondo monetario internazionale ha calcolato che entro la fine di quest'anno gli istituti di credito della Ue potrebbero ridurre le loro attività di 2.600 miliardi di dollari (il 7 per cento del totale) e che un quarto di questa cifra potrebbe venire dal taglio dei prestiti fatti fuori dai confini di casa, in aggiunta alla vendita di titoli internazionali. In parallelo, i due grandi collanti «fisici» della globalizzazione si sono fermati. Il commercio internazionale — che nei decenni passati cresceva a ritmi impressionanti, spesso sopra al 10 per cento l'anno, e trascinava la crescita del mondo — ha rallentato dopo una certa ripresa nel 2010. L'anno scorso l'Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) ha rivisto per due volte al ribasso le sue previsioni per il 2012: gli scambi mondiali non dovrebbero essere cresciuti più del 2-2,5 per cento; e il Cpb World Trade Monitor ha calcolato che nel dicembre scorso sono addirittura diminuiti, dello 0,5 per cento rispetto a novembre. L'altro grande fenomeno dei decenni passati, il decentramento produttivo, non solo si è fermato, ma molte imprese americane e europee stanno riportando a casa le produzioni che avevano esportato nei Paesi emergenti. Un po' perché si sono accorte che non sempre l'outsourcing è stato redditizio, un po' perché i salari in Cina sono molto cresciuti e non sono più attraenti come quando l'onda dell'offshoring — dello spedire fabbriche e posti di lavoro nel Terzo Mondo — era il vangelo dei grandi manager, soprattutto americani, ma anche europei. Questo ritiro nazionale ha provocato la rottura della cosiddetta catena globale delle forniture, cioè di quella rete di aziende produttrici di beni intermedi che nei decenni scorsi aveva consentito il decollo di intere economie dei Paesi poveri. La società di trasporti Dhl, che ogni anno produce un indice della connettività globale, ha calcolato che nel 2012 «il mondo è meno integrato che nel 2007»: i mercati dei capitali si sono frammentati; il commercio dei servizi è stagnante; la «connettività globale è anche più debole di quanto sia comunemente percepito»; «la distanza e i confini contano ancora», con le connessioni online che sono per lo più domestiche. Lo studio della Dhl sostiene che «i guadagni potenziali derivanti dall'incremento della connettività globale possono raggiungere miliardi di dollari»: ciò nonostante, l'opportunità non viene sfruttata. L'indice di gradimento dei governi per la globalizzazione non è mai stato elevato, dal momento che essa erode il loro potere, rimasto nazionale. Nei tempi più recenti, spinti anche in questo caso dal dover fare qualcosa per affrontare la recessione, hanno accentuato la loro refrattarietà all'apertura e in più di un caso hanno imboccato strade protezioniste, per quanto camuffate. L'ultimo G7, due settimane fa, ha dovuto riunirsi per discutere di possibili guerre valutarie, intese come mezzi per abbassare il valore di una moneta allo scopo di favorire le esportazioni. Mercantilismo valutario, con germi da anni Trenta, insomma. I dibattiti sull'opportunità di reintrodurre vincoli ai movimenti di capitale in situazioni di crisi, d'altra parte, hanno riguadagnato quota anche nel dibattito accademico. Per riassumere le tendenze in corso nella finanza, ma non solo, l'economista britannico Howard Davies sostiene che il 2013 sarà un anno «decisivo per la deglobalization». In questa cornice, persino la democrazia arretra, come raccontano le strade repressive prese dalle rivoluzioni arabe: Freedom House calcola che nel 2012, per il settimo anno consecutivo, il numero di Paesi in cui l'indice della libertà è peggiorato supera il numero di quelli in cui è migliorato. Non sorprende che, con queste tendenze così accentuate, anche sul piano delle idee l'internazionalismo non sia in forma. Le Nazioni Unite non solo deludono di fronte al massacro della Siria: non ispirano più e, anzi, la superburocrazia del Palazzo di Vetro deprime l'antica e nobile idea di governo mondiale. Dopo la crisi del debito, l'Unione Europea è vista, nel mondo, meno come modello di superamento delle frontiere e sempre più come aggregazione litigiosa e incapace di decidere. Il G7 si è ridotto a un ruolo marginale, ma anche il G20, che l'ha sostituito nel 2009, ha presto perso la sua capacità di dare risposte ai problemi del mondo. Persino la questione più globale che si dovrebbe affrontare, il cambiamento del clima, si trascina da vertice inutile a vertice inutile, segno dell'incapacità del mondo di accordarsi anche di fronte alle sfide più importanti. La Wto — simbolo della globalizzazione nell'immaginario No Global fin dagli anni Novanta — da oltre dieci anni non riesce a portare a termine il Doha Round, la trattativa per liberalizzare ulteriormente il commercio mondiale che darebbe una spinta rilevante all'economia del mondo, a costo zero. L'idea stessa di multilateralismo — cioè di accordi generali aperti a tutti i Paesi su basi paritarie, pilastro della ripresa post-bellica — è in ritirata: la proposta di Obama, accettata con entusiasmo da molti leader europei, di aprire i negoziati per una zona transatlantica di libero scambio si muove in una logica bilaterale, tra Stati Uniti ed Europa, e rischia di provocare irritazioni e reazioni in altri Paesi, Cina in testa ma non solo. L'anno scorso, l'analista geopolitico Robert Kaplan ha pubblicato un libro — The Revenge of Geography («La rivincita della geografia»), Random House — nel quale sosteneva la necessità di tornare a studiare i confini naturali, la loro influenza sulle culture e sulle politiche, le risorse del sottosuolo per capire le grandi scelte delle nazioni: mappe più rivelatrici delle dichiarazioni politiche, dei documenti top secret, delle ideologie — a suo parere. Perché — sosteneva citando Paul Bracken di Yale — la dimensione finita della Terra è una forza di instabilità. La globalizzazione, in altri termini, ha un limite nella tendenza espansiva delle nazioni, soprattutto degli imperi vecchi e nuovi: quando si raggiunge il punto in cui non è più possibile andare oltre con un grado di armonia che soddisfi tutti, perché la Terra è in qualche modo finita, si ritorna sui passi compiuti, riprendono i vecchi meccanismi che si possono sfogare solo sulla faccia del nostro pianeta. Non siamo già arrivati al momento in cui la Terra è finita e non si può andare oltre. Sembra però sempre più difficile, nella Grande Crisi, mantenere quel livello di armonia e di apertura nel quale tutti hanno dei vantaggi, come negli anni d'oro della globalizzazione: l'ombra della somma zero — quel che guadagni tu lo perdo io — comincia a fare paura. Così, la vecchia, polverosa Geografia torna a misurare confini e distanze del nostro piccolo mondo. @danilotaino ========================================================= _____________________________________________________ Il Corriere della Sera 3 mar. ’13 GIOVANI DOTTORI CRESCONO (BENE) di PASQUALE SPINELLI La Facoltà di Medicina dell'Università e l'Ordine dei Medici di Padova, hanno svolto un'indagine tra gli studenti di medicina sui valori della professione. Ne è nato uno studio di grande interesse, che sarà pubblicato sul prossimo numero dell'autorevole North American Journal of Medical Sciences e citato dalla banca dati Pubmed. L'indagine fotografa caratteristiche e aspettative iniziali di 423 studenti (254 donne), 200 del primo anno, 101 del quarto, 102 del quinto. I punti principali riguardano non solo senso del dovere e di responsabilità, competenza e disponibilità all'aggiornamento, comuni peraltro anche alle altre professioni, ma anche aspetti propri della medicina, quali sensibilità, rapporto di fiducia, empatia, utili nel relazionarsi «con la sfera più personale del paziente», a creare con lui un rapporto di fiducia, a saperne custodire le informazioni più riservate. Le studentesse mostrano una maggiore conoscenza dei valori elencati nei test. Gli studenti del quarto e quinto anno sono attenti alle varie sfaccettature del rapporto col malato, con cui chiedono un contatto diretto, forse perché lo vedono più imminente di quanto non sia per le matricole. Tutti sono concordi nel considerare estremamente basso l'impegno dell'università sui punti testati, cui attribuiscono fondamentale importanza. Dall'indagine emerge un modello di medico focalizzato sul paziente, con cui — oltre a curare la malattia — bisogna sapersi relazionare per condividere i problemi che lo stato di malato determina sulla integrità della persona. L'indagine padovana riporta alla luce valori che i giovani della generazione digitale si temeva potessero aver perso e compone un quadro nuovo in cui ragazzi che scelgono di fare i medici chiedono a chi ne ha la responsabilità di esser ben preparati; hanno fiducia che un sistema sanitario efficiente abbia bisogno di loro e debba imparare a premiare il merito, anche con le giuste remunerazioni. In fondo, il futuro della nostra salute passa attraverso la loro professionalità. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 2 mar. ’13 CITTADELLA, MAXI ROTATORIA Snellirà il traffico delle auto, lunedì via ai lavori Tre anni dopo l'inaugurazione del ponte strallato, la Provincia conclude il progetto di messa in sicurezza della statale 554 con la realizzazione di una maxi rotatoria all'altezza della Cittadella universitaria. IL PROGETTO Lunedì inizieranno i lavori per la costruzione della rotatoria che smisterà il traffico in entrata e in uscita per l'Università e il Policlinico. Circa 500 mila euro (fondi regionali) saranno usati per sostituire l'incrocio a raso che smista i veicoli provenienti da Monserrato, Sestu e il Polo universitario. Un anello di 40 metri di diametro, fondamentale per eliminare le lunghe code di auto che ogni giorno bloccano il traffico di fonte all'Università e quindi sul resto della statale. I LAVORI «Dopo aver fatto il Ponte, adesso risolviamo uno dei problemi nati subito dopo», spiega Paolo Mureddu, assessore provinciale ai Lavori pubblici. «In attesa che la Regione crei finalmente i famosi svincoli e le strade complanari, promesse con l'accordo di programma del 2008 per l'avvio dei lavori del Ponte, noi completiamo i lavori di nostra competenza». Ogni giorno, nella fascia oraria che va dalle 7 alle 9 del mattino, sul ponte «passano circa 6mila veicoli», rivela Mureddu. «Mezzi pubblici e veicoli privati che, in grande maggioranza, sono diretti al Polo universitario». Risultato: una lunga coda di stop intasa la strada per Sestu che ospita lo svincolo per l'Università. «Prima dell'estate, la nuova rotatoria, unita al ponte, alleggerirà il traffico di tutta la zona», dice Mureddu. Perché se per entrare alla Cittadella dalla statale c'è un incrocio facilmente accessibile, il problema si crea per chi deve uscire dall'Università in direzione di Cagliari o per chi, arrivando da Sestu deve entrare al polo universitario. «A breve tutte le cliniche specialistiche e gli ospedali di Cagliari saranno spostati al Policlinico e quel centro dovrà essere pronto ad accogliere pazienti, medici e personale ospedaliero che si uniranno alla popolazione universitaria. La rotatoria è fondamentale per alleggerire la statale». IL FUTURO Mureddu lancia un appello alla Regione e a tutti gli enti coinvolti nel completamento del progetto per la messa in sicurezza della 554: «A fine mese sarà aperta la galleria di Terra Mala e questo significa che tutto il traffico del Sarrabus e dei Comuni che non hanno alternative alla 554, si riverseranno sulla statale». Per questo «bisogna accelerare i tempi di progettazione e cantieramento». IL CANTIERE Lunedì aprirà il cantiere per la rotatoria. Il traffico non sarà deviato grazie a una rotatoria amovibile che consentirà un fluire soprattutto dei bus che entrano alla Cittadella: 178 in entrata e in uscita al giorno. A partire dalla seconda settimana di marzo il disagio dei lavori e i rallentamenti del traffico non potranno essere evitati. Serena Sequi _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 27 Feb. ’13 AOUCA: SCARAFAGGI TROVATI IN MEDICINA DUE. Il manager Filigheddu: «Subito attivato il Crai, pazienti al sicuro» Malati, personale medico e paramedico e, dulcis in fundo, le blatte. Scenario da film griffato Hitchcock? No, sono soltanto scene di quotidianità vissute nel San Giovanni di Dio, struttura ospedaliera che da tempo immemore dà prova di essere sempre più inadatta a ospitare degenti. Il caso in questione è solo l’ultimo di una lunga serie di invasioni degli scarafaggi alati, ormai specie tipica del capoluogo. Anche perché l’Ospedale Civile, attivo da oltre centocinquanta anni, ha una struttura architettonica che si presta particolarmente alla loro presenza: cunicoli e corridoi umidi, dove gli insetti proliferano in tutti i periodi dell’anno, che ci sia l’afa o il gelo. Appena possono, poi, escono allo scoperto, gettando nel panico chi lavora o, peggio, è ricoverato nei vari reparti. Luogo dell’ultimo ritrovamento è stato il reparto di Medicina interna II: «La direzione sanitaria ha immediatamente provveduto a risolvere la situazione e ha chiamato il Crai (Centro Regionale Anti Insetti, ndr)», spiega il direttore generale dell’Azienda mista Ennio Filigheddu, che puntualizza inoltre come «i pazienti siano stati tutelati nei modi opportuni». L’intervento, per quanto immediato, ha comunque comportato la suddivisione dei malati ricoverati in Medicina II, invasa dalle blatte, negli altri reparti dell’ospedale: una situazione di sicuro poco piacevole sia per i degenti che per i dipendenti. L’ennesima invasione di scarafaggi è soltanto l’ultima testimonianza di come il San Giovanni di Dio sia una struttura non più al passo con i tempi. Già a rischio chiusura dopo il decreto Milleproroghe del Governo Monti, l’ospedale progettato a metà Ottocento dall’architetto Gaetano Cima avrebbe bisogno di drastiche ristrutturazioni per poter essere a norma. Non a caso, infatti, alcune strutture hanno cominciato a “migrare ” verso il Policlinico universitario di Monserrato, operativo dal 1999: la Clinica chirurgica diretta dal professor Uccheddu già lo ha fatto, mentre altre sono in predicato. Eppure, nonostante la presenza di blatte e altri problemi, l’ospedale “dei cagliaritani” - come viene definito per la sua centralità, oltre che per la sua ultracentenaria storia - continua a lavorare a pieno regime. Nel marzo scorso, circa dodici mesi fa, anche l’assessore regionale alla Sanità Simona De Francisci aveva confermato l’inadeguatezza dell’Ospedale Civile, la cui struttura architettonica sarebbe inconciliabile con le esigenze di una moderna assistenza sanitaria, augurandosi un pronto trasferimento dei primi reparti già nell’autunno 2012. Lo stesso periodo in cui la rottura di un tubo di scarico aveva allagato la sala pre-operatoria, obbligando al trasferimento l’attività operatoria della patologia chirurgica. A quando il canto del cigno? Francesco Aresu _____________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Feb. ’13 FIOCCANO LE QUERELE, NON SPARATE SUI MEDICI Fra tribunali e assicurazioni esose si diffonde la medicina difensiva Ginecologi sul piede di guerra. Uno sciopero eccezionale quello organizzato il 12 febbraio scorso dalle associazioni dei medici, che ha portato al blocco delle sale operatorie e al rinvio di un migliaio di parti (una quarantina in Sardegna). Protesta estrema contro i tagli della spending review, che impoveriscono i reparti di personale e attrezzature e abbassano gli standard qualitativi dell'assistenza. «Abbiamo chiesto la solidarietà delle pazienti perché non venga trascurata la messa in sicurezza dei punti nascita, degli ambulatori e delle sale operatorie - spiega Gianni Monni, dell'Aogoi (associazione dei ginecologi italiani) -: la vertenza vuole portare all'attenzione dell'opinione pubblica soprattutto il problema del contenzioso medico-paziente». COSTI La contestazione, sempre più frequente, in sede giudiziaria, di presunti errori dei camici bianchi ha generato un fenomeno, la cosiddetta medicina difensiva, volta a evitare conseguenze penali e civili. Un atteggiamento che, a volte, altera i modelli di comportamento dei medici nel formulare la diagnosi e prescrivere la terapia. Per evitare il pericolo di una denuncia, si tende infatti a prescrivere un numero esagerato di visite specialistiche, test ed esami clinici e a evitare procedure ed interventi chirurgici a rischio. Con evidenti conseguenze sulla qualità dell'assistenza e sul bilancio della Sanità pubblica. Si calcola che la medicina difensiva venga a costare allo Stato fra i 13 e i 14 miliardi. A fine anno, il decreto Balduzzi è intervenuto sulla materia, depenalizzando i casi di responsabilità per colpa lieve, quando si dimostri che il medico ha agito rispettando le linee guida previste per il trattamento di una patologia, ma obbliga i liberi professionisti ad assicurarsi per la colpa grave. «Intervento positivo sino a un certo punto - precisa Monni - perché non incide sul contenzioso in sede civile e non elimina il calvario mediatico-giudiziario per chi oggi è costretto a stipulare polizze di assicurazione con premi che oscillano fra i 7 e i 15 mila euro all'anno. Per i ginecologi anche 20 mila. A fronte dei 3000 euro al mese che guadagna, in media, un ospedaliero». SCARSA FIDUCIA Medici in trincea, di fronte a un esercito di pazienti a caccia di risarcimenti facili, incoraggiati da avvocati specializzati e associazioni di consumatori. Anche perché, secondo l'Ania (associazione fra le società di assicurazione) nell'80% dei casi riescono a ottenere un risultato positivo. Che gli italiani non abbiano molta fiducia nei medici lo dice Eurobarometer, il servizio della Commissione europea che analizza le tendenze dell'opinione pubblica. Un'indagine del 2008 sostiene che il 55% teme di essere danneggiato da cure ospedaliere e il 51% da extra ospedaliere. Il 63% ha paura di restare vittima di una diagnosi sbagliata, di un errore chirurgico (58%), o di una prescrizione errata (55%). Timori, in buona parte ingiustificati, perché soltanto il 15 % (media UE 25%) ammette poi di aver avuto conseguenze da errori di pratica medica. INDAGINE Eppure, non si attenua la pressione sui medici. In prima fila ginecologi, ortopedici e anestesisti, seguiti da cardiochirurghi, chirurghi generali e cardiologi, i quali, a volte, reagiscono con eccessi di prescrizioni o evitando operazioni a rischio. Lo conferma un'indagine per campione, a livello nazionale, eseguita nel 2008 dal Centro studi Federico Stella sulla giustizia penale e la politica criminale, di Milano, in collaborazione con la Società italiana di Chirurgia. Sono stati distribuiti 1000 questionari, (ma solo il 30% dei destinatari ha accettato di rispondere), ed eseguite 21 interviste a specialisti di varie discipline. Il 78% ha ammesso di aver fatto ricorso alla Medicina difensiva. In particolare, l'82,2 ha inserito nella cartella clinica annotazioni evitabili e il 69,8 ha disposto il ricovero in ospedale di pazienti gestibili in ambulatorio, il 61,3 ha prescritto più esami del necessario; il 58,6 ha fatto ricorso a consulenze inutili. Riguardo ai farmaci, il 51,5% ne ha prescritti anche se non necessari, il 26,2 ha escluso pazienti a rischio da alcuni trattamenti, andando oltre le normali regole di prudenza. Nelle interviste, l'84% ha detto di temere un contenzioso medico legale, il 59,8 % una richiesta di risarcimento, il 51,8 di essere rimasto impressionato da precedenti esperienze giudiziarie. L'ORDINE Più di recente (nel 2010) sono stati diffusi i risultati di una ricerca eseguita dall'Ordine dei medici di Roma su un campione di 2783 professionisti che operano nel pubblico e nel privato, suddivisi per età (fino a 70 anni) ed area geografica, rappresentativi dell'intero Paese. Risultati: il 53% ha ammesso di prescrivere farmaci per motivi di medicina difensiva (pari al 13% di tutte le prescrizioni); il 73% visite specialistiche (21 ); il 71 esami di laboratorio (21); il 75,6 esami strumentali (22,6); il 49,9 ricoveri (11). Lucio Salis _____________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Feb. ’13 DOTTORI: NON C'È PIÙ IL RISPETTO DI UN TEMPO Non sparate sul camice bianco. Ormai è quasi una moda. Nelle redazioni dei giornali è pressoché quotidiana la consegna di un esposto contro un medico accusato di aver fatto fuori il nonno centenario. Gli inglesi la chiamano malpractice, da noi è malasanità. Ci campa su una consorteria di avvocati, associazioni di consumatori e indignati vari. Per carità, gli errori dei medici esistono e vanno puniti. Ma è difficile non cogliere una sensazione di accanimento (non disinteressato) verso una categoria che lavora in condizioni difficili su una materia spesso priva di certezze. E che, per fronteggiare le accuse, ha dovuto inventare una nuova disciplina: la medicina difensiva. Sono lontani i tempi in cui il medico, in visita domiciliare, era venerato come il sacerdote nella benedizione pasquale. (l.s.) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Feb. ’13 Ci vogliono più di quindicimila euro per assicurare un ginecologo TUTTE LE POLIZZE D'ORO Aumentano i sinistri denunciati da medici e strutture sanitarie: il peso dei risarcimenti si scarica sulle società di assicurazione, che aumentano il costo dei premi e disdicono le polizze. Come quelle annullate nel 2011: il 10% da parte delle aziende sanitarie che le consideravano troppo onerose, il 5% dalle società assicuratrici che - fonte Ania - sostengono di perdere in questo settore dal 250 ai 300 milioni all'anno. In pratica, ogni risarcimento verrebbe a costare il 160% del premio incassato. Anche a causa delle lungaggini dei contenziosi giudiziari che, nel giro di 8-10 anni, provocherebbero il raddoppio del risarcimento inizialmente ipotizzato. Alla base della decisione di non rinnovare le polizze anche l'aumento, considerato abnorme, dei sinistri denunciati da Asl, ospedali e medici: 34 mila nel 2010: più che triplicati in circa 15 anni, (9567 nel '94). Sull'altro fronte i medici, sempre più esposti alle denunce dei pazienti. Secondo la Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori in campo sanitario, le richieste di risarcimento per presunto errore medico sono aumentate del 24% negli ultimi 5 anni. Un'autentica esplosione, cui i camici bianchi devono far fronte stipulando polizze sempre più care: da un minimo di 650-1500 euro per i medici di medicina generale, ai 3600-9000 per chirurghi, 3000-10000 per gli anestesisti, 3600 - 10000 per gli ortopedici, sino a 15-20 mila euro per i ginecologi. Con lo sciopero dei giorni scorsi, i medici hanno detto che in questa situazione non possono andare avanti. Nell'ultimo decreto sulla spending review il Governo, oltre a depenalizzare la colpa lieve, ha previsto un Fondo di perequazione per far fronte ai risarcimenti. Ma non basta. Secondo il presidente della commissione, Antonio Palagiano, «per arginare la medicina difensiva bisognerebbe creare i Fondi regionali assicurativi (già presenti in Toscana, Liguria, Friuli e Basilicata) e uniformare in tutta Italia il risarcimento dovuto per danno biologico». (l.s.) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 25 Feb. ’13 «LEUCEMIE, RISCHIO ELEVATO» Gli ambientalisti: subito chiarezza sulle cause dell'allarme sanitario Assemini, Sarroch e Pula sono i centri più esposti Era tutto scritto, raccontato nero su bianco, nel rapporto consegnato nel giugno del 2008 all'allora direttore generale della Asl 8. Il risultato di uno studio dettagliato sull'incidenza dei “linfomi non Hodgkin” nel distretto sanitario di Cagliari ovest (capoluogo escluso) che denunciava una situazione allarmante per le popolazioni residenti a due passi dai poli industriali di Macchiareddu-Sarroch. Erano stati gli anni tra il 1974 e 1993 a finire una prima volta sotto la lente dei ricercatori. E poi ancora quelli tra 1994 e il 2003. Ebbene, quella ricerca, diventata un articolo dal titolo “Lezioni della sindrome di Quirra. Epidemiologia no grazie”, firmato dal professor Pierluigi Cocco, docente di medicina del lavoro all'Università di Cagliari, è apparso su “Epidemiologia & Prevenzione”, rivista ufficiale dell'Associazione italiana di epidemiologia. LA POLEMICA Un intervento che ha fatto ora sobbalzare le associazioni ecologiste Gruppo d'intervento giuridico e Amici della Terra tanto da spingerle a presentare una specifica richiesta di informazioni a carattere ambientale e provvedimenti al ministero della Salute, alla Regione, all'Arpas, ai sindaci di Sarroch, Pula e al commissario straordinario di Assemini. Centri, questi, in cui lo studio mise in evidenza i rischi più elevati sulle leucemie. Otto i casi osservati a Pula, 5 a Sarroch, ben 17 ad Assemini. Altri comuni dello stesso distretto, come Capoterra, Domus de Maria, Elmas, Teulada e Villa San Pietro, fortunatamente non manifestavano alcun eccesso. I PERICOLI «Rischi purtroppo confermati dal rapporto sullo stato di salute delle popolazioni residenti in aree interessate da poli industriali, minerari e militari della Regione Sardegna e dal rapporto Sentieri promosso dal ministero della Salute e dato alle stampe nel 2012», racconta Stefano Deliperi, responsabile del Grig. Gli ambientalisti vogliono insomma conoscere le cause del pericolo in particolare nei tre centri più colpiti dalle leucemie e ancora di più perché persista il silenzio da parte delle amministrazioni pubbliche. E anche per questo che i risultati dell'indagine sono stati inviati alla Procura della Repubblica. «Da anni le amministrazioni pubbliche competenti sono a conoscenza che la popolazione maschile di Pula, Sarroch e Assemini corre un rischio di leucemie quasi triplo rispetto a quanto sarebbe lecito attendersi, eppure - scrive Deliperi - non risultano adottati provvedimenti per limitare il rischio ambientale e sanitario». LE RICHIESTE Furono proprio i comuni di Sarroch, Pula e Villa San Pietro, negli anni Novanta, a chiedere indagini approfondite a causa della segnalazione di un eccesso di leucemie. «Nonostante il rapporto del 2008 abbia confermato e anzi evidenziato l'aumento della patologia, non ne seguì alcuna reazione», sostengono gli ambientalisti. LE REAZIONI Arrivano da Assemini le prime reazioni dopo la pubblicazione dello studio. Così nel blog di Fortza Paris: «Emergono i dati ufficiali sullo stato di salute di Assemini che si posiziona tra i primi posti in Italia per l'altissimo l'indice di tumori e asma. Questo è ciò che rimane di decenni di politiche sbagliate e improduttive, alimentate da una sterile e culturale sudditanza; da una profonda miopia politica e amministrativa. Già lo scorso novembre erano stati resi noti i dati del ministero della Salute e Assemini risultava tra le città più inquinate d'Italia. In questi anni abbiamo ripetutamente richiamato l'attenzione dell'amministrazione comunale per costituire una Commissione». Andrea Piras _____________________________________________________ Il Corriere della Sera 3 mar. ’13 LE MANCATE RIFORME SIGNIFICANO POVERTÀ Il 28,2% degli italiani vicino all’indigenza Peggio di noi sta solo la Grecia Forse è bene ricordarlo, mentre si tratta la questione del prossimo governo: non siamo più in un Paese ricco. Siamo un Paese povero che si sta impoverendo. Tra costi della politica e legge elettorale, questo è probabilmente uno dei punti di partenza per ricostruire quello che si è rotto. L'indicatore sintetico di povertà e esclusione sociale per il 2011 (fonte Eurostat) dice che più di 17 milioni di italiani, il 28,2% del totale, sono a rischio di finire in miseria. È la percentuale più alta registrata dal 2004. Peggio che nella maggior parte dei 27 Paesi europei, dove in media è a rischio il 24,2% della popolazione (120 milioni) e dove, tra i membri di vecchia data (cioè escludendo gli ex Stati del socialismo reale), peggio di noi sta solo la Grecia. Drammatico per una comunità nazionale che ha creduto di aver conquistato il benessere definitivo e oggi scopre di avere in casa un gruppo di cittadini avviato sulla via dell'indigenza in percentuale anche più numeroso di quello delle «povere» Polonia (28%), Spagna (28%), Portogallo (24%), Cipro (23%). L'indicatore — riportato in un bollettino statistico del Dipartimento per lo sviluppo e la coesione sociale pubblicato nei giorni scorsi — considera il numero di persone che sono in almeno una di tre condizioni di rischio: pericolo di povertà dopo i trasferimenti, cioè quelle famiglie con un reddito inferiore al 60% del reddito medio nazionale; grave deprivazione materiale, che considera le persone che hanno difficoltà ad accedere a beni e servizi; famiglie a realtà lavorativa ridotta, cioè coloro di meno di 60 anni che vivono in famiglie i cui membri adulti hanno lavorato, nell'anno precedente, meno del 20% del potenziale. Poco tempo fa, quasi il 30% di italiani sulla strada della povertà (nel senso che per molti versi povere lo sono già) non lo avremmo immaginato. Ci siamo sempre misurati con la Germania, che ha un rischio del 20%; con la Francia, al 19%; con la Gran Bretagna, al 22%; per non dire la Svizzera, al 18%, la Svezia e i Paesi Bassi al 17%. La fotografia diventa orribile quando si passa al Mezzogiorno. Lì, è il 32,6% della popolazione ad avere la probabilità di finire in miseria. Il livello massimo si raggiunge in Sicilia, dove il rischio povertà dopo i trasferimenti arriva al 45%, quasi una persona su due. Seguono la Campania, con il 37%, e poi Calabria, Basilicata e Puglia tutte sopra al 35%. In queste regioni, sono elevati anche i valori dell'indice di bassa intensità di lavoro, tra il 15 e il 20%: molto superiori a quelli delle regioni del Centro-Nord, in genere sotto al 7%. Il 19% dei cittadini del Sud vive anche in condizioni di grave deprivazione materiale. Un Paese che si impoverisce e sembra spaccarsi in due ha bisogno, oltre che di un governo, di una rivoluzione delle politiche fiscali e del lavoro e di un ridisegno dello Stato sociale: palesemente, non funzionano. Se non si cambia, oggi si difende la povertà. @danilotaino _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 mar. ’13 LA SFIDA CINESE SUL DNA Già oggi l'istituto Bgi di Shenzen sequenzia il 20% dei dati mondiali: entro un decennio la lettura costerà meno di 300 dollari Francesca Cerati Arriverà dalla Cina la cura per l'autismo? La domanda, che si fa il Financial Times, fino a una decina di anni fa nessuno se la serebbe posta. Ma le cose cambiano, e il ritardo che la Cina aveva accumulato in fatto di genetica è stato nel frattempo colmato dal Bgi (Beijing genomics institute), il più prolifico istituto al mondo per il sequenziamento del Dna con sede a Shenzen. Arrivando a possedere 156 sequenziatori e il 20% di tutti i dati relativi al Dna prodotti a livello mondiale. Zhang Yong, 33 anni, ricercatore senior di Bgi prevede che entro il prossimo decennio il costo del Dna sarà di soli 200-300 dollari – meno di un iPhone – e che il centro per cui lavora diventerà il leader di "Bio- Google", un motore di ricerca che aiuterà a organizzare tutte le informazioni biologiche a livello globale e renderle universalmente accessibili e fruibili. In effetti, questo istituto pubblico-privato cinese dal 2009 a oggi si è guadagnato una notevole reputazione internazionale sfornando centinaia di peer-reviewed all'anno, e tracciando i genomi di cellule tumorali, piante, insetti, esseri umani, fino al panda gigante. Una bella vetrina resa ancora più attraente dal prestigio che la rivista Nature ha attribuito al 34enne a capo di Bgi, Jun Wang, inserendolo nella top 10 degli scienziati che si sono distinti nel 2012. Definendolo «uno dei principali attori del 1000 genomes project consortium», che – lo ricordiamo – ha l'obiettivo di individuare i fattori genetici alla base delle malattie attraverso la comparazione del Dna provenienti da aree geografiche diverse. Così, noleggiando le macchine ad aziende farmaceutiche e università di tutto il mondo, Bgi guadagna, incamera dati e acquisisce il know how degli altri. È il caso del grande progetto ideato da Steve Hsu, della Michigan state university, sui geni che influenzano l'intelligenza. Sotto la guida di Zhao Bowen, il Bgi sta "leggendo" il genoma di oltre 2000 persone, la maggior parte americani, che hanno un Qi sopra i 160. Un progetto ovviamente controverso che in Occidente non ottiene finanziamenti, mentre in Cina lo portano avanti praticamente gratis. Ma la chiave dell'intelligenza non è il solo progetto in corso. Con l'organizzazione no-profit statunitense Autism Speaks, il Centro di genetica cinese lavora per sequenziare il Dna di almeno diecimila persone che hanno un bambino autistico. Ma ha anche avviato una collaborazione con l'ospedale di Philadelphia: Bgi pagherà una tariffa per ogni sequenza di genoma e l'ospedale svilupperà nuovi test genetici, area in cui i cinesi hanno ancora molto da imparare. L'espansione al di fuori dei propri confini è stata attuata anche con l'acquisto di una società di Mountain View, Complete Genomics, per 118 milioni di dollari, che nel 2012 possedeva il 10% di tutti i dati del Dna umano generati a livello mondiale. Un panorama che preoccupa non poco per due ragioni: che la Cina cominci a dominare anche la tecnologia di nuova generazione e che possa usare i dati del Dna contenuti nei loro megaserver. Ma Wang dice che la sua strategia è quella di "fare del bene". La nuova anima della Cina quindi è quella che vuole riconquistare lo status di superpotenza dell'innovazione, come ai tempi dell'invenzione della bussola e della polvere da sparo. Oggi il colosso asiatico è famoso più per l'arte di copiare in salsa low cost che non per la sua originalità. Ma per quanto riguarda la ricerca scientifica le cose stanno in maniera diversa e l'istituto che si muove in maniera autonoma rispetto al Governo è a caccia di giovani talenti creativi, e ha già reclutato un esercito di bioinformatici a cui ha fornito un arsenale crescente di strumenti costosi. Questo lo pone sulla buona strada per superare l'intera produzione degli Stati Uniti, disegnando una nuova geografia del mondo dei geni. Resta il dubbio che questa "fabbrica del Dna" possa ridurre la ricerca a una mera meccanizzazione della scienza. Così i genetisti di tutto il mondo lo osservano per capire se il centro troverà un equilibrio tra business e obiettivi scientifici. Yang ha il traguardo di sequenziare due volte la velocità degli altri a metà prezzo. Ma l'outsorcurcing funziona bene solo se c'è una relazione scientifica tra le parti. Ecco perchè il centro sta cercando di essere molto più di un fornitore di servizi. Edison Liu, direttore dell'Istituto di genomica di Singapore chiosa: «se si tratta solo di una macchina da soldi, non sarà ricordato». Ma a Sud della Cina il detto è "a Shenzen le montagne sono alte e l'imperatore è lontano". Siamo al riparo e senza controllo. _____________________________________________________ Repubblica 3 mar. ’13 IL DENTISTA TRA I CARRELLI DELLA SPESA. Nei supermercati la sanità low cost Welfare anti crisi: medici a prezzo scontato e mutue integrative negli ipermercati. Nelle Coop di Emilia e Liguria da 20 a 200 euro per le prestazioni specialistiche anti crisi. L'ultima scommessa nell'Italia delle 100 piccole mutuedi MICHELE BOCCI Lo leggo dopo CON IL SISTEMA sanitario in difficoltà, i tempi di attesa che crescono e i ticket che aumentano, torna alla ribalta un antico sistema di welfare sociale privato, quello delle mutue integrative, mentre negli ipermercati entrano gli studi dei dottori. In Liguria e in Emilia Romagna in questi giorni e in provincia di Bolzano già da qualche tempo, il colosso Legacoop ha costituito un progetto regionale per assicurare, attraverso un contributo che può andare da 20 a 200 euro, un aiuto ai cittadini che hanno bisogno di prestazioni sanitarie. La peculiarità del servizio è che è aperto a tutti. In Italia in molti hanno una assicurazione sanitaria per motivi legati al contratto di lavoro, mentre alle mutue territoriali può iscriversi chi vuole, a partire ad esempio, nelle regioni interessate, dai soci delle Coop, cioè milioni di persone come il signor Giorgio. "Abbiamo progetti pronti e richieste da parte di altre Regioni di avviare esperienze simili, prima di tutto in Sicilia", spiega Placido Putzulu, presidente della Fimiv, la federazione delle mutue che fa parte della Lega delle cooperative. "In questo periodo si avverte il bisogno di integrazione con il servizio sanitario pubblico, fino ad ora era una bestemmia dire che ci affiancavamo allo Stato". Qualcuno parla di "secondo pilastro" del sistema sanitario nelle regioni. In Liguria ci saranno tre fasce di prezzo per iscriversi: 25-30 euro, 40- 50 euro, 150-200 euro all'anno. I servizi partono da quello base, che permette al socio e ai suoi familiari di ottenere uno sconto (fino al 25%) in strutture sanitarie convenzionate, e arrivano a uno schema alle assicurazioni sanitarie, che dà il rimborso parziale o totale del ticket o di prestazioni private. In Italia le mutue hanno una lunghissima storia ma nessuna ha mai avuto i numeri che potrebbero raggiungere i progetti regionali. "In tutto il territorio - dice sempre Putzulu - ce ne sono circa 100 e hanno 450mila sottoscrittori, che vuol dire un milione di assistiti. In un anno vengono spesi da queste realtà i circa 300 milioni di euro incassati dalle quote dei soci". Cioè appena l'1% della spesa sanitaria privata degli italiani, che vale 30 miliardi e comprende anche quanto sborsato per ticket farmaceutici e ambulatoriale. "Siamo alla vigilia di un salto di scala - dice Carlo De Pietro, dell'osservatorio consumi privati sanità della Bocconi - Non si tratta di una scommessa senza rischi perché le piccole mutue si basano su un forte legame tra i membri che ovviamente si diluisce quando si ragiona su grandi numeri. Il cambiamento nasce dalla fatica che fa il sistema sanitario a erogare soprattutto le prestazioni "leggere", come la diagnostica e la specialistica ambulatoriale". Dentro la Legacoop c'è chi si sta anche attrezzando per fornire direttamente prestazioni sanitarie, in un settore particolarmente delicato come quello odontoiatrico. La Coop Adriatica è socia di una cooperativa di dentisti che il 23 febbraio ha aperto lo studio all'ipermercato di Imola e ha già in progetto di allargarsi a Bologna e in Romagna entro l'anno. La chiave è lavorare in gruppo, cosa che permette di abbattere le alte spese per i materiali. Anche di domenica e negli orari del supermercato. "I nostri professionisti sono esperti - spiega Gianni Tugnoli, presidente di Identicoop - assicureranno tariffe vantaggiose con ulteriori offerte per i soci. Rifiutiamo la logica low cost ma proponiamo un giusto rapporto tra la spesa e la prestazione". Ma gli studi negli ipermercati stanno entrando un po' ovunque, anche se non sempre sono gestiti da cooperative e magari non hanno convenzioni con le mutue. In Toscana li hanno alcuni medici di famiglia, ci sono centri sanitari al Carrefour di Asiago o al Marco Polo di Modena. In alcuni casi le Asl hanno aperto centri prelievi accanto ai supermarket. Tutto a portata di mano, così il signor Giorgio farà veloce e risparmierà. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 mar. ’13 NEUROLOGIA: IL SENSORE IMPIANTABILE È ORA WIRELESS Francesca Cerati Wireless, a banda larga, ricaricabile e completamente impiantabile. Queste le proprietà di un nuovo sensore cerebrale che i neuroingegneri della Brown University hanno appena presentato al Congresso internazionale sulla clinica delle interfacce neurali a Houston. Il team di ricercatori ha sviluppato un sensore wireless cerebrale con queste caratteristiche, in grado di inoltrare in tempo reale i segnali in banda larga da un massimo di 100 neuroni. Il dispositivo a basso consumo e descritto sul «Journal of Neural Engineering» ha offerto buoni risultati nel senso che i ricercatori hanno potuto utilizzarlo per osservare, registrare e analizzare i segnali emessi da decine di neuroni in particolari aree del cervello, al momento nel modello animale. Ma sono già allo studio interfacce per valutare la fattibilità nelle persone con gravi paralisi. «Questo nuovo dispositivo – spiega Arto Nurmikko, l'ingegnere che ha curato la ricerca – ha caratteristiche che sono in qualche modo simili a un telefono cellulare, anche se in questo caso la "conversazione" viene fatta dal cervello in modalità wireless». Nel sistema, lungo 56 mm, largo 1,56 con uno spessore di 9 millimetri c'è un microchip, una batteria agli ioni litio, una bobina di rame per la ricarica, una sorta di radio-cervello, che alla vista si presenta come una scatola di sardine in miniatura. I dati vengono trasmessi a 24 Megabyte al secondo con frequenze di 3,2 e 3,8 Ghz, utilizza meno di 100 milliwatt di potenza e con due ore di ricarica funziona per oltre sei ore. Allo stato attuale è il miglior compromesso che unisce miniaturizzazione, ermeticità, biocompatibilità e potenza. _____________________________________________________ Il Giornale 1 mar. ’13 CRESCONO GLI INVESTIMENTI NEL MEDICALE Per abbattere lo "spread della produttività" sono necessari sempre maggiori investimenti in ricerca e sviluppo. I settori che investono di più in Italia? Sicuramente uno di questi è il medicale. La parola a Giuseppe Longo Alessandro Albanese Assut Europe si trova a Roma www.assuteurope.com Che il nostro Paese abbia un pro blema di produttività è noto. I numeri, impietosi, fotografano un quadro in cui il gap con i nostri principali competitor europei è enorme. Per aumentare la produttività italiana la chiave è una sola: l'investimento nella ricerca e nello sviluppo. Da noi la spesa complessiva in ricerca e sviluppo, nel 2010, era pari all'1,26 per cento del Pil. Una percentuale, questa, che ci è valsa il fondo della classifica tra i paesi UE-15, che è inferiore alla media dell'UE-27 (2 per cento) e che è soprattutto distante anni luce dall'obiettivo del 3 per cento enunciato nella strategia di Lisbona. I settori italiani più propensi all'innovazione sono chimica, apparecchi radiotelevisivi, per le comunicazioni, medicali e di precisione, macchine per ufficio, elaboratori e altri mezzi di trasporto che pesano per il 16,4 per cento in Italia, il 19,7 in Francia e il 20,8 in Germania. Ed è proprio all'interno della produzione di dispositivi medicali che troviamo delle eccellenze nostrane, che continuano a credere negli investimenti. Riscuotendo un grande successo anche all'estero. Tra queste realtà spicca la Assut Europe di Roma. «La nostra — spiega il presidente Giuseppe Longo — è una società di produzione di dispositivi medico- chirurgico. Possiamo affermare di essere una realtà unica in Italia proprio per la fabbricazione di una gamma completa di suture chirurgiche». Tra i dispositivi medici prodotti dall'azienda romana spiccano le suture chirurgiche interamente prodotte in Italia, gli emostatici, lo strumentario chirurgico specialistico, i fissatori esterni per chirurgia ortopedica e traumatologica, le valvole e i sistemi per la cura e il trattamento dell'enfisema, le protesi per chirurgia vascolare e le tecnologie laser. Tutti settori che richiedono continui investimenti in ricerca e sviluppo. «Negli ultimi anni ci siamo affermati soprattutto nel settore cardiovascolare e nella chirurgia generale grazie ad una vasta gamma di dispositivi medici. Un settore in forte espansione è inoltre quello delle biotecnologie dove annoveriamo tra i nostri prodotti protesi in derma suino o pericardio bovino dedicate al trattamento e alla cura di Ernie e Laparoceli complessi e di altre patologie. Ogni anno una moltitudine di persone trae beneficio da questi dispositivi. Tutto ciò è reso possibile dalla presenza di un Centro ricerche e sviluppo dove lavorano ingegneri biomedici, informatici, economisti e biologi». L'export rappresenta per l'azienda il 40 per cento del fatturato attuale. «Vendiamo — precisa Longo — in circa 30 paesi nel mondo, dove la qualità del nostro prodotto è molto apprezzata, attraverso filiali dirette oppure attraverso grandi distributori. Attualmente i nostri mercati esteri sono rappresentati maggiormente da Europa, Africa, America Latina, Russia e Asia, e assorbono oggi principalmente i nostri prodotti base (Suture chirurgiche ed Emostatici) che prevediamo di incentivare con azioni di marketing e vendita per cominciare a far conoscere altri prodotti per la chirurgia con la presentazione sul mercato delle nostre novità. Il problema più grande che riscontriamo è il prezzo, perché non si riesce sempre a competere con i concorrenti che ormai non producono più in Europa, e perciò sfruttano molto il costo della mano d'opera che in Italia è diventato il più caro del mondo; a tutto questo cerchiamo di reagire offrendo servizi, qualità e prezzi contenuti il più possibile». A proposito di servizi, da poco è stato inaugurato il nuovo centro di ricerca e sviluppo. «Da un lato grazie a questo centro continueremo, come di routine, a implementare la funzionalità e l'innovazione dei nostri prodotti e dall'altro, in collaborazione con centri universitari e ospedalieri svilupperemo nuovi prodotti e tecnologie nell'ambito della chirurgia generale e cardiovascolare, anche se i costi e gli investimenti per nuove tecnologie prevedano l'impiego di grossi capitali. Senza peraltro ricevere quelle agevolazioni notoriamente pubblicizzate e che non trovano successivamente attuazione per problematiche burocratiche e altro». _____________________________________________________ Corriere della Sera 2 mar. ’13 INIEZIONI (DI PLASMA) ANTIETÀ RIGENERANO DAVVERO? Nella ricerca infinita dell'eterna giovinezza si può anche scherzare sul vampiro, simbolo immortale dalla diafana pelle. Non sorprende che gli americani abbiano soprannominato Vampire lifting le iniezioni di plasma (estratto dal nostro stesso sangue), ultima frontiera della dermatologia e della medicina estetica per ridare freschezza e tonicità alla cute. La questione è seria perché la metodologia in questione, conosciuta come Prp, Platelet-rich plasma, plasma ricco di piastrine (componenti essenziali della cicatrizzazione), viene utilizzata da almeno 20 anni in diversi campi dellamedicina, dall'ortopedia alla chirurgia odontoiatrica. Arrivata sul mercato del ringiovanimento nel 2009, in America e in Spagna ha fatto un vero boom e ora si sta diffondendo tra le italiane a quanto pare per nulla spaventate all'idea di farsi prelevare del sangue per poi farselo re-iniettare sul volto sotto forma di tante microiniezioni. Il sangue prelevato (da una a due provette a seconda della zona da trattare) viene posto in una centrifuga, al fine di ottenere la separazione della parte più ricca di piastrine dal resto delle cellule come i globuli rossi. «Dal centrifugato si ottiene il plasma, la parte gialla, liquida, nella quale si concentrano le piastrine più leggere. Il gel piastrinico, un concentrato di fattori di crescita, viene quindi re-iniettato nella parte profonda della pelle da trattare», spiega Fabio Rinaldi, dermatologo a Milano, convinto che la medicina rigenerativa rappresenti il futuro della scienza anti-età. «In realtà oggi le iniezioni possono essere sostituite dalle tecnica della ionoforesi, che sfrutta la veicolazione attraverso la pelle, ma sono in molte a preferire le punturine», aggiunge Rinaldi. «Le cellule stimolate rilasciano fattori di crescita che richiamano le cellule staminali. Queste ultime a loro volta avviano la rigenerazione dei tessuti del volto o del cuoio capelluto», interviene Enrico Pietroiusti, specialista in odontoiatria e chirurgia maxillo facciale a Milano: «La biorigenerazione cellulare è il più innovativo e sicuro trattamento per il ringiovanimento e il rimodellamento dei tessuti cutanei». «Si tratta di un biostimolatore naturale perché deriva da sangue autologo, cioè prelevato e reimmesso nello stesso paziente. Sono escluse forme allergiche che invece possono verificarsi con l'acido ialuronico», prosegue Rinaldi che con la sua fondazione I.H.R.F ha organizzato un congresso sull'uso dei fattori di crescita in dermatologia. I risultati? «La riduzione delle rughe più superficiali e l'attenuazione di quelle medie e profonde. I contorni del viso diventano più turgidi e la grana della pelle migliora in maniera drastica. Ma il Prp non è un riempitivo come l'acido ialuronico, cui di solito viene associato», prosegue il 57enne Pietroiusti che confessa di praticare la metodologia sulla sua compagna 49enne. I medici sono però i primi a disilludere chi si aspetti i miracoli. «Nel trattamento antinvecchiamento non ci sono magie, una quaranta-cinquantenne non deve aspettarsi di ritornare come a 20 anni. Il risultato è comunque significativo almeno sull'80% dei casi», dice Rinaldi. La frequenza dei trattamenti? «Le prime sedute (circa 40 minuti per un costo da 350 a 700 euro) devono essere ripetute per due o tre volte, a seconda della condizione delle rughe; poi può bastare una seduta di mantenimento una volta ogni sei mesi o all'anno. Ma i risultati non si vedono immediatamente: il processo di rinvigorimento richiede almeno 30 giorni». I rischi? «È bene sapere che il trattamento viene garantito solo dalla serietà e dalla professionalità di un ambulatorio medico che utilizza i fattori di crescita sotto la stretta osservazione di un ospedale di riferimento della zona», dicono gli specialisti. Maria Teresa Veneziani _____________________________________________________ Il Corriere della Sera 3 mar. ’13 PER DEPURARE LA CASA NIENTE «FUMI» E LE PIANTE GIUSTE Ficus, aloe, giglio fra gli amici dell'aria domestica Trascorriamo nei luoghi chiusi il 90% del nostro tempo ed è qui che respiriamo la maggioranza degli inquinanti che minacciano la nostra salute. Negli ambienti «indoor», infatti, penetrano e si concentrano le sostanze che ammorbano l'aria esterna, alle quali si aggiunge un variegato esercito di molecole che si sprigiona da oggetti, mobili, dai prodotti chimici usati in casa, da pitture, tessuti e persino dai fornelli. Lo studio Iaiaq, finanziato dalla Ue, ha valutato che in Europa il 3% di tutte le malattie sono determinate dall'inquinamento indoor. «A minacciare la salute sono soprattutto le polveri sottili (Pm2,5), i contaminanti biologici come muffe, acari e batteri, il monossido di carbonio e i composti organici volatili (Cov), una classe di molecole di piccole dimensioni, che si diffondono nell'aria e penetrano facilmente nei polmoni, raggiungendo, da qui, il sangue» spiega Paolo Carrer, responsabile dell'Unità operativa di Medicina del lavoro all'Ospedale Sacco di Milano, fra gli autori dello studio. L'indagine ha anche stilato la graduatoria dei Paesi in cui gli ambienti sono più salubri. I migliori sono Svezia, Finlandia, Regno Unito e Francia; i peggiori Romania, Bulgaria e Ungheria, mentre l'Italia si colloca a circa metà classifica, dopo Austria, Germania, Grecia, Portogallo, Belgio, Irlanda e Spagna. «Fra le malattie legate all'inquinamento indoor — prosegue Carrer — quelle che più incidono sulla salute degli europei sono, in ordine di importanza, quelle cardiovascolari, l'asma e le allergie, il tumore del polmone, le malattie respiratorie e le intossicazioni da monossido di carbonio». E per alcune, il contributo della qualità dell'aria negli ambienti confinati è davvero fondamentale: un rapporto dell'Oms-Europa, pubblicato nel 2011, ha valutato che nel Vecchio continente il 12-15% dei casi di asma può essere attribuito alle muffe e all'umidità che si sviluppano fra le quattro mura. Mentre in anni recenti uno studio del Cnr di Pisa ha calcolato che eliminare l'esposizione ai contaminanti biologici nei primi anni di vita ridurrebbe, fra i bambini di 6-7 anni, la tosse cronica del 9%, l'asma del 7% e le rinocongiuntiviti del 6%. In linea generale, comunque, i danni che un ambiente insalubre provoca all'organismo sono dovuti al mix di sostanze più o meno nocive presenti, più che a un singolo inquinante. E sono strettamente legati anche al tempo che si trascorre al suo interno, alla suscettibilità individuale (i bambini, gli anziani e gli allergici sono più vulnerabili) e ai comportamenti di chi occupa gli ambienti. «Il fumo di sigaretta è la fonte più importante di inquinamento, ma il bruciare incensi e l'accendere candele hanno effetti analoghi» dice Carrer. Fra gli inquinanti che più sono influenzati da queste abitudini c'è il benzene, un cancerogeno che nelle case libere dal fumo di sigaretta si attesta solitamente su livelli che comportano rischi bassissimi per gli occupanti, ma che è in media due volte e mezzo più abbondante nelle abitazioni dei fumatori. «Altre sorgenti di inquinanti sono il traffico stradale, gli impianti di riscaldamento, le attività che si svolgono in cucina, le infiltrazioni di acqua, i prodotti chimici e gli oggetti di ampio consumo presenti in casa» prosegue l'esperto. Su questi ultimi, indicazioni importanti stanno arrivando dallo studio europeo Ephect, ancora in corso, che ha l'obiettivo di identificare le emissioni di una quindicina di tipi di prodotti e mettere a punto un sistema di etichettatura per indicarle con chiarezza ai consumatori. «Si sta confermando che un contributo importante all'inquinamento indoor arriva dai materiali da costruzione e dagli arredi, dai prodotti per la pulizia della casa e dai deodoranti» afferma Carrer. Le preoccupazioni riguardano soprattutto i Cov, e fra questi la formaldeide, un gas dall'odore pungente, accusato di favorire i tumori del naso, della laringe e le leucemie. Sebbene normalmente non raggiunga nelle case concentrazioni ritenute cancerogene, la formaldeide è fortemente irritante per le vie respiratorie e le mucose e, miscelandosi ad altri inquinanti, genera composti molto reattivi, che moltiplicano l'effetto. Usata nella fabbricazione di materiali molto comuni, si emana da alcuni mobili in truciolato, dai tappeti e dalle tende, dalle colle, dalle pitture, dalle carte da parati e da certi materiali isolanti. È presente poi nei detergenti per la pulizia della casa e nei lucidi da scarpe, negli smalti per le unghie, negli insetticidi, ed è emessa persino da alcune apparecchiature elettroniche, come computer e fotocopiatrici. Come per il benzene, però, la sorgente principale nelle case di chi fuma restano le sigarette, che sono pure la fonte più importante di un'altra classe di inquinanti che gli esperti tengono d'occhio: gli idrocarburi policiclici aromatici (o Ipa). Negli ambienti frequentati da fumatori, anche l'87% di queste molecole può derivare dalla loro cattiva abitudine, mentre il resto arriva per lo più dall'inquinamento che c'è all'esterno. Le conseguenze per la salute possono essere importanti: alcuni Ipa, come il benzo(a)pirene, sono infatti cancerogeni. Va tuttavia precisato che l'inalazione è soltanto uno dei modi in cui queste sostanze penetrano nell'organismo. Nei non fumatori, anzi, la via di ingresso principale è rappresentata dai cibi bruciacchiati, come la carne alla griglia e le caldarroste, che proprio per questo gli esperti consigliano di consumare con moderazione. «L'inquinamento indoor è una materia difficile da normare, perché dipende da moltissime sorgenti e perché le leggi dovrebbero intervenire su ciò che ciascuno fa in casa propria — riprende Carrer —. Ma c'è anche un aspetto positivo in tutto ciò. Perché, mentre il nostro potere per migliorare la qualità dell'aria cittadina è piuttosto limitato, possiamo fare moltissimo per rendere più salubri gli ambienti che frequentiamo quotidianamente». Il primo consiglio è ovviamente quello di non fumare in casa. Una volta fatto questo, ulteriori benefici si possono avere aerando spesso i locali per impedire il ristagno di sostanze nocive e limitando le sorgenti inquinanti: ovvero, scegliendo arredi e pitture a basse emissioni e usando con moderazione i prodotti per la pulizia della casa e le altre sostanze chimiche. «La riduzione delle sorgenti è anche il solo modo per fare andare d'accordo il risparmio energetico, che richiede che le case siano ben isolate, e la salubrità degli ambienti» fa notare Carrer. Infine, per controllare muffe e acari, l'umidità non dovrebbe superare il 40-50%. E a ripulire l'aria possono contribuire anche le piante di aloe, clorofito, crisantemo, gerbera, giglio, peperomia, sansevieria e ficus. Purché, però, siano rigogliose. _____________________________________________________ Il Corriere della Sera 3 mar. ’13 PIÙ SMOG IN SALOTTO CHE IN STRADA L o smog cittadino è secondo solo al fumo di sigaretta come sorgente di inquinamento indoor. Pm2,5, ossidi di azoto, benzene e altre sostanze penetrano infatti nei luoghi chiusi da porte e finestre, e qui ristagnano, raggiungendo spesso concentrazioni di gran lunga superiori rispetto a quelle che si registrano all'aperto. Di fatto, respiriamo in casa la maggior parte degli inquinanti che dai gas di scarico delle automobili arrivano nei nostri polmoni. Con conseguenze rilevantissime per la salute: «Solo le polveri sottili riducono l'aspettativa di vita di ciascun europeo di 8,6 mesi — chiarisce Pier Mannuccio Mannucci, direttore scientifico del Policlinico di Milano — e in Pianura Padana, una delle zone più inquinate del continente, si sale a 2-3 anni». Nelle scorse settimane, a fare il punto della situazione sugli effetti dell'inquinamento per la salute è stato un documento che l'Organizzazione mondiale della sanità ha presentato all'Ue, richiesto espressamente dalla Commissione europea nei mesi scorsi, in vista della revisione della politica sulla qualità del l'aria. Il documento ribadisce che esiste una relazione causale fra inquinamento e malattie respiratorie e cardiovascolari e indica per alcuni inquinanti le concentrazioni da rispettare per proteggere la salute dei cittadini. Inoltre, evidenzia nuove relazioni fra l'esposizione al Pm2,5 e i difetti dello sviluppo del sistema nervoso in età fetale, il declino delle funzioni cognitive nell'anziano e il diabete. «Questi effetti, che l'Oms preciserà meglio nei prossimi mesi, sono emersi da studi epidemiologici recenti e vengono ora segnalati in modo ufficiale per la prima volta» nota Francesco Forastiere, epidemiologo del Dipartimento di epidemiologia dell'Asl Roma/E, fra gli autori del documento. A destare le preoccupazioni maggiori, per via delle conseguenze — pesanti — sul piano sia economico sia sociale, sono però le malattie cardiovascolari e respiratorie. «La mortalità dovuta a queste patologie aumenta nei giorni in cui si registrano i picchi di inquinamento e in quelli immediatamente successivi. E non si tratta di un'anticipazione di decessi che si sarebbero comunque verificati nei mesi seguenti — dice Mannucci —. Certamente, chi è già cardiopatico o ha malattie respiratorie è più vulnerabile, ma sul lungo periodo l'inquinamento ha l'effetto di far ammalare chi è sano, facendolo diventare un soggetto a rischio. In una città come Milano, ogni anno muoiono per l'inquinamento circa 250 persone». Eppure, questi effetti potrebbero essere limitati con una politica più attenta all'ambiente. L'anno scorso uno studio condotto in 25 città europee ha stabilito che rispettare le concentrazioni di polveri sottili raccomandate dal l'Oms permetterebbe di evitare ogni anno 19 mila decessi (15 mila dei quali per cause cardiovascolari) e farebbe risparmiare 31,5 miliardi di euro. «Ma anche piccoli miglioramenti nella qualità dell'aria possono portare benefici — aggiunge Mannucci —. Una ricerca statunitense ha stimato che a riduzioni del Pm2,5 nel l'aria di appena 10 mg/m3 corrisponde un incremento medio dell'aspettativa di vita di circa sette mesi e l'effetto è ancora maggiore nelle realtà più inquinate». La parola passa quindi alla politica, «che però deve tenere a mente un dato fondamentale: — conclude Mannucci — la maggior parte delle polveri e degli inquinanti ai quali siamo esposti non arriva dai riscaldamenti, come si sente ripetere spesso, ma dal traffico stradale. È quindi su questo che si deve intervenire, se si vuole essere efficaci». _____________________________________________________ Il Corriere della Sera 3 mar. ’13 UN CALCIO ALL'ALZHEIMER dal nostro inviato a Glasgow PAOLO TOMASELLI Mostrare immagini e parlare di epiche partite e vecchie glorie La strategia non cura i malati ma regala lampi di memoria Il tavolo è ricoperto da fotografie in bianco e nero, di grande formato, plastificate e di buona qualità, nonostante alcune siano piuttosto datate. Ci sono portieri senza guanti in tuffo sul pallone, attaccanti impegnati nel tiro decisivo, difensori in scivolata, ma anche diverse riproduzioni statiche di calciatori in posa per il calendario sociale o con la maglia della nazionale. Ogni dettaglio, anche una panoramica sui gradoni in cemento di un vecchio stadio, può essere quello giusto per riaccendere un ricordo: quando gli occhi lo individuano, propagano una luce fioca e intermittente, di breve durata, ma capace di riscaldare almeno un po', dentro e anche tutto attorno. In Scozia questo è un fenomeno che si verifica di frequente, grazie al «Football memories project», un'iniziativa in collaborazione con Alzheimer Scotland che ha come obiettivo quello di migliorare la qualità della vita dei malati di demenza senile. Come? Attraverso sessioni (se possibile) di 90 minuti, più 15 di intervallo, in cui il pallone rimbalza tra i ricordi, nel tentativo di toccare i tasti meno incrostati dal tempo, grazie a un apparato iconografico che spazia soprattutto dagli anni Quaranta agli anni Settanta del calcio scozzese, in modo da stimolare le reminiscenze degli anziani che hanno vissuto in prima persona le diverse ere calcistiche. Anche attraverso contribuiti radiofonici dell'epoca (i video sono invece sconsigliati) o addirittura la riproduzione del tipico sferragliare metallico dei tornelli. Il progetto, com'è ovvio, non avanza pretese terapeutiche, ma in questi anni ha piacevolmente stupito medici e ricercatori. In tutta la Scozia sono quaranta i gruppi attivi, che danno conforto a circa duecento malati nei centri di cura specializzati, ma anche nelle parrocchie o nelle sedi messe a disposizione dalle società di calcio. Il motore dell'iniziativa è rappresentato dai volontari, incaricati del lato «calcistico» e dell'organizzazione del materiale più adatto da utilizzare, sempre accompagnati da assistenti professionisti che aiutano gli anziani a riscoprire le gioie di una passione, come quella del tifo per la propria squadra, sopita dal tempo e dall'incedere della malattia. «Football memories», che ha tra i suoi ambasciatori anche Sir Alex Ferguson, scozzese e allenatore del Manchester United da una vita, ha sede accanto all'ingresso del museo del calcio, ospitato nella pancia di Hampden Park, l'impianto «neutrale» di Glasgow (città divisa in modo netto tra i cattolici del Celtic Park e i protestanti che sostengono i decaduti Rangers a Ibrox Park) dove gioca tutte le sue gare interne la Scozia. Da queste parti, dove lo sport più amato è quasi una religione e il culto della memoria (e della memorialistica) sportiva è molto diffuso, si può quindi dare una pallonata quotidiana all'Alzheimer nel cuore dello stadio nazionale, con la federazione come partner e la «Post code lottery» come principale finanziatore, a testimonianza che mettere la testa seriamente nel pallone può avere una ricaduta sociale significativa. Tutto è cominciato a Falkirk, cittadina a metà strada tra Edimburgo e Glasgow: qui Michael White, storico della squadra di calcio locale in cui ha giocato negli ultimi anni di carriera lo stesso Ferguson, organizzava incontri per ravvivare il senso di appartenenza al club. «Poi mi è stato chiesto di andare a parlare di calcio nel centro per malati di Alzheimer a Stenhousemuir, dove ho incontrato un gruppo ristretto di anziani e subito sono rimasto affascinato dalla loro capacità di ricomporre la memoria dei vecchi tempi, in cui la maggior parte di loro era tifoso praticante: alcuni non avrebbero saputo dire cosa avevano mangiato per colazione, ma erano in grado di riconoscere molti protagonisti delle fotografie che avevo portato con me. Altri rammentavano anche le condizioni atmosferiche di certe partite, disputate sotto la pioggia o la neve. Perché l'esperienza del calcio di allora non si riduce a riconoscere un determinato giocatore in una fotografia, ma significa ricreare dentro di sé un ventaglio di esperienze, dal viaggio per lo stadio al pranzo in comitiva, fino ovviamente al risultato della partita, commentato e rivissuto attraverso radio e giornali anche nei giorni seguenti». Tra i vecchi appassionati di football seduti attorno al tavolo (che nell'intervallo spalmano sul pane il Bovril, un estratto di manzo caro a chi andava allo stadio, un po' come il Caffé Borghetti da noi...), ce n'è uno che se ne sta un po' in disparte, quasi riluttante a partecipare a quella rimpatriata improvvisata. Poi Bill Corbett si fa coraggio e dimostra che sul calcio degli anni Quaranta e Cinquanta per lui non ci sono zone d'ombra: «Solo dopo sono venuto a sapere che era stato un ottimo difensore centrale del Celtic e della nazionale scozzese — spiega White, ricordando con un velo di commozione quel primo incontro, oggi che Bill non c'è più —. Nel 1942 giocò in nazionale contro l'Inghilterra a Wembley e venne eletto "migliore in campo". L'ultima volta che ci siamo visti, dopo aver provato a ricordare i bei tempi, scherzando sui grandi calciatori con cui ha giocato, mi disse che quello che aveva appena vissuto con noi era stato uno dei momenti più belli della sua vita. E quando qualcuno mi chiede se il nostro progetto è in qualche modo efficace, io cito sempre una frase di Bill, rivolta a un ricercatore della Caledonian University di Glasgow: "Guardi questo fazzoletto — disse Corbett allo studioso —, è umido di lacrime, lacrime di gioia"». Oggi, tra i quaranta gruppi sparsi dalle isole Shetland fino al vallo di Adriano (che potrebbe essere scavalcato presto da due squadre inglesi, Ipswich ed Everton, che hanno preso informazioni) ce ne sono alcuni composti esclusivamente da ex giocatori professionisti, per i quali sono previsti anche incontri singoli, legati ai particolari della loro carriera in campo. Non a caso tra i partner del progetto, che ha superato le diffidenze iniziali della comunità scientifica ed è adesso oggetto di studi anche da parte dell'Università di Barcellona, c'è l'associazione dei calciatori scozzesi. Mentre negli Usa (per il baseball) e in Canada (per l'hockey su ghiaccio) il modello assistenziale potrebbe essere presto riprodotto. Ovviamente i contributi più entusiasti sono quelli dei familiari, che sanno bene quanto la routine degli incontri, di norma al mattino, e il senso di appartenenza (sviluppato anche attraverso l'utilizzo di felpe dai colori uguali per i partecipanti, come all'interno di una «squadra») siano molto importanti: dall'Alzheimer non si torna indietro, ma ogni tanto avere la sensazione che la degenerazione cerebrale si fermi per un attimo fa bene a tutti, non solo ai malati, alcuni dei quali hanno ripreso a parlare attorno a un tavolo di «Football memories» dopo settimane o mesi di insostenibile silenzio. «Mio marito — spiega Irene Gray — è una persona differente quando esce dalla sua sessione settimanale. È più reattivo e stimolato, nella strada verso casa parla con me e non necessariamente solo di calcio. Questo progetto gli ha ridato un'energia nuova». L'espressione verbale non è l'unica forma di comunicazione, come dimostra il disegno di David Beckham riprodotto da uno dei partecipanti. Attraverso un percorso non banale: «Nel nostro primo incontro — racconta White — quest'uomo soppesava le fotografie che gli venivano mostrate con occhio critico, riguardo alla luce, alla prospettiva, alla qualità dell'immagine. Gli ho chiesto se fosse stato un fotografo. Mi rispose di no, ma disse che aveva la passione per il disegno e mi ha confermato che avrebbe potuto riprodurre a matita una delle nostre fotografie. La settimana successiva si è ripresentato senza disegni e così anche quella dopo. Un mese dopo il primo approccio ha portato quattro ritratti schizzati a matita, tra cui quello di Beckham, che ho conservato. La moglie mi ha confidato che suo marito, malato di demenza, non disegnava ormai da anni». _____________________________________________________ Libero 3 mar. ’13 PRIMO TRAPIANTO DI RENE SENZA TRASFUSIONI A UN TESTIMONE DI GEOVA LUCA BERNARDO* Chirurgia e testimoni di Geova, cosa li accomuna? Ritorniamo a fidarci della nostra Sanità. A febbraio nelle sale operatorie dell'Ospedale di Circolo di Varese si è svolto un intervento delicatissimo, eseguito solo in pochi altri centri in Italia. Si tratta di un trapianto renale eseguito senza ricorrere ad emotrasfusioni, sia durante che dopo l'operazione. La paziente, testimone di Geova e quindi contraria, per motivazioni di credo religioso, a ricevere trasfusioni di sangue, è attualmente ricoverata in buone condizioni generali nella terapia sub-intensiva dedicata ai pazienti trapiantati: il suo nuovo rene ha infatti rapidamente ripreso a funzionare. L'intervento è stato eseguito dal professor Giulio Carcano, responsabile della Struttura Semplice Dipartimentale Trapianti, insieme con il dottor Matteo Tozzi, seguendo le linee indicate da un preciso protocollo messo a punto nell'ambito del Dipartimento Trapianti, diretto dal professor Paolo Grossi, su proposta del dottor Alessandro Bacuzzi, anestesista, e condiviso da tutte le figure professionali che intervengono nell'approccio multidisciplinare dei pazienti trapiantati, tra cui, oltre ai chirurghi e agli anestesisti, i nefrologi, coordinati dal dottor Donato Donati, e gli infettivologi. In particolare, la possibilità di sottoporre i pazienti testimoni di Geova a trapianto di rene senza ricorrere ad emotrasfusioni nasce dall'esperienza maturata dal Centro varesino trapianti nel trattamento chirurgico del paziente dializzato, che risulta essere gravemente anemico nella maggioranza dei casi, e dalla collaborazione tra l'équipe chirurgica, diretta dal professor Giulio Carcano, e quella anestesiologica, diretta dal professor Salvatore Cuffari, nella cura di questi pazienti. Dei numerosi centri trapianti operanti in Italia, solo pochi accettano di sottoporre ad intervento di trapianto d'organo pazienti che non acconsentano alla trasfusione di sangue, considerata la complessità e la delicatezza di un simile intervento. La gestione perioperatoria di questi pazienti deve infatti essere caratterizzata da una stretta e attenta collaborazione tra tutte le figure professionali coinvolte per garantire la sicurezza del paziente, la sopravvivenza dell'organo trapiantato e il rispetto delle motivazioni religiose. *Direttore Dipartimento Materno-Infantile AO Fatebenefratelli e Oftalmico Milano