RASSEGNA STAMPA 05/05/2013 MARIA CHIARA CARROZZA: COME CAMBIARE L'UNIVERSITÀ CHI E’ BEATRICE LORENZIN, IL NUOVO MINISTRO DELLA SALUTE DOTTORATO, CHANCE DA RECUPERARE VINCE CHI SI SPECIALIZZA LA RICETTA LINCOLN PER LA RICERCA ITALIANA MASTER & BACK, FINISCE L'INCUBO DEI BORSISTI SARDI METÀ DEGLI ATENEI A RISCHIO DEFAULT LA RICETTA LINCOLN PER LA RICERCA ITALIANA TEST INGRESSO: IL BONUS MATURITÀ ALLARMA LE SCUOLE TEST INGRESSO: GRADUATORIA UNICA PREMIA STUDENTI E ATENEI TEST INVALSI: SCIOPERO DEI SINDACATI: «PROVE DA RIVEDERE» TEST INVALSI: LA MERITOCRAZIA CHE AIUTA I NOSTRI FIGLI SAN RAFFAELE: IL MINISTRO CONGELA LA PROTESTA SAN RAFFAELE: LE «SIGILLE» E IL SENSO PERDUTO DELLA CARITÀ AUSTERITY: IL RAGAZZO CHE HA SCONFITTO L'AUSTERITÀ AUSTERITY:IL DEBITO RESTI LA SFIDA DEI GOVERNI AUSTERITY: LA FEDE NELL'AUSTERITY RENDE CIECHI SVIZZERA, LAUREE FACILI I PER I VIP I 500 TERMINALI CHE VENT'ANNI FA HANNO DATO VITA AL WEB DECRESCITA: SENZA LIMITE LE PRIGIONI PIENE DI PRESUNTI INNOCENTI LA REGIONE VUOLE LE TORRI DI SERGIO ZUNCHEDDU ========================================================= AOUCA: IL BLOCCO Q È UN CANTIERE APERTO AOUCA: MACCIOTTA CLINICA FATISCENTE ASL2: CAPPELLACCI «VIA PROVINCIA E ASL» ASL2: IL D.A. TIDORE SI DIMETTE ASL GALLURESE A RISCHIO ASL2: TEMUSSI AL POSTO DI TIDORE ASL8: GIORGIO TIDORE AL POSTO DI VINCENZOSERRA IL POPULISMO ANTIMEDICO LA CONCORRENZA FA BENE ALLA SANITÀ LE REGIONI NON SIANO DI OSTACOLO SANITA: STOP AL CONSUMISMO E ALL'ECCESSO DI TECNOLOGIA: SARDEGNA 2060 CON 480 MILA ABITANTI IN MENO MENO FIGLI E MEDICINE CONSUMATE CON ATTENZIONE DROGA, DATI CNR SUGLI ADOLESCENTI: LA SARDEGNA È AI VERTICI VALORIZZARE IL PRIVATO NEL WELFARE LA PROTESI D'ANCA DIVENTA ETERNA BASTA UN PRELIEVO DI SANGUE PER CURARE TUTTE LE MALATTIE UN ROBOT DENTRO L'ADDOME: È LA CHIRURGIA MINIMALISTA L'ANTICORPO ANTICOLESTEROLO VERONESI: NON CREDO AGLI SCIENZIATI NEUTRALI FARMACI: L'INGANNO DEI TEST TRUCCATI NOCI PER LA SALUTE DEL CUORE, E NON SOLO CACCOLE: MANGIARSELE FA BENE ALLA SALUTE QUELLA «DATA DI SCADENZA» SCRITTA NEL NOSTRO CERVELLO LA FLORA INTESTINALE E’ RESPONSABILE DI INFARTI E ICTUS UN TATUAGGIO SUL CERVELLO PER CONTROLLARE PROTESI ARTIFICIALI SANA ALIMENTAZIONE, I SARDI SONO PRIMI DENTI SANI FIN DA BAMBINI CURARE I DENTI EVITA MALATTIE CARDIOVASCOLARI UNA NANOSPUGNA PER RIPULIRE IL SANGUE L’INTELLIGENZA UMANA DIPENDE DALLA ASIMMETRIA DEL CERVELLO ========================================================= _____________________________________________________________ Le Scienze 30 Apr. ’13 MARIA CHIARA CARROZZA: COME CAMBIARE L'UNIVERSITÀ "Una riforma per il reclutamento di docenti e ricercatori che si basi sul concetto di responsabilità" è il primo provvedimento citato da Maria Chiara Carrozza due anni fa, rispondendo alla nostra domanda su cosa avrebbe fatto se fosse stata ministro. Ecco il testo integrale dell'intervista, pubblicata su "Le Scienze" nel settembre 2010 di Giovanni Spataro politiche della ricercaenti di ricerca (Versione integrale dell'intervista pubblicata su "Le Scienze", n.505, settembre 2010) L'università italiana deve cambiare e aprirsi al mondo, perché il nostro sistema accademico non è più sostenibile ed è destinato al collasso. Questa, in estrema sintesi, l'analisi di Maria Chiara Carrozza, direttore della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, istituita nel 1987, probabilmente una delle poche realtà italiane in grado tenere il passo con le sfide della globalizzazione dei cervelli. La scuola offre corsi di formazione di eccellenza per studenti universitari, laureati e professionisti, e l'ammissione è regolata da concorsi pubblici. Oltre alla formazione, il Sant'Anna ha sviluppato un importante settore di ricerca, che è autofinanziato per il 92 per cento e fino a oggi ha prodotto una cinquantina di brevetti, più un'altra ottantina per conto di aziende, e 27 spin-off. Inoltre la scuola ha stipulato accordi di collaborazione con università e centri di ricerca di 26 paesi. Dunque è un punto di osservazione interessante della realtà accademica italiana. Come fate ad autofinanziare il 92 per cento della ricerca? Questa prestazione è frutto di una strategia. Una decina di anni fa abbiamo investito sia per i docenti sia per la ricerca soprattutto in settori di frontiera e avanzati, per esempio robotica e telecomunicazioni. E così oggi, fatto 100 il fondo di finanziamento ordinario ricevuto dallo Stato, riusciamo a prendere 80 di fondi sia pubblici sia privati finalizzati alla ricerca e all'alta formazione. Una delle più brillanti prestazioni del genere in Italia, se non la migliore. Oltre il 90 per cento di questi fondi per ricerca e alta formazione arriva da agenzie internazionali, solo l'8 per cento è erogato dal Ministero. In questo modo ogni ricercatore della scuola dispone del più alto finanziamento pro capite in Italia. E il segreto dei numerosi brevetti? È frutto sia di una politica di cofinanziamento ai brevetti dei ricercatori del Sant'Anna sia di una politica che facilita la cessione di licenze agli spin-off della scuola. I nostri ricercatori che sono soci degli spin-off possono chiedere contratti di sfruttamento a condizioni privilegiate. I brevetti sono della scuola, ma le licenze di sfruttamento permettono di guadagnare in modo diretto. In altre parole abbiamo deciso non solo di depositare brevetti, ma anche che i principali partner nello sfruttamento dei brevetti fossero gli spin-off dei nostri ricercatori. Alla luce della vostra esperienza, ha senso la formazione di eccellenza in Italia? Sì, e abbiamo investito proprio per coniugare la formazione degli studenti con la ricerca. La chiave è esporre i nostri allievi fin dall'inizio del percorso formativo alla possibilità di partecipare a progetti di ricerca internazionali, esperienze all'estero, rapporti con imprese e altre istituzioni. Inoltre, per noi la formazione di eccellenza ha senso perché come Sant'Anna abbiamo contribuito a formare l'élite culturale dell'Italia. Un paese non può fare a meno di un'élite del genere, e noi ci assumiamo questa responsabilità, certo non siamo gli unici. E non è un concetto retorico, è una funzione di servitori dello Stato. Non è retorico, ma siamo in un paese in cui la meritocrazia lascia a desiderare... È vero, in Italia la meritocrazia lascia a desiderare, però dobbiamo formare persone che confidano nelle loro capacità e che, se sono brave, alla fine emergeranno. Come succede per i nostri allievi, che non restano disoccupati, visto che abbiamo tassi di occupazione del 100 per cento. Sono loro che devono cambiare l'ambiente in cui si trovano. Questi discorsi sulla meritocrazia ce li siamo fatti, ora dobbiamo cambiare questo paese. Noi cerchiamo di dare agli allievi anche un'etica professionale proprio per esportare questi concetti. Al nostro concorso di ammissione non conosciamo nome, cognome e voto di maturità dei candidati. Non guardiamo nulla della storia passata di un candidato, solo le prove. Se fosse ministro quali provvedimenti riterrebbe necessari? Di sicuro una riforma per il reclutamento di docenti e ricercatori che si basi sul concetto di responsabilità. Un ente deve prendersi la responsabilità della qualità e della capacità delle persone che assume. Ovviamente chi chiama deve rendere trasparente il percorso e la scelta di chi ha chiamato. Basta con queste regole assurde che prevedono il sorteggio dei commissari. Introdurre troppi livelli significa deresponsabilizzare chi sceglie. Inoltre farei chiamate internazionali basate sul principio della trasparenza, abolirei tantissime regole inutili che ci appesantiscono e aumentano invece di diminuire. Poi c'è un altro argomento che ritengo fondamentale: investire nei giovani ricercatori. Ormai non solo abbiamo un invecchiamento della classe docente, ma abbiamo un invecchiamento generale del sistema. Non c'è ricambio generazionale nei posti di governo e di responsabilità. È anche vero che lo stesso mondo accademico chiede cambiamento, ma poi fa resistenza. È vero, c'è una certa resistenza, ma ormai non può tenere più. Il sistema si sta sgretolando, non possiamo più resistere con queste regole assurde, che non possiamo nemmeno tradurre in altre lingue e che uno straniero non può capire. Vinceremo la battaglia del rinnovamento quando l'Italia sarà un paese veramente aperto ed europeo, e ci sarà circolazione di persone non solo in uscita, ma anche in entrata. Tra l'altro valuterei la qualità della didattica e analizzerei bene l'offerta formativa universitaria; è evidente che c'è qualcosa che non va. Avete molti rapporti internazionali, riuscite a tenere il passo della formazione d'eccellenza? È difficile, e il problema principale sono le regole che in Italia hanno ormai sommerso il mondo universitario. Mi spiego: per ottenere un progetto internazionale, in pochi mesi dobbiamo fare le selezioni e mettere a lavorare le persone. In Italia questo percorso comporta per esempio il passaggio dalla Corte di Conti per un suo controllo preventivo. Per fare un contratto anche semplice abbiamo bisogno di sei mesi di preavviso. Sono regole assurde, pensate per università sull'orlo del fallimento. Per andare incontro a pochi atenei in difficoltà finanziarie impediamo agli altri, anche a quelli che funzionano bene, di compiere la propria missione istituzionale. Come vede i paesi emergenti che stanno investendo molto sul capitale umano, per esempio la Cina? Sono appena tornata dalla Cina, dove abbiamo fatto accordi importanti con le università e dove si incontrano molti colleghi, anche italiani che in questo momento di difficoltà vanno all'estero. La Cina sta diventando un porto di mare dove le migliori intelligenze di tanti paesi in crisi emigrano ed esportano le proprie capacità. Questo darà un ulteriore slancio ai loro atenei, che si ritroveranno docenti di livello elevato scelti senza concorsi, ma con selezioni internazionali. I cinesi si pongono con umiltà, un atteggiamento vincente per studiare i vari modelli e prendere il meglio dalle esperienze internazionali. Sarà molto difficile tenere il loro passo. _____________________________________________________________ Sanità News 30 Apr. ’13 CHI E’ BEATRICE LORENZIN, IL NUOVO MINISTRO DELLA SALUTE Con Beatrice Lorenzin torna una donna al timone del ministero della Salute, dopo Tina Anselmi, Maria Pia Garavaglia, Rosy Bindi e Livia Turco. Romana classe 1971 è iscritta a VeDrò, il think tank di Enrico Letta ed è spesso ospite nei salotti televisivi, che l’hanno fatta conoscere al grande pubblico. Ecco un suo breve profilo: entra nel movimento giovanile di Forza Italia nel 1996 e l’anno successivo diventa consigliere del XIII municipio. Scala rapidamente gli incarichi nel partito: nel 1999 diventa coordinatore regionale del movimento giovanile, nel 2001 è l’unica donna eletta nelle fila di Forza Italia al consiglio comunale di Roma e nel 2004 è a capo della segreteria di Paolo Bonaiuti, portavoce della Presidenza del Consiglio. Nel 2005 è coordinatrice regionale di Forza Italia e l’anno successivo è promossa coordinatore nazionale dei giovani del partito. Nel 2008 viene eletta alla Camera dei Deputati, facendosi notare per la verve battagliera che mette in mostra spesso nei dibattiti televisivi. Nel 2013 viene candidata dal Pdl alla Presidenza della Regione Lazio, ma in un secondo momento il centrodestra si accorda con Francesco Storace (avvantaggiato nei sondaggi) e Lorenzin si ritira in buon’ordine e torna in Parlamento. Sulla fecondazione eterologa si' e' espressa piu' volte per 'non cambiare la legge 40'. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Apr. ’13 DOTTORATO, CHANCE DA RECUPERARE Con il Dm in arrivo più collaborazione tra atenei e con le imprese Dario Braga Il decreto sul dottorato di ricerca (Dm 94/2013), di prossima pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, è stato modificato mille volte prima di arrivare al testo definitivo. Una vera tela di Penelope fatta e disfatta sotto la pressione di lobby e di interessi divergenti. Non deve sorprendere: il dottorato di ricerca ha quasi trent'anni e ancora questo Paese non sa bene cosa farsene. Il modo in cui il nostro sistema ha fatto uso dello strumento del dottorato fin dalla sua implementazione (Dpr 382/1982) dovrebbe essere oggetto di studio politico-antropologico visto come l'Italia, Paese a economia avanzata, ha con leggerezza rinunciato sul nascere a una delle maggiori potenzialità di sviluppo e di crescita per il proprio sistema produttivo e culturale. L'errore iniziale? Fare le pentole e non fare i coperchi. Senza strategie per gli sbocchi professionali e senza misure di accompagnamento per l'inserimento nel sistema produttivo o nel pubblico impiego, si è fatto sì che l'accademia percepisse il dottorato più come anticamera alla carriera universitaria che come un modo per preparare giovani a concepire e condurre autonomamente progetti di ricerca. Una sorta di surrettizio periodo di prova che si è trasformato rapidamente in "status symbol" di discipline universitarie, senza ragionamenti sugli sbocchi professionali. Il dottorato è diventato risorsa da spartire, al pari dei fondi per la ricerca o degli assegnisti di ricerca. Il solito sistema italiano. Tutto sbagliato? Ovviamente no: in moltissime università il dottorato ha funzionato ottimamente formando alla ricerca tanti dei nostri migliori studiosi e scienziati (salvo poi regalarne molti ad altri Paesi, siamo un Paese generoso, no?). Nel resto del mondo il dottorato è tuttora il paradigma della ricerca universitaria: i migliori giovani cercano i migliori scienziati e studiosi con cui formarsi per iniziare così la loro gara (a ostacoli) nel mondo della ricerca. I migliori scienziati e studiosi cercano i giovani migliori per affidare loro la prosecuzione delle ricerche di cui sono stati iniziatori o per aprire nuove strade. È nel dottorato che si incrociano l'esperienza e la disponibilità di risorse dei maestri, con l'energia, l'entusiasmo e la percezione delle nuove frontiere e delle nuove sfide dei più giovani. Il "mix" produce innovazione, pubblicazioni, idee, visibilità scientifica, internazionalizzazione e genera curriculum vitae ed esperienze. Un buon dottorato è "win win": produce avanzamento del sapere e nuove scoperte e lancia professionalmente il giovane ricercatore. Nei Paesi avanzati il sistema produttivo lo ha capito da tempo: per un'impresa immettere in Ricerca & sviluppo "gente con il PhD" vuol dire inserire personale che per tre anni ha fatto ricerca, che si è posto un obiettivo, ha studiato le fonti, verificato cosa fanno gli altri, si è dotato degli strumenti necessari e ha imparato a correggere il percorso mentre procedeva. Spesso non è necessario che sia uno scienziato o un tecnologo. In molti contesti può essere utile portare una visione fondata su approcci culturali alternativi: la cosa importante è saper costruire il processo innovativo e di ricerca in primo luogo nella propria testa. Che fare? Oggi siamo in grado di fare i coperchi. Se vogliamo recuperare il terreno perso e offrire maggiori opportunità al sistema Paese, l'Università deve ragionare sulla offerta formativa di terzo livello, ridurre l'età di fine studi (3+2+3= 8, non 10 o 12) e operarsi per accrescere la visibilità del dottorato al fine di far comprendere l'utilità sociale delle ricerche che vengono portate avanti nei suoi laboratori e nelle sue biblioteche. Deve anche integrare la formazione dei dottori di ricerca con elementi trasversali (comunicazione, lingue, struttura d'impresa, proprietà intellettuale eccetera) che consentano loro di dialogare con il mondo del lavoro. Meglio ancora se riesce anche a metterli in condizione di operare un po' fianco a fianco scambiando conoscenze vuoi che siano matematici, chimici, psicologi, storici, o ingegneri, biologi, o filosofi... Oggi occorre contaminazione. Le nuove idee spesso nascono all'incrocio delle discipline. E le imprese? C'è coscienza della estrema necessità di un'accelerazione. Questa accelerazione può avvenire investendo sui ricercatori oppure convergendo su centri di ricerca industriale e parchi e reti tecnologiche e sociali e culturali dove immettere ricercatori e studiosi "freschi". Il Dm sul dottorato ha tanti limiti ma consente, inter alia, attività dottorale per sviluppare progetti congiunti tra università e università, tra università e centri di ricerca, tra università e imprese. Lo strumento dell'alto apprendistato adottato in diverse regioni può agire da facilitatore. È un'ottima occasione. Bisogna superare prevenzioni e persino qualche persistente barriera ideologica. Università e mondo produttivo ed enti pubblici e privati possono, attraverso il dottorato di ricerca, sviluppare da subito in Italia una knowledge innovation community che ci consenta di rimanere competitivi e di offrire nuove opportunità professionali ai nostri giovani. Prorettore alla ricerca dell'Università di Bologna _____________________________________________________________ La Stampa 1 Mag. ’13 VINCE CHI SI SPECIALIZZA IL mercato cerca tecnici Aziende a caccia di competenza: laurea o diploma, l'essenziale è studiare WALTER PASSERIN1 Da qui la necessità di strategie formative diverse. Nelle fabbriche dei diplomati crescono i tecnici, che sul breve periodo vede più premiati i diplomati dei laureati. Se passiamo dal breve al medio e lungo termine i diplomati perdono la partita nei confronti dei laureati: sono meno occupati, fermi nelle progressioni di carriera, con stipendi più bassi. A dispetto poi di chi dice che in Italia ci sono troppi laureati e troppi disoccupati con laurea, le classifiche a tre-cinque anni dal titolo sono illuminanti. In attesa di nuove politiche di formazione, orientamento e lavoro, quali consigli dare ai giovani perché si orientino nella giungla delle informazioni? L'ultima ricerca Unioncamere rivela che un diplomato su due non è idoneo al lavoro e che un tecnico su quattro risulta introvabile. I titoli più ricercati ma di difficile reperibilità sono: il termoidraulico, i diplomati tecnici nell'abbigliamento e moda e gli elettrotecnici che, uniti a meccanici ed elettronici, compongono la richiesta di meccatronici difficili da trovare. L'Osservatorio nazionale dei cento distretti italiani, che raccolgono imprese piccole e medie che esportano e soffrono meno la crisi, rivela la carenza di profili professionali: i candidati inadeguati sono il 63%. La soluzione sta nell'offerta formativa post- diploma. Oggi sono quasi un centinaio gli Its (Istituti tecnici superiori): crearne di più permetterebbe l'adeguamento di molti diplomati grazie a un super-diploma sul modello vincente della Germania (Fachhochschule), un sistema di educazione terziaria professionale, con la partecipazione di imprese e territori. I settori vanno dalla mobilità sostenibile al green, dalle professioni digitali alle professioni tecniche di moda, design, calzature, alla meccanica e alle biotecnologie. Insomma, dopo il diploma, titolo minimo obbligatorio, che dovrà arrivare a quota 85% dei diciannovenni, non c'è solo l'università, ma anche altre opportunità di formazione, diverse e sconosciute, che vengono ingiustamente assimilate ai corsi professionali delle regioni, vero buco nero e idrovore di fondi che dovranno essere innovati e meglio gestiti, se ci sta a cuore il futuro dei giovani. Il calo di immatricolazioni all'università è però un campanello d'allarme che deve fare riflettere. La diatriba va sciolta subito: non è vero, come ci raccontano i dati di Alma Laurea su oltre 400mi1a laureati, che ci sono troppi laureati. Oggi, solo il 30% dei diciannovenni si iscrive all'università. L'Italia è un technogical follower e non una protagonista, ma deve aumentare il proprio capitale umano, di conoscenze e competenze. L'elevazione della soglia educazionale del Paese richiede un aumento del numero sia dei diplomati che dei laureati. Tra gli occupati solo i118% ha la laurea, contro il 30% della media Ue e l'obiettivo del 40% da raggiungere entro il 2020. Il problema non è se laurearsi, ma quali lauree scegliere. L'occupazione dei laureati vede premiati i corsi di laurea in medicina (comprese le lauree sanitarie, triennali e quinquennali, che creano specialisti in diversi campi, dalla logopedia alla dietologia, dalle scienze infermieristiche alle professioni riabilitative), in economia aziendale e statistica e nelle ingegnerie, che superano il 90% di occupazione. Il futuro sarà basato su eccellenze e competenze. E non solo sul lavoro dipendente, ma su quello autonomo e indipendente. Aiutiamo i giovani a costruirlo e a inventarlo. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Mag. ’13 LA RICETTA LINCOLN PER LA RICERCA ITALIANA di GIUSEPPE REMUZZI Negli Stati Uniti un dollaro investito nei laboratori può fruttarne 2,21 in dodici mesi E gli studi sul genoma hanno creato quasi 4 milioni di posti di lavoro dal '98 al 2010 Centocinquant'anni fa, il 22 aprile 1863, si tenne la prima seduta dell'Accademia nazionale delle Scienze. L'anno prima, in piena guerra civile, il presidente Lincoln aveva firmato il Morrill Act, un decreto che avrebbe proiettato l'America verso un futuro di prosperità. Quel decreto metteva le basi perché i giovani di talento potessero accedere all'educazione avanzata e promuoveva la ricerca nel campo delle scienze e della tecnologia. È ancora Lincoln a chiedere al Congresso di creare l'Accademia delle Scienze. Qualcuno gli domandò perché, e lui: «Per dare un futuro alla nazione». Non si può dire che non avesse visto giusto e il primo a trarre vantaggio da quell'Accademia fu proprio il governo, che ottenne così la possibilità di consultare gli scienziati prima di decidere. L'Accademia era privata e non profit, indipendente e non soggetta a nessun controllo da parte dell'esecutivo («è raro — scrive su "Science" Ralph Cicerone — che un governo abbia il coraggio di creare e rispettare un'agenzia indipendente»: davvero raro). Veniamo a noi, adesso. Lo stesso giorno, il 22 aprile 1863, una rappresentanza di operai italiani accompagnati da Tito Menichetti visita l'Esposizione di Londra; volevano capire le ragioni del successo dell'economia industriale inglese e stabilire cosa si sarebbe potuto fare da noi per raggiungere il livello degli inglesi. Menichetti, che era deputato al Parlamento, scrive così al ministro dell'Industria: «Nel Regno Unito l'università ha più attenzione per la scienza che da noi, la ricerca è finanziata molto più che da noi, le donne sono considerate una risorsa, lo Stato paga le imprese in tempi stabiliti e la gente rispetta le leggi». Chissà se qualcuno l'avrà letto quel rapporto (due pagine fitte fitte di «Gazzetta Ufficiale») che analizza in modo molto sofisticato le differenze tra la via inglese all'economia industriale e la nostra. Intanto negli Usa si va avanti sulla strada tracciata da Lincoln. L'Accademia delle Scienze ancora oggi collabora con quella dell'Ingegneria e quella della Medicina, e il governo ha istituito il National Research Council perché i suoi rappresentanti si incontrino con quelli di queste accademie in modo che le decisioni dell'esecutivo tengano conto delle conoscenze disponibili. «La scienza oggi più che mai è essenziale alla prosperità, alla salute e al benessere del nostro popolo», diceva il presidente Barack Obama due anni fa parlando all'Accademia delle Scienze, mentre Francis Collins aggiungeva che ogni dollaro speso in ricerca da parte dei National Institute of Health ne genera 2,21 in dodici mesi. Ed è lo stesso in Gran Bretagna, Svezia, Canada e Australia, che per combattere la recessione hanno aumentato gli investimenti in ricerca. In Gran Bretagna è stato calcolato che ogni sterlina che lo Stato investe in ricerca biomedica rende 30 penny all'anno all'economia del Paese, per sempre. La Germania, che due anni fa ha tagliato il bilancio federale di 80 miliardi, ha aumentato però gli investimenti in ricerca del 15% e ha investito soprattutto in ricerca biomedica. Perché? Forse sulla scia di un dato sorprendente, quello sul genoma umano: negli Stati Uniti per quel progetto si sono investiti 3,8 miliardi di dollari, il ritorno per l'economia del Paese è stato di 800 miliardi in 13 anni, cioè un dollaro speso ne rende 140; solo nel 2010 quel progetto ha consentito di creare 310 mila posti di lavoro (e dal 1998 al 2010 i posti di lavoro in più sono stati 3 milioni e 800 mila). Sono dati impressionanti. E incontrovertibili? Quasi. Aver trovato che il litio cura la depressione fa risparmiare solo negli Stati Uniti 9 miliardi di dollari all'anno; prevenire le fratture della menopausa fa risparmiare 333 milioni di dollari; il vaccino per la poliomielite è costato di più di ricerca e costi di distribuzione di quanto non abbia fatto risparmiare al sistema sanitario, ma se si considerano le ore di lavoro non perse da chi non si è ammalato il conto è di nuovo in attivo. Chi è critico sul ritorno economico degli investimenti in ricerca dice che i dati non sarebbero così solidi: anche perché per la ricerca sul «ritorno economico dell'investire in ricerca» non c'è attenzione né ci sono mai stati finanziamenti adeguati. Ecco allora che Obama nel 2010 lancia «Star Metrics», chiedendo agli scienziati di aiutarlo a capire cosa sia tornato indietro all'economia americana da tutto quello che hanno investito in ricerca negli ultimi anni. Loro — gli scienziati — preparano un rapporto di 600 pagine. Sembra fuori discussione che gran parte della crescita del Paese dipenda dall'aver investito in ricerca: quello che non è chiaro però dal rapporto della commissione è se i risultati dipendano dalla ricerca finanziata con soldi pubblici o se sono i consumatori (quelli che comperano iPhone e iPad, per intenderci) a stimolare l'innovazione. E c'è un altro problema, quello dei costi indiretti della ricerca. Facciamo un esempio. Le cure di oggi mantengono in vita grandi anziani che solo qualche anno fa sarebbero morti; è certamente un risultato della ricerca medica e non c'è dubbio che sia una buona cosa, ma il mantenere in vita queste persone costa. Nel suo libro What price better health? («Star meglio ma a che prezzo?»), Daniel Callahan stima che «il 30% di quanto si spende per la salute negli Usa serve per gli ultimi 6 mesi di vita della gente. È giusto?». E non basta: quanto più un Paese riesce a finanziare l'innovazione tanti più giovani di talento si dedicheranno alla ricerca invece che ad attività produttive, ma il rapporto beneficio-costo di quest'operazione non è mai stato analizzato a fondo. Non ci sono abbastanza studi, insomma. Queste considerazioni non fermeranno certo la ricerca: il 10 aprile scorso Obama ha annunciato che per il 2014 ci saranno 143 miliardi di dollari per la ricerca, sono davvero tanti. La novità è che adesso valuteranno (in un modo molto più sofisticato di quanto si sia fatto finora) quale sia il ritorno degli investimenti in ricerca sia in termini di benefici che di nuove spese per la società. E noi? Da noi il problema non è vedere qual è il ritorno economico di quanto si spende: è far partire una politica della ricerca, cominciando da qualche parte. Qualcuno potrebbe obiettare che è un momento difficile per noi, forse il più difficile dal dopoguerra, e che non è tempo di pensare alla ricerca. Può darsi, ma Lincoln lo fece in piena guerra civile. Del resto l'Italia senza materie prime e con un costo del lavoro più alto di tutti non può che affidarsi alla ricerca se vuole uscire dalla crisi. Peccato che dai tempi della relazione che l'onorevole Menichetti aveva fatto al «Signor ministro d'Agricoltura, Industria e Commercio», il 22 aprile 1863, di passi avanti se ne siano fatti davvero pochi. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 Mag. ’13 CROSSROADS: LA SCIENZA CONDIVISA CREA VALORE PER TUTTI Nel Regno Unito, da quest'anno, i paper scientifici con i risultati delle ricerche che sono state finanziate con denaro pubblico devono essere pubblicate con strumenti che le rendano accessibili gratuitamente. Gli Stati Uniti sembrano avviati a decidere in modo analogo. E l'Europa va nella stessa direzione sotto la guida del Commissario per la ricerca Máire Geoghegan-Quinn. Il senso di queste innovazioni normative è chiaro: i finanziamenti pubblici alla generazione di nuova conoscenza devono andare a vantaggio del pubblico. Come dimostra un'inchiesta dell'"Economist", si vuole correggere una situazione in cui, al contrario, l'accesso alle pubblicazioni scientifiche è limitato dal pagamento prezzi elevati, che garantiscono i margini di profitto vantati dagli editori del settore, come la Elsevier, leader del mercato, che ha margini del 38% su un fatturato da 3,2 miliardi di dollari. Un margine del 36% è messo a segno dalla seconda casa editrice del settore. La concorrenza di piattaforme alternative che garantiscono accesso aperto alle pubblicazioni scientifiche, come PLoS, e il cambiamento delle norme di cui si è detto stanno spingendo questi editori ad aprire delle sussidiarie che offrono a loro volta un accesso gratuito ai paper di ricerca. La conoscenza scientifica, come la conoscenza tout court, è ormai la fonte principale per la generazione di valore nelle economie post- industriali. La manifattura resta fondamentale per la tenuta sociale delle economie industrializzate, ma il valore si concentra sull'immateriale – la conoscenza, l'immagine, l'informazione, la ricerca, il design – che dà significato ai prodotti. E se il pubblico finanzia la ricerca, il pubblico deve poter accedere ai suoi risultati. Perché siano a disposizione di tutti coloro che riescono a pensare a un modo per valorizzarli. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 3 Mag. ’13 MASTER & BACK, FINISCE L'INCUBO DEI BORSISTI SARDI LAVORO. Contu firma la delibera Sono rimasti sulle spine per quasi due mesi, in attesa che la procedura si sbloccasse, con il timore di perdere delle opportunità lavorative. Ieri, i giovani sardi che hanno partecipato al bando integrativo 2010-2011, per i percorsi di rientro del progetto Master and Back, hanno tirato un sospiro di sollievo. «La delibera è stata firmata e messa agli atti. Martedì prossimo», ha confermato l'assessore regionale del Lavoro, Mariano Contu, «sarà portata nella riunione di Giunta per l'approvazione». La notizia è stata accolta con soddisfazione dai borsisti. «Appena la Giunta licenzierà la delibera», ha assicurato il direttore dell'Agenzia del Lavoro, Stefano Tunis, «procederemo alla pubblicazione dei nomi dei beneficiari e all'invio delle lettere». Tra loro ci sono disoccupati, giovani che si trovano all'estero e altri che, prima decidere di lasciare la Sardegna, erano in attesa di risposte. IL BANDO Il bando prevedeva un finanziamento iniziale di 9 milioni di euro, relativi al programma operativo del Fondo sociale europeo 2007-2013, ed era stato attivato dalla Regione nel giugno 2011. I fondi, secondo i rappresentanti del comitato Master and Back, si erano però rivelati insufficienti e la Giunta aveva stabilito di raddoppiarli, con un ulteriore stanziamento da 9 milioni di euro, con risorse regionali. Successivamente, era stato deciso di destinare ai percorsi di rientro altri 18 milioni di euro. «Siamo felicissimi che tutto si sia risolto per il meglio. La settimana scorsa», ha chiarito Silvana Vacca, portavoce del comitato «abbiamo fatto un po' di pressing perché eravamo preoccupati. Le aziende continuavano a chiedere informazioni sull'erogazione dei fondi. Avevamo paura che con l'allungamento dei tempi burocratici potessero sfumare occasioni di lavoro per noi fondamentali». _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 Mag. ’13 METÀ DEGLI ATENEI A RISCHIO DEFAULT Università. I rettori incontreranno il neoministro Carrozza a fine maggio - Mancini (Crui): servono risposte urgenti Inviato alla Corte dei Conti il decreto con i tagli da 300 milioni per il 2013 Per molte realtà accademiche i soldi erogati quest'anno non saranno sufficienti nemmeno a coprire gli stipendi del personale Marzio Bartoloni La scure sugli atenei è pronta a calare. Con l'effetto di condannare quasi metà delle università, almeno trenta, al rischio default. L'ex ministro dell'Università Profumo, prima di lasciare il dicastero di viale Trastevere ha infatti inviato alla Corte dei conti il decreto con i finanziamenti ordinari per il 2013 (il Ffo) certificando, nero su bianco, il taglio da 300 milioni sancito dalla legge di stabilità. Per gli atenei quest'anno ci saranno in tutto 6,694 miliardi (tra l'altro non tutti utilizzabili per le spese di funzionamento), il 4,9% in meno rispetto all'anno scorso e quasi il 20% in meno rispetto al 2009: per una trentina di atenei, secondo i rettori, i soldi pubblici non saranno sufficienti a coprire gli stipendi come aveva previsto lo stesso Profumo, che per primo aveva paventato il fantasma del dissesto. A fine 2012 avevano speso per costi fissi 6,719 miliardi, poco più del Ffo del 2013. Nell'anno del debutto della nuova abilitazione nazionale alla docenza, il nuovo sistema di reclutamento introdotto dalla Gelmini, sarà dunque difficile per molte università assumere: «Ci sono tante aspettative che resteranno deluse se non si interverrà presto», spiega Marco Mancini, presidente della Conferenza dei rettori (la Crui), che al nuovo Governo lancia un appello: «Da Nord a Sud tanti atenei sono in ginocchio, le università hanno bisogno di recuperare quel taglio di 300 milioni, oltre che ad avere risposte sullo sblocco del turn over e sui fondi al diritto allo studio necessari per bloccare la fuga degli studenti». Una prima occasione per parlarne con il nuovo ministro Maria Chiara Carrozza sarà alla prossima assemblea della Crui, a fine maggio: «Sono grato al ministro che ha accolto il nostro invito e da ex rettore sono sicuro che conosce molto bene questi problemi», aggiunge Mancini. Oltre al recupero del taglio, sul tavolo c'è soprattutto il nodo delle assunzioni che per molti atenei sarà una chimera visto che tanti rischiano di superare la soglia dell'80% tra entrate stabili e spese di personale, a cui si aggiunge l'indice di indebitamento. Soglia che limita al lumicino il turn over di ricercatori e docenti. Questi ultimi – come ha recentemente segnalato anche il Cun, il consiglio universitario – sono crollati di 10mila unità (oltre il 20%) in 6 anni. L'anno scorso erano una ventina gli atenei a superare la soglia dell'80%. Tra questi Foggia, Cassino e la seconda università di Napoli e Sassari. La situazione nel 2013, con il taglio ai fondi, non potrà che peggiorare. Ma tra le emergenze c'è anche quella dei fondi per il diritto allo studio: di fronte all'emorragia di studenti degli ultimi anni (-58mila, il 17%, in un decennio) ci sono solo 150 milioni a disposizione per il 2013, che l'anno dopo crollano a 20. «È una cifra inaccettabile, servirebbero almeno 250 milioni», spiega Mancini. La bozza di decreto – che tra l'altro cancella tout court i fondi per i consorzi di ricerca interuniversitari – mette infine da parte una quota premiale di 818 milioni da ripartire tra gli atenei in base alle performance. Ma sarà un decreto successivo a decidere come e quando: «L'ex ministro ha accolto la nostra richiesta di posticiparlo – spiega il presidente della Crui – anche perché prima va risolto il nodo del taglio ai nostri fondi». _____________________________________________________________ Il Mattino 29 Apr. ’13 UNIVERSITÀ E TEST IL BONUS MATURITÀ ALLARMA LE SCUOLE I presidi: alcuni scelgono istituti privati per avere un voto di diploma più alto Salvo Sap io Tanti diciottenni del 2013 avranno un'estate da raccontare. Libri, ansie e sogni: le veglie per studiare raddoppieranno, infatti, per chi dovrà sostenere oltre alla maturità anche i test per l'ammissione alle facoltà a numero programmato (Medicina, Odontoiatria, Veterinaria e Architettura). Tante notti prima degli esami con le angosce e le speranze di chi ha 18 anni e due prove decisive da affrontare. La maturità come trampolino ai test d'ammissione, con il voto di diploma che può pesare tanto per l'ammissione. Un rapido calcolo: il 100 alla maturità varrà 10 punti, lo scorso anno con 40/50 punti si entrava nel gruppo degli eletti. Il massimo alla maturità conterà ecco - me. «Ma quest'anno c'è un altro elemento da tener presente - aggiunge il rettore della Sun Francesco Rossi, docente di Medicina - la graduatoria nazionale è più giusta ma aumenterà i costi per le famiglie. Un ragazzo del sud ammesso in una facoltà del nord peserà inevitabilmente sui propri genitori. D'altro canto è come un investimento sul futuro dei propri figli. Per i test, poi, avere pochi giorni per prepararsi potrebbe essere davvero uno svantaggio». «Anche perchè - aggiunge Gennaro Marino, ex preside della facoltà di Biotecnologia alla Federico II - chi iniziasse a studiare adesso sarebbe già in ritardo rispetto alla complessità dei test che l'aspetta. Penso ai quesiti di chimica: la preparazione nelle scuole superiori non è certo adeguata alle prove che verranno proposte. Ma per prepararsi bene serve tempo e applicazione». Ma resta una questione di metodo. Il voto alto alla maturità può essere raggiunto più facilmente da chi frequenta un istituto superiore meno severo di altri. «È una possibile disparità - commenta Roberto Vona, docente di Economia alla Federico II - ma può servire a dare importanza alle scuole superiori. I ragazzi che arrivano all'università in questi anni non sono abituati ad impegnarsi e a studiare a fondo e stimolarli con l'obiettivo di un voto alto può essere corretto. Se poi si ritiene che si possa essere disparità allora si potrebbe pensare ad un diverso sistema di valutazione per ottenere il bonus maturità. Ci sono attualmente i test Invalsi, si potrebbero organizzare a livello nazionale delle prove standard a livello nazionale per gli studenti del quinto anno». Se il mondo accademico vede comunque favorevolmente i test a luglio e il bonus maturità, sono invece presidi e docenti delle superiori ad avere delle riserve. Con dei casi limite nati proprio per questa riforma. «E successo - racconta Luigi Romano, preside del liceo scientifico «Mercalli» - che alcuni studenti bravi, con una discreta media, si siano ritirati dal nostro istituto per iscriversi a scuole private dove più facilmente potranno raggiungere il massimo dei voti. E una situazione assurda ma è alimentata dalla logica del bonus maturità per i quiz d'ammissione. In alcune scuole superiori si richiedono prestazioni importanti e, d'altro canto, le famiglie dovrebbero comprendere che è importante un figlio preparato piuttosto che un semplice voto alto». Dallo scientifico al classico la situazione non cambia. «I ragazzi sono molto preoccupati e quello dei voti è un tema molto sentito - conclude Ennio Ferrara, preside del liceo «Umberto» - alcuni genitori mi hanno spiegato che secondo loro i professori dovrebbero tener conto di questo aspetto. Logicamente non è possibile, anche se il voto della maturità peserà di più. I test a luglio, poi, mi lasciano molto perplesso. Si aumenta la pressione _____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Mag. ’13 GRADUATORIA UNICA PER I TEST UNIVERSITARI COSÌ SI PREMIANO STUDENTI E ATENEI Al suo ultimo provvedimento il ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, Francesco Profumo ha firmato il decreto che istituisce (finalmente possiamo dire) una graduatoria unica nazionale per i test di ammissione ai corsi di laurea universitari ove è previsto il numero chiuso. Cambiamento epocale che modifica già da quest'anno l'approccio alla scelta universitaria delle famiglie, degli studenti e degli atenei stessi. Non capiterà più che uno studente non venga ammesso conseguendo, ad esempio 40 punti, in un test di ammissione a medicina presso un ateneo di Milano, mentre un altro, con il medesimo punteggio, possa essere ammesso, ad esempio a Napoli, dove ha svolto il test di ingresso. Il tutto avveniva con l'aggravante che ogni studente può effettuare un solo test nella medesima disciplina. La graduatoria nazionale pone fine a questa prassi che premia chi è stato accettato in un ateneo rispetto a chi è stato ingiustamente escluso in un altro pur avendo dimostrato di essere alla pari, se non più meritevole. La graduatoria nazionale permette agli studenti migliori di avanzare e soprattutto di scegliere l'ateneo dove studiare, attivando altresì una competizione virtuosa tra i singoli atenei per gli studenti migliori. Saranno così gli studenti e le loro famiglie, nel tempo, a decretare quali Università sono percepite e valutate di migliore qualità e quindi scelte dagli studenti che meglio hanno risposto ai test d'ammissione. Si tratta di una riforma, a costo zero, evocata da diversi anni e che oggi finalmente trova un suo approdo. Il reclutamento universitario si allinea così a molti altri sistemi formativi sparsi per il mondo, dando un chiaro segnale al proliferare delle sedi universitarie «sotto casa» come comoda alternativa a vere politiche che puntino alla migliore qualità formativa per gli studenti. Ora toccherà al nuovo ministro Maria Chiara Carrozza intensificare un sistema di borse di studio o prestiti d'onore che incentivi una mobilità sul territorio che diventi soprattutto mobilità sociale. Stefano Blanco Direttore generale, Fondazione Collegio delle Università Milanesi _____________________________________________________________ Corriere della Sera 4 Mag. ’13 I NUOVI TEST INVALSI, PIÙ SPAZIO ALLE DOMANDE APERTE SCIOPERO DEI SINDACATI: «PROVE DA RIVEDERE» ROMA — Arrivano gli Invalsi e tornano le proteste. Scioperi dei docenti Cobas, richieste esplicite di riforma al neoministro Maria Chiara Carrozza da parte di alcuni sindacati, in special modo la Cgil, sit-in di genitori e ragazzi. Quest'anno riguarderanno due milioni e duecentomila studenti. Si comincia la prossima settimana, martedì le seconde elementari, venerdì le quinte. Il 14 maggio toccherà alla prima media, il 16 alle seconde superiori, mentre il 17 giugno si cimenteranno i 600 mila studenti di terza media in sede di esame: l'esito della prova peserà per un sesto sulla valutazione complessiva ai fini della promozione e soprattutto del voto finale. I dirigenti di ricerca Invalsi hanno annunciato novità già da quest'anno: i dati saranno raccolti elettronicamente, ci sarà più spazio a domande aperte, sia in italiano sia in matematica, perché si vuole «insistere più sulle competenze e sul ragionamento che sulle conoscenze nozionistiche». Altre novità riguarderanno il futuro: l'inglese viene inserito gradualmente a campione e a cadenza pluriennale, infine si sta pensando all'Invalsi dentro l'esame di maturità, anche da svolgere prima, durante l'anno eventualmente, ma che comunque faccia media e influisca sul voto finale e perfino per l'orientamento in uscita verso l'università. Tutto ciò ai Cobas non piace, per questo scioperano: i quiz Invalsi saranno accompagnati dalle loro proteste proprio in concomitanza con le prove, il 7, il 14 e il 16 maggio. Per il 7 e il 16 sono stati organizzati sit-in davanti al ministero a Roma e manifestazioni in varie città italiane. «Chiediamo al ministro Carrozza di ridiscutere il sistema di valutazione troppo incentrato sugli Invalsi, sono prove sbagliate che testano solo l'apprendimento di italiano e matematica mentre il sistema di valutazione è cosa molto più complessa», dice il segretario generale Scuola della Cgil Mimmo Pantaleo. «I test Invalsi sono una sciocchezza e uno spreco di risorse, 14 milioni di euro all'anno che potrebbero essere spesi per la scuola statale già così sottoposta a pesanti tagli — dice Massimo Prudente, genitore del coordinamento Scuole di Roma —. Queste prove, inoltre, indirizzano lo studio verso un modello di scuola fatto a quiz che è l'opposto di un vero apprendimento». Il presidente dell'Associazione nazionale presidi Giorgio Rembado ritiene al contrario che «le prove Invalsi perseguono obiettivi corretti e utili alla governance e alla progettazione didattica delle scuole. Tuttavia sono solo una parte del tutto. Si può fare meglio, non basta valutare italiano e matematica, ci sono altri ambiti didattici che andrebbero valutati. È anche evidente — continua — che la valutazione non la si fa solo per un'acquisizione di dati che spesso rimangono fini a se stessi, ed è qui il limite che io vedo. Un vero sistema di valutazione globale dell'istituto è per ora tutto da inventare, non esiste ancora». Guarda agli studenti, il presidente del Coordinamento genitori democratici Angela Nava. «I ragazzi — dice — vedono gli Invalsi come qualcosa di assolutamente alternativo, avulso da quello che studiano regolarmente a scuola. Ma questi quiz diventano addirittura vergognosi quando in terza media entrano a far parte dell'esame, pesando con una rigida media ragionieristica sul voto finale. Il rischio più grosso è ritrovarseli alla maturità». Mariolina Iossa _____________________________________________________________ Corriere della Sera 4 Mag. ’13 LA MERITOCRAZIA DEI TEST INVALSI ECCO COME AIUTA I NOSTRI FIGLI La settimana prossima iniziano i test Invalsi per le scuole elementari, quella dopo per le medie e le secondarie superiori. In 5 anni l'Invalsi è passato da 600 mila studenti che hanno effettuato le prove a due milioni e 200 mila per un totale di quasi sei milioni di studenti che hanno effettuato le prove. Molti genitori iniziano a capire che non si tratta di «quiz» («quando è stato esiliato Napoleone a Sant'Elena?»), ma di prove sulla capacità di studenti di capire testi scritti (non dissimili dal vecchio «dettato»), di ragionare e risolvere problemi («disegna un triangolo. Prendi le misure con il righello e calcola l'area»: solo il 30 per cento degli studenti che hanno fatto il test di terza media ha risposto correttamente). L'Italia sta finalmente colmando il gap con i Paesi più evoluti che adottano questi test da decenni e ne hanno addirittura fatto degli standard globali come i test Pisa dell'Ocse. Le proteste («la cultura classica non si misura con i quiz») si stanno affievolendo davanti a genitori e insegnanti che hanno capito che questi test misurano le «competenze della vita» e che consentono loro di capire dove e quanto può migliorare il proprio figlio, e soprattutto quanto è buono l'insegnamento nella sua scuola, perché le scuole che presentano risultati migliori (o in forte miglioramento) hanno insegnanti migliori. Molto resta ancora da fare. Il fenomeno del cheating (i furbi copiano e gli insegnanti suggeriscono) è ancora diffuso. La lettura e interpretazione dei risultati di scuole e classi e il paragone con le altre non è facile. Il curriculum di insegnamento non si è ancora completamente adeguato. Soprattutto non si è ancora effettuato il test alla maturità per il quale è previsto un esperimento pilota quest'anno e la completa attuazione il prossimo anno; quando ciò avverrà si potrà veramente celebrare la nascita della meritocrazia anche nel nostro Paese (90 anni dopo che negli Usa) perché si potrà selezionare molto meglio chi merita di andare all'universitàeliminando anche gli attuali test d'ingresso. È comunque innegabile che grazie a questi test si sia compiuto un grande passo avanti per migliorare il futuro dei nostri figli. Roger Abravanel _____________________________________________________________ Il Monifesto 04 Mag. ’13 SAN RAFFAELE: IL MINISTRO CONGELA LA PROTESTA UNIVERSITÀ Il braccio di ferro tra Rotelli e le Sigille mette a rischio il futuro dell'ateneo Maria Chiara Carrozza nella sua prima uscita si impegna a risolvere una disputa tra privati che colpisce gli studenti Giorgio Salvetti MILANO C he cosa può succedere a un ospedale e a un'università privata? Lo sanno bene, purtroppo, i lavorato- ri e gli studenti del San Raffaele. Dopo il crac e la morte di don Verzè, l'ospedale è stato rilevato dal big della sanità privata Giuseppe Rotelli. La nuova proprietà sta continuando a mandare 244 lettere di licenziamento per ridurre i costi alla faccia dell'eccellenza e del servizio da garantire ai pazienti. L'università Vita Salute, invece, è ancora controllata dalle Sigille del Monte Tabor, come ai tempi del don. Rotelli però vuole mettere le mani anche sull'ateneo che risiede nei locali dell'Inail, in via Olgettina. Per farlo ha deciso di far saltare la convenzione che permetteva agli studenti di specializzarsi nei reparti del San Raffaele con importanti ricadute anche sulla qualità delle cure, oltre che sulla ricerca. Risultato: proprio prima di dimettersi l'ex ministro dell'istruzione, Francesco Profumo, ha deciso di bloccare l'ingresso delle matricole di medicina alle specializzazioni in ospedale. In sostanza gli studenti non potranno continuare il loro percorso di studi facendo pratica nei reparti. La scelta del Miur è stata obbligata, quasi di ordinaria amministrazione, ma ha scatenato la protesta degli studenti. Dopo tre giorni di occupazione, ieri, una cinquantina di ragazze e ragazzi sono andati a manifestare in centro a Milano, da piazza San Babila alla prefettura, 'dove era in programma un vertice tra le due parti in lotta. All'incontro ha partecipato anche Maria Chiara Carrozza alla sua prima uscita da neo ministro dell'istruzione. Basterebbe questo per spiegare quanto la situazione sia delicata: un braccio di ferro tra privati sta mettendo seriamente a rischio un patrimonio che invece dovrebbe essere un bene comune, come ha ripetuto l'altro giorno agli studenti in assemblea anche Massimo Cacciaci. L'intervento del ministro ha congelato la situazione. Gli studenti hanno sospeso l'occupazione in attesa che Carrozza mercoledì prossimo presenti un piano di riconciliazione con l'obiettivo di rinnovare almeno per un anno la convenzione tra ospedale e università, per poi rimodulare una governante condivisa dell'ateneo. Si tratta di una strada lunga e difficile, perché lo stesso ministro ha constatato la distanza tra la gestione Rotelli e le Sigille. Rotelli aveva addirittura pensato di fondare una propria università che fornisse specializzandi al san Raffaele, indipendentemente da Vita Salute, e che avrebbe impiegato come docenti alcuni primari delle altre strutture ospedaliere di sua proprietà. Un disastro per gli attuali prof dell'università fondata da don Verzè che per questo stanno appoggiando la protesta degli studenti, a difesa del loro ateneo, ma anche del loro posto di lavoro. E a proposito di lavoro, lunedì prossimo riprenderà in regione Lombardia la trattativa per tentare di fermare i 244 licenziamenti di infermieri, tecnici e amministrativi che l'amministrazione Rotelli sta effettuando per punire i lavoratori. Per i nuovi padroni dell'ospedale sono colpevoli di non essersi arresi a un ricatto che puntava a ridurre diritti e stipendi. I privati, anche quando si occupano di salute e istruzione, pensano prima di tutto a fare profitti. Non solo sulla pelle dei lavoratori, ma anche dei pazienti e degli studenti. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Mag. ’13 SAN RAFFAELE: LE «SIGILLE» E IL SENSO PERDUTO DELLA CARITÀ Era stato facile profeta don Luigi Verzé nel vergare il suo testamento: «Io di mio non lascio niente, perché di mio non ho mai avuto niente. Lascio problemi». Sull'eredità materiale sta ancora indagando la magistratura, su quella spirituale vegliano le Sigille. Le quali devono aver preso alla lettera il testamento perché hanno creato un problema grosso come una casa, anzi come un'università. Da mesi c'è un braccio di ferro tra le accolite di don Verzé, le Sigille Raffaella Voltolini e Gianna Zoppei, e i nuovi vertici dell'ospedale, tenuti fuori dal cda dell'ateneo. Un contrasto che ha portato la proprietà del San Raffaele a non rinnovare la convenzione con l'università. Il Miur ha bloccato nuove immatricolazioni e nuovi contratti di formazione specialistica. Venerdì è dovuto intervenire il ministro Maria Chiara Carrozza per trovare una soluzione per l'università Vita-Salute San Raffaele di Milano e scongiurare la paralisi. Ma chi sono le Sigille? Gli studenti in sciopero le hanno soprannominate le «vedove di don Verzé», le «sconsolate», ma al vertice dell'università ci sono ancora loro. La confraternita gnostica del suggello ricorda più le storie di Il Trono di Spade o di Da Vinci's Demons che i sette sigilli dell'Apocalisse. Come spesso succede, quando il guru («il guardasigille») scompare gli affiliati non praticano la carità in cui credono, ma la carità in cui credono di dover credere. Don Verzé aveva fondato l'Associazione Sigilli, racchiusa nel motto evangelico «Andate, insegnate, guarite!», reclutando persone interamente dedite all'Opera. L'obbligo era quello del celibato, meglio del nubilato, visto che erano soprattutto donne quelle che vivevano con lui in Cascina. Se il San Raffaele resta un ospedale di prim'ordine, frutto della generosa, straordinaria visionarietà del sacerdote, i drammi che hanno accompagnato la sua morte (ammanchi, tangenti, debiti, suicidi) avrebbero dovuto consigliare alle Sigille un'uscita di scena più discreta, più cristiana. La carità non cerca mai il suo interesse. «Andate, insegnate, guarite!». Andate, soprattutto. Prima che qualcuno metta i sigilli all'università del San Raffaele. _____________________________________________________________ Repubblica 29 Apr. ’13 IL RAGAZZO CHE HA SCONFITTO L'AUSTERITÀ FEDERICO RAMPINI Scoprendo errori banali, uno studente ha confutato le teorie su rigore e crescita degli economisti Reinhart e Rogoff Thomas Hemdon ha demolito il dogma su cui Germania e Ue hanno basato le loro politiche. Diventando una star Il ragazzo o che ha smentito Harvard salvando il mondo dall' austerità DAL NOSTRO CORRISPONDENTE FEDERICO RAMPINI Ha semplicemente cercato di replicare il risultato a cui erano arrivati due professori NEW YORK 28 anni è una celebrità mondiale, la sua università ha dovuto creargli un ufficio stampa ad ho c per filtrare le troppe domande d'interviste. Il dottorando che ha "smascherato le teorie del- l' austerity" ora passa le sue giornate a parlare con il New York Times, il Wall Street Journal e la Bbc. È apparso come star nel popolare talkshow di satira politica The Colbert Report. Se l'è meritata davvero questa fama Thomas H erndon, che preparala sua tesi di Ph.D. alla University of Massachussetts di Amherst. Il premio Nobel dell'economia Paul Krugman gli dà atto di avere «confutato lo studio accademico più autorevole degli ultimi anni». Scoprendovi degli errori banali, imbarazzanti per gli autori. Le vittime di Herndon sono due tra gli economisti più stimati del mondo: Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff. Loro due insegnano in una super- università, Harvard, ben più prestigiosa di quella dove studia il 28enne dottorando che li ha messi al tappeto. Rogoff, che è stato economista anche al Fondo monetario internazionale e alla Federal Reserve, insieme con la sua collega Reinhart pubblicò " Growth in a Time ofD ebt", una ricerca conclusa proprio quando stava scoppiando la crisi della Grecia. In quel testo vi era la "prova scientifica", secondo gli autori, che se il debito pubblico di una nazione raggiunge la soglia del 90% del Pil, diventa un ostacolo insuperabile alla cres cita. Quella cifra "magica" venne adottata come un dogma, istantaneamente ripresa da organizzazioni internazionali e governi: da Angela Merkel alla Commissione europea, fino al partito repubblicano negli Stati Uniti. Lo stesso Krugman ricorda che «ebbe un ruolo cruciale nella svolta delle politiche economiche, con l'abbandono delle manovre anti-recessive sostituite prontamente con politiche di austerity». La tesi di Krugman è che c'erano già poderose correnti ideologiche in azione per interrompere le manovre anti- recessive, e tuttavia quello studio divenne un regalo insperato, una pietra miliare, il fondamento teorico per l’ austerity. Hemdon, che si definisce «né conservatore né progressista», non è stato mosso da un'agenda politica. «Non ero partito —racconta — con l'intenzione di demolire lo studio di Reinhart-Rogoff, davvero non ero a caccia di errori. I miei professori di Amherst mi avevano assegnato un compito molto comune: prendi una ricerca fatta da altri economisti, e prova a dimostrare che sei capace di replicarne il risultato». È così, esercitandosi a rifare lo stesso percorso di Reinhart-Rogoff, che il 28enne si è imbattuto nella sua scoperta. «Provavo e riprovavo a fare i loro stessi calcoli, ma i risultati non erano quelli. I conti non tornavano». Per vederci chiaro lui si rivolse agli stessi autori. Che reagirono con grande fair-play e trasparenza. Forse sottovalutando il pericolo? Di certo non snobbarono il giovane dottorando di una università meno prestigiosa. «Su mia richiesta — racconta lui— mi hanno messo a disposizione tutte le loro fonti originarie da cui avevano attinto i dati sulla crescita. Mi hanno dato accesso anche alle varie versioni dei loro calcoli». Mal gliene incolse. Perché il preciso e scrupoloso Hemdon scoprì l'errore. Anzi due categorie di errori, grossolane dalle conseguenze disastrose. La coppia di grandi economisti aveva banalmente commesso una svista di " allineamento" nelle colonne delle cifre da addizionare usando il software Excel della Microsoft. Sicché alcuni calcoli erano sbagliati. In più — questo forse è lo sbaglio più imperdonabile — Reinhart-Rogoff avevano omesso di includere tra le nazioni esaminate ben tre casi (Canada, Australia, Nuova Zelanda) in cui la crescita economica non è stata affatto penalizzata da un elevato debito pubblico. La rivelazione di Herndon ha avuto un impatto enorme. I due imputati, Reinhart-Rogoff, hanno dovuto ammettere l'errore. Lo hanno fatto con una imbarazzata column sul New York Times, cercando al tempo stesso di prendere le distanze dalle politiche di austerity applicate usando la loro ricerca. E come rivela il Wall Street Journal, «all'ultima riunione del G20 è stato depennato dal comunicato finale ogni riferimento al rapporto debito/ Pil, per effetto di questa scoperta». L'anchorman satirico Stephen Colbert conclude: «E ora chi glielo dice agli europei? Sono così contenti dell' austerity, che ogni tanto per festeggiarla scendono in piazza e accendono dei fuochi...». La lezione di umiltà vale anche per gli avversari del rigore. I grandi nomi del pensiero neokeynesiano, da Krugman a Joseph Stiglitz, non avevano mai accettato il dogma di Reinhart-Rogoff. Ma le loro contestazioni volavano alto, troppo alto. Nessuno si era imbarcato nella fatica di fare il lavoro "operaio" del 28enne Hemdon: prendersi tutti i numeri, uno per uno, e rifare le addizioni. Categorie di errori, grossolane e dalle conseguenze disastrose. La coppia di grandi economisti aveva banalmente commesso una svista di" allineamento" nelle colonne delle cifre da addizionare usando il software Excel della Microsoft. Sicché alcuni calcoli erano sbagliati. In più — questo forse è lo sbaglio più imperdonabile — Reinhart-Rogoff avevano omesso di includere tra le nazioni esaminate ben tre casi (Canada, Australia, Nuova Zelanda) in cui la crescita economica non è stata affatto penalizzata da un elevato debito pubblico. La rivelazione di Herndon ha avuto un impatto enorme. I due imputati, Reinhart-Rogoff, hanno dovuto ammettere l'errore. Lo hanno fatto con una imbarazzata column sul New York Times, cercando al tempo stesso di prendere le distanze dalle politiche di austerity applicate usando la loro ricerca. E come rivela il Wall Street Journal, «all'ultima riunione del G20 è stato depennato dal comunicato finale ogni riferimento al rapporto debito/ Pil, per effetto di questa scoperta». L'anchorman satirico Stephen Colbert conclude: «E ora chi glielo dice agli europei? Sono così contenti dell' austerity, che ogni tanto per festeggiarla scendono in piazza e accendono dei fuochi...». La lezione di umiltà vale anche per gli avversari del rigore. I grandi nomi del pensiero neokeynesiano, da Krugman a Joseph Stiglitz, non avevano mai accettato il dogma di Reinhart-Rogoff. Ma le loro contestazioni volavano alto, troppo alto. Nessuno si era imbarcato nella fatica di fare il lavoro "operaio" del 28enne Hemdon: prendersi tutti i numeri, uno per uno, e rifare le addizioni. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 Mag. ’13 IL DEBITO RESTI LA SFIDA DEI GOVERNI Jean Pisani Ferry Le controversie sono un elemento fondamentale per il progresso della scienza, e dunque l'articolo che ha messo in evidenza le imperfezioni metodologiche e un errore di formula in un saggio degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff è solo un episodio come tanti nella vita quotidiana del mondo accademico. Jean Pisani-Ferry Ma è un episodio che sui mezzi di informazione e nella blogosfera ha suscitato commenti straordinariamente accesi (e semplicistici). Growth in a Time of Debt, il breve saggio del 2010 in cui Reinhart e Rogoff sostenevano la tesi che il debito pubblico comincia ad avere effetti negativi sulla crescita economica quando raggiunge la soglia del 90% del Pil, non è mai stato considerato una pietra miliare della ricerca economica. La comunità accademica aveva accolto con un certo scetticismo questa approssimativa caratterizzazione empirica di fatti stilizzati, e i due autori hanno al loro attivo lavori di ben altro spessore. Google Scholar, il motore di ricerca per il mondo accademico, registra oltre 3mila citazioni accademiche per il saggio di Rogoff più citato, contro meno di 500 per Growth in a Time of Debt. Quello che normalmente sarebbe rimasto un semplice argomento di conversazione per addetti ai lavori, però, è diventato tema di discussione per giornalisti, commentatori e policymakers. Per tutte queste persone, la cosa che conta è che la caduta in disgrazia del saggio di Reinhart e Rogoff taglia l'erba sotto i piedi ai sostenitori del rigore di bilancio. Qualche mese fa Olivier Blanchard, l'economista capo del Fondo monetario internazionale, aveva già criticato i suoi colleghi e i governanti e alti funzionari dei Paesi avanzati per la sistematica sottovalutazione dell'impatto recessivo dei programmi di consolidamento dei conti pubblici. La débâcle del saggio di Reinhart e Rogoff è vista in generale come l'ennesima, fatale dimostrazione della fragilità delle fondamenta intellettuali dell'austerity. Ma è vero solo in parte. Prima del saggio di Reinhart e Rogoff, le tesi in favore della necessità di risanare i conti pubblici erano basate principalmente sui timori per la sostenibilità del debito pubblico. Il dubbio era se uno Stato sovrano sarebbe stato in grado di rifondere il suo debito, date certe condizioni economiche e finanziarie e date tendenze di lungo periodo come l'invecchiamento della popolazione e le incertezze sugli orientamenti futuri della politica economica. Il problema era che gli economisti non erano in grado di quantificare un debito pubblico eccessivo. Non c'era una soglia predeterminata sotto alla quale il debito era innocuo e sopra alla quale diventava pericoloso. Di conseguenza, il messaggio che arrivava alle autorità incaricate di decidere la politica economica era contraddittorio. Gli economisti erano come quei dottori che dicono ai pazienti che un po' di vino può far bene, ma troppo fa senz'altro male, senza essere in grado di dire quanti bicchieri al giorno sia possibile bere senza correre rischi. Dicevano cose giuste, ma drammaticamente imprecise. La confusione era particolarmente acuta all'inizio del 2010, quando è stato pubblicato Growth in a Time of Debt. L'economia globale in quel momento stava appena emergendo dalla recessione più grave del dopoguerra. Un piano di stimoli globale in stile keynesiano aveva evitato il peggio e l'interrogativo di politica economica più pressante del momento era se fosse necessario continuare a sostenere l'economia o fosse invece arrivato il momento di cominciare a rimettere in ordine i conti pubblici. Alcuni dicevano che il risanamento poteva aspettare, perché l'economia era ancora in una situazione di pesante recessione: un aggiustamento troppo drastico, secondo questo punto di vista, avrebbe avuto un impatto pesante su un settore privato ancora debole. Alcuni sostenevano il contrario, argomentando che non c'era tempo da perdere, vista la portata dell'impresa. Il saggio di Reinhart e Rogoff sembrava offrire l'argomento perfetto per i fautori del risanamento rapido, e questo è il motivo per cui è stato tanto citato nei dibattiti sulle politiche economiche. L'austerità, secondo queste persone, era necessaria per arrestare l'aumento del rapporto debito/Pil e salvaguardare la crescita a lungo termine. Certo, il risanamento avrebbe potuto comportare dei costi nel breve termine, ma i benefici sul lungo periodo sarebbero stati molto maggiori. Anche se Reinhart e Rogoff non giungevano esplicitamente a questa conclusione nel loro saggio, molti lo hanno fatto per loro. Per un ministro o per un alto funzionario, la tentazione di spiegare che il risanamento doveva partite immediatamente perché ci si stava avvicinando alla soglia del 90% era troppo forte, e la maggior parte di loro ha ceduto alla tentazione. Il fatto di aver grande affidamento su dati che - ora si è scoperto - non erano affidabili lascia i falchi del rigore in una posizione difficile (a dir poco) rispetto ai loro avversari. Vale in particolare per l'Europa. Avendo promesso che un rapido risanamento dei conti pubblici avrebbe portato benefici per la crescita, mentre invece ha prodotto recessione, l'Unione Europea ha deluso i suoi cittadini. Il logoramento delle politiche di austerity sta lasciando il segno e i Governi rischiano di perdere consenso se insistono nei loro sforzi di risanamento. Il pericolo è che il discredito che è caduto sui sostenitori di un'austerità affrettata possa andare a detrimento dei fautori della responsabilità di bilancio nel lungo periodo. Se così fosse, i mercati finanziari potrebbero giungere alla conclusione che la sostenibilità del debito pubblico è seriamente a rischio, e questa percezione potrebbe avere effetti fortemente negativi sulle condizioni di finanziamento, con il risultato finale di un rallentamento della crescita (che, per ironia della sorte, darebbe ragione a Reinhart e Rogoff). Questo episodio mette in evidenza una volta di più l'importanza del rigore intellettuale. Certo, non è un credo sempre facile da rispettare. I ricercatori si lasciano tentare da risultati convincenti e in grado di suscitare l'interesse dei policymakers, che a loro volta sono tentati di privilegiare quei dati in grado di provvederli di munizioni adeguate nel dibattito interno e internazionale. Come le vicende di Reinhart e Rogoff dimostrano, cedere a l'una o l'altra di queste due tentazioni non è mai consigliabile. © Project Syndicate, 2013 (traduzione di Fabio Galimberti) _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 Mag. ’13 LA FEDE NELL'AUSTERITY RENDE CIECHI Paul Krugman Quando si tratta di infliggere sofferenze ai cittadini delle nazioni debitrici, gli "austeriani" sono inflessibili: è un mondo crudele e bisogna fare scelte difficili. Ma quando loro o i loro amici finiscono sotto il fuoco delle critiche, improvvisamente scoprono i pregi dell'empatia e diventano sensibili. Paul Krugman Ma quando gli "austeriani" o i loro amici finiscono sotto il fuoco delle critiche, improvvisamente scoprono i pregi dell'empatia e diventano sensibili. Lo abbiamo visto nel caso di Olli Rehn, il vicepresidente della Commissione europea: i suoi amici a Bruxelles si sono sentiti oltraggiati, oltraggiatissimi, quando ho fatto notare, usando un linguaggio lievemente colorito, che il signor Rehn stava ripetendo una tesi di storia economica che era già stata sfatata più volte. E lo abbiamo visto recentemente con l'articolo di Anders Åslund sul Financial Times in difesa degli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff e contro la critica, definita "brutale", mossa nei loro confronti da alcuni economisti dell'Università del Massachusetts (sede di Amherst). In un editoriale pubblicato all'inizio di questo mese, Åslund, un economista svedese, ha elogiato Reinhart e Rogoff per «aver fornito un importante correttivo all'idea che gli stimoli di bilancio siano sempre giusti, una posizione molto diffusa tra gli opinionisti economici angloamericani, in testa a tutti Paul Krugman del New York Times». È curioso che dica una cosa del genere, perché è una pura e semplice bugia: come sa chiunque abbia letto quello che scriviamo io o gli economisti Martin Wolf, Brad DeLong, Simon Wren-Lewis e altri, la nostra tesi è sempre stata che gli stimoli di bilancio sono giustificati solo quando ci si trova in una situazione di tassi di interesse a zero. Non posso credere che Åslund questo non lo sappia: perché allora si scredita da solo ripetendo una falsità facilmente confutata? Ma poi, perché definire "brutale" la critica degli economisti di Amherst? Il loro articolo era un'analisi calma e ragionata di come la coppia Reinhart-Rogoff era arrivata a determinare quella famosa soglia del 90%: se a Åslund ha dato l'impressione di essere un'aggressione in piena regola è solo per il contrasto eclatante fra gli elogi che avevano ricevuto i due professori di Harvard e la natura indifendibile della loro analisi. La mia opinione è che gli "austeriani" hanno scoperto di essere finiti in trappola. Si sono gettati anima, corpo e reputazione personale in difesa dei vari elementi della dottrina economica antikeynesiana: l'austerità espansiva, le soglie critiche del debito pubblico e via discorrendo. E come dice l'editorialista Wolfgang Münchau, la cosa terribile è che le loro teorie di politica economica sono state messe in pratica, con risultati disastrosi; come se non bastasse, ora si scopre che i loro eroi intellettuali hanno i piedi d'argilla, o magari di Silly Putty. Per come la vedo io, l'enormità del loro errore è tale che non sono in grado di fornire nessuna risposta ragionevole alle critiche e sono costretti a menare colpi alla cieca, come possono, con attacchi ad personam contro chi li critica o lamentandosi aspramente per la poca urbanità dei loro contestatori. Ed è da simili piccinerie che è governato il mondo. © 2013 THE NEW YORK TIMES (Traduzione di Fabio Galimberti) _____________________________________________________________ Italia Oggi 30 Apr. ’13 SVIZZERA, LAUREE FACILI I PER I VIP A star e politici elvetici basta riempire poche paginette di tesi, bibliografie comprese In Germania gli aspiranti Doktor faticano anni. O copiano da Berlino RoomaTo GIARDINA Tedeschi copioni pur di conquistare l'agognato titolo di Doktor. E svizzeri ipocriti, non copiano, ma scrivono un paio di paginette e le spacciano per tesi di laurea. Un vizietto dei politici, ambiziosi ma senza molto tempo per studiare e scrivere, in Germania e nella Confederazione elvetica. Scoperti, addio carriera, come è capitato a Harl-Theodor von und zu Guttenberg, giovane, nobile, ministro della difesa, e dato come delfino della MerkeL O a Frau Annette Schavan, ministro della pubblica istruzione, smascherata con ben 33 anni di ritardo. Uno scandalo che ha turbato la Germania, dove i titoli di studio sono sacri. Il Dr. entra addirittura a far parte del nome. Ora, si vorrebbe cambiare, e il mitico Doktor non dovrebbe più servire a far carriera. Kurt Boch, grande capo della Basf ha rinunciato al suo titolo nelle comunicazioni interne e ha invitato i suoi centomila dipendenti a non scrivere Doktor sui biglietti da visita che portino anche il nome dell'azienda. La qualità e la professionalità non dipendono, non sempre, da un titolo accademico. Sarà, ma in Germania cinque anni dopo aver completato gli studi universitari chi può vantare un Doktor prima del nome guadagna in media il 30% in più dei «normali» colleghi. Da ricordare che il Doktorarbeit equivale grosso modo al nostro dottorato di ricerca, e si ottiene di solito oltre i 30 anni. E ogni anno sono circa 25 mila quelli che ci riescono. Ed è per questo che i politici fanno carte false per ottenere un «Dr.». Ieri era più facile farla franca, oggi grazie a internet i copioni vengono smascherali. A noi non capita, hanno ironizzato gli svizzeri, che si considerano come dei tedeschi migliori. I loro politici vantano quasi tutti titoli prestigiosi, frutto di studi personali. Sulle Alpi non si bara. Sarà vero, commenta il settimanale Weltwoche, anche perché non serve. Mentre nella patria di Frau Doktor Angela Merkel, laureata in fisica, per giungere al titolo bisogna faticare per anni, e scrivere una tesi originale che va pubblicata, nella Confederazione elvetica basta riempire qualche paginetta. Diciamo che la mitica tesi assomiglia piuttosto a un tema liceale, magari abbastanza ampio. Sono «Dr. Light», è l'ironico titolo del settimanale. E le tesi non riguardano solo materie umanistiche, ma anche lauree in medicina o in ingegneria. Philippe Perrenoud, consigliere governativo del partito socialdemocratico nel governo del cantone di Berna, si è laureato nel 1991 all'Università di Basilea su una malattia dello sterno, ma esponendo il caso di un'unica paziente. Più una diagnosi che una autentica ricerca scientifica: la tesi è lunga appena 16 pagine compresa la bibliografia. Sono accluse 12 foto fuori testo, e la conclusione Si limita ad appena tre paragrafi, che in realtà costituiscono l'unico apporto originale dell'autore. Cioè, neanche una pagina per il titolo di Doktor. A San Gallo, la consigliera nazionale, la verde Yvonne Gilli, si laureò sempre nel 1991 con una tesi di 14 pagine, ma di cui nemmeno la metà è originale. Il resto è occupato da grafici e statistiche presi da altre pubblicazioni scientifiche. La Frau Doktor ha uno studio omeopatico e di medicina cinese a Wil e descrive i casi di 18 suoi pazienti. Sempre più diligente del collega Philippe. L'avvocato Paolo Bernasconi, abbastanza noto anche in Italia, ha ottenuto il titolo di professore dall'università di San Gallo per i suoi meriti politici, benché non abbia scritto neppure una riga: «Non l'ho fatto perché non mi interessava e con questo basta», ha risposto con arroganza alle domande di Weltwoche. Naturalmente, la legge non è stata violata: si può ottenere il titolo di Professor, pur non avendo mai scritto un Doktorarbeit. Soltanto, si chiede la rivista, potrebbe capitare a un cittadino qualsiasi che non sia un politico noto? I casi denunciati sono diversi, ma si assomigliano un po' tutti: si copia e si incolla, si aggiunge un commento di qualche riga e si diventa Doktor nella severa Svizzera _____________________________________________________________ Corriere della Sera 3 Mag. ’13 I 500 TERMINALI CHE VENT'ANNI FA HANNO DATO VITA AL WEB Se vent'anni fa Tim Berners-Lee avesse deciso di brevettare le tre doppie v, oggi il mondo sarebbe diverso. Non ci sarebbe Wikipedia, Mark Zuckerberg non avrebbe inventato Facebook e Mountain View sarebbe solo un sobborgo della Silicon Valley. Ma non solo. Senza il suo intervento, le email non sarebbero diventate il mezzo più usato per comunicare e oggi non sapremmo cos'è lo spam. Già, perché la Rete è nata così, all'insegna della libertà e della condivisione, senza licenze e vincoli d'uso. Era il 30 aprile del 1993 quando il fisico britannico Berners-Lee del Cern di Ginevra, dopo aver creato il WWW, ossia il World Wide Web, lo mise a disposizione del mondo. Negli anni precedenti con il collega belga Robert Cailliau aveva allestito il primo server. Inoltre i due avevano creato una prima bozza di browser. L'idea di Berners-Lee era realizzare un ambiente di comunicazione universale e un sistema di scrittura per collegare tra loro diversi documenti. Una tela, insomma, nella quale tutti gli elementi fossero in relazione tra loro e che rendesse Internet, nato nel 1969 con il nome Arpanet per il Dipartimento della Difesa, qualcosa di fruibile. Fino a quel momento la Rete era infatti riservata a ricercatori e informatici e serviva esclusivamente a inviare e ricevere posta elettronica e a recuperare file su computer remoti. Ma, grazie all'intuizione del giovane informatico, le cose cambiarono. Berners-Lee lavorò a lungo perché venissero realizzati dei programmi di navigazione. Nel 1993 l'Università dell'Illinois mise a punto Mosaic, compatibile con i computer allora in circolazione. Risultato, in soli tre anni i terminali connessi passarono da 500 a 10 milioni. Ma passaggio fondamentale fu la decisione del Cern e del ricercatore britannico di lasciare libera la licenza del codice. Dan Noyes, responsabile della comunicazione a Ginevra, spiega così alla Bbcl'importanza della scelta: «Se allora avessimo deciso diversamente, oggi non avremmo avuto cose simili al web ma sarebbero appartenute a Microsoft, Apple o Vodafone. Non ci sarebbe stato un singolo standard per tutti». Affermazioni cui fanno eco le parole dello stesso Berners-Lee: «Se avessi creato la Web Inc. avrei semplicemente dato vita ad un nuovo standard e la diffusione universale del WWW non si sarebbe mai verificata. Perché esista qualcosa come il web è necessario che tutto il sistema si basi su standard aperti, pubblici». Ieri, per celebrare l'evento, lo staff del Cern ha annunciato di aver restaurato i file dell'epoca usando una copia del sito del 1992 visibile al link http://info.cern.ch/hypertext/WWW/TheProject.html con l'obiettivo di mostrare alle nuove generazioni le origini della Rete. Ma ciò che deve forse far più riflettere è che Tim Berners-Lee, oggi presidente del W3C, organismo internazionale che coordina lo sviluppo degli standard del WWW e direttore del laboratorio di Computer Science al Mit di Boston, non è diventato miliardario. Il tutto, nonostante abbia cambiato la vita di miliardi di persone. Marta Serafini _____________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Mag. ’13 DECRESCITA: SENZA LIMITE di SANDRO VERONESI 1949, piano Truman per lo sviluppo infinito 1992, primo sms. Diventeranno «illimitati» 2012, la Bce decide l'acquisto di Btp a oltranza Marzo 1972: le Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori pubblicano I limiti dello sviluppo, a firma di Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III, con prefazione di Aurelio Peccei. Il sottotitolo recita così: «Rapporto del System Dynamics Group, Massachusetts Institute of Technology (Mit), per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell'umanità». 6 settembre 2012: la Bce emette un comunicato nel quale, a proposito della sua disponibilità ad acquistare titoli di Stato sul mercato secondario, viene utilizzata l'espressione «No ex-ante quantitative limits are set», che in italiano viene tradotta con «acquisti potenzialmente illimitati». Si tratta del piano antispread lungamente atteso dall'Italia per ottenere un po' di ossigeno sui mercati finanziari. 22 giugno 2010, ore 18.18: due ragazzi entrano sul campo numero 18 dell'All England Lawn Tennis and Croquet Club, per disputare il primo turno del torneo di Wimbledon. Sono John Isner, venticinquenne americano testa di serie numero 24, e Nicolas Mahut, ventottenne francese già numero quaranta del mondo, scivolato oltre il centesimo posto del ranking dopo due stagioni tormentate dagli infortuni. 20 gennaio 1949: il presidente americano Harry Truman, nel suo discorso d'insediamento dinanzi al Congresso, enuncia un programma in quattro punti. Il primo punto riguarda l'impegno per la pace mediante il rafforzamento del ruolo dell'Onu; il secondo punto riguarda l'impegno per la rinascita dell'economia occidentale dopo i disastri della guerra; il terzo punto riguarda l'impegno in difesa della libertà contro la minaccia comunista. Vigilia di Natale del 1968: i tre astronauti che compongono l'equipaggio della missione spaziale americana Apollo 8 — Frank Borman, James Lovell e Bill Anders — effettuano quattro orbite attorno alla Luna. È la prima volta che una navicella esce dall'orbita terrestre. Lo scopo della missione è di studiare e fotografare la faccia oscura della Luna, ma durante il quarto giro il comandante Borman, guardando fuori dall'oblò sbagliato, vede una cosa stupefacente, che non era stata messa in conto. Ottobre 2006: una domenica mattina, verso mezzogiorno, io entro con i miei tre figli in una tavola calda di Manhattan per consumare il brunch. Ad attirarci è il cartello appeso alla porta con scritto «All you can eat, 6,99 $». 3 dicembre 1992: l'ingegnere ventiduenne inglese Neil Papworth invia il primo sms della storia al telefono cellulare di Richard Jarvis, sviluppatore della Vodafone. Poiché i telefoni portatili sono ancora sprovvisti di tastiera alfabetica, digita il messaggio dal proprio computer. Il testo è «Merry Christmas». Nell'introduzione al Rapporto dell'Sdg, Aurelio Peccei scrive: «Che cosa succede effettivamente in questo mondo piccolo, sempre più dominato da interdipendenze che ne fanno un sistema globale integrato dove l'uomo, la società, le tecnologie e la Natura si condizionano reciprocamente mediante rapporti sempre più vincolanti?». Una piccola sfera azzurra, dalle apparenti dimensioni di una pallina da tennis, si staglia nel nero indicibile del vuoto torricelliano. Il comandante Borman esclama: «Oh mio Dio, guardate quell'immagine laggiù! È la Terra che sorge! Wow, è bellissima!». Contro ogni pronostico, dopo aver perso il primo set, Nicolas Mahut vince i due set successivi, tiene il servizio per tutto il quarto set e costringe Isner al tie-break. L'americano però non gli concede nessuna possibilità di chiudere il match, si aggiudica il tie-break per 7-3 e spinge l'incontro al quinto set. Sono le 21.03, sul campo 18 di Wimbledon l'oscurità non consente di proseguire, e la partita viene rinviata al giorno dopo. Io e i miei figli riempiamo i nostri piatti di ali di pollo fritte, uova strapazzate, bacon, pane tostato, pancakes, sciroppo d'acero, salsicciotti. Il Punto quarto del discorso di Truman comincia così: «Dobbiamo impegnarci in un programma coraggioso per rendere disponibili i benefici del nostro avanzamento scientifico e del nostro progresso industriale allo scopo di favorire il miglioramento e la crescita delle aree sottosviluppate». È la prima volta che questa parola viene utilizzata all'indirizzo delle regioni del pianeta a basso reddito pro capite e bassa produttività. Di colpo, nel mondo spuntano due miliardi e mezzo di sottosviluppati. È il momento in cui si passa dall'era del colonialismo all'era dello sviluppo, inteso come sistema di crescita illimitata a somma sempre positiva. Bill Anders scatta una fotografia, la prima che ritragga la Terra nella propria spietata, azzurra finitezza. A pagina 74 del Rapporto, gli autori scrivono questa frase: «Come si è visto, il problema della produzione di alimenti, quello del consumo di materie prime, quello della crescita dell'inquinamento e della sua neutralizzazione comportano una serie di scelte molto impegnative: dovrebbe però essere ormai chiaro che tutte queste difficoltà scaturiscono da una sola, semplice circostanza: la Terra ha dimensioni finite». Poiché i 7 bit degli sms a 160 caratteri vengono trasportati dai canali di controllo della rete, alla Vodafone si rendono subito conto che i messaggi di testo possono essere inviati e ricevuti anche nel corso di una conversazione — e, soprattutto, che per il gestore comportano un costo pari a zero. D'un tratto io e i miei figli ci accorgiamo che vicino a noi un ragazzo e una ragazza di colore hanno trasportato al loro tavolo otto piatti colmi di un'autentica montagna di cibo, e si mettono a mangiare. Le popolazioni di queste aree sottosviluppate sono definite da Truman «prossime alla miseria» e «vittime di malattie». Il loro vitto «inadeguato». Il giorno dopo, alle 14.07, Isner e Mahut rientrano nel campo numero 18 per disputare il quinto set della loro partita. Il Torneo di Wimbledon, al pari del Roland Garros di Parigi e degli Australian Open, non prevede il ricorso al tie-break nel set decisivo, per cui l'incontro finirà soltanto quando uno dei due giocatori avrà vinto almeno due game in più del suo avversario. Con aria minacciosa, il proprietario della tavola calda si avvicina ai due ragazzi di colore. «La loro povertà — prosegue Truman — costituisce un handicap e una minaccia sia per loro sia per le aree più prospere». La fotografia di Bill Anders è destinata a diventare l'immagine-simbolo per gli ambientalisti di tutto il mondo, poiché illustra meglio di qualsiasi studio la loro istanza di amministrare oculatamente le risorse del pianeta. Alle 17.45, sul punteggio di 39-39, Isner e Mahut stabiliscono il nuovo record di game in una partita: 122. Da lì in avanti, per due decenni, nei piani tariffari di tutti i gestori del mondo gli sms di 160 caratteri vengono fatti pagare sempre più cari, fino a un massimo di 10-15 centesimi in Italia e in Francia — cifra che spinge le associazioni dei consumatori a muovere azioni legali nei confronti delle società di telefonia mobile con l'accusa di avere «fatto cartello». Due ore dopo, sul 47-47, il tabellone del campo 18 si blocca e si spegne, poiché i tecnici dell'Ibm non l'avevano programmato per superare quel punteggio. Poco dopo, sul 50-50, salta anche il contagames del sito web di Wimbledon, che viene fatto ripartire da 0-0 con la scritta «si prega di aggiungere 50 al punteggio». Mentre i due ragazzi continuano a mangiare la loro montagna di cibo, il proprietario li affronta, accusandoli di speculare sulla sua offerta. Con tutta calma il ragazzo risponde che l'offerta non prevede altro limite che ciò che si è in grado di mangiare, e loro stanno per l'appunto mangiando. Alle 21.10, sul punteggio di 59-59, l'incontro viene nuovamente sospeso per sopraggiunta oscurità e nuovamente rimandato all'indomani. Il pubblico che gremisce le gradinate disapprova gridando: «We want more, we want more!». Il Rapporto prosegue: «A quanto sembra, il sistema mondiale attualmente tende a far crescere tanto il numero di abitanti quanto la disponibilità di cibo, di beni materiali, di aria e acqua pulita per ciascuno di essi; ma, per quanto abbiamo osservato, questa tendenza alla fine porterà a raggiungere uno dei molti limiti naturali della Terra». Il proprietario diffida i ragazzi dal portarsi a casa la roba che non saranno in grado di consumare, e il ragazzo gli risponde che non intendono portarsi via nulla. Il proprietario li avverte che se lasceranno qualcosa nel piatto lui glielo addebiterà, poiché non potrà rimetterlo nei vassoi del buffet. Il ragazzo risponde che non avanzerà nulla e chiede di essere lasciato in pace. Tanto Isner che Mahut quella notte non riescono a dormire più di quattro ore. La mattina dopo, prima della ripresa del match, si allenano duramente. Ma, afferma Truman, «per la prima volta nella storia, l'umanità possiede la conoscenza e la capacità di alleviare le sofferenza di queste persone». I gestori della telefonia mobile si difendono dicendo che sì, il costo degli sms è effettivamente tendente a zero, ma a causa dell'alto costo dei sistemi di addebito sulle singole schede sim per l'operatore, la sua fatturazione è abbastanza cara. Il proprietario della tavola calda decide di chiamare la polizia. Dato l'interesse elevatissimo che è montato nei riguardi del match, giornalisti e addetti ai lavori, tra cui John McEnroe, chiedono agli organizzatori di spostare la sua ripresa sul campo centrale. Gli organizzatori non acconsentono. In pratica, viene ufficialmente certificato che il traffico degli sms non costa nulla ai gestori, ma nel momento in cui questi decidono di farlo pagare agli utenti, il loro costo industriale s'impenna. «L'applicazione di soluzioni esclusivamente tecnologiche — dice il Rapporto — ha prolungato il periodo di sviluppo industriale e d'incremento demografico, ma non ha eliminato i limiti fondamentali dello sviluppo». Alle 15.42 il match riprende nel campo 18, sul punteggio di 59-59. La tavola calda è paralizzata: siamo tutti lì a guardare i due ragazzi che continuano a mangiare. Col punto che gli vale il 60-59, Isner mette a segno l'ace numero 100 dell'incontro. Quindici minuti dopo, sul 62-61, Mahut raggiunge la stessa cifra. Arriva un poliziotto. Il proprietario gli spiega la situazione. I ragazzi continuano a mangiare. Il poliziotto rimane a guardarli insieme a noi. Milioni di persone, nel mondo, guardano in tv la prosecuzione dell'incontro tra Isner e Mahut. Io rinuncio a seguire la partita dei mondiali di calcio tra Italia e Slovacchia, passando sul canale che la trasmette solo durante i cambi di campo. I ragazzi hanno ancora un piatto pieno di roba sul tavolo. Sul 69-68, 15-15, Mahut manda sul nastro una smorzata che, se fosse passata, Isner non avrebbe mai potuto raggiungere. Al punto successivo, Isner passa Mahut con un diritto all'incrocio delle righe del rettangolo di battuta, conquistandosi due match point. Restano ancora due ali di pollo fritte a testa. Mahut serve e va a rete. Isner lo passa con un rovescio lungolinea. I ragazzi mangiano anche quelle. Dopo tre giorni, 11 ore, 5 minuti di gioco e 183 game, la partita più lunga di tutti i tempi finisce bruscamente, nella delusione generale. Alla fine del 2011 i gestori di telefonia mobile si sono decisi — sempre tutti insieme — a non far più pagare gli sms ai propri clienti. Istantaneamente, il costo industriale degli stessi è tornato pari a 0. «Fino alla fine impegneremo la nostra forza, le nostre risorse e la nostra risolutezza. Con l'aiuto di Dio il futuro dell'umanità verrà consacrato a un mondo di giustizia, armonia e pace». Nelle pubblicità, tuttavia, gli operatori non pronunciano mai la parola «gratis» riferita ai messaggi di testo. Preferiscono utilizzare l'aggettivo «illimitati», l'avverbio «illimitatamente» e la formula «no limits». Malgrado alcuni osservino che «no ex-ante quantitative limits» non equivale a «potenzialmente illimitati», quel passaggio del comunicato della Bce placa di colpo le turbolenze dei mercati. Nel giro di una settimana lo spread Btp/Bund a 10 anni cala dai 428 punti base del 5 settembre ai 341 del 12 settembre. «L'unica cosa che ci manca è un riferimento, realistico ma tuttavia proiettato nel futuro, un obiettivo che possa guidarci verso una condizione di equilibrio; in assenza di tale obiettivo la nostra azione diventa miope, e inevitabilmente produce quella crescita esponenziale che è destinata a sfociare nella rottura dei limiti naturali e nella catastrofe finale». I ragazzi lasciano 15 dollari sul tavolo e se ne vanno. 6-4, 6-7, 4-6, 7- 6, 70-68 il risultato a favore di John Isner. Se ne va il poliziotto e ce ne andiamo anche noi. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Mag. ’13 LE PRIGIONI PIENE DI PRESUNTI INNOCENTI di GUIDO VITIELLO La carcerazione preventiva combattuta già da Tortora trasforma i luoghi di detenzione in una cupa utopia T ra le aste che i bambini fanno sul quaderno per imparare a formare le lettere dell'alfabeto e quelle che il futuro Conte di Montecristo traccia col gesso sulla parete della segreta per computare i giorni non c'è alcun legame, se non questo: che per capire il carcere servono a volte gli occhi di un bambino. «Questi, signori, sono le aste, sono i fondamenti, l'abc di uno Stato e di una qualunque civiltà (...). Se non sono a posto questi mattoni è davvero notte e sono davvero i mostri». Enzo Tortora non era un bambino, ma del bambino aveva serbato l'indocilità e la capacità di meravigliarsi. Quando pronunciò queste parole era il luglio del 1985, aveva già scontato sette mesi di carcere in attesa di giudizio e quasi altrettanti ai domiciliari. Il senso è chiaro: la civiltà delle carceri non dovrebbe essere neppure una questione politica, ma un'ovvietà prepolitica, nel senso in cui Benedetto Croce definiva il liberalismo un «prepartito». I fondamenti, l'abc, le aste. Oggi molti ne parlano come di una questione improrogabile, ma in un Paese che coltiva la retorica dell'emergenza, senza assumerne fino in fondo la moralità, non è detto che questo sia un bene. Nel suo discorso programmatico il premier Enrico Letta ha accennato alla «situazione carceraria intollerabile», il neoministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri l'ha già definita «una priorità che mi sta molto a cuore». Ma sono parole, e a lume d'esperienza c'è il rischio che lo restino. E allora, parole per parole, meglio rivolgersi a due libri recenti dedicati alle storture del sistema penitenziario italiano. Il primo,Condannati preventivi (Rubbettino), lo ha scritto Annalisa Chirico, giornalista e militante radicale. Parla di quella che un tempo si chiamava carcerazione preventiva, oggi custodia cautelare in carcere. Dovrebbe essere una extrema ratio, una misura terribile a cui ricorrere solo quando non c'è alternativa, ma con l'andare degli anni e il succedersi delle emergenze è diventata una prassi, a cui i magistrati si attengono con un pericoloso connubio di intransigenza inquisitoria e pigrizia burocratica. Il risultato è che poco meno della metà della popolazione delle nostre carceri traboccanti è fatta di presunti innocenti, molti dei quali in attesa di un giudizio di primo grado. Il libro chiarisce bene che le nostre prigioni fuori legge sono il punto di capitolazione di un sistema che è malato fin dalla testa — a partire dalla politica e dalle sue leggi «carcerogene» — e che è trascinato ancora più in basso da un'opinione pubblica in preda a una persistente intossicazione forcaiola. Ma più ancora, si può dire, le carceri sono il nostro ritratto di Dorian Gray: l'immagine deforme in cui si specchiano l'inamovibilità, la sciatteria burocratica, la mentalità dilatoria di tutto un Paese, con la piccola differenza che a marcire non sono fascicoli in un armadio, ma uomini e donne in gabbia. Il libro è pieno di osservazioni ragionevoli, ma in Italia la situazione è così buia che la letteratura sul carcere, anche se improntata al senso comune, suona più utopistica della Nuova Atlantide di Bacone. Ci vogliono, di nuovo, gli occhi di un bambino, o di un bambino di mezza età: «Un uomo, un cittadino, chiunque di voi ha diritto a un giudizio — se è accusato di qualche cosa — rapido, pronto, per mille e un motivo (...). Quindi direi che il metro di civiltà di un Paese si misura proprio dalla lunghezza o dalla brevità della carcerazione preventiva. È un male terribile. È un male contro il quale occorre battersi come occorre battersi contro gli altri mali del secolo. Questo è il male italiano del secolo». Tortora lo spiegò agli alunni di una scuola milanese, che lo intesero a meraviglia. Perché la giustizia avrà pure i suoi tempi, ma le nostre vite sono troppo brevi per tollerare uno Stato che ci tiene in gabbia per anni senza averci condannato. Ci vuole tanta dottrina per capirlo? La prima parte di Condannati preventivi ripercorre casi noti e meno noti — Alfonso Papa, Lele Mora, Amanda e Raffaele, a ritroso fino alla vicenda atroce di Giuliano Naria, che negli anni di piombo scontò quasi dieci anni di carcere in attesa di giudizio, la più lunga custodia cautelare della storia repubblicana. Tra le storie giudiziarie raccolte c'è anche quella di Salvatore Ferraro, condannato nel 2003 per favoreggiamento nell'omicidio di Marta Russo. Ferraro, che si è sempre proclamato innocente, ha scontato un anno e quattro mesi di carcere preventivo, più otto mesi ai domiciliari. «Ho vissuto il carcere da spettatore meravigliato piuttosto che da persona che lo subiva», racconta. Da allora non ha fatto che occuparsi di carceri e carcerati, e il frutto del suo impegno è un libro, La pena visibile, anch'esso edito da Rubbettino. Di custodia cautelare non si fa cenno, perché secondo Ferraro in un Paese civile, semplicemente, non dovrebbe esistere. Anzi, a dirla tutta, non dovrebbe esistere neppure il carcere, perché nei suoi trecento anni di vita ha dimostrato di non funzionare affatto. Non isola la delinquenza, la raggruppa. Non porta il detenuto a pagare il debito, ma anzi lo fa sentire creditore rispetto alla società. Chi entra in prigione si autoassolve, si deresponsabilizza e finisce (bene che vada) per assuefarsi a quell'«altro mondo». Giusto o sbagliato, il carcere non risponde a nessuna delle ragioni per cui lo si tiene in vita. Ma l'opinione pubblica non ha modo di constatarlo, perché è un luogo opaco e segregato, e questa invisibilità protegge i suoi fallimenti. Per Ferraro il punto archimedico è qui: rendere visibile la pena, fare in modo che il condannato la sconti a contatto con una porzione di quella società in cui pure dovrebbe reinserirsi. Non sono i sogni compensatori di un giovane giurista che ha avuto guai con la giustizia, sono parte di un dibattito ormai pluridecennale sul superamento del carcere a cui ha contribuito di recente anche un ex magistrato, Gherardo Colombo, con Il perdono responsabile. Utopie? Può darsi, almeno per gli anni (o i decenni) a venire. Ma per convincersi che la pena invisibile ottiene l'opposto di quel che cerca basta riaprire il diario di quell'uomo candido — anche e soprattutto nel senso voltairiano — messo in gabbia nel giugno del 1983, proprio trent'anni fa: «Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia». _____________________________________________________________ SardiNews 5 Mag. ’13 LA REGIONE VUOLE LE TORRI DI SERGIO ZUNCHEDDU E la Procura di Cagliari vuole leggere le carte Fitto mistero sull’affaire immobiliare, dichiarazione del consigliere del Pd Gianvalerio Sanna di Monia Melis Tempo di traslochi primaverili, ma senza inaugurazioni chiassose. Eppure trattasi di traslochi istituzionali, pagati con soldi pubblici. La società in house della Regione SardegnaIt ha infatti trovato una nuova casa a Cagliari, dalle parti di Santa Gilla, ossia nel complesso I Fenicotteri di proprietà dell’imprenditore immobiliare ed editore dell’Unione Sarda, Radiolina e Videolina, Sergio Zuncheddu. Proprio in una delle quattro torri che svettano tra lo stagno e la necropoli punica di Tuvixeddu. Non una sorpresa assoluta, perché la fissa di spostare gli uffici regionali (e interi assessorati) proprio lì, torna ciclicamente, dai tempi della giunta di Italo Masala, da quasi dieci anni.SardegnaIt nel 2011 aveva lanciato un avviso pubblico, una sorta “di ricerca di mercato” che si è conclusa in un silenzio piombato. Come noto, è una partecipata regionale al 100 per cento, nata nel 2006, che si occupa di informatica. Finora alcune delle sedi, divise logisticamente (via Pessagno, via Simone, via Posada) erano in affitto. Ora i 150 dipendenti avranno a disposizione spazi da 2mila e 200 metri quadri, anzi 2.300: quelli messi a disposizione dall’ImmobiliareEuropea di Zuncheddu che si è aggiudicata un contratto da 50mila euro al mese (in tutto un milione e 200mila euro per due anni). La notizia della conclusione dell’affaire è stata data dalla testata online Sardiniapost che ha trovato, per ironia della sorte, proprio sulla Rete, l’unica prova. È la procedura aperta per l’appalto di pulizie che indica la base d’asta pari a 240mila euro (Iva esclusa) per due anni e indica anche la sede di SardegnaIt: esattamente viale dei Giornalisti, n. 6, “edificio E”. Ormai è fatta: l’ultimo rinvio prevede come data per la consegna della domande a inizio aprile. I vincitori per le pulizie a breve, quindi. E probabilmente anche l’insediamento. Peccato che, come sottolinea Pablo Sole, non siano stati resi pubblici i risultati del precedente avviso, quello immobiliare. Né i partecipanti, né i vincitori: ma a quanto pare la procedura della ricerca non rendeva indispensabile la pubblicazione, in quanto non si tratta di “una gara d’appalto formale”. l contratto è quindi di due anni, anche se nel bando della “ricerca” si profila un tempo lungo: sei anni più altri sei. I termini scadevano a novembre 2011 e le procedure sono andate avanti in sordina. Un affare non da poco se si pensa che è prevista anche l’opzione di acquisto in leasing. Cioè la possibilità che la sede sia comprata dalla Regione, e l’affitto scontato dalla cifra finale. La concorrenza èstata sbaragliata dai requisiti obbligatori e preferibili: tra cui la vicinanza alle principali vie di comunicazione (nonché all’aeroporto), i punti ristoro, i parcheggi. Un’area, quella di Zuncheddu, che sembra fatta apposta per ospitare uffici pubblici e che, guarda caso, è ancora disponibile. L’inchiesta della Procura. Tutto ok, quindi? Il silenzio copre il dibattito e si procede con un evidente deficit di trasparenza? Non proprio, la Procura di Cagliari ha già aperto un fascicolo. Secondo quanto scrive Mauro Lissia su La Nuova Sardegna il pm Gaetano Porcu da marzo sta indagando sulla regolarità della selezione. Nessuna ipotesi di reato, al momento. Il tesoretto per gli affitti in Finanziaria. Insomma, mentre ancora si cerca di stabilire l’esatto patrimonio immobiliare regionale, dopo i passaggi dal Demanio nel 2008, il mattone nuovo (e in locazione) continua a tirare in un momento in cui il mercato non strizza l’occhio ai costruttori. Al vaglio del Consiglio regionale (e commissioni) c’è la Finanziaria 2013 in cui spunta addirittura un aumento della cifra destinata agli affitti, pari a 6,2 milioni di euro, fino al 2015 oltre 18 milioni. ?Devo ancora vedere il documento ma è una spesa assolutamente ingiustificata, la taglieremo - dice Gian Valerio Sanna, consigliere Pd, e promette un repulisti, proprio sul fronte caldo della partecipate: ?A partire da SardegnaPromozione: sarà cancellata?. Santa Gilla mon amour. La passione delle giunte regionali di centrodestra per i palazzi dell’imprenditore di Burcei arriva da lontano. Da quella di Masala (An), con al Bilancio l’attuale governatore Cappellacci che eredita la questione. E se nel 2004 le delibere che portavano all’acquisto erano state bloccate dal successore del centrosinistra, Renato Soru, nel 2010, col cambio di guardia, scoppia di nuovo il “caso Santa Gilla” corredato da smentite ufficiali. Tanto da portare il Consiglio regionale a votare un ordine del giorno che prevedeva il voto vincolante di due commissioni per avere il via libera: la spesa prevista di oltre 125 milioni di euro. Ma non finisce lì. Le esigenze della giunta nel 2012 sono di nuovo“urgenti e indifferibili”: si punta a spostare alcuni assessorati, ora decentrati, lungo l’asse viale Trento, e creare “un polo ambientale” e un “polo scientifico” con in lizza anche il Crs4, illustre centro di ricerche che naviga in cattive acque. La cui gestione è nelle mani di un’altra partecipata, Sardegna Ricerche, presieduta da Ketty Corona, ex assessore agli Affari generali nonché socia in affari di Zuncheddu e figlia dello scomparso Armando, Gran maestro della massoneria. Gli ultimi tentativi di accorpamento risalgono alla scorsa estate con una serie di delibere più volte corrette, che si sono poi schiantate sul tavolo della commissione Bilancio, a dicembre. Dopo la bocciatura il silenzio. Mentre negli uffici regionali andava avanti il contratto di locazione per SardegnaIt come una qualsiasi vicenda tra privati. ========================================================= _____________________________________________________________ Sardegna Quotidiano 29 apr. ’13 AOUCA: IL BLOCCO Q È UN CANTIERE APERTO «A maggio pronto il piano per i bimbi» POLICLINICO Il nuovo reparto che dovrà ospitare i piccoli pazienti che saranno trasferiti dalla Macciotta ancora senza infissi. Entro la fine del mese prossimo, assicurano dall’azienda mista, sarà tutto a posto. In testate l’apertura totale Fare un giro al Blocco Q del Policlinico di Monserrato per adesso significa andare via impolverati ed avere molta fiducia. Entro un mese in questo gioiello, nuovo fuori ma ancora disadorno dentro, con prese da sistemare e porte nel cellophane, sarà trasferita una parte i bambini della clinica Macciotta che da giorni è presidiata dai vigili del fuoco. Condizioni precarie arcinote e altri episodi poco piacevoli hanno fatto accelerare ciò che era già presumibile da tempo, lo sgombro della vecchia clinica. Ma se preparare tutto l’edificio nuovo nei tempi previsti sarebbe un’impresa, almeno quel secondo piano destinato a ospitare e custodire i bambini del reparto di Neonatologia dovrebbe essere pronto come richiesto. Nel frattempo i lavori proseguiranno. L’ULTIMATUM L’urgenza è urgenza da qualche anno, ma in attesa di capire che fare con le creature ricoverate in via Porcell si ipotizzavano le soluzioni. Finché l’assessore alla Sanità Simona De Francisci, col blitz dello scorso 8 marzo al Blocco tanto atteso, ha deciso di dare l’ultimatum al Policlinico dell’Azienda mista. L’ordine che arriva dalla Regione è che la struttura del Policlinico sia pronta entro il 30 maggio per poter ospitare un numero che va dai 18 ai 30 bambini che lasceranno la Macciotta con un trasferimento speciale, calcolato nei dettagli di tempo e chilometri, per il quale saranno impiegate ambulanze attrezzate e personale specifico, ma anche forze dell’ordine che assicurino un viaggio senza ostacoli. Per adesso il nuovo reparto di neonatologia nelle due sezioni di terapia intensiva e puericultura dovrebbe sorgere in un edificio che presenta scavi aperti nel retro, che ha già asfaltato una strada nel fronte per l’accesso delle ambulanze ma che all’interno avrebbe bisogno di essere sistemato e ripulito. Renderlo accogliente in un mese non è impossibile, a mancare all’interno sarebbe solo qualche rifinitura e soprattutto gli arredi adatti per un ospedale per bambini per il quale si stanno muovendo insieme le due direzioni mediche delle due cliniche che devono studiare nei minimi dettagli il sorgere del nuovo ospedale. Gli operai nel frattempo lavorano ogni giorno nell’attesa della prima data da rispettare, il resto verrà da sé perché nel nuovo edificio del Policlinico al più presto dovranno essere trasferiti anche altri reparti della clinica. A GIUGNO ALTRI TRASFERIMENTI A giugno, secondo i piani e gli accordi, sarà la volta del reparto di Pediatria e dalla Neuropsichiatria infantile che andranno ad occupare gli altri due piani dell’edificio. Per Ginecologia e Ostetricia che saranno disposte probabilmente nel terzo piano si dovrà ancora aspettare qualche mese ma sembra chiaro che entro fine estate la clinica Macciotta, uffici universitari esclusi, sarà chiusa. Qualche giorno fa un ulteriore incontro tra Regione, forze dell’ordine e Asl ha iniziato a pianificare nei dettagli l’esodo dei bambini. Che non sarà facile e richiederà molte forze e sostegno. Virginia Saba _____________________________________________________________ Sardegna Quotidiano 29 apr. ’13 AOUCA: MACCIOTTA CLINICA FATISCENTE PRESIDIO DEI VIGILI DEL FUOCO «La clinica Macciotta, che in tutti questi anni è stata un punto di riferimento in Sardegna ora non è più adatta alle esigenze né di sicurezza, tantomeno sanitarie, sia per i bambini ricoverati che per il personale che ci lavora. Il trasferimento con urgenza della Neonatologia, di Ginecologia e Ostetricia non è più dunque rinviabile e anzi va eseguito al più presto». Così aveva dichiarato un mese fa Simona De Francisci sulla clinica che da tempo non è più adeguata ad ospitare i bambini per le condizioni fatiscenti e che da diversi giorni è presidiata dai vigili del fuoco. Nel 2011 un neonato aveva rischiato di perdere la vita. Gli infermieri non erano riusciti a salire in ascensore fino al terzo piano della struttura universitaria perché il montacarichi, l'unico ascensore in grado di accogliere il lettino, che aiuta i prematuri a respirare, era bloccato. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 5 Mag. ’13 ASL2: CAPPELLACCI «VIA PROVINCIA E ASL» Il governatore: «L’accorpamento delle Aziende sanitarie è un bene, sul mio tavolo il protocollo per il San Raffaele» I NUOVI TAGLI»LA STANGATA di Luca Rojch wINVIATO A GOLFO ARANCI Con la grazia diplomatica di un presidente da campagna elettorale Ugo Cappellacci nasconde la mannaia dentro un mazzo di fiori. Parole dolci come miele che nasconde una sostanza amara come fiele. Il governatore in 5 minuti demolisce la Gallura, ma lo fa sempre nella certezza di fare del bene al territorio, di sostenere la sua indipendenza. «La Regione è matrigna? Tutto falso – sostiene –, è la gramigna politica a sostenere queste bugie che fanno male alla Sardegna. Noi puntiamo sulla blu economy». Tre picconate e la Provincia scompare. «La Provincia non la vogliamo abbattere – spiega –, c’è un disegno per cancellare tutte le Province. Iniziamo con le 4 abbattute dal referendum. L’ultimo termine è il 30 giugno per varare i provvedimenti che serviranno per andare oltre questi enti. Seguirà uno strumento istituzionale che cancellerà tutte le Province. Non si vuole danneggiare nessuno, ma ridurre i costi della politica». E anche l’Asl 2 si smaterializza in un attimo, l’accorpamento con Sassari è certissimo. «Oggi avete l’Asl di Olbia, prima avevate le Usl di Olbia e Tempio. Mi sembra che ora i servizi siano aumentati e la qualità cresciuta, allora si diceva che la fusione sarebbe stato uno scippo e una tragedia del territorio. Non è così. Le riforme sono fatte per migliorare i servizi e per il bene dei cittadini». Che fuori dai termini paludati e paludosi del politichese significa, via la Asl di Olbia e accorpamento con Sassari. Un uno-due capace di mandare al tappeto l’autonomia del territorio. Ma il governatore rianima il pugile suonato, con un balsamo fatto di promesse e ricordi. «Io vengo spesso in Gallura – ricorda –. Abbiamo lavorato a opere straordinarie come la Sassari-Olbia. Una infrastruttura essenziale a cui noi abbiamo dato vita con i nostri sforzi. E ora vigiliamo, dopo avere appaltato tutti i lotti, perché l'Anas porti avanti i lavori». Sul Qatar Cappellacci non ha dubbi. Sì è vero ora si parla solo di cemento, piano casa e stazzi che diventano ville, ma all’orizzonte c’è il munifico miraggio che l’emirato di sabbia e petrolio fa intravedere. Un miliardo di euro. «Uno stato straniero investe un miliardo di euro nel nostro territorio – continua –, per noi l'investimento deve andare avanti, deve essere rispettoso dell’ambiente e della volontà dei territori. Ho coinvolto i sindaci di Olbia e Arzachena nel tavolo romano in cui ci sono il Ministero dei beni culturali e il Ministero dello sviluppo economico, in cui si discute del Ppr e del master plan. Il piano del Qatar va oltre la riqualificazione dell’esistente. Va oltre la ristrutturazione degli stazzi realizzata con il piano casa. Vecchi progetti iniziati prima dell’arrivo dei qatarini».Tre mattoni di speranza anche per il San Raffaele. «Sono in contatto con il Bambin Gesù – spiega –. Esamino il protocollo che mi hanno inviato in questi giorni. Da tempo lavoriamo per definire questa pratica. E non esistono poteri forti a cui io dovrei rendere conto. Non esistono pressioni dei privati o di presunti potentati. Dimostrerò con i fatti le mie intenzioni». Il presidente si schiera contro l’arrivo del percolato. «A noi interessa l'indirizzo politico, il percorso normativo lo si costruisce. Dobbiamo respingere qualsiasi ipotesi di arrivo dei rifiuti. Abbiamo un modello che si basa sulla qualità dell’ambiente e della vita. Noi parliamo di green economy, abbiamo fatto un piano per le energie rinnovabili, abbiamo un brand che è la Sardegna come terra dei centenari. Non possiamo intaccarlo con l’importazione di navi cariche di percolato». _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 Mag. ’13 ASL2: D.A. TIDORE SI DIMETTE ASL GALLURESE A RISCHIO di Enrico Gaviano wOLBIA Le improvvise dimissioni di Giorgio Tidore dalla carica di direttore amministrativo dell’Asl2, aprono una serie di interrogativi sull’azienda sanitaria gallurese. Tidore era in sella da poco meno di due anni, visto che l’incarico gli era stato assegnato il 9 giugno del 2011. L’Asl, con le parole del manager Giovanni Antonio Fadda getta acqua sul fuoco delle polemiche. «Confermo che il Direttore Amministrativo della Asl 2 ha protocollato alcuni giorni fa le sue dimissioni – conferma –. Ringrazio il dottor Giorgio Tidore, apprezzato professionista, per l'impegno e la professionalità dimostrata e gli porgo i miei più sinceri auguri per il nuovo incarico. Nel frattempo però l'attività della nostra Azienda, non subirà alcun rallentamento, assicuro infatti alla popolazione che mi adopererò perchè il ruolo apicale sia ricoperto al più presto». Tidore andrà all’Asl cagliaritana, ma il suo addio lascia dubbi e strascichi polemici. Secondo una corrente di pensiero, l’improvviso commiato sarebbe dovuto ai risultati insoddisfacenti raggiunti dall’amministratore, con pesanti riflessi sui bilanci dell’azienda. Ma c’è anche chi pensa che queste dimissioni facciano capire come il futuro dell’Asl olbiese sia già segnato. Cioè che la Regione sia ben decisa, insieme al commissariamento delle province di nuova istituzione, anche ad accorpare le aziende sanitarie locali, portandole da otto a quattro. Questo soprattutto perché, secondo chi manovra le leve in Regione, si risparmierebbo soldi e si farebbe quadrare il cerchio sul problema dell’equilibrio del numero di posti letto nelle varie Asl. D’altro canto, però, la perdita della azienza sanitaria, farebbe fare un passo indietro alla sanità in Gallura. Per questo ci sarebbe d’attendersi una risposta ferma e decisa da parte della politica del territorio, e non solo da via Nanni, cioè dalla Provincia, che pure dovrebbe essere la prima a difendere l’autonomia del territorio. In ogni caso una sostituzione del direttore amministrativo dimissionario, dovrà essere presto fatta. Esattamente entro un mese. Nomi se ne fanno pochi. Potrebbe arrivare un manager da Cagliari, oppure potrebbe ritornare a Olbia il direttore amministrativo in carica due anni fa, Mario Altana, attualmente alla Asl di Nuoro. Altana fu sacrificato sull’altare dell’esigenza di avere alla guida delle Asl un monocolore. E Olbia toccò all’Udc. Due anni, di questi tempi, per la politica sono un’eternità. Chissà che, eliminati i veti incrociati, Altana non ritorni in auge da queste parti. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 4 Mag. ’13 ASL 2: TEMUSSI AL POSTO DI TIDORE Il manager sassarese in pole position per la carica di direttore amministrativo di Enrico Gaviano wOLBIA «Mi adopererò perché il ruolo di direttore amministrativo dell’Asl gallurese venga ricoperto al più presto». Il manager dell’Asl2, Giovanni Antonio Fadda, è stato chiaro all’indomani delle improvvise dimissioni dell’attuale direttore amministrativo Giorgio Tidore, che andrà a lavorare a Cagliari. Sembra che il successore di Tidore sia stato già designato. Si tratterebbe, il condizionale è d’obbligo sino alla comunicazione ufficiale, di Massimo Temussi, un dirigente sassarese di 43 anni con una robusta esperienza manageriale. L’ultimo incarico ricoperto è stato quello di direttore generale dell’assessorato regionale al lavoro e subito precedentemente, quello di direttore generale dell’assessorato regionale alla sanità. Dal 2007 Temussi è stato dirigente dei servizi finanziari dell’azienda ospedaliera Universitaria di Sassari. Un uomo di centrodestra, che politicamente risulta essere vicino ad Antonangelo Liori. La designazione di Temussi dovrebbe essere effettuata entro la prossima settimana e fa decadere la possibilità che nell’ufficio amministrativo di Tannaule possa sedersi Mario Altana, che ha preceduto in quella carica Giorgio Tidore, e che attualmente è direttore amministrativo dell’Azienda sanitaria di Nuoro. Il diretto interessato, del resto, al momento insegue altri obiettivi. «Ho letto sulla stampa che sarei potuto essere il successore di Tidore – dice Altana –. Chiaramente una proposta di ritorno a Olbia mi lusingherebbe, ma al momento devo dire che ho altri tre anni di contratto con la Asl nuorese, e io sono solito rispettare gli impegni. Poi c’è ancora da dire che abbiamo a Nuoro in piedi diversi progetti ambiziosi, che vorrei portare a conclusione». Niente Olbia, per ora, per Altana, che però non nasconde il desiderio di poter collaborare con l’Asl 2. «Credo che fra Nuoro e Olbia sotto il profilo sanitario – dice l’attuale direttore amministrativo dell’azienda sanitaria nuorese –, si possano avviare delle sinergie profonde. Con l’obiettivo di ottimizzare l’offerta per le popolazioni delle due province». Restano in piedi, comunque, i dubbi e le perplessità che hanno accompagnato l’improvviso abbandono di Tidore, che ha protocollato le dimissioni dalla carica di direttore amministrativo dell’Asl gallurese lunedì scorso. Un commiato avvenuto poco meno di due anni dopo la nomina a Olbia del manager nuorese. Le opzioni che girano per spiegare le dimissioni sono due. La prima vedrebbe Tidore protagonista di un lavoro poco soddisfacente, che si è riflesso sui bilanci dell’azienda sanitaria gallurese. In questo caso, il dirigente sarebbe stato per così dire «forzato» a lasciare il posto. L’altra ipotesi che si profila risulta essere ferale per il territorio. E cioè che nel disegno generale della Regione, ci sia dietro l’angolo la riduzione delle Asl da 8 a 4, con il conseguente accorpamento dell’azienda sanitaria gallurese con quella sassarese. Un’ipotesi che sicuramente risulterebbe deleteria per la Gallura che in questi anni si è vista spogliare già di una serie di uffici statali di importanza vitale. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 4 Mag. ’13 ASL8: TIDORE AL POSTO DI SERRA CAGLIARI Cambio al vertice della direzione amministrativa della Asl di Cagliari. Dopo due anni Vincenzo Serra lascia e viene nominato direttore della Programmazione e controllo della stessa Asl. Al suo posto subentrerà nei prossimi giorni Giorgio Tidore, già direttore amministrativo della Asl di Olbia. «Lascio la direzione amministrativa dell’Azienda che – ha dichiarato Serra – in due anni ha raggiunto l’equilibrio economico recuperando i 56 milioni di euro di perdita registrati nel 2010». _____________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Mag. ’13 IL POPULISMO ANTIMEDICO di PIERLUIGI BATTISTA Capisco la disperazione dei malati davanti alla presunzione della scienza È uscito in Italia un librone voluminoso, pieno di numeri e dati che si vorrebbero inoppugnabili. È scritto da un medico, Ben Goldacre, quindi da un autore ferrato nella materia trattata. Il titolo è Effetti collaterali (Mondadori). Ma il nucleo incandescente è depositato nel sottotitolo: «Come le case farmaceutiche ingannano medici e pazienti». «L'intero edificio della medicina è compromesso», scrive con il piglio della denuncia traumatizzante Goldacre, «perché i dati di cui ci serviamo per prendere le decisioni sono irrimediabilmente e sistematicamente falsati». «Falsati» non è un termine neutro e incolore. Indica un imbroglio. Addita alla pubblica esecrazione una manipolazione criminale che inquina la ricerca e la medicina, ambedue prese in ostaggio da case farmaceutiche avide, corrotte, dedite al falso, traditrici della loro missione. E la vita media che si allunga? E le malattie che seminavano stragi nell'umanità e che per nostra fortuna sono state debellate grazie alla ricerca e alla scoperta di farmaci nuovi? Roba del passato. Oggi soffia un vento opposto, che mette sotto accusa la medicina ufficiale, i suoi «protocolli», il metodo che l'ha sostenuta, l'abito razionale che l'ha aiutata a migliorarsi e a diffondersi. Oggi si chiede il conto a una scienza medica che si credeva onnipotente. La medicina è messa sul banco degli imputati, bollata addirittura come incapace, inadeguata, e anche arrogante e intollerante. Se il tema non fosse tanto serio e drammatico, si potrebbe ribattezzare questo clima forsennatamente ostile nei confronti della scienza che si vuole investita dei crismi dell'«ufficialità» come una forma di «populismo»: un sentimento tossico e diffuso che scarica ogni genere di frustrazione e di esacerbata ostilità nei confronti dell'establishment medico-scientifico che si ritiene depositario del Canone con cui curare le malattie. Lo scrivo con un certo pudore, perché il destino ha voluto che soffrissi la scomparsa della persona a me più cara, e sulla cui vita prematuramente troncata si è misurata l'impotenza della medicina che veste il camice bianco. Ma raccontando nella Fine del giorno i quindici mesi del tumore al polmone «inoperabile» che ha portato via da questo mondo la mia compagna Silvia, ho voluto descrivere quanto nel «mondo parallelo dell'oncologia», tra i malati e soprattutto tra le persone più vicine ai malati, facesse sentire i suoi effetti psicologicamente devastanti «una fornace ribollente di emotività surriscaldata, sovraccarica di sentimenti e risentimenti intensi», alimentati dalla frustrazione per una medicina inadeguata di fronte al compito di salvare la vita di tanti esseri umani. Inoltre mi è capitato di notare quanto sia diffuso, anche tra persone miti, certo non inclini alle esasperazioni ipersemplificate delle teorie cospirazioniste, la credenza in un Grande Complotto Chemioterapico, l'idea avvelenata che esista un accordo segreto tra le case farmaceutiche e i medici per occultare i veri rimedi contro il cancro, che esisterebbero, ma la cui diffusione verrebbe nascosta per non prosciugare inesorabilmente immensi e immeritati guadagni strappati sulla pelle dei malati ignari. Il libro di Ben Goldacre citato all'inizio sostiene per la verità che le case farmaceutiche ingannino «medici e pazienti». La denuncia contro il Grande Complotto Chemioterapico, che fa proseliti tra i parenti dei malati che la medicina ufficiale non è stata in grado di salvare, colloca invece i medici a fianco delle case farmaceutiche, e addirittura loro complici. La congiura del silenzio orchestrata dalle case farmaceutiche poggia, secondo questa visione stravolta e dai fortissimi connotati paranoici, su un altro complotto: quello dei «camici bianchi» che inoculerebbero gli ingredienti della chemio nel corpo straziato dei malati, ben conoscendo la loro inutilità, e anzi occultando i veri rimedi contro le tipologie di cancro finora considerate inguaribili. È un delirio, vero. Ma è incredibile il numero di lettere e di mail di parenti di malati uccisi dal cancro che mi hanno raggiunto dopo la pubblicazione del libro La fine del giorno. Ed è incredibile che la maggior parte di queste lettere, cartacee o elettroniche, sembri far propria la tesi del Grande Complotto e trasmetta la sensazione di un rancore inestinguibile nei confronti della scienza «ufficiale». «Ufficiale», ma a tal punto prepotente da permettersi di bollare come «antiscientifiche» metodologie non approvate dai rigidi «protocolli» medici e che pure si narra, si dice, che non siano prive di efficacia. Prove della loro efficacia? Nessuna. Ma l'odio per la scienza onnipotente, che svela sempre più frequentemente tutta la sua impotenza, non richiede conferme fattuali: è così, e basta. Ho già raccontato di quella volta che Silvia fu raggiunta da una lettera di una signora affetta da un tumore al seno che le rivelava il nome del sicuro rimedio che avrebbe guarito l'umanità dalla piaga del cancro: il bicarbonato. Ho saputo poi che la setta di quelli che credono nelle virtù taumaturgiche antitumore del bicarbonato conta molti adepti sparsi nel mondo. Così come, quale ultimo tentativo, molte persone anche scettiche, colte, solitamente protette dalla solida corazza della razionalità illuministica, cedono alla tentazione del pellegrinaggio all'Avana per recuperare dosi del veleno ottenuto dallo scuotimento dello «scorpione blu», che si dice contenga misteriose sostanze curative per ogni genere di neoplasia. Ma ho imparato (meglio: ho dovuto imparare) che sarebbe sciocco, e anche irriguardoso per chi è prigioniero di un sentimento di dolore e di disperazione, liquidare questo ribollire di umori corrosivi e risentiti come una primitiva manifestazione di irrazionalismo, o peggio ancora di «superstizione». Non solo, come scriveva genialmente Ennio Flaiano, perché «in trincea nessuno è ateo». Ma perché per chi è malato e constata con crescente amarezza l'inutilità dei flaconi di cisplatino e degli altri ingredienti chemioterapici iniettati in tanti corpi inermi, il veleno dello «scorpione blu» può rappresentare l'ultima ancora di salvezza. La scienza dovrebbe immergersi nelle acque dell'umiltà e comprendere che la grande delusione sull'efficacia dei «protocolli» medici genera vulnerabilità e debolezza e che in questo spazio dell'impotenza e della disperazione possono infilarsi, come infatti regolarmente accade, ciarlatani, guaritori improvvisati, cialtroni che vendono speranze lucrando sulla credulità e sull'ignoranza. E dovrebbe fare la fatica di spiegare pazientemente come stanno le cose, senza nascondersi dietro la gelida oggettività dei «protocolli». Il «populismo» indirizzato contro l'establishment medico-scientifico ha le sue ragioni. Soffre di un divario troppo accentuato tra le promesse e le attese di una vita sempre più lunga e la realtà di vite che non sono state recuperate, di malattie incurabili, di dolori che non si è riusciti a mitigare. Il dibattito sull'efficacia di rimedi come quelli propagandati da «Stamina», e di cui il «Corriere Salute» ha dato recentemente ampia documentazione, in fondo nasce su questo stesso terreno. Perché, e a che titolo, i sacerdoti e gli addetti alla purezza della scienza «ufficiale» dovrebbero scagliarsi contro chi sembra abbia escogitato un metodo più efficace per combattere malattie rare e nei confronti delle quali la medicina razionale, «occidentale», sottoposta alla rigida trafila dei «protocolli», non è capace di dire nulla? Non bisognerebbe essere perentori, al limite dell'insofferenza, verso chi non ha molte strade davanti a sé. Non bisognerebbe alimentare credenze assurde, ma nemmeno vittimizzare chi sembra in grado di dare risposte nuove, anche se non ci sono prove documentalmente sufficienti a garantirne l'affidabilità. È come se stesse venendo meno un pilastro che ha retto quasi per secoli l'ottimismo progressista di una medicina che ha sconfitto malattie terribili, ha permesso salute e benessere a un numero incalcolabile di persone, ha escogitato rimedi per ogni genere di sofferenza. Questa fiducia si è come dissolta. Fino a poco tempo fa a nessuno sarebbe venuto in mente di mettere in discussione i vaccini che hanno salvato la vita e la salute di milioni di bambini e di non considerare come benefattore dell'umanità chi li ha inventati e diffusi. Oggi una nube di risentimento «populista» sta bersagliando persino i vaccini, indicati come la causa di mali oscuri. Molte famiglie sono frastornate, giovani genitori affrontano la vaccinazione dei loro bambini con apprensione sempre crescente, anziché con la fiduciosa gratitudine verso sostanze che mettono i figli al riparo da malattie che un tempo ci si era rassegnati a considerare incurabili e realizzazione di un destino crudele, ma inarginabile. Questo risentimento, quando sfiora tentazioni neo-oscurantiste e regressive, deve essere contrastato con le armi migliori che la cultura occidentale ha forgiato nel tempo. Però bisogna comprendere che il rancore per le promesse non mantenute acutizza la delusione per chi si era presentato con il volto rassicurante della cura per ogni morbo. Se il messaggio trasmesso in passato era quello di confidare nell'inesauribile inventiva della tecnoscienza, nella possibilità di trovare un rimedio per ogni male, una medicina per ogni afflizione, è naturale che cresca il carico di frustrazione, se quel messaggio non viene onorato in presenza di tante malattie ancora non curabili con i metodi fissati nei «protocolli». Bisognerebbe realisticamente prenderne atto ed evitare ogni atteggiamento che suoni come arbitrariamente presuntuoso e supponente. Altrimenti saremo sommersi dai messaggi ammiccanti delle nuove superstizioni, lasciando spazi sterminati ai disinvolti venditori di nuovi miracoli. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 3 Mag. ’13 LA CONCORRENZA FA BENE ALLA SANITÀ LE REGIONI NON SIANO DI OSTACOLO Con tutti i suoi limiti, il nostro servizio sanitario nazionale ha almeno un pregio. L'infrastruttura federalista lascia a ogni Regione la libertà di provare a offrire le cure mediche a proprio modo. Simmetricamente, il cittadino è libero di scegliere il proprio luogo di cura. Ciò non permette soltanto ai malati di cercare il conforto della propria famiglia, qualora vivano distanti. Ma «premia» con pazienti e, dunque, risorse, chi offre un servizio migliore. Anche questa larvata forma di competizione è un processo d'apprendimento. Idealmente, in un contesto nel quale i pazienti «votano con i piedi», i fornitori dei servizi dovrebbero copiare gli uni dai successi degli altri. Da questa capacità di migliorare dipende la sostenibilità del sistema nel lungo periodo. Sfortunatamente, le burocrazie tendono a imparare con più difficoltà degli esseri umani in carne ed ossa. Soprattutto se possono ricorrere a delle scorciatoie. Con il decreto commissariale 156, la Regione Campania sta dando corso a una disposizione già prevista dalla finanziaria regionale dello scorso anno. I pazienti che desiderano fruire di cure mediche in un'altra Regione dovranno infatti richiedere espressa autorizzazione alla loro Asl (presso ciascuna sarà disposta un'apposita commissione). La misura per ora è limitata ad alcune prestazioni (di tipo oculistico e ortopedico), ritenute a rischio inappropriatezza. Dal punto di vista del governo regionale, è un comprensibile tentativo di frenare il drenaggio di risorse. Se l'esperimento avesse successo, e venisse esteso anche ad altre patologie e altre Regioni, il paziente perderebbe di fatto la libertà di scegliere il luogo di cura: essa diverrebbe, al massimo, una gentile concessione. La limitata concorrenza fra Regioni e strutture ospedaliere si ridurrebbe ulteriormente. E perché mai disturbarsi a cercare di far meglio, se i pazienti sono, a tutti gli effetti, mie proprietà? E' importante risanare le finanze regionali. Attenzione però a un sollievo a breve termine che mette a rischio, nel lungo, la qualità delle cure che ciascuno di noi può ricevere. Alberto Mingardi _____________________________________________________________ Repubblica 1 Mag. ’13 SANITA?: STOP AL CONSUMISMO E ALL'ECCESSO DI TECNOLOGIA: UN LIBRO SPIEGA COME SALVARE IL SISTEMA SANITARIO Ottavio Davini, radiologo, per cinque anni direttore sanitario delle Molinette di Torino, analizza in "Il prezzo della salute" i comportamenti che mettono a rischio l'assistenza. E illustra i motivi per cui i tagli lineari non possono funzionare di SILVANA MAZZOCCHI Accertamenti superflui, analisi ripetute senza necessità, consumismo sanitario compulsivo. Questa una delle cause della crisi del nostro sistema sanitario che, proprio a causa degli sprechi e del disordine sovrano che cerca di risparmiare sulle spese utili, invece che su quelle inutili, non riesce più a essere sostenibile. Mentre sempre più persone hanno la percezione di non ricevere servizi efficienti e adeguati alle loro necessità. Eppure il nostro è un ottimo sistema sanitario che inghiotte però una enorme ricchezza senza spesso garantire ciò che veramente serve. Un sistema che va riorganizzato in fretta, con una gestione competente che sappia finalmente utilizzare risorse economiche e professionali in modo agile ed equo. E' la tesi di Ottavio Davini, radiologo, per cinque anni direttore sanitario delle Molinette di Torino e autore di numerose pubblicazioni di settore, espressa nel suo ultimo libro: Il prezzo della salute. La malattia che mina la nostra sanità, sostiene Davini, è la stessa che affligge tutta la nostra società: un consumo esagerato, spesso dannoso, succube di un eccesso di tecnologia radiologica che mina il rapporto relazionale medico-paziente e che mette a rischio il welfare sanitario. Uno stato di cose correggibile soltanto con una "decrescita" ragionata e mirata che consenta di affrontare la crisi dell'intero welfare nazionale. Mentre la spending review ha provocato tagli indiscriminati senza riuscire a risolvere i problemi, le famiglie tagliano le spese per le visite di controllo e in tempi di crisi, curare e curarsi si rivela troppo spesso difficoltoso quando non impossibile. E' dunque necessario incidere sulle modalità della domanda e riconoscere che esistono dei limiti, imparando a convivere con essi. "L'obiettivo è fare sì che il servizio sanitario pubblico resti tale e resti sostenibile nel tempo", ragiona Ignazio Marino nella prefazione a Il prezzo della salute. Una sfida ardita che parte da una realtà difficile e contraddittoria. "Mai la nostra vita è durata così a lungo, mai siamo stati accuditi dalla medicina come capita ai nostri tempi e mai la scienza è riuscita a trasferire così tanto del suo sapere...." avverte Davini nel gettare le basi per proporre la sua soluzione "eppure mai sulla medicina e sui sistemi sanitari si sono addensati così tanti dubbi e critiche". Lei scrive che medici e pazienti consumano troppo. E’ possibile risparmiare e garantire lo stesso welfare sanitario? "È proprio risparmiando che si potrà garantire la sopravvivenza del Sistema Sanitario così come lo conosciamo. Ma i risparmi si devono fare sulle spese inutili (che in medicina sono sempre anche dannose per la salute) e non su quelle utili, ed è per questo che i tagli lineari non possono funzionare. Le principali spinte all’aumento della spesa sanitaria sono l’invecchiamento della popolazione e l’evoluzione delle tecnologie; dato che non possiamo, ovviamente, interrompere il primo (che è anche un prodotto della moderna medicina) dobbiamo governare la seconda. E su questo si potrebbe fare molto, moltissimo, ma si fa ancora troppo poco. Nel libro, per esempio, spiego quali sono i meccanismi che lavorano per farci credere che una nuova tecnologia, solo perché nuova e più costosa (il cosiddetto “imperativo tecnologico”) è necessariamente migliore della vecchia (che costa meno). Questo nella speranza che conoscendo il nemico crescano gli anticorpi e si evitino comportamenti pericolosi per la nostra salute e per i conti della sanità: noi oggi consumiamo tonnellate di farmaci anche quando non servono a nulla (e quindi ci becchiamo solo gli effetti collaterali) o facciamo milioni di esami e visite solo per curare la nostra ansia, con il rischio di ritrovarci malati anche quando in realtà non lo siamo. E allora la nostra ansia cresce e la salute, a quel punto, ce la roviniamo davvero". Dove sono gli sprechi? "Gestione approssimativa, burocratizzazione, cattivo utilizzo delle risorse e dei professionisti, conflitti di interesse, purtroppo talvolta anche malaffare sono evidenti a chi lavora in sanità, e su questi si deve (e si può) intervenire. Gli strumenti ci sono e nel mio libro cerco di illustrarli, cosa che fa anche Ignazio Marino nella prefazione. Un esempio su tutti: le scelte in ambito sanitario devono essere fatte sulla base delle evidenze scientifiche e non degli interessi delle lobby o dei partiti; non è impossibile, basta volerlo, altri Paesi lo fanno. Ma quello che rischia di fare esplodere il sistema è la crescente tendenza all’iperconsumo: il consumismo si è trasferito anche alla sfera della salute, portandoci a 'comprare' prestazioni sanitarie con la stessa compulsione che ci spinge a comprare vestiti o cellulari. Ma come dalla frenesia consumistica deriva in larga misura frustrazione, così accade per la nostra salute, perché alcuni limiti sono invalicabili e perché l’innalzamento degli standard (durata e qualità della vita) non può continuare all'infinito. Inoltre stiamo assistendo, anche per interessi industriali, alla medicalizzazione di ogni giorno della nostra vita: sensazioni fisiche o emotive non gradite hanno sempre fatto parte della vita dell’uomo. Oggi queste sensazioni sono considerate vere patologie: esperienze comuni come insonnia, tristezza, irrequietezza delle gambe o riduzione dello stimolo sessuale vengono etichettate come malattie e curate con farmaci (ed è inutile che spieghi chi ci guadagna…). Il risultato? Dato che le prestazioni non necessarie in sanità non sono solo inutili ma diventano subito dannose, è la nostra salute ad andarci di mezzo. E intanto il banco salta". Il nostro sistema in difesa della salute potrà rimanere sostenibile? E come? "Il nostro è un ottimo sistema, anche se questa non è la percezione dei cittadini. Tutte le graduatorie internazionali (OMS, OCSE) dimostrano che il nostro Servizio Sanitario è, per risultati sulla salute dei cittadini, uno dei migliori al mondo. Molto migliore di quello americano, e migliore persino di quelli inglese e tedesco. Ma noi spendiamo molto meno di tutti i Paesi più evoluti. Prima di tutto, allora, non crediamo a chi ci propone "modalità alternative di finanziamento"; nel libro argomento perché, ma una cosa è chiara: si sgretolerebbe il principio universalistico che è alla base del Ssn, che si indebolirebbe, produrrebbe sempre meno qualità e quantità di prestazioni, espellendo un numero crescente di cittadini, che si sposterebbero nel campo delle assicurazioni private. Avremmo così fatto il capolavoro di copiare gli Usa (che potremmo copiare per molte cose, ma non certamente per il sistema sanitario), con la differenza che noi siamo un Paese più povero e quindi ne faremmo una copia al ribasso (ed è tutto dire). Non cerchiamo allora soluzioni avventurose e lavoriamo per migliorare quello che abbiamo. Come? È necessario che si diffonda in tutti (cittadini, operatori e politici) la consapevolezza che il migliore Sistema Sanitario è quello che garantisce equità di accesso, lavora per prevenire laddove possibile, utilizza al meglio le tecnologie disponibili quando è ragionevole il rapporto tra costi e benefici, impedisce l’espansione artificiale dei confini delle malattie per interessi industriali, in una parola va nella direzione di una medicina sostenibile che possa garantire una vita sana, ragionevolmente lunga e non si accanisca laddove è inutile o dannoso". Ottavio Davini Il prezzo della salute Nutrimenti Pag.350, euro 16,50. ___________________________________________________ SardiNews 5 Mag. ’13 SARDEGNA 2060 CON 480 MILA ABITANTI IN MENO Gli ultraottantenni sono cresciuti del 50,9 I preoccupanti dati del censimento Istat 2011, il raffronto con dieci anni fa e il futuro di Francesca Madrigali La Sardegna cambia, ma non troppo. Alcuni luoghi si spopolano, altri accolgono i più giovani in fuga da un mercato immobiliare spietato. Gli stranieri “impattano” in misura davvero contenuta, ma è solo grazie a loro se almeno una provincia (quella di Olbia- Tempio) risulta “demograficamente” dinamica in una regione che nel decennio 2001- 2011 è invecchiata tantissimo. I primi risultati ufficiali del Censimento 2011 sono stati presentati a Cagliari in un convegno al quale hanno partecipato rappresentanti del Comune, delle Prefetture, l’Istat e l’università di Cagliari. Il capoluogo sardo è uno dei cinque Comuni italiani che ha gestito “in proprio” anche il data entry dei dati raccolti. La tavola rotonda tra i rappresentanti istituzionali- il vicesindaco di Cagliari Paola Piras, l’assessore alle Politiche sociali Susanna Orrù, Mariano Porcu, Antonello Sanna dell’università e Andrea Mancini dell’Istat- ha fatto il punto sulla metodologia utilizzata per questo Censimento, la prospettiva futura e soprattutto l’utilità della rilevazione. “Il valore del dato come strumento per la democrazia consiste nella possibilità di valutare i ‘prodotti’ della politica, cioè per capire se i soldi del contribuente alla pubblica amministrazione sono stati utilizzati bene per la collettività, ad esempio per il welfare”, ha sottolineato Piras. Sabrina Perra (università di Cagliari) ha confermato che “i Paesi del Nord Europa hanno i migliori sistemi di welfare e hanno saputo gestire meglio il passaggio dalla governance accentrata a quella multilivello anche perché sono in grado di conoscere la biografia dei loro cittadini e di associare ad essi i bisogni delle differenti fasi della vita’”. La popolazione della Sardegna In Sardegna, la popolazione residente ha superato la soglia del milione e 600 mila abitanti nel 1991, mantenendosi poi sostanzialmente uguale. La tendenza ormai trentennale alla “crescita zero” viene così confermata, così come la storica dicotomia tra aree rurali e urbane, confermata da un indice del Gini (che misura il grado di concentrazione della popolazione) in aumento costante dal 1951. Quasi il cinquanta per cento della popolazione sarda, infatti (il 47,6 per cento) risiede nella tre province di Cagliari, Medio Campidano e Carbonia Iglesias. Il capoluogo presenta in assoluto il valore di densità abitativa più elevato (120,5 abitanti per km quadrato), su un dato medio sardo che è del 68,1, uno dei più bassi d’Italia dopo la Valle d’Aosta e la Basilicata. La particolare distribuzione territoriale della popolazione fa sì, ad esempio, che a fronte di quattro Comuni con più di 50 mila abitanti (Cagliari, Sassari, Quartu e Olbia), che raccolgono il 24,2 per cento della popolazione residente in Sardegna, il resto si distribuisca in piccoli o medi centri abitati. Questa evidenza conferma anche la storica tendenza registrata in Sardegna, della ridotta presenza delle case sparse. Su 377 Comuni l’83,3 per cento ha una popolazione non superiore al 5 mila abitanti, e in diversi casi (soprattutto nella provincia di Oristano) ci si attesta su valori che sfiorano appena i 500 abitanti. Nell’ultimo censimento si registra un aumento la popolazione dei centri di dimensione intermedia fra i 5 e i 20 mila abitanti, che sono poi quelli verso cui si dirige la più recente domanda abitativa, soprattutto per l’area vasta di Cagliari (7,9 della popolazione rispetto a 6,7 nel 2001). Stranieri La loro presenza è quasi quasi triplicata in Sardegna nell’ultimo decennio 2001-2011, arrivando a poco più di 30 mila unità. Sono concentrati soprattutto nelle province di Cagliari e Olbia- Tempio e nella fascia costiera settentrionale. Da sottolineare che in Sardegna l’incidenza media della popolazione straniera immigrata (18,7 per mille) è inferiore sia ai dati dell’Italia meridionale e insulare (27,7 e 23,4 per mille) sia a quelli delle altre regioni italiane. La componente femminile L’altro dato che storicamente caratterizza la demografia regionale è l’incidenza della popolazione femminile sul totale dei residenti, uno dei più bassi d’Italia, che si attesta al 51,1 per cento. “Si tratta soprattutto di donne in età feconda in una regione con una natalità contenuta”, spiega Perra. La ricercatrice, che da tempo- con i colleghi dei due atenei sardi - studia i fenomeni demografici, lancia un allarme sulla situazione attuale e sulle previsioni al 2035. “È un tempo molto vicino, e oggi la demografia ci permette previsioni precise, per cui la possibilità di un errore è molto contenuta. Fare qualcosa -o non fare alcunché- costituisce dunque una vera scelta politica”, sottolinea la Perra. La Sardegna invecchia Il dato che emerge con più forza da diversi indicatori è quello del progressivo invecchiamento della popolazione sarda nell’ultimo decennio. L’indice di vecchiaia (dato dal rapporto percentuale tra ultra65enni e popolazione con meno di 15 anni), infatti, fino al 2001 si attestava su valori inferiori alla media nazionale. Dal censimento 2011 possiamo vedere con chiarezza che questa tendenza si è invertita allineandosi o superando la media nazionale del 148,7: l’aumento della popolazione anziana (calcolata per i per i 65-79enni al 17,7 e per gli ultraottantenni addirittura nella misura del + 50,9) fa il paio con la perdita nella fascia d’età 0-14 anni (meno 25.809 unità) e fra i 15 e i 39 anni (meno 111.347 unità nel 2011). Il futuro L’indicatore composito di “malessere demografico” (Sdm) è un indicatore composto appunto da diversi dati, da “prospettive” differenti sullo stato di salute di una popolazione. Così, in Sardegna abbiamo Comuni che hanno avuto dei saldi sempre positivi o sempre negativi in termini di crescita della popolazione dal 1951 ad oggi, oppure un andamento altalenante. Il problema è che la gran parte dei Comuni sardi ha avuto variazioni sempre negative, che indicano cioè che da decenni la popolazione diminuisce (e, parallelamente, invecchia senza essere rimpiazzata). Come ha rilevato Massimo Esposito dell’università di Sassari nel 2035 la Sardegna avrà 5 mila abitanti in meno di oggi, 180 mila in meno nel 2055 e 480 mila in meno nel 2060. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Apr. ’13 MENO FIGLI E MEDICINE CONSUMATE CON ATTENZIONE La Sardegna è la Regione dove si fanno meno figli: il tasso di fecondità totale (numero medio di figli per donna) è pari a 1,14 figli per donna contro un valore medio italiano di 1,39 figli. Lo dicono i dati relativi al 2011. Inoltre, la Sardegna si conferma anche la regione dalle mamme più vecchie. Infatti, l'età media delle donne al parto è pari a 32,3 anni (età media nazionale 31,4 anni). In Sardegna solo il 9,3 per cento dei neonati è di donne con meno di 25 anni e ben il 9,8 per cento da donne over-40. Questi dati possono spiegare anche l'elevata incidenza di parti cesarei che si registra nell'isola. Nel 2010 sono stati il 41,16 per cento dei parti, contro una media nazionale di 38,71 per cento. Un altro dato: i sardi tendono a consumare le medicine con attenzione. Nel 2011 la spesa pro capite per consumo di farmaci nell'isola è pari a 229 euro. La media nazionale è di 204,3 euro. (f. m.) _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 Mag. ’13 CONSUMO DROGA, I DATI CNR SUGLI ADOLESCENTI: LA SARDEGNA È AI VERTICI L’isola nelle primissimi posizioni per il consumo di cocaina, eroina e cannabis. L’indagine è stata svolta a livello nazionale ed è una fotografia della situazione che comprende anche allucinogeni e stimolanti Cocaina ed eroina al sud, cannabis al nord, stimolanti e allucinogeni al centro. Con qualche eccezione questa è la mappa dell’uso di stupefacenti da parte degli adolescenti italiani fotografata dal rapporto Espad del Cnr. Nonostante leggi inasprite, campagne informative e studi scientifici sulla pericolosità delle sostanze stupefacenti quello degli adolescenti che fanno uso di droga rimane un esercito di più di seicentomila persone, un quarto del totale della popolazione scolastica che almeno una volta ha provato una canna o ha tirato di coca. La fotografia è del rapporto Espad dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Cnr, giunto alla quindicesima edizione, che anzi certifica un leggero aumento nell’uso di tutte le sostanze, a cominciare da quelle che sembravano dimenticate come l’eroina. «Tra le cose che ci hanno colpito quest’anno - spiega Sabrina Molinaro, che ha curato il rapporto - è che abbiamo per la prima volta visto un aumento anche nei consumi occasionali. Rispetto al resto d’Europa siamo nella ’top ten’ per il consumo di cannabis, eroina e cocaina, mentre per le altre droghe siamo nella media o sotto la media». L’indagine ha coinvolto 45.000 studenti delle scuole medie superiori e 516 istituti scolastici di tutta la penisola, e ha stimato su una popolazione di 2,5 milioni di ragazzi e ragazze oltre 500mila consumatori di cannabis, poco più di 60mila cocaina e 30mila oppiacei,con aumenti che variano tra lo 0,6% della cannabis e lo 0,1% dell’eroina. Aumentata lievemente anche l’assunzione di stimolanti: 3,8% nella vita e 2,6% nell’ultimo anno, contro 3,6% e 2,4% della precedente rilevazione. Ecco la situazione rilevata. CANNABIS . Prevalenze elevate di utilizzatori si osservano nelle regioni del centronord: il primato è in Sardegna e Lazio con il 24%, seguono Umbria, Toscana e Lombardia con quote intorno al 23%. Da segnalare che in Basilicata e Sicilia, dove le prevalenze dei consumatori occasionali sono minori, si registrano invece percentuali superiori alla media nazionale (2.8%) di utilizzatori frequenti (20 o più volte al mese), il dato di entrambe le regioni è infatti 3,4%. COCAINA. L’ultima rilevazione fotografa prevalenze più alte nel centro- sud, Un dato in controtendenza rispetto a quanto avveniva negli anni precedenti, durante i quali i consumi erano maggiori nelle regioni del nord. Le regioni sopra la media nazionale (2,7%) sono: Sardegna (3,2%), Sicilia, Basilicata, Abruzzo e Lazio (tutte intorno al 3%). EROINA. Gli iscritti nelle scuole dell’Italia meridionale continuano ad essere tra coloro che ne fanno più uso: Sardegna, Sicilia e Calabria con il 2.4%, seguono Molise, Puglia e Basilicata con il 2,3%. In tutte le regioni del nord invece, il fenomeno appare più circoscritto con i consumi compresi nella media nazionale (1,3%). ALLUCINOGENI. Le prevalenze di consumatori più alte sembrano essersi spostate dal nord al centro, con l’unica conferma della Liguria che, insieme a Toscana, Lazio, Marche e Molise, presentano percentuali intorno al 2,6%. STIMOLANTI. Gli studenti che riferiscono consumi superiori alla media nazionale (2,6%)19, risiedono nelle regioni del centro-nord. Rispetto al precedente studio, la dislocazione geografica si è leggermente modificata: escono dalla zona ross« Emilia Romagna, Toscana e Basilicata, entrano Lazio, Piemonte, Molise e Umbria. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Mag. ’13 VALORIZZARE IL PRIVATO NEL WELFARE Il convegno. Rilanciare un modello che dia peso alla società civile e alle risorse dei territori FONDAZIONE ROMA Il presidente Emanuele: «La crisi e le politiche europee di rigore mettono in evidenza l'inadeguatezza del nostro sistema di sicurezza sociale» Claudio Tucci ROMA Un nuovo modello di welfare. Che torni alle origini valorizzando il "legame sociale" e utilizzi le potenzialità del cosiddetto "terzo pilastro". Vale a dire quella galassia di soggetti diversi, imprese sociali, fondazioni, organizzazioni non governative e di volontariato, Onlus, «che costituiscono un antico patrimonio, tutto italiano, ora più che mai da valorizzare». Non è un mistero infatti che crisi economiche e politiche di rigore europee «stanno mettendo in evidenza l'inadeguatezza del nostro sistema di sicurezza sociale», sottolinea il presidente della «Fondazione Roma», Emmanuele Francesco Maria Emanuele. Dal 2008 al 2011 le fonti di finanziamento statale al welfare locale sono diminuite del 74% (sono passate da 2,1 miliardi a 0,55 miliardi), con il totale azzeramento di alcuni fondi (politiche giovanili, inclusione degli immigrati, pari opportunità, non autosufficienza) e la riduzione del «Fondo per le politiche sociali», passato da 930 milioni di euro ad appena 43 milioni. Di qui la necessità di rilanciare un modello italiano di welfare che passi attraverso una piena valorizzazione dei corpi intermedi della società civile e le risorse dei territori, dando così attuazione all'articolo 118 della Costituzione che ha introdotto in Italia il principio di sussidiarietà. Sul campo, del resto, esperienze da cui prendere spunto non mancano. Nella regione Lazio, per esempio, la cooperativa «Apriti Sesamo» del consorzio Nausicaa, la Caritas diocesana di Palestrina, Telecom Italia, il comune di Soriano nel Cimino (Viterbo) offrono già spunti interessanti per iniziare a mettere nero su bianco un nuovo sistema di protezione sociale costruito attraverso le cooperative che operano con una logica da impresa sociale, il volontariato organizzato – espressione della comunità locale – le aziende profit con una visione territoriale, le municipalità vicine ai cittadini. L'occasione per richiamare l'attenzione del nuovo governo sul futuro del welfare italiano (che è una emergenza per tutti i paesi sviluppati visto che il welfare europeo vale il 58% di quello mondiale, nonostante gli europei siano solo l'8% della popolazione del globo) è stata un convegno organizzato nella capitale dalla «Fondazione Roma», l'ente privato non profit di natura associativa che opera a sostegno del progresso economico e sociale della collettività (tra le iniziative di maggior spessore la Fondazione Roma-Hospice-SLA-Halzehimer). Nel corso dell'evento sono stati presentati gli esiti del progetto «Welfare 2020» frutto di una collaborazione biennale tra la «Fondazione Roma» e l'università Cattolica di Milano, coordinato dal professor Mauro Magatti e discussi, tra gli altri, dai presidenti del Cnel, Antonio Marzano e del Censis, Giuseppe De Rita. Quello a cui si guarda è un nuovo e – più partecipe – terzo settore, politiche domiciliari per la non autosufficienza, un piano territoriale per la conciliazione, e maggior sostegno all'autorganizzazione dei cittadini, superando così la precedente concezione di welfare di stampo statalista e assistenzialista. «Per garantire questo percorso di innovazione – è scritto nello studio – occorre ridisegnare il baricentro del sistema e collocarlo nelle comunità locali. Per l'Italia è una occasione imperdibile per avviare una grande stagione di innovazione istituzionale centrata sui beni di comunità intesi come nuove forme di governance partecipata a base territoriale». Da questo punto di vista la crisi può costituire l'occasione anche per interventi «che rafforzino le risorse sociali presenti, per esempio mediante la riorganizzazione dei flussi finanziari prodotti dalle famiglie attraverso i risparmi che ancora oggi si disperdono all'interno del mercato finanziario senza lasciare traccia sulla comunità». _____________________________________________________________ Tst 1 Mag. ’13 LA PROTESI D'ANCA DIVENTA ETERNA Prototipo italiano sbarca negli Usa Sono stati utilizzati due materiali biocompatibili che non si usurano a vicenda VALENT1NA ARMVIO La protesi all'anca del futuro è quella che dura per sempre. Tanto da poter essere quasi paragonata alle naturali articolazioni di cui è dotato un corpo umano in salute. A renderla possibile è stato un gruppo di ricercatori italiani dell'Università La Sapienza di Roma, grazie a un sistema in grado di eliminare il nemico numero uno dei dispositivi attuali: l'attrito. Gli scienziati, coordinati da Adelina Borruto della Facoltà di Ingegneria, infatti, sono riusciti a individuare due materiali che in «accoppiamento tribologico» - cioè quando entrano in contatto - non si danneggiano a vicenda. L'utilizzo di questi materiali nella realizzazione di protesi all'anca permette così di avere finalmente dispositivi che possono durare praticamente in eterno, quasi imitando quel perfetto meccanismo biomeccanico delle articolazioni naturali. «Il principio da cui siamo partiti è il seguente: tanto più è grande la differenza di bagnabilità tra i due materiali in accoppiamento tribologico, tanto più la protesi lavora in stato di lubrificazione e non produce detriti», spiega Borruto. Dopo numerosi esperimenti, condotti utilizzando materiali diversi, i ricercatori italiani sono riusciti a individuarne due in particolare che, pur interagendo, rimangono praticamente intatti nel tempo: oltre a essere di per sé resistenti, infatti, non si danneggiano a vicenda. L'idea dei ricercatori, quindi, è quella di associare una coppa femorale in un materiale idrofobico (che respinge l'acqua), quale il «Peek carbon fibre», e una testa femorale in materiale idrofilico (che si lega all'acqua). Questi due materiali biocompatibili - di cui, il primo, viene già sfruttato a livello industriale negli ingranaggi - sono di fatto anti-usura e insieme possono lavorare in tempi pressoché illimitati. «Questa nuova tecnica permette, quindi, di superare i limiti delle protesi attuali, legati anche a problemi di infiammazione o di dispersione di ioni metallici nell'organismo», sottolinea Borruto. I vantaggi di una protesi all'anca così resistente e duratura sono indubbi, soprattutto per i pazienti più giovani, per i quali l'opzione chirurgica è sempre posta in secondo piano proprio per la durata limitata delle tradizionali protesi impiantate. A trarne beneficio sarebbe perciò un numero crescente di pazienti, in difficoltà per Malattie o per incidenti. Secondo le stime della Società italiana di ortopedia e traumatologia, la Siot, nel nostro Paese vengono impiantate circa 100 mila protesi ogni anno. I costi sono da capogiro: un miliardo e 300 milioni di euro per operazioni e ricoveri e circa 500 milioni per la riabilitazione. L'età media al momento del primo intervento è di circa 56 anni: nel 65% dei casi la sostituzione dell'anca riguarda le donne, mentre la percentuale sale al 75% se l'impianto è successivo a una frattura da osteoporosi. Tuttavia, nell'ultimo periodo è aumentato anche il numero degli interventi su persone giovani: ogni anno, infatti, 20 mila protesi vengono impiantate nei pazienti «under 65» e in 5 mila pazienti con meno di 50 anni. E proprio loro sono, in qualche modo, gli «osservati speciali». La durata di una protesi all'anca, infatti, varia molto da persona a persona ed è determinata da un insieme di fattori: dalle condizioni fisiche del paziente al il livello di attività svolto, fino al peso e alla precisione del posizionamento nel corso dell'intervento. In genere, un dispositivo tradizionale può durare dai 15 ai 20 anni, il ché impone ai pazienti più giovani di sottoporsi a più di un intervento di sostituzione. Senza contare, inoltre, gli interventi che devono essere effettuati per rimuovere i detriti che possono crearsi in seguito a un urto accidentale della protesi stessa. Ecco perché il nuovo metodo messo a punto dai ricercatori italiani è stato accolto con entusiasmo dalla comunità scientifica internazionale. «Nel Laboratorio di Tribologia studiamo il comportamento legato all'attrito e all'usura di una vasta casistica di materiali - sottolinea Borruto In questo caso il nostro lavoro è stato individuare non solo un materiale antiusura, ma anche un accoppiamento tribologico ideale per garantire la longevità delle protesi». Lo studio della scienziata italiana ha già portato a un brevetto europeo e un altro americano. Ed è proprio negli States che Borruto presenterà, a Philadelphia, i risultati del suo lavoro, in occasione del primo «International Peek meeting». Dal 25 al 26 aprile riunirà ingegneri, scienziati e medici, in un ponte ideale tra mondo accademico e dell'industria. _____________________________________________________________ Il Giornale 5 Mag. ’13 BASTA UN PRELIEVO DI SANGUE PER CURARE TUTTE LE MALATTIE Sperimentazioni del futuro Abbiamo trovato la chiave per usare le staminali legalmente Già salvati centinaia di animali, ora si potrebbe passare all'uomo di Marco Polettini* n Italia in questo momento l'opinione pubblica si chiede perché alcuni medici sono a favore delle staminali ed altri le osteggiano. Perché alcuni giudici le consentano in casi particolari e perché invece nel mondo occidentale non vengono ammesse. Si sente parlare di interessi economici che boicottano questa nuova terapia, ma alla fine la situazione non è chiara a nessuno. Sono un veterinario e la veterinaria usa da 10 anni cellule staminali in diversi tipi di patologie senza restrizioni legislative. Anzi esistono Compagnie che le vendono per essere usate su cavalli, cani e gatti in tutto il mondo. Ma quali sono i risultati e chi ne è giudice? Sappiamo che le staminali embrionali o le pluripotenti indotte non possono essere usate perché provocano tumori. Sono prese in considerazione solo staminali adulte ottenute da midollo o grasso, e per ottenere una popolazione numericamente valida e ipoteticamente omogenea vengono messe in coltura. Questa tipologia di staminali è stata proposta ai veterinari pratici da varie ditte affinché le comprassero e le somministrassero ai loro pazienti. Ma i risultati sono stati contrastanti e di basso valore terapeutico. In veterinaria non basta un miglioramento del 10% per soddisfare un proprietario. Quindi un medico curioso ha la possibilità di conoscere i risultati della terapia perchè già provata su patologie vere in animali vicini all'uomo nella scala zoologica e non su animali di laboratorio! Ma anche se si accontentasse della pochezza del risultato rimane ancora il fatto che la sperimentazione è vietata. Ma perché è vietata? Mettere le staminali in coltura per 20 giorni perché si moltiplichino, le spinge a trasformarsi in altre tipologie cellulari p er cui le staminali cominciano a «indirizzarsi» e a mostrare sulle membrane delle cellule recettori delle ossa, delle cartilagini, dei muscoli, etc... perdendo quindi parte della loro capacità rigenerativa e soprattutto la popolazione diviene un «papocchio cellulare» diverso da coltura a coltura. Anche per questo i risultati, sempre abbastanza effimeri in veterinaria, sono contrastanti. In medicina umana per legge non è possibile sperimentare ciò che non si qualifica e quantifica, cioè ciò che non si conosce. Quindi sono cellule con potenzialità nota perché già sperimentate in veterinaria e inammissibili in un trial sperimentale umano perché com poste da popolazioni cellulari sempre diverse. Già 10 anni fa mi rendevo conto di queste difficoltà e mi proponevo di risolverle. Oggi abbiamo trovato la chiave per poter usare le staminali legalmente e con risultati tangibili attraverso cellule ottenute con un sistema di deprogrammazione. La popolazione cellulare risulta pura, allo stesso grado di maturazione, qualificabile, quantificabile consolo recettori di staminalità, ricca di staminali pluripotenti adeguate a curare anche malattie neurologiche. Le staminali si ottengono da 5 ml. di sangue in 72 ore, non hanno fattori di istocompatibilità, cioè non danno rigetto, per cui possono anche essere unvero e proprio farmaco da usare da un individuo all'altro senza controindicazioni, hanno altissima energia organizzativa ed informativa tali da resettare tutte le cellule dell'organismo secondo concetti di fisica moderna e le 20.000 inoculazioni su patologie non provocate mi hanno dato un protocollo terapeutico privo di effetti collaterali. Abbiamo potuto produrre su «Youtube» gli unici video significativi sulla terapia con staminali con un prima e un dopo, i brevetti sono stati accettati in USA, Europa, Asia, Australia etc... e sono state curate anche patologie neurologiche come vedete nei filmati mentre parlo. Per coloro che per ignoranza o malafede considerano questo lavoro non scientifico si documentino con le nostre pubblicazioni. Nei libri «Staminali del sangue» e «Thankstem» editi da Edizioni Altea viene spiegato in modo comprensibile a tutti la teoria che ha portato a tutto questo attraverso una vastissima casistica. * medico veterinario e ricercatore _____________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Mag. ’13 UN ROBOT DENTRO L'ADDOME: È LA CHIRURGIA MINIMALISTA Roma capoccia. Con una testa così, che sarebbe potuto andar (molto) lontano l'ha capito fin da ragazzino, ai primi anni di università, quando preferiva chiudersi in laboratorio piuttosto che al bar con gli amici. A Gianmarco Contino, 32 anni vissuti da cervello in fuga, piaceva la biologia molecolare. «Mi sono reso conto fin da subito che la genetica era uno strumento potente per fare meglio il nostro lavoro di tutti i giorni: curare le persone». Comino è un medico moderno: vede i pazienti e poi si chiude in laboratorio per cercare il modo più diretto possibile per curarli. Fin dagli inizi. Si laurea in Medicina a Roma Tor Vergata, poi a 25 anni si trasferisce a Milano per la specializzazione all'Istituto Europeo di Oncologia di Umberto Veronesi. È la sete di ricerca a portarlo oltreoceano alla Harvard University per lavorare sulla cura del carcinoma al pancreas. «Grazie alla vocazione che respiravo allo Ieo ho proposto i miei studi e ho ottenuto dalla Fondazione Veronesi una borsa per proseguire il lavoro all'Illinois University di Chicago, attraverso un progetto di chirurgia robotica». Già, un robot che rende ogni contatto col paziente un segnale digitale. Braccia meccaniche che entrano nell'addome del paziente. Contino siede davanti a una consolle e affronta l'anatomia umana attraverso telecamere tridimensionali. «Come se osservassi il paziente attraverso un telefonino con tantissime funzioni: la precisione è massima, si evitano i tremori delle mani e in futuro saremo in grado di vedere strutture anatomiche di fluorescenze diverse» spiega. Un modo per mettere in pratica la vecchia lezione di Veronesi: procedere sempre con il minimo che serve per raggiungere il massimo risultato». Lasciare l'Italia è stato un passaggio naturale. «È un discorso di opportunità: nel nostro Paese manca l'impegno a promuovere i talenti, anche oggi la situazione non è cambiata». Motivi strutturali, spesso culturali. L'Europa stessa vive in perenne ritardo con il movimento americano, sempre abile a coniugare attività clinica e ricerca. «Non è vero che tutti i migliori se ne vanno: chi resta non soffre la distanza dello stacco ma vede svanire molte opportunità professionali». Ma se nel mondo le distanze si accorciano grazie alla Rete, la geografia del proprio lavoro diventa il male minore. «Si vive della solidarietà di chi ha storie simili alla tua oltre a conoscere il fascino di quelle diverse». Contino vive una realtà che trova ogni giorno più interessante. «Una città bellissima, con un lago che sembra un mare dove andare a vedere il tramonto in bicicletta». Dopo una giornata che inizia molto presto in laboratorio. Training sui robot, ricerca, riunioni multidisciplinari. «Giornate belle perché sempre varie: si vive di discussioni e ci si nutre del continuo confronto di idee». L'America resta un posto dove le cose succedono più velocemente che altrove, dove è meno difficile attrarre fondi, collaborazioni internazionali e l'interesse di finanziatori privati, ma non manca chi per nostalgia vorrebbe tornare. «Conosco stranieri di talento che sognano di rientrare a casa: io la vivo più come una speranza, non tanto per me, ma per il mio Paese che le cose cambino». Difficile immaginarsi fra una quindicina d'anni. «Vorrei voltarmi indietro e vedere il contributo che ho dato, rimanendo un medico che sappia promuovere una ricerca continua, aiutando i giovani a crescere con nuove idee». Già, perché fare il ricercatore è un po' come seminare. Qualcosa tutti i giorni, per aprire una strada a chi saprà in futuro raccogliere frutti buoni e magari inaspettati. Guardando sempre avanti. Però indietro qualcosa di indelebile rimane. «Un biglietto che Veronesi mi scrisse quando passai da Harvard a Chicago: lui che sta spronando molti giovani a scommettere sulla forza delle proprie idee, mi ringraziava del contributo che stavo portando avanti coi miei studi». Un semaforo verde sulla lunga strada della ricerca. Stefano Landi _____________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Mag. ’13 L'ANTICORPO ANTICOLESTEROLO Il farmaco blocca la proteina dell'Ldl Sharlayne Tracy, quarant'anni, ex ragazza pompon, istruttrice di aerobica e madre di due bambini, è una persona molto, molto speciale: ha, nel sangue, livelli bassissimi di colesterolo Ldl (quello «cattivo» che predispone alle malattie cardiovascolari): soltanto 14 milligrammi per decilitro, quando i valori normali si aggirano attorno a 100. Ed è per questo che è diventata una star della ricerca: ha permesso di scoprire uno dei più promettenti farmaci anticolesterolo da quando l'Fda, l'ente americano di controllo sanitario, ha approvato la prima statina nel 1987. Tracy (il nome è di fantasia) vive nella contea di Dallas e nel 1999 è entrata a far parte di uno studio, il Dallas Heart Study, pensato per valutare i fattori di rischio cardiovascolare, sia nella popolazione bianca che in quella afroamericana, attraverso una serie di esami medici, analisi genetica compresa. È così che i ricercatori hanno scoperto, nel Dna di questa signora afroamericana, due rare mutazioni (una ereditata dal padre e una dalla madre) di un gene, chiamato Pcsk9: sono mutazioni che portano alla mancata produzione di una proteina fondamentale nel controllo del colesterolo Ldl. Risultato: chi non ha questa proteina ha bassissimi livelli di colesterolo cattivo. Mutazioni di questo tipo sono più frequenti fra gli afroamericani che fra i bianchi e riducono del 90 per cento la probabilità di andare incontro a un infarto o a un ictus. Da quando il Progetto Genoma ha permesso di sequenziare il Dna umano (la prima mappa è stata pubblicata nel 2001), i ricercatori hanno cominciato a cercare alterazioni del Dna legate al rischio di sviluppare malattie. Alcuni esperti hanno scelto l'approccio cosiddetto «genome wide association», che prevede di mettere a confronto il genoma di soggetti sani con quello dei malati. In questo modo, però, si scoprono varianti comuni del Dna, troppo comuni per essere utilizzate come spia di rischio di malattia. Altri studiosi, come Hobbs e Cohen, gli ideatori del Dallas Heart Study, hanno scelto la strada opposta: studiare le mutazioni rare che possono avere un grande impatto sulla malattia. Ecco perché con il loro studio hanno cercato gli opposti: o persone con livelli di colesterolo altissimi o persone con livelli di colesterolo bassissimi e sono poi andati a studiare i geni legati al metabolismo del colesterolo. E hanno trovato Tracy. Nel frattempo Catherine Boileau all'Ospedale Necker di Parigi stava studiando un'enigmatica proteina della famiglia delle convertasi e aveva scoperto che era aumentata in pazienti con ipercolesterolemie familiari, caratterizzate da alti livelli di Ldl. La proteina è codificata dal gene Pcsk9, ma in questo caso le mutazioni del gene (a differenza di quelle di Tracy) comportavano un aumento di proteina e quindi di Ldl. La sfida, a questo punto, era trovare un modo per bloccare la proteina procolesterolo. E i ricercatori sono arrivati alla costruzione di un anticorpo monoclonale capace proprio di fare questo. Attualmente sono molte le industrie che hanno investito in questo settore e sono già in corso studi clinici: uno di questi ha dimostrato che l'anticorpo monoclonale anti Pcsk9, associato alle statine, riduce del 73 per cento il colesterolo, mentre le statine da sole lo abbassano del 17 per cento. Il problema? Il farmaco va somministrato per iniezione. Effetti collaterali? Pochi: quelli legati all'iniezione, diarrea e cefalea, anche se negli animali si è osservato un'azione negativa sugli embrioni. Tracy, invece, con la sua mutazione naturale, sta benissimo. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Mag. ’13 «Dobbiamo essere dei civilizzatori» VERONESI: NON CREDO AGLI SCIENZIATI NEUTRALI, IL PRIMO A SCHIERARSI FU SOCRATE «L' idea di una Fondazione "per il progresso delle scienze" mi venne quando, parlando a un convegno di "Lotta ai tumori", conclusi il mio intervento dicendo che questa lotta sarebbe stata vinta se avessimo avuto fiducia nella forza del nostro intelletto, nella capacità di migliorare il mondo che ci circonda e nel primato della ragione. In una parola nella scienza. Avevo la percezione di una situazione di crisi nel mondo della scienza». UNA VISIONE PIUTTOSTO INSOLITA, VISTO CHE NEGLI ULTIMI DECENNI LA SCIENZA HA FATTO PROGRESSI COME MAI PRIMA NELLA STORIA «In effetti può sembrare un paradosso. Di solito in un sistema, o in un'organizzazione, si parla di crisi quando c'è un rallentamento, o quando non si riesce a procedere: oggi, lo sappiamo, c'è crisi economica e crisi politica. La scienza si trova nella situazione opposta: negli ultimi trent'anni ha progredito così rapidamente da creare una sorta di disagio nella popolazione. Si è formato un divario tra gli obiettivi della scienza e della tecnologia e il livello di consapevolezza della popolazione, che è rimasta disorientata davanti all'incalzare delle novità. È come quando, di fronte a un ragazzo adolescente che cresce un po' troppo rapidamente, i genitori si preoccupano perché pensano che si tratti di un fenomeno anomalo che non sanno come gestire. Se ci pensiamo bene, la scienza di oggi è una scienza adolescente: mi riferisco a quelle nuove aree di sviluppo che sono l'informatica, la genetica, la robotica, la nanotecnologia, che non esistevano trent'anni fa». MA NON È SEMPRE STATO COSÌ? L'ESEMPIO PIÙ CLASSICO È GALILEO, MA NON È CERTO UN CASO ISOLATO «In realtà si comincia ben prima di Galileo: lo scienziato è sempre stato visto con interesse o con curiosità, ma anche con sospetto. Basti pensare a Socrate, che secondo me è il primo grande eroe della scienza, che fu costretto a bere la cicuta perché aveva dichiarato di non credere agli dei dell'Olimpo. E tuttavia la scienza ha progredito imperterrita malgrado gli oscurantismi, le crisi economiche, i disastri naturali, le epidemie, le catastrofi. Ora, però, l'esplosione di produttività scientifica degli ultimi anni ci pone di fronte a un panorama inedito che, nella sua positività, suscita anche qualche perplessità. Facciamo un esempio: tecnicamente possiamo clonare un essere umano, ma di fronte a un clone umano siamo spiazzati eticamente e giuridicamente. Ecco dunque l'obiettivo e la ragione della nascita di una Fondazione che si occupi di questi temi. Che affronti i temi della ricerca e della creazione di una comunità scientifica internazionale, e che si impegni a costituire un vivaio di giovani scienziati e una selezione di menti sagge che indichino i limiti della sperimentazione scientifica». UNA MISSIONE CHE PERÒ DOVREBBE ESSERE GIÀ, ALMENO IN PARTE, RETAGGIO DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA E DI CHI DELEGA ALLE QUESTIONI ETICHE. «Non dobbiamo aspettare che a prendere decisioni siano il magistrato o l'uomo politico, che possono avere idee alterate dal bisogno di consenso. Il movimento di cui parlo deve nascere all'interno della scienza, ho pensato, e la scienza risponde a grandi principi etici: «l'universalità del pensiero scientifico», cioè il bisogno di rendere partecipe tutta l'umanità di ogni nuova scoperta, «l'oggettività della scienza», «la riproducibilità della scienza», ma soprattutto «la funzione civilizzatrice della scienza». La scienza deve essere in grado di aprire un discorso etico e di mantenere una valenza etica forte». MA LA SCIENZA NON DOVREBBE ESSERE «NEUTRALE»? PRODURRE CONOSCENZA E POI LASCIARE DECIDERE ALLA SOCIETÀ CIÒ CHE È GIUSTO O MENO UTILIZZARE DI QUESTA CONOSCENZA? «Io non credo che sia così. La scienza in questo caso sarebbe come una specie di corpo estraneo alla società, privo di coscienza etica, privo di percezione del significato di una collettività. Io credo che lo scienziato inconsapevole sia una leggenda e che il mondo della scienza debba essere consapevole e orgoglioso della sua funzione civilizzatrice. Il compito di questa Fondazione è dunque anche quello di richiamare gli scienziati a dotarsi di un codice etico e di impegnarsi per il progresso civile. Abbiamo creato un movimento sia di ragione che di morale. Il nostro progetto è rivalutare la dimensione sociale della scienza e diffondere una nuova cultura scientifica. Siamo attivi nelle scuole e stiamo progressivamente creando una nuova compagnie di giovani ricercatori biomedici — erogando centinaia di borse di studio ogni anno e finanziando progetti avanzati di ricerca — per preparare i medici del futuro a una medicinatotalmente nuova, che è il risultato delle nuove conoscenze sul Dna, che incideranno moltissimo sul nostro modo di curare i pazienti del futuro. Le nostre battaglie non sono state per nulla facili, ma questa Fondazione ha avuto un consenso, inaspettatamente, molto forte e sta diventando un'opera sempre più incisiva nella realtà nazionale ed internazionale. Le speranze quindi sono davvero molte, e io sono molto ottimista, perché, dimostrando che abbiamo tutti insieme un grande tema da affrontare, cioè il ruolo della scienza per il futuro, abbiamo già in parte colpito nel segno». Luigi Ripamonti _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 Mag. ’13 FARMACI: L'INGANNO DEI TEST TRUCCATI Big Pharma fattura ogni anno 600 miliardi di $ e ne spende il 25% in attività promozionali: rappresentanti, conferenze corsi di aggiornamento, spot Ermanno Bencivenga Quando prendiamo un farmaco per una patologia cronica come l'ipertensione o il diabete, lo facciamo per vivere meglio e più a lungo, non per abbassare i nostri valori numerici in certe misurazioni. Questi valori sono «parametri surrogati», cioè segnali che dovrebbero corrispondere a benefici (o danni). Come si determinano i benefici? In una disciplina empirica qual è la medicina contemporanea, si dovrebbe farlo con studi statistici di ampia portata che valutino l'effetto a lungo termine del farmaco rispetto ai suoi concorrenti. Ma le industrie farmaceutiche realizzano i loro profitti durante gli anni in cui detengono un brevetto, quindi hanno tutto l'interesse ad accelerare il processo di approvazione delle loro scoperte. La maggior parte degli studi su cui è basato tale processo è finanziata dalle industrie stesse e così i parametri surrogati vengono spesso usati per abbreviare i tempi: se i valori numerici migliorano, si dichiara che il farmaco è benefico. Talvolta il punto d'arrivo di questa scorciatoia è un disastro. Per anni l'aritmia cardiaca era stata considerata un parametro surrogato del rischio di fatalità in pazienti reduci da un infarto miocardico e numerosi farmaci erano presenti sul mercato e regolarmente prescritti per ridurla. Quando però fu condotto uno studio di ampiezza adeguata per verificare i reali benefici, i risultati furono ben diversi da quelli previsti. Il Cardiac Arrhythmia Suppression Trial (Cast) durò dal 1986 al 1998 e coinvolse oltre 1.700 pazienti in 27 centri clinici, dimostrando che tre dei farmaci in questione riducevano sì l'aritmia ma erano correlati a un numero maggiore, non minore, di morti. Oggi quei farmaci sono prescritti raramente, ma si ritiene che prima di tale mutamento di paradigma abbiano causato più di centomila morti inutili. Ho scelto questo esempio fra i moltissimi descritti in Bad Pharma da Ben Goldacre, medico e titolare della rubrica Bad Science su «The Guardian», perché meglio di altri dimostra che il problema da lui illustrato con dovizia di dettagli è politico, e non dipende dalla malafede o avidità di particolari individui. Una medicina senza farmaci è impossibile e, siccome in medicina rimangono ancora gravissimi enigmi privi di soluzione, la ricerca di nuovi farmaci è un compito di vitale importanza. L'unico modo sensato di stabilire la validità di un farmaco è quello di confrontarlo con le alternative, con studi rigorosi prima dell'approvazione e poi con un monitoraggio costante e capillare, oggi perfettamente possibile visto che ogni medico lavora con un computer sulla scrivania. Questa incombenza però non può essere lasciata nelle mani di un'industria che fattura globalmente ogni anno 600 miliardi di dollari ed è in grado di comprare chiunque. Nella migliore delle ipotesi, tale scelta provocherà occasionali tragici errori come quello messo in luce dal Cast; in situazioni meno rosee, causerà l'emergere di avidità e malafede, e dei mille orrori raccontati da Goldacre, il quale non a caso inizia il suo libro con l'augurio che i lettori ne escano furibondi. Gli studi su cui è basata l'approvazione di un farmaco sono condotti su pazienti poco rappresentativi della popolazione reale; lo confrontano non con le migliori alternative esistenti ma con un placebo (quindi al massimo dimostrano che il farmaco è meglio di niente); non dichiarano in anticipo gli effetti cercati o non rispettano quel che hanno dichiarato trovando invece per strada, dopo aver raccolto i dati, una qualsiasi rilevanza statistica favorevole. Se non sono positivi, non vengono pubblicati; se lo sono, l'industria si premura spesso di far scrivere gli articoli relativi dai propri ghostwriters e poi di ottenere la firma di opportuni accademici dietro lauti compensi per le loro "consulenze". Le prestigiose riviste su cui gli articoli sono pubblicati ricavano buona parte dei loro utili dalle inserzioni commerciali delle industrie farmaceutiche e dall'enorme quantità di reprints che le industrie comprano a caro prezzo per distribuirli a titolo "informativo" ai medici. E questa è solo la punta dell'iceberg del meccanismo pubblicitario: Big Pharma spende il 25% delle sue entrate (il 25% di 600 miliardi di dollari!) in attività promozionali: rappresentanti che dedicano il loro tempo ad acquisire una sospetta familiarità con i medici, conferenze e corsi di aggiornamento che hanno lo scopo di reclamizzare prodotti, spot che manipolano il pubblico e patologizzano semplici disagi. Tutto questo, ripeto, è orribile, e la lettura di Bad Pharma è un atto doveroso; ma la soluzione, insiste Goldacre, non può essere eliminare l'industria farmaceutica. Può solo essere proteggerla da se stessa: assumere insieme, da cittadini di Paesi democratici, il compito politico di guidarla con regole appropriate a metodi ed esiti più ragionevoli, facendo in modo che avidità e malafede non siano più le caratteristiche "vincenti" in un campo così delicato e decisivo per la nostra esistenza e il nostro benessere. © RIPRODUZIONE RISERVATA Ben Goldacre, Bad Pharma: How Drug Companies Mislead Doctors and Harm Patients, Faber and Faber, New York, pagg. 448, $ 28,00 _____________________________________________________________ La Stampa 2 Mag. ’13 NOCI PER LA SALUTE DEL CUORE, E NON SOLO Le noci sono state elette da tre diversi studi quale alimento ideale per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari, e non solo. Foto. ©photoxpress.com/ AGphotographer Tre diversi studi confermano che mangiare frutta secca a guscio migliora la salute in generale e riduce il rischio di malattie cardiache o cardiovascolari LM&SDP Molti tra i diversi tipi di frutta secca a guscio sono stati trovati essere buoni per la salute dell’organismo in generale e soprattutto per il sistema cardiocircolatorio e il cuore. In particolare, però, a offrire i maggiori benefici pare siano le classiche noci. Sono mandorle, noci del Brasile, anacardi, nocciole, noci macadamia, noci pecan, pinoli, pistacchi e le classiche noci, l’oggetto di tre distinti studi condotti al fine di accertarne il profilo nutrizionale e la qualità dietetica. Da questo confronto, i cui risultati sono stati presentati all’Experimental Biology Meeting che si è tenuto a Boston dal 20 al 24 aprile 2013, le classiche noci ne escono vincitrici. Dei tre studi che hanno esplorato le proprietà benefiche della frutta secca a guscio, il primo è stato condotto dai ricercatori della Loma Linda University. Ha visto la partecipazione di 803 adulti che dovevano compilare un convalidato questionario sulle abitudini e la frequenza alimentari, per valutare l’assunzione dei vari tipi di noci, comprese le arachidi. «I nostri risultati hanno dimostrato che una dose, pari a 28 g di frutta secca a settimana era significativamente associata con il 7 per cento in meno di sindrome metabolica [e relativi disordini] – ha spiegato al Meeting la dottoressa Karen Jaceldo-Siegl – E’ interessante notare che, mentre il consumo complessivo di noci è stato associato con una minore prevalenza di sindrome metabolica, le noci in particolare sembrano fornire effetti benefici su questa sindrome, indipendentemente da età, stile di vita e altri fattori dietetici». Nel secondo studio, gli adulti coinvolti erano oltre 14mila e facevano parte del NHANES (National Health and Nutrition Examination Surveys) condotto tra il 2005 e il 2010. Anche per costoro è stato analizzato il consumo di frutta secca a guscio e noci. Il consumo medio è stato stimato in circa 1 grammo al giorno. I dati raccolti hanno permesso di valutare un maggior apporto di calorie e nutrienti per coloro che consumavano le noci ma, allo stesso tempo un minore apporto di zuccheri, grassi saturi e sodio, rispetto a coloro che non consumavano le noci o la frutta secca. Chi consumava frutta secca, e ancora una volta le noci in particolare, presentava anche un minore peso corporeo, un ridotto girovita e BMI. Sempre i consumatori di noci, mostravano di avere una pressione sanguigna sistolica più bassa e una maggiore presenza di colesterolo HDL – quello “buono”. In linea generale, coloro che consumavano frutta secca a guscio erano meno a rischio malattie correlare alla sindrome metabolica e all’apparato cardiovascolare. Nel terzo studio si sono esaminati i diversi marker (marcatori biologici) per il rischio di malattie cardiovascolari. Lo hanno condotto i ricercatori canadesi dell’Università di Toronto e l’Ospedale di St. Michael. Una precedente loro grande ricerca aveva messo in evidenza come circa 2 grammi di frutta secca al giorno, in sostituzione di cibi ricchi di carboidrati, possano migliorare i livelli di zucche nel sangue e il controllo glicemico, nonché i livelli di lipidi (grassi), in soggetti con diabete di tipo 2. Lo studio sui marker ha invece evidenziato gli effetti benefici delle noci. «Abbiamo scoperto che il consumo di noci è stato associato con un aumento degli acidi grassi monoinsaturi (grassi buoni) nel sangue – ha spiegato la dottoressa Cyril Kendall, principale autore dello studio – che è stato correlato con una diminuzione del colesterolo totale, del colesterolo LDL, della pressione sanguigna, del rischio di malattia coronarica in 10 anni, e dell’HbA1c (un marker di controllo dello zucchero nel sangue) della la glicemia a digiuno». «Il consumo di noci – ha aggiunto Kendall – è stato anche trovato aumentare la dimensione delle particelle di LDL, fattore meno dannoso quando si parla di rischio di malattie cardiache». In definitiva, tutti e tre gli studi confermano che consumare frutta secca a guscio, e in particolare le noci, fa bene alla salute dell’organismo e del cuore. _____________________________________________________________ La Stampa 30 Apr. ’13 CACCOLE: MANGIARSELE FA BENE ALLA SALUTE L’abitudine, tipica dei bambini, di mangiarsi le caccole del naso pare abbia valenze salutari. Il gesto spontaneo sarebbe quindi promosso da una inconscia esigenza del sistema immunitario di rafforzare se stesso LM&SDP Chi più chi meno, tutti quanti da piccoli (e molti ancora da adulti) abbiamo passato del tempo a fare le “pulizie” interne del naso. A questo gesto istintivo, spesso, si aggiungeva l’abitudine di assaggiare quanto estratto con sì tanta dovizia: in pratica ci si mangiava le caccole. E, chi ha figli, sa quanto questo comportamento sia diffuso. Ma, proprio perché diffusa – e a quanto pare istintiva – questa pratica ha un suo perché: secondo gli scienziati canadesi dell’Università di Saskatchewan è un modo per rafforzare il sistema immunitario che il nostro organismo sfrutta per garantirsi una maggiore salute. Il biochimico professor Scott Napper e colleghi, hanno infatti ipotizzato che questa “compulsione”, tipica di molti bambini, è un modo con cui la Natura spinge gli esseri umani ad adottare un certo comportamento, perché va in qualche modo a nostro naturale vantaggio. La mucosa nasale, spiegano gli scienziati, intrappola germi, batteri e anche virus impedendo a essi di arrivare ai polmoni. Diviene così possibile che se mangiamo quanto prodotto dalla mucosa, l’esposizione a questi germi potrebbe effettivamente aiutare a creare l’immunità. Questa pratica «potrebbe insegnare al vostro sistema immunitario a cosa è più probabile si possa essere esposti, per cui questo potrebbe servire quasi come una vaccinazione naturale, se vogliamo», ha spiegato il prof. Napper all’emittente CTV Saskatoon. Cibarsi delle proprie produzioni nasali potrebbe dunque essere meglio che non soffiarle via nei fazzoletti. E’ possibile, ha infatti sottolineato Napper, che soffiando il naso nei fazzoletti potremmo defraudare i nostri corpi della possibilità di sviluppare anticorpi preziosi. Sebbene l’idea condivisa da Napper e colleghi sia ancora molto preliminare, ha comunque ottenuto molta attenzione da parte degli scienziati. Il prossimo, naturale, passo sarà ora quelli di condurre uno studio clinico. L’idea è quella di utilizzare un certo tipo di molecola che potrebbe essere inserita nel naso di un gruppo di volontari, la cui metà dei partecipanti dovrebbe raccoglierla dal loro naso e mangiarla, e poi vedere se la molecola può far loro dei danni o meno. In sostanza, capire se il “cibo” che viene dal naso è salutare o meno – oltre che gustoso, stando a quanto dichiarano i bambini che se lo gustano appunto con particolare piacere. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 4 Mag. ’13 QUELLA «DATA DI SCADENZA» SCRITTA NEL NOSTRO CERVELLO LA SCOPERTA SU «NATURE» Il fattore che regola l'invecchiamento: se viene inibita una molecola secreta dall'ipotalamo si ritarda la degenerazione Illustrazione di Guido Rosa I diversi tessuti del nostro corpo invecchiano a ritmi diversi, ma i neuroscienziati si sono chiesti da tempo se non vi sia un controllore centrale dell'invecchiamento, cioè un centro cerebrale e magari una specifica molecola prodotta da questo che invia un messaggio, con progressiva intensità, ai diversi tessuti. Un'equipe di neurofarmacologi e fisiologi dell'invecchiamento dell'Istituto Albert Einstein di New York, diretta da Dongsheng Cai, conferma, sull'ultimo numero della rivista Nature, che è proprio così, almeno nel topo. Un giudice indipendente e autorevole, il neurobiologo molecolare David Sinclair della Harvard Medical School, ha dichiarato che questo risultato costituisce «uno sfondamento notevole nella ricerca sull'invecchiamento». In sostanza, il dottor Cai e i suoi otto collaboratori hanno puntigliosamente seguito nel tempo le tracce di una molecola, chiamata NF-kB, secreta dall'ipotalamo, che controlla l'attività del Dna ed è coinvolta nei processi infiammatori e nelle reazioni allo stress. Lungo la vita del topo e del suo cervello, questi studiosi hanno rivelato una crescente presenza di questa molecola. Cai e collaboratori concludono che l'invecchiamento detto sistematico, cioè esteso a molti tessuti diversi, viene veramente pilotato da un tessuto cerebrale particolare, cioè, appunto, l'ipotalamo. Osservando lungo molti mesi lo stato generale di salute e le capacità cognitive di topi normali e di topi ai quali era stata iniettata una molecola che inibisce l'azione del fattore NF-kB si è osservata una notevole differenza. Inibendo l'azione di questo fattore si ritarda l'invecchiamento. Un ulteriore giudice autorevole e spassionato, il neuropatologo Richard Miller dell'Università del Michigan ad Ann Arbor, conferma che questi dati rendono molto plausibile la conclusione che l'intero processo di invecchiamento viene decelerato, quando si inibisce l'azione di questo fattore. I fattori molecolari, di norma, agiscono a catena, quindi, anche inibendo un enzima chiamato IKK-beta, che agisce, per così dire, a monte di NF-kB e lo attiva, si rallenta l'invecchiamento. Sopprimendo l'attività di questo enzima, la vita media dei topi trattati si allunga del 23 per cento e la massima durata della vita aumenta del 20 per cento. Un risultato che, certo, ci fa gola, se si pensa che tali trattamenti potranno essere estesi agli esseri umani. Ma questo resta per ora del tutto ipotetico. Nella catena di attivazioni e inibizioni molecolari entra un ben noto ormone, chiamato GnRH (ormone di rilascio della gonadotropina), un fattore che promuove la crescita delle reti neuronali e delle gonadi. Lo NF-kB, molecola d'un tratto divenuta infame, compete con questo ormone, producendo quindi almeno i due fenomeni più smaccati dell'invecchiamento, degrado dell'intelletto e della sessualità. Ma, mi si consenta di insistere, tutto questo per ora riguarda solo il topo. Sarebbe insensato non tentare un allargamento di queste ricerche e il possibile sviluppo di farmaci capaci di rallentare l'invecchiamento, forse prolungare la vita e alleviare i disturbi dell'età come infiammazioni, artrite, diabete e Alzheimer. Grande quanto un fagiolo, situato alla base del cervello, l'ipotalamo era già noto come controllore del sistema simpatico, della temperatura corporea, della fame, della sete, del sonno, della fatica e perfino dell'attaccamento alla prole. Integrando tra loro le attività neuronali e le risposte immunitarie, adesso si scopre che regola anche l'invecchiamento. Due bersagli farmacologici possono rallentare questa azione. Hanno sigle esotiche: IKK-beta e NF-kB. Bloccandoli, si rallenta la vecchiaia. I dati adesso pubblicati dicono chiaramente che possibili futuri farmaci potranno solo agire dopo la maturità. I giovani sono invitati ad astenersi. Massimo Piattelli Palmarini _____________________________________________________________ Sanità News 2 Mag. ’13 LA FLORA INTESTINALE E’ RESPONSABILE DI INFARTI E ICTUS La flora intestinale potrebbe essere la potenziale causa di molti casi di infarto e ictus. E' infatti all'orige della produzione di un 'veleno' per le arterie, la molecola Tmao, scaturita da sostanze presenti nella dieta come la lecitina e la carnitina. La scoperta, del team di Stanley Hazen della Cleveland Clinic, potrebbe aggiungere un'altra arma all'arsenale della prevenzione cardiovascolare. Gli esperti hanno dimostrato in un lavoro sul New England Journal of Medicine che la lecitina, di cui sono ricchi molti cibi tra cui uova e carne, viene trasformata in Tmao da alcuni batteri intestinali e che Tmao aumenta il rischio cardiovascolare favorendo l'arterosclerosi. Solo poche settimane fa gli stessi scienziati firmavano un altro lavoro, sulla rivista Nature Medicine, in cui dimostravano che la L-carnitina, utilizzata dagli sportivi e presente nelle carni rosse - viene trasformata nel veleno Tmao. Tmao sta per 'ossido di trimetilammina': gli esperti hanno scoperto che viene prodotta da batteri presenti solo nella flora intestinale delle persone che consumano carne (non in quella di vegetariani e vegani). Ed hanno visto che chi ha nel sangue alti livelli di Tmao, ha un rischio cardiovascolare più elevato. Nel nuovo studio gli scienziati hanno scoperto che anche la lecitina subisce nell'intestino una serie di processi di trasformazione che portano a Tmao. Hanno anche visto che somministrando antibiotici che uccidono la flora intestinale, la produzione di Tmao crolla nel sangue di volontari anche se questi mangiano uova (ricche di lecitina). Poi in un campione di oltre 4000 individui hanno visto che le concentrazioni di Tmao nel sangue sono strettamente legate al rischio infarto nei tre anni a venire, anche in quegli individui che non hanno chiari fattori di rischio cardiovascolari (come il colesterolo alto). Quindi l'analisi del sangue per misurare Tmao potrebbe divenire un esame di routine per calcolare il rischio cardiovascolare. Inoltre in futuro dando pro-biotici ad hoc (batteri che raggiungono l'intestino andando ad ingrossare le file della flora intestinale) si potrebbero ''sfrattare'' i batteri nocivi che producono Tmao Intestinal Microbial Metabolism of Phosphatidylcholine and Cardiovascular Risk W.H. Wilson Tang, M.D., Zeneng Wang, Ph.D., Bruce S. Levison, Ph.D., Robert A. Koeth, B.S., Earl B. Britt, M.D., Xiaoming Fu, M.S., Yuping Wu, Ph.D., and Stanley L. Hazen, M.D., Ph.D. N Engl J Med 2013; 368:1575-1584April 25, 2013DOI: 10.1056/NEJMoa1109400 Share: BACKGROUND Recent studies in animals have shown a mechanistic link between intestinal microbial metabolism of the choline moiety in dietary phosphatidylcholine (lecithin) and coronary artery disease through the production of a proatherosclerotic metabolite, trimethylamine-N-oxide (TMAO). We investigated the relationship among intestinal microbiota- dependent metabolism of dietary phosphatidylcholine, TMAO levels, and adverse cardiovascular events in humans. METHODS We quantified plasma and urinary levels of TMAO and plasma choline and betaine levels by means of liquid chromatography and online tandem mass spectrometry after a phosphatidylcholine challenge (ingestion of two hard-boiled eggs and deuterium [d9]-labeled phosphatidylcholine) in healthy participants before and after the suppression of intestinal microbiota with oral broad-spectrum antibiotics. We further examined the relationship between fasting plasma levels of TMAO and incident major adverse cardiovascular events (death, myocardial infarction, or stroke) during 3 years of follow-up in 4007 patients undergoing elective coronary angiography. RESULTS Time-dependent increases in levels of both TMAO and its d9 isotopologue, as well as other choline metabolites, were detected after the phosphatidylcholine challenge. Plasma levels of TMAO were markedly suppressed after the administration of antibiotics and then reappeared after withdrawal of antibiotics. Increased plasma levels of TMAO were associated with an increased risk of a major adverse cardiovascular event (hazard ratio for highest vs. lowest TMAO quartile, 2.54; 95% confidence interval, 1.96 to 3.28; P<0.001). An elevated TMAO level predicted an increased risk of major adverse cardiovascular events after adjustment for traditional risk factors (P<0.001), as well as in lower-risk subgroups. CONCLUSIONS The production of TMAO from dietary phosphatidylcholine is dependent on metabolism by the intestinal microbiota. Increased TMAO levels are associated with an increased risk of incident major adverse cardiovascular events. (Funded by the National Institutes of Health and others.) _____________________________________________________________ Sanità News 2 Mag. ’13 UN TATUAGGIO SUL CERVELLO PERMETTERA’ DI CONTROLLARE LE PROTESI ARTIFICIALI In futuro, un tatuaggio elettronico permetterà di controllare protesi artificiali, verificare l'evolversi di malattie come l'Alzheimer o la depressione o monitorare in tempo reale l'andamento di una gravidanza. Questa almeno è la speranza del team di ricercatori della University of California di San Diego che tre anni fa ha realizzato il primo e-tattoo, un chip, non più spesso di un capello, in grado di misurare l'attività elettrica dell'organismo. Gli scienziati sono riusciti a migliorare le prestazioni della loro invenzione, dimostrando che con il tatuaggio elettronico è possibile monitorare le complesse onde cerebrali definite P300, che identificano il riconoscimento di un oggetto da parte del cervello. I risultati sono stati presentati durante un convegno della Cognitive Neuroscience Society. Il primo prototipo dell'e-tattoo è stato realizzato nel 2011 nel laboratorio della University of California diretto Todd Coleman. Si trattava di un avveniristico chip, simile ad un cerotto, in grado di registrare diversi tipi di segnali elettro- fisiologici dell'organismo, come quelli provenienti dal cuore, dai muscoli e, in maniera però solamente rudimentale, quelli del cervello. A due anni di distanza, il gruppo di Coleman è riuscito ad ottimizzare il posizionamento del chip sulla testa, migliorando notevolmente la sua capacità di monitorare i segnali elettrici che caratterizzano l'attività del sistema nervoso centrale. Per verificare le potenzialità del loro chip, i ricercatori hanno quindi deciso di dimostrare che il tatuaggio elettronico è in grado di seguire le onde cerebrali P300, complessi segnali elettrici che partono dalla corteccia prefrontale quando il cervello si accorge della presenza di uno stimolo ambientale. Nell'esperimento, un gruppo di volontari doveva tenere traccia di quante volte un certo oggetto appariva nel loro campo visivo, mentre i ricercatori registravano la presenza di onde P300 con il tatuaggio elettronico. Risultato: il tatuaggio elettronico ha dimostrato la stessa precisione degli elettroencefalografi tradizionali nel determinare quando il soggetto stesse guardando una certa immagine. Il team di Coleman, racconta il NewScientist, è ora al lavoro per rendere il chip in grado di trasmettere dati via wireless, così da poterli comunicare ad un computer o ad altri dispositivi mobili. In futuro infatti, l'e-tattoo potrebbe diventare uno strumento economico (tutti i pezzi che lo compongono sono già prodotti in serie) per monitorare i progressi di malattie comuni come la depressione o il morbo di Alzheimer, o persino lo stato delle gravidanze per donne che vivono in paesi in via di sviluppo. Il chip infatti può essere indossato comodamente per lunghi periodi, e tramite la connessione wireless permetterebbe ai medici di verificare i segnali elettro-fisiologici dei pazienti direttamente su uno smartphone. Inoltre, se il tatuaggio elettronico si rivelasse in grado di identificare altri schemi complessi di attività cerebrale (oltre alle onde P300), potrebbe un giorno essere utilizzato per controllare i movimenti di un braccio artificiale, o di altri tipi di protesi, con un ingombro ridotto ad un piccolo cerotto su una tempia. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Apr. ’13 SANA ALIMENTAZIONE, I SARDI SONO PRIMI Il più alto consumo in Italia di frutta e verdura. E calano i fumatori VEDI LA FOTO I sardi sono i campioni italiani di sana alimentazione. L'isola conta infatti il maggior numero di consumatori di frutta e verdura secondo le porzioni raccomandate: in Sardegna l'8,1 per cento della popolazione consuma in media le 5 o più porzioni di verdura, ortaggi e frutta al giorno, un vero e proprio record italiano, a fronte di una media nazionale del 4,9 per cento. Sarà forse anche per questa attenzione alle buone abitudini alimentari che, almeno tra le donne, i decessi per tumori sono significativamente inferiori rispetto alla media italiana. Secondo i dati raccolti nel 2009, nella popolazione femminile la mortalità per tumore nella fascia tra i 19 e i 64 anni è pari a 7,56 ogni 10.000 persone l'anno, contro una media italiana di 7,93, e i decessi per malattie del sistema circolatorio è di 1,7 per 10.000, a fronte di un valore nazionale medio di 1,84. Va peggio per i maschi. Nella stessa fascia d'età purtroppo la mortalità per tumore si attesta a 12,38 per 10.000 abitanti, alto in confronto alla media italiana di 10,53, e per quanto riguarda le patologie di cuore e arterie la popolazione maschile è a 5,95 per 10.000, a fronte di un valore medio nazionale di 10,53 per 10.000. La differenza tra maschi e femmine, peraltro, emerge anche dall'aspettativa di vita: in Sardegna la speranza di vita alla nascita è per i maschi pari a 78,8 anni (media italiana 79,4), mentre per le donne la speranza di vita alla nascita è pari a 84,9 anni (valore medio italiano 84,5). IL DOSSIER Dunque un quadro in chiaroscuro, ma con ampie tinte di rosa, quello sullo stato di salute della Sardegna che emerge dalla decima edizione del Rapporto Osservasalute (2012), un'approfondita analisi dello stato di salute della popolazione e della qualità dell'assistenza sanitaria nelle Regioni italiane presentata ieri all'Università Cattolica di Roma. «La Regione mostra sicuramente un suo lato virtuoso relativamente ad alcune abitudini alimentari: infatti fa rilevare il dato più elevato in assoluto (quasi doppio rispetto alla media nazionale) per quanto riguarda il consumo di verdura, ortaggi e frutta», spiega Walter Ricciardi, direttore dell'Osservatorio e del Dipartimento di Sanità Pubblica del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma. MENO FUMATORI Se a tavola si fa una certa attenzione, anche sfruttando i tanti prodotti di stagione che l'isola offre, per quanto riguarda le altre abitudini gli spazi di miglioramento sono ampi pur se già oggi gli abitanti dell'isola si rivelano tra i più virtuosi d'Italia Prendiamo ad esempio il vizio del fumo. Stando ai dati relativi al 2011, la Sardegna presenta una quota di non fumatori pari al 52,3 per cento della popolazione regionale di 14 anni ed oltre, praticamente in linea con la media nazionale. In Sardegna fuma il 19,4 per cento della popolazione regionale over 14, contro un valore medio nazionale del 22,3 per cento e molti sono quelli che hanno lasciato le "bionde". La quota di ex-fumatori è infatti pari al 26,6 per cento, contro un valore nazionale del 23,4 per cento. TROPPO ALCOL Va leggermente peggio se si considerano i consumi di alcolici. Nel 2010 presenta una quota di non consumatori pari al 34,4 per cento a fronte di un valore medio nazionale del 32,7 per cento. I consumatori sono il 62,8 per cento, a fronte di un valore medio nazionale del 65,7 per cento. Preoccupa invece la situazione se si osservano solo i giovani: a rischio di consumi "sbagliati" sono soprattutto i ragazzi adolescenti. La prevalenza di consumatori a rischio di 11-18 anni (ovvero quei giovani che praticano almeno uno dei comportamenti a rischio relativamente al consumo di alcol, come l'eccedenza quotidiana o il binge drinking, il consumo concentrato nel fine settimana) è pari al 17,7 per cento dei maschi (valore medio italiano 15,2 per cento), contro il 7,8 per cento per le femmine (valore medio italiano 10,2). GLI OBESI Va meglio se si considerano le abitudini alimentari, importanti per contrastare l'avanzata delle patologie cardiovascolari, dell'artrosi e dei tumori. «La Sardegna non evidenzia particolare problemi di linea: infatti, presenta una percentuale di obesi pari al 10,2 per cento dei cittadini, considerando le persone di 18 anni e oltre, contro il valore medio italiano del 10 per cento» fa notare Ricciardi, «ma ci si tiene più in forma considerando la percentuale delle persone in sovrappeso: la percentuale di chi presenta chili di troppo è pari al 32,9 per cento, mentre il valore medio nazionale è il 35,8 per cento». Federico Mereta _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Apr. ’13 INFANZIA. La salute della bocca è a rischio dalla tenera età: ecco le giuste abitudini DENTI SANI FIN DA BAMBINI Tutto merito dei genitori S i comincia da neonati passando sulle gengive una garza imbevuta d'acqua dopo ogni poppata. Si prosegue quando il piccolo è più grandicello (spazzolino e una lenticchia di dentifricio), poi insegnandogli a lavare i denti dopo ogni pasto. Sembra facile. In realtà non è così: troppi bambini non fanno i conti con una corretta igiene quotidiana. E i risultati si vedono. La metà dei genitori si accontenta che il figlio lavi i denti una volta al giorno e il 40% non gli insegna come pulirli in maniera corretta né cambia loro lo spazzolino frequentemente per evitare che possa diventare ricettacolo di germi. CARIE INFANTILI L'esito di tante cattive abitudini? «Un bimbo su cinque ha una carie prima di andare alle Elementari», spiega Antonella Polimeni, presidente del Collegio nazionale dei docenti di Odontoiatria e direttore ordinario di Odontoiatria pediatrica dell'università Sapienza di Roma. «Il problema è spesso sottovalutato ma tutt'altro che irrilevante, perché la perdita precoce dei denti da latte può avere conseguenze sullo sviluppo della dentatura. Il dente deciduo che ha una radice non ancora riassorbita deve restare dov'è perché serve a mantenere lo spazio necessario al nuovo dente definitivo che spunterà in seguito. Se il dente da latte manca troppo presto, il rischio di un non perfetto allineamento dei denti definitivi è concreto: in oltre un caso su quattro i bimbi con meno di dieci anni che sono costretti a portare un apparecchio ortodontico devono farlo perché hanno perso troppo presto un dentino da latte. Le carie alla dentatura da latte inoltre raddoppiano la probabilità di disturbi dentali successivi predisponendo a problemi gengivali o di carie sui denti definitivi. Purtroppo le carie nei denti da latte sono un fenomeno molto frequente, tanto che lo stesso ministero della Salute consiglia di considerare tutti i bambini ad alto rischio di carie». PREVENZIONE Importante è puntare sulla prevenzione. La salute dei denti traballa fin da piccolissimi: carie e placca fanno la loro comparsa nei dentini da latte, in un milione e mezzo di bimbi al di sotto dei sei anni, e le gengive sanguinano spesso già nella prima infanzia. Nonostante questo il 76% dei bimbi in età prescolare non ha mai conosciuto la sedia del dentista. Genitori, e soprattutto nonni, dovrebbero comunque far fronte a questa situazione anche eliminando qualche cattiva abitudine. «Il 35% dei genitori ha ancora la cattiva abitudine di dare ai figli il ciuccio con miele o zucchero», conclude Polimeri, stigmatizzando un costume ancora lontano dall'essere abbandonato. A provare che lavarsi regolarmente i denti è spesso un sogno irrealizzabile, c'è anche uno studio dell'Università di Siena: l'85% dei bambini dai 3 agli 11 anni non fa nulla per la propria igiene orale, la metà lava i denti raramente, solo il 43% lo fa almeno una volta tutti i giorni. Pesanti sono anche i riflessi della crisi economica. Il 90% degli under 14, pari a 5 milioni di bimbi, avrebbe bisogno dell'apparecchio per i denti ma nel 2012 le terapie ortodontiche sono crollate del 40%. Federico Mereta _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 5 Mag. ’13 CURARE I DENTI EVITA MALATTIE CARDIOVASCOLARI Lo sapevate che spazzolare i denti almeno due volte al giorno riduce il rischio di malattie cardiovascolari? E che una diagnosi precoce delle infezioni della bocca, come una parodontite, può diminuire la possibilità di ictus, diabete, tumori della bocca, disturbi mentali? Dalla salute della bocca passa la salute in generale delle persone. Lo dicono i dentisti dell'Aio, l'associazione italiana odontoiatri, che ieri hanno presentato un progetto denominato “Carta per migliorare la salute”, con l'obiettivo di prevenire quelle malattie che sono collegate a problemi del cavo orale. In pratica, quando i pazienti entreranno in uno studio dentistico potranno ricevere «un questionario che consentirà di monitorare la presenza di patologie di natura odontoiatrica o che possono peggiorare per via dei fattori infiammatori, come per esempio, placca o gengiviti», ha detto Gerhard Seeberg, ex presidente di Aio. Fondamentale è la collaborazione tra i dentisti e gli altri medici specialisti. «Con la conoscenza di pochi elementi, come età, sesso, indice di massa corporea, possiamo condividere con i medici specialisti i valori di fattori di rischio come obesità, glicemia, colesterolo, e prevenire malattie importanti», ha aggiunto. «La Carta si basa su un'evidenza scientifica», ha sottolineato Pierluigi Delogu, presidente nazionale di Aio. «L'odontoiatria può diventare fondamentale nel sistema di prevenzione di molte malattie. Da questo punto di vista», ha aggiunto, «virtualmente è una potenza di fuoco più della medicina di base». Il progetto vuole coinvolgere tutti i 1300 dentisti sardi (700 nella sola provincia di Cagliari) ma necessita di una “regia”, magari guidata dalla Regione, per mettere in comunicazione odontoiatri e medici specialisti. Con quali strumenti si può realizzare? «Si potrebbero prevedere vaucher per consentire alle famiglie che vivono con 8.000 euro all'anno di accedere alla fase di prevenzione in odontoiatria, oppure la totale detraibilità delle spese del dentista per coloro che raggiungono redditi più alti», ha concluso.(ma.mad.) _____________________________________________________________ Sanità News 30 Apr. ’13 UNA NANOSPUGNA PER RIPULIRE IL SANGUE I ricercatori dell'universita' della California a San Diego, infatti, hanno messo a punto delle nano-spugne 'travestite' da globuli rossi che sono capaci di catturare e annientare le tossine prodotte dai batteri cosi' come i veleni di api e serpenti. Molto promettenti i primi test sui topi, pubblicati sulla rivista Nature Nanotechnology. Le nanospugne, 3.000 volte piu' piccole di un globulo rosso, sono prodotte con un polimero biocompatibile e sono rivestite con pezzi di membrana dei globuli rossi in modo da passare inosservate e sfuggire ai 'vigilantes' del sistema immunitario. La scelta di questo travestimento, del resto, non e' casuale: le cellule rosse del sangue sono infatti le principali vittime di tossine e veleni, che le 'mitragliano' a morte bucherellandone la membrana esterna. Le nanospugne, imitandole, non fanno altro che agire da esca: spacciandosi per globuli rossi attirano le tossine, le sequestrano al loro interno e le portano al fegato, dove vengono metabolizzate e distrutte in piena sicurezza. Iniettando una singola dose, questo esercito di nano-spugne è in grado di invadere il circolo sanguigno, superando in numero i globuli rossi e salvandoli dall'azione delle sostanze tossiche. I ricercatori californiani le hanno sperimentate con successo sui topi contro una dose letale di una tossina chiamata alfa emolisina, che viene prodotta dal batterio Stafilococco aureo meticillino-resistente (Mrsa). Quando le nano-spugne sono state iniettate prima della tossina, hanno garantito la sopravvivenza a 9 topi su 10; iniettate dopo, invece, hanno salvato quattro topi su dieci. ''Invece di sviluppare un trattamento specifico per ogni tossina, stiamo mettendo a punto una piattaforma che può neutralizzare tossine prodotte da una vasta gamma di microrganismi patogeni, incluso l'Mrsa e altri batteri resistenti agli antibiotici'', afferma il coordinatore dello studio Liangfang Zhang. La ricerca potrebbe portare anche a sviluppare una terapia d'emergenza universale contro il morso dei serpenti e le punture delle api. _____________________________________________________________ Sanità News 30 Apr. ’13 L’INTELLIGENZA UMANA DIPENDE DALLA ASIMMETRIA DEL CERVELLO Il cervello umano ha livelli molto più elevati di asimmetria del cervello degli scimpanzè. Una differenza che potrebbe essere alla base delle diversità cognitive tra l’uomo e i primati e della superiorità intellettiva umana. La scoperta è di un gruppo di ricercatori della George Washington University ed è stata descritta su un articolo pubblicato sui Proceedings of the Royal Society B. È noto che il cervello umano sia asimmetrico strutturalmente e funzionalmente, ma sinora l’asimmetria non era stata considerata in relazione a forma e funzioni cerebrali dei primati. Ricorrendo alle risonanze magnetiche in vivo, la ricerca ha misurato i livelli di asimmetria del cervello di 72 scimpanzè dai 6 ai 50 anni d’età e di 73 esseri umani dai 18 ai 60. Gli studiosi hanno scoperto che il cervello umano mostra livelli molto più elevati di asimmetria rispetto a quello degli scimpanzè (Pan troglodytes). Caratteristiche che evidenziano la maggiore plasticità del cervello umano, tratto evolutivo fondamentale per lo sviluppo delle superiori abilità cognitive dell’uomo.