RASSEGNA STAMPA 31/03/2013 LE ANIME PERSE DELL'UNIVERSITÀ UNIVERSITÀ, RICERCA, TECNOLOGIA ARGINARE LA RASSEGNAZIONE GIOVANILE RICERCA, ITALIA CENERENTOLA TRA I PAESI UE DOTTOR DIDOCCUPATO LA DISOCCUPAZIONE NON È SOLO COLPA DELLA CRISI IL 110 NON BASTA PIÙ CONTA IL CURRICULUM» AL VIA I PRIMI TEST PER LE MATRICOLE TEST: NEL PUNTEGGIO DEBUTTA IL VOTO DELLE SUPERIORI I CERVELLI IN FUGA? TRENTAMILA ALL'ANNO SUD: RITORNANO I CERVELLI IN FUGA CON I FONDI UE A SCUOLA I LIBRI DIVENTANO DIGITALI LIBRI DIGITALI: UNA LAPIDE PER STUDENTI VIRTUALI SCUOLA DIGITALE, UNA RIVOLUZIONE A METÀ SÌ AI CELLULARI IN CLASSE LA SVOLTA «FAI DA TE» DELLA SCUOLA AMERICANA ZICHICHI: QUEI PAPI «ILLUMINISTI» CHE SPOSANO DIO E SCIENZA CINECA: IL SUPERCOMPUTER IBRIDO PIÙ EFFICIENTE AL MONDO È IN ITALIA IL GRAFENE, PIÙ SOTTILE DELL'ARIA GALLIO, INDIO, TANTALIO: LO SCONTRO SOTTERRANEO TRA LE POTENZE GLOBALI LA SCOMMESSA DELL'INTERNET VERDE TRASMISSIONE. VELOCITÀ A 300MILA CHILOMETRI AL SECONDO ========================================================= MEDICINA: ASSALTO ALLA SEGRETERIA MA L’ISCRIZIONE È UN SOGNO AOB: PRIMO TRAPIANTO DI RENE CON IL ROBOT AOUCA: «CONVENZIONE PER L'UTILIZZO DEL DA VINCI» AOUCA: MORTO FRA' EMILIANO, CAPPELLANO DEL “CIVILE” AUSS: ASL E AOU APRANO UN CENTRO UNICO PER LA DIABETOLOGIA» AOUSS, L'ADDIO SILENZIOSO DEL DIRETTORE SANITARIO SERGIO DEL GIACCO: IL PREMIO IMID AWARD 2013 CARLO CABULA: DOTTORE GIORNALISTA SEMPRE A CACCIA DI TECNOLOGIE ALLE ORIGINI DEL «METODO STAMINA» STAMINA: IL METODO (E LE IDEE) DEL CREATORE STAMINA: CHE COSA SIGNIFICA «DIRITTO ALLE CURE» STAMINA: PERCHE’ I MAGISTRATI HANNO DECISO DI AVVIARE UN'INDAGINE STAMINA: PER NATURE IL METODO E’ PERICOLOSO GUARIRE IN UNA STANZA CON VISTA SUL PARCO L'INTERO DNA DELL'UOMO È STATO COPERTO DAI BREVETTI CARTA DEL RISCHIO DEI TUMORI IN SETTANTA GENI L'EVOLUZIONE UMANA RACCONTATA DAL DNA MITOCONDRIALE IL PRESSING DEL GENOMA SULLA VITA DNA: L’UOMO CHE VERRA’ ODDIFREDDI DNA: L’UOMO CHE VERRA’ QUANDO IL DNA UMANO VERRÀ PERFEZIONATO ALGORITMI ANTI-TUMORI UN SUPER PORTALE PER CURARE IL CANCRO SASSARI, XILITOLO RIDUCE LA CARIE DORMIRE POCO FA INGRASSARE DA UN COCKTAIL DI FARMACI L'ARMA ANTICANCRO AL COLON PROTEINE ARTIFICIALI VITTORIA ITALIANA CON LO SPRAY AL BICARBONATO MIGLIORA LA SALUTE DEI DENTI LA PILLOLA CHE «RIPULISCE» I NOSTRI RICORDI DAL DOLORE ========================================================= _______________________________________________________________ Repubblica 25 mar.’13 LE ANIME PERSE DELL'UNIVERSITÀ L'UNIVERSITÀ ITALIANA ALLA RICERCA DI MAESTRI Pier Luigi Celli Ci sono istituzioni che leggono in ritardo i mutamenti nelle società tentando forme di adattamento incrementale, e altre che pensano di affrontarli irrigidendo burocraticamente gli stimoli all'innovazione, inquadrandoli strumentalmente, lavorando solo sulle componenti interne tradizionali in ottica di aggiornamento. Fino a estenuarne la valenza salvifica in assenza di coraggio e passione. L'università sembra dispiegare nelle ricorrenti riforme una volontà minimizzatrice che esalta l'apparente razionalizzazione degli strumenti gestionali, finalizzati alla conservazione del potere accademico interno nel momento in cui tutto si flessibilizza, crescono le autonomie, vanno in crisi le barricate che facevano della politica l'ultimo rifugio della conservazione. Mentre il mondo cerca strade nuove e le culture meno occidentali si affermano, noi ci balocchiamo difensivamente intorno ai temi del valore degli h-index, facciamo guerre di posizione sul numero e la qualità delle pubblicazioni in riviste più o meno reputate, pensiamo di risolvere i problemi della valutazione approntando qualche chilo di questionari la cui compilazione demenziale demanda il compito a quelli stessi che dovrebbero essere valutati. Ci sfugge che l'università dovrebbe avere un ordine delle priorità diversamente articolato. L'istituzione ha un core business: gli studenti e il loro destino, in un mondo in cui gli sconvolgimenti epocali imprimono accelerazioni impensate mettendo a rischio modalità collaudate di insegnamento, vecchie certezze organizzative e la tradizionale linea di confine tra ciò che sta dentro il sistema di trasmissione scientifica e quel che avviene all'esterno. Ciò dovrebbe portare a riflettere che la semplice ripulitura degli strumenti tradizionali, l'adeguamento meccanico, l'affermazione reiterata di interessi corporativi, seppur sottoposti a maquillage, non aiutano ad affrontare la natura della missione che bisognerebbe affrontare. Che è quella di aiutare gli studenti non solo a imparare le materie in piani di studio mal articolati a tutela di professori a cui bisogna garantire un corso, ma a sperimentare le condizioni nuove che si troveranno ad affrontare. I saperi al lavoro richiedono la valutazione di altri impegni oltre a quelli dell'aula, di una diversa cura degli interessi complessi in gioco. Non si può pretendere di capire come operare nel durante senza includere nella visione il prima e il dopo, come fosse possibile costruire un ponte non avendo attenzione ai piloni. La nostra cultura, rispetto alla ricchezza della domanda di competenza che esprime un mercato del lavoro in evoluzione, sembra asfittica, ripiegata a tutelare assetti disciplinari rigidi, inquadrata in regole burocratiche che nessuno riesce più a comprendere. Anche perché se non si apre la scatola legittimando il confronto, liberando le forze in campo, riportandola valutazione nelle mani di chi è destinatario del servizio (studenti, famiglie) e di quanti (imprese, organismi di rappresentanza, associazioni professionali) dovranno beneficiare del prodotto formato, il rischio di obsolescenza di quanto si va preparando è prevedibile. C'è un derivato di quest'impostazione arretrata: la cultura auto riferita del sistema universitario, con i suoi modelli di segmentazione dei saperi e la tutela delle reti di trasmissione e cooptazione dei ruoli di potere accademici, oltre a essere divergente rispetto a come va il mondo inculca negli allievi una dimensione individualizzata dei percorsi 'di carriera, giocata sulla mediazione della materia e dell'esame, avulsa da percorsi relazionali e da stimoli che dovrebbero alimentare il tessuto connettivo degli anni di studio. Le nostre università stentano a definirsi un mondo con quello che il termine include: vita, interessi da cui trarre saperi complementari, esercizio di responsabilità operative, terreno di sviluppo di idee e costruzione di progetti. Ciò che aiuterebbe a familiarizzarsi con i problemi a cui gli studenti vanno incontro. È illusorio immaginare che la comprensione del mondo passi solo attraverso la trasmissione di conoscenze. Serve un supplemento crescente di esperienze multiple, anticipate, che evidenzino la diversa disponibilità dell'istituzione e dei suoi interpreti, non più sacerdoti di materie arcane o di tecnologie salvifiche ma disponibili a interpretare se stessi. Il nuovo mondo ha bisogno di una figura antica, il maestro. Che si prende cura, consente di sbagliare, alimenta la curiosità e la voglia di provare. Qualcuno che ha il gusto e la passione di creare una discendenza. Quanto tutto questo abbia da spartire con la cultura universitaria è un bell'esercizio di discernimento. Ma, forse, è anche per questo che oggi, se non ripensiamo l'istituzione in funzione delle sue vere finalità e delle nuove sfide, avendo il coraggio di dire quello che è riforma fasulla e bisogni veri, continueremo ad alimentare una cultura perdente. Con la responsabilità di rafforzare un ossimoro: quello di flessibilizzare le teste utilizzando una struttura di trasmissione inflessibile. _____________________________________________________ Corriere della Sera 25 mar. ’13 UNIVERSITÀ, RICERCA, TECNOLOGIA ARGINARE LA RASSEGNAZIONE GIOVANILE di GIUSEPPE GUZZETTI Caro direttore, in passato il Suo giornale ha ospitato i contributi stimolanti di tre rettori degli atenei di Milano, che ribadiscono la centralità del sistema universitario e produttivo milanese come polo di attrazione internazionale. Aggiungo io che questo ruolo può e deve essere riscoperto a partire da una visione comune per il bene dei nostri giovani e del nostro Paese, con quel patto tra Pubblico, Privato e Privato sociale del quale è già stata dimostrata l'efficacia nell'affrontare le grandi sfide. Parto da uno dei fattori chiave di competitività della nostra società: il capitale umano. Occorre investire su percorsi di crescita, accompagnamento e realizzazione professionale offrendo prospettive occupazionali in linea con le aspettative. Frasi scontate? Talmente scontate, fino al punto di essere disattese nella pratica. Quello che affermano i tre rettori lombardi è sacrosanto. Lavorare per i nostri giovani è un dovere morale, ma è anche un obiettivo di interesse puramente pratico per il nostro Paese. Per questo motivo Fondazione Cariplo ha dedicato particolare attenzione all'Università — pilastro fondamentale per la qualificazione dei giovani — focalizzando le proprie risorse, attraverso strumenti competitivi, su interventi (50 nel triennio 2009-2011 per oltre 15 milioni di euro) di miglioramento dell'offerta formativa proposti dal sistema universitario lombardo. Non solo: la Fondazione non si è limitata a sostenere gli attori chiave di riferimento del territorio ma ha proposto strategie e modelli d'intervento. Vale la pena citare le esperienze positive sul fronte dello sviluppo dell'attrattività del sistema ricerca regionale: con un programma noto come «Reclutamento internazionale» abbiamo attirato nei centri di produzione scientifica lombardi oltre 60 eminenti ricercatori stranieri che hanno affiancato e condiviso concretamente le competenze maturate in anni di carriera con oltre 200 giovani ricercatori impegnati nella realizzazione di progetti innovativi che hanno inciso sui percorsi di crescita professionale dei giovani talenti ma anche sulla crescita della produttività scientifica dei laboratori. Non solo: la Fondazione non si è limitata a sostenere la creazione di nuova conoscenza attraverso la ricerca ma ha promosso la valorizzazione dei suoi risultati e il loro impatto sul sistema economico-produttivo lombardo. Abbiamo creato il primo fondo italiano di venture capital (TTVenture) per favorire il trasferimento tecnologico, abbiamo promosso la creazione di incubatori d'impresa ad alto contenuto tecnologico (Fondazione Filarete a Milano e Como Next a Lomazzo) e abbiamo dato il via, in partnership con Microsoft, a un programma di sostegno alla formazione tecnologica e imprenditoriale che offrirà a oltre 17 mila giovani in tutta Italia l'opportunità di partecipare a un percorso finalizzato alla creazione di nuove start-up. Non solo tecnologia ma anche cultura: con Funder35, iniziativa nazionale, in collaborazione con altre fondazioni di origine bancaria, abbiamo sostenuto progetti di giovani che vogliono avviare attività imprenditoriali in ambito culturale. Non solo: non possiamo dimenticare che oltre al lavoro esiste per le giovani generazioni il problema della casa. Le esperienze in tema di housing sociale hanno dimostrato di funzionare, consentendo alle giovani coppie di poter affittare appartamenti a 400 euro al mese. Il piano nazionale di housing sociale, ispirato dalle fondazioni di origine bancaria, farà realizzare in Italia migliaia di appartamenti con un duplice risultato: far ripartire il mercato immobiliare fermo da tempo favorendo la nascita di posti di lavoro, anche per i giovani. Ho fatto questi esempi per dare prova del fatto che ci sono vie tracciate da seguire. Fondamentale sarà dar seguito a queste esperienze: chi avrà il compito di realizzare la programmazione per il nostro Paese può farne tesoro: possono nascere un confronto e nuove partnership, a cui guardiamo con favore. L'obiettivo è di arginare la rassegnazione che spesso leggiamo negli occhi dei giovani, restituendo loro l'entusiasmo, con prospettive concrete sul fronte casa, formazione e lavoro. Presidente di Fondazione Cariplo _____________________________________________________ Il Sole24Ore 25 mar. ’13 AL VIA I PRIMI TEST PER LE MATRICOLE Università. Prove di logica, lingua e cultura generale per l'ammissione ai corsi di laurea a numero programmato Lavoro Ingegneria, economia, design: filtro all'ingresso in una ventina di atenei A CURA DI Francesca Barbieri La parola d'ordine, quest'anno, è «giocare d'anticipo». Dopo il decreto del ministero dell'Università che fissa a luglio, e non più a settembre, le prove d'ingresso delle facoltà a numero chiuso programmato a livello nazionale (medicina, architettura, odontoiatria), in molti atenei sta partendo in questi giorni la girandola dei test di ammissione per quei corsi con barriere all'ingresso stabilite in autonomia dai poli. Una ventina di università, secondo i dati raccolti dal Sole 24 Ore, sta predisponendo il calendario delle prove, che in genere riguardano le facoltà di ingegneria, economia, legge e design. Così, per i circa 200mila giovani (sui 450mila diplomati) che tra giugno e luglio dovranno affrontare la maturità e aspirano a entrare in una facoltà a numero programmato è già tempo di mettersi in gioco. Primi a partire Ha già aperto le selezioni il Politecnico di Milano: durante l'Open day di sabato scorso centinaia di ragazzi si sono cimentati nel test di ammissione, che può essere sostenuto non solo dai “già diplomati” alle superiori, ma anche da ragazzi del quarto anno, che possono in questo modo “prenotare” il proprio ingresso al Politecnico in largo anticipo. Previste poi tantissime altre chance da qui fino ai primi di luglio (si veda la scheda a lato). E se architettura segue il calendario fissato dal Miur (25 luglio), da quest'anno, per la prima volta, il Politecnico propone un test d'ingresso alla Scuola del design diverso rispetto a quello ministeriale di architettura, che si svolgerà nel pomeriggio del 25 luglio. Ed è partito addirittura il 19 marzo il Politecnico di Torino, con il primo round per gli aspiranti ingegneri. Sarà possibile sostenere ancora la prova (Til-Test in Laib) nelle sessioni di aprile, maggio, luglio, oppure a settembre. Il conto alla rovescia è partito anche per la Luiss: il 18 aprile si terrà il prossimo test di ammissione ai corsi di laurea triennale e magistrale a ciclo unico, a Roma e in altre 29 città. I posti messi a disposizione per economia, scienze politiche e giurisprudenza sono poco più di mille. I contenuti dei test Nelle prove di ammissione quesiti di matematica, logica, comprensione del testo, a volte fisica e lingua inglese: al Politecnico di Torino, per esempio, è necessario rispondere a 42 quesiti in un'ora e mezzo, scegliendo tra cinque alternative possibili e raggiungere un punteggio minimo per essere promossi. Alla Bocconi di Milano la selezione tiene conto non solo del punteggio, ma anche del curriculum (50%) e di eventuali certificazioni linguistiche (5%). Per l'anno prossimo saranno attivate 21 classi di primo anno composte ciascuna da 125 studenti, 150 per il solo corso in giurisprudenza, per un totale di 2.675 iscritti. «La partecipazione alla selezione primaverile - avvertono dall'ateneo -, nella quale viene messa a disposizione la maggior parte dei posti, è fortemente consigliata perché consente di anticipare la scelta e programmare l'inserimento». È i invece obbligatori a i solo per gli studenti con voto di maturità inferiore a 80/100, la prova iniziale della Liuc di Castellanza (Varese): un test unico per e iconomia, g iiurisprudenza, i ingegneria diretto a valutare le attitudini nell'ambito della logica e della comprensione del testo e le conoscenze nell'area di alcuni elementi della matematica di base e della cultura generale e attualità. Anche per quest'anno , i poi, il consorzio interuniversitario Cisia sta preparando le sessioni di «Tolc», il test online a cui sarà possibile partecipare ne igli atenei aderenti (12 finora), composto da 40 quesiti suddivisi in 4 sezioni (matematica, scienze, logica, comprensione verbale). iSpesso questo test viene usato da lle università i non tanto come strumento di selezione vera e propria , i ma per orientare le aspiranti matricole: in altre parole, le facoltà non prevedono un numero chiuso ma solo una valutazione delle conoscenze scolastiche. Prevede, infine, di inserire in calendario nuovi test l'Alma Mater di Bologna: «Abbiamo aumentato i corsi a numero programmato - concludono dal l'ateneo felsineo - e stiamo in questi giorni ipreparando i regolamenti interni e stilando il calendario delle prove». © RIPRODUZIONE RISERVATA Il calendario Le date dei test di ammissione programmati a livello nazionale e a livello locale dalle principali università TEST PROGRAMMATI A LIVELLO NAZIONALE Le prove di ammissione dei corsi a numero chiuso programmato a livello nazionale seguono il seguente calendario: - 15 aprile: medicina e chirurgia in inglese - 23 luglio: medicina e chirurgia; odontoiatria - 24 luglio: medicina veterinaria - 25 luglio: architettura - 4 settembre: professioni sanitarie www.miur.it UNIVERSITÀ BOCCONI In palio 2.675 posti per le lauree triennali. La sessione primaverile dei test si svolgerà il 10 maggio (domande fino al 23 aprile) a Milano, Bari, Cagliari, Napoli, Padova, Palermo, Rimini e Roma. La sessione autunnale si svolgerà il 29 agosto nella sede di Milano. La selezione si basa su: 50% curriculum scolastico; 45% performance nel test; 5% certificazioni di lingua inglese e/o informatiche. www.unibocconi.it UNIVERSITÀ CATTOLICA Si terrà il 3 aprile, con iscrizioni entro il 26 marzo, il primo test scritto per accedere ai corsi di laurea triennale della facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Milano. Previste altre due date: sabato 25 maggio e lunedì 15 luglio, rispettivamente con presentazione di domande di ammissione sabato 18 maggio e lunedì 8 luglio. www.unicatt.it UNIVERSITÀ LIUC Il test d'ammissione è obbligatorio per gli studenti con voto di maturità inferiore a 80/100. La prova - unica per Economia, Giurisprudenza e Ingegneria - è diretta a valutare le attitudini nell'ambito della logica e della comprensione del testo e le conoscenze di matematica, cultura generale e attualità. Il test si svolge sia alla Liuc di Castellanza (Varese) - il prossimo 19 aprile - sia in numerose altre città - il 15 e 16 aprile. Per informazioni www.liuc.it/test UNIVERSITÀ LUISS Il 18 aprile a Roma si terrà il prossimo test di ammissione ai corsi di laurea triennale e magistrale a ciclo unico. Oltre a quella di Roma sono 29 le sedi dislocate su tutto il territorio nazionale. Iscrizione alla prova possibile solo via internet entro il 15 aprile. Posti: 1.040). Test di ammissioni magistrali: 16 maggio (iscrizioni entro il 13 maggio) www.luiss.it POLITECNICO DI MILANO Sono partiti sabato scorso i test online per l'ammissione ai corsi di laurea delle scuole di ingegneria; i prossimi sono fissati mercoledì 17 aprile (a Cremona) e sabato 20 aprile. Le successive scadenza sono consultabili sul sito www.polimi.it/servizionline e si svolgeranno nei mesi maggio, giugno e luglio. La scuola di design da quest'anno propone un test diverso rispetto a quello di architettura, che si terrà il 25 luglio POLITECNICO DI TORINO Per i corsi in ingegneria il calendario delle prove è già partito il 19 marzo scorso; le prossime date sono: 17 aprile; 16 maggio, più due date in luglio e settembre ancora da definire. La prova consiste nel rispondere a 42 quesiti in un'ora e mezzo: ¦18 quesiti di matematica in 40 minuti; 6 di comprensione verbale in 12 minuti; 6 di logica in 12 minuti; 12 di fisica in 26 minuti. http://orienta.polito.it/Informazioni_Ianno.html UNIVERSITÀ DEL CONSORZIO CISIA Sono 12 le università che proporranno alle matricole di ingegneria il test realizzato dal consorzio Cisia. Si tratta di Bergamo, Brescia, Cassino, L'Aquila, Modena e Reggio Emilia, Napoli Parthenope, Parma, Pavia, Salerno, Siena, Trento, Politecnico di Milano (che riconosce valido il test, in alternativa a quello proposto direttamente). Per il calendario e i dettagli sul test consultare il sito www.cisiaonline.it, sezione Tolc _____________________________________________________ Il Sole24Ore 25 mar. ’13 TEST: NEL PUNTEGGIO DEBUTTA IL VOTO DELLE SUPERIORI Barbara Bisazza La riforma nazionale dei test d'ingresso debutta il 15 aprile con le prove per i corsi di laurea in medicina e chirurgia in lingua inglese. Gli anni scorsi la prova era fissata per l'inizio di settembre, con iscrizioni entro agosto ad esame di maturità completamente archiviato; quest'anno, invece, le iscrizioni si sono chiuse il 20 marzo. In palio (Dm 14 febbraio 2013 n. 109) ci sono 290 posti per studenti comunitari e non, da distribuire nelle facoltà di Bari, Milano, Napoli Seconda Università, Pavia, Roma "La Sapienza", Roma "Tor Vergata". Quest'anno i quesiti concorreranno al punteggio finale nella misura massima di 90 punti su 100; altri 5 punti dipenderanno dalla conoscenza linguistica e gli ultimi 5 dai voti conseguiti durante gli anni delle superiori nelle principali materie di studio. Potrebbe essere un assaggio delle novità che interesseranno anche i test d'ingresso di luglio per i corsi di medicina, odontoiatria, veterinaria, architettura, per i quali si attende a giorni il Dm che fissi le modalità operative: per analogia, il test potrebbe pesare per 90 punti, mentre 10 potrebbero dipendere dai voti dell'ultimo triennio e da quello di maturità. Nei giorni scorsi il ministro Profumo ha anticipato che gli argomenti saranno più attinenti ai programmi delle superiori, le domande meno specialistiche e quelle di cultura generale saranno ridotte. Da fine aprile dovrebbero anche essere in rete i test attitudinali e i simulatori per i test d'ingresso ai corsi di medicina, odontoiatria e veterinaria. Per l'anno accademico 2014-2015, intanto, il ministero si è portato avanti: a parte le professioni sanitarie, le cui prove di ammissione si svolgeranno il 3 settembre 2014, gli altri test d'ingresso saranno anticipati all'8-9-10 aprile. _______________________________________________________________ Avvenire 26 mar.’13 RICERCA, ITALIA CENERENTOLA TRA I PAESI UE La presidente del Consiglio europeo di ricerca: la media è dell' 11%. Un terzo dei finanziamenti assegnati a scienziati italiani che lavorano all'estero Emma Nowotny (Ecr): accolto solo i15% delle richieste italiane DA BRUXELLES GIOVANNI MARIA DEL RE La ricerca e le università in Italia devono essere urgentemente modernizzate all'insegna della concorrenza e della qualità, ponendo fine a nepotismi e raccomandazioni, e servono più investimenti pubblici. Altrimenti, la competitività italiana è a rischio. Non ha peli sulla lingua Helga Nowotny, professore di Scienze sociali al Politecnico di Zurigo e presidente del Consiglio Europeo di Ricerca (Erc), l'istituzione Ue preposta al finanziamento di ricercatori e dei loro team dei Ventisette (più Israele, Svizzera, Islanda, Norvegia, Croazia e Turchia). «Vede - spiega - il problema è da un lato che l'università e la ricerca è sotto-finanziata, ma dall'altro che l'Italia ha realizzato solo in parte la modernizzazione necessaria per rendere competitive le università. Il Paese conta debolezze nel sistema che riguardano anche la selezione interna: la ricerca deve essere basata esclusivamente su criteri scientifici, e invece in Italia troppo spesso subentrano "altri" criteri. Questo - osserva ancora - ha un impatto negativo sulla qualità della ricerca. È un pericolo, perché in gioco è la competitività del Paese e della sua economia». Sento dire che il tasso di successo delle domande inoltrate a voi dell'Erc da ricercatori italiano sia molto basso... Purtroppo è così. Siamo letteralmente inondati da domande di finanziamento da parte di ricercatori italiani in ogni settore. Ebbene, dal 2007 a oggi solo il 5% ha avuto successo contro una media Ue dell'Il% (per la Svizzera è del 23%, per la Francia è del 16%, per il Regno Unito de114% e per la Germania del 13%, ndr). Perché questo? I Paesi con i più elevati tassi di successo, come Svizzera o Francia, sono quelli in cui è molto sviluppata la cultura della competitività, con la voglia o la consapevolezza dei ricercatori di appartenere alla "serie A". Questo viene accompagnato da una grande capacità di auto- valutarsi, di rendersi conto di che cosa voglia dire alta qualità da "serie A" e quale non lo sia. In Italia invece si toccano con mano gli effetti del fatto della selezione non fondata solo su criteri scientifici. Un disastro generale? Un momento: ci sono tanti eccellenti ricercatori italiani. Un potenziale enorme per il Paese. Solo che, purtroppo, un terzo dei nostri finanziamenti sono andati a italiani operanti all'estero, un record. Questo perché molti in Italia non ricevono il sostegno necessario. Recentemente un ricercatore italiano, che ha ottenuto da noi dell'Ecr un finanziamento da due milioni di euro, mi ha raccontato di aver scritto al rettore della sua università in Italia per discutere di un miglioramento della sua situazione, grazie ai fondi ottenuti dall'Ue. Per sei settimane ha atteso invano una risposta, poi ha ricevuto un'offerta dalla Gran Bretagna, e se n'è andato. E purtroppo non è caso singolo. Insomma quella della scarsità dei fondi è solo una scusa per i problemi della ricerca italiana? Oggettivamente l'Italia investe troppo poco nella ricerca e nell'Università, poco più dell'1% del pil, che è la soglia sotto la quale non c'è chance per il settore. Che cosa dovrebbe fare l'Italia? Anzitutto, dovrebbe investire di più nella ricerca, se ci avvicinassimo al 2% del pil sarebbe già molto. Inoltre si tratta di rivedere l'intero sistema, migliorando drasticamente i metodi di selezione e chiamata e puntando sulla massima qualità. Le faccio l'esempio della Germania, con la cosiddetta "Iniziativa eccellenza". I tedeschi hanno avuto il coraggio di dire: alcune università avranno più fondi perché riteniamo che sono le migliori ed è là che dobbiamo concentrare le risorse disponibili. E così gli atenei si trovano a dover competere per rientrare nella rosa dei migliori. Funziona. Perché vede, non è più possibile finanziare una galassia di università sparse ovunque, magari per orgoglio politico o di campanile. _______________________________________________________________ Osservatore Romano 26 mar.’13 DOTTOR DIDOCCUPATO ROMA, 25. Laurearsi non basta più per trovare un impiego in Italia. Se fino a qualche anno fa, a torto o a ragione, il "pezzo di carta" veniva visto come lasciapassare per il mondo del lavoro, adesso anche l'Istat ha certificato che la laurea non e più l'elemento chiave per potere essere assunti. Il 2012, infatti, ha registrato un’impennata di giovani laureati senza lavoro, con i dottori sotto i 35 anni in cerca di un impiego arrivati ormai a sfiorare quota 200.000. Si tratta di una crescita di circa il 28 per cento rispetto al loti e quasi del 43 per cento se paragonata al 2008, l'anno di inizio della crisi. I numeri più alti si registrano tra le ragazze e nel Mezzogiorno, ma sí tratta di un fenomeno quasi senza confini, tanto che in tutto, senza guardare all'età, in Italia si contano oltre 300.000 persone disoccupate, nonostante nel cassetto conservino un titolo di studio universitario. Le cifre fornite dall'Istat sulle forze lavoro 2012 confermano, quindi, come ormai neanche il tanto agognato "pezzo di carta" possa oggi rendere immuni dalla crisi economica La scarsa domanda di lavoro, la penuria di posti liberi da riempire, i tagli occupazionali sempre più marcati, si fanno così sentire su chi può vantare l'istruzione più alta, ovvero un certificato di laurea o post-laurea, nonostante rappresentino ancora una piccola fetta della popolazione. Infatti, come è emerso dal rapporto Istat-Cnel sul benessere equo e sostenibile, nel 2011 solo il 20,3 per cento dei 3o-35enni risulta aver conseguito un titolo di studio universitario, il livello più basso tra tutti i Paesi dell'Unione _______________________________________________________________ Il Manifesto 27 mar.’13 ISTITUTO CATTANE0 LAUREATI, LA DISOCCUPAZIONE NON È SOLO COLPA DELLA CRISI La disoccupazione dei laureati è legata alla storica incapacità dell'economia italiana di assorbire la forza lavoro qualificata. È la tesi del ricercatore Carlo Barone dell'Istituto Cattaneo di Bologna, a commento dei risultati delle analisi sulla condizione occupazionale dei laureati condotte da Almalaurea e Almadiploma e poi riprese dall'Istat (ne ha parlato «Il Manifesti> il 12 marzo e il 21 febbraio scorsi). Sono almeno tre decenni che l'economia del terziario avanzato non riesce a risolvere il problema dell'occupazione dei • lavori da laureati»: dirigenti, impiegati qualificati, liberi professionisti e freelance). E dal 2008 il numero dei disoccupati in questa fascia socio: professionale è aumentato del 43%. Tra le cause individuate dal Cattaneo c'è un'economia basata su piccole imprese a basso utilizzo di capitale umano qualificato» e il blocco del «Turnover» nel pubblico impiego, tradizionale sbocco per un quarto dei laureati italiani, a cominciare dalla scuola. Questo è il paradosso della bolla formativa italiana: c'è una grande disoccupazione intellettuale di massa, ma le imprese non assumono e, per alcuni profili, non trovano i candidati adatti. A dispetto della diminuzione delle immatricolazioni denunciata dal Cun, e nonostante il fallimento della riforma di centrosinistra »Berlinguer- Zecchino», aumentano i laureati, Gli ingegneri impiegano in media 4 mesi per trovare lavoro, i laureati in scienze politiche nove. _______________________________________________________________ Libero 29 mar.’13 IL 110 NON BASTA PIÙ CONTA IL CURRICULUM» Vittadini (Fondazione Sussidiarietà): «Le aziende scelgono chi ha svolto stage di alto livello e si è specializzato» :2 ALESSANDRO GIORGIUTTI Più che una fotografia, la ricerca su neolaureati e mercato del lavoro realizzata dalla Fondazione Sussidiarietà, in collaborazione con l'Università Cattolica e Almalaurea, è un film. L'indagine, che ha coinvolto 5.750 laureati a quattro anni dal conseguimento del titolo di studio, ora impegnati in attività lavorative, rivela infatti un'università in movimento. «Una realtà dinamica», dice Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione Sussidiarietà: «Gli atenei stanno comprendendo che i corsi di studi tradizionali non bastano più: bisogna mettere a disposizione degli studenti servizi di piace- meni, anche in collaborazione col non profit, per avviarli al mondo del lavoro. E valorizzare le esperienze all'estero, al di là del classico Erasmus: fare uno stage, sostenere un esame o discutere la tesi fuori confine arricchisce un curriculum in modo decisivo. L'importante, comunque, è innovare. Come al Politecnico di Milano, dove dal prossimo anno gli esami della specialistica saranno in inglese». Le università cambiano, ma cambiano anche gli studenti? «Sì. La ricerca ha messo in luce che non sono affatto choosy, schizzinosi, nelle loro scelte educative e professionali. Più della metà di loro è disposto a cambiare regione e anche nazione, se necessario. Il loro obiettivo non è il posto fisso, vogliono imparare. I riscontri sono buoni. Le imprese preferiscono nettamente questo tipo di laureati. Il cui stipendio, non a caso, è più alto della media». Qual è l'identikit dello studente di successo? «È l'intraprendente. Cerca stage e specializzazioni di alto livello, soprattutto all'estero, e ha un cosiddetto capitale relazionale alto: il che vuol dire, per esempio, che partecipa attivamente ad attività di volontariato». E ha buoni voti... «Ha buoni voti ma questo conta meno, perché ormai, a causa di uno sciagurato appiattimento in alto, i voti sono comunque altissimi: dalle nostre specialistiche si esce in media con il 108. Per alcune facoltà la media è 110. Comprensibile allora che, al momento dell'assunzione, questo sia un fattore secondario. Conta invece il curriculum, la disponibilità ad essere flessibili. Il colloquio aziendale standard non esiste quasi più. Oggi, per esempio, il candidato viene inserito in un gruppo e deve affrontare un problema in collaborazione con gli altri, oppure, in un bosco, di notte, deve trovare la via dell'albergo... In circostanze simili, saper ripetere la lezione appresa su un manuale non basta più». Ma quali sono oggi gli sbocchi per gli studenti di successo? «Soprattutto i settori education, chimico e petrolchimico, manifatturiero. E spesso la via è quella del concorso, cui si arriva grazie a servizi di outolacement universitari». L'identikit del cattivo studente, invece? «È il rassegnato. Non è flessibile, non è andato all'estero, ha magari ottenuto un contratto di apprendistato grazie allo sfruttamento di canali relazionali e nel luogo di lavoro non usa competenze apprese in aula. La sua provenienza sociale è il ceto medio dipendente, i suoi stipendi sono più bassi». Oltre alle scelte nell'università conta anche la scelta dell'università. «I problemi sono due: la scelta spesso si basa su mode che, al momento del conseguimento della laurea, sono passate. E poi c'è anche la paura di materie ostiche, come matematica o ingegneria. Ma anche qui stiamo assistendo a un cambiamento. Una minoranza (il 30-35%) dei giovani si sta orientando su questi corsi di laurea più duri. Il risveglio però è legato alle aree geografiche: al Sud è ancora difficile scalfire il primato delle facoltà giuridiche e umanistiche. Però, a proposito del Mezzogiorno, va registrata una interessante tendenza di lungo periodo....». Quale? «Una migrazione dai piccoli atenei del Mezzogiorno alle università delle grandi città. A Roma e Milano il numero degli iscritti è cresciuto del 10-15%. A rimetterci sono le piccole facoltà meridionali anche di prestigio. Non è un caso se gli studenti della Bicocca ormai vengono per un terzo da fuori regione. Milano sta diventando per la prima volta una città di studenti fuori sede». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 26 mar. ’13 I CERVELLI IN FUGA? TRENTAMILA ALL'ANNO Risorse umane. Asse tra Mip Politecnico e multinazionali per arginare il fenomeno TREND IN CRESCITA I laureati italiani che vivono al di fuori dei confini nazionali sono oltre trecentomila, sono 42mila gli iscritti agli atenei di altre nazioni Giacomo Bassi I numeri dei giovani italiani all'estero sono impressionanti: 42mila sono iscritti negli atenei di altre nazioni, secondo le stime i laureati che vivono fuori dai confini nazionali sono oltre 300mila e gli under 40 che ogni anno espatriano per non tornare indietro sono trentamila. Un patrimonio di talenti che il sistema produttivo italiano e le sue aziende non possono lasciarsi sfuggire in un momento di crisi come l'attuale segnato da tassi di disoccupazione giovanile superiori al 30% e da difficoltà di innovazione delle imprese. Ed è per questo, e per trovare delle soluzioni in grado di arginare il brain drain, la fuga dei cervelli, che Procter&Gamble e il Mip, la School of Management del Politecnico di Milano, hanno organizzato una giornata di studio e riflessione alla quale sono stati invitati dirigenti italiani con un curriculum internazionale di importanti imprese globali, da Vodafone a Edison. «I Paesi più forti sono anche quelli che hanno politiche attive in grado di attrarre e mantenere il maggior numero dei talenti – ha sottolineato Gianluca Spina, presidente del Mip –: l'Italia importa manodopera non qualificata ed esporta i suoi migliori cervelli, laureati e ricercatori. Nel contempo, gli atenei non riescono ad attrarre studenti stranieri: ad oggi sono meno del 4% del totale degli iscritti. Nel lungo termine, questo riduce il valore del capitale umano del nostro Paese e impoverisce le imprese e la società nel suo complesso». Un handicap che pesa sia sul piano sociale sia su quello industriale: ogni anno il valore monetario generato dai brevetti depositati all'estero da ricercatori italiani è di oltre un miliardo di euro. «In Italia ci sono tanti talenti validi, con ottime basi accademiche e con skill come creatività, tensione all'innovazione e propensione al cambiamento che sono fondamentali per il mondo del lavoro – ha detto Filippo Passerini, chief information officer globale di P&G –. Purtroppo si è perso il valore della meritocrazia: i giovani sono disposti ad andare all'estero dove le protezioni del lavoro sono minori che in Italia perché vogliono avere riconosciuto il loro valore». E il valore delle persone deve essere al centro della mission di tutte le aziende: «Attrarre talenti è come attrarre investimenti – ha concluso il presidente di Vodafone, Pietro Guindani –. Purtroppo le difficoltà per riuscire a far arrivare da noi i migliori cervelli stranieri sono enormi: la burocrazia rallenta i tempi, i servizi sono insufficienti, la cultura è da svecchiare. E questi sono anche i motivi per cui i nostri migliori giovani vanno all'estero e tornano raramente». © RIPRODUZIONE RISERVATA _______________________________________________________________ Il Mattino 28 mar.’13 SUD. RITORNANO I CERVELLI IN FUGA CON I FONDI UE Via al progetto «Messaggeri della conoscenza» 113 iniziative per aiutare gli atenei meridionali Nando Santonastaso Non solo cervelli in fuga dal Sud. Anzi, stavolta sembra vero il contrario: cervelli in fuga che tornano. Magari per poche settimane, al massimo per qualche mese: ma il segnale è forte e, inaspettatamente, corposo sul piano numerico. Parliamo del progetto «Messaggeri per la conoscenza», nato da un'intuizione del ministro per la Coesione territoriale Fabrizio Barca e subito appoggiato dal collega dell'Istruzione e dell'Università Francesco Profumo. Ricercatori italiani (e stranieri) che lavorano negli atenei europei, americani o asiatici (cinesi compresi) stanno per tornare in Italia per insegnare nelle università del Meridione. Con le loro conoscenze, finalizzate a progetti specifici individuati dai Dipartimenti degli stessi atenei, contribuiranno a garantire non solo un ulteriore salto di qualità alle accademie «made in Sud» ma anche a convincere i giovani studenti che non è sempre necessario trasferirsi al Nord per migliorare le loro conoscenze. Terranno veri e propri corsi al termine dei quali verranno selezionati i migliori allievi i quali, a loro volta, parteciperanno a stage presso gli atenei o i centri di ricerca di provenienza dei loro docenti. Naturalmente anche per loro c'è «l' obbligo» di rientrare in Italia per trasferire le competenze ai loro colleghi. Una «contaminazione» per usare le parole di Barca, che dovrebbe impedire - o almeno ritardare - la partenza dei laureandi e laureati per altri lidi universitari. Chi paga? L'Europa, attraverso fondi appositamente previsti all'interno del Piano di Azione e Coesione che ancora una volta mostra di essere un serbatoio di assoluta affidabilità per aiutare i processi di formazione delle giovani generazioni meridionali. Più di 4 milioni già disponibili. L'operazione è arrivata alla fase operativa. Ne parleranno stamane in una conferenza stampa a Roma gli stessi Barca e Profumo ma è già possibile anticipare cifre e direttrici. I progetti approvati da un Comitato di selezione insediato al Miur, sono in questa fase 113 rispetto ai 141 complessivamente selezionati (350 invece il totale di quelli presentati alla scadenza del bando, avvenuta nello scorso dicembre). I soldi, come detto, per metterli in pratica ci sono: nei 4 milioni di euro è compresa anche la copertura dei costi sostenuti dai Dipartimenti. Insomma, tutto spesato, nell'ottica di un metodo operativo che dovrebbe diventare assoluta normalità e che invece appare ancora episodico. Si parte ad horas, nel senso che già in primavera scatteranno i corsi gestiti dai ricercatori di ritorno (che non sono tutti italiani per la semplice ragione che un bando europeo dev'essere per legge aperto a tutti). Le aree di riferimento sono medicina, ingegneria, matematica, fisica, sociologia ed economia. Lo scenario di partenza non è incoraggiante come anche le ultime statistiche sul rapporto laureati- occupati dimostrano. Nel Mezzogiorno il 42% dei laureati è ancora senza lavoro e la gestione dei fondi europei, che pure è migliorata tantissimo nell'ultimo periodo del 2012, è un nervo ancora scoperto per le amministrazioni regionali dell'area. Ma arrendersi alla rassegnazione non avrebbe senso. I «Messaggeri» possono diventare un incentivo alla speranza senza dimenticare il valore formativo - in molti casi a livelli di eccellenza - che quotidianamente viene erogato dagli atenei di Napoli, Palermo, Bari, Reggio Calabria o Messina. Una ventata di entusiasmo peraltro è già nelle cifre dell'iniziativa: nemmeno Barca, che pure di natura è ottimista, si aspettava adesioni così massicce. Una svolta? Forse. Di sicuro, come spesso ha ripetuto lo stesso ministro, un colpo a vecchi pregiudizi sul sistema formativo del Sud. Di questi tempi sembra oro colato. _______________________________________________________________ La Stampa 27 mar.’13 A SCUOLA I LIBRI DIVENTANO DIGITALI Annuncio del ministro Profumo: la rivoluzione tra un anno e mezzo. Scetticismo tra gli editori I testi potranno avere anche una parte cartacea: l'obiettivo è ridurre i costi del 30 per cento RIMA AMABILE ROMA Addio ai libri di carta: fra un anno e mezzo nelle classi entreranno solo libri digitali o in forma mista con una sola eccezione: la prima e la terza classe delle superiori potranno confermare ancora per due anni (fino al 2015/16) i testi adottati. Per il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo è il risultato di una battaglia durata più di un anno e culminata in un lungo e difficile incontro al ministero giovedì scorso con gli editori durato quattro ore e mezza. Ieri la firma sul decreto.. Anche il governo Berlusconi aveva inutilmente tentato di introdurre i libri digitali nelle scuole senza troppo successo per le resistenze degli editori e le pressioni politiche da parte di tutti i partiti. Il ministro Profumo a deciso di andare avanti comunque, ritenendo di avere a sostenerlo le cifre del gradimento della scuola 2.0 raccolto in una sorta di sondaggio interno: le domande di lavagne e pc superano di tre volte i 40 milioni di euro messi a disposizione. E di aver introdotto una modifica sostanziale al provvedimento: non si trattava - come nella versione prevista dal precedente governo - di un libro scaricabile da Internet dai siti delle case editrici, che diventava soltanto un ulteriore spreco di carta e una zavorra anche più pesante negli zaini, ma dì un vero e proprio libro digitale o in forma mista, costituiti da una parte di testo tradizionale che può conservare la forma cartacea ma è solo una parte limitata del volume. Il resto - dagli esercizi, alle foto, alle mappe o i documenti storici - è in forma digitale e permette una ricchezza di consultazione e una facilità di trasporto che non temono paragoni, sostengono al ministero. Il Miur, quindi, promette di alleggerire i pesantissimi zaini degli studenti italian, di ampliare i materiali a disposizione degli studenti ma anche risparmi. I prezzi di copertina dei libri, definiti per l'anno scolastico 2013/2014, restano confermati anche per il 2014/2015, si riducono i tetti di spesa entro cui il Collegio dei docenti deve mantenere il costo complessivo dei testi adottati. La riduzione, rispetto ai limiti stabiliti per l'anno scolastico 2013/2014, è del 20%. Ma nel caso in cui l'intera dotazione libraria sia composta esclusivamente da libri in versione digitale la sforbiciata è più consistente, con una riduzione che arriva fino al 30%. I nuovi tetti si applicano per le adozioni dei libri della prima classe della scuola secondaria di I grado e della prima e della terza classe della secondaria di II grado. Per le rimanenti classi restano validi i limiti già definiti per le adozioni relative all'anno scolastico 2013/2014. I risparmi ottenuti potranno essere utilizzati dalle scuole per dotare gli studenti dei supporti tecnologici necessari (tablet, PC/portatili) ad utilizzare al meglio i contenuti digitali per la didattica e l'apprendimento. I professori potranno consultare gratuitamente una demo illustrativa dei libri di testo su una piattaforma che il Ministero metterà a disposizione. Critici i sindacati. Per la Uil si tratta di un decreto di cui «si fa fatica a cogliere l'utilità». Per la Cisl non è «nulla di nuovo» e promettono di vigilare contro eventuali rincari. _______________________________________________________________ Il FOglio 28 mar.’13 LIBRI DIGITALI: UNA LAPIDE PER STUDENTI VIRTUALI Il tablet al posto dei libri veri, bel modd per rincretinirsi fin da piccoli e i trattasse solo di leggerli, si potrebbe O fare pure sulla mesta, fredda lapide della "tavoletta". Ma solo le persone molto strane - e molto da avere in sospetto - i libri li leggono e basta: certi, nemmeno li aprono del tutto, solo uno spiraglio del 40 per cento, tanto per afferrare le parole (lettori con sguardo da secondini), così da non lasciare pieghe sul dorso. I libri hanno diverse funzioni: si sottolineano, servono per prendere appunti, segnare un numero di telefono, fare le orecchie, lasciare impronte. Un libro va divorato, segnato, marchiato. Magari poi abbandonato - ma con il segno di sé impresso per sempre. La decisione del ministro Francesco Profumo, che ha decretato un residuale anno di vita ai libri di scuola prima di scaraventarli nel Grande Nulla del digitale, ha di sicuro qualche fondato motivo - a cominciare, si spiega, da un risparmio sul costo dei volumi destinati agli alunni: certi di qualità, certi di certificata inutilità, fino alla sconfinata bruttura (estetica, di linguaggio) di molti testi universitari. Si comincia – ciò che era elementare è diventata morta lingua burocratica - dalle "classi prima e quarta della scuola primaria, la classe prima delle scuola secondaria di I grado, la prima e la terza classe della secondaria di II grado" (chiamate il notaio!), registrando così la perdita di un'eterna figurante del teatrino italiano: la mamma del pargolo che piantonava lo studio del medico della mutua per accertare i rischi di scoliosi della creatura, piegato sotto il peso del voluminoso ingombro di sussidiari, antologie, scienze. Rendere fin dalla più tenera età impalpabile il rapporto con i libri - togliere la fisicità senza la quale nessun vero amore può durare: è questione di ormoni pure tra il lettore e il suo libro - placherà qualche timore materno, porterà a un non disprezzabile risparmio, ma forse favorirà il passaggio diretto dalle pagine digitali alla già radicata scemenza virtuale. Che il bambino debba subito capire che c'è più fatica nella partita di tennis che nei libri da portarsi dietro mica pare predisporre a una grande futura apertura mentale. Tre chili non hanno mai schiantato nessuno _______________________________________________________________ Wired 27 mar.’13 SCUOLA DIGITALE, UNA RIVOLUZIONE A METÀ Il ministro Profumo ha dato il via all'adozione dei libri scolastici esclusivamente digitali o misti. Secondo editori, esperti e genitori, però, le criticità sono ancora troppe 27 marzo 2013 di Martina Pennisi L' Agenda digitale si accomoda sui banchi di scuola, che traballano un po'. Ieri il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo ha firmato il decreto che prevede l'adozione di libri di testo misti o completamente digitali nelle scuole elementari (prima e quarta), medie (prima) e superiori (prima e terza) a partire dall' anno scolastico 2014/2015. Le famiglie, sottolinea il ministero con un comunicato, potranno risparmiare il 20% della spesa dedicata all'acquisto dei volumi nel caso in cui gli istituti propendano per la forma mista, libro cartaceo più contenuti presenti in Rete quindi. Se il formato sarà solo digitale si potrà arrivare al 30%. Il ministero metterà a disposizione degli insegnanti una piattaforma mediante la quale consultare i testi per procedere con l'eventuale adozione. Secondo il professore dell'Università Bicocca di Milano e consulente del Miur Paolo Ferri è "difficile parlare di innovazione quando non c'è la possibilità di finanziarla: i dati Ocse ci classificano in maniera pessima per gli investimenti nella scuola". Il primo intervento da fare sarebbe quello relativo al " cablaggio in fibra degli edifici scolastici, bisogna metterci almeno tre miliardi di euro", afferma Ferri, sottolineando come senza un'adeguata connessione a Internet è difficile, se non impossibile, fruire dei libri digitali. Bisognerebbe poi occuparsi " dell' alfabetizzazione degli insegnanti e stimolare gli investimenti nel settore da parte degli editori: l'offerta di Pearson è disponibile totalmente in digitale per i paesi anglofoni. Se in italiano non si sono ancora mossi è perché non c'è ancora mercato". Il decreto, in questo senso, può sicuramente dare una mano. Ma il problema dell' Iva non è stato affrontato e rimane tale, come fa notare a Wired.it il direttore di Rcs Education Giorgio Riva. " Se al 30% della riduzione del tetto di spesa per l'acquisto dei libri di testo aggiungiamo il 21% di Iva applicata ai libri digitali (per i cartacei è pari al 4%, nda) ci rendiamo conto che l'editore incasserà la metà di quanto accade attualmente. Con tutto ciò che ne consegue in un'ottica di produzione di buoni contenuti", spiega Riva. Dello stesso avviso Irene Enriques, direttore generale Zanichelli: " La diminuzione del tetto di spesa del 20% per i libri misti con una parte di carta e del 30% per le opere solo digitali mette a rischio posti di lavoro nel settore dell'editoria scolastica e nella filiera (grafici, cartai, librai, agenti). La digitalizzazione di qualità comporta investimenti elevati, assistenza ai clienti e formazione per i docenti". Alla chiamata odierna Rcs ha risposto con un portafoglio prodotti composto da 76 ebook fruibili via computer o mediante applicazione per smartphone o tablet Android o Apple. L'intenzione è quella di "incrementare l'offerta a doppia cifra nel corso del prossimo anno e di continuare a lavorare a contenuti interattivi e arricchiti di materiale fotografico e video", afferma Riva. Zanichelli invece pubblicherà quest'anno " circa 150 libri sulla nuvola, ebook multimediali e interattivi che, grazie alla tecnologia cloud, consentono di lavorare su diversi device sincronizzando il lavoro svolto, e di scaricare un capitolo alla volta. Vengono venduti a sé, ma anche insieme ai corrispondenti libri di carta". " Il decreto", tiene a sottolineare il dg Zanichelli: " non viene incontro agli editori. Alle scuole servono forti investimenti in tecnologia e in tecnici. Pochissime aule in Italia godono di un wifi abbastanza potente da garantire una buona connessione a una classe di studenti. I docenti hanno bisogno di formazione". Le famiglie poi dovranno sostenere maggiori spese: i reali 30 euro in media all'anno che il decreto permette di risparmiare non compensano i costi per device, manutenzione e connessione. Riva invece incalza: " Ormai noi ragioniamo in termini di progettazione multimediale dei contenuti, ad aver problemi potrebbero però essere le famiglie che saranno costrette a dotarsi di dispositivi e connettività adeguati anche a casa". I genitori, che si sono avvicinati all'universo dei libri digitali per bambini solo nel 30,3% dei casi ( fonte Natidigitali), confermano. Carla Motta, vice presidente del comitato Genitori e Scuola, invita a ricordare " le famiglie che non hanno competenze in materia e il 50% degli italiani che ancora non naviga in Internet". "Si tratta di iniziative positive che vanno innestate per gradi perché ci sono oggettive difficoltà da parte delle scuole", aggiunge Motta. E auspica l'adozione di iniziative come Book in progress, esperimento di una scuola brindisina che coinvolge gli insegnanti nella redazione dei libri, per abbattere i costi dei volumi e consentire alle famiglie di investire i soldi dispositivi. Laura, mamma di un bambino che l'anno prossimo comincerà la prima elementare, riconosce che " questa generazione è già abituata a utilizzare le tecnologie di cui stiamo parlando. I miei figli non avranno difficoltà, a casa abbiamo tutti gli strumenti. Ma quando abbiamo fatto l'iscrizione online mi sono resa conto che almeno il 20% delle famiglie non aveva a disposizione un computer o una connessione e si è dovuto recare in segreteria per completare l'operazione. Non dimentichiamoci degli stranieri e di chi ha problemi economici". Nella scuola che frequenterà Michele " c'è una lavagna interattiva in ogni classe, ma il collegamento a Internet c'è solo in segreteria e in aula di informatica". " A me viene un po' da ridere", afferma Monica. Sua figlia Sara andrà in quarta elementare e " almeno la metà dei suoi compagni di classe non ha gli strumenti adeguati" per affidarsi a libri totalmente digitali o misti. Voce fuori dal coro quella di Agostino Quadrino, direttore editoriale e amministrativo di Garamond. La realtà romana ha puntato totalmente sulla didattica digitale. " E' un passo importante nella direzione giusta", afferma Quadrino. Per fare il salto definitivo " bisognerebbe superare la logica dell'adozione del libro di testo e liberalizzare totalmente il settore", ci dice. Alle scuole, secondo Quadrino, andrebbero "assegnati fondi per accedere a servizi online a cui attingere per costruire il percorso didattico". Un approccio totalmente nuovo, quindi, che vede gli insegnanti affidarsi ai soli contenuti disponibili in Rete per creare le fonti da proporre agli studenti. Un futuro forse neanche così lontano. Ma adesso bisogna occuparsi del presente. _____________________________________________________ Corriere della Sera 25 mar. ’13 SÌ AI CELLULARI IN CLASSE LA SVOLTA «FAI DA TE» DELLA SCUOLA AMERICANA Strumenti informatici: «Portateli da casa» di CARLO FORMENTI Fino a poco fa all'ingresso di molte scuole americane era affisso il seguente avviso: vietato introdurre cellulari. Al suo posto campeggia ora la sigla BYOT — bring your own technology — che sarebbe scorretto tradurre con «portate pure i vostri gadget», perché non si tratta di una concessione, bensì di una direttiva: agli studenti viene esplicitamente prescritto di entrare in classe corredati di smartphone, tablet e, nel caso — improbabile, vista l'enorme diffusione di questi dispositivi fra i giovanissimi — ne fossero sprovvisti, sono ammesse perfino le play station. Perché questa svolta di centottanta gradi? La ragione di fondo è — banalmente ma non troppo, visti i tempi di crisi in cui viviamo — economica: molte scuole non hanno fondi sufficienti per ottemperare alle nuove direttive didattiche, le quali prevedono che ogni studente sia dotato di dispositivi per potersi connettere, fare ricerche in rete, interagire con i docenti e i compagni, ecc. Com'è noto, questa conversione della scuola alle tecnologie digitali ha suscitato vivaci polemiche (non solo negli Stati Uniti, dove la svolta è in atto da tempo, ma anche da noi, dove si prospetta imminente) fra favorevoli e contrari. I primi si dicono convinti che non abbia senso affliggere i giovani con metodi di apprendimento obsoleti e del tutto estranei al loro modo di interagire e comunicare. I contrari — che fra gli insegnanti sono la maggioranza, secondo due ricerche condotte qualche mese fa dalle società Pew Internet Project e Common Sense Media — sostengono che la massiccia immersione dei ragazzi in ambienti digitali ne ha drasticamente ridotto le facoltà di memorizzazione e concentrazione e, quel che è peggio, la capacità di analizzare criticamente e in profondità la realtà. Molti si sono lamentati del fatto che, ormai, per riuscire a catturare un minimo di attenzione dai propri allievi, sono costretti a compiere vere e proprie performance attoriali. Gli ottimisti ribattono che, in compenso, grazie all'uso dei nuovi media, gli studenti hanno enormemente potenziato la capacità di cercare e trovare autonomamente le informazioni e le conoscenze necessarie a risolvere i compiti e i problemi che vengono loro assegnati. Tenuto conto di quest'ultima considerazione, l'idea di delegare al «fai da te» di ragazzi e famiglie il compito di aggiornare gli strumenti tecnologici della didattica sembrerebbe destinata a incontrare non solo l'approvazione degli amministrativi — attenti ai problemi di bilancio — ma anche quella del corpo docente. Invece le cose non stanno così; al contrario: questa novità genera non poche perplessità anche da parte dei fautori dell'innovazione. Una cosa, hanno argomentato alcuni docenti universitari di computer science e scienze della formazione intervistati dal New York Times, è far lavorare gli studenti su programmi di apprendimento standard, appositamente studiati per consentire di misurare e mettere a confronto i risultati, altra cosa è lasciare che si arrangino usando strumenti e applicazioni diverse. Ne potrebbero derivare non poche insidie: sconvolgimento dei curricula, difficoltà di appurare se gli obiettivi vengono raggiunti, possibilità che l'uso di tecnologie differenti generi sperequazioni, per tacere del rischio che il gioco si sostituisca del tutto all'apprendimento, invece che agevolarlo. Il succo di questi ammonimenti è che l'imperativo a risparmiare a ogni costo può causare pesanti effetti negativi, quando sono in ballo interessi vitali come la formazione delle nuove generazioni; una lezione che le universitàitaliane, sottoposte a ripetuti tagli di risorse, hanno imparato a loro spese. _______________________________________________________________ Il Giornale 31 mar.’13 ANTONINO ZICHICHI: QUEI PAPI «ILLUMINISTI» CHE SPOSANO DIO E SCIENZA Da Giovanni Paolo a Francesco: fede e ricerca non sono alternative Il vero nemico della conoscenza è chi la usa per farne una religione d i Siamo nell'anno della Fede voluto da Benedetto XVI - e Papa Francesco ci invita a non abbandonare la speranza. E a essere ottimisti. La speranza e l'ottimismo cui si riferisce il Santo Padre hanno radici nella Sfera Trascendentale della nostra Esistenza. Queste radici sono in comunione perfetta con la speranza e l' ottimismo che vengono dalla Scienza. Senza memoria- diceva il più grande galileiano del XX secolo, Enrico Fermi - non potrebbero esistere né scienza né civiltà. Papa Francesco ci invita ad avere memoria e a non dimenticare che la grande alleanza tra fede e scienza è nata grazie al coraggio culturale del Beato Giovanni Paolo II. Fu lui a difendere la scienza quando la cultura dominante accusava noi scienziati di essere responsabili per il pianeta imbottito di bombe nucleari in grado di distruggere tutti i centri propulsori di vita nel mondo. In questo clima culturale di lotta alla scienza, Giovanni Paolo II ebbe il coraggio di dire: «L'uomo può perire per effetto della tecnica che egli stesso sviluppa, non delle verità che egli scopre mediante la ricerca scientifica». Tecnica vuol dire «uso della scienza» e qui entra in gioco il cuore dell'Uomo. Infatti: «Come al tempo delle lance, anche oggi nell'era dei missili, a uccidere, prima delle armi è il cuore dell'Uomo». Nell'età del ferro, notoriamente prescientifica, si costruivano tecniche buone e tecniche di morte. È la cultura dell'odio a costruire tecnologie di morte, non la scienza. Infatti: «Scienza e fede sono entrambe doni di Dio». Ed ecco la quarta frase: «La scienza ha radici nell' Immanente ma porta l'uomo verso il trascendente». Questa frase è incisa sul lucernaio della Basilica di Stato di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma. Le prime tre frasi sono a Erice nell'Aula magna della Scuola Internazionale di Fisica sub- nucleare. Il messaggio della scienza è che non siamo figli del Caos ma di una logica rigorosa che regge il mondo: Ball' universo subnucleare all'universo fatto di stelle e galassie. L'esistenza di questa logica esige l'esistenza di un Autore. Che per noi, scienziati credenti, è Dio. Ecco perché la scienza porta al trascendente. La scienza ha una sola colpa, quella di avere permesso a tanta gente di parlare a nome della scienza, senza mai intervenire. A metà del secolo scorso Enrico Fermi denunciò il pericolo che all'Hiroshima politica seguisse l'Hiroshima culturale: quando persone che non hanno mai fatto scienza ne parlano travisandone significati e valori. Queste persone sono riuscite a relegare la scienza nelle torri d'avorio. Ecco perché la cultura detta moderna non è al passo con le grandi conquiste della scienza. Siamo in piena Hiroshima culturale. Sintesi delle prove; la cultura detta moderna: 1) continua a confondere scienza e tecnica; 2) propaganda quella che è la più grave delle menzogne culturali «scienza e fede sono nemiche»; 3) continua ad attribuire a noi scienziati la responsabilità delle emergenze planetarie; responsabilità che sono invece della violenza politica (pianeta imbottito di bombe chimiche, batteriologiche e nucleari) e di quella economica (industrializzazione selvaggia); 4) si è fatta portavoce di idee (esempio: materialismo scientifico) che sono in totale contraddizione con le conquiste del pensiero scientifico; 5) non ha mai spiegato che siamo l'unica forma di materia vivente dotata di ragione; 6) ha sempre taciuto sulla distinzione galileiana dei tre livelli di credibilità scientifica. Questi 6 esempi di Hiroshima culturale potrebbero indurci al pessimismo . Papa Francesco ci dice però che non dobbiamo mai abbandonare ottimismo. Riflettere sulla Pasqua ci dà motivo per essere ottimisti. Questa è infatti la prima Pasqua in cui alla cultura cattolica è stato riconosciuto il privilegio di avere dato vita al calendario perfetto, grazie alla dimensione mistica del tempo che fissa la data della resurrezione di Cristo nella prima domenica dopo il plenilunio che segue l'equinozio di primavera. Sbagliare la data dell'equinozio di primavera vuol dire sbagliare la data in cui Cristo risorge. Ne abbiamo scritto su queste colonne il 20 marzo. Tutti i calendari di tutte le epoche e civiltà erano sempre stati elaborati avendo come obiettivo il sincronismo delle stagioni, il che corrisponde a centinaia di giorni; equinozio corrisponde invece a un solo giorno. Ecco perché il calendario gregoriano elaborato da Aloysius Lilius ha una precisione di sette centesimi di secondo al giorno. Nessun orologio sarebbe stato in grado di misurare una quantità di tempo così piccola. Oggi tutti e sette i miliardi di abitanti della terra, indipendentemente dal loro credo religioso, incluso l'ateismo (atto di fede nel Nulla), usano il nostro calendario, nato dalla esigenza di non commettere errori sul giorno della resurrezione di Cristo. *PresidenteV VFS (World Federation of Scientists), Beijing-Geneva-Moscow- New York Pc Professionale 28 Apr.’13 CINECA: IL SUPERCOMPUTER IBRIDO PIÙ EFFICIENTE AL MONDO È IN ITALIA Al Cineca, il polo di supercalcolo nazionale, ha preso il via la sperimentazione di Eurora. Cineca è il più importante centro calcolo italiano e figura al nono posto nella classifica dedicata ai 500 super- computer più potenti al mondo (www.top500.org). Al consorzio senza scopo di lucro, che offre un'infrastruttura tecnologica per la ricerca pubblica e privata, partecipano 54 Università italiane, il Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche), l'Istituto di Oceanografia e il Miur (Ministero dell'Università e della Ricerca). Il supercalcolatore di punta presente al Ciocca-chiamato Fermi e basato sull'architettura Blue Cene di Thin. - è capace di una potenza di picco pari a 2 petaFlops. Nel progetto di sviluppo verso soluzioni exascale, cioè con capacità di calcolo di tre ordini di grandezza superiori a quelle di classe petascale, si inserisce Eurora (European many integrateti core architecture), un prototipo di supercomputer ibrido nato dalla collaborazione del Cineca con Nvidia e l'azienda italiano Eurotech. OBIETTIVO EXASCATE La strada per realizzare super- calcolatori capaci di una potenze di elaborazione sempre più elevate presenta problematiche e vincoli che impongono l'utilizzo delle tecnologie più moderne. L'innovazione tecnologica deve porsi tra gli obiettivi primari quello di incrementare il rapporto tra la potenza di calcolo e il consumo, perché solo in questo modo sarà possibile aggiornare le infrastrutture esistenti con un doppio risultato: avere una maggiore potenze di calcolo mantenendo pressoché invariato il consumo complessivo e la superficie di dislocamento. Vediamo di rendere più chiara la cosa con qualche numero e prendendo come esempio il primo supercalcolatore al mondo. Titan, installato all'Oak Ridge National Laboratory, ha tatto segnare una potenza di calcolo pari a 17,59 petaFlops nel benchmark Linpack; il suo predecessore, Jaguar, aveva una potenza di elaborazione pari a 2,3 petaFlopss, consumava circa 7 megawatt. Per ottenere le prestazioni offerte da Titan con la tecnologia impiegata da Jaguar sarebbe stato necessario utilizzare uno spazio di dislocamento pari a quasi 10 volte quello di partenza e disporre di circa 60 megawatt di potenza. Grazie all'evoluzione delle architetture di calcolo e al loro utilizzo in modo ibrido - Cpu classiche affiancate alle più moderne Cpu - è stato possibile decuplicare la potenza di elaborazione, rispettando i vincoli di spazio e consumo. Per quanto riguarda l'installazione di Eurora presso il Cineca il vincolo energetico è stato quello di rimanere all'intero di 1 magawatt di consumo complessivo, ovvero pari a quanto consumato oggi dal supercomputer Fermi. EURORA Il percorso per portare alla luce l'idea del progetto Eurora ha richiesto circa un anno e mezzo per la ricerca, lo sviluppo e l'approvazione da parte del Prace (Partnership for Advanced Computing in Europe), ovvero l'ente che ha come obiettivo quello di fornire strumenti di ricerca per il settore scientifico e privato in ambito europeo. Il supercalcolatore Eurora utilizza 64 nodi di calcolo, ciascuno dei quali è raffreddato da un sistema a liquido "caldo" realizzato da rotech. Uno dei requisiti previsti dal progetto del supercomputer Eurora è stato quello di utilizzare una tecnologia di raffreddamento che non richiedesse sistemi di condizionamento con l'obiettivo di ridurre il peso di questa voce nel bilancio del costo ordinario di esercizio. La soluzione sviluppata da Eurotech permette di utilizzare liquido a temperature che possono raggiungere anche i 55 gradi centigradi. Grazie all'utilizzo di valvole e giunti aeronautici e aerospaziali, questa stessa soluzione permette inoltre di sostituire "a caldo" (hot swap) singoli nodi e, quindi, di ridurre al minimo la perdita di tempo di calcolo durante le operazioni per la manutenzione ordinaria o straordinaria. I nodi di calcolo sono stati progettati per massimizzare l'efficienza energetica; per fare questo la maggior parte dei componenti sono saldati sulla piastra del nodo così da limitare le dispersioni elettriche e termiche. Nel dettaglio ogni nodo implementa due Cpu Intel Xeon E5-2687W, due Gpu Nvidia Tesla K20, 16 Gbyte di memoria Ddr3 a 1.600 MHz (8 Gbyte per Cpu), un disco locale Ssd da 160 Gbyte per i dati in elaborazione e i controller per le interfacce di comunicazione. I processori Intel Xeon E5- 2687W, basati sull'architettura Sandy Bridge-EP, dispongono di 8 core in grado di gestire fino a 16 thread paralleli grazie alla tecnologie Hyper-Threading e sono affiancati da una cache di terzo livello (L3) pari a 20 Mbyte; la frequenza operativa di base è pari a 3,1 Gl-lz, mentre quella massima in modalità Turbo Boost è pari a 3,8 G Hz . Gli acceleratori Nvidia Tesla K20 utilizzano i processori. GK110 basati sull'architettura Kepler e rappresentano lo stato dell'arte nel loro settore. Ciascun processore GK110 dispone di 2.496 Cuda Core, opera alla frequenza standard di 706 MHz e dispone di 5 Gbyte di memoria dedicata. Ciascun nodo comunica con il reticolo di calcolo attraverso un'interfaccia lnfiniband Qdr e 3D Torus. Nella costruzione del nodo di calcolo i due processori Intel sono alloggiati in socket standard, mentre i due acceleratori Tesla risiedono su moduli separati collegati alla piastra del nodo così da poterli collocare sull'altro lato del blocco di raffreddamento. In pratica ciascun nodo è una specie di sandwich: in mezzo è presente il blocco con il circuito di ricircolo del liquido di raffreddamento, mentre sulle due facce di questo appoggiano i processeri di calcolo. Per raggiungere la massima efficienza energetica, l'hardware presente all'intero di Eurora è configurato per operare a frequenze differenti da quelle previste dalle specifiche dei produttori. I processori Xeon lavorano intatti a una frequenza di 1,7 GHz perché con questa impostazione è stato possibile raggiungere il migliora rapporto tra potenza dì calcolo e watt consumati. In particolare Eurora vanta un rapporto pari a 3,15 tra gigaFlops e watt assorbiti, un valore migliore di quasi il 30% rispetto al rapporto di 2,5 che fa segnare oggi il supercomputer in testa alla classifica Greco 500 (www.green500.org). Il risultato ottenuto con Eurora e più in generale dai super- computer con architetture ibride è quello di offrire una potenza di calcolo estremamente efficiente e un'architettura che permette di sviluppare codice di elaborazione altamente parallelizzato sia tra più nodi, ma soprattutto tra centinaia di core elementari all'intero di un singolo processore. La ricerca e lo sviluppo che hanno portato alla costruzione di Eurora sono la base per i sistemi Aurora Tigon, prodotti e commercializzati dalla stessa Eurotech. Grazie a questi nuovi supercalcolatori raffreddati a liquido "caldo" sarà possibile installare centri di elaborazione di grandi dimensioni in grado di operare senza dispendiosi impianti di refrigerazione e con un'elevata efficienza anche in zone geografiche dove l'elevata temperatura ambientale comporterebbe un elevato dispendio energetico. _____________________________________________________ Corriere della Sera 31 mar. ’13 IL GRAFENE, PIÙ SOTTILE DELL'ARIA di MASSIMO INGUSCIO Le formidabili virtù di un nuovo materiale Spesso come un atomo, resistente come l'acciaio I l mondo degli oggetti che ci circondano è a tre dimensioni e nemmeno tanto tempo fa le previsioni teoriche escludevano che alle temperature dell'ambiente in cui viviamo potessero esistere materiali stabili in due dimensioni. Ma le sorprese, si sa, sono spesso ingrediente cruciale per le rivoluzioni scientifiche e tecnologiche: nel grafene, materiale con proprietà tali da stimolare ricerca e investimenti in tutto il mondo, atomi di carbonio si dispongono in un solo strato bidimensionale, secondo esagoni regolari con una struttura a nido d'ape: un foglio spesso quanto un solo atomo! L'Unione Europea ha deciso di investire un miliardo di euro in un programma di ricerca decennale volto a indirizzare le politiche degli Stati membri verso lo studio di questo «materiale che non doveva esistere» per lo sviluppo di nuove tecnologie nell'ambito dell'informazione, della comunicazione e dell'energia. Ma cosa ha di speciale questa nuova forma di carbonio? Le simmetrie e la disposizione degli atomi nello spazio sono la chiave per comprendere le proprietà della materia: nel diamante, trasparente e duro, atomi di carbonio sono disposti in un reticolo cristallino a forma di ottaedro. Nella grafite delle matite — opaca, grigia ed estremamente duttile — gli atomi di carbonio si legano, invece, secondo tanti piani paralleli. Uno solo di questi strati costituisce il grafene e la sua struttura a nido d'ape era stata studiata sin dagli anni Quaranta, ma quasi per curiosità intellettuale o come punto di partenza per meglio comprendere l'intera grafite. D'altra parte le proprietà potenziali di un ipotetico singolo strato si annunciavano talmente strabilianti da stimolare l'uso di tecnologie sofisticate per la sua produzione in laboratorio, con insuccessi che portavano a dubitare che il «nuovo» materiale potesse davvero esistere stabilmente. La soluzione del problema sarebbe venuta, sorprendente per la sua efficace semplicità, nel 2004 quando a Manchester Andre Geim e Kostantin Novosëlov strapparono strati di grafene da un blocchetto di grafite con un normale nastro adesivo. I due scienziati russi, premiati con il Nobel per la fisica nel 2010, misurarono nel nuovo materiale a disposizione in laboratorio un'incredibile facilità di far passare corrente elettrica. In un cristallo il comportamento elettrico può risentire in modo drammatico del fatto che gli elettroni, non più particelle libere, per muoversi devono «saltare» da un atomo all'altro e la loro energia è variamente confinata in bande che, di nuovo, dipendono dalla simmetria. Per rimanere al carbonio, se il diamante è un isolante elettrico, la grafite è invece un buon conduttore di elettricità anche se comunque il moto degli elettroni è come appesantito dalla presenza del fondo cristallino. Non è così per il grafene: la struttura esagonale fa sì che gli elettroni abbiano una mobilità molto alta, comportandosi addirittura come se non avessero massa e l'equazione che ne descrive il moto è simile a quella che Einstein usa per descrivere il moto di particelle con velocità prossime a quelle della luce. Il grafene è il materiale esistente con la più alta conducibilità elettrica a temperatura ambiente, quindi con un «consumo» di energia enormemente ridotto. Grande può essere l'impatto per l'industria di circuiti e sensori microelettronici, tant'è che anche in laboratori Cnr presso STMicroelectronics a Catania si studia come produrre grafene di alta qualità su larga scala con una nuova tecnica che, partendo dai singoli mattoncini, consente di «crescere» il nuovo materiale con controllo a livello di singolo atomo. Se da un lato si pensa a una nuova generazione di dispositivi a bassissimo consumo energetico, è facile immaginare che una nuova architettura dei materiali, con controllo a livello di un milionesimo di millimetro, possa portare a importanti applicazioni dal campo del fotovoltaico a quello delle comunicazioni. Ma per la tecnologia il grafene può essere molto di più: è leggerissimo, trasparente e flessibile, ma al tempo stesso molto più resistente dell'acciaio. Touchscreen flessibili vengono subito in mente, ma un nuovo fertilissimo terreno è a disposizione per la fantasia di fisici, chimici, ingegneri e non solo. Costruito con atomi di carbonio, il grafene è compatibile col mondo biologico e anche scenari per la biomedicina fanno parte dei dibattiti che lo riguardano, come quello al convegno internazionale tenutosi lo scorso 18 marzo all'Accademia dei Lincei. È questo un mondo dove è necessario il confronto senza steccati di saperi diversi e complementari: non a caso in Italia un ruolo importante per la Flagship europea «Grafene», insieme ad altri enti e università, viene svolto dal Cnr, che dall'inizio ha creduto in un'avventura che si è rivelata vincente anche grazie alla spinta creativa di due giovani ricercatori, un chimico e un fisico, Vincenzo Palermo e Vittorio Pellegrini. Nel libro La chiave a stella del 1978, Primo Levi, chimico e scrittore, scriveva che noi scienziati della materia siamo come «dei ciechi, perché appunto, le cose che noi manipoliamo sono troppo piccole per essere viste, anche coi microscopi più potenti; e allora abbiamo inventato diversi trucchi per riconoscerle senza vederle. Tante volte, poi, noi abbiamo l'impressione di essere non solo dei ciechi, ma degli elefanti ciechi davanti al banchetto di un orologiaio, perché le nostre dita sono grossolane di fronte a quei cosetti che dobbiamo attaccare o staccare. Non abbiamo quelle pinzette che sovente ci capita di sognare di notte e che ci permetterebbero di prendere un segmento, di tenerlo ben stretto e dritto, e di incollarlo nel verso giusto sul segmento che è già montato. Se quelle pinzette le avessimo (e non è detto che un giorno non le avremo) saremmo già riusciti a fare delle cose graziose che fin adesso le ha fatte solo il Padreterno». Adesso abbiamo le «pinzette» sognate da Levi. Si produce grafene, si vede ogni singolo atomo di carbonio come in alcune recenti immagini prese con uno speciale microscopio elettronico sviluppato per una infrastruttura sui nuovi materiali realizzata dal Cnr tra Catania, Cosenza, Lecce e Napoli. Si sostituiscono qua e là atomi di carbonio con atomi di silicio, per creare quella rottura di simmetria che sempre è alla base di nuovi fenomeni nel mondo della natura e di nuove proprietà della materia. Si indaga su come meglio modificare la struttura con molecole di interesse biologico per lo sviluppo di nuove terapie mediche. A guardare lontano si può immaginare una nuova elettronica mille volte più veloce o dispositivi medici rivoluzionari (come per esempio retine artificiali). Penso, però, che le prospettive più rivoluzionarie potrebbero ancora una volta non essere frutto di programmazione. Un singolo foglio di grafene può essere usato come un nanolaboratorio dove osservare fenomeni fondamentali e complessi che a volte sfuggono anche agli apparati più grandi e costosi e che non si riesce a calcolare nemmeno con i computer più potenti: tra l'altro, l'equazione che spiega il comportamento degli elettroni «relativistici» nel grafene prevede anche l'esistenza di un mondo speculare fatto di antimateria. Quella di simulare la natura con sistemi quantistici in laboratorio è un'idea che, introdotta da Feynman negli anni Ottanta, inizia ora la sua stagione più fertile. _____________________________________________________ Corriere della Sera 31 mar. ’13 GALLIO, INDIO, TANTALIO: LO SCONTRO SOTTERRANEO TRA LE POTENZE GLOBALI di MICHELE FARINA Si moltiplicano le guerre per le risorse James Clapper, direttore della National Intelligence e capo di tutte le spie d'America, non è appassionato di geologia e ha mille problemi: Iran, Nord Corea, droni, hacker cinesi. Eppure di questi tempi Clapper si preoccupa anche di gallio, indio, tantalio. Pure di niobio e di litio, con un occhio alle nuove trasformazioni della grafite (da cui si ricava il grafene) oltre che al vecchio uranio. Materie secondarie, rispetto a gas e petrolio che spingono il mondo. Commodity scomode, quelle che si recuperano in piccole quantità setacciando la Terra, dalle Ande alle foreste africane. Pochi giorni fa, racconta alla «Lettura» l'esperto di resource wars Michael Klane, mister Intelligence ha fatto una relazione al Congresso in cui nella lista dei rischi per la sicurezza nazionale «per la prima volta» ha anteposto allo spettro terrorismo l'emergenza «risorse naturali». Con un riferimento particolare agli elementi chiamati «esotici». Vengono definiti anche cruciali (critical minerals) e per alcuni vale l'etichetta conflict minerals (tantalio e niobio si ritrovano uniti nel famigerato coltan, che alimenta la guerra nell'Est del Congo). Si tratta per la maggior parte di metalli poco diffusi in natura, recuperabili (come ogni sostanza preziosa) in modiche quantità. Dalle cosiddette «terre rare» (di cui la Cina detiene il monopolio controllando il 95% della produzione mondiale) al platino, dal palladio al tantalio di cui ogni anno vengono estratte soltanto 700 tonnellate (contro le 54 mila dell'uranio e i 7 miliardi del carbone). A volte sono materiali semi sconosciuti, con nomi spaziali (e infatti li hanno scoperti di recente anche su Marte). Eppure spesso sono componenti essenziali del nostro (nuovo) mondo, dagli smartphone alle auto ibride ai moderni sistemi di difesa (laser, radar...). Secondo il ministero dell'Energia Usa, per esempio, il 20% delle terre rare è impiegato nelle applicazioni dell'energia verde. Sostanze davvero un po' esotiche ma sicuramente strategiche, visto che il Pentagono ha cominciato a ricostruire le loro riserve smantellate al termine della guerra fredda. Fino al 1995 il governo Usa manteneva depositi in 85 luoghi diversi che facevano capo al Defense National Stockpile Center, dove erano custodite scorte di 90 materie considerate cruciali per la sicurezza nazionale. Quindici anni dopo, spiega Michael Klane nel suo nuovo libro, i depositi si sono ridotti a dieci e le materie conservate una ventina. Anche la Commissione europea ha adottato lo stesso approccio allarmato, identificando un gruppo di 14 minerali il cui «esaurimento scorte» causerebbe danni gravi all'economia dell'Unione. Nella lista non mancano il gallio, l'indio, il cobalto, il germanio, la grafite, il magnesio, il tungsteno. Non è un caso che Europa e Stati Uniti abbiano aperto l'anno scorso un contenzioso con la Cina in seno all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), dopo che Pechino aveva ridotto l'esportazione di terre rare. Nel 2010 la crisi diplomatica scoppiata per la sovranità su un remoto arcipelago ha portato la Cina a sospendere per rappresaglia i rifornimenti di rare earth elements (Ree) al Giappone che ne è il principale consumatore. Le varie sfide aperte nell'Oceano Pacifico per il controllo di piccole isole riguardano in realtà la partita futura sullo sfruttamento dei grandi giacimenti sottomarini di gas e petrolio. Ma è significativo che i cinesi abbiano usato la stretta sulle nuove pietre preziose come arma per colpire i rivali. Questo precedente, dice Klare, ha molto preoccupato Washington. Gli Stati Uniti importano il 99% del gallio e il 100% dell'indio e del vanadio impiegato nella produzione di leghe metalliche speciali (anche nel settore nucleare). Da chi lo comprano? Il 37% del gallio e il 4% dell'indio usato in America arriva dalla Cina. È ipotizzabile che per questi e altri materiali si arrivi in futuro a uno scontro Pechino-Washington? Di certo le tensioni in questo campo sono destinate ad aumentare, spiega Klare, che insegna all'Hampshire College di Amherst, Massachusetts, dove è direttore del Five College Program in Peace and World Security Studies. Il suo ultimo libro, The Race for What's Left, è arrivato un decennio dopo Resource Wars. The New Landscape of Global Conflict, che uscì l'anno dell'11 settembre: allora la guerra per le risorse finì sepolta sotto le Torri gemelle e la guerra al terrorismo. Oggi, mentre Osama è stato scoperto, il niobio non si trova. Certo, «la corsa a ciò che è rimasto» si gioca soprattutto sulle risorse maggiori, per esempio il gas e il petrolio che aspettano sotto il ghiaccio che si scioglie nell'Artico, o i cosiddetti idrocarburi non convenzionali estratti dalle sabbie canadesi o spaccando le rocce delle montagne con l'acqua (il controverso procedimento chiamatofracking, fratturazione idraulica). Ma una tappa importante riguarda proprio gli elementi esotici. Il dio delle commodity scomode si è divertito a spargerle senza seguire sempre le classifiche dei Paesi per peso geopolitico o pedigree democratico. Così il litio, che dà la carica alle auto ibride ed elettriche, oggi si trova principalmente sulle Ande, tra Cile e Argentina, mentre le maggiori riserve ancora intatte (quasi il 50% del totale mondiale) sono nascoste sotto la crosta salata del Salar de Uyuni in Bolivia, governata dal leader indio Evo Morales, mentre tra le montagne a ovest di Kabul a guerra ancora in corso è già cominciata (tra americani e cinesi) la gara per il litio afghano. Così lo Zimbabwe dell'autoritario Robert Mugabe è il paradiso futuro del platino, per ora lasciato in sfruttamento agli amici cinesi e alle compagnie sudafricane che in casa propria già estraggono il 75% della produzione mondiale. La disastrata Repubblica democratica del Congo è al primo posto per il cobalto (45 mila tonnellate, lo Zambia secondo con 11 mila). Il Kazakhstan del dittatore Nazarbayev è corteggiato da ogni parte per il suo uranio (33% dell'offerta globale). Le rare earth sono un po' meno rare in Cina, anche se Pechino sembra fare di tutto per nasconderlo. Da una parte c'è una progressiva stretta strategica (per sviluppare le proprie imprese high-tech a scapito della concorrenza), dall'altra le fluttuazioni del mercato che dal dicembre 2012 al marzo 2013 hanno visto calare le esportazioni di Ree del 60%. Negli anni la superpotenza asiatica ha conquistato il monopolio del settore, con i competitor schiacciati dai costi di estrazione. Ora Australia e Usa provano a riprendere la produzione, mentre il Giappone cerca di aggirare il nodo cinese, investendo in ricerca e puntando su nuovi fornitori come Vietnam e Kazakhstan. Le guerre per le risorse, dice Michael Klane, fanno parte della storia dell'uomo. Rispetto al passato, però, oggi diminuiscono le risorse, mentre aumentano i Paesi cacciatori. Klane è appena stato in Spagna e racconta la storia di Las Médulas, situata nei pressi dell'attuale Ponferrada, la più importante miniera d'oro dell'impero romano conquistata e difesa a fil di spada. Plinio il Vecchio descrive la tecnica della Ruina Montium, che ha modellato quelle montagne perforandole a forza di schiavi e introducendovi grandi quantità d'acqua (in pratica, il fracking degli antichi). A millenni e migliaia di chilometri di distanza, nelle foreste del Nord Kivu contese da milizie armate, gli schiavi del Congo spaccano a mano le rocce del coltan da cui secondo Klane proviene sottobanco un quinto del tantalio mondiale, l'oro bluastro che, ridotto in polvere, fa funzionare i nostri telefonini. mfarina@corriere.it @mfarina9 _____________________________________________________ Le Scienze 29 mar. ’13 LA SCOMMESSA DELL'INTERNET VERDE Al continuo aumento di utenti di Internet non corrisponde ancora un aumento dell'efficienza della tecnologia legata al web. Il risultato? Una montagna di consumi inutili e di energia sprecata, una situazione anacronistica che può e deve cambiare secondo Diego Reforgiato Recupero, informatico italiano pluripremiato, rientrato in Italia nel 2008 dopo quattro anni di studi negli Stati Uniti Internet e i suoi milioni di utenti: ci troviamo davanti a una montagna di energia sprecata. Una volta connessi al web, infatti, la quantità di dati che scambiamo con la rete non sembra influire sui nostri consumi, e, indipendentemente dal traffico, la bolletta rimane la stessa. La stragrande maggioranza dei dispositivi che ci consentono di navigare sul web in effetti consuma la stessa energia a prescindere dalla mole di informazioni che viaggiano. Uno spreco evitabile secondo Diego Reforgiato Recupero, autore di un articolo apparso sull'ultimo numero di “Science”. © Images.com/CorbisRecupero, informatico catanese e vincitore del premio Working Capital 2012, un finanziamento di ricerca di 25.000 euro stanziato dalla Telecom, segnala come la tecnologia attuale non sia progettata per adattarsi ai consumi reali: “Per esempio di notte, quando non lavorano, i nostri router - i modem che, raccogliendo e reindirizzando i dati, costituiscono nodi della rete - consumano lo stesso: non sono in grado di passare a uno stato di risparmio energetico, come invece fa un computer.” Un problema non da poco, considerando la rapidità con cui aumenta il numero di utenti di Internet. Si prevede che nel corso del prossimo anno il consumo di energia dovuto al web su scala globale sarà di quasi il 20% in più rispettoall'anno appena trascorso. In realtà il modo di navigare consumando meno esiste: basta far sì che la rete si riposi quando il traffico di dati è meno intenso. Nel suo articolo Recupero fa una panoramica delle tecnologie più promettenti. Uno dei metodi è chiamato smart standby, e consiste nel prefigurare nei dispositivi diversi stati, non solo acceso/spento. Il livello ottimale di attività delle varie componenti si regola seconda della quantità di dati che circolano. Una logica di risparmio simile è alla base di un secondo sistema, il dynamic frequency scaling (DFS). In questo caso a essere modulata in base alle esigenze sarà la frequenza della CPU (il processore centrale). I due sistemi non sono convenienti se adottati in tandem, ma sono entrambi utili. “Non si può dire quale dei due sia migliore”, chiarisce Recupero, “dipende da caso a caso. Per esempio, per un privato, il DFS è più conveniente, perché le utenze domestiche usano dispositivi più semplici. Quando invece le componenti sono molto più dettagliate e particolari, allora conviene disattivarne una parte”. Il consumo di energia in funzione del tempo a confronto tra le diverse tecnologie. Lo smart stand-by e il DFS sono più convenienti dei sistemi attuali, ma il tempo necessario al "risveglio" delle componenti in stand- by fa sì che le due tecniche, se applicate insieme, non ottimizzino i consumi (cortesia D.R.Recupero/Science)Esistono anche approcci preventivi. Una grandissima parte dei consumi è dovuta ai sistemi di raffreddamento, quindi se si riuscisse ad evitare che la temperatura si alzi troppo, si avrebbe un risparmio di energia. Questo è possibile, spiega l'autore: “Se la CPU di un dispositivo va più veloce, genera più calore. Per evitare di generare troppo calore basta quindi abbassare la frequenza della CPU. Questo naturalmente può andare a scapito della qualità del servizio: bisogna trovare il giusto equilibrio per continuare a garantire una prestazione perfetta.” Si può intervenire anche sulla complessità del web, e “spegnere” provvisoriamente alcuni nodi. “In una rete abbiamo una certa topologia, con i nodi connessi tra di loro”, spiega Recupero. “Immaginiamo un certo nodo A connesso direttamente a un certo nodo B, ma supponiamo che le informazioni possano viaggiare da A a B anche con un giro un po' più lungo, tramite altri nodi intermedi. Osservando lo storico delle decisioni passate del router, è possibile che si osservi che i dati passano direttamente da A a B molto raramente. Dato che il traffico da A a B si può deviare attraverso altri nodi, allora è possibile disattivare quel link.” © Images.com/CorbisTutti questi stratagemmi, se adottati con metodo, non intaccherebbero la qualità dei servizi. L'utente finale non sarebbe in grado di accorgersi della differenza. Recupero è entusiasta della prospettiva: “il bello è che non esiste nessun tipo di risvolto negativo. Un dispositivo che sfrutti le nuove strategie di risparmio energetico può essere più complesso al livello di software o di hardware, ma questo non influisce sulla dimensione del router, nè sul prezzo." Secondo Recupero, un utente medio risparmierebbe una ventina di euro l'anno sulla bolletta. Una cifra imponente se moltiplicata per il numero di consumatori interessati, che corrisponderebbe anche a una diminuzione sensibile della produzione di anidride carbonica. Spesso le politiche verdi non incontrano il favore dell'industria, ma in questo caso non è così: si tratta di risparmiare energia e quindi soldi. Per una volta, ecologia e logica aziendale sembrano andare di pari passo. “Operatori come Telecom Italia sono interessati ai router dotati di queste nuove tecnologie anti-spreco”, osserva Recupero. “Adottandole risparmierebbero tantissimo.” L'idea del web a basso consumo ha suscitato anche l'interesse dell'Unione Europea, che sempre più spesso promuove iniziative in cui il tema dell'efficienza energetica è in primo piano: “si creano anche posti di lavoro, perché questi servizi green creano opportunità per tutti. Tra qualche anno avremo già moltissime attrezzature più efficienti. La ricerca introdurrà metodi innovativi, e l'industria produrrà i dispositivi necessari: sarà un processo sia scientifico che industriale.” Cortesia Wikimedia Commons/KmhkmhL'anno prossimo, Erdös avrebbe compiuto 101 anni, un anniversario che sarebbe più adatto del centesimo compleanno, perché 101 è un numero primo. Non è possibile dividere 101 senza resto, se non per 1 e se stesso (mentre 100 è il prodotto di 2 x 2 x 5 x 5). Con un po' di sussiego e una certa tristezza, una volta Erdös disse al suo biografo, Paul Hoffman, che i numeri primi erano i suoi migliori amici. Gran parte del lavoro di Erdös ha riguardato i numeri primi. Il primo teorema significativo che dimostrò, a 17 anni, afferma che tra un numero e il suo doppio, vi è almeno un numero primo. Ottant'anni prima, il grande matematico russo Pafnuty Chebyshev aveva già dimostrato questo teorema, noto come congettura di Bertrand, ma la dimostrazione di Erdös è più semplice e più chiara. In seguito Erdös fece qualcosa di simile fornendo una versione semplificata del teorema dei numeri primi, che rivela come si distribuiscono. Vicino allo zero, i numeri primi sono frequenti: 2,3,5,7... Via via che si sale, però, i numeri primi si presentano più raramente. (Il teorema dei numeri primi non indica come trovare quei numeri, di cui ne esiste un numero infinito. Il più grande numero primo attualmente noto è il numero che precede 2 elevato a 57885161, e ha oltre 17.400.000 cifre). Ridurre dimostrazioni e teoremi al loro stato più "elementare" era un talento particolare di Erdös. Una volta scrisse una dimostrazione più semplice di un teorema in un articolo di cui stava facendo la revisione. Erdös credeva che "il Fascista Supremo" (Dio) possedesse un libro in cui vi erano le dimostrazioni matematiche nella loro forma più semplice e perfetta, e che fosse compito dei matematici trascrivere le pagine di quel libro. In un certo senso, anche lo zero è stato un numero piuttosto significativo per Erdös. Con la sua tendenza peripatetica, non si sposò mai, non ebbe figli, non comprò mai casa, non ebbe mai un lavoro regolare, e neppure molti soldi. Viaggiava portando con sé tutti i suoi averi in due valigie, alloggiando temporaneamente dai collaboratori, seguendo uno stile di vita che lo portò avanti e indietro tra Stati Uniti ed Europa, e a pubblicare articoli insieme a ben 511 persone. A San Francisco, nella chiesa episcopale di San Gregorio di Nissa, c'è una raffigurazione, la Dancing Saints Icon, in cui Paul Erdos appare a fianco di Gandhi.(© Kat Wade/San Francisco Chronicle/Corbis)Il terribile comportamento di Erdös come ospite è leggendario, dal vezzo di aprire le confezioni di succo di pomodoro bucandole, senza poi preoccuparsi di ripulire, a quello di sbattere pentole e padelle alle quattro e mezza del mattino per svegliare tutti, in modo da poter continuare a lavorare con loro. A dispetto delle sue spiacevoli abitudini, in genere Erdös continuava a essere il benvenuto, rimanendo in amicizia con la maggior parte delle persone che lo avevano ospitato. Pare che fosse una persona radiosa, un collaboratore delizioso, e avesse il dono di portare le persone a fare matematica al meglio delle proprie capacità. In realtà, una data più adatta per celebrare Erdös potrebbe essere il 26 dicembre 2039, cioè 1521 mesi dalla sua nascita: 1521 è il numero totale di articoli a cui ha collaborato. Più di ogni altro matematico della storia. Erdös - che per tutta la vita ha avuto una relazione particolare prima con la caffeina, poi con le anfetamine - lavorava regolarmente 20 ore al giorno. Ormai settantenne, sfornava ogni anno più articoli di quanti molti buoni matematici ne pubblichino in tutta la vita. Durante una breve pausa dall'assunzione di anfetamine (fatta per dimostrare che non era dipendente), Erdös notò un calo della propria produttività, e questo lo portò ad affermare che la matematica era rimasta indietro di un mese. Questa enorme messe di lavoro, spalmata su varie discipline e in tutto il mondo, ha fatto sì che il matematico lasciasse un'eredità molto particolare: il numero di Erdös. Secondo la definizione più semplice, il numero Erdös di una persona è il suo grado di separazione da Erdös in termini di articoli pubblicati. Se hai collaborato a un articolo direttamente con lui, il tuo numero di Erdös è 1. Se sei un coautore di qualcuno che è stato coautore di Erdös, ottieni un 2, e così via. Solo Erdös ha 0 come numero di Erdös. Se non disponi di alcun collegamento collaborativo, il tuo numero di Erdös è infinito. Con il tempo, il più alto il numero Erdös riportato è passato da 8 nel 2000 a 15 nel 2013. L'attore Kevin Bacon. Due personaggi noti con un numero di Erdos-Bacon sono l'astronomo Carl Sagan e l'attrice Natalie Portman © AKM-GSI/Splash News/CorbisAltre versioni richiedono che le pubblicazioni valide ai fini del numero di Erdös abbiano solo due autori. C'è anche un numero di Erdös-Bacon, che somma il numero di Erdös di una persona con il suo numero di Bacon, un valore relativo ai gradi di separazione basato sullo stesso postulato, ma applicato al collegamento cinematografico di una persona con l'attore Kevin Bacon (altre versioni ammettono collegamenti non cinematografici). La prima formulazione nota dell'idea di contare i gradi di separazione da Erdös è in un articolo di matematica pubblicato nel 1969 da un collega. Il Progetto Numero di Erdös, ideato da Jerrold Grossman e Patrick Ion, e ospitato presso l'Università di Oakland, in Michigan, è iniziato nel 1995 e rappresenta il database più ampio relativo alle pubblicazioni di Erdös e sui numeri di Erdös. I numeri di Erdös non hanno ricadute concrete, sono un gioco. E come la maggior parte dei giochi, salta fuori durante un corso, una pausa di lavoro o davanti un drink a un convegno. Paul Erdös credeva che la matematica fosse un'attività che prevede collaborazione, e il numero di Erdös, forse involontariamente, riflette questa idea. Unisce le persone, dà loro qualcosa da condividere. A volte, quando un grande scienziato muore, viene ricordato con una statua, o intitolandogli un istituto, una strada o una scuola, ma Erdös è stato immortalato con qualcosa di molto singolare: un gioco derivato dal suo lavoro, che riflette il suo spirito di collaborazione. (Gran parte del materiale usato per questo articolo è tratto dal libro di Paul Hoffman, L'uomo che amava solo i numeri, Mondadori, Milano, 1999.) _____________________________________________________ Il Sole24Ore 31 mar. ’13 TRASMISSIONE. VELOCITÀ A 300MILA CHILOMETRI AL SECONDO Nella superfibra ottica i dati viaggiano (quasi) come la luce di Vittoria Alerici Trasmettere dati praticamente alla velocità della luce. Un sogno che, almeno sulle brevi distanze, tra poco potrebbe essere possibile. I ricercatori dell'Università di Southampton, guidati dall'italiano Francesco Poletti, hanno infatti realizzato una fibra ottica in grado di trasferire i dati alla velocità di 73,7 terabits al secondo (il 99,7% della velocità della luce), mille volte più rapida della fibra attualmente disponibile e con latenza molto minore. La particolarità della scoperta inglese è che la fibra all'interno è cava, e la luce nel vuoto viaggia a 299.792.458 metri al secondo. Nei collegamenti tradizionali, causa rifrazione, si sconta un ritardo di un terzo. Non bisogna aspettarsi una rivoluzione. Ma i ricercatori assicurano che la nuova fibra porterà grandi vantaggi su datacenter e supercomputer. ========================================================= _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 mar. ’13 MEDICINA: ASSALTO ALLA SEGRETERIA MA L’ISCRIZIONE È UN SOGNO Il test di Medicina del settembre 2012, oggetto del ricorso, era stato contestato dai concorrenti fin dal primo momento perché la commissione di vigilanza aveva chiesto ai candidati di esporre un documento di identità accanto alla scheda del test e al codice a barre identificativo. Ma anche le condizioni in cui si erano svolte le prove avevano creato malumore: nel palazzetto dello Sport infatti era partito l’allarme antincendio e una musica a tutto volume mentre dall’esterno arrivavano schiamazzi di bambini. Tutti fattori di disturbo che forse in un’altra struttura non ci sarebbero stati. di Gabriella Grimaldi wSASSARI Non è bastato lo sventolio di bandiere e sentenze e una forte determinazione perché i 48 ragazzi vincitori del ricorso contro il test di ingresso a Medicina ottenessero la tanto sognata iscrizione alla facoltà, così come ordina la sentenza del Tar Sardegna che ha dato loro ragione. Dall’altra parte della “barricata”, ieri rappresentata dal bancone della segreteria dove i giovani si erano presentati a metà mattina per chiedere il numero di matricola, un muro di granitica cortesia ha respinto, almeno per il momento, tutte le rivendicazioni presentate da circa 35 dei ricorrenti. L’addetta al ricevimento in prima battuta, la coordinatrice del settore in seconda e alla fine il prorettore Laura Manca (arrivata di corsa dal Dipartimento dove stava svolgendo esami) hanno ribadito l’impossibilità di procedere all’iscrizione in soprannumero degli studenti fino a quando la sentenza non sarà notificata all’ateneo, atto che ancora non si è completato. «Solo allora – ha detto il prorettore (che ieri rappresentava il Magnifico momentaneamente fuori sede) – l’università potrà procedere, ma saranno necessari tempi tecnici. Direi però che non è il caso di agitarsi. Noi dal primo momento siamo stati disponibili al dialogo. D’altra parte è anche legittimo che l’ateneo decida di muoversi rispetto alla decisione del tribunale amministrativo». Infatti nei giorni scorsi il Consiglio di amministrazione dell’università ha deliberato di impugnare la sentenza del Tar che ordina l’iscrizione in soprannumero dei ricorrenti visto che i procedimenti adottati durante il concorso per l’accesso al numero programmato avevano violato, secondo i giudici, il principio dell’anonimato. E ha anche presentato istanza cautelare di sospensiva del provvedimento. «Non ci potete dare questa risposta – hanno detto i ragazzi al prorettore –. L’università sta scegliendo di non ottemperare a un ordine del tribunale. L’iscrizione ci è dovuta sulla base di un atto che è immediatamente esecutivo». L’università ha però risposto che per il momento di immatricolazione non se ne parla, almeno fino a che l’ufficio legale non si sarà espresso una volta notificata la sentenza. I ragazzi, delusi, hanno occupato la sede della segreteria giusto il tempo di discutere con i vertici dell’ateneo, poi hanno lasciato i locali della facoltà con la dichiarata intenzione di ripresentarsi martedì 2 aprile per chiedere nuovamente l’iscrizione: «Soltanto allora potremo dedicarci agli studi che abbiamo sognato di fare da sempre». _____________________________________________________ L’Unione Sarda 29 mar. ’13 AOB: PRIMO TRAPIANTO DI RENE CON IL ROBOT SANITÀ. La tecnologia utilizzata in pochi ospedali al mondo applicata al Brotzu su un trentanovenne Eseguito dall'équipe di Mauro Frongia, il paziente ora sta bene VEDI TUTTE LE 2 FOTO Il robot ce l'hanno già da due anni e lo hanno utilizzato per fare oltre 250 interventi prevalentemente alla prostata, ma non solo. Di trapianti di rene ne hanno fatti tanti (oltre 800) da essere considerati un'eccellenza europea. E allora perché non unire le potenzialità del “da Vinci” (il nome del robot) alle capacità di un'équipe collaudata? È stata questa l'intuizione di Mauro Frongia, urologo e direttore del dipartimento di Patologia renale dell'ospedale Brotzu. Ma tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Anzi l'oceano Atlantico. IL TRAINING A CHICAGO Bisognava andare a Chicago, alla Illinois University, per imparare le tecniche di trapianto di reni con il robot. Frongia e il suo gruppo (i medici Stefano Mallocci, Rossano Cadoni, Antoncarlo Pau, Andrea Solinas, il caposala Franco Deplano, Simone Bandino e il coordinatore della segreteria del reparto Riccardo Salvago) ci sono andati a febbraio, accompagnati da monsignor Ottavio Utzeri, parroco di Sant'Avendrace e da sempre guida spirituale dell'équipe. Lì hanno imparato come si fa sotto la guida del direttore del centro, l'italiano (con moglie di origini sarde) Enrico Benedetti. IL TRAPIANTO Tre giorni dopo il loro rientro, il 27 febbraio, si è presentata l'occasione di applicare le tecniche appena apprese su un nefropatico trentanovenne, obeso e subito operabile. Si chiama Andrea Argiolas e vive a Sardara. L'intervento è riuscito e oggi, a un mese dall'intervento (il secondo in Europa), l'uomo sta bene. Per questo ieri i vertici dell'ospedale, il direttore generale Tonino Garau e il direttore sanitario Remigio Puddu, hanno voluto celebrare il nuovo traguardo, uno di quelli che fanno dimenticare le difficoltà e ricordano che il Brotzu è e deve continuare a essere un centro di alta specializzazione. Con loro c'era anche il presidente della Regione Ugo Cappellacci che ha conferito a Frongia la più alta onorificenza sarda: il Sardus pater per essere diventato «un'eccellenza, riconosciuta dalla comunità medica nazionale ed internazionale nel settore delle cure di oncologia urologica e del trapianto del rene». L'APPLICAZIONE La tecnica robotica, ha spiegato Frongia, «potrà essere applicata a pazienti inoperabili con le tecniche tradizionali». Come Argiolas, un ex grande obeso (pesava 150 chili) con uno strato adiposo tale da esporlo a pericolose infezioni. E siccome il robot consente di trapiantare il rene introducendolo attraverso un piccolo taglio sotto lo sterno, il pericolo è estremamente ridotto. I costi? Nessuno li dà. Ma Garau e Puddu sottolineano un aspetto: «Grazie alle nostre capacità e alle tecnologie evitiamo sempre più spesso costosi viaggi della speranza. Producendo risparmi per il servizio sanitario nazionale e per le famiglie». Fabio Manca _____________________________________________________ L’Unione Sarda 29 mar. ’13 AOUCA: «CONVENZIONE CON L'ATENEO PER L'UTILIZZO DEL DA VINCI» «Faremo una convenzione con l'università di Cagliari perché anche l'azienda ospedaliero-universitaria possa utilizzare il nostro robot per effettuare interventi su particolari patologie tumorali nelle quali sono specializzati ». Non capita spesso, nella sanità sarda, che due aziende collaborino. Per questo l'annuncio dato ieri dal direttore generale del Brotzu Antonio Garau ha sorpreso, favorevolmente, medici e giornalisti che hanno partecipato alla conferenza stampa di presentazione del primo trapianto di rene effettuato con la chirurgia robotica. Grazie alla convenzione, l'utilizzo del robot “da Vinci”, prodotto dalla Intuitive surgical e costato 3,6 milioni di euro, potrà essere ottimizzato. Già oggi viene utilizzato in urologia, chirurgia toraco- vascolare, chirurgia d'urgenza e in chirurgia generale. L'intervento con il robot si svolge come un normale intervento in laparoscopia con alcune differenze sostanziali: il chirurgo si trova in una postazione remota, opera cioè da una consolle (nel caso del Brotzu sono due) da dove aziona a distanza i bracci del robot che si trova sopra il tavolo operatorio sul quale è adagiato il paziente. L'équipe operatoria provvede ad attrezzare i bracci robotici con gli strumenti dal chirurgo. Oltreché dal chirurgo (o dai chirurghi) che hanno davanti a sé un monitor, l'intervento viene seguito dal resto dei sanitari attraverso due grandi monitor ad alta risoluzione. Grazie al robot il campo operatorio può essere ingrandito dalle 10 alle 15 volte e questo consente di vedere meglio i tessuti, individuare meglio i punti di incisione e di suturare con fili quasi invisibili ad occhio nudo. (f.ma.) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 28 mar. ’13 AOUCA: MORTO FRA' EMILIANO, CAPPELLANO DEL “CIVILE” Ha celebrato la messa, come faceva tutti i giorni da decenni. Poi ha sentito un dolore al petto e si è trasferito dalla cappella dell'ospedale al reparto di medicina due per cercare un medico. Ma Padre Emiliano, il cappuccino-parroco dell'ospedale San Giovanni di Dio non ce l'ha fatta. Si è accasciato ed è morto senza che i tanti medici presenti potessero fare qualcosa. Infarto, probabilmente. Nel vecchio ospedale cagliaritano non c'era nessuno che non gli volesse bene. Il frate aveva sempre parole di conforto per tutti e quando non parlava bastava un suo sguardo per rasserenare e rassicurare, anche per pochi momenti, i ricoverati. «Era sempre sorridente e la sola sua presenza faceva sentire l'ospedale protetto», racconta Pierpaolo Vargiu, neo parlamentare eletto con Lista civica. Padre Emiliano sapeva alleviare le sofferenze di tutti, quelle del corpo e quelle dell'anima, quelle dei credenti e quelle degli atei. Al “Civile”, il piccolo-grande cappuccino lascerà un vuoto incolmabile. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 mar. ’13 AUSS: ASL E AOU APRANO UN CENTRO UNICO PER LA DIABETOLOGIA» Adms e Fand alzano il tiro dopo il trasferimento del servizio nel palazzo rosa: «Più rispetto e meno demagogia» «Microinfusori, non costi ma necessità» C’è poi quello che Michele Calvisi ed Ettore Giuliani definiscono lo «scandalo microinfusori»: piccoli apparecchi che possono migliorare le condizioni di vita dei pazienti ma che non vengono forniti. «I microinfusori non sono presi nella giusta considerazione e ritenuti ingiustamente onerosi per la collettività – scrivono i due presidenti –. L'incidenza sui bilanci delle Asl è minima nel medio periodo. Allo stato attuale i presidi giungono a singhiozzo, i pazienti che hanno richiesto il microinfusore non sono stati accontentati». SASSARI «Più rispetto e meno demagogia». Michele Calvisi ed Ettore Giuliani, portavoce degli oltre quattromila diabetici in cura nelle strutture dell’Asl e dell’Aou, alzano la voce per esprimere il punto di vista dei malati dopo la bufera scatenata dal trasferimento del servizio di Diabetologia territoriale della Asl da via Tempio al palazzo rosa di via Monte Grappa. La scelta non era piaciuta a Cgil, Cisl, Uil, Nursind e Fials. I avevano chiesto alla Asl di tornare sui propri passi perché così aveva «dimezzato l’offerta». La presa di posizione sindacale ha scatenato la reazione piccata dei presidenti di Adms e Fand, le associazioni onlus cui fanno riferimento i diabetici e i loro familiari. Calvisi e Giuliani fanno precedere da una stoccata alcune proposte operative. Altro che ambulatorio unico per l’Asl, puntualizzano i due sodalizi, l’Azienda sanitaria e l’Azienda ospedaliero universitaria dovrebbero riunire le forze per costituire un centro diabetologico unico. Una struttura dove dovrebbero operare tutte le figure specialistiche necessarie per curare il diabete, ma anche per prevenirlo. Michele Calvisi ed Ettore Giuliani caldeggiano da anni il progetto che ora ripropongono alle istituzioni sanitarie. Segue l’invito «a rispettare le esigenze di migliaia di pazienti, la cui qualità di vita di coloro è al di sotto degli standard minimi di un paese civile – scrivono i presidenti di Adms e di Fials –. L'intera classe politica regionale avrebbe dovuto preoccuparsene, anziché stratificare le sue gravi colpe, visto che la patologia ormai assume da tempo dimensioni epidemiche». «Le diabetologie ospedaliera e universitaria devono essere accorpate in un unico sito – entrano nel merito i presidenti di Adms e di Fand –. Quello prescelto dalla direzione generale della Asl nel palazzo rosa è coerente con le nostre aspettative, purché l'ala occupata venga ampliata e liberata da ambulatori non di natura diabetologica». Nella struttura, spiegano i presidenti dei diabetici, «i diabetologi potrebbero assicurare la prima assistenza ai pazienti provenienti dal pronto soccorso, ovvero garantire la consulenza a qualsiasi altro reparto ove fosse ricoverato un diabetico ed infine, richiedere di effettuare esami nel vicinissimo centro analisi». «Per dovere di cronaca – scrivono ancora Calvisi e Giuliani –, si precisa che la Diabetologia ospedaliera non ha raddoppiato il suo organico medico, né tantomeno infermieristico, in quanto ai due medici già operanti è stato incluso un solo terzo medico che ha portato con se ben 2.000 pazienti che vanno ad aggiungersi ai circa 4.000 pazienti già in carico al Centro (e non 3.000 utenti come indicato dai sindacati)». Per realizzare un servizio sanitario degno di questo nome, occorre «un organico adeguato in medici ed infermieri, necessario per offrire un servizio di eccellenza senza far calare l’offerta del servizio e, semmai, far incrementare la domanda di prestazioni – concludono i due presidenti –. La diabetologia dovrebbe essere composta da varie specializzazioni che devono formare un team integrato, che realmente si prenda carico della persona con diabete o della famiglia se si tratta di bambini o anziani». _____________________________________________________ L’Unione Sarda 28 mar. ’13 AOUSS, L'ADDIO SILENZIOSO DEL DIRETTORE SANITARIO Francesco Tanda, direttore sanitario dell'Azienda ospedaliera universitaria di Sassari, si è dimesso dall'incarico. Fin dai prossimi giorni tornerà alla direzione dell'Istituto di Anatomia patologica. All'Aou gli subentra oggi Mario Manca. Proviene dalla Asl n.1 dove dal 2002 al 2008 è stato responsabile dell'Unità Operativa di validazione biologica trasfusionale, centro di riferimento regionale delle tecniche NAT per la ricerca dei virus dell'epatite C e B e dell'immunodeficienza acquisita (Hiv). Quindi ha assunto la responsabilità del Servizio di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale dell'ospedale di Ozieri, stesso ruolo che ha poi ricoperto dal 2010 a ieri nell'Ospedale di Alghero. Francesco Tanda, uomo di poche parole, ha spiegato così le sue dimissioni: «È una scelta che deriva da esigenze strettamente accademiche e personali. Voglio tornare a fare l'anatomo patologo e il ricercatore. E il direttore generale, Sandro Cattani, con cui ho lavorato sempre in assoluta sintonia, ha compreso la mia decisione». Tanda si era già dimesso nel marzo del 2012 insieme al suo omologo dell'Asl n.1 Nicolò Licheri ma entrambi erano poi tornati sui loro passi tre mesi dopo. Una decisione in parte legata ai problemi della sicurezza delle strutture di cui si era dovuto far carico e che non avevano alcuna attinenza con i compiti di un direttore sanitario. Poi l'Aou ha assunto un professionista del settore e il professor Tanda ha potuto dedicarsi agli obiettivi che più gli stavano a cuore: la predisposizione dell'atto aziendale e la progettazione del nuovo ospedale. (g.b.p.) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 26 mar. ’13 SERGIO DEL GIACCO: IL PREMIO IMID AWARD 2013 Al convegno di Lecce su ingerimento del glutine e implicazioni fisiopatologiche Ha dedicato la vita alla Medicina, raggiungendo importanti traguardi: impegno ancora oggi sottolineato da prestigiosi riconoscimenti. Nei giorni scorsi il professor Sergio Del Giacco, già titolare della cattedra di Medicina interna all'università di Cagliari, è stato insignito, a Lecce, del Premio Imid Award 2013, per l'eccellenza nella medicina clinica e nelle scienze della vita. L'Imid è un centro di alto livello specializzato nel trattamento delle malattie infiammatorie immunomediate. Ogni anno organizza la Imid scientific conference, cui partecipano studiosi provenienti da numerosi paesi del mondo. Quest'anno è stata dedicata alle reazioni legate all'ingerimento di glutine e alle relative implicazioni fisiopatologiche. Tematiche di carattere immunologico, da sempre al centro dell'attività di ricerca del professor Del Giacco, come ha sottolineato il presidente dell'Imid, Alfredo Tursi, docente di Immunologia clinica a Bari, nel corso della premiazione avvenuta l'8 marzo scorso nel complesso monumentale di Torre del Parco. Significativa la motivazione, che sottolinea l'impegno dello studioso cagliaritano: «Ha posto il malato al centro dell'attenzione, sia dal punto di vista professionale che istituzionale». In effetti, Del Giacco non si è dedicato solo alla ricerca e alla didattica. I suoi interessi personali (da presidente del Lions club) e gli incarichi accademici, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, lo hanno coinvolto in attività scientifiche e sociali. È accaduto, in particolare, con l'esplosione del fenomeno Aids, quando la diffusione del virus Hiv (all'epoca pressoché sconosciuto) ha aperto prospettive inquietanti a livello mondiale. Del Giacco è stato coinvolto nella lotta all'emergenza, come componente del Commissione nazionale per l'Aids, che elaborava le strategie di prevenzione e cura del male. Attività importante, quella contro l'Hiv, da inquadrare nel vasto panorama di interessi scientifici che hanno caratterizzato l'attività di questo studioso nato a Pavia, ormai sardo d'adozione. (l.s.) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 26 mar. ’13 Carlo Cabula, dalla scuola del professor Tarquini alla termo ablazione CARLO CABULA: QUEL DOTTORE GIORNALISTA SEMPRE A CACCIA DI TECNOLOGIE VEDI LA FOTO Carlo Cabula, 57 anni, è un allievo della scuola di Patologia oncologica chirurgica creata all'Università di Cagliari dal professor Achille Tarquini, autentico pioniere dell'ospedale Businco, che definisce «il mio maestro». Laureato a Cagliari, con specializzazione in Chirurgia plastica ricostruttiva, è responsabile dell'Unità diagnostica operativa al Businco. Chirurgo oncologo dedicato alla patologia tumorale della mammella, della tiroide e del fegato, si è perfezionato a Parigi, presso il Centro di chirurgia epatobiliare diretto dal professor Henry Bismuth. Una passione scientifica e professionale che unisce all'impegno sociale di membro del direttivo della Lega tumori e di giornalista pubblicista; qualifica cui tiene molto, quasi quanto a quella di chirurgo e di insegnante presso la Scuola di specializzazione in Gastroenterologia dell'Università. Attualmente, si sta dedicando alla Elettrochemioterapia, ma è sempre stato curioso delle nuove tecnologie. Così, nel '92, è stato fra i primi cinque chirurghi in Italia a impiegare le tecniche di termo ablazione nel trattamento dei tumori del fegato e della mammella. Da allora, ha eseguito più di tremila interventi. Nel 2006 ha elaborato una metodica conservativa di chirurgia della mammella denominata Tumorectomia termo assistita sulla quale è in corso uno studio (il primo, ormai in dirittura d'arrivo) condotto sotto l'egida della Fda (Food and drug administration) degli Stati Uniti. «È partito da Cagliari - spiega Cabula - ma è stato poi esteso anche a Napoli, Milano e Verona. Abbiamo accertato che le pazienti sottoposte a tumorectomia della mammella, con bonifica dell'area residua mediante termo ablazione, hanno lo stesso tasso di recidiva locale di quelle operate con quadrantectomia. Il ricorso alla termo ablazione consente però un intervento più limitato, con minore asportazione di tessuto, a parità di rischio». Preoccupazione da chirurgo plastico, «attento a migliorare la qualità della vita delle pazienti e a rispettare il loro corpo. Oggi la chirurgia è sempre più mini invasiva e meno demolitiva. La tecnologia ci consente di fare cose un tempo impensabili. Negli anni '70 si riteneva che l'intervento demolitivo fosse più curativo. Oggi vediamo che si può essere altrettanto radicali e curativi con interventi limitati e conservativi». (l.s.) _____________________________________________________ Corriere della Sera 31 mar. ’13 ALLE ORIGINI DEL «METODO STAMINA» Dal laboratorio di Torino alla ribalta nazionale Siamo a fine aprile del 2009. In un modesto ambulatorio di Torino, corso Moncalieri 315, Leonardo Scarzella, di mattina neurologo all'Ospedale Valdese, visita privatamente pazienti con problemi neurologici e propone una cura innovativa: il trapianto di cellule staminali. La terapia, come il medico illustra all'inviato del Corriere della Sera che gli sottopone la cartella clinica di un signore sessantaduenne colpito da ictus e semiparalizzato, prevede una serie di tappe. Prima il prelievo di cellule staminali dal midollo del paziente stesso, poi la moltiplicazione in un laboratorio (ma non ci è dato di conoscere il nome) e infine la somministrazione al paziente, in tre sedute, attraverso una puntura lombare. Per maggiori informazioni sulla clinica dove saranno attuate queste procedure, il dottor Scarzella (che dice di avere rapporti con centri in Gran Bretagna, Germania e Italia, a Trieste) ci suggerisce di rivolgerci al professor Davide Vannoni e ci fornisce il numero di telefono. Costo del trattamento? Dai 20 ai 30 mila euro, risponde Scarzella, più 7 mila per ogni puntura lombare. Il nome di Vannoni non è nuovo: compare in alcuni depliant che in quello stesso periodo vengono inviati a pazienti paraplegici e propongono cure a base di staminali. Depliant e altri documenti, datati 2008, parlano di percorsi terapeutici, di malattie curabili con questo trattamento, di costi, di risultati. E citano la Re-Wind Biotech, azienda che si prefigge di produrre linee cellulari adatte all'applicazione terapeutica sull'uomo e la Stem Cell Foundation (costituita nel 2008 nella Repubblica di San Marino) che ha l'obiettivo di sviluppare la ricerca sulle staminali adulte: il presidente è Vannoni. Vannoni è professore associato di Psicologia all'Università di Udine e uno dei soci di Cognition, un istituto di ricerca e formazione che si trova in via Giolitti 41 a Torino e condivide la sede con la Re-Wind Biotech e la Stem Cell Foundation: il numero di telefono corrisponde a quello fornitoci da Scarzella. Insomma, un intreccio di nomi, di società, di fondazioni, in cui è difficile districarsi. Anche perché nel 2009, Vannoni fonda la Stamina Foundation Onlus (con sito e pagina Facebook) «per sostenere la ricerca sul trapianto di staminali mesenchimali e diffondere in Italia la cultura della medicina rigenerativa». In questa confusissima storia, Raffaele Guariniello, sostituto procuratore presso la Procura del Tribunale di Torino vuole vederci chiaro, anche perché la legge italiana vieta il ricorso alle staminali al di fuori di protocolli sperimentali riconosciuti. In seguito all'articolo del Corriere (3 maggio 2009) e all'esposto di un impiegato della Cognition (avrebbe visto passare, negli uffici della società di ricerche di mercato, pazienti gravi pronti a pagare per trattamenti con le staminali) la Procura torinese apre un'inchiesta sull'attività della Stamina Foundation (e su una clinica a Carmagnola, la Lisa Day Surgery) e l'indagine preliminare si conclude, nell'agosto del 2012, con la richiesta di rinvio a giudizio per 12 indagati tra cui alcuni medici e lo stesso Vannoni. I reati ipotizzati sono somministrazione di farmaci imperfetti e pericolosi per la salute pubblica, truffa e associazione a delinquere. Inoltre il pm ipotizza che numerosi familiari dei pazienti abbiano versato alla Stamina Foundation somme di denaro comprese fra i 30 e i 50 mila euro. Nel frattempo, però, la Fondazione continua la sua attività in ambito clinico, applicando su numerosi pazienti il «protocollo Stamina» (protocollo che, però, non è mai comparso in alcuna rivista scientifica) grazie anche alla collaborazione con il dottor Marino Andolina, coordinatore del Dipartimento trapianti adulto e pediatrico all'Ospedale Burlo Garofolo di Trieste. Andolina incontra Vannoni a San Marino e si lascia coinvolgere nel «progetto staminali». Questo progetto, racconta Vannoni in un'intervista, nasce da una sua esperienza personale: curato nel 2004 in Ucraina per una paralisi facciale con un trapianto di staminali, vuole importare il trattamento in Italia. E lo fa prima a Torino, in una clinica privata, poi, dopo la normativa europea del 2007 che pone limiti alla ricerca sulle staminali, va a San Marino. E infine, tramite Andolina, approda al Burlo. In un primo momento l'accordo con l'ospedale prevede solo una collaborazione sul piano della ricerca, poi Andolina comincia a trattare pazienti (all'inizio di domenica, per non interferire con il lavoro dell'ospedale, e gratuitamente, dice). Nel 2010 vengono curati numerosi casi, soprattutto di bambini, con patologie come la tetraparesi spastica e la sindrome di Niemann Pick, ma anche casi di Parkinson e di sclerosi multipla. Ed è in quell'anno che comincia il braccio di ferro fra medici che criticano il metodo (perché non supportato da sperimentazioni scientifiche) e giudici che impongono la cura, fra pazienti (soprattutto genitori di bambini con malattie gravi e spesso incurabili) che invocano il trattamento e direzioni ospedaliere che pongono il veto, in un valzer di dichiarazioni, smentite, prese di posizione o non prese di posizione da parte di tutti. Guariniello, intanto, fa sequestrare le cellule a Trieste e l'attività si blocca per circa un anno. Poi riprende fino a quando, nel novembre del 2012, il ministero della Salute boccia definitivamente quello che è stato definito il «metodo di bella» delle staminali. Nell'ottobre del 2011, mentre a Trieste tutto è fermo, Andolina ottiene dagli Spedali Civili di Brescia di avviare le cure con il «metodo Stamina» a uso compassionevole per bambini affetti da gravissime patologie neurovegetative, come Celeste, Gioele, Sofia, nomi che si incontrano nelle cronache delle ultime settimane. Si sta riproponendo la querelle medico-giudiziaria-scientifica di Trieste, ma questa volta amplificata dal programma televisivo delle Iene e dall'articolo di Adriano Celentano, schierati a favore del «metodo Stamina». Nel frattempo i giudici decidono a chi spettano queste cure (su 37 pronunciamenti i sì sono stati 32), fino al paradosso dei due magistrati di Torino che, di fronte alla richiesta di due fratelli con la stessa malattia neurodegenerativa, hanno preso decisioni opposte. E il 21 marzo il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge presentato dal ministro Balduzzi, che autorizza la prosecuzione del trattamento per chi lo ha già cominciato. Adriana Bazzi abazzi@corriere.it I DUE «MISTERIOSI» RUSSI DA CUI TUTTO EBBE INIZIO I "russi" sono due personaggi chiave della vicenda Stamina. Sono loro la sponda scientifica, i detentori del metodo originale di trattamento delle mesenchimali da cui poi, dice Vannoni, è stata sviluppata la metodica italiana. Si è molto fantasticato sulla loro identità e sulla loro "scomparsa" nel 2009. Vannoni li ha conosciuti nel 2005 in Ucraina, mentre cercava una cura che migliorasse gli esiti di una paresi facciale. Vyacheslav Klymenko, 71 anni, ed Elena Shchegelskaya, entrambi di origini russe, lavoravano all'Università Karazin di Kharkov. Lui, docente di biologia, con studi di citogenetica (sui bachi da seta) e accreditato da Vannoni di circa 100 pubblicazioni su riviste russe (31 sul motore di ricerca Pubmed, ndr). Lei, direttore di un laboratorio di biotecnologia cellulare, con esperienza di ricerca e sperimentazione clinica sulla terapia cellulare con cellule stromali, 48 pubblicazioni all'attivo (secondo Vannoni), 4 su Pubmed. Fanno la prima puntata in Italia nel 2006, solo per costituire la Re-Gene srl, società di ricerca e sviluppo di biotecnologie, con Vannoni e Marcello La Rosa, direttore di Ires Piemonte (anche lui indagato nell'inchiesta di Torino). Far diventare i due russi soci di Re-Gene, spiega Vannoni: «Era l'unico modo di fargli ottenere i permessi di soggiorno». I biologi tornano nel 2007 e iniziano la loro attività. Vannoni cerca di introdurli negli ambienti scientifici e imprenditoriali per allargare i contatti, senza grande successo. Finiscono isolati anche a San Marino. Nel febbraio 2009, di fronte allo stallo del progetto, tornano in Ucraina. «Non sono scappati. Volevano portare una metodica nuova nel mondo occidentale» dice Vannoni. Ora, forse, sono negli Stati Uniti. R. Cor. _____________________________________________________ Corriere della Sera 31 mar. ’13 STAMINA: IL METODO (E LE IDEE) DEL CREATORE E DEL MEDICO DI STAMINA FOUNDATION Il loro percorso personale e professionale Chi sono Davide Vannoni e Marino Andolina, i due protagonisti delle contestate cure con le staminali, una vicenda che sta riproponendo una spaccatura fra opinione pubblica e scienziati. Li incontriamo in un hotel di Brescia, a meno di un chilometro in linea d'aria dagli Spedali Civili, teatro dell'ultima battaglia sulle staminali, tra telefonate in continuazione di pazienti vecchi e nuovi (dal 2008 ne sono stati trattati 65 in Italia e qui a Brescia 37, ma a Stamina Foundation sono arrivate più di 10 mila richieste) e filmati del «prima-dopo» la cura mostrati su un tablet. Presidente di Stamina Foundation, professore (associato) di Psicologia della comunicazione a Udine, torinese di 46 anni, padre (separato) di due bambini di 5 e 10 anni, Vannoni è un cognitivista con il pallino delle neuroscienze. Marino Andolina invece è un pediatra-immunologo di 67 anni, sposato e con tre figli, fino al 2011 direttore del Dipartimento trapianti dell'ospedale Burlo Garofolo, di Trieste. È anche un medico volontario in zone di guerra e disastri naturali. Ma soprattutto il suo curriculum racconta che è stato il primo pediatra italiano a eseguire trapianti di midollo, nel 1984; per primo al mondo ha curato una malattia genetica (Niemann Pick B) con staminali da placenta, nel 1986; ha insegnato a fare i primi trapianti a Pavia, Genova, Samara, Belgrado e Baghdad; nei primi anni 90 ha iniziato a trattare leucodistrofie con cellule da sangue periferico per via lombare. In questi quasi cinque anni, la magistratura e tanti quantomeno scettici, come buona parte del mondo scientifico, li hanno definiti in tanti modi: gente che specula sulla malattia e il dolore delle famiglie dei pazienti raggirandole, pifferai magici, venditori di illusioni, alchimisti. Per le famiglie degli ammalati, ovviamente, sono l'ultima speranza. Entrambi hanno provato le staminali mesenchimali su sé stessi e, sostengono, con buoni risultati. Vannoni, qual è l'accusa più pesante per lei? «La truffa, perché non ho mai agito con quello spirito. Ho sempre pensato che la terapia funzionasse e non ho mai voluto illudere nessuno per guadagnarci o speculare. Ho visto una grande idea e ho voluto portarla in Italia. Mi ritengo più che altro un innovatore e ne pago il prezzo». A dirla tutta, il prezzo lo hanno pagato anche i malati. Ci dica onestamente: c'è stato un momento, almeno all'inizio, in cui ha pensato di fare business con questa attività? «Avevo una società di ricerche sociali a Torino, la Cognition, che faceva un buon profitto. Il modo migliore di guadagnare soldi, se avessi voluto veramente guadagnarne, e ne avrei guadagnati tanti con le staminali, non era di portarmi dei biologi russi a Torino (vedi articolo sotto, ndr) e poi a San Marino. Il modo migliore sarebbe stato di lasciarli lì dove la legge permetteva loro di fare qualunque cosa volessero, visto che lavoravano anche all'interno dell'Università, mandare i pazienti dall'Italia, prendermi una quota di quello che loro spendevano, e avrei guadagnato senza fare una virgola di fatica. Avrei concluso con i biologi un contratto di esclusiva, perché di pazienti italiani non ne avevano, e ne avrei portati a migliaia». Una richiesta economica ai pazienti però c'è stata. I depliant che giravano, riportavano i prezzi della cura. Perché? «Se avessi potuto dare le cure gratuitamente fin da allora l'avrei fatto. Chiaramente adesso lo posso fare. Eravamo in emergenza continua. I finanziamenti deliberati dalla Regione Piemonte per il progetto di un laboratorio all'avanguardia non arrivavano e sei pazienti erano già in trattamento. E lì c'è stato, se vuole, il "peccato originale" di dire: abbiamo bisogno di sopravvivere. Alla fine da questa attività ho avuto grandi perdite, ma non perché ci ha bloccato Guariniello. Il motivo vero è che i pazienti trattati a 1.000 euro quando preparare le loro cellule ne costava 15 mila, quelli che non pagavano un euro e quelli che pagavano giusto il costo, erano più di quelli che pagavano le cifre che sono state scritte (fino a 50 mila euro secondo l'indagine della Procura di Torino, ndr). Con loro però compensavamo quelli che venivano curati gratis. I pazienti che potevano permetterselo donarono intorno ai 20 mila euro a testa». Se la sentirebbe di parlare di guarigione per questi pazienti? «Su alcune patologie sì. Ci sono patologie che non abbiamo mai trattato prima, come la SMA 1 sulla quale stiamo lavorando e vedo che i risultati sono importanti. In Celeste, per esempio, sono risultati che si mantengono perché in otto mesi di interruzione delle cure la bambina non ha perso nulla. Sono solo otto mesi e diciamo che è stata una fortuna. Per quello che ne sapevamo, Celeste poteva crollare e dopo due mesi morire di SMA 1. E invece ha mantenuto tutte le qualità muscolari recuperate. Non so se Celeste tra due anni riprenderà a degenerare, se non dovesse fare più staminali. Però preferirei scoprirlo non perché l'Aifa impedisce a Celeste di fare le cure, ma perché la bimba sta bene e quindi si interrompe il ciclo terapeutico». Sono dati verificabili? «Certo, i dati sono in ospedale. Basta leggere la lettera di dimissioni dell'Ospedale di Brescia dopo che la bimba ha fatto l'ultima iniezione: c'è una valutazione oggettiva del neurologo. Non sono impressioni dei genitori, nè tantomeno opinioni di Stamina». Ha mai promesso una guarigione ai pazienti? «No, anche perché i pazienti arrivavano da me dopo essere passati dai medici, da neurologi come Leonardo Scarzella di Torino. A me chiedevano: guarirò? E io rispondevo: mah non lo so, dipende, abbiamo ottenuto questi risultati. All'inizio si parlava di risultati ottenuti in Ucraina, sulla base dei documenti e delle pubblicazioni che ci avevano dato là. Quindi avvertivamo: in questa patologia non è detto. Abbiamo sempre cercato di fare le cose seriamente. Ovvio che poi il paziente lo si conforta, gli si dice: speriamo tanto che lei migliori, ci saranno dei miglioramenti. Ma è molto diverso dal garantire la guarigione. Non lo abbiamo fatto allora e non lo facciamo neanche adesso». Gli unici dati pubblicati, quelli che riguardano i cinque pazienti del Burlo Garofolo, indicano che non ci sono stati risultati: dunque? «I cinque pazienti sono stati curati con le cellule prodotte dalla cell factory dell'ospedale San Gerardo di Monza. Lo studio dice che non fanno male e mi fa molto piacere. Ma è un'altra metodica, con altri tipi di cellule. Tra 20-30 giorni l'ospedale di Brescia dovrebbe rendere noti i dati dei pazienti trattati finora. Porterò anche delle pubblicazioni internazionali su questa metodica a dimostrazione che anche in tanti altri casi del passato, oltre a esser stata fatta una fase preclinica, ci sono dei risultati e non ci sono state controindicazioni». Parla degli studi portati avanti in Ucraina? «Non solo. Li renderò noti tra poco a quelli che sono interessati. Perché la comunità scientifica probabilmente non lo è; se lo fosse, potrebbe benissimo fare una richiesta, attraverso il ministero, per avere le cartelle cliniche, con i pazienti resi anonimi, e incominciare a esaminarle. Quelle ci sono, non è che ce le ha Stamina nascoste in un cassetto. Sono in un ospedale pubblico». Gli esperti in Italia e all'estero però mettono in dubbio gli effetti e la sicurezza delle vostre cure. «Allo stato attuale, all'ospedale di Brescia non è mai stato individuato un effetto collaterale e abbiamo pazienti in cura da un anno e mezzo ormai, che hanno finito i cinque cicli della terapia. I nostri sono pazienti sui quali, nel momento in cui interrompessimo le cure, non potremmo mai vedere gli effetti a lungo termine nonché valutare la sicurezza del trattamento, perché morirebbero molto prima del tempo necessario per farlo. Parliamo di persone che hanno davanti sei mesi, otto mesi di vita più o meno. Preferisco allora mantenerli in vita con la terapia, piuttosto che interrompere le cure e lasciarli morire per poter dire poi che non sono morti per colpa delle staminali. A proposito della sicurezza delle cellule poi, non stiamo lavorando in uno scantinato o sottobanco, ma nel secondo ospedale pubblico italiano per dimensioni. E non dimentichiamo che dentro quell'ospedale non lavoriamo di nascosto, ma secondo un decreto dello Stato italiano (Turco- Fazio del 2006, ndr). Il laboratorio poi, nonostante il blocco della produzione delle nostre cellule imposto da Aifa dopo l'ispezione del maggio scorso, per altro impugnata dagli stessi Spedali Civili di Brescia e dalla Regione Lombardia, ha continuato a lavorare sulla base delle ordinanze dei giudici». Dottor Andolina, è vero che portavate i pazienti di Stamina nel fine settimana al Burlo Garofalo di Trieste? «In vita mia, i trapianti li ho sempre fatti lavorando anche 20 ore al giorno per tanti anni, tutti i giorni. Dormivo in ospedale. Quindi per me lavorare la domenica era assolutamente normale. Nel 2009, avevamo stipulato una convenzione di ricerca tra ospedale e Stamina Foundation. Ho cominciato a trattare con cellule Stamina alcuni pazienti di Vannoni, perché ritenevo fosse la naturale continuazione di una sperimentazione, finanziata tempo prima dal ministero, per trapianti di midollo nelle malattie genetiche in cui si prevedeva la terapia intratecale (cioè con iniezioni nel rachide, come si fa per le staminali, ndr). Avevo anche ottenuto il nullaosta del Comitato etico dell'ospedale. Probabilmente ho sbagliato in qualcosa, anzi ho sbagliato di sicuro, ma sempre meno di quando "ho sbagliato" facendo i primi trapianti di midollo italiani in età pediatrica (eseguiti quando ancora non esisteva una legge sui trapianti, ndr)». A Trieste ha agito di nascosto? «No. Agli atti del pm Guariniello c'è anche una mail alla direzione sanitaria, in cui dicevo: sapete cosa sto facendo. Nella mail facevo presente anche il disagio dei pazienti, che facevano il prelievo di staminali a Torino, e il problema del trasporto del materiale biologico a Trieste. Scrivevo che gli anestesisti erano pronti a lavorare di domenica per fare loro i prelievi, in attività privata intramurale. Non mi hanno risposto. Le cellule invece le trattavo nel laboratorio del Centro trapianti: manipolavo io stesso le cellule perché sono un criobiologo. Per tutto quello che ho fatto a Trieste, per cui sono indagato, sono stato mandato due volte in Consiglio di disciplina dell'ospedale e ho vinto». Sveliamo il segreto: in che cosa consiste il metodo Stamina? «Ci sono una serie di punti. Il prelievo non è di midollo liquido, molto più ricco di cellule emopoietiche, ma di una "carota" ossea, cioè una biopsia: quindi è di stroma. I tempi di coltura: più brevi, 15-20 giorni, per evitare anche il teorico, modestissimo, rischio che le cellule si avvicinino alla maturazione in cartilagine-osso, che è la cosa che sanno fare meglio. La composizione del terreno di coltura viene adeguata in funzione di come si formano le colonie di cellule. Le cellule vengono "staccate" e congelate in vapori di azoto liquido. Altro punto importante è la differenziazione verso la linea neurale, dopo lo scongelamento delle cellule: una differenziazione brevissima, grazie alla quale iniettiamo cellule che hanno caratteristiche sia neurologiche che ancora staminali. Noi manteniamo la "staminalità" in cellule che sono indirizzate verso linee neurali, perché così passano la barriera ematoencefalica, mentre le cellule mature non passano. Vengono effettuate due infusioni a ciclo, una per via endovenosa di cellule staminali mesenchimali e la seconda per via intrarachide con cellule staminali differenziate in senso neuronale (il trattamento prevede 5 cicli, a distanza di almeno 30 giorni uno dall'altro a seconda dello stato immunologico del paziente, ndr). E, infine, il know-how importante non è quello scritto, ma l'esperienza della persona che prepara le cellule». Vannoni, davvero non c'è altro? «È tutto scritto nelle domande di brevetto depositate negli Stati Uniti. Sul sito della rivista Nature (che ha pubblicato nei giorni scorsi un articolo molto critico sul caso Stamina, ndr) molti si scagliano contro di noi. Mi stupisco di tutta questa acredine verso qualcosa che tutto sommato non conoscono e che riguarda "cure compassionevoli". Perché vogliono fermare cure compassionevoli su persone moribonde? Lo fanno per il loro bene? Lo fanno per il bene della scienza? Lo fanno per interesse personale? Tra 20-30 giorni, come ho già detto, cominceranno a uscire i primi dati sui pazienti che hanno fatto la quinta infusione, completando il trattamento. Sono dati strumentali, oggettivi. Fossi in loro aspetterei almeno di vederli. «Inoltre, alla fine dell'articolo di Nature c'è il commento di un biologo italiano, che riporta i passaggi della preparazione ricavati dalle richieste di brevetto depositate in Usa e dice che sarebbe interessante provare il protocollo Stamina in tutti i laboratori che si occupano di mesenchimali. È una persona che apprezzo, perché ha almeno detto: vediamo se questa cosa funziona. Nel nostro protocollo ci sono anche "raffinatezze", ma un bravo biologo può riconoscerle. Non ci sono altre sostanze oltre quelle descritte nei brevetti: lì si parla di acido retinoico e di alcol, una delle chiavi terapeutiche più importanti della nostra metodica. È una grande innovazione, perché nessuno ha pensato di usare l'etanolo come sostanza per portare all'interno delle cellule sostanze di differenziazione. Si usa in genere il dimetilsulfoxido, che danneggia le cellule e ci mette settimane a passare all'interno. Noi differenziamo in un'ora». Non temete che vi "rubino" l'idea e la sfruttino? «Chiunque troverà la chiave per fare dei neuroni a uso terapeutico con la nostra metodica, non potrà brevettarla. Questo grazie alla domande di brevetto depositate, e non ancora approvate, negli Stati Uniti. Avevamo presentato il brevetto anche in Italia e l'abbiamo ritirato. Poi lo abbiamo fatto per Europa e Canada. A un certo punto ho deciso di ritirare anche quelli. Ho lasciato in piedi solo le domande negli Usa. Perché? Intanto la metodica è diventata visibile, così nessuno può accusarci di tenerla nascosta. In secondo luogo, perché quella è la sede delle grandi multinazionali. Essendo classificata come "tecnica nota", nessuno comunque può più brevettarla, nè dunque sfruttarla commercialmente». Come andrà a finire? «Ci sono tante cose ancora in sospeso. Non so che cosa farà il giudice Guariniello, nè come sarà attuato il decreto Balduzzi, o come alla fine reagirà la politica. Sicuramente quello che mi accomuna molto a Marino Andolina è che siamo due kamikaze: se credo veramente in un'idea, vado fino in fondo. Sempre». Ruggiero Corcella _____________________________________________________ Corriere della Sera 31 mar. ’13 STAMINA: CHE COSA SIGNIFICA «DIRITTO ALLE CURE» Libertà di scelta, terapie compassionevoli, tutela della salute, risorse pubbliche sono tutti elementi del complesso rapporto tra legge, emotività, Servizio sanitario I l caso Stamina ha sollevato numerosi dubbi, tante obiezioni e domande di ordine giuridico, come testimoniano anche i commenti giunti al sito del Corriere Salute. Poi il decreto legge presentato dal ministro della Salute Renato Balduzzi al Consiglio dei ministri di giovedì 21 marzo (G.U. 26 marzo 2013) ha soddisfatto alcuni e spiazzato altri. Cerchiamo allora, di dare risposte alle principali perplessità con l'aiuto del magistrato Amedeo Santosuosso. Che cosa pensa del decreto legge che ha autorizzato il proseguimento dei trattamenti con il «metodo Stamina» nei casi «già avviati»? «Il ministro nel suo ultimo decreto, invece di limitarsi a disporre su questioni tecniche e di sicurezza dei preparati, ha disposto sulle cure da somministrare. Questo è opinabile, visto che il Servizio sanitario è regionalizzato e quindi sotto la giurisdizione delle Regioni. Inoltre, non fa che spostare in avanti il problema, quando si creeranno nuovi casi — già ora vi sono gruppi di familiari che protestano contro il decreto Balduzzi perché troppo restrittivo — e le questioni da affrontare saranno ancora quelle di prima. «L'intervento del ministro sposta l'eventuale contenzioso perché, a questo punto, dovrebbero essere i medici o gli ospedali — potrebbero rispondere negativamente alle richieste dei pazienti per mancanza di fondamento scientifico dei trattamenti — a opporsi e a impugnare quella decisione, in quanto lesiva delle loro prerogative. Ma si tratta di uno scenario che pare, di fatto, improbabile». I giudici che hanno accolto le richieste di trattamento con cellule staminali mesenchimali secondo il metodo Stamina hanno richiamato nelle loro ordinanze il «diritto alla salute», come diritto costituzionale fondamentale a ricevere le cure necessarie. Lo si può intendere anche come il diritto a potersi curare secondo la propria percezione dell'efficacia dei trattamenti? «Il diritto alla salute ha una componente soggettiva, che va rispettata. Ma un conto è considerare la componente soggettiva come un aspetto del danno che una persona può ricevere per effetto di una lesione, un altro è ritenere che la componente soggettiva possa essere elemento fondante del diritto a ricevere un qualsivoglia trattamento, quello che io ritengo mi faccia stare meglio. «Se così fosse, infatti, potrei fare ricorso al giudice per chiedere che mi si diano, paradossalmente, ostriche e champagne perché soggettivamente ritengo che mi facciano bene. Questo, evidentemente, non è possibile, perché il Servizio sanitario, anche se non ha scopo di profitto, risponde comunque a una logica di tipo assicurativo, con risorse attinte dalla fiscalità generale e prestazione che vengono erogate. «Politica e amministrazione hanno il dovere di attribuire queste risorse, non infinite, nel modo più appropriato. Ovvero: nel modo conforme a quelle che sono le evidenze scientifiche. Questo è il criterio fondamentale che deve guidare le scelte. «Il contrario sarebbe una corsa a chi arriva prima a chiedere quello che soggettivamente ritiene giusto». I genitori che chiedono il trattamento con le staminali per i loro bambini invocano le «cure compassionevoli». Come si può pretendere «razionalità scientifica» quando si tratta dell'unica speranza per casi disperati? «Cura compassionevole non significa "cura a caso". Significa usare preparati per un patologia in una situazione che è diversa da quella per i quali sono registrati, o preparati che siano comunque in via avanzata di sperimentazione. Il principio di cura compassionevole non è totalmente alternativo a quello di prova scientifica di quello ciò che si cerca». C'è chi obietta che il diritto alla salute, diritto fondamentale, non possa essere subordinato a questioni di budget… «Ancora una volta bisogna distinguere. Una cosa è il diritto a non ricevere invasioni del proprio corpo, diritto che non richiede la cooperazione di altri: questa libertà, anche se comporta dei costi, è da garantire al cento per cento. Altra cosa è quando il diritto alla salute si traduce nella pretesa ad avere trattamenti dallo Stato: allora inevitabilmente bisogna tornare a criteri razionali di riparto». Questo ragionamento però è «freddo», non tiene conto della sofferenza… «Ho la massima comprensione per le persone protagoniste di questa vicenda che hanno figli in condizioni disperate. Teniamo presente però che, siccome la coperta del Servizio sanitario nazionale è sempre la stessa, che viene tirata da una parte o dall'altra, ragionare "con il cuore in mano" in un caso significa far piangere in un altro. Pensiamo, per esempio, a chi non trovasse un posto in rianimazione per carenza di letti nella sua zona... È evidente, allora, come questa obiezione sia molto suggestiva, ma puramente emotiva». C'è chi dice: la scienza non è «la verità» e quindi non si può escludere che il trattamento con le staminali secondo il metodo proposto da Davide Vannoni e Marino Andolina funzioni… «È vero che la scienza non è la verità, ma è l'unica verità disponibile in un determinato momento. Non c'è altro ambito della verità umana che sia così deliberatamente e auto-dichiaratamente provvisorio come la conoscenza scientifica. Ma ciò non significa che quello che noi sappiamo fino ad ora non sia socialmente accettabile. «Bisogna essere molto chiari: sostenere che "non si può escludere che il trattamento funzioni" vuol dire ammettere implicitamente che quel trattamento, per lo meno al 50 per cento delle probabilità, sia dannoso. Si torna allora alla necessità di avere delle prove. E nel caso dei trattamenti in questione non vi è per ora alcuna evidenza scientifica». Come mai sono i giudici del lavoro a poter ordinare la somministrazione di questi trattamenti, con provvedimenti d'urgenza? «I giudici del lavoro hanno competenza anche in materia assistenziale. Ed è comprensibile lo scrupolo del giudice che dispone con provvedimento d'urgenza (ex articolo 700 del Codice di procedura civile, il cui presupposto è che vi sia il fondato motivo che nel tempo occorrente a far valere il proprio diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, ndr). Al di là dei ragionamenti di carattere generale, pensa il giudice, io decido nel caso concreto e, se mi si dice che quel bambino sta meglio grazie a quel determinato trattamento, ordino che si continui, nell'interesse del diritto fondamentale alla salute. Sì, va bene, ma non del tutto, perché il giudice non dovrebbe affidarsi alla dichiarazione di amore e di sofferenza dei genitori, o alla dichiarazione del medico curante, che è quanto meno interessata. Il giudice ha la possibilità di disporre una consulenza tecnica d'ufficio in tempi brevissimi e chiedere di avere risposte in tempi altrettanto serrati. Perché, allora, non esercitare questo potere? Perché prendere decisioni puramente ipotetiche circa il vantaggio del trattamento, anche nel caso concreto?». Come si concilia la tutela del diritto alla salute con il fatto che si è in presenza di decisioni discordanti dei diversi giudici? «È comprensibile che ciò susciti sconcerto, ma è il "prezzo da pagare" per avere una magistratura veramente libera di decidere. Questa pluralità di risposte è la garanzia di decisioni calibrate sui singoli casi, nonché della libertà dei giudici nella decisione. E rappresenta anche la possibilità di avere, su questioni incerte, opinioni diverse. In fondo, anche davanti a una diagnosi difficile si consultano diversi specialisti». Esiste un «diritto alla sperimentazione» qualora se ne presenti la possibilità? «Innanzitutto, sperimentazione non equivale a "provarci". Per avviare una sperimentazione che possa produrre risultati conoscitivi, e quindi un incremento delle conoscenze, occorre rispettare un insieme di regole procedurali, concettuali, sostanziali valide a livello internazionale. «L'espressione "diritto alla sperimentazione", inoltre, è una contraddizione in termini: significa affermare il diritto di esporsi quantomeno a un rischio del 50 per cento. La Corte costituzionale, pronunciandosi sul caso Di Bella, affermò che il diritto alla sperimentazione era un'aspettativa compresa nel "contenuto minimo", ovvero non opinabile, del diritto alla salute. A mio avviso, invece, la sperimentazione, è intrinsecamente una prospettiva aperta, e non vedo come la "pretesa di attivazione di una sperimentazione" possa rientrare nel contenuto "indiscutibile" del diritto alla salute e anche un eventuale diritto a partecipare ad una sperimentazione esistente sarebbe un diritto subordinato ai criteri di reclutamento. «Attenzione, comunque, a non sciupare le possibilità terapeutiche che le cellule staminali stanno cominciando a far intravedere: si assiste ad un rischioso oscillare tra la demonizzazione delle staminali — per problemi etici, politici, sociali, religiosi — e un'ipotesi di un loro uso "corrente"». Il metodo Stamina è oggetto di richieste di brevetto negli Stati Uniti. In casi particolari, sull'interesse individuale allo sfruttamento economico esclusivo dell'«invenzione» non potrebbe prevalere l'interesse collettivo alla condivisione delle conoscenze? «Si tratta di una scelta che ogni ricercatore ha davanti a sé e che non si può imporre: chi vuole perseguire la tutela brevettuale (che significa ottenere una privativa su un qualcosa che viene tenuto segreto) rinuncia alla pubblicazione e quindi come ricercatore non esiste, nel senso che non può pretendere di essere riconosciuto dalla comunità scientifica per avere reso noto il suo lavoro, il risultato ottenuto e il metodo adottato. «In breve, non si può rivendicare la fondatezza scientifica del proprio lavoro se non ci si sottopone al giudizio dei pari. Tutela brevettuale e fondatezza scientifica si collocano su piani diversi». Cristina D'Amico _____________________________________________________ Corriere della Sera 31 mar. ’13 STAMINA: PER QUALI MOTIVI I MAGISTRATI HANNO DECISO DI AVVIARE UN'INDAGINE Somministrazione di farmaci imperfetti, pericolosi per la salute pubblica, truffa e associazione per delinquere. Non sono leggeri i reati ipotizzati dalla Procura di Torino nel chiudere — fine agosto 2012 — le indagini preliminari sulle attività della onlus Stamina Foundation. Il fascicolo è stato aperto nel giugno 2009 (dopo un'inchiesta giornalistica del Corriere della Sera) dal procuratore Raffaele Guariniello e si è chiuso con 12 nomi di indagati, tra cui alcuni medici e il presidente della Stamina, Davide Vannoni, 42 anni. Le vittime sarebbero malati di gravi patologie neurodegenerative a cui veniva promessa la guarigione e i loro parenti. Con quale cura? Le stesse infusioni di staminali mesenchimali (forse trattate in modo particolare) oggi al centro del caso politico-mediatico-giudiziario, molto italiano, che le vuole fondamentali come cura compassionevole in situazioni limite, senza per ora una via di uscita. Riavvolgiamo il filo della storia tornando dall'oggi al momento in cui si comincia a indagare. All'epoca di cura compassionevole, che poi non significa guarigione bensì l'uso di un farmaco che può dare anche un minimo miglioramento quando ogni cura è fallita, oppure non esiste (e il destino è segnato), non si parlava. I depliant divulgativi che circolavano tra pazienti paraplegici nel 2009 (e che sono agli atti della magistratura) non lasciavano dubbi: oltre mille casi trattati, recupero del danno dal 70 al 100% (per esempio, 72 recuperi su 90 ictus trattati). I documenti attestanti questi risultati dovrebbero trovarsi negli ospedali o presso gli specialisti che avevano in cura questi casi. Forse sarebbe il caso di cercarli o di tirarli fuori, se qualcuno li ha. Forse riguardano pazienti russi, dove Davide Vannoni dice di aver conosciuto la tecnica nel 2004 facendosi curare con le staminali, a quanto riferisce, una paresi facciale che lo aveva colpito (come racconta in un'intervista del settembre 2012 rilasciata a Bresciaoggi): recupero, a suo dire, del 50% del nervo. Curato da due universitari russi, racconta nell'intervista Vannoni. In effetti si tratta di due biologi che lavoravano in Ucraina. La tecnica è la stessa che la Stamina propone da allora e su cui vi sarebbe una richiesta di brevetto. Nomi e qualifiche in questa vicenda non sono da sottovalutare. Vannoni si presenta come professore associato dell'Università di Udine in Psicologia. Secondo i riscontri della Procura di Torino è laureato in Lettere e Filosofia. Comunque, senza entrare nel merito della qualifica universitaria, la formazione appare più umanistica che medica. E c'è quella richiesta di brevetto che finora sembra avere impedito la verifica della tecnica da parte di altri scienziati che non è chiaro che cosa riguardi. Le cellule staminali in quanto tali, così come i geni, non dovrebbero nemmeno essere brevettabili. Sono i metodi, caso mai, di coltivazione, attivazione e conservazione che potrebbero non essere uguali a quelli noti. Tornando all'inchiesta, la onlus Stamina Foundation — secondo gli inquirenti — chiedeva ai pazienti dai 25 mila ai 50 mila euro. Da inviare tramite bonifico ma precisando che il versamento era una «donazione» alla onlus, dal momento che certi trattamenti non erano permessi. Un paziente, colto da malore dopo una puntura lombare, si fece ricoverare in ospedale a San Marino, dove raccontò ai medici che stava seguendo una terapia cellulare: fu invitato a ritrattare, a dire di essersi sbagliato perché in stato confusionale. Da quanto risulta dagli atti dell'inchiesta sono stati una settantina i «clienti» identificati dai carabinieri del Nas. Nelle carte dell'indagine, anche un video promozionale: si vedono le evoluzioni di un ballerino russo che sarebbe tornato a danzare dopo il trattamento con le staminali, mentre prima era immobilizzato da una malattia neurologica. Il filmato veniva fatto vedere da Vannoni, che a molti pazienti-clienti avrebbe detto anche: non c'è nessuna controindicazione, il trapianto viene fatto da specialisti ucraini. Con la raccomandazione finale ripetuta ogni volta: nessuna pubblicità, in Italia è tutto vietato (anche questo risulterebbe dalle testimonianze raccolte in fase istruttoria dagli inquirenti). Fra i coindagati compaiono i presunti inventori, i biologi Vyacheslav Klymenko ed Elena Shchegelskaya: si erano stabiliti a Moncalieri e collaboravano alle prime applicazioni della «metodica Stamina», a loro attribuita, in un sottoscala di via Giolitti 41 dove, ai piani superiori, avevano sede sia l'azienda di ricerche di mercato di Davide Vannoni (Cognition) sia la sua Fondazione per la medicina rigenerativa. Un sottoscala utilizzato per la manipolazione delle cellule staminali prelevate dalla cresta iliaca dei pazienti, per poi reiniettarle (una volta coltivate e moltiplicate: così veniva detto, ma non c'è certezza) dopo 15-20 giorni nel midollo spinale. Tramite puntura lombare, anche in questo caso stando agli atti. Sul tavolo di Guariniello ci sarebbe anche l'esposto dettagliato di un ex dipendente di Cogniton. Le «iniezioni lombari di staminali rigenerate» sono state via via spostate nel laboratorio Lisa di Carmagnola, in due centri di San Marino (uno dei quali noto semmai per le cure estetiche), all'Irccs Burlo Garofolo di Trieste. Il penultimo troncone di indagine ha portato all'Ospedale generale Zona Moriggia Pelascini di Gravedona (Como), accreditato con il servizio pubblico. Poi la convenzione si è fermata ed è ricomparsa con Brescia. Ma questa è storia attuale. Dalla Regione Piemonte, nel 2007, Vannoni stava per ottenere 500 mila euro sulla base di una «documentazione scientifica» ritenuta di «scarso interesse». In una sanità in crisi colpisce l'ipotesi di uno stanziamento di tale entità per un metodo mai approvato dal Consiglio superiore di sanità né dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) perché a richiesta di informazioni sulla tecnica sembra abbiano sempre prevalso dinieghi giustificati dalla richiesta di brevetto. I chiarimenti su tutto dovrebbero arrivare dai giudici torinesi, che hanno concluso la fase istruttoria praticamente da fine dicembre 2011 e depositato le carte per la richiesta di rinvio a giudizio nel 2012 per 12 dei 13 indagati. E ora si attendono i risultati delle perizie sul caso Brescia (nuovo filone o stessa inchiesta?) e sul destino dei vari malati che hanno usufruito del «metodo Stamina» in passato. I carabinieri del Nas hanno acquisito documenti (tra cui i bonifici dei pagamenti, ufficialmente donazioni alla Fondazione) e ascoltato decine di pazienti e di loro parenti. La cura con le staminali non è autorizzata in Italia, se non in caso di sperimentazioni super controllate. Stamina invece, secondo l'inchiesta la proponeva a malati di Parkinson, di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), di sclerosi multipla. A pazienti con lesioni spinali, paralisi cerebrale infantile, colpiti da ictus. A pazienti oncologici, a bambini affetti da rare patologie. Soprattutto a parenti pronti a tutto per tentare l'ultima carta. Questo nella fase pre-inchiesta, ora la via è quella della «cura compassionevole». Mario Pappagallo _____________________________________________________ Sanità News 28 mar. ’13 PER NATURE IL METODO STAMINA E’ PERICOLOSO Un articolo pubblicato sulla rivista Nature affronta le problematiche italiane riguardo l’uso delle cellule staminali sia dal punto di vista penale che scientifico. Secondo l’autrice dell’articolo Allison Abbott, la comunità scientifica internazionale non è ancora pronta per definire la maniera migliore e meno nociva sull'utilizzo delle cellule staminali. L’Italia, secondo l'autrice dell'articolo, è l'unico Paese nel quale, una cura la cui efficacia non è mai stata dimostrata, ha ricevuto di fatto un’approvazione ufficiale, riferendosi al decreto con il quale il ministro Balduzzi ha deciso che “un controverso trattamento basato sulle cellule staminali può proseguire in 32 pazienti terminali, nella maggior parte bambini”. Una decisione “inaspettata che ha disorientato i ricercatori, secondo i quali il trattamento potrebbe essere pericoloso in quanto non è mai stato rigorosamente testato”. In una nota, il Ministro della Salute Renato Balduzzi ha replicato a Nature, precisando che nessun riconoscimento ufficiale è mai stato conferito al cosiddetto metodo Stamina. “La decisione del governo di autorizzare la prosecuzione ed il completamente delle terapie ordinate” dai magistrati si è resa necessaria solo per ovviare ad una discriminazione, frutto di autonomi pronunciamenti dei giudici, tra i pazienti che avevano già iniziato il trattamento con metodo Stamina. Il decreto - aggiunge la nota - prevede il monitoraggio dell’efficacia da parte dell’Istituto superiore di sanità, del Centro nazionale trapianti e dell’Aifa attraverso l’acquisizione di tutti i dati clinici dei pazienti”. Resta il fatto che le infusioni preparate da Stamina non sono prodotte secondo gli standard di sicurezza di legge. Intanto, ai primi dati pubblicati riguardo a bambini curati al Burlo Garofalo di Trieste con le infusioni Stamina che non hanno cambiato il decorso della malattia, il presidente della Fondazione Stamina, Davide Vannoni, replica che non è stato seguito il suo sistema. Dall’altra parte anche la comunità scientifica internazionale si è pronunciata dicendo che non c’è alcuna prova dell’efficacia di questa terapia. La situazione quindi è ancora estremamente confusa _______________________________________________________________ Repubblica 31 mar.’13 GUARIRE IN UNA STANZA CON VISTA SUL PARCO così il verde migliora corpo e cervello Effetti diretti dal contatto con la natura. Egli ospedali organizzano spazi all'aperto DAL NOSTRO INVIATO MASSIMO VINCENZI NEW YORK— Severino, l'erborista del "Nome della Rosa", ne era convinto e come lui i suoi colleghi monaci che nel Medioevo puntavano tutto sulla natura per guarire gli ammalati. Ora, qualche anno dopo, la scienza dà loro ragione e fa un ulteriore passo in avanti: non solo fa bene curarsi in maniera naturale, ma le piante e il verde hanno un'influenza positiva sul nostro corpo, oltre che (più scontato) sulla mente. A dirlo, dagli Stati Uniti, sono alcuni libri e articoli che mettono ordine negli studi più recenti e innovativi sulla salute verde. Paoli è una piccola città della Pennsylvania ed è nel suo ospedale che, come racconta il magazine The Atlantic, avviene la scoperta più stupefacente. Per quasi dieci armi un gruppo di ricercatori studia alcune centinaia di cartelle cliniche. Vengono scelti ma- lati con la stessa patologia (l'asportazione della cistifellea), con un giusto mix statistico (uomini, donne, fumatori, non fumatori) e identica assistenza medica. Unica differenza: metà ha stanze orientate verso un giardino pieno di alberi, gli altri hanno finestre affacciate su un muro grigio di mattoni. Bene, quelli con la vista bucolica guariscono mediamente prima degi altri (da uno a tre giorni) e soprattutto gli altri arrivano a prendere quasi il triplo degli antidolorifici, segnalando inoltre diverse complicazioni fisiche. Un risultato definito "sorprendente" dagli stessi medici: «I pazienti con le camere sul giardino hanno mostrato progressi e vantaggi sino a quattro volte superiori agli altri. E gli effetti dei benefici sono più duraturi e ampi di quanto avessimo potuto immaginare». Ancora più diretto uno studio curato dall'Università di Chicago qualche tempo fa, secondo il quale gli anziani che vivono in quartieri con una maggiore e migliore concentrazione di verde hanno aspettative di vita sensibilmente più alte. Certo la psicologia ha la sua parte e infatti da tempo si studiano gli effetti benefici che ha la natura sulla riduzione dello stress (e delle patologie collegate), ma oltre alla mente adesso si scopre che ne guadagna pure il corpo. In Giappone sono sempre più comuni i "bagni nella foresta" percorsi benefici che hanno effetti salutari sui pazienti. E lo stesso stanno facendo molti ospedali, con la creazione di veri e propri giardini "curativi", usati soprattutto per malattie come l'Alzheimer e il cancro. Ovviamente, in questi casi non ci sono effetti diretti, ma il contatto con fiori e piante rende il paziente più ricettivo alle cure e ne riduce le sofferenze. Il New York Times racconta di uno studio portato avanti proprio in Giappone su quasi trecento persone. Divisi in due gruppi, le cavie camminano per alcuni giorni su due percorsi: il primo si snoda dentro una zona boschiva, il secondo attraversa strade di città. Al termine dell'esperimento, i fortunati escursionisti nella natura hanno concentrazioni inferiori di cortisolo, una frequenza cardiaca più equilibrata, una pressione più bassa nei soggetti ipertesi e un generale innalzamento delle barriere immunitarie. E un altro esperimento simile dimostra che con due ore di passeggiata nei boschi si alza anche il livello dei globuli bianchi. Tra le varie ipotesi che gli scienziati stanno studiando anche quella che sull'uomo abbiano effetti positivi le sostanze chimiche prodotte dalle piante contro i parassiti. Ma qui i ricercatori si fermano. Resta la certezza, ora pure scientifica, che una bella casa con vista sul verde ci fa stare meglio di un monolocale affacciato sul muro del vicino. _____________________________________________________ Corriere della Sera 28 mar. ’13 L'INTERO DNA DELL'UOMO È STATO COPERTO DAI BREVETTI Allarme degli esperti: limiti per la ricerca sulle sequenze Chi è il «proprietario» dei geni? Sono brevettabili quei piccoli frammenti di Dna alla base della vita? Da oltre 30 anni le autorità giuridiche di tutto il mondo stanno discutendo proprio della brevettabilità del Dna. Interrogandosi sulla liceità che qualcuno possa accampare diritti su un prodotto della natura, del creato. E questo non riguarda solo i geni, ma anche la funzione di determinate cellule. Il prossimo appuntamento dell'annoso dibattito è fissato per il 15 aprile, quando la Corte suprema degli Stati Uniti dovrà esprimersi riguardo ai brevetti detenuti da Myriad Genetics su due importanti geni la cui mutazione espone le donne a un più elevato rischio di cancro al seno: i geni Brca1 e Brca2. Su un piatto della bilancia della giustizia c'è la natura «creatrice» di questi geni, sull'altro pesano le ricerche per isolarli e individuarne gli effetti. I giudici dovranno valutare quanta ingegnosità è stata impiegata dalla Myriad Genetics per isolare e caratterizzare Brca1 e Brca2. E quanto le tecniche adottate fossero così originali da giustificare la tutela brevettuale. L'intero genoma umano è ormai coperto da qualche forma di brevetto, un fenomeno che mette a rischio la «libertà genetica» degli individui. E' quanto afferma uno studio di due ricercatori della Cornell university di New York sugli oltre 40 mila brevetti depositati. Studio pubblicato da Genome Medicine e che ora aleggia sulla decisione della Corte suprema statunitense. I geni che compongono il Dna sono formati da sequenze di «lettere» (quattro le lettere chiave dell'alfabeto della vita) più o meno lunghe in base alle diverse combinazioni espresse. I ricercatori hanno analizzato i brevetti sui frammenti di Dna lunghi, trovando che coprono il 41% del genoma umano. Se si considerano però anche le catene più piccole, contenute in quelle lunghe, si arriva al 99,999% dei geni. E un esempio è proprio il brevetto sulle sequenze di Dna che costituiscono Brca1 e Brca2, favorenti il tumore al seno. LaMyriad, azienda biotech depositaria dei «patentini», afferma che il loro brevetto copre non solo i due geni, due catene con molte lettere, ma anche tutti i frammenti più piccoli contenuti nelle catene e che possono esprimere altre funzioni. In realtà, in base alle combinazioni di lettere, si tratta di geni nei geni. Secondo lo studio dellaCornell university, Brca1 e Brca2 contengono almeno 689 sequenze di altri geni, tutti estranei ai tumori, che però in teoria non possono essere studiati senza infrangere il brevetto. In altre parole, la Myriad studiando i tumori ha individuato, e brevettato, due lunghe sequenze di Dna. Ma le combinazioni di lettere all'interno di queste sequenze esprimono anche molti altri geni che nulla hanno a che vedere con il tumore. La Myriad è ora «proprietaria» solo di Brca1 e Brca2 o anche degli altri 689 geni codificabili nelle stesse sequenze? Sulla questione specifica si deve esprimere appunto la Corte suprema. Uno degli autori dello studio pubblicato daGenome Medicine, Christopher Mason, vorrebbe una sentenza anti-brevetti: «Se si concede che questi diritti di proprietà siano esercitati — dice —, è a rischio la nostra "libertà genomica". E proprio nel momento in cui si sta entrando nell'era della medicina personalizzata, ironicamente abbiamo le maggiori restrizioni sulla genetica. Bisogna chiedersi come farà il mio medico curante a "guardare" il mio Dna senza rischiare di violare un qualche brevetto». Sotto accusa è anche l'ufficio brevetti statunitense che in passato ha concesso con troppa facilità «patentini» sui geni. Più severo è stato l'analogo ufficio europeo, dicono i ricercatori americani. Ma, tornando al quesito trentennale, forse sarebbe meglio riconoscere agli uomini il diritto alla libertà genomica e cellulare. Mario Pappagallo @Mariopaps _____________________________________________________ Corriere della Sera 27 mar. ’13 CARTA DEL RISCHIO DEI TUMORI IN SETTANTA GENI MILANO — Un notevole passo avanti verso la diagnosi precoce e la prevenzione dei tumori è stato compiuto dal Collaborative Oncological Gene-Enviroment Study, consorzio internazionale di ricerca che ha identificato 70 varianti genetiche associate allo sviluppo del cancro di mammella, ovaio e prostata, esaminando 100 mila malati. La comunicazione è raccolta in cinque studi pubblicati sulla rivista Nature Genetics, a tre dei quali hanno contribuito centri oncologici e universitari italiani, coordinati dall'Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. «Ognuna delle varianti è associata a un aumento del rischio di sviluppare uno dei tumori in questione» spiega Paolo Radice, del dipartimento di Medicina Predittiva dell'Istituto milanese. «L'incremento può essere modesto se si è portatori di una sola variante o elevato qualora se ne hanno diverse. In questo modo diventa possibile capire, in base a dati oggettivi, chi può giovarsi di strategie preventive più stringenti e di controlli più serrati». Problemi tecnologici e organizzativi non rendono possibile applicare subito questi test su larga scala. «Ma confidiamo che diverrà possibile tra qualche anno» sottolinea Radice. La Medicina predittiva viene praticata da anni all'Istituto dei Tumori di Milano. «Nel 1995 abbiamo attivato una struttura dedicata e poi un ambulatorio di counselling genetico» spiega Marco Pierotti, direttore scientifico dell'Istituto. «In questo modo, in base alle conoscenze che si rendono via via disponibili, adottiamo già da tempo i provvedimenti più adatti per ciascuna persona in chiave di diagnosi precoce e prevenzione». Luigi Ripamonti _____________________________________________________ Le Scienze 26 mar. ’13 L'EVOLUZIONE UMANA RACCONTATA DAL DNA MITOCONDRIALE L’uomo non africano si separò da quello africano tra 62.000 e 95.000 anni fa. Lo afferma un nuovo studio sul DNA mitocondriale di alcuni reperti paleontologici che permette di confermare la cronologia recente dell’evoluzione umana così come emerge dallo studio dei fossili. Sono così smentiti alcuni recenti risultati basati sulla stima delle mutazioni che intervengono da una generazione all’altra nel DNA nucleare e che volevano retrodatare tutte le tappe fondamentali della nostra storia filogenetica (red) La storia evolutiva dell’uomo raccontata dal DNA dei fossili è corretta. Lo afferma un nuovo studio coordinato da Svante Pääbo, del Dipartimento di Genetica evolutiva del Max-Planck-Institut per l’Antropologia evoluzionistica a Leipzig, in Germania, che, sulla base dell’analisi del DNA mitocondriale di una decina di reperti paleontologici ben conservati, smentisce alcuni recenti risultati, basati sul confronto di sequenze genomiche di padri e figli, che volevano retrodatare tutte le più importanti tappe dell’evoluzione umana. © Jurgen Ziewe/Ikon Images/Corbis In termini genetici, la differenza tra due specie che hanno un antenato in comune può essere valutata contando le sostituzioni a carico dei nucleotidi, “i mattoni elementari” di cui sono costituite le molecole di DNA. Conoscendo la frequenza con cui si accumulano queste sostituzioni e postulando che la frequenza sia costante, è possibile definire una sorta di “orologio molecolare” con cui stimare quanto tempo fa si sono separate filogeneticamente due specie o due popolazioni. Questo orologio viene periodicamente “calibrato” quando si rendono disponibili reperti fossili con DNA recuperabile. Purtroppo però la scarsità di questi reperti è tale da rendere poco affidabile l’orologio molecolare. Per esempio, nel caso dell’essere umano e dello scimpanzé non esiste un fossile che sia unanimemente considerato come il più recente antenato comune. Per questo motivo, il tasso di mutazione del DNA nucleare e mitocondriale è attualmente al centro di un acceso dibattito. © dieKLEINERT/Corbis Recenti sequenziamenti del genoma di padri e figli hanno permesso di stimare il tasso di sostituzioni che si accumulano nell’arco di una generazione, dette sostituzioni “de novo”, garantendo una calibrazione dell’orologio molecolare teoricamente più affidabile di quella basata sui fossili. Il valore ottenuto però è sorprendentemente basso: circa la metà rispetto al tasso ottenuto dai fossili. Basandosi su questo nuovo valore occorre rivedere tutte le grandi tappe della storia evolutiva dell’uomo, retrodatando eventi come la divergenza del genere Homo dallo scimpanzé, della specie H. sapiens dall’uomo di Neanderthal e dall’uomo di Denisovan, e infine anche delle grandi migrazioni umane. Dato che la stima della velocità con cui si è accumulato un certo numero di sostituzioni è dimezzata, in sostanza, il tempo di divergenza è all’incirca doppio. Per esempio, la separazione delle popolazioni non africane da quelle dell’Africa occidentale sarebbe da collocare tra 90.000 e 130.000 anni fa, e non 60.000 anni fa, come stabilito da passate ricerche. Teschio di Neanderthal (© Stefano Bianchetti/Corbis) In quest’ultimo studio, Pääbo e colleghi hanno analizzato sequenze complete o quasi di genoma mitocondriale provenienti da 10 esseri umani moderni. I reperti hanno una datazione sicura, effettuata con il metodo del carbonio-14, e sono distribuiti in un arco temporale di 40.000 anni. Queste sequenze sono state utilizzate come “punti di calibrazione” per stimare in modo molto preciso il tasso di sostituzione mitocondriale. Secondo quanto si legge nell’articolo apparso su “Current Biology”, le stime dei tempi di divergenza tra i diversi rami filogenetici umani così ottenute sono in buon accordo con quelle risultanti dalle “vecchie” calibrazioni fossili e archeologiche. In particolare, la separazione delle popolazioni non africane da quelle africane avvenne tra 62.000 e 95.000 ani fa. Nonostante le incertezze sperimentali, il metodo consente di ottenere validi limiti superiori alla datazione degli eventi di separazione tra le popolazioni e di smentire così le retrodatazioni delle tappe dell’evoluzione umana fatte sulla base delle mutazioni de novo del genoma nucleare. _____________________________________________________ Corriere della Sera 30 mar. ’13 IL PRESSING DEL GENOMA SULLA VITA Dai batteri alle balene è subatomico il mistero dell'evoluzione di SANDRO MODEO «Q uello che c'è di più terrificante nell'universo — dice Stanley Kubrick in una famosa intervista — non è la sua ostilità, ma la sua indifferenza». Poche formule esprimono con la stessa efficacia, concentrando una visione estesa da Lucrezio a Pascal e Leopardi, la solitudine non solo del Sapiens, ma della vita tutta, in senso fisico- biologico, in un contesto tiranneggiato dal secondo principio della termodinamica, e in quanto tale tendente al disordine, alla dissipazione di energia e alla «morte termica». In tutti i suoi libri — in particolare in quelli degli ultimi anni — il fisico e genetista Edoardo Boncinelli ha costeggiato o avvicinato più volte questa solitudine cosmica della Terra e dei suoi abitanti: ma ora raccoglie e riformula tutte quelle sequenze nel montaggio serrato di un libretto, Vita (Bollati Boringhieri), che va molto oltre la semplice introduzione didattica. Intanto, a monte, Boncinelli chiarisce proprio come ogni organismo, dai batteri all'uomo (inteso come «una determinata quantità di materia organizzata, limitata nel tempo e nello spazio, capace di metabolizzare, riprodursi ed evolvere») non sia una violazione o una deroga rispetto alle leggi fisiche (a partire dallo stesso secondo principio), ma semmai un «recinto» o una temporanea «terra franca» che conferma, di quelle leggi, il carattere inesorabile: ognuno di noi è un atollo di ordine il cui consumo di energia non fa che aumentare il disordine nel freddo oceano di materia circostante. Per illuminare questo apparente paradosso, il libro segue due percorsi simultanei e armonizzati. Il primo — in una sorta di narrazione lineare — ricostruisce nei dettagli i passaggi-chiave congiungenti la Terra delle origini (quattro miliardi e mezzo di anni fa) col momento in cui, attraverso la nostra consapevolezza, la materia vivente riflette su se stessa: il formarsi di condizioni ambientali (temperatura, acqua, luce, atmosfera) favorevoli a un brulichio biochimico che organizza per prove ed errori i primi costituenti molecolari: l'azione delle piante e dei miliardi di miliardi di organismi fotosintetici (produttori dell'ossigeno che respiriamo); l'aggregarsi di informazione biologica (rna e dna) e il conseguente dominio dell'evoluzione e della selezione naturale. Il secondo percorso — focalizzato sugli snodi concettuali — parte dall'idea controintuitiva che il vivente non si pone verso l'ambiente in maniera passiva e difensiva, ma attiva e costruttiva. Quando Boncinelli usa per la vita certi verbi («affiorare» o «affacciarsi»), ci ricorda proprio questa tensione esplorativa, che vediamo già negli eventi e nei processi biochimici in interazione con le radiazioni solari, e poi — a livello di organismi — nelle variazioni (mutazioni) del genoma o nell'allerta sensoriale e cognitiva del cervello che non aspetta gli stimoli, ma li cerca, in un pressing incessante. Le forme viventi, in sostanza, non producono risposte all'ambiente, ma vi immettono un ventaglio di proposte, selezionate in base alla loro efficacia adattativa (in una scrematura di cui vediamo l'esito solo a posteriori) e poi trasmesse, via genoma, alla discendenza. Intrecciando i due percorsi della vita (la sua storia e i suoi «schemi» operativi) è più facile afferrarne altri caratteri peculiari e altri apparenti paradossi. Per un verso, incidono di nuovo vincoli fisico- matematici: ogni organismo vivente — posto oltre la soglia della dimensione subatomica, cioè in quella molecolare — non deve essere «né troppo piccolo né troppo grande», in una scala che va dai batteri alle balene (per tacere dei dinosauri). Per un altro, incide invece l'azione del genoma: se non ci fossero i (radi) errori di replicazione (cioè le variazioni-mutazioni), l'evoluzione e la dialettica selettiva tra organismi e ambiente si arresterebbero. In quanto «equilibrio dinamico» — ordine temporaneo — che armonizza materia, energia e informazione, la vita procede tra continuità e variabilità, persistenza e cambiamento, in un'omogeneità — fisica e genetica, fisica prima che genetica — che non prevede slanci finalistici, scopi, progressi o significati. Fuori da ogni ottica antropocentrica, «le cose accadono e basta». Eppure, ricorda giustamente Boncinelli, è proprio quell'ottica (da cui non possiamo emanciparci del tutto) ad aver dato alla materia la possibilità di «rispecchiare se stessa e cogliersi in un orizzonte di senso». Se la vita nel cosmo — allo stato attuale delle nostre conoscenze — è più un'eccezione che la regola, ancora di più lo è la coscienza della vita espressa dalle nostre connessioni neurali e dal nostro linguaggio. Per quanto non sia scritto da nessuna parte che una simile, sottilissima fenditura nell'opacità della materia possa durare nel tempo, forse è il solo accidente in grado di turbare — almeno in queste periferie remote, disposte, peraltro, lungo uno spazio in cui tutto è periferia — l'«indifferenza dell'universo». _______________________________________________________________ Repubblica 31 mar.’13 DNA: L’UOMO CHE VERRA’ Sessant anni fa due scienziati scoprivano in una doppia elica il segreto della vita Oggi il loro erede lancia una nuova sfida: "Avremo un Dna creato al computer" Intervista a Craig Venter ELENA DUSI Sessant'anni anni la nostra vita ha preso la forma di una doppia elica. La molecola del Dna apparve davanti agli occhi di James Watson e Francis Crick nel 1953 in un laboratorio di Cambridge, e il 25 aprile di quell'anno la scoperta fu pubblicata su Nature. Oggi alla molecola che è il fulcro di ogni forma vivente sulla Terra sono affidate molte speranze. Tra quanti hanno visto più lontano di altri c'è lo scienziato americano Craig Venter. Il coautore del sequenziamento del Dna umano, oggi dirige l'Istituto che porta il suo nome e che racco glie cinquecento studiosi. Tre anni fa annunciò la creazione della prima forma di vita artificiale: un batterio (battezzato Synthia) che vive grazie a un Dna sintetizzato completamente in laboratorio. Non contento delle controversie suscitate in quell'occasione, ci preannuncia una nuova scoperta. Intanto, come sta Synthia? «Bene, stiamo realizzando un nuovo esemplare. Entro l'anno faremo un altro annuncio». Ci dia un indizio. «Non posso dirle dipiù. Ci siamo sempre chiesti se fosse possibile progettare un essere vivente al computer, partendo da zero. Il Dna architettato dal calcolatore poi andrebbe assemblato in laboratorio. E alla fine non resterebbe che vedere se quel genoma fa funzionare un essere vivente. Una cellula per esempio». La vita nata dal silicio. E nel frattempo dove è finita Synthia? «In frigorifero. Per noi rappresentava un esperimento pilota. È stata importante per dimostrare che il metodo funziona, ma era solo un risultato preliminare per passare alla fase successiva». Immaginiamo di trovare vita su Marte. Si aspetta sia basata sul Dna? «Tutta la vita, così come la conosciamo, è basata sul Dna. E la composizione chimica dell'universo è simile a quella della Terra. Mi aspetto senz'altro di trovare vita altrove nell'universo. Non credo che sia evoluta come la nostra, perché il percorso dell'uomo ha seguito tappe rapide. Probabilmente sarà solo vita microbica, ma la sua chimica la immagino effettivamente basata sul carbonio e su informazioni contenute etra- smesse dal Dna». Quindi sapremmo interpretare una eventuale vita extraterrestre. «Non sarebbe neanche necessario portare sulla Terra dei campioni di Dna marziano. Organizzare un trasporto simile richiederebbe razzi da miliardi di dollari, noi invece potremmo usare apparecchi per il sequenziamento genetico direttamente su Marte o sul pianeta in questione, per p oi spedire le informazioni in forma digitale sulla Terra. Aquel punto nulla ci impedirebbe nemmeno di ricreare un marziano in laboratorio». Sessant'anni fa abbiamo osservato per la prima volta il Dna. Da allora la sua struttura a doppia elica è diventata l'icona della vita. Riusciremmo a immaginare una forma diversa? «Non credo che una tripla o quadrupla elica funzionerebbero. E penso che la scienza abbia vissuto negli ultimi sessant'anni il periodo più straordinario dell'umanità. Nel 1953, quando Watson e Crick (anche sulla base dei dati di Rosalind Franklin) pubblicarono lo studio sulla doppia elica, l'idea che il Dna fosse il responsabile dell'eredità genetica non si era ancora affermata del tutto. La scoperta era avvenuta una decina di anni prima, ma non tutti gli scienziati erano convinti. Alcuni credevano che le informazioni biologiche passassero attraverso le proteine». Il Dna è stato usato per immagazzinare libri, musica, immagini. Nel genoma di Synthia avete inserito dei passi dell'Ulisse di Joyce. La molecola della vita potrà essere usata come una biblioteca di Alessandria in miniatura? «La natura usa il Dna da quattro miliardi di anni per immagazzinare informazioni. Il metodo non ha rivali. Il genoma però ha permesso l'evoluzione delle specie viventi attraverso mutazioni che, occasionalmente, creano un cambiamento in un organismo. Per questo è necessario che il Dna non sia completamente stabile e consenta ogni tanto degli errori. Nonvorrei che il codice del mio conto in banca fosse conservato in una molecola simile». La biologia sintetica, ovvero la capacità di creare Dna artificiale in laboratorio, potrà risolvere alcuni dei problemi dell'umanità? «Ci consentirà di continuare ad avere acqua pulita, nuove fonti di nutrimento ed energia, vaccini, medicine e metodi per riciclare l'anidride carbonica. Abbiamo iniziato dalle alghe. Lavorando sul loro Dna riusciamo a indurle a produrre proteine, acidi grassi omega tre, antiossidanti più potenti degli attuali. Per affrontare il problema dell'inquinamento, possiamo aumentare la capacità delle alghe di catturare anidride carbonica dall'atmosfera, o spingerle a produrre combustibili puliti. Abbiamo allo studio una nuova biologia che ci permetterà di produrre bottiglie di plastica partendo dall'anidride carbonica anziché dal petrolio». Non avremo più bisogno di agricoltura, pesca o allevamento? «Fra dieci anni la popolazione mondiale sarà aumentata di un miliardo di persone. Immaginiamo di aggiungere un'altra Cina al nostro pianeta. Ci accorgeremo che non riusciremo a produrre cibo per tutti senza esaurire le risorse naturali. Già gli oceani sono in sofferenza per l'eccesso di pesca. Dobbiamo inventare altre tecniche per nutrirci, altrimenti cancelleremo tutte le altre forme di vita dal pianeta». Tre anni fa avete avviato una collaborazione da 600 milioni di dollari con Exxon Mobil per produrre biocarburante dalle alghe. I risultati però non sono stati quelli sperati. Come mai? «Abbiamo perso tempo a dimostrare quel che poteva essere intuito fin dall'inizio: la quantità di carburante prodotto dalle alghe per via naturale è troppo bassa. La tecnica non diventerà mai economica. Da quando abbiamo iniziato a usare la biologia sintetica per modificare il Dna degli organismi vegetali i passi avanti si stanno vedendo. Siamo riusciti a migliorare l'efficienza tre volte rispetto alla fotosintesi naturale. Abbiamo testato le nostre alghe sia nella serra dell'Istituto sia in alcuni laghetti che abbiamo creato all'aperto». Una delle applicazioni sta invece rivoluzionando i vaccini. «Il primo vaccino nato dalla genetica è stato approvato pochi mesi fa in Europa. Lo ha ottenuto per la Novartis proprio uno scienziato italiano, Rino Rappuoli. Serve a combattere un ceppo di meningite e ci abbiamo lavorato insieme a partire dal 1997. Quell'anno il nostro team completò il sequenziamento del genoma del batterio che causa la malattia, il meningococco B. Usando gli strumenti della bioinformatica, individuammo quali frammenti del genoma sono meno soggetti alla pressione evolutiva. Essendo porzioni di Dna stabili, possono fornire un bersaglio fisso per il farmaco. Rappuoli e i suoi ricercatori hanno creato e testato un vaccino capace di colpire questi bersagli. Per la prima volta nella storia un vaccino è stato prodotto partendo non dal microrganismo responsabile della malattia, ma solo dalla sequenza del suo Dna. Stiamo applicando la stessa tecnica contro l'influenza. Siamo in grado di produrre un agente immunizzante in meno di dodici ore, mentre con il metodo tradizionale occorrono alcuni mesi». Allora non è vero che la genetica non è utile alla vita quotidiana. «Questo dimostra però quanto il tempo sia importante. I passi avanti non avvengono nel giro di una notte. Sono passati quindici anni da quando abbiamo sequenziato il meningococco all'introduzione del farmaco in Europa». Lei crede che l'eredità genetica conti di più rispetto all'ambiente? «Lo credo per una cellula, non sono convinto che sia così anche p er un essere umano». Tredici anni fa, quando fu completato il sequenziamento del Dna umano, ci venne promessa una cura per molte malattie. Perché non è avvenuto? «Alcuni scienziati hanno fatto troppe promesse a quel tempo». Sequenziati i geni dell'uomo, ci avete detto che c'era da capire il ruolo del Dna non racchiuso nei geni. Poi avete studiato cosa accende e spegne i geni. Ora dite che anche il Dna dei batteri che vivono in simbiosi con noi gioca un ruolo importante per la salute. Non finirete mai di spostare l'asticella più in alto? Non si rischia così di illudere chi ha bisogno di cure? «Proviamo a pensare ai numeri della vita umana. Cento trilioni di cellule, duecento trilioni di batteri. Possiamo sperare un giorno di reincarnarci in un'ameba o in un batterio, e in questo caso la vita sarebbe più semplice. Ma non credo che l'idea ci tenterebbe. Svelare la complessità è il mestiere della scienza. Se pensiamo ai progressi degli ultimi cento anni c'è da restare stupefatti. Un secolo fa medicina e biologia quasi non esistevano. Oggi più conosciamo, più disponiamo di strumenti per fare progressi. Come si fa a non essere ottimisti?». _______________________________________________________________ Repubblica 31 mar.’13 ODDIFREDDI DNA: L’UOMO CHE VERRA’ PIERGIORGIO ODIFREDDI Il 28 febbraio del 1953, benché fosse sabato, il ventitreenne James Watson si recò in laboratorio la mattina presto, ed ebbe l'intuizione della sua vita: rimescolando i quattro tipi di tessere di un puzzle tridimensionale di cartone sul quale stava lavorando, che corrispondevano alla struttura chimica delle quattro lettere dell'alfabeto del Dna, si accorse che esse combaciavano perfettamente a coppie. A metà mattina il trentasettenne Francis Crick raggiunse il compagno di ricerca, e comprese immediatamente che la sua scoperta significava che il Dna aveva una struttura a doppia elica, costituita da due catene di lettere orientate in direzione opp osta. All'ora di pranzo i due si recarono al loro solito pub, l'Eagle, e Crick annunciò modestamente ai commensali che, insieme a Watson, aveva appena scoperto "il segreto della vita". Fin dalle origini della sua storia cosciente l'uomo aveva infatti cercato di rispondere alla domanda più fondamentale che poteva porsi: "Cosa c'è di misterioso, magico, o addirittura divino, nella vita?" E la risposta che Watson e Crick avevano appena trovato era: "Niente!". La vita risultava infatti non essere altro che il prodotto di normali processi fisici e chimici, e per spiegarla non era neppure stato necessario inventare una nuova scienza, come qualcuno aveva supposto o temuto: bastava quella che c'era già. Per metabolizzare una simile risposta, che ci dovrebbe finalmente liberare dalla mitologia che per millenni ha avvolto nelle sue nebbie metafisiche il problema della vita, ci vorranno decenni. Lo dimostrano, per esempio, le parole con cui il presidente Clinton annunciò dalla Casa Bianca, il 26 giugno 2000, il completamento della prima bozza del genoma umano: «Oggi apprendiamo il linguaggio con il quale Dio creò la vita». Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. E lo dimostrano le mille polemiche che accompagnano il Dna in ogni sua manifestazione, dagli Ogm alle staminali. Inattesa che l'ora di Dna sostituisca, o almeno si affianchi, all'ora di religione nelle scuole, la storia delle conquiste teoriche di mezzo secolo di biologia molecolare, e il ventaglio delle applicazioni pratiche che la conoscenza del Dna ha reso possibili, si possono leggere in uno dei più bei libri di divulgazione scientifica di questi anni: Dna. Il segreto della vita (Adelphi, 2004), che Watson stesso ha scritto per celebrare il cinquantenario della sua scoperta, e ora ha aggiornato per celebrarne il sessantenario. Watson e Crick ricevettero il Nobel per la me dicinane11962, e la doppia elica contribuì a portare il Dna alla ribalta. A scanso di equivoci, l'idea che la molecola fosse costituita da un'elica non era affatto nuova: il grande chimico Linus Pauling, vincitore di ben due Nobel (chimica e pace), aveva annunciato proprio nel 1953 un modello a tripla elica, poi risultato sbagliato. Anche Maurice Wilkins era convinto che si trattasse di un'elica, e cercò di determinarla non mediante modelli, come Watson e Crick, ma attraverso la diffrazione a raggi X: le foto del suo laboratorio fornirono una conferma della struttura, e Wilkins condivise con loro il premio Nobel nel 1962. Ora, come direbbe Thomas Eliot, quella che sembra la fine della storia è invece soltanto un inizio. Ad attendere la biologia molecolare sono infatti i tre grandi progetti della genomica (comprendere la funzione dei singoli geni e la loro azione congiunta), della proteomica (sequenziare e studiare le proteine) e della trascrittomica (determinare quali geni siano attivi in una data cellula), con l'obiettivo di capire nei dettagli l'intero meccanismo della vita, dalla prima cellula all'intero organismo, per la maggior gloria dello spirito umano. La vita e nient'altro _____________________________________________________ Il Sole24Ore 31 mar. ’13 QUANDO IL DNA UMANO VERRÀ PERFEZIONATO Il miglioramento genetico è inevitabile, in questo secolo. «Ma temo più il mercato che i regimi», dice Philip Ball di Marco Magrini «Non ho alcun dubbio che, da qui a fine secolo, qualcuno sperimenterà con successo la clonazione riproduttiva di un essere umano», assicura Philip Ball. Un traguardo scientifico che fa venire la pelle d'oca a un sacco di gente, «ma del quale non si capisce ancora la vera utilità». Semmai, «un'altra tecnologia diventerà realtà: il miglioramento genetico degli esseri umani. Che, pur avendo straordinarie implicazioni, già da solo comporta domande etiche molto serie». Philip Ball è un divulgatore scientifico inglese. Due anni fa ha scritto «Unnatural», un libro (la cui versione italiana esce per i tipi di Codice Edizioni) che ripercorre la storia dell'avversità, per non dire la ripugnanza, con la quale vengono accolte la scienza e la fantascienza della riproduzione artificiale. «Quel che ho scoperto – racconta Ball, raggiunto al telefono nella sua abitazione londinese – è che culture lontane non provavano altrettanto disgusto per queste cose, forse incoraggiate da miti e leggende». Poi, forse con l'inquietante «Frankenstein» di Mary Shelley e il distopico «Brave new world» di Aldous Huxley, la prospettiva è cambiata. A più riprese, le Nazioni Unite hanno cercato di arrivare a una dichiarazione universale contro la clonazione. Ma l'unico trattato sul tema è stato ratificato da pochi paesi del mondo. Oppure, basta prendere l'Europa: le legislazioni in materia riproduttiva sono enormemente diverse fra loro (e quelle italiane sono fra le più restrittive in assoluto). «Questo è inevitabile – risponde Ball – anzi, è impensabile che un giorno si arrivi a una dichiarazione universale: ogni paese avrà sempre una diversa posizione etica, sotto l'influenza delle diverse religioni». Hollywood ha lavorato molto, su questo tema. Secondo lei, qual è il film che più si avvicina alla futura realtà? «Beh, direi Gattaca, con Ethan Hawke e Uma Thurman», risponde lo scrittore. «L'idea di una società dove le classi sociali sono separate dal miglioramento del patrimonio genetico, è oggettivamente interessante. Ma scrittori e sceneggiatori inquadrano sempre queste cose nello scenario di uno Stato totalitario. Io credo che sia l'ennesimo mito. Più che dei regimi politici, mi preoccuperei dei meccanismi del mercato capitalistico». Si può brevettare un gene? Qualcuno l'ha già fatto. Si può "fabbricare" dello sperma partendo da una cellula staminale? Qualcuno lo sta già facendo: un occhio per la scienza e uno per l'utile netto. «Credo che un serio dibattito su questi temi sia necessario, per arrivare quantomeno a un set di regole condivise». Ma lei non crede che, anche in assenza di regole, ci sarà sempre qualche laboratorio pronto a spingersi ben oltre i confini etici? «Oh, sì, non c'è dubbio. Il recente caso in Corea del Sud, un approccio non esattamente etico sulla tecnologia applicata alle staminali, lo dimostra». Mentre in Italia esce «Non è naturale», in Inghilterra è già uscito il libro successivo di Ball, intitolato «Curiosity». «È la storia della curiosità scientifica, che è esplosa nel '700 aprendo la strada alla scienza moderna», racconta l'autore. «E qui il ruolo dell'Italia è stato straordinario. Non solo Galileo. Ma anche pensatori meno conosciuti, come Gianbattista Della Porta o Bernardino Telesio». Ma non sono collegati i due temi? Non è la curiosità che muove imprese monumentali come quella del genetista-star Craig Venter, alle prese con la vita sintetica? Ad esempio, come suggerisce Venter, per la "creazione" di un batterio capace di produrre energia? «L'Lhc al Cern di Ginevra è un esempio di come la scienza possa essere curiosa e disinteressata», risponde Ball. «Ma nel caso di Venter, mentre ci sono buone ragioni per la ricerca su quel batterio artificiale, sospetto che venga perseguita per motivi un po' diversi dalla curiosità». _______________________________________________________________ MF 26 mar.’13 ALGORITMI ANTI-TUMORI Uno strumento algebrico aiuta a classificare e studiare la neoplasia polmonare Allo Ieo screening con Tac a bassa dose e test su marcatori molecolari di Cristina Cimato Un approccio matematico aiuta a individuare la progressione metastatica del tumore al polmone. Uno studio realizzato dalla University of southern California e pubblicato sulla rivista Cancerresearch ha sfruttato uno strumento algebrico, ossia la catena di Markov, utilizzato anche nelle reti di telecomunicazioni, per classificare i tumori polmonari metastatici. In pratica il meccanismo mima quello di diffusione delle informazioni, cercando di capire come la malattia si diffonda nell'organismo. Il team di ricerca ha scoperto che il cancro del polmone non progredisce in una sola direzione dal sito del tumore primario in luoghi distanti, ma il movimento delle cellule cancerogene avviene in tutto l'organismo in diverse direzioni. Non solo, esistono alcune aree dove si manifesta una concentrazione di queste cellule cancerogene, come per esempio la ghiandola surrenale e renale. Per il loro studio i ricercatori hanno lavorato sul materiale autoptico di 163 pazienti con cancro del polmone residenti nella zona del New England dal 1914 al 1943, quando non era ancora possibile l'uso di radiazioni e della chemioterapia, così da fornire una visione di come il cancro progredisce se non trattato. Va detto però che i tumori al polmone di adesso sono molto differenti da quelli di cento anni fa, quindi questo fatto può rappresentare un limite dello studio. Comunque sia, i ricercatori hanno individuato come il cancro sia in grado di spostarsi in una posizione «preferita» e grazie a questa informazione sia possibile tentare di intervenire in anticipo e rapidamente con trattamenti mirati prima che le cellule si disperdano ampiamente. «Una nuova branca, ossia quella della bioinformatica, fornisce un aiuto importante nell'interpretazione dei fenomeni medico-biologici», ha commentato Giulia Veronesi, direttore dell'Unità di ricerca diagnosi precoce e prevenzione del tumore polmonare allo Ieo, «questo approccio è utile non solo per i modelli statistici sulla metastatizzazione ma anche per individuare forme molecolari del tumore utili a una diagnosi precoce. Il fine ultimo è quello di trovare attraverso le molecole nel sangue il tumore in fase iniziale, periodo nel quale i dati restituiscono una percentuale di guarigione alta, pari al 75%, da confrontare invece con un esito positivo del 15% nei casi in cui il tumore venga diagnosticato al di fuori di uno screening, quando i sintomi sono già manifesti». Proprio per individuare più precocemente le neoplasie polmonari è in corso presso lo Ieo e in otto centri in tutta Italia lo studio Cosmos II, che intende validare la combinazione di molecole nel sangue come firma prospettica che indica una condizione di malattia. Attualmente lo studio Cosmos 111, che ha preso avvio grazie ai positivi riscontri di Cosmos I, effettuato dal 2004 su 5 mila soggetti sottoposti a Tac a basso dosaggio, è giunto all'arruolamento del 40% dei 10 mila pazienti previsti. «Stiamo procedendo con le Tac e con il prelievo ematico, i primi e preliminari risultati su questo nuovo studio si avranno già entro, l'estate, mentre l'arruolamento finirà presumibilmente entro l'anno e poi ci sarà rm tempo di follow up di 4 anni», ha aggiunto Giulia Veronesi, «con questo screening, eseguito su soggetti sani, forti fumatori da più di 20 anni o ex fumatori che abbiano smesso da meno di 10 anni, la diagnosi è nettamente anticipata e così l'esito dei trattamenti è decisamente positivo. fine di Cosmos è di arrivare al crollo della mortalità per tumori polmonari entro 10, 15 anni tramite la validazione e la diffusione dello screening, nonché di un aiuto psicologico per smettere di fumare». _____________________________________________________ Corriere della Sera 29 mar. ’13 UN SUPER PORTALE PER CURARE IL CANCRO Banca dati con milioni di casi: un tesoro in Rete per tutti i medici Una grande banca dati per raccogliere i casi di centinaia di migliaia di malati di cancro. I risultati delle cure attuate, sia consuete sia innovative. I dati di sopravvivenza, guarigioni, stabilizzazioni o fallimenti. Tutte informazioni utili agli oncologi di ogni parte del mondo, uniti in Rete, come se lavorassero tutti nello stesso centro. E che saranno note in tempo reale, e non dopo mesi o al momento del periodico congresso scientifico. L'ambizioso progetto è dell'American society of clinical oncology (Asco), la società scientifica dell'oncologia americana. E non solo. Una banca dati consultabile soltanto dai medici, ma con un portale aperto ai pazienti (come se partecipassero a uno studio clinico globale), alle loro domande e alle loro storie di cura. Per i medici sito interattivo: da riempire di informazioni, da consultare, da condividere per confrontare successi o insuccessi e nuove cure. Solo negli Stati Uniti? Per ora. Ma la banca dati Asco potrebbe in breve divenire internazionale. I dettagli del «Big data for cancer treatment» sono stati presentati mercoledì scorso dalla direzione dell'Asco e dal presidente Sandra Swain, senologa al Medstar Washington hospital center di Washington. L'obiettivo è sfruttare la potenza della Rete per migliorare ricerca e assistenza ai malati. E i dati clinici raccolti in importanti studi possono realmente essere acceleratore della qualità delle cure e dello sviluppo di nuovi farmaci. Il progetto Asco si chiama CancerLinQ. Raccoglierà gli stessi dati che ogni singolo medico raccoglie di routine nella cartella clinica del suo paziente: età, sesso, farmaci per altre malattie, diagnosi, trattamento e percorso fino al controllo della malattia, semplici miglioramenti, comparsa di metastasi, stabilizzazione, guarigione o, eventualmente, la data del decesso. Ogni anno sono circa 1,6 milioni gli americani a cui viene diagnosticato un cancro, ma in più del 95% dei casi i dettagli dei loro trattamenti restano segreti, «bloccati» in cartelle cliniche, in cassetti di file o in sistemi elettronici non collegati tra loro. A parte la privacy, si paga l'eterogeneità dei sistemi di archiviazione adottati da ospedale a ospedale, da regione a regione, da Stato a Stato. Troppo costoso uniformare il tutto, molto meno creare ex novo una grande banca dati. Dice Allen Lichter, del direttivo Asco: «C'è un tesoro di informazioni all'interno di tanti cassetti che non comunicano tra loro, noi vogliamo farli comunicare». Il primo passo, il più impegnativo, è stato quello di sviluppare un software in grado di acquisire informazioni cliniche da quasi tutti i record elettronici. Mercoledì l'Asco ha annunciato che il primo passo è stato fatto. Il prototipo funziona: ha raccolto, senza problemi, circa 100.000 record di tumori al seno da 27 gruppi di oncologia che usano supporti elettronici diversi. Armonizzazione riuscita. In parallelo si studia come superare ostacoli quali la privacy e i dati sensibili dei pazienti. Ottimista Sandra Swain: tra 12-18 mesi CancerLinQ sarà operativo. A livello governativo già si pensa a una banca dati simile per la cardiologia. Per i consiglieri di Obama è questa la via giusta per migliorare la sanità e per generare conoscenze utili al trattamento di molte malattie. Si pensi a un diabetico, cardiopatico e malato di cancro di uno sperduto paesino americano. Il suo medico può «disegnare» ad hoc una cura lavorando virtualmente in équipe con colleghi di centri d'avanguardia. Il tutto senza spostarsi dal paesino. Così come di fronte a una forma rara di cancro, una di quelle che un medico nella sua vita può incrociare una-due volte o mai. Con la banca dati è come se avesse già curato centinaia di pazienti con la stessa forma. Di più: attualmente meno del 5% dei malati di tumore partecipa a studi clinici randomizzati, il gold standard delle cure. Con CancerLinQ a tutti sarà dato modo di sapere come funzionano questi studi e se si hanno le caratteristiche giuste per parteciparvi. «L'idea di mettere a disposizione dell'intera comunità scientifica informazioni rilevanti della propria casistica è rivoluzionaria. È l'apertura alla condivisione di esperienze cliniche irraggiungibili per qualsiasi centro da solo», commenta Paolo Giorgi Rossi, segretario nazionale del Gruppo italiano per lo screening del cervicocarcinoma (Gisci). In generale, la vera sfida è unire idee e conoscenze. In una mega équipe globale. Mario Pappagallo _____________________________________________________ L’Unione Sarda 26 mar. ’13 SASSARI, XILITOLO RIDUCE LA CARIE Masticare cinque volte al giorno, per sei mesi, un chewing gum contenente xilitolo riduce dell'82% il rischio di carie, misurato due anni dopo. Lo dimostra uno studio condotto dall'Università di Milano in collaborazione con il proprio Centro Oms per l'Epidemiologia e l'Istituto di Clinica odontoiatrica dell'Università di Sassari. I risultati dello studio; pubblicato su Clinical Oral Investigation - sono stati presentati dalla sua coordinatrice Laura Strohmenger, che ha spiegato come 176 bambini delle scuole elementari di Sassari, di età compresa fra i 7 e i 9 anni, ad alto rischio di carie, con alta concentrazione di streptococchi mutans (i principali batteri della carie) sono stati divisi in due gruppi. A uno è stato dato da masticare, cinque volte al giorno per sei mesi un chewing gum allo xilitolo (dolcificante sostituto dello zucchero), mentre all'altro è stata dato una gomma analoga, senza zucchero ma anche senza xilitolo. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 26 mar. ’13 DORMIRE POCO FA INGRASSARE Basta perdere qualche ora di sonno per alcuni giorni di fila, e il risultato non sarà solo di avere occhiaie in evidenza e meno energia, ma soprattutto di guadagnare peso: se la scienza infatti sostiene da tempo che dormire poco fa ingrassare, un nuovo studio dell'Università del Colorado dimostra che l'aumento di peso si verifica in pochissimo tempo. E così, per gli adulti che dormono meno di cinque, sei ore a notte, cresce il rischio dell'obesità. Lo stesso si verifica per i bambini, per i quali la media notturna di sonno per rimanere in salute si alza a dieci ore. Il motivo per cui dormire poco fa ingrassare è da ricercare nel fatto che, anche se si bruciano più calorie mentre si è svegli, in questo modo si finisce per mangiare molto di più - soprattutto carboidrati - rispetto alle persone che dormono otto o nove ore per notte. Dopo una settimana di esperimenti, gli scienziati hanno dimostrato come i soggetti che dormivano troppo poco hanno acquistato ben due chili. _____________________________________________________ Corriere della Sera 30 mar. ’13 DA UN COCKTAIL DI FARMACI L'ARMA ANTICANCRO AL COLON L'oncologo: «Test su sei pazienti, due guarigioni e due stabilizzazioni» Si chiama Heracles (Ercole) lo studio di una nuova cura anticancro colon- rettale causato da un'alterazione del gene Her-2, un'anomalia finora trovata nel cancro del seno e dello stomaco. Contro questa mutazione genetica esistono già diversi farmaci biologici, ma non sempre la risposta è vincente. La ricerca italiana ha preso una nuova strada, quella di Ercole (mitico eroe dalla forza sovrumana), un super farmaco che sembra funzionare in buona parte di quel 10% di malati di tumore al colon con Her-2. In generale è questa la quarta neoplasia più frequente nel mondo dopo il tumore della mammella, della prostata e del polmone. In Italia è la terza più frequente (batte il polmone), con circa 49 mila nuovi casi e circa 16 mila morti all'anno. In aumento i casi, in aumento le guarigioni. Ma in quasi 4.500 malati c'è quel gene anomalo a complicare la guarigione. E a favorire le temibili metastasi. Ercole promette di eliminare anche loro, almeno in quattro pazienti su sei. Che sono poi i primi su cui si è sperimentato il farmaco del progetto Heracles. Regressione del male su due, stabilizzazione su altri due, progressione nei restanti. Ottima la tolleranza: non cadono capelli e la cura si può fare in ambulatorio. Questi malati, come sempre accade nelle sperimentazioni di nuovi farmaci, avevano metastasi, il gene Her-2 amplificato e soprattutto con un male insensibile a tutte le cure. Destino segnato. I risultati ottenuti, secondo i ricercatori e i medici oncologi che hanno condotto lo studio, «sono incredibili e innovativi». E saranno presentati al congresso 2013 della società americana di oncologia (Asco). Italiani in prima fila. Ma nel frattempo si cercano nuovi pazienti (con le stesse caratteristiche dei primi sei) per allargare il numero dei casi trattati. I centri di oncologia dove viene praticato Heracles sono il capogruppo Niguarda di Milano (direttore Salvatore Siena) e quelli di Candiolo (Torino), Napoli (seconda università), Padova (Oncologico), Bologna (Malpighi). La nuova cura per il cancro del colon-retto super resistente è stata raggiunta, come ricerca e prima sperimentazione sull'uomo, in tempo record. Partito nel 2010, questo imponente programma ha visto al lavoro più di 100 persone tra ricercatori e clinici dell'Istituto per la Ricerca e la cura del cancro di Candiolo (Torino) e dell'ospedale Niguarda Ca' Granda di Milano. Meno di tre anni per avere più di una speranza. Il finanziamento, ingente, rientra tra quelli del 5xmille donato dai contribuenti all'Associazione per la ricerca sul cancro (Airc) che, tra arance rosse, azalee, maratone tv, 5xmille, è diventata ossigeno vitale per i «cervelli» non in fuga del nostro Paese. Non fondi buttati al vento, ma elargiti in base ai progetti severamente selezionati. Come accade negli Stati Uniti. Ed è proprio sulla rivista dell'Airc, Fondamentale, che, tra scienza e divulgazione, spicca il successo della sperimentazione Heracles. Commenta Salvatore Siena, l'oncologo clinico del Niguarda che ha condotto i primi test sull'uomo: «I risultati ottenuti nei primi sei pazienti curati con farmaci biologici anti Her-2 sono molto promettenti. Abbiamo visto regressioni significative del tumore e anche la stabilizzazione della malattia in persone il cui tumore era risultato resistente a tutte le cure mediche precedenti. Si tratta, certo, di risultati iniziali, ma che danno già un'idea dei possibili esiti positivi del progetto». Che è poi quello, al momento, di curare pazienti con cancro del colon che non rispondono alle terapie convenzionali. Con un cocktail biologico in grado di destabilizzare l'azione nefasta di Her-2. Che, come detto, è implicato anche in altri tipi di tumore che riguardano seno e stomaco. Adesso lo studio si allarga. Continua Siena: «Abbiamo messo a punto una guida essenziale per i pazienti che volessero entrare nello studio». E su Fondamentale viene lanciato un appello per il reclutamento di nuovi pazienti: più adesioni arriveranno e prima la sperimentazione si potrà tradurre in un protocollo di cura. Più numeri positivi si avranno, prima la ricerca italiana firmerà un successo internazionale. Importante è anche la «biopsia liquida», rivoluzionaria tecnica messa a punto poco meno di un anno fa da Alberto Bardelli, responsabile del laboratorio di genetica molecolare di Candiolo. E la «biopsia liquida», tramite esame del sangue, permette di verificare se il cocktail Heracles funziona. Mario Pappagallo @Mariopaps _____________________________________________________ Corriere della Sera 29 mar. ’13 PROTEINE ARTIFICIALI VITTORIA ITALIANA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI — «Il mondo ha bisogno della scienza e la scienza ha bisogno delle donne», dice Irina Bokova, la presidente dell'Unesco che ieri alla Sorbona ha celebrato la 15esima edizione del premio L'Oréal-Unesco «For Women in Science». Nato nel 1998 su iniziativa di L'Oréal e Unesco, «For Women in Science» è stato il primo premio internazionale dedicato alle donne che operano nel settore scientifico. Per sostenere la presenza femminile in un campo tradizionalmente dominato dagli uomini, il programma premia ogni anno cinque scienziate, una per ognuno dei continenti, con un contributo di 100 mila dollari ciascuna. Negli anni il premio è stato capace di individuare per primo personalità di spicco, come per esempio Elizabeth Blackburn e Ada Yonath, vincitrici dell'edizione 2008 e l'anno successivo insignite del Premio Nobel, rispettivamente per la medicina e la chimica. «Crediamo nella continuità e nella coerenza di questo genere di interventi — spiega il presidente de L'Oréal, Jean-Paul Agon —. Da 15 anni finanziamo questo premio e lo faremo per i prossimi decenni, non disperdere le risorse è l'unico modo per ottenere risultati». Le vincitrici di quest'anno sono Francisca Nneka Okeke per l'Africa, Deborah S. Jin per il Nordamerica, Marcia Barbosa per l'America latina, Reiko Kuroda per l'area Asia-Pacifico e Pratibha L. Gai per l'Europa. Accanto ai premi principali, la borsa internazionale per le ricercatrici «under 35» è andata all'italiana Marina Faiella, per il suo progetto incentrato sulla creazione di proteine artificiali in grado di produrre idrogeno. Un passo in avanti verso l'utilizzo dell'idrogeno come fonte di energia a basso prezzo e non inquinante. Stefano Montefiori _____________________________________________________ Sanità News 28 mar. ’13 CON LO SPRAY AL BICARBONATO MIGLIORA LA SALUTE DEI DENTI Una ricerca condotta dagli esperti dell'università dell'Insubria, con sedi a Como e Varese, dimostra come un "semplice" spray possa migliorare in modo incredibile le condizioni di salute dei denti. Lo studio si basa sul PH che di normale è neutro sul valore 7 riuscendo a fornire ai denti diverse sostanza come calcio, fosfatoe fluoro. Però durante l'assunzione di alcuni tipi di bevande e alimenti, e anche il fumo, il PH tende ad abbassarsi non riuscendo più dunque a proteggere i nostri denti e di conseguenza aumenta sensibilmente il rischio di contrarre carie. Si tratta di un muco adesivo che si applica alle mucose orali e che riesce a sfruttare proprio la capacità tampone della saliva. Lo spray, costituito da diverse sostanze quali bicarbonato di sodio, xilitolo, polioli, acido ialuronico, eccipienti), è stato già brevettato ed è in circolazione in farmacia. Consigliato dopo cibo o bevande, quando non è possibile l’igiene orale o prima di usare lo spazzolino. «Può essere un aiuto, ma non credo sia la soluzione dei mali odontoiatrici. L’accumulo di placca resta il problema per cui si creano carie e malattie parodontali, la chiave vincente resta una buona detersione. Questo spray dovrebbe evitare il primo passo verso la carie. Ma è difficile insegnare ai pazienti con malattia parodontale avanzata di portarsi dietro gli scovolini portatili che non ingombrano, figuriamoci una bomboletta», dichiara Raniero Barattolo, odontoiatra, endodonzista. _____________________________________________________ Corriere della Sera 30 mar. ’13 LA PILLOLA CHE «RIPULISCE» I NOSTRI RICORDI DAL DOLORE Il professor Birmes: «La memoria resta, ma chi rivive una scena di terrore soffre meno» DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI — Non fa sparire il dolore di un amore infelice, è molto lontano dall'«incantesimo di memoria» di Harry Potter, dalla pillola blu di Matrix e pure dal neuralyzer di Men in Black, ma funziona. Da oltre un decennio il propranolol viene periodicamente tirato in ballo — esagerando — come «la pillola che cancella i cattivi ricordi», perché è troppo affascinante anche solo immaginare una vita sanata dalla sofferenza psichica. Ma se sarà inutile prendere il propranolol per dimenticare la sconfitta nel derby, è ormai provato che questo farmaco betabloccante di solito usato nella terapia delle aritmie cardiache riesce ad attenuare i disturbi dello stress post-traumatico. A Tolosa lo usa con i suoi pazienti il professor Philippe Birmes, che ha a sua disposizione una casistica unica a livello internazionale: 200 tra i superstiti dell'esplosione alla fabbrica Azf di Tolosa, avvenuta nel 2001. Appena 10 giorni dopo l'attacco all'America, alle 10 e 17 del 21 settembre, un deposito di 300 tonnellate di nitrato di ammonio esplose provocando un terremoto di magnitudine 3.4 e un boato che venne percepito fino a 80 chilometri da Tolosa. Morirono 31 persone (quasi tutti dipendenti della fabbrica) e 2.500 rimasero ferite. Nei mesi successivi, molti cominciarono a rivivere il momento dello scoppio, con attacchi di panico, nei momenti più imprevedibili della giornata. In quegli anni, a Montréal, il professore canadese Alain Brunet somministrava sperimentalmente il propranolol ai sopravvissuti di incidenti stradali molto gravi, o a persone che erano state vittime di aggressioni. Nel 2007 Brunet presentò i risultati delle sue ricerche al collega di Tolosa, che decise di proporre il propranolol anche ai suoi pazienti. «Molti di loro potevano cadere in uno stato di terrore da un momento all'altro: agorafobia, sudori freddi, tachicardia, una sofferenza enorme», dice Birmes. Otto accettarono la cura con il propranolol. Oggi le loro condizioni, e quelle di altri 35 pazienti assistiti per problemi analoghi a Montréal e Boston, sono molto migliorate. I disturbi del sonno e i flashback sono finiti. Il paziente prende la pillola (a poco prezzo perché ormai è un farmaco generico) e circa un'ora e mezzo dopo viene aiutato a riattivare il ricordo dell'evento traumatico. Sei sedute bastano per rompere l'associazione tra memoria e sofferenza: l'evento non viene cancellato, viene soltanto rivissuto in modo meno vivido, meno doloroso. Quell'esperienza di vita c'è ancora, solo che fa stare molto meno male. È una battaglia cominciata negli anni Settanta affrontando il ritorno a casa dei reduci del Vietnam, e continuata tra molti dubbi anche filosofici. Nel 2003 la commissione di bioetica del presidente americano George W. Bush condannò le ricerche sull'«oblio terapeutico»: «Tutti noi siamo in grado di pensare a eventi traumatici nelle nostre vite, che furono orribili quando li abbiamo vissuti — disse Rebecca S. Dresser, una dei membri — ma che alla fine ci hanno resi quello che siamo». Fa paura pensare alle poche paginette aride che avrebbe scritto un Marcel Proust sotto propranolol, e ancora di più immaginare che ne sarebbe di quel che resta dell'umanità se bastasse una pillola per cancellare il ricordo del male fatto agli altri, cioè il rimorso. Il filosofo francese Paul Ricœur, che oggi avrebbe cento anni, sosteneva che il «dovere di memoria» è il modo di rendere giustizia agli altri, e insieme la possibilità di riparare agli errori commessi diventando persone migliori. Tutto messo a rischio dal propranolol? In fondo gli uomini hanno sempre cercato di dimenticare, il farmaco anti-stress traumatico è forse semplicemente uno strumento più efficace dell'alcol. Il professor Birmes ne è convinto: «I ricordi restano, come la distinzione tra bene e male. Ma chi rivive con terrore sempre la stessa scena, ora può soffrire di meno». Stefano Montefiori @Stef_Montefiori