RASSEGNA STAMPA 07/04/2013 ULTIMI IN EUROPA PER GLI INVESTIMENTI IN CULTURA E ISTRUZIONE RICERCA SCIENTIFICA CON REGOLE PIÙ SNELLE I PROGETTI CI SONO, BISOGNA SBLOCCARLI UNICA: CAMPUS, AGGIUDICATI I LAVORI UNICA: FARRIS AL COMUNE CONFRONTO INUTILE CON MELIS UNICA: CITTADELLA, ARRIVANO I SERVIZI AL PUBBLICO UNISS: CAMPUS UNIVERSITARIO UN PROGETTO DEBOLE UNISS: LA SARDEGNA HA BISOGNO DI TECNICI LAUREATI ALLARME UNIVERSITÀ, SCADONO LE BORSE DEI RICERCATORI UNIVERSITÀ, L'AGONIA DELLA BORSA DI STUDIO IL GENIO DEI TRAPIANTI "SENZA, NON SAREI QUI" RETTORE DEI RETTORI: "È LA MORTE DI UN DIRITTO" DIMINUISCE L'OCCUPAZIONE DEI LAUREATI? SÌ, MA CHI NON STUDIA STA PEGGIO PER STRASBURGO IL NUMERO CHIUSO NON VIOLA IL DIRITTO ALLO STUDIO UNISS: MANCATA IMMATRICOLAZIONE: L'OCCUPAZIONE CONTINUA LIBRI DIGITALI SÌ MA DAL 2016 LA SCUOLA DIGITALE? NOI LA VOGLIAMO COSÌ HARVARD, IL ROBOT SFRATTA I PROF HARVARD E MIT I COMPITI LI CORREGGE IL PROFESSORE ROBOT MA LA COMUNITÀ ACCADEMICA INSORGE POPULISTI PER PAURA DEL NUOVO L'ALGORITMO HA CAMBIATO IL NOSTRO MODO DI PENSARE ========================================================= CATTOLICA: NEGLI OSPEDALI COSTI DIVERSI PER LE STESSE PRESTAZIONI L'ESPERTO: «SERVE PIÙ TRASPARENZA» LOTTA AGLI ILLECITI SANITARI SANITÀ, 5 MILIARDI SUBITO ENTRO MAGGIO LE REGOLE PER SALDARE I CONTI INDIA, SÌ AI FARMACI SENZA BREVETTO SERVE INCENTIVARE I GENERICI PER FARE RICERCA SU NUOVI FARMACI LO SCANDALO DELLE CURE D'ORO AOUCA: A SETTEMBRE LA METRO AL POLICLINICO. AOUSS: INAUGURATO IL REPARTO DI TERAPIA INTENSIVA NEONATALE AOB: LA LEZIONE DI GINO STRADA COMMUOVE GLI STUDENTI «INFORMAZIONI E DIGNITÀ SUI DIRITTI DEL MALATO ANCORA MOLTO DA FARE» AOB: STRADA: "I POLITICI? NON PARLANO DI DIRITTI UMANI E MEDICINA" NASCE IN ITALIA L'ARMA DECISIVA ANTI MALARIA COS'È DAVVERO L'AUTISMO? NELL’ISOLA 8.000 CASI DI AUTISMO «BUFALA» IN RETE SU MAMMOGRAFIA E TUMORE TIROIDEO LA SCOSSA PER RINGIOVANIRE DI MODA NEGLI ANNI VENTI CURE FRETTOLOSE PER L'ALZHEIMER L'UOMO NON È FATTO SOLO DI GENI LA GUERRA DEI BREVETTI NANOTECH KEYNES, LA MEDICINA DEI MALI ESTREMI IN CAMPO UNA NUOVA TERAPIA PER SCONFIGGERE IL MELANOMA STAMINA, I DUBBI DEGLI ESPERTI VANNONI: «LA CURA È EFFICACE» MAPPA DEL CERVELLO CENTO MILIONI STANZIATI DA OBAMA UN MILIONE DI CINESI UCCISI DALLO SMOG ========================================================= _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 Apr. ’13 ULTIMI IN EUROPA PER GLI INVESTIMENTI IN CULTURA E ISTRUZIONE BRUXELLES — Se quest'Europa fosse il libro Cuore di Edmondo De Amicis, quest'Italia sarebbe Franti: quello dell'ultimo banco, che non studia e non studierà mai, e perfino sghignazza se qualche secchione fa una brutta figura. L'Europa non è Cuore, naturalmente, e il paragone è solo uno scherzo acido. Ma i numeri diffusi ieri da Eurostat, no, quelli sono serissimi: dicono che l'Italia — prima al mondo per patrimoni e monumenti artistici — è l'ultima, proprio l'ultima fra tutti i 27 Paesi dell'Unione Europea, per la percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura: 1,1% del Prodotto interno lordo quando la media dell'Ue è il doppio, il 2,2%. Non solo: c'è soltanto la Grecia che arranca dietro il nostro Paese, e dunque l'Italia si attesta al penultimo posto, per quanto riguarda la percentuale di spesa dedicata all'istruzione; noi spendiamo per cattedre, insegnanti, libri, computer, presidi, bidelli e così via l'8,5%: l'Ue spende in media il 10,9%. L'Eurostat è una sorta di Bibbia di tutte le istituzioni europee, in tema di statistica. E le sue diagnosi sono spesso come sentenze inappellabili. Anche in questo caso, è stato in un certo senso così, ma con varie contraddizioni ben visibili in controluce: l'indagine svolta nel 2011 dice intanto che la Ue ha avuto una spesa pubblica pari al 49,1% del Prodotto interno loro; poi conferma quanto già si sapeva, e cioè le maggiori risorse dedicate in genere dai Paesi del Nord alla cultura e all'istruzione; ma nello stesso tempo ci dice che proprio la piazzaforte del Nord, la Germania, ha speso per la cultura appena un soffio di più (1,8%) dell'Italia. Così scarsa di risorse destinate a cattedre e biblioteche, Roma si piazza però al di sopra di altre capitali — e della Ue in media — per quanto riguarda la percentuale di spesa pubblica dedicata alla protezione sociale: alle pensioni, soprattutto, e su un gradino più sotto alla casa, al sostegno per i portatori di handicap e alle misure attive per l'occupazione. Nel nostro Paese la percentuale di Pil dedicata alla sanità e alla protezione sociale era del 23,9% nel 2002, ed è salita al 29,9% nel 2011: meno della Francia, patria dello statalismo come dogma, e più della Germania. Insieme ai conti sull'istruzione e cultura, c'è anche un altro segnale inquietante per il nostro Paese. La spesa pubblica dell'Ue è diminuita per tutti i capitoli tranne che per i «servizi generali», voce che comprende anche gli interessi pagati sul debito pubblico. In due parole: in questo caso si è speso di più, perché c'era un debito più alto, e dunque interessi più alti da saldare. La media Ue è stata del 13,5%. E fra i singoli Paesi, chi ha sborsato di più, perché più assediato dai creditori internazionali? La Grecia (24,6%), Cipro (24,1), l'Ungheria (17,5) e l'Italia (17,3) quarta fra le maglie nere. Se non altro, Franti cerca almeno di pagare i suoi debiti. Luigi Offeddu loffeddu@corriere.it _____________________________________________________ Il Sole24Ore 6 Apr. ’13 RICERCA SCIENTIFICA CON REGOLE PIÙ SNELLE ROMA Procedure snelle nell'erogazione dei fondi. Regole semplifici per favorire l'attività di ricerca in Italia. E nuovi criteri per la valutazione dei progetti che mandano in soffitta lo strumento del «Comitato tecnico scientifico» a favore della «revisione tra pari» di esperti nazionali e internazionali. Una parte dei quali saranno individuati dal «Comitato nazionale dei garanti della ricerca», il Cngr, nell'ambito di un apposito elenco ministeriale gestito all'interno del nuovo portale «Research Italy». Mentre altri saranno esperti contenuti in elenchi della commissione Ue. Il ministro dell'Istruzione, Francesco Profumo, ha aggiornato il decreto 593 del 2000 sulla gestione del fondo «First», il «Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica». L'obiettivo è quello di velocizzare la selezione dei progetti e l'erogazione delle risorse, allineando l'Italia alle migliori pratiche europee attraverso «uno strumento in grado di creare un più stretto legame tra ricerca, innovazione e sviluppo», ha detto il ministro Profumo. Tra le novità in arrivo anche la previsione che, nel caso di progetti co- finanziati, il giudizio positivo dell'Ue renda superfluo il secondo giudizio nazionale. Si punta poi a favorire le politiche di domanda pubblica di innovazione: qui la Pa potrà concepire bandi mirati a trovare una soluzione tecnologica ai propri bisogni attraverso il finanziamento alla ricerca. Cl.T. _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Apr. ’13 I PROGETTI CI SONO, BISOGNA SBLOCCARLI di Mauro Zangola Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una rivoluzione nel modo di fare ricerca e di promuovere l'innovazione. Grazie ad organismi quali i Poli di Innovazione imprese, Atenei e Centri di ricerca mettono in comune conoscenza e professionalità per innovare nei processi e nei prodotti. Due sono gli ingredienti del successo di queste nuove entità: la disponibilità di risorse che alimenta e sostiene la capacità progettuale della rete; il riconoscimento tangibile dell'importanza del ruolo dei soggetti gestori chiamati a svolgere un compito insostituibile di indirizzo, coordinamento e gestione delle linee strategiche del Polo. Grazie a questo modello si crea un rapporto molto stretto fra gestori e soggetti che aderiscono al Polo. L'esperienza dei Poli di innovazione soprattutto Piemontesi, deve aver ispirato il Miur (Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca) nel momento in cui ha deciso di dar vita ai nove Cluster tecnologici Nazionali. I Cluster sono nati; i progetti pure. Occorre superare in fretta l'attuale fase di stallo per consentire alle aziende di avviare i progetti prima che diventino obsoleti. Il finanziamento dei progetti non è l'unica questione a cui dar seguito in tempi rapidi. Occorre interrogarsi sul futuro dei Cluster Nazionali; sul ruolo che sono chiamati a svolgere all'interno delle politiche nazionali e regionali. I Cluster Nazionali sono a vario titoli degli organismi molto fragili ma con grandi potenzialità. Dispongono infatti dei requisiti di rappresentatività sufficienti per diventare degli incubatori di progetti con buone possibilità di successo sui bandi europei. Non va trascurata inoltre la possibilità di utilizzare i Cluster come Agenzie del Miur. Una sorta di interlocutori privilegiati nelle materie di competenza. Per consentire ai Cluster di svolgere questi compiti, l'attuale disciplina deve essere profondamente ripensata. Il ruolo dei gestori deve essere sostenuto finanziariamente: occorre garantire continuità nel finanziamento dei progetti di ricerca anche al fine di assicurare un coordinamento sempre più stretto tra le necessità delle imprese e le scelte strategiche del Cluster. Il Paese si è dotato di uno strumento che se ben utilizzato può contribuire ad accrescere la nostra capacità di ricerca. In questo come in altri campi confidare nell'intraprendenza e nella buona volontà dei singoli non è sufficiente. Occorre dotarsi di strumenti ben strutturati anche dal punto di vista finanziario; fissare degli obiettivi e chiedere a tutti, pubblici e privati, il massimo impegno nel perseguirli. Responsabile Mesap (Polo della Meccatronica e dei sistemi avanzati di produzione) _____________________________________________________ L’Unione Sarda 4 Apr. ’13 UNICA: CAMPUS, AGGIUDICATI I LAVORI CONSIGLIO. Dibattito sull'università. Zedda: «Nel 2014 giù il muro dell'orto botanico» Il rettore: «I fuori sede portano 100 milioni alla città» VEDI LA FOTO «Cagliari è un importante polo di attrazione per migliaia di giovani provenienti dall'intera Sardegna e per studenti, ricercatori e docenti del resto del mondo. Ma ha un basso indice di ospitalità a causa dell'inadeguatezza delle strutture pubbliche ad ospitare studenti e docenti. Serve una maggiore sinergia tra Comune e ateneo». Il rettore dell'università Giovanni Melis ieri ha varcato per la prima volta la porta dell'aula del Consiglio comunale, invitato dall'Assemblea, assieme alla presidente dell'Ersu Daniela Noli e a Tommaso Ercoli, presidente del Consiglio degli studenti, per dibattere i problemi dell'università e instaurare con l'amministrazione civica quella sinergia che - lo ha ribadito anche recentemente - è sempre mancata. Non a caso, replicando al termine del dibattito, Melis ha risolto un invito ai consiglieri: «Si coglie dai vostri interventi una grande attenzione all'Ateneo come risorsa. Ma se è così, deve essere valorizzata in funzione dello sviluppo di Cagliari e del suo centro storico: stiamo dismettendo la Clinica Macciotta, entro due anni sarà liberato il San Giovanni di Dio. È il cuore del centro storico della città: su questo occorre attivare sinergie per arrivare ad un grande centro culturale». IL CAMPUS Inevitabile che buona parte del dibattito sia stato incentrato sui fuori sede - che portano alla città 100 milioni di euro all'anno, 6.682 euro in media a testa - e sugli alloggi. «Esiste un'ampia disponibilità di case e stanze inutilizzate», ha evidenziato il rettore sollecitando «un'attiva politica comunale che ne incentivi con strumenti fiscali e sostegni operativi l'utilizzo universitario: darebbe un grande contributo a migliorare l'ospitalità». Il campus di viale La Playa, secondo Melis, non sarà la soluzione. «Non sarà pronto prima del 2016», ha detto, «e comunque non sarà sufficiente. I lavori per la costruzione sono stati aggiudicati: costeranno 34,5 milioni e daranno 250 nuovi posti letto che si aggiungeranno agli 851 già disponibili, 784 dei quali occupati, visto che ci sono ancora posti non assegnati. Il problema, come ha evidenziato Daniela Noli, è che «serve un nuovo concetto di residenzialità. Non più dormitori, ma una nuove strade che consentano di abbattere complessivamente i costi per gli studenti, dai trasporti alla cultura. «Chiediamo al Comune di mettere la cittadinanza studentesca tra le sue priorità perché Cagliari è lontana dall'essere una città universitaria», ha evidenziato Tommaso Ercoli, che ha chiesto un maggiore coinvolgimento degli studenti nelle scelte che li riguardano. Secondo Ercoli «mancano spazi di aggregazione, sullo svago notturno la città spesso è addirittura ostile, i collegamenti pubblici sono carenti : male quelli con il polo scientifico di Monserrato, servono per quel percorso piste ciclabili e bike sharing». Nel mirino anche gli abbonamenti dei bus: «Non valgono per luglio e agosto», ha detto, «e tariffe vanno rimodulate anche per fasce di reddito». IL SINDACO «Quanto è successo all'Università italiana è molto simile a ciò che è successo ai comuni per effetto dei tagli statali», ha concluso il sindaco Massimo Zedda, secondo il quale «è una follia che lo Stato faccia pagare l'Imu agli atenei che vivono di contributi pubblici». Poi, ribadendo un punto del suo programma di governo, ha aggiunto: «Noi crediamo che Cagliari possa essere con l'Università motore di sviluppo per la Regione, e per questo rafforzeremo il dialogo con l'amministrazione universitaria. A partire dalla prossima programmazione strategica dei fondi europei, già dal 2014 si può pensare di creare un unico campus universitario nel cuore della città, abbattendo il muro dell'Orto botanico, creando un unico grande spazio che vada da viale Sant'Ignazio fino al San Giovanni di Dio». Fabio Manca _____________________________________________________ L’Unione Sarda 4 Apr. ’13 UNICA: FARRIS AL COMUNE CONFRONTO INUTILE CON MELIS» La presenza di Melis in via Roma Dagli interventi in Consiglio comunale sul rapporto tra università e Comune è sostanzialmente emerso che la strada da percorrere per avere una maggiore integrazione tra le due istituzioni è ancora tanta. Il dibattito è stato anche l'ennesimo spunto per la contrapposizione tra maggioranza e opposizione, con la prima che ha difeso l'iniziativa voluta dal capogruppo della Federazione della sinistra Enrico Lobina e la seconda, per voce del suo omonimo del Pdl, Giuseppe Farris, che sostanzialmente criticava le modalità della discussione in aula. «Che questo sia un dibattito è una finzione», è infatti l'esordio di Farris, che ha sottolineato come le parole di Tommaso Ercoli, il rappresentante del Consiglio degli studenti, fossero sostanzialmente identiche a quelle pronunciate da Lobina nel presentare l'iniziativa. «La discussione si doveva organizzare in due tempi, prima ascoltare il rettore Giovanni Melis, la presidente dell'Ersu, Daniela Noli, ed Ercoli, poi affrontare i temi da loro proposti con appositi ordini del giorno», ha spiegato Farris a fine seduta. Per questo il consigliere azzurro ha annunciato un ordine del giorno autonomo rispetto a quello di maggioranza. In generale, gli interventi si sono concentrati sulle politiche abitative. «Il campus di viale la Playa non sarà sufficiente a coprire gli alloggi», ha evidenziato il capogruppo del Pd Davide Carta, secondo cui è necessario valorizzare il patrimonio immobiliare esistente. Ad esempio, «con agevolazioni sull'Imu si possono invogliare i proprietari di seconde case a dare in affitto i loro immobili a canone agevolato o concordato». Sempre su questo punto, il consigliere di Meglio di prima non ci basta, Filippo Petrucci, ha ricordato l'esempio di Alghero, dove le abitazioni date in locazione agli universitari, in estate, quando i fuorisede non ci sono, sono affittate ai turisti. Mentre sull'utilizzo degli immobili pubblici a scopo didattico punterebbe invece Alessio Mereu dei Riformatori (e consigliere dell'Ersu). Forse, la vera domanda della seduta l'ha posta Fabrizio Rodin (Pd): «Ma questo dibattito servirà a qualcosa?». Lui è sicuro di sì: «Il sindaco e ogni assessore si dovranno interrogare su cosa possono fare per gli studenti». È anche l'auspicio dei quasi 30 mila universitari che vivono in città. (m. g.) _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 Apr. ’13 UNICA: CITTADELLA, ARRIVANO I SERVIZI AL PUBBLICO Entro giugno pronta la gara che porterà nei musei ristorante, punto vendita, biglietteria integrata e attività didattiche Marco minoja Siamo al lavoro per preparare la mostra sulla civiltà nuragica in occasione del centenario della nascita di Lilliu CAGLIARI Burocrazia al lavoro per preparare un bando complicato, quello che porterà servizi al pubblico non soltanto culturali nella cittadella dei musei. La gara sarà pronta entro giugno come previsto nel protocollo d’intesa tra ministero dei beni culturali, comune di Cagliari, Regione, università. E’ lunga la preparazione del bando perché i «servizi integrati» saranno allestiti in spazi che sono uno accanto all’altro ma ricadono sotto amministrazioni diverse e, soprattutto, non saranno disponibili tutti assieme. La gara è studiata per punto ristoro, punto vendita e biglietteria integrata ma anche per ulteriori servizi culturali e didattici dedicati al visitatore che i progettisti sapranno ideare. Questo bando è atteso e ha già una certa notorietà: non è comune in Italia che tante amministrazioni abbiano voce in capitolo su uno spazio così ristretto e siano riuscite finalmente a creare un tavolo di collaborazione. Al museo archeologico intanto sono stati avviati i lavori preliminari (due milioni di euro la spesa con fondi stanziati dal Cipe) cui dovranno seguire quelli che sono già stati messi in gara, le buste verranno aperte a partire dalla prossima settimana, la soprintendenza ai beni archeologici confida che i lavori cominceranno entro l’estate. L’obbiettivo è che il museo sia pronto per la grande prova della primavera 2014 quando, nella celebrazione dei cento anni dalla nascita del grande archeologo scomparso Giovanni Lilliu, si allestirà un’importante mostra sulla civiltà nuragica. «Sarà un anno clou – commenta il soprintendente Marco Minoja – di grande visibilità per il sistema museale cagliaritano e per il sistema museale integrato che si sta definendo con chiarezza». Oltre alla mostra della civiltà nuragica è prevista l’esposizione in contemporanea dei Giganti di Monte Prama a Cagliari nella sala dell’ex museo archeologico di piazza Indipendenza e a Cabras in uno spazio temporaneo in attesa che venga costruito il museo capace di contenerli tutti. La settimana scorsa la soprintendenza ha avuto un incontro definito di grande prospettiva: alla Regione, al centro di programmazione regionale, è stato focalizzato il metodo di lavoro per obbiettivi anche per accedere ai finanziamenti europei. La soprintendenza è stata riconosciuta come entità in grado di elaborare progetti da sostenere anche in sede europea. In altre parole si aprono scenari interessanti per favorire lo sviluppo dei settori culturali curati dalla soprintendenza. Scavi, restauri, laboratori, valorizzazione di ciò che è stato rinvenuto nel tempo aspettano di entrare in una progettazione finalmente possibile. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 Apr. ’13 UNISS: CAMPUS UNIVERSITARIO UN PROGETTO DEBOLE L’Ateneo non è ostile al piano pregiudizialmente, ma mancano alcuni requisiti indicati dal bando. Decisivo il parere degli studenti di ATTILIO MASTINO Vedo su La Nuova di giovedì 4 il presidente dell’Ersu Gianni Poggiu mi ha arruolato, volente o nolente, tra gli acritici difensori del progetto "Campus". Non mi è mai piaciuto essere tirato per la giacchetta e i giornalisti presenti alla conferenza stampa del 25 marzo sanno bene che nel mio intervento mi sono limitato a presentare un problema di metodo, cioè che l'Ersu dovrebbe sentirsi in dovere di illustrare agli studenti e al mondo accademico il progetto, approvato dal Consiglio di amministrazione dell’Ersu con il voto contrario dello studente Giosuè Cuccurazzu e l'astensione del rappresentante dell'Università professor Ciriaco Carru. In quella occasione avevo elencato le obiezioni fin qui presentate: l'assenza di alberi di alto fusto previsti nel bando, le dimensioni ridotte dello spazio disponibile che ci porta lontanissimo rispetto al concetto "campus", la presenza su una porzione del terreno di un vincolo cimiteriale e di un vincolo storico relativo ad una parte dei fabbricati della semoleria, l'improprio utilizzo delle risorse destinate alle residenze studentesche per allestire un museo dell'Ottocento, i problemi legati al ritardo nell'approvazione del Puc comunale che rischiano di avere conseguenze sulla cantierabilità, infine la localizzazione urbanistica al di là del cavalcavia, in un'area di grande traffico, certamente degradata e meritevole dell'intervento pubblico per un radicale risanamento. In attesa del pronunciamento degli organi accademici, mi sono limitato a ricordare che l'Università non è mai stata pregiudizialmente ostile. Ho evitato di prendere posizione anche perché l'Ateneo aveva offerto all'Ersu due aree certamente meritevoli di attenzione, l'ex brefotrofio in via delle croci e i terreni di San Lorenzo di fronte all'orto botanico. Visto lo scarso interesse del'Ersu per quelle due soluzioni, voglio ora ribadire pubblicamente che l'Università non ha nessun tipo di interesse in gioco e di conseguenza si limiterà a osservare e discutere le proposte progettuali presentate, che anche per la qualità dei progettisti appaiono meritevoli di approfondimento e di interesse reale. Avevo avviato la convocazione del Senato accademico, del Consiglio di amministrazione, del Consiglio degli studenti e dei direttori dei dipartimenti per il 10 aprile proprio per sentire i progettisti e leggere gli elaborati: su richiesta del presidente Poggiu l'incontro è stato posticipato a lunedì 22 aprile, preso la sede dell'Ersu.Sarà quella l'occasione per presentare il progetto ai nostri studenti, ferma restando l'autonomia dell'Ersu e degli organi accademici, che si esprimeranno singolarmente sul progetto.Per il resto, lasciatemi dire che non capisco il tono acceso, offensivo e in qualche momento intimidatorio di una discussione che dovremmo sempre tenere alta, al di sopra delle parti, orientata esclusivamente a portare avanti gli interessi generali della città di Sassari e dei nostri studenti. A loro soprattutto lasciamo la responsabilità di dire serenamente la parola conclusiva sull'argomento. Rettore Università di Sassari _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 Apr. ’13 UNISS: LA SARDEGNA HA BISOGNO DI TECNICI LAUREATI Nei giorni scorsi l’ateneo di Sassari ha bocciato l’istituzione di un corso di laurea in ingegneria dell’informazione Come si esce dalla crisi? di ANTONIETTA MAZZETTE Nei giorni scorsi l'ateneo di Sassari ha bocciato l'istituzione di un nuovo corso di laurea finalizzato a formare ingegneri dell'informazione. Ai più ciò potrebbe apparire come una mera lotta interna tra il dipartimento di Scienze politiche, Comunicazione e Ingegneria dell'informazione (PolComIng) da un lato e gli organi di governo dell'Ateneo dall'altro . In realtà così non è, perché ci sono in gioco due opposte idee del futuro dell'università sassarese, e ciò riguarda da vicino il territorio sardo, specificamente il nord-Sardegna, suo naturale bacino d'utenza. Nel rapporto presentato il 14 marzo scorso da J.M. Barroso su "Crescita, competitività e lavoro: le priorità per l'Europa nel semestre 2013", al summit dei 27 capi di Stato e di governo, è emerso chiaramente il gap esistente tra domanda e offerta di lavoro nel settore dell'Information Technology, nonostante la disoccupazione giovanile abbia percentuali a due cifre che, nel caso italiano, superano il 35%. Attualmente in Europa ci sono circa 100 mila laureati all'anno nei settori dell'ICT, a fronte di una richiesta quadrupla, destinata a raddoppiare nel 2015. Non è casuale che Barroso abbia sottolineato la necessità di considerare l'innovazione tecnologica - conseguentemente la formazione giovanile in tale settore - come una delle priorità europee. In quale posizione si colloca l'Italia? Agli ultimi posti. È superfluo aggiungere che la Sardegna, rispetto al resto d'Italia, continua a collocarsi agli ultimi posti per numero di laureati e per percentuali elevatissime di dispersione scolastica. Questa complessiva debolezza formativa dei giovani è una delle cause principali della debolezza economica dell'Isola. Tanto più grave se si considera che la capacità innovativa nel settore delle tecnologie dell'informazione è pressoché nulla.In questo contesto, serve all'Università di Sassari formare giovani nei campi dell'Ingegneria dell'informazione? Il più elementare buon senso porterebbe a risposte affermative. A ciò va aggiunto che in Sardegna non c'è uno specifico corso di laurea, mentre a Cagliari sono presenti Ingegneria elettrica ed elettronica, Ingegneria biomedica e un corso di informatica. C'è dunque una domanda sociale ed economica inevasa che riguarda il nord-Sardegna: ogni anno circa 100 giovani della provincia di Sassari si iscrivono a corsi di ingegneria dell'informazione presenti in altre città italiane, ed altri 100 provengono dalle province di Tempio- Olbia, Nuoro e Oristano. I giovani che non hanno le possibilità di andare altrove, sono costretti a ripiegare su altri corsi di laurea, o non frequentano l'università perché sfiduciati. Tutte le fonti confermano che i laureati in Ingegneria dell'informazione trovano lavoro subito dopo la laurea triennale; quelli che ancora non lavorano sono iscritti alla laurea magistrale o frequentano corsi di alta formazione. Ma tutto ciò non è stato neppure preso in considerazione e analizzato dentro l'ateneo di Sassari dove, probabilmente, hanno prevalso "interessi di bottega". Al di là di queste "piccole" ragioni, ci sono due modi di intendere l'università. Uno orientato alla conservazione dell'esistente come reazione allo stato di crisi generale; e un altro orientato ad inserire elementi di innovazione perché considerata non solo necessaria ma soprattutto l'alimento principale della vita stessa dell'università. E se il primo modo si pone in termini di difesa; il secondo è proiettato verso l'esterno perché supportato dalla consapevolezza che la crisi si può combattere solo se si è capaci di mettersi in gioco come docenti e come ricercatori ed essere, così, utili alla società. ____________________________________________________ L’Unità 7 Apr. ’13 ALLARME UNIVERSITÀ, SCADONO LE BORSE DEI RICERCATORI CRISTIANA PULCINELLI ROMA Sono stati cervelli in fuga. Poi l'Italia li ha richiamati e sono rientrati per contribuire, secondo le loro parole, «alla ricerca e allo sviluppo del nostro Paese». Ora rischiano di dover ripartire o, peggio, di rimanere senza lavoro. 114 firmatari di una lettera al ministro dell'istruzione, università e ricerca Francesco Profumo chiedono che si intervenga al più presto per evitare questa "fuga di ritorno". Si tratta di fisici, chimici, economisti, ingegneri, biologi vincitori del programma «Rientro dei Cervelli» per l'anno 2008-2009 e che da quattro anni lavorano nelle università e nei centri di ricerca italiani. Il programma «Rientro dei cervelli» era nato nel 2001 proprio per facilitare il ritorno in patria dei ricercatori che lavoravano all'estero ed è rimasto attivo fino al 2009 quando ha cambiato nome (e regole) in «Programma Rito Levi Montalcini». Quest'anno sono in scadenza sia i contratti non rinnova- bili dei ricercatori entrati con l'ultimo bando del vecchio programma, sia quelli - rinnovabili - dei ricercatori entrati invece con il primo bando del nuovo programma. E per tutti si profilano grandi problemi. Andrea Gambassi, fisico teorico che, dopo alcuni anni passati al Max Planck Institut a Stoccarda, è tornato in Italia per lavorare alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, fa parte dei 14 firmatari della lettera al ministro: «La legge prevedeva che, alla fine dei quattro anni, ci sarebbe stata una valutazione con possibilità di essere immessi in ruolo attraverso la chiamata diretta da parte dell'ente di ricerca. Anche perché concorsi negli ultimi tre anni non ci sono stati». L'ateneo quindi può fare domanda al ministero per assumere quel determinato ricercatore, la domanda deve passare dal Cun, Consiglio Universitario Nazionale, che a sua volta nomina degli esperti per valutare l'operato del candidato. Una procedura piuttosto lunga. «Purtroppo - si legge nella lettera - la legislazione induce a ritardare la presentazione delle istanze di chiamata diretta lasciando pochi mesi per la conclusione del loro iter». In parole povere, per fare le domande bisogna aspettare che il contratto sia in scadenza, ma poi rimane poco tempo per la valutazione e l'iter burocratico. Così, in caso di ritardi amministrativi, anche se il ricercatore fosse valutato positivamente, rischierebbe di rimanere senza contratto per alcuni mesi, mentre se l'esito della domanda fosse negativo, non rimarrebbe tempo per trovarsi un altro impiego all'estero senza passare per un periodo di disoccupazione. A ciò si aggiungono le lungaggini del ministero. Sta di fatto che «sono passati mesi, ma dal ministero non è arrivata nessuna comunicazione ufficiale», si legge nella lettera. In conclusione, i ricercatori, con i contratti in scadenza, ancora non sanno quale sarà il loro destino. «Vorrei che fosse chiaro che non chiediamo di essere stabilizzati ope legis - precisa Gambassi - ma di essere valutati in tempi certi e con una procedura razionale. E che i tempi delle risposte siano brevi in modo da programmare il nostro futuro». Le cose non vanno meglio per quelli che hanno vinto il bando per il Programma Levi Montalcini. Il contratto dei vincitori del 2009, selezionati nel 2010, dopo tre anni è in scadenza. In teoria dovrebbe essere rinnovabile per altri tre anni, ma al momento i ricercatori ancora non sanno cosa li aspetta, come mettevano in evidenza in una lettera di protesta scritta a ottobre scorso. Ma almeno il loro programma è partito. Quello che viene dopo è solo sulla carta: il bando del 2010 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 28 febbraio 2012. Il comitato per la valutazione è stato nominata il 10 settembre, il 17 dicembre si è insediato e il 21 febbraio scorso ha pubblicato un comunicato in cui si legge che «concluderà i suoi lavori entro sei mesi dall'insediamento, salvo eventuali ritardi». Il bando del 2011 non è mai uscito. Per quello del 2012 le domande dovevano essere presentate entro il 3 marzo scorso, ma il concorso di due anni prima non si è ancora concluso. Naturalmente, tutto questo ha anche un costo, visto che il ministero ha stanziato fondi per il rientro dei ricercatori: «Per questo motivo crediamo che il ministero debba intervenire per evitare uno spreco di energie e risorse finanziarie ingiustificabile, specialmente in tempi difficili come quelli che l'Italia sta vivendo», conclude la lettera a Profumo. «C'è poi da chiedersi - conclude Gambassi - quale sia la reale credibilità di un programma che, nonostante venga presentato come esempio concreto di impegno ministeriale per la promozione dell'eccellenza, lascia di fatto i suoi beneficiari in un limbo di incertezze che ben poco ha a che vedere con tale promozione _______________________________________________________________ La Stampa 05 apr. ’13 UNIVERSITÀ, L'AGONIA DELLA BORSA DI STUDIO Meritevoli abbandonati, entro il 2015 taglio del 92 per cento l'Anno scorso 57 mila idonei lasciati senza il contributo Il diritto allo studio rischia di sparire. Lo dicono i dati sulle risorse finanziarie destinate a borse di studio, mense e alloggi. Nello scorso anno accademico 57 mila studenti ritenuti meritevoli di ricevere un aiuto dalla Stato sono rimasti senza il contributo. Recita la nostra Costituzione: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». La buona notizia è che i capaci e meritevoli non mancano. Quella cattiva è che il diritto allo studio rischia di sparire. I dati sulle risorse finanziarie destinate a borse di studio, mense e alloggi sono impietosi, le prospettive drammatiche. Nello scorso anno accademico, 57mila studenti si sono ritrovati nella categoria degli «idonei non beneficiari». Per reddito e percorso di studi, sono considerati meritevoli di ricevere un aiuto dallo Stato. Per mancanza di fondi, destinati a non ricevere nulla, se non l'esenzione dalle tasse universitarie. Se nulla cambia, il loro numero aumenterà in fretta. Nel 2009 il Fondo nazionale destinato a integrare le risorse regionali a disposizione degli studenti fu eccezionalmente di 246 milioni di euro, grazie alle misure urgenti disposte dall'allora ministro Mariastella Gelmini. Poi un viaggio sulle montagne russe: circa 100 milioni di euro nel 2010 e nel 2011, poi 175 milioni nel 2012. Denari riacciuffati al volo, come i 90 Milioni ripescati dalla spending review del governo Monti. Senza interventi dell'ultimo minuto o brusche inversioni di rotta, il taglio alle borse di studio previsto per i prossimi tre anni è del 92%. Tradotto in euro, vuol dire che entro il 2015 i fondi a disposizioni dei «valorosi ma non danarosi» saranno 15 milioni di euro. Briciole, da distribuire in tutto il Paese e integrare con i fondi regionali. E se le famiglie che non si possono più permettere un figlio all'università sono sempre di più, sono sempre di più anche le Regioni sull'orlo del collasso. Un esempio su tutti? Il sistema universitario piemontese. Da eccellenza a ultimo in classifica, con un deprimente risultato del 30% delle richieste di borse di studio soddisfatte. Se il contributo statale si è attestato tra i 7 e i 7,9 milioni di euro, è la drastica riduzione del contributo regionale - oltre il 60% - che ha portato il meccanismo al tracollo. Un duro colpo per una regione che può vantare un'indiscussa eccellenza come il Politecnico di Torino, dove più della metà degli studenti non sono piemontesi e il 15% stranieri. Sabato il ministro dell'Istruzione Francesco Profumo sarà a Torino per incontrare i rappresentanti delle associazioni universitarie della regione. Intanto proprio dagli studenti universitari nasce una campagna, di mobilitazione nazionale. Semplice ed efficace lo slogan: «Non c'è più tempo». Ed è anche straordinariamente vero. Se nessuno interviene, si rischia di arrivare a settembre senza che nulla sia cambiato. Con costi enormi per il Paese, sia in termini etici che di sviluppo. «I costi per le famiglie sono diventati insostenibili. La politica non si muove da tempo, il diritto allo studio non può essere la vittima - denuncia Elena Monticelli, coordinatrice per il diritto allo studio dell'associazione studentesca Link -. Abbiamo lanciato la campagna "Non c'è più tempo" per riportare l'università nel dibattito politico. Se ne è parlato poco in campagna elettorale, ora non se ne parla più. La situazione è gravissima». Intanto, dopo un braccio di ferro durato due anni, giace al vaglio della conferenza Stato Regioni il decreto di riforma presentato dal ministro Profumo, osteggiato dalle associazioni studentesche ma con il via libera del Consiglio nazionale degli Studenti Universitari. _______________________________________________________________ La Stampa 05 apr. ’13 IL GENIO DEI TRAPIANTI "SENZA, NON SAREI QUI" Il chirurgo Mauro Salizzoni, primario del Centro trapianti epatici dell'ospedale Molinette, è un borsista doc. Sia lui che suo fratello Roberto, professore ordinario di lettere all'università di Torino, hanno potuto terminare l'università grazie a una borsa di studio. «La mia famiglia non era certo benestante. Mio padre era un metalmeccanico alla Olivetti di Ivrea, mia mamma lavorava in un negozio di panettiera. Mio padre avrebbe fatto qualsiasi cosa per noi, ma senza un aiuto sarebbe stato tutto davvero molto difficile». E così ha chiesto una borsa di studio. «All'epoca si chiamava presalario. Io l'ho chiesto per poter frequentare gli ultimi tre anni della facoltà di Medicina, dopo che ho lasciato casa dei miei genitori e mi sono sposato». Quali erano i requisiti per ottenere il pre-salario? «Quelli richiesti ora. Il reddito della famiglia che non superasse una certa soglia, esami in regola e buoni voti. E in cambio ricevevi una buona mensilità. Erano gli anni '60, è passato molto tempo e non ricordo con precisione quanto fosse, ma mi permetteva di vivere bene». E suo fratello? «Lui ha studiato Lettere e per tutti e cinque gli anni ha vissuto al collegio Bernardino di Torino, un bel vantaggio. Ora insegna all'università». In molti richiedevano un contributo per gli studi? «Ho un paio di stimati colleghi che hanno il mio stesso percorso. Eravamo in tanti, senza grandi famiglie alle spalle ma con ottimi risultati». _______________________________________________________________ La Stampa 05 apr. ’13 RETTORE DEI RETTORI: "È LA MORTE DI UN DIRITTO" Una situazione drammatica. Gravissima. E destinata a precipitare». Non ha dubbi Marco Mancini, rettore dell'università della Tuscia di Viterbo e presidente della Crui, la conferenza dei rettori delle università italiane. «In una situazione del genere non si può nemmeno parlare di diritto allo studio. Non esiste più. E a questo si aggiunge la situazione di difficoltà delle famiglie italiane. In sede alla Conferenza dei rettori, preoccupati per la grave situazione economica del paese, avevamo già chiesto più fondi per il diritto allo studio, senza ottenere nulla». Cosa si può fare per rimediare? «È essenzialmente una questione di soldi. Nel 2009 avevamo quasi 250 milioni di euro, nel 2012 erano 174 milioni e si può ormai considerare un periodo di vacche grasse. Quel che abbiamo davanti è un baratro. Ancor prima di pensare a decreti e riforme, bisogna trovare i soldi. Tra le possibili opzioni, si è parlato anche dei prestiti d'onore. «I prestiti d'onore non sono una priorità, se ne parlò con la Gelmini, mali piano non è mai decollato. Inutile discuterne ora, si parla del dessert quando in tavola manca il pane». Nonostante la drammaticità del momento, non si parla granché di università. «Mi sorprende che il problema non riesca a emergere in tutta la sua gravità. Associazioni studentesche e mondo della scuola devono lanciare un'azione comune, perché la questione arrivi sul tavolo del Governo, presente o futuro che sia. Siamo tagliati fuori dall'Europa. Se ci fosse una Maastricht europea, l'Italia non potrebbe rientrare». _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 Apr. ’13 DIMINUISCE L'OCCUPAZIONE DEI LAUREATI? SÌ, MA CHI NON STUDIA STA PEGGIO Si intensificano gli allarmi sull'occupazione dei laureati. Si eviti di confondere le cause con gli effetti. Chi sostiene che l'Italia ha troppi laureati e per di più mal assortiti, per colpa di un sistema universitario che si ostina a sfornare lavoratori non richiesti. Altri puntano il dito su un sistema produttivo arretrato. Consultare la documentazione disponibile può essere utile, come suggeriva Galilei ai cardinali del Sant'Uffizio riottosi ad avvicinarsi al cannocchiale (nell'opera di Brecht). Interrogativi importanti mentre tante famiglie si chiedono se far proseguire gli studi universitari ai figli. E mentre gli organi di governo debbono porsi l'interrogativo sulle risorse da destinare all'università e alla ricerca (la spesa per laureato in Italia, a parità di condizioni, è metà di quella tedesca!). In Italia nel 2011, i laureati di 30-34 anni erano il 20% della popolazione; traguardo distante da quelli europei fissati per il 2020 (40%). Ritardi che si riflettono sui livelli di istruzione della classe manageriale: il 37% dei «manager» italiani hanno tutt'al più la scuola dell'obbligo; in Germania sono il 7% (Eurostat)! I laureati italiani vedono sì ridursi l'occupazione: fra il 2008 e il 2012 il calo ha avuto un incremento del 46%. Ma tra i diplomati la disoccupazione è aumentata dell'85%. E comunque nell'intera vita lavorativa, la laurea ha garantito più occupazione rispetto al diploma (+12%) e migliori retribuzioni (+50 %). All'università le donne hanno migliori performance rispetto ai loro colleghi, eppure la loro presenza, soprattutto nei ruoli manageriali, è inferiore. Occorre investire di più nell'università, nel diritto allo studio e nella ricerca, premiandone la qualità; generalizzare le esperienze di studio/lavoro anche all'estero; qualificare il sistema della formazione professionale; potenziare l'orientamento. Ancor oggi l'82% degli immatricolati all'università viene da famiglie con genitori senza laurea; e all'università si iscrive il 30% dei diciannovenni. Sosteneva Plutarco che i giovani non sono vasi da riempire ma fiaccole da accendere. Andrea Cammelli direttore di Almalaurea www.almalaurea.it www.almaorientati.it _______________________________________________________________ Il Manifesto 03 apr. ’13 PER STRASBURGO IL NUMERO CHIUSO NON VIOLA IL DIRITTO ALLO STUDIO Università/ LA CORTE DEI DIRITTI UMANI RESPINGE IL RICORSO DI OTTO ITALIANI La sentenza della Corte di Strasburgo non farà piacere a chi si batte contro il numero chiuso nel 54% delle facoltà universitarie italiane. Per i giudici della Corte europea dei diritti umani il numero chiuso non viola il diritto allo studio. Nella sentenza emessa ieri sostengono che la soluzione individuata dal legislatore italiano per regolare l'accesso all'università è ragionevole. A presentare il ricorso a Strasburgo sono stati otto studenti italiani. La prima è una studentessa palermitana che ha fallito tre volte la prova d'accesso alla facoltà di medicina dell'ateneo locale. Gli altri sei aspiravano a frequentare il corso di odontoiatria, pur lavorando da armi come tecnici odontoiatri o igienisti dentali. L'ottavo ricorrente è stato escluso dalla facoltà di odontoiatria dopo otto anni che non dava esame. Il Codacons che ha sostenuto il ricorso non ha preso bene la sentenza della Corte. «Hanno preso una cantonata - sostiene l'associazione che tutela i diritti dei consumatori - il fatto che secondo i giudici il numero chiuso non sia incompatibile con la Convenzione europea dei diritti umani non significa che i test d'ingresso rispettino la normativa italiana, a cominciare dalla Costituzione». È lo stesso argomento sostenuto da tutti gli avversari, studenti e sindacati compresi, del numero chiuso. Esso violerebbe tre articoli della Costituzione che sanciscono il diritto allo studio, il 3,33 e 34, ma anche il libero accesso alle professioni. Su questo si è pronunciata l'Antitrust guidata da Antonio Catricalà, oggi sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Il caso riguardava il numero chiuso dei dentisti e lo si può considerare esemplare per tutte le professioni mediche e tecniche regolate da questa norma. «L'artificiosa predeterminazione del numero dei potenziali professionisti - scriveva Cani- cala nel 2009 - determina, dal punto di vista economico, un ingiustificato irrigidimento dell'offerta di prestazioni odontoiatriche, con l'effetto di restringere artificiosamente il numerici dei potenziali professionisti ed innalzare il prezzo delle relative prestazioni». In altre paro- le, il numero chiuso all'università droga il mercato poiché restringendo l'accesso alla professione concentra il potere nelle mani dei professionisti riconosciuti del settore ed relega un nu mero crescente di specializzati al precariato o all'esercizio abusivo della professione. Insomma, tutto il contrario di una liberalizzazione del mercato delle professioni. Da qui lo scandalo ribadito ieri dal Codacons che se l'è presa con Monti il quale, pur avendo inserito nelle file del suo governo Catricalà, non ha pensato di liberalizzare l'accesso alle professioni. I singoli atenei hanno il potere di determinare autonomamente il numero chiuso nelle facoltà dove lo ritengono opportuno. C'è anche il caso delle facoltà di ingegneria che hanno dato vita ad un consorzio che fissa la prova nella stessa data a livello nazionale sulla base di un test unico. Lo stesso modello viene seguito dalle facoltà di medicina e odontoiatria. Il risultato è stato quello di generalizzare il ricorso a questa misura di sbarramento all'accesso a più della metà dei corsi di laurea. Il paradosso del governo «liberale» a parole, ma protezionista nei fatti, è stato approfondito dal decreto del ministro dell'Istruzione Profumo che ha anticipato le prove di Cultura generale sulla base dei programmi della scuola secondaria superiore prima dello svolgimento degli esami di maturità. Questo avverrà nell'anno accademico 2014-5, quando le prove di accesso all'università verranno anticipate ad aprile. Nel prossimo anno accademico si terranno il prossimo 23 luglio (medicina e odontoiatria), il 15 aprile per i corsi che si tengono in inglese. Questa decisione aveva provocato una selva di polemiche degli studenti contro Profumo. Il numero chiuso è stato introdotto nel 1999 dall'allora ministro di centrosinistra Zecchino e oggi regola l'accesso anche a veterinaria, le lauree triennali di area sanitaria, architettura e scienze della formazione primaria Ricorrono al numero chiuso, tra le altre, le università non statali come la Bocconi, la Cattolica, il Campus Biomedico dì Tor Vergata e la Luiss. Ro. CI. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 4 Apr. ’13 UNISS: MANCATA IMMATRICOLAZIONE: L'OCCUPAZIONE CONTINUA L'ira degli studenti esclusi Non hanno intenzione di mollare la presa i cinquantatré studenti che avevano sostenuto senza successo il test per accedere al corso a numero chiuso di Medicina e Odontoiatria. Due giorni fa una loro delegazione ha deciso di occupare la segreteria del dipartimento di Medicina dopo aver saputo che la loro richiesta di immatricolazione non era stata accolta. I ragazzi fanno leva sulla sentenza del Tar regionale del 15 marzo secondo cui potrebbero essere iscritti in soprannumero ma c'è da attendere perché l'ateneo sassarese ha deciso di ricorrere in secondo grado al Consiglio di Stato. Martedì sera gli studenti hanno incontrato il rettore dell'Università di Sassari Attilio Mastino che ha evidenziato la disponibilità dell'ateneo spiegando che questo è vincolato da norme di legge e alla decisione del Senato accademico e del Consiglio di amministrazione orientata verso il Consiglio di Stato. Il rettore aveva poi detto che se il Consiglio di Stato dovesse esprimersi a favore degli studenti si procederebbe all'immatricolazione. «Fermo restando il diritto dell'Università di fare tutto ciò che ritiene giusto, questi ragazzi hanno comunque una sentenza esecutiva del Tar e sarebbe una buona opportunità per l'ateneo immatricolarli», ha detto Agostino Sussarello, presidente dell'Ordine dei medici dopo l'incontro di ieri con alcuni degli studenti che nella stessa mattinata hanno incontrato anche il rettore. «È ancora una situazione di stallo, pare ci sia un'apertura ma speriamo si smuova qualcosa al più presto», ha detto Antonio Pala, portavoce degli studenti che ha ribadito la decisione di continuare l'occupazione. «Siamo coscienti che è diritto dell'Università di andare in appello ma noi abbiamo un diritto di essere immatricolati e se dovessimo perdere ci prendiamo le nostre responsabilità», è stato il commento di Marta Prestini, una degli studenti e già laureata. Michele Cocchiarella _______________________________________________________________ Italia Oggi 02 apr. ’13 LIBRI DIGITALI SÌ MA DAL 2016 Profumo firma il decreto. Gli editori: norma inapplicabile. I genitori: manca la formazione Due anni per l'avvio, tetti di spesa giù anche del 30% DI EMANEULA MICUCCI Libri digitali negli zaini degli studenti da settembre 2014. E ministro dell'istruzione Francesco Profumo firma, il 26 marzo, il decreto per il passaggio graduale agli ebook scolastici. Addio libri di testo solo cartacei? No, perché resta la possibilità di adottare i libri in formato misto. Ma, prima di avere gli ebook in tutte le classi italiane, bisognerà aspettare l'anno scolastico 2016/17. Contrari al decreto gli editori di scolastica dell'Aie (associazione editori italiani): «è dannoso e inapplicabile e non è il risultato di un nostro accordo con il Miur». Anzi, precisano, «il ministro stesso non ha affatto convinto gli editori della 'bontà' di quanto previsto in esso». E perplessità mostrano anche le associazioni dei genitori, nonostante la norma prometta riduzioni per l'acquisto dei libri dei figli, con tetti di spesa abbassati dal 20% al 30%, e la possibilità delle scuole di utilizzare i risparmi ottenuti per dotare gli studenti di tablet o pc. Introdotti dall'allora ministro Mariastella Gelmini (legge 133/2008), gli ebook sarebbero già dovuti entrare a scuola dal 2011-12, ma il governo Monti (legge 221/2012) li ha frenati, rinviandone l'introduzione di tre anni, al 2014-15. Ora la firma di Profumo al decreto realizza proprio questo passaggio verso gli ebook da settembre 2014, precisando che riguarderà solo la I e la W primaria, la I media, la I e le III superiore. Per un'introduzione completa in tutte le classi bisognerà aspettare settembre 2016. Nulla di nuovo per il prossimo anno scolastico, come già spiegato dal Miur (nota n. 378 gennaio 2013). Il decreto, poi, precisa che, se i prezzi di copertina dei libri definiti per il 2013/14 resteranno confermati anche per il 2014/15, si ridurranno i nuovi tetti di spesa per il collegio dei docenti nelle sole classi interessate alla norma: una riduzione di costi per le famiglie del 20%, che, se l'intera adozione libraria sarà composta solo da libri digitali arriverà fino al 30%. «I risparmi ottenuti — illustra Profumo - potranno essere utilizzati dalle scuole per dotare gli studenti dei supporti tecnologici necessari (tablet, pc/portatili) ad utilizzare al meglio i contenuti digitali per la didattica e l'apprendimento». Attacca l'Aie: «Le intenzioni del ministero sembrano frutto della sola determinazione di voler favorire l'acquisto di tablet e pc e non poggiavano su alcuna seria e documentata validazione di carattere pedagogico e culturale; così come non risulta siano state valutate le possibili ricadute sulla salute dei ragazzi esposti ad un uso massiccio di devices tecnologici». Per non parlare, aggiungono, dell'«insufficienza infrastrutturale delle scuole rappresentata, poche settimane fa, dall'indagine dell'OCSE voluta dallo stesso Miur. Simili le perplessità sollevate dall'AGe (associazione nazionale genitori): «Docenti e famiglie sono ancora impreparati — dichiara il presidente Davide Guarneri, «perciò sarebbe opportuno un investimento formativo ampio, purtroppo non previsto. Il digitale non può essere introdotto a costo zero».. Per i docenti il decreto prevede la possibilità di consultare i testi digitali su una piattaforma del Miur, dove potranno per i primi due anni (a.s. 2014/15 e 2015/16) scaricare ori line la demo illustrativa dei libri. Solo per la I e la III superiore il collegio decenti potrà confermare le adozioni dei testi già in uso. All'Indire, infine, il compito di monitorare e documentare le buone pratiche. _______________________________________________________________ Avvenire 06 apr. ’13 LA SCUOLA DIGITALE? NOI LA VOGLIAMO COSÌ ISTRUZIONE E TECNOLOGIA Studenti protagonisti della "Tablet school' DAL NOSTRO INVIATO A BERGAMO PAOLO FERRARIO Lezioni costruite insieme agli insegnanti, didattica circolare, condivisione su Internet: è questa la strada Hanno quattordici, quindici e sedici anni i protagonisti della rivoluzione copernicana digitale che, dal basso, sta traghettando il sistema d'istruzione italiano dalla scuola dell'insegnamento alla scuola dell'apprendimento. Per un giorno, ieri mattina al Centro congressi "Papa Giovanni XXIII" di Bergamo, in cattedra ci sono saliti loro, gli studenti, per parlare di come sta cambiando il modo di stare in classe grazie all'introduzione della didattica digitale, che fa largo uso di tablet, Lim (lavagna interattiva multimediale) e libri elettronici. Ai ragazzi, il Centro studi Impara digitale, che ha promosso il primo convegno nazionale "Tablet school", ha chiesto di indicare pregi e difetti della didattica digitale, che, dal 2014, dovrà entrare in tutte le scuole del Paese, come stabilito da un recente decreto del ministro Profumo. E a quel punto saranno molto utili le esperienze di chi, in questi anni, sta già sperimentando questa nuova modalità "partecipata" di fare scuola. Nella classe 2.0 la lezione si costruisce insieme, docenti e studenti, condividendo in rete informazioni e contenuti. «Nella nostra classe - ha raccontato Edoardo Amoroso, IV Ginnasio, Liceo paritario "Leone XIII" di Milano - stiamo sperimentando la didattica circolare: facciamo lezione con il tablet seduti intorno a un tavolo ovale, una situazione che favorisce il confronto spontaneo con gli insegnanti e tra noi studenti». Nella scuola digitale si impara anche dai compagni, come ha spiegato Davide Dotti, III Liceo "Galilei" di Caravaggio (Bergamo), dove i ragazzi condividono in rete appunti e ricerche. «Ci aiuta a sviluppare il senso critico e a scegliere soltanto le informazioni utili al nostro lavoro», ha proseguito, sottolineando che «il linguaggio multimediale stimola gli studenti ad impegnarsi anche nelle materie ritenute più ostiche, come la matematica». Alle preoccupazioni di insegnanti e genitori, che temono che i ragazzi utilizzino il tablet per stare su Face- book più che per studiare, ha risposto Davide Alberotti, della seconda classe del Liceo "Lussana" di Bergamo, dove la didattica digitale è realtà da ormai tre anni. «Stare attenti è nel nostro interesse - ha ricordato -. Stiamo imparando anche ad essere più responsabili». Responsabilità, capacità di confronto con gli altri e di lavorare in team. Tutte qualità, è stato a più riprese sottolineato durante il convegno, indispensabili per un inserimento positivo nel mondo del lavoro al termine del percorso scolastico. «Ci divertiamo ad imparare e così impariamo meglio», ha chiosato Alberto Turini, III Liceo "Galilei" diVoghera (Pavia), mentre Alberto Lucchini, terza classe dell'Istituto tecnico "Valle Seriana" di Gazzanica (Bergamo), ha posto l'accento sulle infrastrutture necessarie per un utilizzo efficace delle nuove tecnologie. «La nostra scuola ha una rete di fibra ottica che consente 1.200 accessi contemporanei a Internet», ha ricordato. Un "privilegio" che non tutti gli istituti hanno. Anzi, proprio dai ragazzi sono arrivate le critiche più feroci alla «lentezza» della rete italiana. «La speranza - è l'auspicio di Stefano Quintarelli, past president di Impara digitale - è che gli operatori delle telecomunicazioni capiscano che la scuola è un loro cliente privilegiato. Sembra incredibile, ma oggi non è così». Un sollecito a cambiare, «adeguandosi ai tempi», è arrivato, dai ragazzi, anche alle case editrici, che invece, con l'Associazione degli editori (Aie) si sono dichiarate contrarie all'iniziativa del ministro Profumo per rendere obbligatori, dal prossimo anno, i libri digitali, o almeno in forma mista digitale e cartacea, per le «gravi conseguenze che si ripercuoteranno sull'intera filiera». Preoccupazioni fatte proprie anche dagli studenti, che hanno posto l'accento sulla necessità di riassorbire i lavoratori in esub ero che producono i «libri di carta». Che però, ha rassicurato tutti l'ex-ministro dell'Istruzione, Luigi Berlinguer, «non sono destinati a scomparire». A sparire, come chiedono gli studenti, dovrà essere invece il vecchio modo di fare scuola. «Nonostante ci siano ancora tante resistenze al cambiamento - ha concluso Berlinguer - è arrivato il tempo di una scuola che torni ad appassionare i ragazzi. Perché anche la fatica di imparare può essere fatta con gioia». _______________________________________________________________ Il Secolo XIX 6 apr. ’13 HARVARD, IL ROBOT SFRATTA I PROF FRANCESCO MARGIOCCO Le montagne di compiti da correggere, incubo di tanti insegnanti, erano l'ossessione di Ellis Batten Page, veterano dei marine diventato professore. Negli anni Sessanta Page ha sviluppato e brevettato il primo correttore automatico capace di correggere i temi dei suoi studenti e dargli un voto. Oggi quel software, opportunamente aggiornato, sbarca su internet. A disposizione di chiunque con un semplice clic. La notizia, anticipata giovedì dal New York Times, è che Edx, azienda senza fini di lucro fondata da un gruppo di ricercatori di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology, ha sviluppato un sistema che usa l'intelligenza artificiale per valutare qualsiasi forma di testo scritto. Risposte brevi, saggi, romanzi, poesie. Un sistema capace di ridurre la Divina Commedia a una sequenza di algoritmi. La reazione dei letterati è stata fin troppo prevedibile. Una petizione online, "Professionals Against Machine Scoring of Student Essays", professionisti contro il punteggio automatico dei temi, ha in pochi giorni raccolto 2.700 firme, tra cui quella del celebre linguista Noam Chomsky. SEGUE » _______________________________________________________________ Il Secolo XIX 6 apr. ’13 HARVARD E MIT I COMPITI LI CORREGGE IL PROFESSORE ROBOT MA LA COMUNITÀ ACCADEMICA INSORGE GRATIS SU INTERNET IL SOFTWARE CHE ROMETTE DI VALUTARE 16 mila temi in 20 SECONDI «Guardiamo in faccia la realtà. I computer non sanno leggere - recita il manifesto dei 2.700 intellettuali -. Non possono misurare le caratteristiche essenziali di una efficace comunicazione scritta: accuratezza, chiarezza, logica, buon senso, adeguatezza delle prove, aderenza alla verità». Il software della Edx, in effetti, non sa leggere ma attraverso complicate formule matematiche analizza le successioni di parole. Non è il primo del suo genere. Il suo più illustre predecessore è l'e-Rater, il lettore automatico - creato da un'altra azienda americana senza fini di lucro, Ets - e che vantava prestazioni mirabolanti come correggere 16mila testi in 20 secondi. Finché un pignolo professore non l'ha messo a nudo, umiliandolo. Les Perelman, docente al Mit, ha scandagliato gli algoritmi di e-Rater e concluso che il loro principale problema è l'incapacità di distinguere il vero dal falso. «Per l'e-Rater non importa se scrivi che la guerra del 1812 è cominciata nel1945», spiegava Perelman in un'intervista di un anno fa al New York Times. L'importante è scriverlo bene. Il lettore automatico non sa leggere, dunque, ma sa contare e usa la matematica per misurare frasi e paragrafi. Una frase con tante parole è migliore di una con poche. Un paragrafo lungo è preferibile a uno breve. A e-Rater, spiega Perelman, non piacciono le frasi che cominciano con "E" o con "0", né quelle senza verbo. Dati in pasto al lettore automatico i versi di Salvatore Quasimodo, Ed è morte/uno spazio nel cuore, o di Giuseppe Ungaretti, Su un oceano/di scampanellii/repentina galleggia/un'altra mattina, diventerebbero carne da macello. Al lettore automatico piacciono, invece, le congiunzioni come "benché", "sebbene", "comunque" e le parole difficili, ritenute un indice di complessità, e quindi di qualità, lessicale. "Un errore madornale" è meglio di "un brutto errore". Perelman ha scritto un saggio di oltre settecento parole, infarcito di frasi senza senso e ne ha scritto un altro molto più breve e molto più logico. Poi ha sottoposto entrambi al giudizio di e-Rater. Il primo è stato promosso, con punteggio 6, il secondo è stato bocciato con un 5. Ma il progresso non arretra di fronte a queste critiche. Mark Shermis, professore all'Università di Akron, nell'Ohio, ha magnificato le virtù della correzione automatica. Davanti a un uditorio di esperti, riuniti a Vancouver, Canada, per l'annuale meeting nazionale sugli "strumenti di misurazione nell'educazione", il professore ha illustrato i risultati della correzione automatica di 17.500 temi che erano già stati corretti dagli umani. E ha concluso che il "professore elettronico" è molto più bravo. Diverse aziende statunitensi offrono oggi prodotti simili a, anche se forse meno sofisticati di, quello annunciato dalla Edx e quattro Stati, Lousiana, North Dakota, West Virginia e Utah, li stanno usando nelle loro scuole. La Hewlett Foundation, creata da uno dei due fondatori della Hewlett-Packard, William Redington Hewlett, e da sua moglie, e impegnata nel promuovere l'istruzione, ha messo a disposizione due premi da 100mila dollari l'uno per migliorare la qualità dei correttori automatici attualmente sul mercato. Il vincitore di uno dei due premi, Vik Paruchuri, è stato assunto dalla Edx. E in questi giorni sta mettendo a punto il nuovo software. FRANCESCO MARGIOCCO L'ESPERIMENTO Un saggio con frasi senza senso ma con parole difficili e periodi Lunghi ha preso la sufficienza _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 Apr. ’13 POPULISTI PER PAURA DEL NUOVO di SERGIO ROMANO Denunciano le trame occulte di ricchi e potenti ma il loro autentico nemico resta la modernità U no studioso del fenomeno (Ludovico Incisa di Camerana nel Dizionario di politica a cura di Bobbio, Matteucci e Pasquino) sostiene che il populismo è soprattutto una «sindrome», vale a dire uno stato d'animo caratterizzato da sintomi, percezioni, emozioni. Non esiste una ideologia del populismo, non esiste un «manifesto dei populisti», non esistono programmi organici per un futuro populista. La sindrome è fondata su due convinzioni: che il popolo sia depositario della verità e che sia, al tempo stesso, vittima di raggiri, inganni, persecuzioni. Sempre secondo Incisa, il populismo è una religione neopagana in cui il Popolo è Dio e adora se stesso. Ma accanto al popolo-Dio vi è Satana che cerca di sfruttarne le virtù e di usarle per i suoi fini. Nella sacre rappresentazioni populiste Satana veste abiti diversi. Può essere, a seconda delle circostanze, lo Stato dei padroni e dei politicanti, la grande finanza, il complesso militare- industriale, i «savi di Sion», la massoneria, i «poteri forti». Generalmente il populismo sonnecchia docilmente, salvo risvegliarsi per brevi periodi nelle chiacchiere delle osterie, dei bar e degli stadi. Ma risale impetuosamente alla superficie e assume maggiori proporzioni quando Satana, con gli abiti della modernità, irrompe nella vita sociale, ne modifica gli equilibri, mette in pericolo la condizione economica di alcuni ceti. Quasi tutti i fenomeni populisti dell'Ottocento e della prima metà del Novecento sono collegati all'industrializzazione e alle sue conseguenze. Vi fu un populismo americano dopo la guerra di Secessione, quando la costruzione delle ferrovie ruppe le enclave rurali e cambiò il volto del Paese. Vi fu un populismo russo (i narodniki, gli slavofili), quando l'impero zarista attraversò, qualche anno dopo, una fase di promettente crescita economica. Vi furono nuovi fenomeni populisti negli Stati Uniti (il nativismo) quando l'impetuoso sviluppo dell'industria americana richiamò masse d'immigrati provenienti soprattutto dalla Cina, dal Giappone, dall'Europa meridionale e orientale. Il «popolo» si sentì minacciato e attribuì subito la responsabilità delle proprie sventure a un nemico: i baroni americani con i denti d'acciaio, i banchieri e gli ebrei arrivati dall'impero zarista dove i pogrom di Kišinëv, Odessa, Kiev e Bialystock furono fenomeni populisti, anche se spesso orchestrati e manipolati dalla polizia e dai servizi segreti. Negli anni seguenti furono in parte populisti, negli Stati Uniti, anche il movimento «America First», contro l'ingresso del Paese in guerra nel 1917, e la «Red Scare», la paura dei rossi, che esplose contro comunisti e anarchici dopo la fine della Grande guerra. In Europa, negli anni Venti e Trenta, il populismo venne catturato e addomesticato dai partiti e dai movimenti autoritari. Il caso del fascismo è particolarmente interessante. Mentre il dannunzianesimo ha una forte componente estetizzante e la Carta del Carnaro (la costituzione scritta da Alceste De Ambris nel 1920 per la Libera Città di Fiume) è un raffinato testo politico, Mussolini non esita a raccogliere e sfruttare tutti gli umori populisti che circolano nel Paese alla vigilia della Grande guerra e dopo la fine del conflitto. Vi è un ammiccamento populista nella testata del suo giornale («Il Popolo d'Italia») e i suoi primi messaggi politici, agli inizi del 1919, non sono indirizzati a una classe sociale, ma al «popolo delle trincee». Vi è molto populismo, durante il regime, nell'esaltazione della vita rurale, nella battaglia del grano, nei raduni «oceanici» di piazza Venezia, nei dialoghi con la folla, nella denuncia della plutocrazia «giudaica», nelle grandi iniziative popolari come quella di Italo Balbo per il trasferimento di trentamila coloni italiani in Libia. Ma il fascismo fu un movimento gerarchico, poté contare su una nutrita pattuglia di intellettuali, volle creare lo «Stato nuovo» e realizzò alcune delle sue istituzioni. A differenza del populismo, il fascismo sapeva che il popolo non è un insieme indistinto. È composto da classi sociali, distinte per mestiere e livello di vita, che il leader vuole costringere a collaborare nell'ambito di un sistema corporativo dove tutti, imprenditori e operai, saranno «produttori». Il nazionalsocialismo esaltava la forza del popolo (Volk) e aveva un giornale ufficiale, diretto da Alfred Rosenberg, che si chiamava «Osservatore del Popolo» («Völkischer Beobachter»). Ma il popolo del Führer era una razza armata, pronta a distruggere o asservire i popoli minori, a combattere e a morire per un Reich millenario. Il comunismo, non appena Lenin conquistò il potere, liquidò con la violenza tutti i suoi concorrenti prerivoluzionari, dagli Sr (i Socialisti rivoluzionari) ai menscevichi e agli anarchici. Stalin sapeva che il popolo dei movimenti populisti russi era quello delle campagne e trattò i contadini, quindi, alla stregua di nemici dell'unico popolo riconosciuto dal regime: la classe operaia. Quelli che sopravvissero alle carestie e alle deportazioni divennero impiegati dei kolkhoz. Avevano un retroterra populista anche i regimi di Antonescu in Romania, di Perón in Argentina e di altri caudillos latino- americani sino a Hugo Chávez. Non fu populista invece il franchismo spagnolo, nel quale alcuni alleati del regime (la Chiesa, le forze armate, l'aristocrazia) appartenevano ancora all'Ancien Régime. E non fu populista, per ragioni in parte simili, nemmeno il regime del maresciallo Pétain, creato nella Francia di Vichy dopo la sconfitta del 1940. Come i populismi dell'Ottocento e della prima metà del Novecento, anche quelli apparsi tra la fine del secondo millennio e l'inizio del terzo sono il risultato di un grande processo modernizzatore. La globalizzazione abbatte le frontiere, favorisce la libera circolazione delle merci, del denaro, della forza-lavoro, e mette a dura prova le vecchie economie nazionali. La rivoluzione informatica cambia il modo di lavorare, distrugge vecchi mestieri e ne crea di nuovi, accelera prodigiosamente la diffusione delle idee, dei miti, delle proteste populiste. La rivoluzione sessuale e le applicazioni della biotecnologia cambiano i tradizionali rapporti fra i sessi e rendono possibili nuovi modi di nascere, procreare, morire. Ciascuna di queste innovazioni può essere percepita, a seconda della circostanze, come straordinaria occasione o grande minaccia. Questa triplice rivoluzione — globalizzazione, informatica, bioetica — colpisce società in cui vi è stata, nei decenni precedenti, una forte promozione sociale. Alle occupazioni più umili, ma pur sempre necessarie, provvedono quindi legioni di nuovi arrivati usciti dai barrios e dalle favelas dell'America Latina, dalle periferie delle città nordafricane, dalle campagne dell'Africa nera, dalle megalopoli asiatiche. Nel giro di due decenni le democrazie industriali dell'Occidente accolgono e assorbono, alla meglio, parecchi milioni di immigrati (nell'Unione Europea più di 33 al 1° gennaio 2011), molto spesso musulmani nel caso dell'Europa, latino-americani in quello degli Stati Uniti. I nuovi arrivati sono spesso visti e rappresentati come un corpo estraneo, una minaccia all'identità e alla tradizione dei «nativi». Per meglio fare fronte alla concorrenza dei nuovi capitalismi, l'Unione Europea ha realizzato due grandi riforme: il mercato unico e la moneta comune. Ma questa strategia della modernità ha avuto l'effetto di raffigurarla, agli occhi di molti europei, come la sorella gemella della globalizzazione. Le prime rivolte «no global» coincidono spesso con i vertici della World Trade Organization (l'Organizzazione per il commercio mondiale), costituita per diventare, nelle intenzioni dei fondatori, l'Onu dell'economia di mercato. Sono manifestazioni metanazionali ispirate da una ideologia ambientalista. Ma in una fase immediatamente successiva cominciano ad apparire o a risorgere, in quasi tutti i Paesi dell'Ue, partiti che si proclamano «difensori del popolo» contro le minacce dell'economia globale e la tecnocrazia di Bruxelles. Oggi il populismo euroscettico può contare su una galassia di forze politiche che rappresentano insieme più di un quinto dell'opinione pubblica dell'Ue: il Partito austriaco della libertà, diretto a suo tempo da Jörg Haider; il Partito popolare danese fondato nel 1995 da Pia Kiærsgaard: il Partito dei veri finlandesi di Timo Soini; il Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia; Alternative für Deutschland in Germania; il Partito della libertà di Geert Wilders nei Paesi Bassi, il partito Diritto e giustizia dei gemelli Jaroslaw e Lech Kaczynski in Polonia (Lech fu presidente della Repubblica e morì in un incidente aereo nell'aprile del 2010); il Partito per l'indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage; i Democratici svedesi di Jimmie Åkesson, il partito Jobbik di Gergely Pongrátz in Ungheria e per certi versi anche Fidesz di Viktor Orbán nello stesso Paese. Alcuni appoggiano il governo e influiscono sulla sua politica, altri sono all'opposizione e non tutti, comunque, sono egualmente populisti o razzisti. Ma tutti pescano i loro voti fra coloro per cui la globalizzazione e l'integrazione europea sono i nuovi «nemici del popolo». Esiste poi un altro fenomeno che soffia sul fuoco del populismo. La Rete, vale a dire il maggior simbolo della modernità, è ormai il veicolo che più contribuisce a diffondere le paure del «popolo buono» e le sue fantasticherie sulle bugie e i raggiri dei suoi diabolici nemici. Grazie alla Rete sappiamo che l'attacco alle Torri Gemelle è un'operazione montata dalla Cia e che il Pentagono non è mai stato distrutto. Grazie ai blog e alle reti sappiamo che gli incontri annuali di Bilderberg, (un'associazione fondata dal principe Bernardo d'Olanda nel 1954) e quelli della Trilaterale (il club euro-americano-giapponese creato da Giovanni Agnelli, Henry Kissinger e David Rockfeller 40 anni fa) sono le occasioni che permettono ai potenti della Terra di tessere le loro trame e meglio dominare il mondo degli umili, dei perseguitati, dei servi della gleba. Mancano le prove e i documenti, ma la loro assenza, per il populismo della Rete, è la migliore conferma dell'esistenza del Male. Quanto più è difficile trovare le prove di un complotto, tanto più i congiurati dimostrano, agli occhi di una opinione pubblica populista, la loro diabolica abilità. Esiste anche un populismo degli intellettuali, molto più raffinato e seducente. Ve ne sono tracce (cito a caso) in alcuni testi di Giuseppe Mazzini, nelle poesie di Walt Whitman, negli scritti di Ezra Pound sull'usura, nei romanzi di Knut Hamsun, nell'abbondante letteratura sull'«identità» e le «radici», molto alla moda negli ultimi decenni. E vi è un populismo colto, infine, anche in certi inviti all'indignazione che hanno ultimamente riempito la Puerta del Sol a Madrid, Wall Street a New York e il sagrato della cattedrale di San Paolo a Londra. Di fronte a queste ondate di rabbia popolare gli Stati democratici sembrano a tutta prima sconcertati e impotenti. Ma negli ultimi anni sono spesso riusciti ad assorbire i contestatori, a «imborghesirli», a inserirli nel sistema. Come usa dire all'inizio di certi film, ogni riferimento al Movimento 5 Stelle, in questo articolo, è puramente casuale. _____________________________________________________ Corriere della Sera 3 Apr. ’13 L'ALGORITMO HA CAMBIATO IL NOSTRO MODO DI PENSARE Diritti e dati sensibili, i mille fronti Ma le cause non fermano il gigante È ormai noto da anni che «googlare» — versione italiana di «to google», eletto neologismo del decennio dall'American dialect society, una sorta di crusca d'Oltreoceano — è un verbo. Nulla di preoccupante: la lingua è da sempre un materiale permeabile e sarebbe dura argomentare che il famoso algoritmo non ha modificato le nostre esistenze. Ma per capire lo spirito dei tempi è più interessante un aneddoto di pochi giorni fa: «Ogooglebar» era uno dei neologismi papabili per la lingua svedese. In italiano sarebbe «nongooglabile». A memoria di filologo solo la «nonviolenza» — parola scritta tutta attaccata — aveva assunto nobiltà di concetto a sé stante e non solo come negazione dell'opposto. Alla fine il termine non è stato selezionato a causa di una protesta diplomatica giunta dalla stessa Google: nella definizione («Qualcosa che non è possibile trovare su Internet con un motore di ricerca») non si citava espressamente la società.Ogooglebar continuerà probabilmente ad essere usato dai ragazzi svedesi anche se per ora non avrà il suo lemma nei dizionari scandinavi. Ma, dilemmi da Crusca a parte, ciò che colpisce è che nell'ottica di chi gestisce la società il mondo si divida in due: cosa c'è dentro Google e cosa resta fuori. Google contro Nongoogle. È quello che è già successo in Francia dove la società ha dovuto trovare un accordo con gli editori, mentre in Germania il braccio di ferro continua. Un copione che sembra ora doversi ripetere con il nuovo fronte composto da sei Paesi sul tema della privacy. Il colosso controlla di fatto tutto ciò che è tramutabile in simboli e dunque digeribile da un server. Oggi come oggi quasi tutto tranne le professioni artigiane. La società digerisce libri, news, giornali, musica, giochi, passatempi, applicazioni ma anche cose più intangibili e più importanti come la privacy. Non produce il sapere ma lo controlla: ne decide la gerarchia nell'era della confusione multimediale. Decide con il suo algoritmo cosa è degno di essere riportato in soli 18 centesimi di secondo e cosa no. E, anche se è innegabile la presenza scenica nelle nostre vite di altre società come Apple, la caratteristica di Google è la pervasività. La società fin dagli inizi ha scelto di essere ovunque, multipiattaforma, multidevice. E la ragione è presto detta: il suo core business, cioè il cuore del proprio fatturato, è la pubblicità online. Tutto è regalato ma in realtà tutto è pagato da uno spot universale del quale siamo in parte attori inconsapevoli. Google sembra il «Blob», il fluido del film horror del 1958 diretto da Irvin Yeaworth. Ma decidere scientemente di restarne fuori è una partita persa: mentre stavo scrivendo non ricordavo l'anno e il regista di Blob. E, chiaramente, ho «googlato» traendone una soddisfazione quasi intellettuale, come se il motore di ricerca fosse il naturale complemento per potenziare la mia mente e la mia memoria. Provate ad immaginare un thriller in cui le forze del male dovessero spegnere i server di Mountain View. Google è un po' la nuova rete elettrica. Per degli europei che si cullano ancora nell'Umanesimo e nel Rinascimento è difficile comprendere quale sia la molla che muove i due fondatori, Larry Page e Sergey Brin, ormai padri di un'intera generazione «G» ben più trasversale di qualunque «X», «Y» o «Z». La chiave sta nelle risorse infinite: sono le regole a seguire l'innovazione, non il contrario. Basterebbe andare a guardare il progetto (sempre Google) di un'automobile che si guida da sola che la California sta già sperimentando. È un po' come se la società avesse già immaginato un futuro e a noi non restasse che cercare di prenderne atto. Siamo dunque sconfitti? Forse no perché spesso commettiamo l'errore di guardare a questi fenomeni come individui. Authority, governi, alleanze tra Paesi. È questa la dimensione giusta del confronto ed è giustificata perché le mosse di un impero così vasto non sono a somma zero. Va dato atto alla società di aver generalmente migliorato gli ambienti con i propri ecosistemi. Don't Be Evil è il motto che anima da sempre le sue scelte. Eppure il mondo è banalmente un trade off tra bene e male: il genoma umano in Rete sarebbe un potente strumento per la ricerca scientifica. Ma ci renderebbe più fragili. Una guerra sconfiggerebbe tutti. Meglio lasciar lavorare le nuove «diplomazie». Massimo Sideri @massimosideri ========================================================= _______________________________________________________________ Avvenire 03 apr. ’13 RICERCA DELLA CATTOLICA: NEGLI OSPEDALI COSTI DIVERSI PER LE STESSE PRESTAZIONI ROMA. Gli ospedali spendono cifre molto diverse per offrire la stessa prestazione, alcuni arrivano a spendere il triplo di altri per curare lo stesso paziente: significa che alcune strutture sono più efficienti, laddove in altre si concentrano più sprechi. Lo rivela lo studio realizzato dai ricercatori dell'Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi sanitari (Altems) dell'Università Cattolica e coordinato da Americo Cicchetti. Gli ospedali messi a confronto per efficienza- produttività, personale, struttura e attività, sono Policlinico Gemelli, Sant'Andrea, San Filippo Neri, Policlinico Tor Vergata, San Giovanni, San Camillo (tutti a Roma), Molinette di Torino, Policlinico Sant'Orsola di Bologna e Careggi di Firenze. Se gli ospedali hanno performance tanto diverse tra loro, è chiaro che togliergli risorse senza fare distinguo (come nei tagli lineari previsti dalla spending review) significa penalizzare gli ospedali più produttivi e gestiti meglio. L'istantanea scattata dallo studio mostra, ad esempio, che il Gemelli è l'ospedale con un costo per dimesso più basso nel campione (6.118 euro/paziente). Il costo massimo si riscontra, invece, per le Molinette (11.821 euro/pz). Il costo per dimesso del Policlinico Umberto I (8.134) è praticamente analogo a quello di Careggi (8.433) e del Sant'Orsola (7.309) e vicino a quello del San Giovanni (7.994). Meno virtuosi, da questo punto di vista, appaiono San Camillo (10.486) e Sant'Andrea (9.813). _______________________________________________________________ Avvenire 03 apr. ’13 L'ESPERTO: «SERVE PIÙ TRASPARENZA» Eugeni (Cattolica): l'azienda non ha chiesto il consenso per unificare le banche dati DA MILANO Dici Google e pensi al motore di ricerca e alle mappe. Ma il colosso informatico gestisce anche blog e microblog, posta elettronica, cataloghi di libri. «Quando, nel marzo del 2012, Google ha compiuto una operazione di centralizzazione dei dati raccolti dai suoi sessanta servizi, i garanti europei della privacy si sono allarmati», spiega il professor Ruggero Eugeni, direttore dell'Alta scuola in media, comunicazione e spettacolo dell'Università Cattolica. Perché si dovrebbero spaventare anche i cittadini? Viene gestita una enorme massa di dati. E, negli stessi algoritmi di Google sono inserite variabili personalizzate. Se mi trovo a Roma e cerco "ristorante", è facile che mi vengano suggeriti locali della Capitale. Può essere utile, ma anche inquietante: significa che ogni azione che compiamo sul web lascia tracce. Cosa si può chiedere a Google? Quello che hanno chiesto anche i Paesi europei: di essere più trasparente. Google non si è mai preoccupata di ottenere il consenso degli utenti riguardo l'unificazione della gestione dei dati. E alle tante rassicurazioni fornite ai governi europei non sono seguiti i fatti. Può la minaccia di una multa intimorire un colosso come Google? Forse no. Ma si può chiedere un cambio di privacy policy. E l'intervento di più Paesi europei rappresenta una novità. Ci si è resi conto che, su fenomeni di portata globale, non ci si può limitare a singoli interventi Stato per Stato. Lorenzo Galliani _____________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Apr. ’13 LOTTA AGLI ILLECITI SANITARI INDEBITI Controllati anche i medici in regime intramoenia e chi percepisce assegni sociali o prestazioni agevolate Nella direttiva è previsto il potenziamento del contrasto agli illeciti in danno alla spesa pubblica, partendo dal settore della sanità. Sono disposti controlli specifici per le imprese sanitarie. In particolare, attraverso il riscontro delle scritture contabili si punta a scoprire eventuali illeciti volti non solo alla riduzione delle imposte dovute, ma anche al conseguimento di indebiti rimborsi pubblici, mediante la sovrafatturazione. Così, nel corso del 2013, parte delle verifiche sarà svolta nei confronti di imprese – quali ad esempio cliniche e case di cura operanti nei settori della sanità e dell'assistenza sociale – che operano spesso in regime di convenzione con il servizio sanitario nazionale. Accade infatti che tali imprese, aumentando fraudolentemente le fatture emesse, possano conseguire maggiori rimborsi da parte dello Stato, a fronte di prestazioni, in realtà mai eseguite. Anche i professionisti in regime "intramoenia" saranno controllati. È stato infatti previsto un programma per individuare dirigenti medici e veterinari del servizio sanitario nazionale che svolgono prestazioni professionali autonome, in violazione del rapporto di esclusività con le strutture pubbliche da cui dipendono. Sempre per tutelare la spesa pubblica, sono stati programmati anche piani di controllo finalizzati a scoprire indebite percezioni di assegni sociali (ad esempio pensioni di defunti, assegni in favore di soggetti non residenti, falsi braccianti agricoli) o indebite richieste di prestazioni sociali agevolate. Va sottolineato che, nelle disposizioni impartite, primaria caratteristica di ogni tipologia di controllo è la qualità dello stesso, abbandonando il "budget" numerico finora sempre previsto, per garantire l'efficacia dell'azione. La tutela della spesa pubblica è sicuramente vista quale obiettivo prioritario individuato a livello politico per fronteggiare la difficile situazione del Paese. In più parti, nella direttiva, è precisato che l'ottimizzazione delle risorse attualmente disponibili permetterà che ne possano essere destinate una maggior quantitativo proprio al contrasto dei fenomeni illeciti di massa nel settore della spesa pubblica. La.A. _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 Apr. ’13 SANITÀ, 5 MILIARDI SUBITO ENTRO MAGGIO LE REGOLE PER SALDARE I CONTI Lo Stato può anticipare liquidità alle Regioni nei limiti di 14 miliardi per debiti sanitari: cinque nel 2013 e nove nel 2014. Il riparto sarà definito entro il 15 maggio prossimo. E' prevista una procedura per garantire allo Stato di rientrare sulle somme prestate alle Regioni tramite l'apposito Fondo. Le Regioni dovranno prevedere misure idonee a garantire il rimborso e sottoscrivere un contratto con il Mef in cui s'impegnano a rimborsare tutto entro massimo 30 anni. L'accensione di nuovi mutui sarà possibile se le Regioni saranno risultate in regola con il patto di Stabilità dell'anno precedente. LA SPENDING REVIEW SUI RISARCIMENTI N ella distrazione generale, in questa specie di sospensione che sta vivendo l'Italia, come se la passa la Sanità? Male ovviamente, a giudicare dai lamenti che si alzano ovunque, dalle Regioni, dalle Asl, dai singoli ospedali, per i tagli da spending review (6,8 miliardi entro il 2015, 7 mila posti letto in meno) che via via fanno sentire i loro effetti. A parte le situazioni locali, già si verificano emergenze a livello nazionale. Gli psicologi sono in agitazione, perché i loro servizi nelle strutture pubbliche sono i primi a essere tagliati. Si rimanda la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, che tutti definiscono una vergogna indegna di un Paese civile, perché le regioni non sono in grado di approntare le strutture alternative previste. Dieci regioni su venti (segnala la Società italiana di medicina delle migrazioni) non garantiscono, come sarebbe obbligatorio, la pediatria di base per gli immigrati. L'impressione è quella di un arretramento generale del Servizio sanitario. Si scopre anche che, applicando i nuovi criteri di calcolo adottati, i risarcimenti per le vittime dei casi di malaSanitàdiminuiranno del 60%. La salute del cittadino, insomma, varrà molto meno. Il che ci sembra, nel quadro generale, quantomeno logico: è inutile risparmiare prima per poi pagare dopo le conseguenze di quei risparmi. _____________________________________________________ Corriere della Sera 2 Apr. ’13 INDIA, SÌ AI FARMACI SENZA BREVETTO La Novartis perde la causa sull'anticancro. Via libera al low cost ROMA — Una vittoria per i malati che non sono in grado di pagare decine di migliaia di dollari per curarsi. Una sconfitta per l'industria e per la ricerca innovativa. È la doppia lettura di una sentenza storica, capace di tracciare in modo definitivo una strada destinata ad essere percorsa da altri Paesi del Terzo Mondo. La Corte suprema indiana ha respinto il ricorso della multinazionale svizzera Novartis per difendere il brevetto dell'antitumorale Glivec, nome chimico imatinib, uno dei farmaci più straordinari degli ultimi decenni, che ha cambiato l'evoluzione della temibilissima leucemia mieloide cronica attraverso un meccanismo d'azione rivoluzionario. La patente non va tutelata, l'azienda non ha diritto all'esclusiva, hanno concluso i giudici. Questo significa che le imprese locali possono produrre lo stesso principio attivo sotto forma di generico low cost. Al primo posto viene «il diritto alla salute della popolazione». Grazie alla sentenza anche i cittadini indiani meno abbienti (non certo i poveri e le famiglie con redditi miseri) avranno accesso ad una terapia che col marchio originale costa 2.500 euro al mese contro i 170-200 della sua copia. Si conclude una battaglia legale avviata nel 2006 quando Novartis chiese la registrazione di Glivec (Gleevec per quel mercato) al governo di New Delhi. L'ufficio regolatorio negò l'autorizzazione sostenendo che si trattava della replica di una molecola già esistente, argomento non rispondente al vero secondo i legali svizzeri. La sentenza di ieri ha tutte le caratteristiche per costituire un punto di forza per il mercato interno, all'avanguardia nel settore dei generici cioè di molecole copiate sulla base di formule messe a punto dalla ricerca delle grande industrie titolari. In India non esistono leggi per la protezione delle invenzioni. Già altre multinazionali erano scivolate sulla stessa buccia di banana. Lo scorso anno la Corte di appello ha revocato il brevetto di un prodotto anti epatite C della svizzera Roche accogliendo il ricorso della fondazione per la salute pubblica Sankalp Rehabilitation Trust. La stessa Roche pochi mesi prima aveva perso una battaglia per la protezione del patentino dell'antitumorale Tarceva. Ed ecco Bayer che ha cercato di difendere l'esclusiva su una terapia per il tumore al fegato. Tutte queste molecole verranno prodotte a costi molto più bassi dall'industria locale del generico, la più sviluppata al mondo anche per quanto riguarda la tecnologia e molto meno cara rispetto all'Europa, visto il costo della manodopera. Non è un caso che molti Paesi occidentali commissionino alle imprese indiane per la produzione di materie prime. Grida vittoria l'associazione Medici senza frontiere: «Non significa la fine del riconoscimento dei brevetti. Però è la fine degli abusi». Commenta la portavoce Leena Menghaney: «Non sarà più possibile ottenere l'esclusiva per molecole doppione. I prezzi scenderanno, più compagnie potranno produrre generici e mettere a disposizione di malati poveri terapie salvavita. I prezzi delle medicine contro l'Aids con questo meccanismo sono scesi anche del 95%». In Novartis la decisione è stata accolta malissimo: «Riflette i limiti del sistema di protezione della proprietà intellettuale e scoraggia il futuro dell'innovazione in India», affermano dalla sede italiana. E precisano che «non è mai stato riconosciuto un brevetto del Glivec in India, la seconda richiesta di autorizzazione è legata a un fatto tecnico. È un farmaco salvavita per determinate forme tumorali, tutelato in circa 40 Paesi tra cui Cina, Russia e Taiwan». Ranjit Shalani, amministratore delegato di Novartis India guarda il futuro con pessimismo: «Non ci saranno nuove medicine e senza nuove medicine non ci saranno più generici. La prima sconfitta è per i pazienti che soffrono di grandi mali e non potranno contare su trattamenti nuovi». La multinazionale ricorda inoltre che attraverso gli ampi programmi di donazione fornisce gratuitamente il 95% di Glivec prescritto ai malati indiani, circa 16 mila persone. Il restante 5% viene rimborsato perché coperto da un'assicurazione. Margherita De Bac mdebac@corriere.it _____________________________________________________ Corriere della Sera 2 Apr. ’13 SERVE INCENTIVARE I GENERICI PER FARE RICERCA SU NUOVI FARMACI diGIUSEPPE REMUZZI D ue numeri soltanto, 2.600 contro 175, si tratta di dollari e questi numeri corrispondono a un mese di trattamento con Glivec per un ammalato di leucemia (quella che i medici chiamano mieloide cronica). Se si usa il Glivec di Novartis sono 2.600 dollari appunto, se si usa quello fatto in India da Cipla, una grande compagnia di generici, solo 175 dollari. Come dar torto alla decisione della Corte suprema dell'India in un caso così? Presa per di più dal tribunale di un Paese emergente (ma con tantissimi poveri) che sa produrre farmaci generici come nessun altro al mondo. Quell'industria consente a tanti ammalati nei Paesi poveri di curarsi con farmaci simili a quelli di marca a un costo ragionevole, se non fosse per l'India tutta questa gente morirebbe. Fra l'altro aprire ai generici fa scendere il prezzo dei farmaci griffati e lo si è visto con l'Aids — da 10.000 dollari a 150 per un anno di trattamento — un po' perché se lo fai, altri cominciano a farlo, un po' perché molte delle compagnie di generici sono affiliate a grandi multinazionali. Ma queste di solito sono contro decisioni come quella dei giudici di New Delhi; secondo Novartis «essere protetti da brevetti è fondamentale per poter continuare a investire in farmaci sempre più nuovi». È davvero così? Non proprio. Si parla tanto di nuovi farmaci antitumorali che ci consentiranno di vincere il cancro. In realtà ce ne sono molto pochi. Glivec è l'eccezione non la regola. Il 23 dicembre 1971 Richard Nixon dice fra l'altro «Sto per firmare una legge che ci consentirà di battere il cancro nel giro di pochi anni, faremo tutto quello che serve e avremo a disposizione tutti i soldi necessari». Sono passati più di 40 anni, ha vinto il cancro. Servirebbe «una cura per la ricerca sul cancro» ha scritto Harnold Varmus su Nature Medicine qualche anno fa. E non ci sono cure per le malattie degenerative del sistema nervoso, e non ci sono nuovi antibiotici (che è pure peggio). L'industria insomma non ha quasi farmaci nuovi. Perché? Un po' perché le cose più facili da scoprire sono già state scoperte, un po' perché più si è protetti per quello che c'è già magari, con piccole modifiche (che non sono vera innovazione, fanno notare i giudici indiani), meno val la pena di rischiare in farmaci davvero nuovi. E l'agenzia europea che registra i farmaci si adegua. Cosa si chiede a un nuovo farmaco per poter essere messo sul mercato? Che abbia qualcosa di più e di meglio di quelli che ci sono già? No. Per l'Europa bastano «qualità, efficacia e sicurezza». Così non c'è ragione per l'industria di innovare, non abbastanza. Salvo che per le malattie rare, per quelle ci sono da un po' di anni incentivi brevettuali e fiscali. E l'industria si è adeguata: il Glivec che ha guarito tanti ammalati e fatto la fortuna di Novartis fu registrato per una malattia rara. Ed è un farmaco così efficace che poi le indicazioni si sono estese ad altri tumori, inclusi alcuni dell'intestino. Gli incentivi a investire in malattie rare hanno prodotto altri farmaci efficaci (e costosissimi). Malattie genetiche per cui una volta i bambini morivano, oggi guariscono con farmaci da infondere una volta ogni 15 giorni o una volta al mese, per sempre. Un anno di trattamento può costare 100 mila euro, anche 300 mila in certi casi. Chi paga? Da noi il servizio sanitario nazionale, ma i soldi sono sempre quelli, nessuno potrà mai dire alle mamme di quei bambini «il farmaco ci sarebbe, ma costa troppo, l'Italia non se lo può permettere», così dobbiamo risparmiare da qualche altra parte. Con i generici per esempio. È nell'interesse di tutti, anche dell'industria, che dopo aver investito moltissimo per un farmaco davvero nuovo, lo vuole vendere. Giusto, ma si può fare solo se tutti rinunciano a qualcosa. E in America latina, Africa, India, Cina e certe regioni dell'Asia è anche peggio, malattie rare ce ne sono come da noi, ma sistemi sanitari che si possano permettere i farmaci no, e pochi hanno i soldi per comperarli. Novartis, che con l'India a insistere sul brevetto secondo me ha sbagliato, aiuta però gli ammalati di leucemia mieloide cronica nei Paesi poveri dando Glivec a un prezzo molto basso. Dovrebbero farlo tutte le grandi multinazionali, i farmaci davvero efficaci sono pochi e per ciascuna malattia anche gli ammalati sono pochi. Perché non lanciare un grande progetto di ricerca? Si potrebbe chiamare «salviamo giovani vite», se ne avvantaggerebbero tutti. _______________________________________________________________ Il Mattino 02 apr. ’13 LO SCANDALO DELLE CURE D'ORO anche l'Europa cambi regole Silvio Garattini La Corte Suprema indiana, L con una sentenza che farà molto discutere, ha rifiutato di ratificare il brevetto di un farmaco noto con il nome generico di Imatinib ed il nome di fantasia Glivec utilizzato per il trattamento di alcune forme tumorali. Autorizzato inizialmente come un farmaco orfano è divenuto in seguito "ricco" avendo trovato altre indicazioni terapeutiche oltre a quella relativa al trattamento della leucemia mieloide cronica. Si tratta di un farmaco che va somministrato cronicamente ed ha un costo di circa 2000 dollari all'anno. In realtà ciò che non è stato accettato non è il farmaco, ma una nuova modifica del farmaco per renderlo a detta dei produttori più efficace, mentre la Corte Suprema indiana ha ritenuto che non vi fossero sufficienti caratteristiche di originalità ma solo il tentativo di prolungare un brevetto in scadenza ed impedire in questo modo l'utilizzazione del farmaco dal nome generico che ha un costo minore di almeno dieci volte. Al di là delle tecnicalità che riguardano le complesse norme brevettuali, la sentenza indiana pone alcuni problemi di carattere generale che meritano di essere evidenziati e discussi. In primo luogo si può porre una domanda: è giusto che i Paesi più poveri vengano privati di farmaci importanti a causa degli alti prezzi? Un paese come l' India con un reddito giornaliero medio di circa 1,5 dollari al giorno può spenderne più di tre volte tanto per acquistare un farmaco, mentre può produrlo e venderlo al prezzo dimeno dimezzo dollaro al giorno? Per quanto il costo della ricerca sia importante è chiaro che esiste una grande sproporzione fra il costo della produzione ed il prezzo di vendita. Il buon senso dice che non possiamo privare i Paesi in via di sviluppo della possibilità di curare le malattie anche perché ciò rappresenta un ostacolo importante allo sviluppo. Occorre quindi trovare una modalità per permettere a tutti di avere a disposizione i farmaci essenziali. Le ditte farmaceutiche acquisterebbero un volto più "umano" e ne hanno tanto bisogno, se concedessero una licenza alla produzione magari vendendo la materia prima a prezzi ragionevoli alla condizione di non far circolare il prodotto al di fuori del Paese. Sarebbe un atto che costerebbe poco considerando che anche nei Paesi emergenti esistono competenze chimiche per produrre in ogni caso i principi attivi. Un secondo problema riguarda anche il nostro Paese, perché con la crisi economica in atto ci si domanda se sia possibile continuare a sostenere la continua escalation del prezzo dei farmaci. Proprio nel campo dei farmaci antitumorali i prezzi sono divenuti insostenibili arrivando anche al costo di ben 20.000 euro per ciclo. Si sfrutta l'emotività e la disperazione degli ammalati per imporre prezzi difficilmente negoziabili perché questi farmaci, opportunamente pubblicizzati rispondono ad una domanda di aiuto. Molto spesso si tratta peraltro di farmaci che aumentano, se va bene un paio di mesi di vita pagandoli con una cattiva qualità divita a causa dei numerosi effetti tossici. Il mercato è così vantaggioso che le multinazionali hanno quasi abbandonato altri campi terapeutici per concentrarsi sui farmaci antitumorali. In questo sono facilitati da una legislazione europea di larga manica che non richiede ai nuovi farmaci di essere migliori di quelli che già si ritrovano sul mercato. Infatti la legge, sostenuta dalla lobby farmaceutica, prescrive che un nuovo farmaco sia approvato sulla base di tre caratteristiche: qualità, efficacia e sicurezza. Tre caratteristiche importanti che tuttavia dovrebbero essere integrate dalla richiesta di un valore aggiunto, cioè della dimostrazione di un vantaggio rispetto a quanto già disponibile. Questa legge ha reso la vita facile all'industria che con la sua grande caratteristica di adattabilità del contesto in cui si trova ad agire può scegliere la via facile. Se dovesse invece essere obbligata a scegliere la via obbligata del reale progresso è probabile che si avrebbe ro a disposizione meno farmaci copia e più farmaci realmente innovativi. La decisione indiana è molto importante perché farà scuola anche in altri Paesi. L'industria farmaceutica, passati i lamenti e le minacce di rito, dovrebbe riflettere tenendo conto della domanda di salute che diviene imperativa anche nei Paesi in via di sviluppo. Anche la Commissione Europea deve fare in modo che i nuovi prodotti farmaceutici debbano veramente rappresentare un progresso terapeutico e forse, ma è chiedere troppo ripensare se il brevetto sia ancora il modo migliore per retribuire le scoperte che riguardano la salute. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 7 Apr. ’13 AOUCA: A SETTEMBRE LA METRO AL POLICLINICO. IL PROGETTO POETTO Il convegno dei Riformatori: il tram presto a Settimo, si rafforza anche l'ipotesi Sestu La metro è pronta a crescere Da un capo potrebbe superare piazza Repubblica e arrivare a lambire il quartiere Sant'Elia, dall'altro spingersi sino a Settimo (una certezza, grazie alla biforcazione della linea 2 che va da San Gottardo a Monserrato), ma anche a Sestu, dove viene chiesto a gran voce il prolungamento della linea ferroviaria oltre la Cittadella universitaria. Ma per la Metropolitana leggera del capoluogo, il presente è fatto già di buoni numeri, con la possibilità a settembre - salvo imprevisti - di attivare anche il terminal del Policlinico. Le immense potenzialità del circuito metropolitano integrato sono state il tema del convegno organizzato venerdì dai Riformatori a Sestu, città con oltre ventimila abitanti che da tempo chiede l'ingresso nel circuito urbano. A discuterne, oltre al vicepresidente del Consiglio regionale, Michele Cossa, c'erano anche il direttore generale dell'Arst, Carlo Poledrini, l'assessore regionale ai Lavori pubblici, Angela Nonnis, e il sindaco di Sestu, Aldo Pili. «L'avvio della nuova stazione del Policlinico», spiega Poledrini, «rappresenterà un salto importante del servizio, con riflessi positivi anche per Sestu e altri centri vicini. Nell'attesa che venga prolungata la linea, poi, si sta già studiando l'operatività di un collegamento integrato con gli autobus, così da anticipare quella che poi sarà la nuova linea». In Regione ci sono già vari progetti in fase di studio: quello fortemente voluto dall'amministrazione cagliaritana guidata dal sindaco Massimo Zedda, per cui ci sono disponibili 50 milioni di euro, vorrebbe l'estensione del tragitto della metro sino al Poetto. Poi ci sono tante di richieste: da un lato Capoterra, dall'altro Sinnai e ancora Selargius. Già in fase di attuazione, sulla linea già esistente, il collegamento per Settimo, mentre quello per Sestu, in un primo momento verrà garantito facendo sposare il tram su rotaia con i minibus. «Collegare bene l'area vasta» chiarisce Pili, «può essere una soluzione strategica e di sviluppo per tutti». Quella dell'Arst nell'area vasta metropolitana non sarà dunque una sfida al Ctm nei collegamenti urbani (il consorzio è già leader nelle tratte dentro Cagliari e con Quartu, Quartucciu, Selargius, Monserrato, Elmas e Assemini), ma un potenziamento dell'offerta di mobilità pubblica. «Si studiano nuove soluzioni» assicura Michele Cossa, «e questa del biglietto unico può, di fatto, ampliare l'offerta di mobilità agli oltre ventimila abitanti di Sestu, rendendo loro accessibile da subito la metro». Di collegamenti, non su rotaia, ma su strada, ha invece parlato l'assessore regionale ai Lavori pubblici, confermando gli investimenti. «Per la mobilità dell'area vasta», assicura Nonnis, «abbiamo già 222 milioni per sistemare gli svincoli della statale 554. Un intervento che renderà più sicura una delle strade strategiche dell'area vasta». Francesco Pinna _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 Apr. ’13 AOUSS: NUOVA TERAPIA INTENSIVA PER I NEONATI Inaugurato ieri un reparto all’avanguardia: quattordici culle supertecnologiche e un appartamento per le mamme di Gabriella Grimaldi SASSARI Quattordici culle trasparenti che sembrano tante piccole astronavi. A bordo esseri minuscoli, in alcuni casi così minuscoli da stare in una mano, in viaggio verso la vita. Tutto intorno è sui toni dell’azzurro chiaro, luci soffuse, monitor, bip, spie che si accendono e si spengono e dall’altra parte del vetro una consolle per controllare ogni minima variazione vitale. Sembra di essere in un altro pianeta quando si entra nel nuovo reparto di Terapia Intensiva Neonatale delle cliniche di San Pietro che accoglie bambini con problemi e patologie entro il primo mese di vita. La struttura in realtà era già operativa all’interno della Neonatologia (al primo piano della clinica dove si trova il blocco Materno infantile, cioè Pediatria, Ginecologia e Ostetricia) ma ora può contare su spazi dedicati e su una dotazione tecnologica di livello superiore, elementi di cruciale importanza in un centro nascita che copre tutto il territorio del Centro-Nord Sardegna. La struttura si articola su due piani e comprende il reparto di degenza e, al piano terra, un appartamento per le mamme che hanno i figlioletti ricoverati, alloggio che fino ad ora si trovava al quinto piano della clinica Aou. Ieri il personale guidato dal direttore Mauro Olzai, i vertici dell’azienda e quelli dell’università hanno fatto da ciceroni all’interno degli ambienti di ultima generazione. Il reparto è costituito da una sala degenza con le quattordici culle, due stanze per l’isolamento in caso di infezioni, una postazione per il monitoraggio, un laboratorio e uno spogliatoio per le mamme la cui vicinanza è un elemento fondamentale nella ripresa dei piccoli degenti. L’appartamento delle mamme, con arredi donati dalla ditta Ferroni Arredamenti, è composto da 12 posti letto divisi in camere con bagno privato, un’ampia sala e un angolo relax. Una struttura articolata che è stata realizzata grazie ai lavori di completamento di un rustico costruito dall’università nei primi anni Duemila e originariamente destinato alla cura dell’Aids pediatrico. In seguito, con l’evolversi positivo del quadro di questa patologia, l’università aveva deciso di destinare lo stabile alla Terapia Intensiva Neonatale per cui ha trasferito alla Aou fondi regionali per 2 milioni e 700mila euro. I lavori sono iniziati nel luglio del 2009 e sono durati due anni. «L’apertura della Terapia Intensiva Neonatale – ha detto il direttore generale dell’Aou Alessandro Cattani – è un grande traguardo per questa azienda ed è il frutto di un lavoro di squadra. I problemi dell’edilizia sanitaria sono noti a tutti e ci sono progetti pensati per risolverli, ma questi interventi ci permettono di arginare le difficoltà e continuare a mantenere alti agli standard del servizio offerto». Una soddisfazione condivisa anche dal rettore Attilio Mastino che ha preannunciato una sorta di bilancio sui progetti già realizzati per la sanità sassarese e su quelli da realizzare in tempi medi. Alla presentazione del nuovo reparto ha partecipato anche il nuovo direttore sanitario dell’Aou Mario Manca (fino a pochi giorni fa responsabile del centro trasfusionale di Alghero) che sostituisce Francesco Tanda dopo alcuni anni di “mandato”. «Sto già raccogliendo i frutti dell’importante lavoro di chi mi ha preceduto. Al mio arrivo in questa azienda sono rimasto piacevolmente sorpreso per i tanti progetti avviati, sintomo di una realtà dove si lavora tanto e con grande entusiasmo». _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 Apr. ’13 AOB: LA LEZIONE DI GINO STRADA COMMUOVE GLI STUDENTI Trecento giovani ascoltano in silenzio le parole del fondatore di Emergency «Il posto più sicuro nelle guerre è tra chi combatte: le vere vittime sono i civili» di Stefano Ambu wCAGLIARI Le richieste dei ragazzi delle scuole superiori radunati nell'aula magna del liceo Dettori, strapiena, sono arrivate spontanee e inevitabili: come e quando si può dare una mano ad Emergency? Cose che succedono, quando Gino Strada, fondatore della organizzazione umanitaria, parla per due ore di fila e racconta di mine antiuomo, ospedali in Afghanistan o cooperative per reinserire uomini e donne resi invalidi dalla guerra. Storie terribili, intraviste dai ragazzi al tg, che sembrano lontane e che ieri apparivano molto più vicine. Storie per riflettere. Inferno, ma con una possibile via di uscita. Dramma, ma anche speranza. Per il medico in trincea è scattata la standing ovation: tutti in piedi per un applauso lungo oltre un minuto. Tanti lucciconi e facce tese. Con Strada che si è alzato anche lui per restituire in piedi l'applauso ai ragazzi. Se venerdì al Brotzu aveva parlato soprattutto di medicina, ieri ai ragazzi il fondatore di Emergency ha parlato soprattutto dei disastri della guerra. «Se un giorno in Afghanistan– ha detto– i soldati prendessero ventiquattro ore di riposo, con quei soldi potremmo costruire dieci centri-ospedali di eccellenza. Quello che forse non viene mai sottolineato è che quando scoppia una guerra il più sicuro è il combattente: pagano i civili, sono il novanta per cento delle vittime». E ancora si è soffermato sul reale significato del termine “dopo guerra”. «Dal 1946 a oggi – ha ricordato – ci sono stati centosettanta conflitti con venticinque milioni di morti. Una perdita dell'umanità: chissà quanti Einstein, quanti Aristotele, quanti Giotto c'erano tra tutte quelle persone». Ha mostrato al pubblico un'immagine che forse è un po' il riassunto del disastro delle mine sistemate a tradimento in strade e campi: un uomo accecato dalle schegge che si appoggia a un bambino, il figlio, con le stampelle, azzoppato anche lui da una mina. «Abbiamo provato a chiederci quale può essere il futuro per loro – ha detto Strada – e stiamo cercando di dare delle risposte: dopo che passano per i nostri ospedali proponiamo dei corsi di formazione per imparare un mestiere. E in Iraq, grazie a questa iniziativa, sono nate circa trecento cooperative». Iraq sì, ma anche in Italia si soffre. «Ci sono ogni giorno da cinque anni – ha raccontato – 615 nuovi poveri: anche per loro ci stiamo muovendo con poliambulatori, centri di riferimento, sportelli nelle città e nelle zone in cui c'è maggiore bisogno». L'ultima campagna, di pace e assistenza, partirà domani, basterà inviare un sms (due euro) al numero 45505. «Noi i soldi li usiamo bene». Garantisce Gino Strada. _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 Apr. ’13 «INFORMAZIONI E DIGNITÀ SUI DIRITTI DEL MALATO ANCORA MOLTO DA FARE» Che cosa significa democrazia quando si parla di salute? «Prima di tutto maggiore accessibilità possibile per tutti gli strati sociali a cure provate scientificamente» risponde Umberto Veronesi, oncologo, direttore scientifico dell'Istituto europeo di Oncologia, di Milano. «Del resto era proprio questo l'obiettivo della riforma che ha condotto alla realizzazione del Sistema sanitario che ancora oggi abbiamo nel nostro Paese. Una riforma davvero democratica, almeno nelle sue fasi iniziali». Ora non lo è più? «Lo è ancora, anche se, per esempio, l'introduzione dei ticket ne ha in parte snaturato la filosofia. Un provvedimento che era nato, opportunamente, per dissuadere dagli eccessi prescrittivi, nel tempo si è però trasformato in una forma di compartecipazione alla spesa, in una tassa. Ovvio che sia comprensibile, considerate le difficoltà economiche che nel tempo si sono venute a creare, ma in termini teorici ha prodotto un tradimento dell'idea iniziale, nonostante l'esenzione per le classi meno abbienti». Lei è un paladino dell'accesso universale e gratuito alle cure ma ora dirige un'impresa ospedaliera privata. Come concilia queste due posizioni? «L'Istituto europeo di Oncologia rappresenta una sorta di "terza via" fra pubblico e privato che ho sempre sostenuto. Il fatto che sia un ente di diritto privato garantisce una maggiore flessibilità e velocità di gestione. Per esempio non è necessario bandire gare pubbliche ogni volta che bisogna acquistare materiale sanitario o rinnovare gli strumenti diagnostici, e ciò permette di stare più al passo con i continui miglioramenti tecnologici. Però la prima voce dello statuto dello Ieo recita che si tratta di una società non profit, quindi tutti gli eventuali utili sono investiti in ricerca. In questo modo l'obiettivo rimane il malato, che è poi il centro, per tornare alla domanda iniziale, del concetto di democrazia in sanità». In un sistema democratico, per definizione, è possibile esercitare i propri diritti: quali sono i diritti più importanti per un malato secondo lei? «Prima di tutto quello di essere curato bene, in modo scientifico, non approssimativo. Poi ci sono il diritto a un secondo parere, quello al rispetto della privacy, quello di sapere tutto sulla propria malattia, anche i medici devono saper dare le informazioni con cautela. C'è il diritto a essere informati sui trattamenti e quello di accettarli oppure rifiutarli. C'è il diritto a non soffrire, a essere libero dal dolore. Infine c'è il diritto alla dignità e a esprimere in anticipo le proprie volontà sul proprio fine vita, quello che chiamiamo testamento biologico. Nel rispetto di questo diritti molto si è fatto, per alcuni, specie gli ultimi citati, c'è ancora da fare. Soprattutto il tema del fine vita è molto delicato e mi piacerebbe che in Italia si discutesse con serenità». Il ritratto di malato che ne sortisce corrisponde al «nuovo paziente» di cui si parla da tempo, che ha superato il rapporto filiale col medico e interpreta il modello della nuova medicina condivisa. «Sì, anche se bisognerebbe fare attenzione a non parlare della "vecchia" medicina paternalistica solo come qualcosa di superato e negativo. La medicina paternalistica aveva i suoi vantaggi perché essere padre è importante nei confronti di un malato, che spesso va in regressione, diventa cioè come un bambino, cha ha bisogno e chiede di essere assistito e guidato. Il problema è che come ci sono padri buoni e padri meno buoni, così ci sono medici buoni e medici meno buoni. Per cui, più che buttare via il modello di medicina paternalistica, bisognerebbe essere capaci di ripensarla, senza auspicare un medico freddo e distaccato dal malato. Il rapporto umano ha grandissima importanza nella cura e va valorizzato. Il medico deve immedesimarsi in chi cura, pur mantenendosi lucido, capire le paure di chi ha davanti, comprendere la sua filosofia di vita. È in questo solco che va inserito, e asserito, che è diritto di un paziente decidere le cure, questa è la vera medicina condivisa». «Però per questo è necessario l'impegno di una classe medica più sensibile agli aspetti umani, che non si deve preoccupare solo del corpo, ma anche della mente. La mente è il luogo dove la medicina viene percepita». «Sono queste le condizioni nelle quali si può declinare una vera democrazia in medicina: accesso, scienza, umanità, rispetto». Luigi Ripamonti _____________________________________________________ L’Unione Sarda 6 Apr. ’13 AOB: STRADA: "I POLITICI? NON PARLANO DI DIRITTI UMANI E MEDICINA" "Guerra, diritti umani e medicina. Sono come il lavoro e l'istruzione: non compaiono nelle agende di molte formazioni politiche". Gino Strada, medico fondatore di Emergency, a Cagliari per un incontro con i medici all'ospedale Brotzu, come al solito, va all'attacco. "Si parla di spread, competitività - spiega - ma secondo voi in un Paese che da cinque anni sforna 615 poveri al giorno, uno che muore di fame che cosa volete che pensi dello spread?". "Il Quirinale? Io mi occupo di altro, non ci voglio nemmeno pensare. Sono cose che si dicono in occasioni come queste: so solo che questo Paese ha un urgente bisogno di una sterzata. Stiamo parlando di un'Italia che ogni giorno conta 650 nuovi poveri: il Terzo Mondo è anche qui". Sala convegni affollatissima e di fronte a tanti camici bianchi Strada ha puntato il dito contro le politiche sanitarie nazionali: "Sono indignato - ha detto - per quello che è successo alla medicina: Ippocrate se riaprisse gli occhi inorridirebbe. Si viene pagati per il numero di prestazioni. Ma il pagamento a prestazione genera un conflitto di interessi: io da medico sto meglio se non devo effettuare prestazioni perché significa che la gente sta bene". Il pubblico lo stuzzica: e se diventasse ministro della Sanità cosa farebbe? "Diciamo che se io diventassi ministro della Sanità, magari nelle Filippine -ha risposto Strada - vorrei un sistema dove sia bandito il profitto, che non faccia pagare i pazienti che investa nel futuro senza strizzare l'occhio all'industria. E deve essere bandita la politica intesa come clientelismo e interferenza". Il sogno? "Una sanità totalmente pubblica. Con i 120 miliardi che spendiamo all'anno si possono fare tante cose. E invece tanti soldi se ne vanno. Dove? Il mio modello è una sanità senza ticket con un sistema sanitario unico nazionale. Con quelli regionali si creano sprechi e diseguaglianze tra territori. Non dobbiamo aver bisogno del privato". Strada si è soffermato anche su altri temi a lui cari come la guerra alle guerre. "Quanti centri di eccellenza si potrebbero costruire nel mondo con il denaro buttato nelle spese militari? E ditemi voi se si può parlare di dopoguerra: con centosettanta conflitti che dopoguerra è?". _______________________________________________________________ Panorama 10 apr. ’13 NASCE IN ITALIA L'ARMA DECISIVA ANTI MALARIA Uno stabilimento della Sanofi in Piemonte è il primo e l'unico al mondo a produrre la materia prima di un farmaco a basso costo. Grazie anche a Bill Gates. Ogni anno 219 milioni di persone si ammalano di malaria e 660 mila ne muoiono. Quasi tutti in Africa, quasi tutti bambini al di sotto dei 5 anni. Un bilancio tragico, che oggi può migliorare grazie all'impegno della fondazione Bill & Melinda Gates, che ha finanziato centri di ricerca negli Stati Uniti e in Canada, e della multinazionale farmaceutica Sanofi che, tra i suoi 75 stabilimenti nel mondo, ha individuato quello di Garessio, in provincia di Cuneo, per sintetizzare la materia prima per un medicinale a basso costo che combatte la malaria. «Salvare una vita con un trattamento che costa meno di 1 dollaro era il nostro obiettivo» spiega Arturo Zanni, amministratore delegato della Sanofi Italia: «Lo abbiamo raggiunto industrializzando la produzione sintetica dell'acido artemisinico che, trasformato in artemisinina, è il più potente antimalarico esistente». La Sanofi, che è uno dei più importanti gruppi farmaceutici al mondo, con 35 miliardi di curo di fatturato, e il primo in Italia, segue da tempo una politica di accesso agevolato ai farmaci nei paesi più poveri. «La chimica italiana è sempre stata all'avanguardia» ricorda Zanni «e non a caso i farmaci contro le due principali malattie infettive (la tubercolosi, che causa 1,5 milioni di morti, e la malaria) nascono nei nostri stabilimenti di Brindisi e di Garessio». Il principio attivo creato a Garessio viene poi miscelato in Marocco da Sanofi con un'altra sostanza che dà origine al farmaco antimalarico Asaq, che consente una terapia poco costosa e semplice (una compressa al giorno per n-e giorni per i bambini e due al giorno per gli adulti). «Con il vecchio metodo, la produzione dell'antimalarico è condizionata dal volume dei raccolti e dalla fluttuazione dei costi» spiega Zanni «mentre avere la materia prima semisintetica consente una forMiura costante che abbatte i costi di produzione. Così possiamo vendere medicinale, che non è protetto da brevetto, a prezzo di costo agli enti pubblici e privati che operano nei paesi afflitti dalla malaria». La Sanofi finanzia anche programmi di formazione di personale sanitario e campagne di prevenzione nelle aree disagiate. Luso delle zanzariere sui letti è fondamentale per evitare il morso della zanzara che trasmette la malattia, Ma solo lavorando sul posto i ricercatori hanno scoperto che le donne africane non usavano quelle bianche sulle culle dei bambini, perché da loro è il colore, del lutto. (Dam; ?o _______________________________________________________________ La Stampa 02 apr. ’13 COS'È DAVVERO L'AUTISMO? A CURA DI PAOLO Russo ROMA Oggi si celebra la giornata mondiale dell'autismo. Una sindrome poco conosciuta nonostante l'interpretazione di Dustin Hoffman nel film «Rain Man». Quanto è diffusa questa malattia? Purtroppo i casi sono in crescita esponenziale. Pochi lo sanno, ma nel mondo l'autismo colpisce più di tumore, diabete e Aids sommati insieme. In Italia oltre 400 mila famiglie hanno a che fare con una persona autistica, che diventata adulta scompare e diventa un fantasma per la nostra società, che fornisce poche tutele e non forma terapisti per la riabilitazione. Un dramma sociale destinato ad espandersi perché se nel 1985 si contavano 3-4 bambini autistici ogni 10 mila nascite, oggi quel dato è schizzato a un caso ogni cento. Questo perché si partorisce sempre più tardi, oltre che per le errate diagnosi del passato, quando l'autismo veniva confuso con un ritardo mentale. Da quali sintomi si riconosce l'autismo? Spesso i genitori si rivolgono inizialmente al medico per un sospetto di cecità odi sordità quando notano quei comportamenti che fanno apparire i loro bambini come incapsulati in una fortezza vuota. I segnali d'allarme sono la difficoltà a relazionarsi con gli altri, la tendenza a ridere o sorridere senza motivo, l'assenza di sguardo verso la persona che sta parlando, il far roteare in continuazione gli oggetti ma anche la ripetizione ossessiva di parole. Spesso sostituite da gesti. A che età si manifesta la malattia? Intorno ai tre anni, con la difficoltà ad intrecciare rapporti con gli altri, fino al completo isolamento e alla difficoltà, da adulti, a vivere una normale vita sociale e lavorativa. è vero che autistici sono stati molti grandi geni del passato? Secondo diversi studiosi Newton, Einstein, Darwin, Mozart sarebbero stati tutti affetti da autismo. O meglio, da quella sua particolare e rara forma che è la «Sindrome di Asperger», in grado di consentire uno sviluppo della capacità cognitive oltre la norma, pur sempre affiancate a una grande incapacità di mettersi in relazione con gli altri. Ma attenzione a non fornire un'immagine edulcorata dell'autismo perché diversi studi dimostrerebbero che nel 75% dei casi coesiste con forme pur lievi di ritardo mentale e a volte è associato a disturbi del sistema nervoso centrale, come l'epilessia o la sindrome di Rett. Che cosa genera l'autismo? Il fattore preponderante è quello genetico, anche se sono stati individuati altri fattori, come l'uso di farmaci arti-virali e anti- epilettici nel primo trimestre di gravidanza, mentre alcuni studi starebbero comprovando una relazione tra la sindrome e la concentrazione di pesticidi nel territorio. Esistono terapie per curarlo? Le armi per combatterlo oggi sono poche. Anzi una sola, secondo le linee guida sulla malattia promulgate recentemente dall'Istituto Superiore di Sanità, che ha promosso la cosiddetta Aba (Applied Behaviour Intervention), che consiste in una serie di programmi comportamentali intensivi, da 20 a 40 ore settimanali, rivolti a bambini di età prescolare. A stimolare i bambini sono i genitori in presenza di professionisti specializzati. L'Istituto ha bocciato o sospeso il giudizio su tutte le altre metodiche, come l'uso di strumenti comunicativi tipo computer, le diete senza glutine o la musicoterapia. Una posizione giudicata però troppo rigida da diversi studiosi e ricercatori. Che speranze ci sono per il futuro? Molte, grazie alla ricerca genetica e, in particolare, a una tecnica molecolare innovativa, conosciuta dagli scienziati con il nome di Array-Cgh, che consente una mappatura del genoma molto più dettagliata. I ricercatori della «Mount Sinai School of Medicine» hanno pubblicato sulla rivista scientifica «Nature» studi che individuano le mutazioni di tre nuovi geni che sarebbero causa del disturbo. Ma anche l'Italia è in prima fila nella ricerca. Due studi realizzati dall'Istituto di neuroscienze del nostro Consiglio nazionale delle ricerche hanno non solo scoperto le mutazioni di due geni che sarebbero alla base dell'autismo ma, come spiega la ricercatrice Chiara Verdelli, avrebbero anche dimostrato l'efficacia di un farmaco sperimentale, in grado di riparare il danno funzionale di uno dei due. Insomma, esistono buona basi di partenza per arrivare tra non troppi anni ad efficaci terapie personalizzate. In attesa dei farmaci del futuro cosa si fa per aiutare le persone autistiche e i loro familiari? Decisamente poco. Terapie che intervengono sulle Capacità cognitive, come l'Aba, costano. Dai siti delle associazioni dei familiari delle persone autistiche si parla di spese per l’assistenza e la riabilitazione dai 1000 ai 1700 euro al mese che lo Stato non rimborsa. Giovanni Papa, docente di sostegno, nonché genitore di un bambino autistico ritiene che l'intervento cognitivo- comportamentale, l'unico riconosciuto efficace dalle nostre autorità sanitarie, è di fatto ostacolato nelle scuole dalla Unità operative di neuropsichiatria dell'infanzia. Così, il peso si scarica sulle famiglie dei malati invisibili del nostro welfare. _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 6 Apr. ’13 NELL’ISOLA 8.000 CASI DI AUTISMO Proposta di legge del Pd per la creazione di una rete di servizi CAGLIARI In Sardegna si stima ci siano tra 8 mila e 10 mila persone affette da autismo ma che per le associazioni dei familiari di pazienti autistici è sottodimensionato. Proprio dalle sollecitazioni delle famiglie nasce la proposta di legge presentata in Consiglio regionale dal gruppo del Partito democratico, prima firmataria Francesca Barracciu. «Manca una normativa specifica per l’autismo», ha spiegato Barracciu, con Marco Espa, Tarcisio Agus e Nicola Marrazzo dell’Angsa Sardegna. «Le famiglie e le associazioni devono sopperire alla carenza di servizi pubblici. Abbiamo collaborato con loro e, dopo quasi un anno e mezzo, presentiamo questa proposta che recepisce appieno anche le ultime linee guida nazionali in materia di autismo. L’unico punto regionale di riferimento ora è il Centro del Brotzu. Si punta prima di tutto a dare copertura dell’assistenza su tutto il territorio». La proposta prevede, tra l’altro, la formazione di personale dedicato. _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 Apr. ’13 «BUFALA» IN RETE SU MAMMOGRAFIA E TUMORE TIROIDEO Nel villaggio globale dell'informazione quel che si dice con leggerezza nello studio di un programma televisivo di medicina negli Stati Uniti può provocare reazioni a catena in tutto il mondo. E quello che potrebbe essere un semplice invito alla prudenza, secondo un saggio principio di precauzione, può finire col produrre conseguenze potenzialmente molto pericolose. È quel che è capitato con il timore che la mammografia possa aumentare il rischio di tumore della tiroide, una falsa voce che si rincorre in Rete, invitando a comportamenti, questi sì, pericolosi, anche in termini di salute pubblica. Tutto inizia nel 2010, nel corso di una trasmissione molto seguita negli Stati Uniti, il Doctor Oz Show. Nel corso di una puntata, il conduttore ipotizza che l'aumento dei casi di tumore della tiroide registrato negli ultimi decenni sia da ricondurre alla diffusione delle radiografie ai denti e soprattutto della mammografia periodica per la diagnosi precoce del tumore al seno. Soluzione? Basta che le donne chiedano, prima di sottoporsi all'esame, di poter indossare un apposito collare di piombo che protegge la ghiandola dalle radiazioni ionizzanti, considerate responsabili del fenomeno. L'invito scatena oltreoceano una tempesta mediatica, spingendo molti autorevoli esperti a prendere posizione in merito: «L'allarme non è solo infondato, ma anche pericoloso, perché rischia di scoraggiare le donne dal sottoporsi ai controlli consigliati» ha dichiarato Daniel B. Kopans, esperto radiologo della Breast Imaging Division al Massachusetts General Hospital e docente di radiologia all'Harvard Medical School. Anche il New York Times cerca di tranquillizzare le donne, citando uno studio pubblicato qualche anno prima sul Journal of the American Medical Association, secondo cui l'aumento di incidenza di tumore alla tiroide negli ultimi 30 anni è più apparente che reale, dovuto cioè soprattutto al fatto che le forme meno aggressive della malattia si diagnosticano oggi più facilmente di un tempo. Inoltre l'aumento dei casi riguarda anche gli uomini, i quali non si sottopongono allo screening per il tumore del seno. «Il punto fondamentale però è un altro — precisa Gisella Gennaro, esperta dell'Associazione italiana di fisica medica (Aifm), che ha segnalato la questione in Italia —. Non solo non esiste nessuna prova che le radiazioni utilizzate per esaminare il seno possano provocare tumori della tiroide, ma poiché queste raggiungono la ghiandola in modo indiretto e in quantità minima, un rapporto di causa ed effetto non è nemmeno ipotizzabile». In uno studio pubblicato l'anno scorso sull'American Journal of Roentgenology due tra i massimi esperti Usa, Ioannis Sechopoulos, della Emory University di Atlanta, ed Edward Hendrick, dell'Università del Colorado a Denver, hanno cercato di stimare quale potrebbe essere il rischio che lo screening mammografico provochi tumori alla tiroide: «La dose di radiazioni assorbita dalla tiroide per effetto dell'esame non supera gli 0,2 mSv (milliSievert), a fronte della dose da fondo naturale annuale, presente cioè nell'ambiente, che negli Stati Uniti è pari a 3,1 mSv. Detto questo, se anche lo screening fosse condotto ogni anno su tutte le donne tra i 40 e gli 80 anni, si stima che l'effetto di questa esposizione non arriverebbe a provocare un caso ogni 17,8 milioni». In realtà, i programmi di screening non sono così estesi, per cui l'accumulo di radiazioni derivanti da questa fonte, almeno in Italia, è ancora inferiore, perché il test non è raccomandato ogni anno, ma ogni due, e solo tra i 50 e i 69 anni. Ma oggi, una volta che un sospetto si è insinuato nell'opinione pubblica pare non ci sia ragione scientifica che possa fermarlo. Si diffonde in Rete, soprattutto attraverso i social network, con una modalità che non a caso è definita «virale». «E così ora l'allarme è arrivato anche in Italia — spiega la fisica medica —. Molte donne stanno ricevendo via Internet un messaggio che mette in guardia contro questo pericolo e in cui si chiede di diffonderlo e condividerlo come in una catena di sant'Antonio». Il guaio è che il rimedio proposto è più pericoloso del rischio inesistente da cui vuole proteggere. «L'appello, infatti, richiamandosi al consiglio del Dottor Oz, invita le donne a chiedere di indossare un collare di piombo per riparare la ghiandola durante l'esame — spiega Gisella Gennaro —. Questa procedura però, oltre ad allungare i tempi dell'indagine — fondamentale in un campo in cui al contrario è essenziale accorciare le liste di attesa —, può costringere il radiologo a dover ripetere l'esame». Il collare infatti può proiettare la sua ombra sul seno, creando artefatti e nascondendo la zona da esaminare. In questi casi la mammografia va ripetuta. E questo sì che aumenta l'esposizione alle radiazioni. Roberta Villa _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 Apr. ’13 LA SCOSSA PER RINGIOVANIRE DI MODA NEGLI ANNI VENTI di ELENA MELI Erano i ruggenti anni 20. Dimenticata la tragedia della Prima guerra mondiale, il mondo viveva una parentesi di fascinazione per le nuove tecnologie del tempo: cinema, radio e automobile prendevano piede, la moda iniziava a dettare tendenze spregiudicate e tutti parevano poter vivere in una sorta di eterna giovinezza al ritmo del jazz, la musica che spopolava in quel periodo. Allora come oggi gioventù e modernità erano le parole d'ordine, allora come oggi c'era chi prometteva di poter fermare il tempo allontanando la vecchiaia e i suoi acciacchi. Negli anni 20 la fontana della giovinezza era il Rejuvenator inventato da Otto Overbeck, chimico inglese nato nel 1852 che per gran parte della sua vita, dopo aver studiato all'University College di Londra, era stato direttore in una birreria di Grimsby, nello Yorkshire. In quei tempi era normale per un chimico lavorare nella produzione della birra e già in questo settore Overbeck mostrò la tempra dell'inventore: brevettò nuovi macchinari per la fermentazione, un metodo per rendere la birra analcolica e un estratto nutritivo a base di lievito simile alla Marmite, una crema densa e scura molto amata dagli anglosassoni. Overbeck tuttavia era affascinato dall'idea dell'eterna giovinezza: scriveva versi poetici vagheggiando di non dover mai affrontare la vecchiaia quando aveva 20-30 anni, ma dovette aspettare fino quasi ai 60 per proporre la sua versione dell'elisir di lunga vita, il Rejuvenator. All'inizio degli anni 20 Overbeck aveva disturbi renali che non miglioravano con le cure disponibili all'epoca, così mise a punto uno strumento per l'elettroterapia. «Non esistono lettere o diari di quel periodo, per cui non sappiamo come gli sia venuta l'idea — spiega James Stark, lo storico della medicina dell'Università di Leeds che ha studiato la vita di Overbeck —. Di certo su di lui l'apparecchio funzionò almeno un po', così decise di brevettarlo e commercializzarlo». Il primo brevetto risale al 1924 e fu geniale a partire dal nome, Rejuvenator: oggi, per i collezionisti di curiosità mediche antiquarie, se ne trova ancora qualche esemplare in vendita a circa un centinaio di sterline. Consisteva in una scatolina ricoperta di finta pelle, lunga 30 centimetri e alta 15; al l'interno una batteria che poteva erogare corrente a basso voltaggio (da 4 a 12,5 volt), i cavi di collegamento e quattro applicatori-elettrodi di forma diversa, tubulari, a pettine o a piastra. Con i disegni del l'epoca e dalle indicazioni di Overbeck se ne ricostruisce l'utilizzo: un applicatore a pettine ("adatto per tutti i tipi di chiome", diceva l'inventore) andava sistemato sulla testa, il secondo veniva poggiato sulla schiena o altrove; poi veniva fatta passare una blanda corrente, che dava solo un leggero formicolio. Overbeck sosteneva che l'elettricità potesse restituire il vigore giovanile, dissolvere le fatiche dell'età, eliminare mal di schiena e mal di testa, perfino risolvere la calvizie e far sparire i capelli bianchi. Mentre la classe medica storceva il naso, l'inventore invadeva i giornali di tutto il mondo (entro il 1929 il brevetto era stato registrato un pò ovunque, dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda): «Spesso i messaggi pubblicitari includevano testimonianze di pazienti e medici: in genere non erano autorizzate, in molti casi inventate di sana pianta» racconta Stark. Così fantomatici dottori australiani spiegavano ad esempio di avere usato il Rejuvenator con successo in casi di atrofia muscolare e poi su se stessi, risolvendo un'annosa calvizie; altri rivelavano di avere curato così persone asmatiche, anemiche o affette da problemi gastrointestinali. «Overbeck aveva messo in atto una vera e propria strategia di marketing — osserva lo storico della medicina —. Poteva farlo proprio perché non era un medico, e non doveva quindi rispondere ad alcun codice deontologico. Aver brevettato lo strumento gli conferì una patina di credibilità, i testimonial servivano a convincere anche i più indecisi». Né più né meno di quello che accade oggi, basta aprire una rivista qualsiasi per trovare le storie di successo di pazienti che hanno risolto i problemi più vari con la "cura" reclamizzata. Overbeck precorreva i tempi e intanto si copriva d'oro: le vendite del Rejuvenator non conoscevano sosta e il chimico in appena tre anni si arricchì tanto da poter acquistare un vero e proprio palazzo nelle campagne del sud-ovest dell'Inghilterra, nei pressi di Plymouth, che oggi è un museo parte del patrimonio del National Trust inglese. I medici tuttavia lo osteggiavano e lo consideravano un ciarlatano: la British Medical Association, ad esempio, espresse il timore che i pazienti si potessero ustionare usando lo strumento, perché Overbeck consigliava di applicare gli elettrodi dopo aver pulito la pelle con un sapone speciale da lui prodotto, il "rejuvenator soap". Non esistono prove di eventuali effetti collaterali, ma certo anche queste critiche spinsero l'inventore a dare alle stampe un trattato di circa 250 pagine, dal titolo «Una nuova teoria elettronica della vita», attraverso il quale intendeva sostenere la scientificità del Rejuvenator legittimandone l'impiego come possibile alternativa alle cure mediche tradizionali. Il libro, apparso per la prima volta nel 1925 e ristampato in quattro edizioni successive fino al 1932, veniva offerto gratuitamente a chi acquistava il Rejuvenator. Qui Overbeck spiegava con dovizia di particolari che quasi tutte le nostre malattie sarebbero dovute ad alterazioni dello "stato elettrico naturale" del nostro organismo. «Noi siamo elettrici nella sostanza e nell'azione — scriveva il chimico —. L'equilibrio elettrico è la salute, lo squilibrio porta a malattia: solo le malformazioni, i traumi e le infezioni da germi non sono provocate da squilibri elettrici». A lcune parti paiono oggettivamente farneticanti ma il libro, assieme ai brevetti e alla pubblicità, riuscì nel suo intento: il Rejuvenator per oltre 10 anni fu molto popolare e tantissimi lo usarono per curare mali minori senza chiedere il parere a un medico. Overbeck fu così abile da convincere i clienti che solo lui poteva fornire le batterie di ricambio per lo strumento, assicurandosi così un afflusso continuo di denaro; le vendite del Rejuvenator calarono a picco solo dopo la sua morte, nel 1937. Difficile dire se il chimico credesse davvero a quello che diceva: non ci sono diari privati o lettere a rivelare quali fossero i suoi reali pensieri, se fosse convinto della bontà dell'elettroterapia o consapevole di vendere un oggetto che non produceva molto più di un pizzicorino. L'ELETTRICITÀ USATA IN MEDICINA Overbeck per molti fu solo un ciarlatano, ma oggi qualcuno lo rivaluta: nelle sue teorie forse c'era qualcosa di buono, visto che le ricerche attuali mostrano come alcune patologie possono essere trattate, almeno in parte, con correnti a basso voltaggio. È il caso della stimolazione elettrica transcranica sperimentata per la depressione e studiata per l'emicrania e il dolore cronico. Uno studio dell'Università di Oxford su un piccolo numero di volontari ha segnalato che la stimolazione elettrica aumenterebbe le abilità matematiche. Secondo i ricercatori l'applicazione di elettricità potrebbe modificare o amplificare l'attività cerebrale inducendo un cambiamento della carica elettrica delle membrane dei neuroni, con un effetto duraturo perché la corrente inciderebbe anche sulla produzione di proteine a livello delle sinapsi, i punti di contatto e "dialogo" fra le cellule del cervello. _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 Apr. ’13 CURE FRETTOLOSE PER L'ALZHEIMER di ROBERTO SATOLLI S i punta oggi a cercare cure contro l'Alzheimer che agiscano prima che i danni al cervello siano evidenti. L'intenzione è ottima. I farmaci oggi in uso fanno poco o nulla proprio perché quando si arriva alla demenza i guasti sono ormai irreparabili, e non c'è dubbio che sarebbe molto meglio riuscire ad impedire che ciò avvenga. Come spesso accade quando si tratta di malattie che fanno paura, la speranza di un rimedio fa però dimenticare l'altra faccia della medaglia. Per vedere se la cura preventiva funziona occorre provarla su persone che stanno ancora bene, ma per non dover aspettare decenni bisognerebbe disporre di indicatori indiretti ma attendibili dei danni al cervello, che però non sono ancora stati messi a punto. In mancanza di ciò, la Food and Drug Administration, l'organismo federale americano che autorizza le novità farmaceutiche, ha proposto di «abbassare l'asticella» delle prove necessarie per approvare un nuovo rimedio contro l'Alzheimer, accontentandosi di verificare miglioramenti (o non peggioramenti) anche molto sfumati nella soluzione di test cognitivi, senza pretendere di dimostrare che le cose vadano davvero meglio nelle funzioni della vita quotidiana. La proposta della Fda, aperta ai commenti pubblici, sta raccogliendo molte critiche, soprattutto per il rischio che si arrivi in questo modo ad approvare nuovi farmaci che in realtà producono ancor meno vantaggi di quelli già in commercio, a fronte di effetti collaterali che possono essere anche molto gravi, soprattutto per cure destinate a durare molti anni. La prospettiva più inquietante è però un'altra: le cure precoci, una volta approvate, dovrebbero essere usate da poveri diavoli come me, che magari dimenticano i nomi di persone che conoscono e devono annotarsi tutti i pin, le password e le cose da fare, ma che per il resto stanno e funzionano benissimo. Per fortuna, incrociando le dita, non tutti i miei simili sono destinati ad avere prima o poi l'Alzheimer, anzi la maggior parte non ne mostrerà mai traccia. Siccome non c'è modo di saperlo prima, si rischia il danno e la beffa: prendere per anni medicine che forse non fanno nulla, e quasi sicuramente fanno male, e di cui la maggioranza non ha alcun bisogno. _____________________________________________________ Corriere della Sera 7 Apr. ’13 L'UOMO NON È FATTO SOLO DI GENI di ADRIANO FAVOLE Perché non è accettabile l'attuale pretesa delle scienze biologiche di avere il monopolio nel definire la condizione della nostra specie L e recenti dimissioni di Marshall Sahlins, uno dei più noti antropologi culturali americani, dall'Accademia nazionale delle scienze Usa sono in primo luogo il frutto dell'ammissione di Napoleon Chagnon in quel consesso e, in secondo luogo, una clamorosa protesta contro l'Accademia stessa per la sua collaborazione con l'esercito americano in ricerche condotte nelle aree di guerra. Contro i metodi utilizzati da Chagnon tra gli yanomamö dell'Amazzonia e contro le teorie sociobiologiche della violenza maschile innata espresse nel suo saggio The Yanomamö: The Fierce People, Sahlins si era già pronunciato in varie occasioni. Figura piuttosto controversa (Edoardo Viveiro de Castros lo accusa di praticare un'«antropologia pseudoscientifica» che ha rafforzato «i peggiori pregiudizi contro i popoli nativi»), Chagnon fu oggetto di contestazione da parte degli stessi yanomamö; le sue teorie avrebbero fornito una giustificazione alle violenze perpetuate nei confronti delle popolazioni amazzoniche. L'aventino di Sahlins ha anche un obiettivo più vasto: segnalare il disappunto verso il ritorno prepotente di una sorta di monopolio delle scienze biologiche (dalla genetica alle neuroscienze) nella definizione della condizione umana (per riprendere l'espressione di Hannah Arendt), con la conseguente marginalizzazione di scienziati sociali e umanisti. Non si tratta, va detto, di una polemica contro la scienza, bensì contro certi suoi abusi politicamente strumentalizzati. Già in un'opera del 1976 (Una critica antropologica della sociobiologia, Loescher), Sahlins si era scagliato contro il determinismo genetico e, di recente, è tornato a criticare l'idea stessa di una natura umana egoistica e violenta (Un grosso sbaglio, Elèuthera, e La natura umana è solo delle scimmie, «Studi culturali», vol. 3, 2012). Il recente volume di Edward O. Wilson, il fondatore della sociobiologia, La conquista sociale della terra (Cortina), è destinato a aggiungere nuovo pepe a una vecchia (ma non logora) diatriba. Wilson ha rivisto, e non poco, le sue teorie degli anni Settanta. Al centro del processo evolutivo che ha portato all'Homo sapiens, l'entomologo americano pone oggi il concetto di «eusocialità». L'essere umano, al pari di api, formiche e termiti, ha «scoperto» nel tempo il vantaggio adattivo di comportamenti di solidarietà e di altruismo con gli altri membri del gruppo. Tuttavia, mentre negli insetti si registra una netta separazione tra la competizione individuale che oppone gli individui che si riproducono (le api regine, per esempio) e i comportamenti gregari e volti solo al gruppo di individui-robot che non possono riprodurre i loro geni (le api operaie), l'eusocialità umana è un processo che si sviluppa a più livelli. Nell'uomo convivono l'istinto egoistico di riproduzione individuale e l'istinto «altruistico» di riproduzione e successo del gruppo. Questa duplice selezione dà vita a forti tensioni in una specie, l'Homo sapiens, geneticamente ibrida e «chimerica» (è un'espressione dello stesso Wilson), dilaniata tra egoismo e condivisione. Si potrebbe pensare, a un primo sguardo, che Wilson abbia accolto le critiche che gli antropologi culturali, sulla scorta dei loro dati etnografici, opposero a metà degli anni Settanta all'idea della natura umana egoista e della «selezione di parentela» (la teoria secondo cui l'altruismo si spiega solo con la volontà di favorire la riproduzione di individui che hanno un corredo genetico simile). In realtà non è così. L'idea della doppia selezione nasconde (ma neppure troppo) una concezione insieme egoista e tribalista dell'essere umano. Per Wilson, «il tribalismo è un tratto umano fondamentale» e «la guerra è una maledizione ereditaria». L'uomo rinuncia all'egoismo individuale solo per massimizzare i vantaggi del proprio gruppo ai danni di altri. La storia dell'umanità è uno scontro ininterrotto tra tribù. Per argomentare le sue tesi, Wilson guarda agli insetti, ai primati, alla paleoantropologia, ma, significativamente, dedica poca e superficiale attenzione agli studi degli antropologi culturali. Perché questa «disattenzione»? Una spiegazione malevola è che nell'etnografia Wilson troverebbe fenomeni difficilmente compatibili con la sua teoria della selezione individuale e di gruppo. Come spiegare infatti tutto quel variegato insieme di scambi, collaborazioni, condivisioni e addirittura simbiosi che uniscono molte società umane? Il Wilson di oggi non nega il ruolo della cultura nella costruzione dell'essere umano: anzi, è stato uno dei fondatori della cosiddetta teoria della coevoluzione geni-cultura. Il problema però — e qui sta, secondo me, la chiave della protesta di Sahlins — è che questa sorta di sacro Graal che è la natura umana continua a essere per Wilson e molti altri studiosi del versante biologico un terreno profondo, indagabile unicamente con i metodi delle scienze «esatte». Ma vien da chiedersi: davvero si può definire la condizione umana senza riferimenti a tutti quei saperi e comportamenti appresi che si inscrivono sì nella mente del singolo interagendo con le sue predisposizioni innate, ma non entrano a far parte del suo corredo genetico? Davvero i dati a nostra disposizione ci dicono che fu la violenza e non la cooperazione e gli scambi tra individui, ma anche tra gruppi, la chiave del successo evolutivo? Al tramonto del post-modernismo, le sirene della verità scientifica tornano a farsi sentire, come ci ricorda in filosofia l'ontologia di Maurizio Ferraris (che non a caso ha recensito il libro di Wilson su «La Repubblica» con grande favore). In un clima scientifico in cui la verità sull'uomo sembra essere appannaggio dei laboratori genetici e delle tecnologie dei neuroscienziati, ha ancora senso chiedere a uno yanomamö, a un pigmeo o a un antropologo che si occupa delle loro culture che cosa è l'essere umano? Per Sahlins sì, ed è forse per questo che si è dimesso da un'Accademia per la quale le teorie di Chagnon giustificano a piene mani la collaborazione con gli eserciti. @AdrianoFavole _____________________________________________________ Il Sole24Ore 7 Apr. ’13 LA GUERRA DEI BREVETTI NANOTECH Con in gioco migliaia di miliardi di dollari, il nanomondo diventa il nuovo campo di battaglia. Sarà l'open source la soluzione? Francesca Cerati L'anno scorso l'ufficio brevetti degli Stati Uniti ha rilasciato 4000 "patent" nanotecnologici. Si tratta di un record, in netta crescita rispetto agli anni precedenti: 3439 nel 2011, 2770 nel 2010, 1449 nel 2009. Numeri che riferiti a un territorio immenso e ad altissimo contenuto scientifico come le nanotecnologie fanno riflettere. E fanno pensare che se da un lato siamo davanti a un'emozionante alba di innovazione tecnologica, dall'altro c'è il rischio che per la fretta di brevettare scoperte potenzialmente molto remunerative si ottenga l'esatto contrario, cioè si freni lo sviluppo e l'innovazione. Le controversie sulla brevettazione sono iniziate coi software, poi hanno coinvolto le biotecnologie e la genomica diventando via via argomento di editoriali, ma anche di procedimenti giudiziari. Ora, è la nanotecnologia a diventare il nuovo campo di battaglia sui brevetti. Joshua Pearce, della Michigan Technological University, in maniera esplicita sostiene in un editoriale su Nature la necessità di un approccio open source alla ricerca nanotech. La posta in gioco, sostiene, è la crescita di un settore che potrebbe generare migliaia di miliardi di dollari nel giro di pochi anni. Questa "corsa all'oro" – come la definisce Quentin Tannock, analista dell'Università di Cambridge – ha portato a una "frenesia da brevetto", soprattutto nel settore dei nantotubi di carbonio. Ma c'è anche chi sostiene che l'idea di impantanarsi nella palude dei brevetti sia un falso problema, perchè a spingere davvero il mercato è il successo della tecnologia e non l'assenza o meno di proprietà intellettuale. Eppure in Norvegia è successo che un ufficio di trasferimento tecnologico che aveva trovato il modo di introdurre gli acidi nucleici nelle cellule viventi con nanotubi di carbonio abbiano dovuto abbandonare il progetto perchè non è stata in grado di trovare un mezzo alternativo non protetto da brevetto. Per contro, il sito nanohub.org, istituito nel 2002 coi fondi del National science foundation (Nsf) fornisce programmi di simulazione basati su software open source per la ricerca sulle nanotecnologie e il suo contenuto è utilizzato da centinaia di università in tutto il mondo. In Germania, invece, il team Sxm dell'Università di Münster fornisce istuzioni gratuite per la costruzione di un microscopio a scansione a effetto tunnel. Insomma, là fuori – nel nanomondo – è una giungla, e come si diceva un grande business. Secondo un rapporto di Cientifica, i governi di tutto il mondo, nell'ultimo decennio, hanno investito più di 65 miliardi di dollari nel campo delle nantotecnologie. E il settore ha contribuito con oltre 250 miliardi di dollari all'economia globale nel 2009 e dovrebbe toccare secondo gli analisti di Lux Reasearch i 2400 miliardi di dollari nel 2015. Per uscire da questa palude, l'open source è davvero la soluzione? Lo abbiamo chiesto ai rappresentanti di quattro diversi mondi della ricerca: università, centro di ricerca, Pmi e multinazionale. «Da ricercatore – risponde Massimiliano Cavallini, della Scriba nanotec, spin off del Cnr – la modalità open source offre più possibilità anche se il paragone con il libero accesso del software non è fattibile perchè la ricerca in nanotecnologie richiede anche infrastrutture e fondi in quantità, senza i quali non è possibile sviluppare tecnologie». Guglielmo Lanzani, del Politecnico di Milano oltre a fare ricerca rappresenta anche l'area accademica: «il mio Dna è quello di comunicare il più in fretta possibile tutto ciò che viene scoperto, per me quindi il brevetto è un ostacolo, anche se capisco la volontà di difendere l'invenzione e l'inventore. Penso però che la ricerca di base sia pubblica e porre dei limiti a ciò che è finanziato da tutti per lo sfruttamento di pochi non è propriamente corretto. L'altro aspetto è che l'open innovation è un enorme e veloce strumento di sviluppo tecnologico, quindi sarebbe un bene avere meno controlli. Senza arrivare a zero, perché in questo caso vincerebbe il più forte». Per Roberto Giannantonio, a capo della ricerca e sviluppo della Seas, «occorre distinguere tra la ricerca fondamentale, che deve essere più ampia e diffusa possibile, e la ricerca applicata». Salvatore Majorana, direttore del Technology transfer dell'Iit di Genova «Forse dovremmo chiedere alle autorità di rivedere la logica con cui si accettano i claim. Bisogna evitare di brevettare l'uso di conoscenze di base, che sono molto ampie e "totipotenti" e brevettare solo prototipi e prodotti. Questo sarebbe più accettabile». _____________________________________________________ Il Sole24Ore 7 Apr. ’13 KEYNES, LA MEDICINA DEI MALI ESTREMI Caro professor Galimberti, alla luce di quanto ella scrive sulla rivalutazione di Keynes (il Sole Junior del 24 marzo 2013), mi permetto chiederle quale sia il suo autorevole giudizio circa le cause della drammatica situazione economico-finanziaria in cui ci trovammo nei primi anni '90, dopo due decenni nei quali sembra aver dominato un robusto sostegno - keynesiano? - alla domanda (welfare esteso, pensioni ai quarantenni, conquiste salariali, ecc.), con forte incremento del debito pubblico che ancora oggi ci schiaccia, e non certo una politica di stampo liberista (visto che all'epoca lo Stato fabbricava pure panettoni). Grazie della cortese risposta, e vive cordialità. Girolamo Caianiello Caro Caianiello, lei ha ragione a porsi la domanda: perché quello che lei chiama il «robusto sostegno alla domanda» degli anni Novanta - via maggior deficit pubblico - non ha portato a una sana crescita? La ragione sta nel fatto che gli anti-keynesiani avevano una parte di ragione. Allargare la spesa pubblica tanto per spendere di più non è una politica keynesiana (Keynes stesso disse, forse a questo proposito, «Io non sono un keynesiano»). Gli anti-keynesiani degli anni Settanta sostennero, correttamente, che una fede cieca nelle politiche keynesiane - un keynesismo male inteso - porterebbe a eccessivi debiti pubblici e inflazione. La conclusione? Le politiche keynesiane servono in situazioni estreme. Come nel caso della Grande depressione degli anni Trenta (l'evento che portò alla "rivoluzione keynesiana" in politica economica) o nella più recente Grande recessione. Se è vero che la coda velenosa delle politiche di contrasto alla spirale recessiva hanno portato a quelle crisi dei debiti sovrani in cui ci dibattiamo ancora oggi, è anche vero che non c'erano alternative alle politiche di sostegno alla domanda: queste hanno impedito alla Grande recessione di trasformarsi in Grande depressione. Quando si dà una medicina che combatte efficamente il male ma può avere effetti collaterali negativi, la via da percorrere non è quella di non dare la medicina ma di somministrarla e poi correggere gli effetti collaterali con altre misure. _____________________________________________________ L’Unione Sarda 2 Apr. ’13 IN CAMPO UNA NUOVA TERAPIA PER SCONFIGGERE IL MELANOMA ONCOLOGIA. Ottimi risultati con la combinata chemio e anticorpo monoclonale Due è meglio di uno, recitava una pubblicità di successo. Ora, anche nella lotta al melanoma, il tumore più pericoloso della pelle, quando si arriva alle fasi avanzate si può puntare anche sull'associazione di due terapie mediche. La combinazione di un anticorpo monoclonale, ipilimumab disponibile in Italia da pochi giorni, con la chemioterapia tradizionale a base di fotemustina riduce questo tumore in misura significativa nel 46,5 per cento dei pazienti. La sola fotemustina invece dà scarsi risultati e il dato si ferma al 10-15%. NIBIT La svolta nella lotta al melanoma è frutto di una ricerca guidata dal Nibit, il Network italiano per la bioterapia dei tumori, e pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet Oncology. «Il melanoma è un tumore della pelle particolarmente aggressivo che ogni anno nel nostro Paese provoca 7000 nuove diagnosi e 1500 decessi», spiega Michele Maio, presidente del Nibit e direttore dell'Immunoterapia oncologica del policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena-Istituto toscano tumori. «L'incidenza della malattia è in costante crescita e l'età di insorgenza si sta abbassando. Con le due terapie combinate in alcuni casi si è osservata una regressione completa del tumore, in altri la risposta è stata parziale oppure abbiamo registrato una stabilizzazione della malattia. I risultati sono così promettenti che, a gennaio 2013, abbiamo avviato una nuova sperimentazione di fase III, Nibit M2, promossa dalla Fondazione Nibit su 146 persone con melanoma avanzato e metastasi cerebrali che non hanno ricevuto precedenti trattamenti. Sono coinvolti 10 centri italiani e il lavoro terminerà nel 2015». RICERCA È la prima volta al mondo che viene avviata una ricerca di questo tipo, a conferma dell'eccellenza raggiunta dai ricercatori del nostro Paese. «Il melanoma, per le sue caratteristiche biologiche, è il candidato ideale per l'applicazione di questo approccio, che cambia i criteri di valutazione della risposta al trattamento», sottolinea Giorgio Parmiani, direttore dell'Unità di Immuno-bioterapia del melanoma e tumori solidi dell'Istituto scientifico Fondazione San Raffaele. «Nel melanoma che ha dato metastasi non si registravano progressi significativi da decenni. Ma oggi abbiamo a disposizione nuove armi». ABCDE Fondamentale è arrivare il prima possibile alla diagnosi, anche per sfruttare al meglio le opportunità che la terapia offre per vincere il nemico. Per questo occorre tenere presente l'acronimo Abcde (Asimmetria, bordi, colore, dimensione, evoluzione) utilizzato come criterio guida per la diagnosi del melanoma in stadio iniziale. Le prime cinque lettere dell'alfabeto corrispondono infatti a precisi segnali d'allarme che la pelle invia. Infatti i nei che presentano queste caratteristiche (Asimmetria, cioè metà del neo diversa dall'altro, bordi irregolari, colore variabile con sfumature scure, dimensione che cambia ed evoluzione con mutamenti di forma, dimensioni o spessore del neo) vanno subito fatti esaminare dallo specialista. (fe.me.) _____________________________________________________ Corriere della Sera 5 Apr. ’13 STAMINA, I DUBBI DEGLI ESPERTI VANNONI: «LA CURA È EFFICACE» Da un lato, c'è chi offre una speranza a tanti bambini con malattie rare, proponendo una cura di cellule staminali (il metodo Stamina) non ancora validata della ricerca scientifica. Dall'altro, chi tenta di spiegare le regole della sperimentazione clinica ufficiale e il loro significato, che è quello di garantire ai pazienti trattamenti nuovi, sicuri ed efficaci. Davide Vannoni, presidente di Stamina foundation (di mestiere fa il professore di psicologia all'Università di Udine e ha introdotto in Italia il metodo Stamina) e Marino Andolina (il medico che ha applicato la metodica a Trieste e Brescia) hanno dialogato ieri con Paolo Bianco specialista di staminali all'Università La Sapienza di Roma, Alessandro Nanni Costa, direttore del Centro nazionale trapianti e Francesca Pasinelli di Telethon, nella Sala Buzzati del Corriere della Sera, moderati da Luigi Ripamonti, responsabile del Corriere Salute. L'emotività e una buona capacità comunicativa da un lato, il rigore scientifico (e anche una certa, inevitabile freddezza legata ai metodi della ricerca moderna che si basa su protocolli, numeri e statistiche) dall'altro. Una situazione che riporta alla mente il caso Di Bella, il medico modenese che aveva mobilitato mezza Italia su un metodo anticancro che si è poi rivelato inefficace alle verifiche della ricerca scientifica. Dice Vannoni: «La nostra metodica è "in chiaro". In Rete si possono trovare studi clinici che ne dimostrano l'efficacia. E noi la stiamo applicando in ospedali pubblici» (Vannoni in realtà, attraverso il neurologo Leonardo Scarsella, proponeva questa cura in un ambulatorio privato di Torino nel 2009 e per questa sua attività è stato rinviato a giudizio, con alcuni medici, per associazione a delinquere ndr). Il pubblico della Sala Buzzati, fra cui ci sono persone in carrozzella e genitori di bambini malati, applaude. Replica Nanni Costa: «Dobbiamo essere pragmatici. Dobbiamo indagare quali sono gli effetti di questa cura nell'ambito di protocolli di ricerca e dobbiamo cominciare a capire, ma non troviamo le pubblicazioni di Vannoni. Forse i server non funzionano». Una disponibilità al dialogo, ma la situazione è complessa. Si parla di cure compassionevoli, ma in realtà queste ultime riguardano farmaci e terapie, già oggetto di sperimentazioni cliniche, che possono essere usate per malattie diverse da quelle della sperimentazione. Il metodo Stamina, però, non è mai stato oggetto di protocolli di ricerca e quindi non si dovrebbe configurare come cura compassionevole. Aggiunge Bianco: «Ogni sperimentazione clinica è sottoposta a vincoli normativi e dev'essere riproducibile. Non solo: sul metodo Stamina esistono perplessità circa la capacità delle cellule staminali mesenchimali (quelle utilizzate secondo questa metodica ndr) di trasformarsi in cellule del sistema nervoso centrale. Però siamo disposti, in dieci giorni, a esaminare i dati, se li avremo». E si chiede Pasinelli: «Ma perché non inserire i pazienti trattati in un protocollo di ricerca che permetta poi di confrontare i risultati e di offrire a tutti i malati, non solo italiani, un trattamento "certificato"?». Andolina invita le autorità sanitarie italiane a prendere visione delle cartelle cliniche dei pazienti trattati: «Nessuno finora ce le ha chieste» si lamenta. Del caso Stamina sentiremo ancora parlare se è vero che 11 mila persone hanno contattato la Stamina foundation nelle ultime quattro settimane. Adriana Bazzi abazzi@corriere.it _____________________________________________________ Corriere della Sera 3 Apr. ’13 MAPPA DEL CERVELLO CENTO MILIONI STANZIATI DA OBAMA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK — Quando lo scorso 12 febbraio, durante il discorso sullo Stato dell'Unione, Barack Obama menzionò il suo progetto di «sviluppare una nuova tecnologia che possa registrare alla velocità del pensiero l'attività elettrica delle singole cellule cerebrali», molti bollarono l'iniziativa come l'ennesima chimera di un presidente che, non più candidabile, non ha ormai più nulla da perdere. E invece ieri Obama ha mantenuto la promessa. Ripercorrendo la strada battuta anni fa dai genetisti artefici dello Human Genome Project, il presidente Usa ha annunciato il suo rivoluzionario progetto per mappare la mente umana. Obama ha già chiesto al Congresso di investire 100 milioni di dollari soltanto il prossimo anno e 3 miliardi per tutta la durata del piano decennale al fine di «esaminare il lavoro del cervello e tracciare una mappa della sua attività». L'obiettivo: trovare il modo per curare malattie quali l'Alzheimer, il morbo di Parkinson, l'autismo, l'epilessia, la schizofrenia, mettendo altresì a punto terapie per guarire gli individui colpiti dall'ictus e da altri traumi cerebrali. «La finalità di quest'iniziativa è migliorare la vita di miliardi di persone in tutto il mondo», ha spiegato Obama parlando di fronte a medici e scienziati riuniti alla Casa Bianca. «Come esseri umani possiamo identificare galassie ad anni luce di distanza e studiare particelle più piccole di un atomo», ha aggiunto, «ma ancora non abbiamo svelato il mistero del chilo e mezzo scarso di materia grigia che abbiamo fra le orecchie». Anticipato alcune settimane fa dal New York Times in prima pagina, l'ambizioso progetto è stato ribattezzato «Brain», acronimo di Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies, ovvero ricerche sul cervello tramite neuro-tecnologie innovative in evoluzione. Il progetto prevede una stretta collaborazione tra agenzie federali, università e fondazioni private che aiuteranno un team di neurologi e nano-scienziati nei loro sforzi per portare avanti la conoscenza dei miliardi di neuroni presenti nel nostro cervello, per capire meglio come funziona la percezione sensoriale umana e il nostro stato di coscienza. «È un annuncio spettacolare», ha commentato David Fitzpatrick, direttore scientifico del Max Planck Florida Institute for Neuroscience, «sono soldi spesi bene che in un futuro non lontano daranno immensi frutti». Alessandra Farkas @afarkasny _____________________________________________________ Corriere della Sera 3 Apr. ’13 «APOCALISSE DELL'ARIA» UN MILIONE DI CINESI UCCISI DALLO SMOG La quarta causa di morte prematura DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PECHINO — Un milione e duecentomila cinesi sono morti prematuramente nel 2010 per malattie collegate all'inquinamento dell'aria. Il numero è impressionante, come tutti quelli che vengono dal Paese che conta poco meno di un quinto della popolazione mondiale. Ma questi sono particolarmente gravi, perché rappresentano il 40 per cento dei 3,2 milioni di morti premature causate dallo smog nel mondo. La statistica è stata elaborata dalla University of Washington in collaborazione con l'Organizzazione mondiale per la sanità e presenta un'altra cifra apocalittica: quella dei 25 anni di vita in salute bruciati dalla cappa di aria malata che avvolge molte città della Cina. Lo studio è stato pubblicato per la prima volta a dicembre dalla rivista britannica The Lancet, che aveva fornito il numero complessivo dei decessi nel mondo. Ma gli autori adesso hanno deciso di sottolineare come i due Paesi più colpiti siano la Cina, con i suoi 1,2 milioni di vittime, e l'India con 620 mila morti premature: «Lo abbiamo fatto per richiamare l'attenzione dei leader di questi due grandi Paesi», ha detto al New York Times Robert O'Keefe, vicepresidente dello Health effects institute, che è venuto a Pechino a presentare il rapporto. I ricercatori hanno spiegato che il degrado ambientale in Cina è al quarto posto tra i fattori di rischio mortale dopo una dieta alimentare sbagliata, la pressione del sangue alta e il fumo di sigaretta. Nel mondo l'inquinamento è invece «solo» il settimo fattore di rischio. In realtà la nebbia gialla composta da emissioni industriali, combustione di carbone e gasolio per riscaldamento, gas di scarico delle auto, polveri messe in circolazione dalle miriadi di cantieri, è diventata un argomento di dibattito in Cina proprio nell'inverno appena finito. Per settimane, tra dicembre e febbraio, il cielo di Pechino e di molte altre città delle province centro-meridionali è stato offuscato. Si è scoperto che la causa è il Pm 2,5: particelle di inquinamento del diametro di 2,5 micron, le più dannose per i polmoni. L'Organizzazione mondiale per la sanità raccomanda di non vivere in ambienti che superino il livello 20 per metro cubo di aria e sostiene che quota 300 è estremamente pericolosa: Pechino ha trascorso un gennaio stabilmente sopra 500 e ha toccato 755 di Pm 2,5 il 12 gennaio. All'allarme per l'aria malata si è aggiunto quello per l'acqua: nel fiume che alimenta la rete idrica di Shanghai sono state trovate le carcasse di oltre 16 mila maiali. E quando la gente ha protestato, le autorità hanno risposto che non era il caso di allarmarsi, perché «lo stato dell'acqua non era peggiorato a causa dei suini in decomposizione». Poi è stata la volta della moria delle anatre: un migliaio sono state ripescate in un fiume del Sichuan. Senza che nessuno sapesse spiegare la causa della morte. Il problema dunque è diventato centrale per la nascente opinione pubblica cinese. Tanto da essere incluso nel piano quinquennale del governo. E addirittura, un segnale di grave inquietudine per l'inquinamento è venuto dall'Assemblea del Popolo, abituata a mettere un timbro su tutte le scelte del gruppo dirigente del partito: a marzo, dopo aver accordato il 99,8 per cento dei consensi alle nomine a presidente di Xi Jinping e a premier di Li Keqiang, i circa 3 mila deputati hanno espresso 850 no e 140 astensioni sui membri della commissione ambientale. Il premier Li Keqiang sembra sincero quando dice che «non dobbiamo più inseguire la crescita industriale a spese dell'ambiente, perché non è buono essere poveri in una natura meravigliosa, ma non è buono neanche essere ricchi in un ecosistema degradato. E in definitiva respiriamo tutti la stessa aria, poveri, ricchi e governanti». Ma alcuni milioni di cinesi saranno morti per l'inquinamento prima di sapere se Li avrà mantenuto l'impegno. Per esorcizzare la paura, sul web cinese circola una barzelletta: «Che vogliamo di più? Basta aprire un rubinetto e esce zuppa di maiale, ne apri un altro ed ecco il brodo d'anatra». Guido Santevecchi