RASSEGNA STAMPA 02/06/2013 ATENEO IN LUTTO, ADDIO A CASULA AOUCA: «INTITOLARE IL POLICLINICO A DUILIO CASULA» CRUI: RIDARE AGLI ATENEI L'AUTONOMIA PER ASSUMERE GIOVANI QUANTA INGEGNERIA NELLA CARRIERA DI CHIARA CARROZZA LA PROF IN CARROZZA HA PRESO LA CATTEDRA PER CORRISPONDENZA IL COMPITO IMPOSSIBILE DEL PROF LEGGERE 1.610 PAGINE AL GIORNO GELMINI: «SELEZIONE DEI DOCENTI, I CAVILLI CHE CI OSTACOLANO» AMMISSIONI: COSÌ I 'BONUS' PER IL NUMERO CHIUSO. AMMISSIONI: ATENEI DEL NORD DISCRIMINATI AMMISSIONI: «ATENEI SARDI PENALIZZATI AMMISSIONI: LA SCADENZA È VENERDÌ QUESTA MATURITÀ È INUTILE" E I PRESIDI LA RIFORMANO COSÌ SPESA PER RICERCA AI MINIMI COSÌ L'ITALIA NON INNOVA PIÙ RITORNARE AL METODO DI GALILEO PER INTRODURRE LE RIFORME IN ITALIA IN DIECI ANNI, 58MILA ISCRITTI IN MENO AL PRIMO ANNO DI UNIVERSITÀ. ALMALAUREA: AUMENTANO GIOVANI LAUREATI IN CORSO PIÙ GIOVANI E FLESSIBILI, ECCO I NUOVI LAUREATI CRENOS «LA RIPRESA IN SARDEGNA? INSIGNIFICANTE» ISOLA ALLO SFASCIO, POLITICA CONTUMACE SE PERFINO L'UNIVERSITÀ ORA È MADE IN CHINA USA, STUDENTI IPERINDEBITATI IL GENIO DI ZHANG YITANG DAL FAST FOOD ALLA GLORIA SCIENTIFICA INFORMATICI, VENITE A STUDIARE QUI IN SVIZZERA QUANTO STUDIERANNO I NOSTRI FIGLI? LA RIPOSTA DAL DNA SIAMO TUTTI CUGINI (GUARDATE IL DNA) PIANTE CHE RIVIVONO DOPO 400 ANNI SOTTO I GHIACCI TESORI DI MONTE CLARO, SUL COLLE LA STORIA DEI SARDI UTILE O SIMBOLICO, ELOGIO DEL REGALO ALLA MAESTRA ========================================================= ASL DALLE PULIZIE ALL’ANTINCENDIO IL MAXI APPALTO NEGLI OSPEDALI PROFESSIONI SANITARIE: PERDE IL POSTO CHI NON HA I TITOLI GUARDIE MEDICHE: RIFIUTO DI VISITA PUNIBILE COME OMISSIONE SUBITO UN WELFARE «INTEGRATO» PER UNA SOCIETÀ CHE INVECCHIA LA NASA: DALL'OSPEDALE ALL'UNIVERSITÀ ACCANTO AI TALASSEMICI CHE MEDICINA È SE IL MALATO È POTENZIALE? MALATTIA COME ESPERIENZA LAICA STARE SEDUTI È IL "NUOVO FUMO"? DAGLI ALLIGATORI DEL MISSISSIPPI IL SOGNO DI UN FUTURO SENZA DENTIERE SPAGNA, OSPEDALI «PROIBITI» AI TURISTI L'ONCOLOGO CHE COMBATTE IL CANCRO CON LE EMOZIONI "I"' UNA SECONDA VITA PER I SULFAMIDICI LA SUPERIORITA' DIAGNOSTICA DEI TEST IMMUNOLOGICI UN COCKTAIL DI VITAMINE B RALLENTA LO SVILUPPO DELL’ALZHEIMER AL BUSINCO UN NUOVO MACCHINARIO PER GLI ANTITUMORALI SCLEROSI MULTIPLA. MARIA GIOVANNA MARROSU: «L'INCIDENZA È ALTA» I RICERCATORI IN PIAZZA «SÌ AI TEST SUGLI ANIMALI» MICROONDE, SUPER-FREDDO E RADIOFREQUENZA PER DISTRUGGERE I TUMORI ========================================================= _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Mag. ’13 ATENEO IN LUTTO, ADDIO A CASULA Morto ieri a 97 anni uno degli ultimi grandi vecchi: domani la camera ardente Clinico di fama e rettore, creò la Cittadella universitaria Fra un mese esatto avrebbe compiuto 97 anni. Ieri è scomparso Duilio Casula, “padre” della Cittadella universitaria di Monserrato, rettore per nove anni, clinico di fama e autore di numerose pubblicazioni nel campo della medicina del lavoro. Sicuramente uno degli ultimi veri “baroni” dell'ateneo cagliaritano, a cui ha dedicato gran parte della vita con una dedizione assoluta per l'insegnamento e la ricerca. Anche in pensione ha continuato a frequentare quotidianamente il suo studio prima nella clinica in via San Giorgio, che aveva inaugurato nel 1963 ereditando la cattedra del “maestro” Mario Aresu, e poi -nonostante l'età già avanzata - nella nuova sede di Monserrato. CAMERA ARDENTE Domani dalle 9,30 verrà aperta la camera ardente nella sala Congressi proprio del campus universitario. I funerali, invece, si svolgeranno a Gesturi in forma privata. Lucidissimo sino alla fine, non ha mai voluto allontanarsi da quella che considerava la sua creatura e la sua seconda casa, per stare vicino ai vecchi allievi (ormai docenti e medici affermati) e ai ricercatori. Il potere, certo, lo affascinava, padre padrone del “suo” istituto e poi sullo scranno di magnifico rettore che coprì dal 1979 al 1991, gestendo un momento difficile dell'ateneo cittadino in piena espansione. IL SOCIALISTA Fu anche un politico di primo piano in Sardegna per il Partito socialista, molto vicino a Bettino Craxi negli anni Ottanta, chiamato a incarichi importanti (fu vicesindaco e assessore comunale). Di questo suo impegno nel “Garofano” andava orgoglioso: «Insieme a Peppino Tocco siamo stati i primi due tesserati del dopoguerra», raccontò nell'ultima intervista all'Unione Sarda: «Ho vissuto tutti i momenti del partito sino all'era Craxi. Apprezzavo la sua azione politica e di governo. Ha saputo spezzare un'egemonia in Italia». Per questo alla sua caduta decise di smettere con la politica attiva, ma nel cuore rimase sempre socialista. IL CLINICO Nato a Gesturi nel 1916 si trasferì giovanissimo nel capoluogo per gli studi. Medico nel 1948, ottenne la prima cattedra nel 1950, poi la docenza in medicina del lavoro di cui sarà capo d'istituto sino alla pensione e presidente della Società italiana degli specialisti. Fece parte del Consiglio superiore della sanità, di numerose commissioni nazionali ed europee. Il suo vanto fu l'ideazione e la creazione del Polo scientifico di Monserrato con un unico cruccio, mai ammesso, ma comprensibile: il taglio del nastro toccò al suo successore Pasquale Mistretta. Lui - raccontò poi - quel giorno era lì, ospite d'onore, a compiacersi per un sogno diventato realtà. IL CAMPUS Di quel progetto, non più tardi di un paio d'anni fa, ricordava ogni passaggio burocratico, ogni figura (dal potente politico romano al più umile e prezioso geometra comunale), ogni battaglia: «Quando fui eletto rettore mi trovai ad affrontare il gravissimo problema dell'edilizia universitaria. L'ateneo scoppiava di studenti, le aule non bastavano più, ma soprattutto molti edifici cadevano a pezzi. Non si riusciva a far approvare il progetto dal Consiglio comunale. A Roma trovai una vecchia legge del 1981 che imponeva tempi stretti sia al Comune che alla Regione. Di fronte alla prospettiva di una brutta figura nazionale il Comune finalmente discusse e approvò il piano». Così nacque il campus tra Sestu e Monserrato. IL CASTELLANO Oltre all'amore viscerale per l'università, le sue grandi passioni erano la musica e la storia. Nello studio dell'abitazione in Castello ben in evidenza i suoi interessi, oltre la medicina. Nella libreria i testi sacri di storia della Seconda guerra e del fascismo, da Churchill a Mack Smith e De Felice, storia e archeologia della Sardegna, Lilliu, Gramsci e Lussu. Si considerava un castellano doc, amava il rione dove abitava sin dal dopoguerra nello storico palazzo Zapata della famiglia della moglie Clementina Scarpa Asquer, scomparsa nel 2009. Lascia due figli, entrambi docenti universitari di prestigio. E il ricordo di essere stato uno degli ultimi grandi “senatori” della città. Carlo Figari __________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Mag. ’13 AOUCA: «INTITOLARE IL POLICLINICO A DUILIO CASULA» Il direttore dell'aou filigheddu «La scomparsa di Duilio Casula, rettore emerito dell'Università di Cagliari, è una grande perdita per tutto il mondo accademico e per la sanità sarda». Lo dice il direttore generale dell'Aou di Cagliari Ennio Filigheddu. «In questo giorno di lutto e di dolore per la famiglia a cui siamo vicini - dice ancora il manager dell'Aou - ricordiamo la grande professionalità di un uomo e un professionista, di uno dei padri della medicina del lavoro italiana, di un professore e clinico di fama e lungimirante, che ha dato una svolta alla sanità cagliaritana volendo fortemente la realizzazione del Policlinico di Monserrato. Per questo motivo riteniamo importante dedicare a lui la struttura, proponendone l'intitolazione proprio al professor Duilio Casula». _____________________________________________________________ Il Sole24Ore31 Mag. ’13 CRUI: RIDARE AGLI ATENEI L'AUTONOMIA PER ASSUMERE GIOVANI Ricerca. Introdurre incentivi massicci insieme a vincoli precisi per il reclutamento dei ricercatori IMPEGNO PER IL LAVORO Gli atenei vogliono fare la propria parte , sia all'interno con i giovani ricercatori sia favorendo lo sviluppo nelle imprese Marco Mancini Il Governo Letta, fin dal discorso d'insediamento del neo-premier, ha posto in cima all'agenda la questione occupazionale. Cosa assolutamente sacrosanta. Il Presidente Squinzi al convegno dell'Osservatorio permanente giovani-editori ha appena detto che è indispensabile «pensare a meccanismi di incentivazione dell'entrata dei giovani». I dati confermano l'emergenza. L'Istat nel mese di gennaio di quest'anno registrava un tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero un'incidenza dei disoccupati sul totale degli occupati, pari al 38,7%. Un aumento dell'1,6% rispetto al mese precedente e di ben il 6,4% nel confronto tendenziale. «Dobbiamo liberare le energie migliori del Paese» annunciava Enrico Letta alla Camera poco meno di un mese fa. Che ricerca e sviluppo abbiano un ruolo cruciale per il rilancio dell'Italia è fuor di dubbio. È da qui, allora, che occorre ripartire per coniugare occupazione e sviluppo in maniera virtuosa. L'imminente sfida del nuovo Programma europeo "Horizon 2020", che avrà, fra l'altro, un occhio di riguardo per le piccole e medie imprese nella linea della "Industrial Leadership", è un'occasione preziosa che esigerebbe un immediato rafforzamento del capitale umano all'interno delle nostre reti della ricerca. Ma i numeri dicono oggi esattamente il contrario. Le Università italiane stanno progressivamente invecchiando. Facile capire con quali conseguenze sui livelli di creatività e di incisività della nostra ricerca. Si tratta di dati ampiamente noti ma che colpiscono ogni qualvolta li si legge: oltre il 22% dei docenti ha più di 60 anni, contro il 5,2% in Gran Bretagna, il 6,9% in Spagna, l'8,2% in Francia, il 10,2% in Germania; solo il 4,7% dei docenti ha meno di 34 anni, contro il 31,6% in Germania, il 27% in Gran Bretagna, il 22% in Francia e il 19% in Spagna. Il dato, se incrociato con quello del turn-over negli Atenei, evidenzia il blocco drammatico del reclutamento dei giovani ricercatori. Complessivamente fra il 2009 e il 2012 le Università italiane (in Europa quelle con la percentuale più bassa nel rapporto tra ricercatori e popolazione occupata, siamo solo al 18° posto su 20) hanno perso il 24% dei professori ordinari e il 9% dei professori associati, mentre i ricercatori sono rimasti stabili. Deduzione: non c'è stato alcun ricambio generazionale. Se si vuole invertire questa tendenza, che ha conseguenze fatali sia sul brain gain che sul brain drain, la soluzione - incredibilmente - non è così difficile. È imminente un provvedimento sul lavoro. Si potrebbe in tale sede restituire alle Università la necessaria autonomia nel disporre delle proprie risorse per reclutare i giovani. Oggi questo non è possibile. Le Università dispongono solo del 20% del proprio turn-over. Vanno via cinque docenti in pensione e se ne può assumere solamente uno. Senza parlare della recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 83/2013) che, restituendo la facoltà di chiedere il prolungamento da 70 a 72 anni, visto che il prolungamento costa quanto un nuovo docente, complicherà ancor di più il quadro. Restituire il turn-over, introdurre incentivi massicci e, insieme, vincoli precisi per l'assunzione dei ricercatori. Il Ministro Carrozza si è già dimostrata sensibile a riguardo. Bisogna passare dalle dichiarazioni ai fatti. Più in generale, se alle Università si restituisce l'autonomia sotto l'occhio vigile dell'Agenzia per la Valutazione; se le gabelle centraliste, introdotte più o meno di nascosto nella finanziaria di turno, vengono finalmente cassate come quella vergognosa sugli arredi (l'art 1, cc.141 e 142 della Legge di stabilità 2013) che impone un salasso sui capitoli già impegnati (si badi!) per laboratori, aule degli studenti, biblioteche; se si chiarisce una volta per tutte che la didattica e la ricerca svolgono per questo Paese funzioni analoghe all'insegnamento scolastico e che dunque l'Imu non può applicarsi agli edifici universitari (come avveniva con l'Ici); in definitiva, se le risorse saranno sbloccate e rese pienamente disponibili per le autonomie universitarie e se l'ennesimo "taglio" del 2013 di 300 milioni di euro rientrerà, allora ci sarà davvero speranza per l'occupazione dei nostri giovani ricercatori. Gli Atenei vogliono fare la propria parte nella battaglia per l'occupazione. Sia all'interno con i giovani ricercatori sia all'esterno favorendo quello sviluppo che solo è in grado di creare nuova occupazione nelle imprese. Ma bisogna far presto: le abilitazioni si stanno concludendo, i concorsi per ricercatore non decollano, gli Atenei stanno morendo per asfissìa. Uno scenario catastrofico che assomiglia sempre più alla morte della ricerca e dell'istruzione superiore. Uno scenario sempre più lontano dall'Europa. Presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane _____________________________________________________________ Il Giornale dell’Ingegnere 31 Mag. ’13 QUANTA INGEGNERIA NELLA CARRIERA DI CHIARA CARROZZA Dalla cattedra della Sant'Anna di Pisa a ministro Roberto Di S neo C’è un po di ingegneria nel nuovo governo del Paese. Maria Chiara Carrozza, già rettore della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa e Professore Ordinario di Bioingegneria. e Robotica, è il nuovo ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca. E sin dal giorno del suo insediamento il neo ministro Carrozza ha voluto ribadire l'importanza della ricerca e dell'innovazione. "Il Governo dovrà prendere una decisione collegiale sul valore della ricerca in Italia": tra le sue priorità, il ministro Carrozza intende presentare un libro bianco sullo stato dell'Università e della Ricerca italiane e porre il problema anche all'attenzione di tutti i ministri e delle Commissioni parlamentari. "Il Parlamento ha detto che la ricerca è importante; ora dobbiamo dimostrarlo, se vogliamo che l'Italia resti un Paese in grado dì essere competitivo sul-fronte dell'alta tecnologia". Per il ministro "l'Italia deve avere una propria linea strategica sulla ricerca in termini di finanziamenti e relativamente alla valorizzazione della figura dei ricercatori". E' il momento, dunque, di "ritornare a finanziare le persone, le infrastrutture, i laboratori, basandosi su un sistema di valutazione tra pari, adeguato al contesto internazionale e sburocratizzato". La riorganizzazione dei criteri di finanziamento va di pari passo con l'idea di una programmazione della ricerca di ampio respiro: "L'obiettivo è dar vita ad una ricognizione con gli enti pubblici di ricerca, il mondo dell'università e dei ricercatori, con le imprese più attive nel campo della ricerca, con le regioni: la consultazione è uno stile che vorrei inaugurare". Nell'agenda del ministro Carrozza vi è anche la spinosa questione dell'edilizia scolastica. Il massimo rappresentante del Miur ha infatti ribadito la necessità di riprendere e continuare il lavoro già avviato dal suo predecessore, Francesco Profumo: "L'edilizia scolastica va rivitalizzata.", ha detto il ministro. Tra i progetti pronti a partire, la riqualificazione di ben 57 mila edifici scolastici, con uno stanziamento di fondi pari a 13 miliardi di curo, finanziamenti che in parte sarebbero coperti da fondi europei. La scuola non è fatta solo di immobili ma anche di un corpo insegnanti con numerose problematiche. Un tema che il ministro Carrozza ha ben in mente, come ha ribadito nelle sue prime dichiarazioni: "Bisogna investire nella loro formazione. Quando all'inizio del mio mandato ho detto "va ridata dignità agli insegnanti" intendevo proprio questo: dignità professionale, offrire loro strumenti per crescere considerandoli i nostri ambasciatori sul territorio". E ancora: "L'insegnante è l'elemento cardine in tutti gli ordini di scuola quindi dobbiamo recuperare la figura dell'educatore nel senso anche del prestigio sociale che questo lui sempre avuto in Italia e che deve continuare ad avere o deve acquisire", Un Paese, insomma, in grado di valorizzare le proprie eccellenze, ad ogni livello ed in ogni settore: "Dobbiamo 'aiutare i meritevoli a studiare secondo i dettami della. Costituzione Italiana, dare fiducia ai ricercatori e offrire nuove motivazioni a tutto il corpo insegnante. Dobbiamo dare forza e prospettive alle imprese, costruendo un Paese che individui grandi aree di investimento, di ricerca, di innovazione nell'industria, nell'agricoltura, nei servizi, Investire nella conoscenza significa investire sul futuro, nell'unica risorsa che non si può spostare altrove per essere prodotta a costi più bassi: un settore che crea e salva posti di lavoro, la nostra massima preoccupazione". Laureata in Fisica, è specializzata in Bioingegneria e Robotica Maria Chiara Carrozza è nata a Pisa H 16 settembre 1965 e si è laureata in Fisica presso l'Università della sua città, conseguendo in seguito ii Dottorato di Ricerca in Ingegneria presso la Scuola Superiore Sant'Anna nel 1994. Dal 2007 sino alla sua elezione a Ministro ha inoltre ricoperto la carica di rettore dello stesso ateneo. Dal novembre 2006 è 17:ifessore Ordinario di Bioingegneria e Robotica presso la Scuola Superiore Sant'Anna. Dal novembre 2004 all'ottobre 2007 ha diretto la Divisione Ricerche della Scuola Superiore Sant'Anna, coordinando il laboratorio di robotica Arts; inoltre è entrata a far parte della giunta nazionale del Gruppo Nazionale di Bioingegneria. Nella sua lunga carriera accademica ha svolto numerosi e prestigiosi incarichi: è stata visiting professor presso l'Università Tecnica di Vienna, dove ha tenuto un corso di Biomeccatronica, ha preso parte alla gestione scientifica laboratorio congiunto Italia-Giappone per la Robotica Umanoide "Robocasa", presso la Waseda University di Tokyo; e "Guest Professor" dell'Università cinese dello Zhejiang. Maria Chiara Carrozza è anche autrice di numerosi lavori scientifici e di 15 brevetti nazionali ed internazionali ed è membro delle più prestigiose società scientifiche internazionali specializzate in robotic:a. I suoi interessi di ricerca spaziano nei settori della bioingegneria della riabilitazione, biorobotica, robotica umanoide, bionica, man! robotiche e protesiche, ausili tecnologici, ambienti intelligenti, interfacce persona-macchina, sensori tattili, pelle artificiale, percezione tattile. Nel mese di aprile di quest'anno ha lanciato il progetto triennale "luvo", del quale è coordinatrice sOintific.a, da sviluppare con l'Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) di Pisa: l'obiettivo è la realizzazione di un sistema robotico per favorire la funzionalità motoria degli arti inferiori. _____________________________________________________________ Libero 31 Mag. ’13 LA PROF IN CARROZZA HA PRESO LA CATTEDRA PER CORRISPONDENZA Nel 2006 la ministra dell'Istruzione, allora docente associato a Pisa, vince il concorso da ordinario all'ateneo online Marconi, ma non è assunta. Pochi mesi dopo torna in Toscana. Da rettore La ministra Carrozza prof grazie all'università per corrispondenza Le conquiste femminili della sinistra ANDREA MORIGI ANDREAMORIGI RIR Lo stratagemma utilizzato da Maria Chiara Carrozza per salire in cattedra, lo aveva scoperto Italia Oggi nel 2011. Non era l'unica docente a essersi trovata in difficoltà, dopo aver conseguito brillantemente un dottorato e aver svolto un'intensa attività didattica, in patria e all'estero. Per la cronaca, il ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca è di ottimi natali, in quanto figlia diAntonio Carrozza, già ordinario di Diritto agrario a Pisa e padre anche di Paolo Carrozza, già ordinario di Diritto costituzionale a Pisa e attualmente docente della stessa materia alla Scuola S. Anna di Pisa. Infine, la professoressa Carrozza si è sposata con Umberto Carpi, già ordinario di letteratura italiana a Pisa e poi preside presso la facoltà di Lettere della stessa città, oltre che due volte senatore prima con Rifondazione Comunista, poi con i Ds, e sottosegretario all'Industria nei governi Prodi e D'Alema. Eppure, benché professoressa associata alla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa, nel 2006 la Carrozza si era trovata di fronte a un bivio. Come tanti altri doveva superare il concorso per ottenere l'idoneità. E nessuno lo bandiva. O rimaneva precaria avita oppure imboccava la scorciatoia che conduce all'Università Telematica Marconi. «Presentai domanda perché vidi il bando in Gazzetta Ufficiale», spiegava in un'intervista a CampusPro, precisando che «mi interessava l'idoneità a professore ordinario: alla Marconi non sarei andata». È chiaro perché aveva preferito proprio quell'ateneo, famoso per reclutare docenti nelle proprie facoltà, salvo poi dimenticarsi di assumerli. Avevano superato in due il concorso di Bioingegneria industriale. L'altro vincitore era poi approdato al Politecnico di Milano. Alla Marconi, del resto, per lasciare a casa i neo-docenti, basta far trascorrere 60 giorni senza chiamarli. In alternativa si può dichiarare che sebbene idonei, i candidati non soddisfano a pieno le esigenze della facoltà. Così, per un difetto di memoria o di calcolo, si sformano decine di ordinari e associati, i quali poi, entrati in possesso dell'agognato titolo, si rivolgono ad altre università, dove finalmente e misteriosamente trovano un posto fisso. Nel caso della Carrozza, responsabile del Forum del Pd per l'Università, è andata anche meglio. Dal primo novembre 2007, cioè poco più di un anno dopo aver vinto il concorso all'Università online, viene nominata rettore della Scuola Superiore Sant'Anna. Curiosamente, prima non sapeva come superare l'impasse nella carriera, poi era stata catapultata in cima all'empireo. Nel suo curriculum, tralascia il passaggio alla Marconi. Salvo ammettere un po' a denti stretti a Panorama: «Sono stata chiamata al Sant'Anna con una procedura in tema basata su tre lettere di valutazione di studiosi stranieri. I verbali sono pubblici». Ovviamente non rende note nemmeno le sue ascendenze e parentele varie, dalle quali si evidenzia anche un percorso accademico più familiare. E nonostante tutto le sembrava anche di dover riformare radicalmente il sistema, come dichiarava al mensile Le Scienze, nel 2010. Se mai fosse diventata ministro, avrebbe varato «di sicuro una riforma per il reclutamento di docenti e ricercatori che si basi sul concetto di responsabilità» e «abolirei tantissime regole inutili che ci appesantiscono e aumentano invece di diminuire». Per avere la certezza che sono sempre quelli bravi ad andare avanti. ITER CASALINGOLa stessa esponente pd spiega che è stata assunta a capo della Sant'Anna «con una procedura interna basata su tre lettere di valutazione di studiosi stranieri» Il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza è stata nominata Rettore della Scuola Superiore S. Anna di Pisa nel 2007, circa un anno dopo aver vinto il concorso da docente ordinario di Bioingegneria industriale all'Università telematica Marconi di Roma nel 2006 CURRICULUM Già professoressa associata alla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa, il ministro, già responsabile del Forum Pd dell'Università, è figlia di Antonio Carrozza, già ordinario di Diritto agrario a Pisa e padre anche di Paolo Carrozza, già ordinario di Diritto costituzionale a Pisa e attualmente docente della stessa materia alla Scuola S. Anna. La professoressa Carrozza è moglie di Umberto Carpi, già ordinario di letteratura italiana a Pisa e poi preside presso la facoltà di Lettere della stessa città, oltre che due volte senatore prima con Rifondazione Comunista, poi con i Ds, e sottosegretario all'Industria nei governi Prodi e D'Alema DIMENTICANZA? Curiosamente nel suo curriculum non c'è traccia del passaggio, pur fondamentale per la sua carriera, sui banchi virtuali del celebre istituto di formazione telematico. Probabilmente sarà una dimenticanza [LaPresse] ____________________________________________________ Corriere della Sera 30 Mag. ’13 IL COMPITO IMPOSSIBILE DEL PROF LEGGERE 1.610 PAGINE AL GIORNO L'impresa dei commissari per le idoneità negli atenei SEGUE DALLA PRIMA Giorni fa Santagata ha scritto al ministero avvertendo che non ce la faranno mai, lui e gli altri commissari, a consegnare entro il 30 giugno i responsi su tutti i candidati all'idoneità nella sua materia. Candidati che, una volta dichiarati idonei, potranno partecipare ai concorsi banditi da questo o quell'ateneo per assegnare questa o quella cattedra. I conti sono presto fatti e spiegano da soli, nella loro dimensione surreale, le difficoltà insuperabili del nuovo sistema avuto in eredità da Maria Chiara Carrozza: «Ci ritroviamo a valutare 655 concorrenti: 475 aspirano al ruolo di “associato” (molti sono ricercatori, molti docenti alle superiori, diversi giornalisti, un po' lavorano all'estero e vorrebbero rientrare) e 180 a quello di “ordinario”. I primi devono presentare un massimo di 12 lavori, i secondi 18. Totale: 5.700 più 3.240 lavori, che fanno insieme 8.940. Mettiamo ora che ogni candidato presenti in media (e posso assicurare che stiamo bassi: molti ti inondano di lavori sterminati) un totale di 300 pagine, cioè un paio di saggi brevi e un po' di pubblicazioni ancora più sintetiche. Complessivamente sono 196.500 pagine. Un incubo». La formazione delle commissioni nazionali, le domande di abilitazione, la raccolta dei lavori presentati, la valutazione e i risultati avrebbero dovuto essere completati, nelle illusioni originali di Mariastella Gelmini, entro il 2011. Anzi, c'erano 500 milioni già stanziati proprio nella presunzione che entro il 31 dicembre 2011 dovevano essere fatti anche i concorsi per le prime duemila assunzioni. Niente da fare. Il mastodonte burocratico messo in piedi era così mostruoso, pasticciato e complesso che di rinvio in rinvio la commissione di cui parliamo, una delle 185 (centottantacinque!) si è formata solo a gennaio di quest'anno ma solo il 1 marzo ha avuto dal ministero la «mediana». Cos'è la mediana? Una cosa così contorta che rinunciamo a spiegarvela: vi basti sapere che si tratta dei parametri di riferimento per valutare con criteri il più possibile oggettivi gli aspiranti prof. Tizio, Caio e Sempronio. Avuto il via libera, a Marco Santagata e agli altri quattro commissari (di cui uno obbligatoriamente straniero) rimanevano dunque da quel momento e fino al 30 giugno un totale di 122 giorni, compresi sabati e domeniche, Pasqua e Pasquetta. «Non so se mi spiego: calcolatrice alla mano, ognuno di noi dovrà stendere di ciascuno dei 655 candidati un giudizio analitico personale e poi collaborare a un giudizio analitico di gruppo. E questo dopo avere letto ciascuno tutti i lavori di tutti i candidati. Vale a dire 1.610 pagine al giorno». Tanto per dare un'idea: un formidabile polpettone Guerra e pace di Tolstoj, nell'edizione Garzanti, ha duecento pagine di meno. C'è un solo modo per leggere quella montagna quotidiana di pagine, adeguarsi al metodo spiegato da Woody Allen in una celeberrima battuta: «Ho seguito un corso di lettura rapida e ho letto Guerra e pace in venti minuti. Mi ricordo che si svolge in Russia». Se poi un candidato trombato dovesse far ricorso sostenendo che neppure Woody Allen avrebbe potuto leggere quel malloppo sterminato, sarà divertente leggere il parere dei giudici. Auguri... Sia chiaro: l'idea in sé di stabilire a livello nazionale quali siano le persone abilitate a contendersi poi nei successivi concorsi le varie cattedre messe in palio dai diversi atenei su un ventaglio di 370 settori scientifico-disciplinari, in linea teorica, potrebbe essere giusta. Come sottrarre sennò la potestà quasi assoluta di scegliere i nuovi docenti alle piccole camarille locali che in questi anni hanno messo in cattedra troppo spesso mogli, figli, figlie, cognati, amanti, cugini e famigli dei baroni più potenti? Dopo i numerosi scandali finiti in clamorose inchieste della magistratura, una svolta era assolutamente indispensabile. Il guaio è che, al di là della buona volontà, della serietà e della preparazione di questa o quella commissione nazionale, pare difficile che la selezione possa essere portata a termine senza ulteriori intoppi. Basti ricordare i pasticci e i ritardi nati dalla necessità di definire quali dovessero essere le «riviste scientifiche» sulle quali gli aspiranti professori potevano avere scritto gli articoli da allegare al curriculum. Un elenco compilato dall'Anvur (l'Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca) e subito contestato per la presenza, nella lista di 12.865 pubblicazioni, di magazine come Cineforum, Stalle da latte, Etruria oggi, Fare Futuro Web Magazine, la Rivista del clero italiano, il Mattino di Padova, Yacht capital, il settimanale diocesano La vita cattolica di Udine, Suinicultura, il bollettino Alta Padovana del Comune di Vigonza... Contestazioni a loro volta contestate: sono tutte riviste serissime nel loro settore! Tesi bizzarra. Il Corriere ha ospitato nella sua storia interventi di premi Nobel come Eugenio Montale o Luigi Pirandello, Grazia Deledda e Renato Dulbecco, Carlo Rubbia e Franco Modigliani e decine di nomi immensi. Ma basterebbe a definirlo una «rivista scientifica»? Boh... A rendere particolarmente complessa la procedura, inoltre, è l'estrema dispersione dei settori scientifico-disciplinari, che aggiungi oggi e aggiungi domani sono diventati 370. Alcuni così grandi da avere 226 ordinari come Diritto privato, 243 come Economia politica o addirittura 245 come Analisi matematica. Altri estremamente specialistici come Etnomusicologia o Civiltà egee (tre ordinari), Letteratura portoghese e Letteratura neogreca (due) o Assiriologia: uno solo. Per non dire di materie come «Letteratura nederlandese» o «Filosofie e religioni dell'India». Il corso di laurea non esiste ma un domani potrebbe esserci quindi c'è chi può chiedere benissimo d'essere abilitato a insegnare quelle materie lì. Vedi mai... Va da sé che con questo ventaglio di specialità, le commissioni dei vari settori concorsuali, per quanto dimezzate rispetto alla marea di discipline, sono come dicevamo 185. E «la partecipazione dei candidati all'abilitazione è ovviamente proporzionale alle dimensioni del settore concorsuale», spiega il professor Paolo Rossi dell'Università di Pisa. Di conseguenza nei grandi settori «si arriva vicini al migliaio di candidati, mentre nei settori a basso numero di ordinari la stima (non esistono ancora dati precisi) è di circa un centinaio di candidati». Ve li vedete cinque commissari in un centinaio di giorni (o meno, dato che qualche commissione è appena nata a causa di vari ricorsi amministrativi o dimissioni a catena di chi non voleva infilarsi in una macchina infernale) esaminare le pubblicazioni di un migliaio di aspiranti professori? Dieci malloppi di dieci concorrenti al giorno, festività comprese? Stendendo di ciascuno una relazione personale e poi una relazione collettiva? Possiamo giurarci: verrà data una proroga almeno di un paio di mesi. Ma è difficile che basti. A quel punto, tutto diventerà ancora più complicato perché questo concorso andrebbe ad accavallarsi con quello in arrivo. Insomma, un casino. Ma prima di varare questo sistema non potevano prendere una calcolatrice e fare quei quattro conti che abbiamo fatto noi? Gian Antonio Stella _____________________________________________________________ Corriere della Sera 01 Giu. ’13 GELMINI: «SELEZIONE DEI DOCENTI, I CAVILLI CHE CI OSTACOLANO» Caro direttore, scrive Gian Antonio Stella (Corriere del 30 maggio) a proposito del test di idoneità per i docenti, che «la formazione delle commissioni nazionali, le domande di abilitazione, la raccolta dei lavori presentati, la valutazione e i risultati, avrebbero dovuto essere completati — nelle mie illusioni — entro il 2011». Concede che l'idea di «stabilire a livello nazionale quali siano le persone abilitate a contendersi poi nei successivi concorsi le cattedre messe in palio dagli atenei su di un ventaglio di 370 settori scientifico-disciplinari, in linea teorica, potrebbe essere giusta». Infatti era, ed è stata, proprio questa una delle idee portanti della riforma per sottrarre — è Stella che lo afferma — «la potestà quasi assoluta di scegliere i nuovi docenti alle piccole camarille locali che in questi anni hanno messo in cattedra troppo spesso mogli, figli, figlie, cognati, amanti, cugini e famigli dei baroni più potenti». Il problema allora è di vedere come mai un passaggio della riforma ritenuto «assolutamente indispensabile» si riveli così complicato e rischi di venire seppellito da una (amara) risata. Vi concorrono, è vero, alcune ragioni, tecniche e gestionali, ma non solo: ad esempio è chiaro che a fronte del numero di domande presentate a novembre il decreto «milleproroghe» avrebbe dovuto stabilire, da subito, nuovi termini per la conclusione del lavoro delle commissioni. Le proroghe fatte a rate, prima aprile, poi giugno, ora settembre, servono solo a complicare il lavoro, anche se commissari scelti tra docenti di ampia esperienza dovrebbero comunque già conoscere una parte significativa dei titoli prodotti negli ultimi anni nella loro disciplina. A ciò dobbiamo poi aggiungere l'eccesso di allarmismo — non infrequente purtroppo nella comunicazione del mondo della scuola che genera insicurezza — circa la possibilità che l'abilitazione si tenesse a cadenze regolari. E che ha spinto un numero molto alto di candidati a presentarsi in questa prima tornata e a non ritirare la domanda anche dopo che a gennaio è stata indetta la seconda. Mentre è evidente che l'abilitazione deve essere un appuntamento annuale regolare, come prevede la legge di riforma, e l'auspicato rigore delle commissioni dovrebbe quindi indurre i candidati a valutare attentamente l'opportunità di fare domanda. Ma qui si inserisce un «costume italiano»: quello di tentare comunque una prova, anche solo utile per il proprio curriculum. Siamo un Paese con molti talenti, ma abbiamo davvero decine di migliaia di aspiranti credibili all'ordinariato? In conclusione, però, il principale nodo italiano resta quello di dare attuazione con regole chiare, e velocità, a un buon indirizzo politico che ci allineerebbe con quanto si fa da decenni in Paesi con cui siamo in competizione. Un nodo fatto di particolarismi opachi e di ossessione e cavilli regolamentari. Qui ogni buon principio si annacqua e annega. Guardando al futuro: nel settembre dello scorso anno, con Eugenio Mazzarella e Paola Binetti impegnammo con una mozione il governo a promuovere per la prossima tornata di abilitazione «una profonda revisione degli indicatori quantitativi e bibliometrici» e «azioni per una futura revisione degli indicatori quantitativi da utilizzare nelle abilitazioni scientifiche nazionali». Destinatario della mozione, l'Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca. Attendiamo una risposta. Mariastella Gelmini deputato pdl, ex ministro dell'Istruzione _____________________________________________________________ Repubblica 31 Mag. ’13 MATURITÀ, COSÌ I 'BONUS' PER IL NUMERO CHIUSO. "Cambiano da scuola a scuola, rischio ingiustizie" Per la prima volta gli studenti che vorranno iscriversi a facoltà con esame d'accesso potranno aggiungere fino a 10 punti al risultato dei test d'ammissione. Li otterranno con un calcolo tra il loro voto finale e la media del loro Istituto. E dalle prime simulazioni si deduce che con lo stesso voto si prendono punti diversi anche in scuole della stessa cittàdi SALVO INTRAVAIA Lo leggo dopo (ansa) Bonus-maturità a rischio caos. Con quale punteggio occorrerà diplomarsi per ottenere i 10 punti di bonus previsto dall'ex-ministro Profumo? E per ottenerne 4? Sono stati appena pubblicati e già fanno discutere criteri che consentiranno agli studenti più bravi di raggranellare con il voto d'esame qualche punto per l'accesso alle facoltà a numero chiuso. Secondo il decreto dello scorso 24 aprile, per collegare la carriera scolastica all'accesso alle facoltà a numero programmato a livello nazionale, gli studenti dell'ultimo anno delle scuole superiori che conseguiranno il diploma con almeno 80 centesimi potranno guadagnare da 4 a 10 punti che sommeranno all'esito del test nazionale per l'ammissione alle facoltà di Medicina, Odontoiatria, Veterinaria, Architettura e Professioni sanitarie. Da quest'anno, infatti, la valutazione dei test d'ingresso nazionali cambia e sarà espressa in centesimi: 90 punti al quizzone che fa impazzire migliaia di aspiranti e 10 punti al diploma di maturità. Fino all'anno scorso il diploma non assegnava punti aggiuntivi per l'ammissione all'università e il test di ammissione valeva al massimo 80 punti. I criteri stabiliti dall'ex ministro Francesco Profumo dovevano essere pubblicati entro il mese di maggio. E ieri in tarda serata sono stati resi noti sul sito www.universitaly.it: guarda l'elenco Ma la nuova norma rischia di creare disparità tra gli studenti anche della stessa città. Infatti in ogni scuola i punti di bonus verranno assegnati secondo range diversi: verranno infatti "attribuiti esclusivamente ai candidati che hanno ottenuto un voto di maturità almeno pari a 80/100, rapportato alla distribuzione in percentili dei voti ottenuti dagli studenti che hanno conseguito la maturità nella stessa scuola nell'anno scolastico 2011/12". Tradotto: Per avere ad esempio il massimo - 10 punti - occorrerà diplomarsi con un punteggio che l'anno scorso è stato superano soltanto dal 5 per cento degli studenti della medesima scuola. Mentre per ottenerne 8 di punti occorrerà raggiungere o superare il punteggio superato dal 10 per cento degli studenti dell'anno scorso. E così via. Alcuni esempi delle disparità. Basta fare qualche esempio per chiarirsi le idee. A Roma, per acciuffare il massimo del bonus - 10 punti - basterà diplomarsi con appena 81 centesimi al liceo classico paritario Pirandello, mentre non basterà neppure diplomarsi con 100 e lode al classico statale Virgilio perché - per il complesso meccanismo di calcolo - gli studenti di questa scuola potranno ambire al massimo a 9 punti. Una circostanza che rischia, il prossimo anno, di creare un vero e proprio esodo verso le scuole paritarie, soprattutto da parte di coloro che ambiscono al camice bianco. Uscendo dal liceo classico paritario Montini di Milano con 86 centesimi al diploma ci si aggiudica ben 10 punti di bonus. Votazione - 86 centesimi - che basterà appena per ottenerne 4 di punti al liceo classico statale Setti Carraro della città meneghina. Insomma, il rischio di incongruenze è altissimo e che potrebbe indurre gli studenti a protestare e il ministro a bloccare il provvedimento in attesa di una rivisitazione del meccanismo di calcolo del bonus che cancelli le sperequazioni tra studenti di scuola anche della stessa città. Paradossalmente, saranno avvantaggiati quest'anno gli studenti delle scuole paritarie e degli istituti tecnici e professionali, che lo scorso anno si sono diplomati con votazioni inferiori rispetto ai liceali. _____________________________________________________________ La Padania 30 Mag. ’13 MATURITA’: ATENEI DEL NORD DISCRIMINATI DAL BONUS MATURITÀ Sospendere il «bonus maturità in attesa di individuare un meccanismo che garantisca omogeneità di valutazione sul territorio». La Lega Nord con un'interrogazione alla Camera (a firma Davide Caparini) torna su un argomento che riguarda migliaia di studenti del Nord. Il "bonus" infatti quest'anno per la prima volta inciderà sull'accesso ai corsi universitari a numero chiuso (Medicina, Odontoiatria, Veterinaria, Architettura). «Penalizzando - spiega l'esponente del Carroccio Mario Pittoni - gli studenti del Nord, che in campo medico già possono contare su un numero di posti in grado di coprire a malapena metà delle richieste. Finora eravamo riusciti a bloccare il "bonus maturità": troppa la disomogeneità di valutazione che caratterizza il territorio nazionale. Ora chi ha un buon voto al diploma incasserà da 4 a 10 punti. Entro il 31 maggio sarà fornita la tabella per convertire la valutazione di maturità in punti: uno schema articolato che, secondo il ministero, terrà conto delle differenze di valutazione tra le scuole. Ma non potrà tenere conto del livello qualitativo medio degli studenti dei singoli istituti, penalizzando di fatto chi frequenta strutture che garantiscono standard elevati». Come spiega Caparini nella sua interrogazione «il "bonus maturità" in realtà non è una vera e propria novità in quanto questa "dote" era già stata ideata nel 2007 dal Governo Prodi con la finalità di consentire ai maturati eccellenti di partire in vantaggio, ma finora non era mai stata applicata, grazie anche all'opposizione della Lega Nord». Ora, secondo Capanni, il voto all'esame di maturità rischia di essere falsato ed inattendibile perché potrebbe essere influenzato da svariati fattori, per esempio, potrebbe non tener conto del livello qualitativo medio degli studenti dei singoli istituti, penalizzando di fatto chi frequenta strutture che garantiscono standard elevati e creando quindi disparità». Inoltre «alla luce delle attuali innovazioni un voto alto al diploma ha un'importanza fondamentale. Si pensi al fatto che Io scorso anno un punteggio totale di 40/50 punti era la soglia minima di accesso alle facoltà più ambite e quindi, 10 punti in più possono davvero fare la differenza». Per l'esponente leghista piove sul bagnato. Infatti «si aggiunge un nuovo problema a quello dei test, che a medicina (con un solo posto disponibile ogni dieci domande) già oggi garantiscono l'accesso più per fortuna che per capacità. Il decreto ministeriale ha optato per una gradua- tona a livello nazionale. Questo vuoi dire che se uno studente non rientra nel numero dei posti previsto per l'ateneo in cui sostiene l'esame, ma col suo punteggio rientra nel numero dei posti totali a livello nazionale, si «prenota» per un posto in un altro ateneo. Nel 2015 si stima che mancheranno circa 7.600 medici. Le università del Nord, - conclude Caparini - "sfornano" a malapena la metà dei medici che servono con il risultato che in alcune regioni buona parte dei medici viene da fuori» _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Mag. ’13 AMMISSIONI: «ATENEI SARDI PENALIZZATI DALLE NOVITÀ SUI TEST» «Tre presunte innovazioni, eredità dell'ex ministro Profumo, rischiano di mettere definitivamente in ginocchio le Università di Cagliari e Sassari, collocandole in una situazione emarginata nella graduatoria nazionale degli atenei italiani ed europei». A lanciare l'allarme è la segreteria regionale della Cisl. Sotto accusa anzitutto i test di valutazione: «Se gli universitari sardi saranno tuttologi, Cagliari e Sassari avranno soldi in più. In caso contrario, tagli anche ai finanziamenti ordinari». La Cisl precisa che i sindacati non sono contrari alla valutazione, ma a un sistema che «più che alle competenze professionali guarda alla cultura generale». Le altre due «innovazioni suicide» sono l'anticipo a fine luglio 2013 e aprile 2014 dei test per accedere ai corsi di laurea a numero chiuso di Medicina, Odontoiatria, Architettura e Veterinaria, e la graduatoria unica nazionale per le stesse facoltà. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 02 Giu. ’13 TEST PER L'UNIVERSITÀ: LA SCADENZA È VENERDÌ Rimangono solo sei giorni agli aspiranti medici, odontoiatri, architetti e veterinari. La rivoluzione dei test di ammissione targata Profumo anticipa tutti i tempi. Non sono ancora neanche iniziati gli esami di maturità eppure l'ingresso nel mondo universitario mette altra pressione sugli studenti. Scadenza domande il sette giugno, per i versamenti c'è tempo sino al 14. E dal 24 luglio iniziano i temuti test di accesso ai corsi di laurea a numero chiuso. Tre step inderogabili per essere ammessi nelle facoltà di Medicina e Odontoiatria, Architettura e Veterinaria. Per la presentazione della domanda c'è tempo fino a venerdì prossimo, alle 15. La procedura è completamente digitalizzata, ci si dovrà collegare al sito www.universitaly.it. e seguire le indicazioni. Sempre entro il sette giugno la domanda dovrà essere perfezionata sul portale web dell'università di Cagliari (https://webstudenti.unica.it). Ultima fase: il pagamento del contributo entro il 14. Un tour de force per gli studenti, impegnatissimi con la chiusura dell'anno scolastico. Sono ancora alle prese con le ultime interrogazioni e poi devono lanciarsi nella corsa verso l'esame di maturità. E dopo non avranno nemmeno un attimo di respiro, di nuovo sui libri alle prese con le materie chiave per entrare nei corsi di laurea a numero chiuso. L'ex ministro dell'Istruzione lascia il suo ultimo decreto che stravolge l'organizzazione dell'accesso al mondo accademico. E anticipa di sessanta giorni le prove d'ingresso. Per i neodiplomati le vacanze non arriveranno prima di agosto: i futuri camici bianchi il 23 luglio si ritroveranno di nuovo tra i banchi. Non va meglio agli aspiranti veterinari e architetti, per loro i test saranno rispettivamente il 24 e il 25. Tra le novità di quest'anno anche la sforbiciata ai quiz: saranno sessanta, contro gli abituali ottanta. La cultura generale lascia più spazio ai test di logica, la vera regina delle nuove prove. Cambiano anche i punteggi: 1,5 per ogni risposta corretta, meno 0,4 per quelle sbagliate. E per la prima volta il voto di maturità permetterà di avere qualche beneficio in più. I neodiplomati con un punteggio superiore a ottanta potranno avere dai quattro ai dieci punti extra. Sara Marci _____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Giu. ’13 QUESTA MATURITÀ È INUTILE" E I PRESIDI LA RIFORMANO COSÌ UNA PERDITA DI TEMPO... Un residuo obsoleto della Norma Gentile... Una tortura, che solo i poveri studenti italiani sono costretti a sopportare... Diamoci un taglio Il bello è che a parlare così dell'esame di maturità non sono i ragazzi, ma i presidi. Che a marzo si sono riuniti - erano una novantina - per un convegno organizzato dalla Luiss, "Dal talento al lavoro", e ora sono pronti a passare all'attacco: nelle prossime settimane si incontreranno e metteranno a fuoco una proposta. Il punto è questo: l'ex ministro Francesco Profumo ha deciso di anticipare i test d'ingresso nazionali: Medicina, Veterinaria, Odontoiatria, Architettura anziché a settembre, quest'anno, si svolgeranno a luglio. I maturandi non faranno in tempo a rilassarsi dopo gli orali (termine 18 luglio), perché, pochi giorni dopo, torneranno in aula. Nel 2014 andrà peggio: si partirà 1'8 aprile con il test di Medicina, gli altri a seguire. Si rischierà l'ingorgo: di libri e di cervelli. A che cosa dare la priorità? Profumo ha spiegato il perché di questa scelta: prima di tutto, serve un adeguamento agli altri Paesi europei; secondo, i ragazzi, soprattutto i fuorisede, hanno più tempo per organizzarsi, e lo stesso le facoltà. MA POSSONO COMUNQUE verificarsi dei gran pasticci. «Se uno studente passa il test di Chimica, ha senso che possa essere bocciato nella stessa materia alla maturità? Perché studiare tutti le stesse cose per l'esame di Stato?» si chiede Roberto Costantini, responsabile dell'orientamento alla Luiss. Dalle scuole, le voci contro il vecchio esame sono tante. «È inutile» attacca Stefano Stefanel, dirigente del liceo Marinelli di Udine. «Gli studenti maggiorenni stanno tra i banchi come a 8 anni. All'estero, a 18 frequentano già l'università. Metterei i test a fine quarta, mentre in quinta chiuderei con una semplice certificazione delle competenze». Sulla stessa linea Giovanni Zen, preside del Brocchi di Bassano del Grappa: «I ragazzi perdono l'ultimo anno a prepararsi per la maturità. Invece vorrebbero che noi li aiutassimo a scoprire i loro talenti». Rincara la dose Gianni Oliva, dei licei classici D’azeglio e Cavour di Torino: «Troppo stress, inutile. Basterebbe una verifica interna finale». I numeri dell'esame di Stato lasciano in effetti più di qualche dubbio sul suo valore: quasi totalità di ammessi, quasi totalità di promossi (vedi tabella). E che dire delle differenze nei voti tra Nord (bassi) e sud, dove i 100 fioccano? Anche il mondo accademico non se la passa bene: negli ultimi io anni gli atenei hanno perso 58.000 iscritti, cioè il 17 per cento. I laureati tra i 30 e i 40 anni in Italia sono il 19 per cento; in Europa, la media è del 30. Da noi, poi, il 33 per cento è fuoricorso. È urgente intervenire, se si vuole restare al passo con gli altri Paesi, soprattutto oggi. Per questo, l'orientamento mirato è condizione necessaria: «Open day e brochures non servono, i ragazzi trovano le informazioni su inteinet» sostiene Costantini. «Manca invece l'esperienza diretta. Le estati tra la 3a e la 4a e tra la 4a e la 5a andrebbero passate sul campo: nelle summer school degli atenei oppure nello studio di un notaio o di un medico«. Qualche facoltà anticipa già i test d'ingresso, dove non sono previsti quelli nazionali: oltre a Bocconi e Luiss (private), tra le strutture pubbliche c'è il Politecnico di Milano: «L'idea di Profumo è buona», è il parere di Mauro Santomauro, delegato per la Didattica. «Noi rendiamo possibile il test per Ingegneria fin dalla quarta. Chi lo fa, e lo passa, può scegliere il corso preferito. Chi invece partecipa al test "regolare" a settembre, si divide i posti restanti. Ormai più della metà dei candidati sceglie l'anticipo». TRA LE PROPOSTE che i presidi metteranno a fuoco, c'è quella di accorciare di un anno le superiori: «Ci avevamo pensato ai tempi della riforma Moratti» ricorda il pedagogista Giuseppe Bertagna. «Prevedevamo verifiche biennali Invalsi per tutta la durata degli studi e, in uscita, una certificazione dei docenti interni. Purtroppo non se ne fece niente». Altro tema: i contenuti dell'ultimo anno. Secondo Stefanel, dovrebbero essere pre universitari: «Farò il test di Architettura? In quinta mi metto alla prova sulle materie scientifiche, così capisco se è quella la mia strada». Aggiunge Maurizio Galeazzo, del Fermi di Padova: «Le famiglie ci chiederanno di preparare i figli ai test. Ma non è detto che le scuole abbiano le risorse». Costantini cita il modello del baccalaureato Internazionale: «All'ultimo anno si studiano solo sei materie, scelte dai ragazzi sulla base del loro percorso futuro. Potrebbe essere una strada», In ogni caso, conclude Oliva, «o i programmi si adeguano ai test, o i test ai programmi. Così non funziona», • _____________________________________________________________ La Stampa 1 Giu. ’13 SPESA PER RICERCA AI MINIMI COSÌ L'ITALIA NON INNOVA PIÙ Per Bankitalia il ritardo si deve alle difficoltà di finanziamento ROSARIA TALARICO ROMA Pochi capitali, pochi brevetti, poca ricerca e sviluppo. La diagnosi di Banca d'Italia sulla situazione delle imprese italiane è impietosa. «Le determinanti del ritardo innovativo dell'Italia vanno ricercate in alcune caratteristiche del sistema produttivo e finanziario privato» si legge nella relazione annuale di Bankitalia «e nella difficoltà del settore pubblico di creare un contesto istituzionale e regolamentare favorevole all'innovazione e di sostenere direttamente l'attività innovativa». Inoltre il 40 per cento circa della spesa in ricerca e sviluppo è effettuata dal settore pubblico. Una produzione scientifica che non sfigura nel confronto con altri paesi, sebbene le nostre strutture universitarie siano meno presenti nelle posizioni di eccellenza delle principali graduatorie internazionali. Ma nonostante i recenti progressi, la collaborazione tra il sistema di ricerca pubblica e il settore privato è scarsa. «Gli incentivi pubblici all'innovazione delle imprese hanno conseguito risultati modesti. La loro efficacia ha risentito negativamente della frammentazione degli interventi, dell'instabilità delle norme e dell'incertezza sui tempi di erogazione». Un parametro per misurare l'innovazione è il numero di brevetti. Nel 2010 le domande depositate presso l'Ufficio europeo dei brevetti (European patent office, Epo) erano pari per l'Italia a 7,4 per 100 mila abitanti, molto meno che in Francia (13,5), Germania (26,7) e Svezia (30,8). Il ritardo è più attenuato per i marchi e, soprattutto, per i disegni industriali. Altro problema è la ridotta dimensione aziendale, che caratterizza il sistema produttivo italiano nel confronto con gli altri principali paesi e «riveste un ruolo più rilevante della specializzazione settoriale nel limitare l'attività innovativa». Più piccola è la dimensione, più difficoltoso è sostenere gli elevati costi fissi connessi con l'avvio di progetti innovativi; inoltre la minore propensione all'esportazione delle piccole e medie imprese «riduce ulteriormente l'inéentivo a investire in innovazione che deriva dalla possibilità di ripartire tali costi su un maggiore volume di vendite». Le aziende familiari inoltre hanno un peso più elevato nell'economia italiana rispetto agli altri principali paesi europei. Quelle a proprietà e gestione completamente familiare rappresentano il 59 per cento del totale delle imprese in Italia, contro il 18 in Francia e il 22 in Germania. Tali imprese si caratterizzano per una minor propensione all'attività di ricerca e sviluppo rispetto alla media poiché «la sostanziale coincidenza tra il patrimonio aziendale e quello della famiglia proprietaria può ridurre la disponibilità a intraprendere progetti rischiosi». E poiché l'accesso al credito bancario è sempre più complicato ricorrere al capitale azionario aumenterebbe considerevolmente l'attività innovativa delle imprese, «l'emissione di azioni accrescerebbe in Italia la probabilità di svolgere attività di ricerca e sviluppo di circa un terzo». _____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Mag. ’13 RITORNARE AL METODO DI GALILEO PER INTRODURRE LE RIFORME IN ITALIA di ANDREA ICHINO Se Aristotele fosse qui, guarderebbe nel telescopio! Questo è il senso delle parole che Galileo, nel Dialogo sopra i Due Massimi Sistemi, affida a Filippo Salviati per invitarci a preferire il metodo sperimentale e l'osservazione dei fatti, piuttosto che la cieca fiducia nell'autorità di princìpi ideologici a priori. Tornano in mente queste parole pensando a quel che il governo potrebbe utilmente fare. È un governo che riunisce persone che la pensano in modo opposto su quasi tutto. Nulla di male, anzi ben venga questa coalizione, se il suo obiettivo primario fosse ridisegnare le regole del gioco (cosa che richiede appunto l'accordo tra tutte le squadre in campo). Ma è difficile pensare che persone e forze politiche così diverse, pronte fino a poco fa ad accusarsi delle peggiori malefatte, ora possano davvero decidere insieme strategie coerenti ed efficaci per il lavoro, la scuola, l'università, la giustizia e tutti gli altri ambiti nei quali il Paese ha bisogno di riforme profonde, non approssimative e incoerenti a causa di veti contrapposti. Mentre si discutono le regole del gioco, però, il governo potrebbe usare bene il suo tempo raccogliendo dati e sperimentando riforme su piccola scala che poi forniranno utili informazioni, in un senso o nell'altro, a qualsiasi compagine governativa, speriamo più coerente e compatta, la quale si trovi a governare in futuro. Si ridurrebbe così la necessità di inutili scontri su quei princìpi che ogni fazione deve chiamare in causa se sono in discussione riforme definitive, ma che potrebbero essere accantonati in una fase sperimentale. È proprio una questione di metodo (come suggerisce il Forum Idee per la Crescita nei Corsivi del Corriere pubblicati in questi giorni) dal quale la politica e la burocrazia italiane, di ogni colore, sembrano infinitamente lontane. In primo luogo, basterebbe abituarsi a fare ciò che serve (e costerebbe poco) per rendere disponibili i dati necessari a monitorare quel che accade. Tanto per dirne una, pare che sia oggi impossibile valutare gli effetti della riforma Fornero sulla disciplina dei licenziamenti, perché le banche dati ministeriali non sono state modificate in tempo per registrare le nuove fattispecie procedurali previste dalla riforma. Più in generale, in nome di una tutela della riservatezza assunta a bene assoluto, si impedisce l'utilizzo congiunto di dati di fonti amministrative diverse che, in altri Paesi, consente a chi fa ricerca per la pubblica amministrazione di dare utili indicazioni alla politica. Un esempio tra i tanti è quello dei test di ingresso a Medicina: se ne discute ogni anno accesamente sulla base delle proprie convinzioni, ma senza dati longitudinali adeguati sulle carriere scolastiche, universitarie e lavorative non potremo mai capire se servano o no a selezionare i migliori medici. Ma, soprattutto, i politici e burocrati italiani (non quelli di altri Paesi) sono lontani anni luce dal considerare seriamente la possibilità di effettuare, anche in campo sociale, sperimentazioni controllate come quelle che normalmente si effettuano in campo medico per valutare gli effetti delle terapie. Non le sperimentazioni di facciata che, ad esempio nella scuola, sono state ripetute all'infinito senza una vera e trasparente valutazione dei risultati (un'eccezione: Valorizza che nel 2011 ha sperimentato il ricorso a indicatori di reputazione per individuare e premiare gli insegnanti migliori). Quello che intendo sono vere sperimentazioni che consentano l'identificazione di nessi di causalità, mediante il confronto tra «casi trattati» e «casi controllo» comparabili tra loro. Molto in questo senso potrebbe fare il ministro del Lavoro per sperimentare misure diverse a favore non solo dell'occupazione giovanile, ma anche di quella degli anziani (perché puntare ad una misera staffetta?). Lo stesso vale per il ministro della Giustizia, il cui dicastero ha bisogno di capire come ridurre l'esorbitante flusso di casi che arrivano in giudizio, soffocando i tribunali italiani, e quali pratiche siano più efficaci per ridurre il colossale arretrato. Nulla poi vieterebbe ai ministri degli Interni, della Funzione Pubblica e soprattutto dell'Istruzione di sperimentare ruoli diversi dello Stato nei servizi che gli competono. Gli italiani (per esempio Rodotà sul Corriere del 21 maggio) non riescono a immaginare che lo Stato si possa limitare a regolare e finanziare i servizi pubblici lasciando ad altri la loro erogazione: la scuola e l'università sono pubbliche solo se gestite dallo Stato in ogni dettaglio. In altri Paesi abbondano esempi in cui scuole e università sono autogestite localmente da chi, anche privato, ha le migliori informazioni per farlo, pur rimanendo pubbliche perché finanziate e regolate anche strettamente dallo Stato. Non ho la certezza che questo modo di pensare il servizio pubblico sia il migliore, ma vorrei poter guardare nel telescopio per capire quali sono i fatti e per poter poi decidere in base a quelli, invece di fare come il Filosofo Simplicio del dialogo galileiano che rifiuta a priori questa possibilità. andrea.ichino@unibo.it _____________________________________________________________ Repubblica 1 Giu. ’13 IN DIECI ANNI, 58MILA ISCRITTI IN MENO AL PRIMO ANNO DI UNIVERSITÀ. Con la crisi sembra un risparmio, invece è uno spreco tta Munti' Foto di Riccardo Venturi 0 mai li considera- no merce rara, in Italia: sono le potenziiali giovani matricole universitarie 18-19enni. Rappresentano una generazione già di per sé evanescente, dall'85 a oggi sono diminuiti del 38% (su 100 ragazzi italiani di metà anni 80, oggi ce ne sono 38 di meno). E questi pochi sono poco intenzionati a iscriversi all'università: come racconta l'ultimo Rapporto del Consorzio interuniversitario Alma- Laurea, solo il 29% di loro si immatricola. La metà dello sparuto drappello, poi, molla prima di discutere la tesi, generando quella che Domenico De Masi, sociologo del lavoro e delle professioni all'università La Sapienza di Roma, definisce «una percentuale subsahariana, soprattutto se paragonata ai dati Usa (su 100 studenti americani se ne laureano 72), russi (55 su 100), canadesi (58 su 100)... o. A gettare benzina sul fuoco pensa il Ministero dell'istruzione, università e ricerca, che rileva come in un decennio, dal 2003 al 2012, si siano perse per strada 58 mila matricole. Volatilizzato un ateneo grande come la Statale di Milano, Ciò non toglie che le lauree italiane siano passate da 172mila nel 2001 a 289mila nel 2010 (+ 68%), ma questo è per lo più dovuto alla duplicazione dei titoli (laurea di primo livello e, a seguire, laurea specialistica). E c'è un altro paradosso: il calo delle immatricolazioni del 15% in 8 anni, causato da più fattori, come appunto la decrescita demografica della popolazione I 9enne, le difficoltà d'impiego che incontrano i fratelli maggiori già laureati, l'impoverimento delle famiglie, la sfiducia nella cultura, il fallimento delle politiche scolastiche, si scontra con l'affollamento ai test delle facoltà ad accesso programmato (le lauree magistrali, tipo medicina, architettura... ). Spiega Mauro Mancini, che in quanto presidente della Conferenza dei rettori delle università Italiane, e quindi "rettore dei rettori", ha il polso della situazione: «Sono le due facce della stessa medaglia. Da un lato l'accesso chiuso o programmato che monitora le esigenze di certe professionalità, e in genere qui il feedback tra percorso di studi e impiego è positivo. Dall'altro i ragazzi che non hanno fiducia nella laurea, perché la vedono sempre meno allineata al mercato del lavoro. Nonostante alcuni nostri protocolli d'intesa, per esempio, con Confindustria». Soluzioni? Il professor Mancini sospira: «Le famiglie italiane oggi non possono fare ulteriori sacrifici, e dunque si pensa alla defiscalizzazione delle spese per l'università dei figli, al rifinanziamento del diritto allo studio, cioè delle borse di studio agli studenti bisognosi ma capaci e meritevoli... Ora, di questi "poveri ma bravi" ne raggiungiamo solo 60 su 100: una palese violazione del diritto costituzionale all'istruzione". La situazione va analizzata da più punti di vista. Dice Renata Semenza, sociologa dei processi economici e del lavoro, docente all'Università Statale di Milano: «Il lavoro è oggi una risorsa scarsa, e la competizione è una regola che va accettata. L'accesso alle carriere è come un torneo. I giovani, che sono una rappresentanza altrettanto scarsa, la competizione la devono saper accettare. Certo, tutto sta a come vengono relazionate le prove: sono d'accordo sui test d'accesso ma non sul numero chiuso». Porta altre riflessioni Andrea Cammelli, docente del dipartimento di statistica dell'università di Bologna e direttore di Alma- Laurea, Consorzio interuniversitario che favorisce e segue l'inserimento dei laureati nel mondo del lavoro: «La riforma universitaria DM 509/99, quella del 3+2 (titolo triennale e riconoscimento delle esperienze di studio e lavoro), ha sicuramente procurato dei vantaggi, perché è riuscita a ridurre il fenomeno del fuoricorso e dei tempi lunghi di laurea e, soprattutto, ha avvicinato all'università gli studenti svantaggiati economicamente e socialmente, Ma restano i problemi dei ragazzi di oggi, che io ritengo più studiosi di quelli delle generazioni precedenti, e sono problemi che vanno ben oltre l'università. Bisognerebbe, per esempio, abolire l'ultimo anno di liceo e anticipare dal primo anno di università al quarto e ultimo anno di istruzione secondaria il sistema di valutazione dei docenti. Si eliminerebbero così gli insegnanti più anziani e preoccupati di essere giudicati. E poiché questi 19enni sono così pochi che fanno fatica a farsi ascoltare, un'altra cosa che si potrebbe fare per loro è anticipare a 18 anni anche il voto per il Senato. Diventerebbero subito più influenti«. E appetibili sul mercato. Domenico De Masi sottolinea: «Un laureato, considerato dalla nascita alla discussione della tesi, oggi costa, tutte le voci comprese - dal cibo all'alloggio alle piccole spese - in media 400 mila curo. Metà li paga lo stato, l'altra metà i genitori o i parenti. E un investimento da sfruttare bene a lungo termine, ecco perché alla società converrebbe puntare sui 19enni. A questo riguardo, il numero chiuso è una follia: regola un eccesso che non c'è". La caccia al 19enne che non c'è e che, se c'è, smette di studiare va comunque valutata. Perché, tanto per cambiare, ferisce con la forbice sempre più allargata tra "ricchi" e "poveri": in realtà, i 18-19enni che si sono immatricolati dopo aver conseguito la maturità liceale sono persino saliti, dell'8%, mentre sono crollate del 44% le matricole con diploma tecnico e del 37% quelle con diploma professionale. Poi c'è il discredito morale ed economico cui è andata sistematicamente incontro l'università italiana: «Nel 2014», dice Marco Marcini, finanziamenti sono passati da 150 milioni di curo ai 20 milioni del 2013. Vanno messi in conto 5-6 anni di attacco convergente di denigrazione. ormai così fatiscente da non saper più esercitare fascino sui giovani. «Troppo lo scoraggiamento dei ragazzi. Scuotiamoli», fa eco Andrea Cammelli. «Stiamo diventando il fondoscala dei paesi Ocse, abbiamo una popolazione pochissimo scolarizzata e spendiamo niente, 1'1,9% del Pil, per l'università». Mette i puntini sulle I: «Ci saranno tempi più lunghi per la ricerca del lavoro, ma, misurato il guadagno nell'arco della vita, il laureato oggi guadagna il 50% in più del diplomato di scuola secondaria superiore. Come succede in Francia, ma con margini minori che in Inghilterra e Germania». E segnala che in marzo sono stati intervistati 400 mila laureati italiani: bene, a 5 anni dal conseguimento del loro titolo, il tasso di disoccupazione, nonostante la crisi, per loro scende a valori fisiologici (6%) e quello di occupazione, indipendentemente dal tipo di laurea, è sul 90%. Conviene pensarci. _____________________________________________________________ Il Messaggero 30 Mag. ’13 ALMALAUREA: AUMENTANO GIOVANI LAUREATI IN CORSO ROMA L'università italiana sforna laureati più giovani e più in corso. L'età della laurea passa, infatti, dai 26,8 anni del 2004 ai 24,9 nel 2012: 23,9 gli anni dei laureati di primo livello, 25,2 per i magistrali e 26,1 per i magistrali a ciclo unico. È quanto emerge dal XV profilo dei laureati italiani presentato da Almalaurea. L'indagine mostra anche che per il complesso dei laureati migliora la regolarità negli studi: i laureati in corso, poco meno del 10% nel 2001, sono diventati il 41% nel 2012. Tra i laureati di primo livello, la regolarità negli studi riguarda una quota elevata di laureati: 39,5% (complessivamente 64% entro un anno di ritardo). Concludono nei tre anni previsti 64,5 laureati delle professioni sanitarie su cento. All'estremo opposto, restare in corso riesce possibile soltanto a 211aureati su cento del gruppo giuridico e al 30% di quello geo-biologico. Su valori molto confortanti la regolarità dei laureati magistrali: hanno concluso nel 48,5% dei casi i loro studi in corso - e altri 32 con un anno di ritardo - (dal 76% di quelli delle professioni sanitarie al valore minimo del 36% dei laureati del gruppo architettura). A proseguire gli studi sono, in misura maggiore, i giovani provenienti da ambienti familiari socialmente ed economicamente più favoriti e quelli residenti in aree del paese economicamente più arretrate. Fra i laureati del 2012 tale tendenza si accentua e riguarda oltre i tre quarti dei laureati di primo livello (76%) che si indirizzano in grandissima prevalenza verso la laurea magistrale (61%). LA PROFESSIONALITA' Quello che interessa di più ai giovani laureati è, e resta immutata anche nel 2012, la possibilità di acquisire professionalità (indicata dal 78% dei laureati). Crescono invece in misura molto rilevante la richiesta di stabilità e di sicurezza del posto di lavoro (soprattutto fra i laureati di primo livello), la possibilità di fare carriera e il desiderio di avere un'occupazione caratterizzata da ampi margini di autonomia. A sfatare i luoghi comuni, è diffusa la disponibilità a effettuare trasferte frequenti di lavoro (31%), fino a rendere disponibile il trasferimento di residenza che nel 2012 riguarda ben il 44% del complesso dei laureati. Non disponibile a trasferte si dichiara solo il 3% dei laureati. L'apertura alla flessibilità è testimoniata anche dal fatto che è aumentata la disponibilità per lavori part-time e per i contratti a tempo determinato. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 31 Mag. ’13 PIÙ GIOVANI E FLESSIBILI, ECCO I NUOVI LAUREATI L'ultima istantanea sul laureato italiano è in Rete ed è stata presentata ieri a Milano. Intanto. È più giovane: rispetto a dieci anni fa un paio d'anni in meno, il titolo arriva a 25, non più a 27. E meno frequentemente è un fuori corso. Gli studenti in regola con tempi ed esami, che erano una minoranza, appena uno su dieci, sono diventati il 40%. Queste le buone notizie. Il contesto è quello denunciato dal consiglio universitario nazionale nei mesi scorsi: poche immatricolazioni, fuga dagli atenei («mancano all'appello quasi sessantamila studenti», denunciò il Cun). «Oggi i diciannovenni che si immatricolano sono soltanto tre su dieci», è stata la premessa anche ieri, alla presentazione dell'Identikit dei laureati 2012, rapporto confezionato annualmente dal consorzio interuniversitario Almalaurea. Il messaggio. «Pensando ai 400 mila giovani e alle loro famiglie che stanno decidendo se continuare gli studi, vorremmo ribadire che con una formazione superiore si lavora meglio e di più: le opportunità per i laureati oggi, con la crisi, sono il 14% in più», ha detto Andrea Cammelli, direttore del consorzio, prima di raccontare con i numeri i nuovi laureati. Lo studio è stato realizzato su 227 mila studenti delle 63 università nel consorzio, che significa l'80% del totale. Non hanno aderito la maggioranza degli atenei milanesi e lombardi. E a questo proposito da Milano è stato rilanciato l'appello ai rettori, dal Politecnico alla Statale, da Bocconi a Bicocca. «Almalaurea oggi ha un'anagrafe dei laureati con un milione e ottocentomila curriculum disponibili anche in inglese per le imprese di tutto il mondo, un peccato non avere una banca dati completa». Poi la riflessione sull'identikit del laureato. Da notare che per la maggioranza dei neodottori (71%) la pergamena entra per la prima volta in famiglia: «Questo vale soprattutto per le triennali introdotte con la riforma del 2004, si scende al 53% se si considerano i corsi a ciclo unico». E c'è il dato nuovo sulla regolarità negli studi, con il numero dei fuori corso in netto calo. E sulla frequenza alle lezioni, che cambia a seconda dei percorsi, più alta per Ingegneria, Architettura e professioni sanitarie, più bassa per l'area giuridica. Un altro numero da leggere: la crisi incide sulle esperienze di lavoro durante gli studi, dopo un periodo di crescita calano dal 77 al 71%. Mentre sono sempre più diffusi tirocini e stage: più della metà dei neodottori ha avuto un'esperienza di lavoro in azienda. Prima della riforma del 2004, gli studenti che avevano questa opportunità erano un terzo. Poi, le esperienze all'estero, a partire da Erasmus, anche queste in crescita: siamo al 14% e il numero sale fra i laureati magistrali. A proposito di studenti globali e internazionalizzazione, la capacità attrattiva dei nostri atenei è ferma al 3,5% di iscritti stranieri. Mentre i nostri studenti sono pronti a partire. «Nonostante i luoghi comuni è diffusa la disponibilità a effettuare trasferte frequenti di lavoro, è pari al 31%». E al trasferimento di residenza direbbero sì il 44% dei laureati. Un no è stato dichiarato soltanto dal 3%. Più disponibili e flessibili i nuovi laureati anche su lavori part time e contratti a tempo determinato. E adesso disponibili prima. L'età media della laurea nel 2004 era 26,8 anni, adesso il diploma di primo livello arriva a 23,9, di laurea magistrale a 25,2 e a ciclo unico a 26. Federica Cavadini _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 Giu. ‘13 CRENOS «LA RIPRESA? INSIGNIFICANTE» Presentato il 20° rapporto. La Regione: «Colmare il gap infrastrutturale» L'Isola soffre e perde ricchezza: non sappiamo innovare La Sardegna naviga in acque agitate. La situazione economica è «particolarmente critica» e «gli indicatori di crescita, reddito e consumi confermano la stagnazione che si registra a livello nazionale». La fotografia, a tinte fosche, è stata scattata dal 20° Rapporto Economia della Sardegna del Crenos. «Al di là delle carenze infrastrutturali, che pure sono importanti», spiega Giovanni Sulis, ricercatore del Crenos, uno dei curatori del Rapporto, «in Sardegna esiste un problema di scarsa dotazione di capitale umano specializzato». Anche per questo il Pil dell'Isola ristagna: in linea con il resto del Paese, il prodotto interno lordo del 2014 rimarrà vicino allo zero (0,7% in Italia). IL LAVORO Uno dei tasti dolenti è il mercato del lavoro. Continua ad aumentare il numero di disoccupati (+16% del 2012 rispetto al 14% del 2011) anche se migliora l'accesso da parte delle donne in settori come i servizi alla persona, ma non rallenta l'incremento del ricorso alla cassa integrazione (+600% rispetto al 2007). «Sono dati che ovviamente ci preoccupano», commenta l'assessore regionale della Programmazione, Alessandra Zedda, «ma dobbiamo concentrarci sugli elementi positivi e batterci per colmare il gap infrastrutturale che deriva dall'insularità. Solamente puntando su lavoro, competitività, sistemi produttivi e innovazione possiamo superare la terribile crisi che stiamo attraversando». IL TURISMO Arranca anche il turismo che sconta il decremento dei flussi nazionali. In Italia, quasi la metà delle presenze è di origine straniera (46%), la quota diventa superiore per le regioni del Centro Nord (49%). In Sardegna e nel Mezzogiorno, la differenza fra turisti italiani e stranieri è più ampia rispetto alla media nazionale, anche se, spiega il Crenos, è in miglioramento negli ultimi anni grazie soprattutto ai trasporti aerei “low cost”. Tra le province, Olbia-Tempio si conferma una delle più frequentate dagli stranieri (il 44% delle presenze sul totale) come l'Ogliastra e Sassari. La quota di turisti italiani è invece preponderante a Cagliari (oltre il 60%) e nelle province di Carbonia- Iglesias e del Medio Campidano. Nel 2013, tuttavia, gli operatori scommettono sul rilancio del turismo italiano, ipotizzando un aumento di poco superiore al 30%. LA SPESA PUBBLICA Sul fronte della spesa pubblica, la Sardegna procede a due velocità. Mentre il sostegno della Regione al territorio resta tra i più alti d'Italia (1.076 euro pro capite per l'erogazione di servizi pubblici, in particolare sul fronte sociale che vale il 20% di quella complessiva) e nell'ultimo quinquennio la spesa sanitaria è aumentata di circa il 2% (-0,4% la media italiana), dal punto di vista produttivo l'Isola perde ricchezza rispetto al 2007 (-2,7% del valore aggiunto pari a 27,2 miliardi di euro e +0,5% rispetto al 2011) a causa della crisi industriale. Pure la dotazione infrastrutturale è scarsa. Fatta 100 la media italiana, la Sardegna registra un valore di 86 per le infrastrutture portuali, 47 per quelle stradali, 37 per quelle bancarie e 17 per le ferroviarie. Infine, occorre fare ancora parecchia strada sul campo della ricerca e dell'innovazione: in questi settori è troppo bassa la spesa pubblica rispetto al Pil: dallo 0,05% del 2007 allo 0,12% del 2012, mentre quella privata è quasi pari allo zero (0,06%). LE PROSPETTIVE Riguardo alle prospettive per la seconda metà del 2013 e per il 2014, la ripresa economica in Sardegna appare «insignificante e quindi si prevede un altro periodo di stagnazione». Lanfranco Olivieri _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 02 Giu. ’13 «ISOLA ALLO SFASCIO, POLITICA CONTUMACE» Dure accuse del consigliere di Bankitalia Franco Argiolas: «Fondi persi e burocrazia ci stanno affossando» di Giacomo Mameli wROMA Se è vero che l'Italia, negli ultimi sei anni, ha perso oltre sette punti della sua ricchezza globale, la Sardegna, nello stesso periodo, «ha superato abbondantemente l'11 per cento». E la sua economia sembra "un bollettino di guerra", dice Franco Argiolas parlando subito dopo la lettura delle Considerazioni finali da parte del Governatore della Banca d'Italia. In una saletta attigua ai grandi saloni di Palazzo Koch, Argiolas, 66 anni, leader col fratello gemello Pepetto della più innovativa cantina della Sardegna, è da sempre uomo di poche parole, le usa pesandole. Con altri tredici saggi fa parte del Consiglio superiore del nostro istituto di emissione. Anche venerdì mattina era seduto sotto il Governatore a sentire le venti pagine che hanno fotografato il collasso del sistema Italia: «Ma la Sardegna è messa peggio. Perché si sommano tutte le inefficienze del sistema-Italia. Le debolezze strutturali nazionali da noi sono triplicate: con una scuola più lenta nel recepire le innovazioni, con tassi di istruzione molto più bassi che nel resto del Paese, con una sistema di trasporti peggiorato nell'ultimo triennio in modo vertiginoso e, soprattutto, col peso di una burocrazia inefficiente». Sembrano accuse firmate dal miglior qualunquista. «È qualunquismo constatare che una raccomandata, solo per passare dall'ufficio protocollo alla stanza che se ne dovrà occupare per competenza, impiega due settimane? È qualunquismo dire che sono necessari undici mesi prima che la richiesta di un'impresa alla Regione abbia una qualunque risposta? Il peso della burocrazia inefficiente è soffocante. Gli impiegati sono canne al vento, si muovono in ordine sparso, senza coordinamento. Per non dire dell'assenza totale della politica». Come nota questo sfacelo? «Dai dati di fatto. Qualche giorno fa un imprenditore del settore edile che fa capo alla Confindustria nuorese ha dimostrato che le nostre imprese attendono dalla Regione 360 milioni per lavori già eseguiti al 31 dicembre dello scorso anno. Mi chiedo se, davanti a questo stallo, c'è una guida politica. Occorre essere Solone per capire che quelle imprese hanno pagato lavoratori e materiali e non possono sopravvivere e porteranno i libri in tribunale? Ho sentito il leader del settore turismo in Sardegna dire che prima dell'estate verrà dichiarato lo stato di crisi. È la logica conclusione dell'assenza di politiche nei trasporti: perché uno deve venire in vacanze in Sardegna se col solo biglietto di un traghetto può trascorrere una settimana in Croazia o Tunisia?». Pessimismo a oltranza, quindi. «La mia scuola di vita è quella del lavoro della terra che non tradisce mai. Qui il tradimento viene da una struttura industriale che è evaporata e in questi anni non è stata rimpiazzata da alcunché. Carbonia e Portovesme, Porto Torres e Ottana, Macchiareddu e Tossilo sono cimiteri industriali. Che si è fatto per correre ai ripari? Dico nulla perché non esiste uno straccio di programma, in alcuno dei settori innovativi. Ecco perché ripeto che la politica sarda è contumace. Vogliamo parlare dei fondi europei?» A lei la parola. «Qualche settimana fa è stato il direttore regionale del Centro di programmazione, Gianluca Cadeddu, a dire in pubblico che la Sardegna non spende 730 milioni concessi dall'Unione europea. Ha aggiunto che sono stati persi 110 milioni per i soli finanziamenti destinati all'agricoltura. Io non sono un politico ma un imprenditore. Mi chiedo come si fa - con una disoccupazione così devastante - a concepire bloccate, pressoché perse, somme di tanto rilievo. Ecco perché sostengo che non c'è guida politica. Ecco perché sottolineo che la situazione sarda è più grave assai di quella nazionale. Mi sembra - per stare alle tragiche cronache meteorologiche di Oltreatlantico - di vivere in mezzo a un tornado, di essere sommersi, travolti una volta dalla burocrazia, un'altra dal peso delle imposte. Senza una via d'uscita. Che, lontano da noi, è stata indicata». A chi si riferisce? «L'America di Obama e anche il Giappone hanno capito che senza immissione di nuovi capitali, l'economia reale non decolla e non si crea lavoro. Obama ha rifinanziato l'industria dell'auto ma anche quella innovativa legata all'Ict. Idem il Giappone. Lo sta facendo anche l'India. Il distretto industriale di Bangalore è tra i primi al mondo. Vogliamo domandarci che cosa avviene da noi? Il vuoto assoluto. La sommatoria a somma zero di tutte le nostre inefficienze». Ci sono i vincoli europei. «Non può dettar legge solo Angela Merkel che deve all'Europa il vero boom tedesco del dopo riunificazione. Il fisco da noi pesa al 47,6 per cento, nell'eurozona il 30,8. Ecco perché occorre una politica reale non strategie finanziarie. Il nostro è sempre più un capitalismo, un'impresa senza capitali. Perderanno il capitale anche le poche aziende che ancora si reggono sul mercato. Quando piove, piove per tutti. E tutti ci bagneremo. Visco ha chiesto efficienza e politica. Vale anche per la Sardegna». _____________________________________________________________ Repubblica 1 Giu. ’13 SE PERFINO L'UNIVERSITÀ ORA È MADE IN CHINA dal nostro corrispondente GIAMPAOLO VISETTI PECHINO Pechino ora esporta anche l'istruzione apre a Londra l'ateneo "made in China" DAL ristorantino all'università. Dal barbiere low cost al manager della multinazionale. La Cina cambia volto ed esporta nel mondo an che l'istruzione del futuro. Lo sbarco in Europa non è di basso profilo: un ateneo nel centro di Londra, cuore della conoscenza nel vecchio continente, a due passi da0xford e da Cambridge. AD APRIRE il campus, stile anglosassone e ad asiatici, l'università dello Zhejiang, tra le cinque migliori nella seconda economia del pianeta. Accordo fatto con il glorioso Imperial College, che da lunedì metterà a disposizione le proprie aule agli insegnanti reclutati dal ministero dell'Istruzione di Pechino. Cattedre a contratto e stipendi più ricchi rispetto alla media degli atenei inglesi: gli studenti potranno trovare docenti cinesi, ma pure di altre nazioni del mondo. La grande novità sono i programmi: rigorosamente cinesi, con la garanzia di una laurea a prova di Oriente, l'area più concorrenziale, ricca e in crescita del secolo. Tra gli obbiettivi, attività accademiche congiunte, ossia l' integrazione totale dei corsi dell'Imperial College e dell'Università dello Zhejiang, gioiello della regione più industrializzata della Cina Studenti e professori potranno muoversi tra Londra e Hangzhou, oppure seguire a distanza le stesse lezioni, come in un'unica classe, sia in inglese che in mandarino. È il passo successivo all'improvvisamente invecchiato "Erasmus", la nuova istruzione ai tempi della globalizzazione. E a nessuno sfugge che Pechino sia già oltre gli Istituti Confucio, 1780 inaugurazioni in pochi anni e in ogni continente, primo strumento per la costruzione del nuovo softpower "made in China". Aprire università in Europa, negli Usa e presto in Africa, investendo una montagna di yuan per formare giovani stranieri, è la missione più delicata dell' " espansione culturale" varata dai leader comunisti. Ambizione: cambiare l'immagine della Cina all'estero, elevarla al ruolo di nuova superpotenza, trasmettendo direttamente la conoscenza alle classi dirigenti dei prossimi decenni. Per «conquistare i cervelli», rendendoli compatibili coni nuovi assetti globali, Pechino annuncia che non baderà a spese: dopo campus e università, si appresta ad esportare anche istituti di ricerca, lab oratori e centri sperimentali a disposizione delle aziende hi-tech. _ Si apre così, tra Oriente e Occidente, l'era della concorrenza all'ultimo studente, alluminare più internazionale e al diploma sino- anglosassone senza più confini. La Cina, conquistato il primato mondiale per numero di neo-laureati, promette infatti di mandare in pensione anche il "modello Silicon Valley", simbolo del progresso nell'era americana: meno finanziamenti ai concentrati nazionali di menti esiliate nei deserti e risorse illimitate a strutture in rete, sparse in ogni angolo del globo, purché con il marchio chiaro del Dragone. «Vogliamo abbattere i muri che ancora dividono la conoscenza — ha detto Zhang Xiuqin, capo della cooperazione internazionale del ministero dell'Istruzione — : per insegnanti e studenti si aprono opportunità senza precedenti». Il campus a Londra non è che la prima tappa. Nel 2012 i giovani stranieri che hanno beneficiato di una borsa di studio cinese sono stati 23 mila Entro cinque anni Pechino ne metterà a disposizione 200 mila, importando cervelli in Cina, oppure inviandoli negli atenei che si appresta a distribuire nei luoghi-chiave del pianeta: a New York, dove già opera la Shanghai University, ma pure a San Francisco, Parigi, Berlino, Sydney, Johannesburg, San Paolo, Città del Messico, Mosca, in tutta l'Asia e anche a Firenze, dove sta per sbarcare il campus della Tongji University di Shanghai. Dal Libretto Rosso di Mao ai manuali di scienza dei materiali: la Cina archivia i dogmi di massa e lancia la sfida per la leadership del progresso 2.0. Solo la meta non cambia: ritornare l'Impero di Mezzo, anche nel tempo del web da indossare. _____________________________________________________________ Italia Oggi 28 Mag. ’13 USA, STUDENTI IPERINDEBITATI La causa principale sono i costi divenuti incontrollabili DI ETTORE BIANCHI Indebitati fino al collo. È il triste identikit degli studenti universitari americani, il cui debito ha ormai raggiunto la soglia dei mille miliardi di dollari (773 mld euro). Una cifra che rappresenta ormai un quinto del totale del debito immobiliare rispetto al 10% di un decennio fa. Una famiglia su cinque ha dovuto ricorrere a prestiti per finanziare l'educazione superiore dei figli. La situazione è talmente delicata che anche la filantropia rischia di uscire dai binari. È quanto sta accadendo alla Cooper Union, un istituto universitario di New York che ha sfornato generazioni di ingegneri di prim'ordine e che, grazie alla volontà del fondatore, un industriale figlio di operai che lo creò a metà dell'800, era pressoché gratuito. Il costo annuale della retta ammontava nel 2012 a 38.550 dollari (29.793 euro), ma a ciascun studente era offerta una borsa di studio dell'importo equivalente, a fronte di condizioni d'ingresso molto selettive. D'ora in avanti, però, non sarà più così: si concorrerà in media al 50% delle spese, mente un quinto degli iscritti continuerà a beneficiare della gratuità. Si tratta pur sempre di rette vantaggiose, visto che, per rimanere alla Grande Mela, la New York University costa 40.878 dollari (31.592 euro) e la Columbia ben 45.028 dollari (34.800 euro). Cifre da capogiro. E così, riassume Peter Buckley, docente di storia alla Cooper Union, anche gli studenti dell'ateneo finora gratuito dovranno chiedere soldi in prestito per pagare le rette: una tragedia che riflette lo stato generale dell'educazione superiore americana, con i costi ormai fuori controllo. Le rette hanno subìto una brusca impennata, con un +7,45% medio annuo a partire dal 1980, quando tuttavia il tasso di inflazione era sotto il 4%. Il risultato è che, nel momento in cui un ex studente entra nel mondo del lavoro, si ritrova già oberato dai debiti, spesso pari a decine di migliaia dì dollari. L'impatto psicologico, secondo gli addetti ai lavori, non è indifferente per un giovane. Se bisogna far fronte a questo passivo, è impensabile che si pensi pure all'acquisto di una casa o a metter su famiglia. Le conseguenze sono soprattutto di ordine sociale. Nella maggior parte dei casi gli studenti indebitati possiedono soltanto un diploma di primo livello, perché l'accesso ai master successivi dipende spesso dalle borse. Negli Usa, per consuetudine, chi entra nel mondo del lavoro e vuole raggiungere il livello più alto, viene finanziato in tutto o in parte dalla stessa azienda in cui lavora, anch'essa interessata a disporre di competenze maggiori. Ma ora, a causa della crisi, al termine degli studi universitari i laureati si ritrovano appesantiti dal debito e privi di un impiego. La politica si sta interessando alla questione. La senatrice Elizabeth Warren propone che il tasso di prestito agli studenti equivalga al tasso di sconto al quale le banche americane ricevono denaro dalla Federal Reserve, l'istituto centrale. Esso ammonta allo 0,75% rispetto al 3,4%- 6,8% applicato agli studenti. Inoltre il presidente Barack Obama ha chiesto al Congresso di adottare un piano decennale di rimborso agevolato: gli ex studenti restituirebbero non più del 10% del loro reddito netto per una durata fino a vent'anni, mentre la quota restante verrebbe annullata. In questo modo i rimborsi mensili si ridurrebbero di una quota compresa tra il 40 e il 90% e ci sarebbe più spazio, almeno sulla carta, per rilanciare i consumi _____________________________________________________________ Unità 31 Mag. ’13 IL GENIO DI ZHANG YITANG DAL FAST FOOD ALLA GLORIA SCIENTIFICA Matematico impiegato in catena di Hamburger, è riuscito a dimostrare un enigma numeri primi MICHELE EMMER UNO DEI GRANDI MITI IN MATEMATICA È CHE POSSA CAPITARE, ANCHE SE MOLTO RARAMENTE, CHE UNO SCONOSCIUTO MATEMATICO, DA CUI NESSUNO SI ASPETTAVA UN GRANDE RISULTATO, improvvisamente arrivi sulla scena mondiale della ricerca avanzata con la dimostrazione di un teorema molto importante. È anche molto raro che i giornali si occupino di risultati della ricerca matematica. In generale sono problemi che riguardano i numeri interi perché chiunque nella vita, magari anche odiando la matematica, ha avuto a che fare con i numeri interi, 1,2,3,4... E così alcuni problemi della teoria dei numeri possono essere scritti e compresi anche su un giornale. Un caso tipico fu nel 1994 la dimostrazione dell'Ultimo Teorema di Fermat. Problema semplicissimo da enunciare, si tratta del teorema di Pitagora, in cui si sostituisce il quadrato che compare nell'enunciato del teorema (il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti) con un'altra potenza, il cubo o via via una qualsiasi altra potenza. Fermat era convinto che il teorema di Pitagora valesse solo per l'elevazione al quadrato. Ci vorranno secoli per dimostrare che Fermat aveva ragione. Lo farà Andrew Wiles dell'università di Princeton nel 1994. Tutti i giornali del mondo ne parlarono, fu realizzato un film da Simon Singh per la Bbc, poi il libro di Singh, milioni di copie vendute nel mondo. Dimostrazione molto complessa, incomprensibile alla maggioranza dei matematici, ma facilissimo da enunciare il problema. Inoltre c'era il fatto molto giornalistico che Fermat era convinto di conoscere la dimostrazione ma non aveva spazio sul foglio per scriverla. Oggi si è convinti che Fermat non avrebbe saputo dimostrare il teorema che porta il suo nome. In questi giorni alla ribalta un altro risultato che riguarda i numeri interi, in particolare i primi, cioè i numeri divisibili solo per se stessi e il numero 1. Si chiamano numeri interi gemelli quelli che hanno il successivo numero dispari che è ancora primo. Ovviamente non i pari che sono tutti divisibili per 2. Esempi 5 e 7,11 e 13 e così via. Insomma un numero primo gemello differisce da un altro numero primo di 2. La congettura, quello che si ipotizza, è che anche se i numeri primi man mano che i numeri diventano più grandi si diradano sempre di più, continuino ad apparire primi gemelli. Euclide dimostrò duemila anni fa che i numeri primi sono infiniti, ma nessuno sino ad oggi è riuscito a trovare una formula per generarli tutti. Ed ogni tanto sui giornali compare la notizia che è stato trovato il più grande numero primo. Siamo oramai a 17 milioni di cifre, è stato individuato lo scorso febbraio. La congettura dei numeri primi gemelli fu formulata in forma attenuata nel 1849 da de Polignac e consentiva che la differenza tra i due primi non fosse esattamente 2 ma anche un numero maggiore. Ed ecco che nella storia irrompe un matematico cinese praticamente sconosciuto. Non ha mai ottenuto nella sua vita risultati di grande interesse, ha pubblicato pochissimo, ha un posto di lecturer, di docente non di ruolo in una università non prestigiosa negli Usa, nel New Hampshire. Si chiama Zhang Yitang ed ha annunciato il 17 aprile di aver dimostrato la congettura dei numeri primi gemelli con differenza tra loro al massimo un numero N, che ha specificato in 70 milioni, un numero grande che pensa di poter ridurre ed arrivare sino addirittura a 2. Ha scritto un articolo che è stato accettato per la pubblicazione da una delle riviste più importanti di matematica: gli Annals of Mathematics dell'Università e dell'Institute of Advanced Study di Princeton. L'istituto dove lavora da molti anni Enrico Bombieri, l'unico matematico italiano che ha vinto la medaglia Fields, il Nobel della matematica, per i risultati ottenuti in teoria dei numeri. E Zhang ha utilizzato risultati di altri matematici, tra cui Bombieri. Ha raccontato in un' intervista al The New York Times che aveva provato per molti anni a dimostrare la congettura dei primi gemelli ma aveva sempre fallito. Fino a quando lo scorso luglio «improvvisamente ho avuto un'idea. Ero sicuro che avrebbe funzionato». LA PUBBLICAZIONE Zhang, dopo una oscura carriere di matematico, lavorando per alcuni anni anche alla catena di ristoranti fast food Subway Sandwich Shop famosi per vendere il sub- marine sandwich, pane italiano, riempito con carne, formaggio, verdure e salse, in modo del tutto autonomo e solitario, invia i suoi risultati alla prestigiosa rivista e il lavoro dopo attenta verifica da parte degli specialisti verrà tra qualche mese pubblicato. I risultati sono ritenuti validi. Peter Sarnak, professore all'Institute of Advanced Study, ha affermato che si tratta di un risultato molto profondo. Sembrerebbe un risultato poco interessante, in realtà apre la strada ad avvicinarsi alla vera congettura dei numeri primi gemelli, ad affermare che sono infiniti, e quindi riuscire forse a provare il teorema fondamentale di come ottenere tutti i numeri primi. Questioni non solo per matematici ma che riguardano la vita di tutti. I codici di sicurezza, segreti e criptati, così importanti nel mondo del web, utilizzano la teoria dei numeri e i numeri primi. L'oscuro matematico cinese è destinato ad un brillante futuro, chi ha letto l'articolo ha affermato che alle conoscenze dei grandi matematici che lo hanno preceduto nello studio del problema probabilmente Zhang ha aggiunto una certa dote di freschezza ed ingenuità che aveva impedito a tanti matematici più famosi di lui di arrivare a questo primo risultato. Insomma viva i fast food! _____________________________________________________________ Repubblica 28 Mag. ’13 INFORMATICI, VENITE A STUDIARE QUI IN SVIZZERA Ora la Svizzera apre allo straniero L'università: 36 mila posti da noi, 700 mila in Europa DAI NOSTRI INVIATI PAOLO BERIZZI LUCIA TIRONI LUGANO — Se 7 mila franchi svizzeri (5.600 euro al mese) possono bastare, se sul comodino avete la biografia di Steve Jobs e volete vivere più o meno felici smanettando sulla tastiera, non perdete neanche un minuto: preparate la valigia, e andate in Svizzera. Contrordine dal Can- ton Ticino: non è vero che in Europa non c'è lavoro. Non per i draghi del computer. AAA cercasi 700 mila informatici. L'invito all'occupazione arriva dall'Università della Svizzera italiana (sedi a Lugano e Mendrisio) . «Per un futuro assicurato, studia informatica», è scritto sugli annunci pubblicati su quotidiani e periodici italiani. Di questi tempi 700 mila posti di lavoro quasi assicurati (36 mila in Svizzera, gli altri 664 mila spalmati in tutta Europa) sono una notizia: a prescindere. Se poi a offrirli è la stessa Confederazione cantonale che, da una parte seleziona all'estero i professionisti di domani, e dall'altra fa la guerra ai lavoratori che vengono da fuori - italiani ma non solo -, rei di «lasciare gli svizzeri in mutande», allora la notizia è doppia. E' il paradosso perfetto. E' la contraddizione di un Paese che si avvia verso l'addio al segreto bancario e che, per quanto riguarda l'occupazione, gioca talmente in chiaro da danzare su un disequilibrio perfetto. «Qui per gli informatici è facile trovare lavoro - dice Mauro Pezze', preside della facoltà di Scienze informatiche - Il settore informatico è il quinto più importante dell'economia svizzera. E informatica non vuol dire solo Google o Microsoft. Ci sono tante altre aziende». Non solo orologi a cucù e cioccolata, insomma. La proposta dell'Università svizzera si basa su uno studio della Commissione Ue: nel 2015 in tutta Europa ci saranno 700 mila posti vacanti nel settore dell'Information and Communication Technology; 36 mila nella sola Svizzera, da dove infatti parte la "campagna acquisti". Nel Paese degli ex emigranti spazzacamino l'occupazione giovanile non si allontana da un mirabolante 3% (danoi è al 38%). Egli stipendi sono imparagonabili. E arrivano in fretta. Dice Remo Lemma, 24 anni, neolaureato: «Trovare lavoro? Ci ho messo 3-4 mesi. Sono appena stato assunto da una banca di Zurigo. Guadagnerò sopra gli 80 mila franchi». Niente male. Se pensi che nella busta paga di Lemma finiranno ogni mese quasi 7 mila franchi svizzeri - 5 mila e 600 euro al cambio attuale -, e se aggiungi che 38 giovani italiani su 100 sono senza lavoro, ti chiedi se davvero è qui l'officina che asciuga la disoccupazione europea. Quasi 3mila iscritti, insegnamento informatico in lingua inglese, dalle aule di Lugano e Mendrisio escono e usciranno, promettono i formatori, professionisti a reddito sicuro. Gente che, stipendio alla mano, ribalterà il luogo comune che vuole l'informatico lavoratore grigio e frustrato. «E' un'immagine sbagliata - ragiona ancora il preside Mauro Pezze' - Invece oggi l'informatico è la figura professionale che ha più possibilità di trovare lavoro». Ci sono storie esemplari. Storie di italiani che con il software si sono fatti largo in Canton Ticino. Come Sebastiano Cobianco, imprenditore bolognese, in Svizzera nel 2005. Laurea in Fisica, clienti come Assicurazioni Generali, Volare Gratis, Poste Svizzere. «Qui c'è un'economia sana e una burocrazia leggera. Si può costruire impresa in un pomeriggio. Ho 25 dipendenti e cerchiamo continuamente nuovi talenti. Ogni due mesi ne assumo uno». Analisti e programmatori avranno anche avuto uno scarso appeal, in questi anni, mala musica è cambiata. I dati che fotografano il settore - una ricerca di "eSkills" in Europa dice che solo il 18% dei laureati ha scelto Scienze informatiche - sono destinati a mutare se è vero che il Vecchio Continente, da qui a tre anni, avrà bisogno di 700 mila "cervelloni". Il punto, semmai, è un altro. Perché proprio la Svizzera cerca lavoratori (anche e soprattutto) stranieri per le proprie aziende? La Confederazione che offre un'opportunità a 36 mila informatici forestieri è lo stesso Paese allergico agli stranieri usurpatori di posti di lavoro. L'ultima conferma è arrivata dalle elezioni amministrative a Lugano: con una vittoria schiacciante (35,5% , +8% rispetto al 2008) la Lega dei Ticinesi - il movimento ultra svizzero e anti italiano - ha fatto capire l'aria che tira. Italiani? no grazie. Anzi: a casa. «O mettiamo un freno alla manodopera straniera o la crisi italiana ci contagerà», dice Lorenzo Quadri, giovane deputato leghi- sta a Berna. Il problema numero uno, per gli arci-svizzeri, è il dumping salariale provocato dagli italiani che accettano stipendi inferiori rispetto a quelli corrisposti agli svizzeri. Sul banco degli imputati sono soprattutto i frontalieri, i quasi 60 mila addetti (il 25% della manodopera nazionale) che ogni mattina arrivano in Canton Ticino dalla Lombardia e rientrano la sera. Erosione dei salari o convenienza reciproca (lavoratori italiani e economia elvetica)? La verità sta nel mezzo, o forse sotto la sabbia. E qualcuno, anzi molti, ci marciano. Sta di fatto che se la Lega Ticinese è il primo partito e se negli ultimi due anni le campagne contro gli italiani hanno raggiunto livelli di razzismo strisciante _____________________________________________________________ Gazzetta del Mezzogiorno 31 Mag. ’13 QUANTO STUDIERANNO I NOSTRI FIGLI? LA RIPOSTA IN PARTE POTRÀ VENIRE DAL DNA GENETICA, UN INNOVATIVO PROGETTO DI RICERCA CUI CONTRIBUISCONO SCIENZIATI ITALIANI o Quanto studierà tuo figlio? Conseguirà il diploma? Quanti anni di studio potrà sfoggiare sul curriculum? Un giorno la risposta a tutte queste domande potrebbe arrivare da un test del Dna. Infatti un progetto di ricerca basato sullo studio del Dna di un vasto campione di persone ha portato ad individuare alcune varianti genetiche, in un certo senso delle mutazioni, che sono legate agli anni di studio di una persona e al conseguimento del diploma di laurea. Pubblicato sulla rivista «Science», lo studio è stato condotto da un consorzio mondiale di ricercatori afferenti a diverse università in Usa, Europa, Australia. Tra gli autori del lavoro anche l'italiano Antonio Terracciano del National Institute on Aging deli National Institutes of Health di Baltimora e David Cesarini della New York University che spiega: non sono stati scoperti i geni dell'istruzione che non è certo una caratteristica individuale determinata geneticamente e che dipende ovviamente da molti fattori complessi e intrecciati tra loro e non è riconducibile all'intervento di un gene. Ciò nonostante gli esperti hanno arruolato un campione di individui senza precedenti, oltre 125 mila, e analizzato a tappeto il loro Dna incrociando le informazioni genetiche raccolte con quelle sul livello di istruzione (annidi studio e conseguimento del diploma di laurea) del campione. In particolare gli esperti hanno analizzato i cosiddetti «polimorfismi di singolo nucleotide», piccolissimi cambiamenti del Dna che diversificano i geni da individuo a individuo. Questi piccoli cambiamenti possono significare tantissimo nel funzionamento di un gene e molti già noti sono infatti collegati a varie malattie. Gli esperti hanno in particolare trovato tre di queste «mutazioni», una associata al numero di anni di studio di una persona, le altre due al conseguimento del diploma di laurea. Ma il peso di queste mutazioni sull'istruzione di un individuo è in realtà piccolo: ad esempio se un individuo ha due copie della mutazione legata agli anni di studio studierà mediamente due mesi in più rispetto a uno che non ne ha nemmeno una. Questo dà la misura del fatto che siamo ben lontani dal trovare improbabili geni dell'istruzione che dicano se una persona sarà o meno studiosa e quali successi otterrà. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 02 Giu. ’13 SIAMO TUTTI CUGINI (GUARDATE IL DNA) di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI Nuovi studi sulle distanze genetiche tra europei hanno ricostruito l'albero degli antenati comuni. Noi italiani? Due progenitori condivisi con gli altri Paesi in 1.500 anni O rmai è un luogo comune che l'umanità viva in un mondo piccolo. Varie sono le misure per confermarlo. Il lettore, la lettrice immagini di voler far recapitare a mano una busta, che verrà quindi passata di mano in mano, fino a un remoto destinatario, per esempio un certo fornaio a Singapore o una lavandaia a Manila. In un'epoca di posta elettronica, cellulari, Internet e Facebook sembrerà strano immaginare una simile procedura, ma facciamolo. Ebbene, per quante mani dovrà passare? La risposta è: cinque. Infatti, la celebre formula «sei gradi di separazione» suggerita alla fine degli anni Venti del Novecento dallo scrittore ungherese Frygies Karinthy, poi ripresa nel 1967 dallo psicologo americano Stanley Milgram, è stata sostanzialmente confermata dieci anni fa, alla Columbia University, attraverso i calcoli di una rete di inoltri di messaggi di posta elettronica in 13 nazioni sparse per il mondo. Un'assai diversa connessione, genomica questa volta, tra due persone prese a caso in Europa è stata adesso calcolata da Peter Ralph e Graham Coop, evoluzionisti e studiosi di genetica delle popolazioni dell'Università della California a Davis. L'ultimo numero di «Plos Biology» riporta le distanze genetiche tra 2.257 europei e, quel che più conta, il numero di geni che ciascuno di questi condivide, sequenzialmente nel tempo, con i propri antenati di 3.500, 1.500, 1.000 e infine 500 anni fa. Partendo da circa due milioni di sequenze genomiche lunghe, questi autori hanno esaminato come esse si accorcino a mano a mano che aumenta la distanza geografica tra i loro soggetti. Molteplici processi naturali a carico del genoma — come ricombinazioni, delezioni, inserzioni e simili — hanno silenziosamente operato nel corso delle generazioni. La parte del genoma che resta immutata, riscontrata in individui diversi, viene considerata buon indicatore di una discendenza comune. L'idea che tutti siano lontani cugini di tutti viene, in sostanza, corroborata. Più prossimi di tutti tra di loro sono gli albanesi, con 90 antenati comuni negli ultimi cinque secoli, ma ben 600 in circa 1.500 anni. Minore, ma pur sempre dell'ordine delle centinaia, è il numero di antenati genetici comuni a due individui presi a caso in Europa. Però gli italiani fanno banda a parte, come pure gli spagnoli e i portoghesi. Appena due antenati genetici in comune in 1.500 anni con il resto d'Europa. È in progetto di allargare questa storia genetica oltre i confini d'Europa, aspettandosi di scoprire un più ristretto numero di antenati comuni su scala mondiale. Qui va ben sottolineato che la storia delle popolazioni ricostruita attraverso la genetica ha radici lunghe e insigni in Italia, soprattutto grazie alla scuola di Pavia, iniziata da Luca Cavalli Sforza, con Paolo Menozzi e Alberto Piazza, autori di varie celebri monografie con circolazione internazionale. Sulla scia dei loro lavori pionieristici, grazie alle attuali tecnologie di sequenziazione genetica che oggi consentono di aumentare la precisione, abbassando costi e tempo, e l'ausilio di possenti mezzi di calcolo, Ralph e Coop offrono alcune ulteriori sorprese. Per esempio, che il numero di antenati comuni recenti tra Regno Unito e Irlanda è superiore a quello all'interno del Regno Unito, tra regioni non prossime. A dispetto di una recente storia sanguinosa, i tedeschi hanno più antenati recenti comuni con i polacchi che non tra di loro. Il numero degli antenati genetici comuni entro l'Europa del Nord e dell'Est è triplo rispetto a quello medio. Il che ben si allinea con le migrazioni degli unni e degli slavi, che non toccarono in uguale misura Francia, Italia e Spagna. Si noti, però, che la tecnica adottata in questa ricerca fornisce una sorta di conteggio minimo, perché nessun individuo porta in sé geni trasmessi da ogni singolo antenato. Infatti, il termine (devo dire non molto felice) «antenato genetico comune» lascia aperta la porta a un ulteriore, forse superiore, numero di antenati comuni, chiamati invece antenati genealogici, cioè quelli che hanno individualmente contribuito a una parte solamente dei geni attuali nei discendenti. L'articolo di «Plos Biology» è corredato da grafici, tabelle e mappe genetiche d'Europa. La conclusione è che, a dispetto di distanze geografiche a volte notevoli, la condivisione di antenati genetici è notevole. La media, su mille anni e oltre 2 mila chilometri di distanza, è un antenato genetico comune ogni 32 persone. Sulla stessa distanza, se risaliamo indietro tra i 2 mila e i 3 mila anni il numero sale a dieci. Allargando lo spettro ad antenati genealogici, nozione più vasta, come abbiamo appena visto, che non quella di antenati genetici comuni, il numero cresce fino a qualche migliaio, anche per individui oggi geograficamente molto separati. Facendo notare che mille anni sono circa 33 generazioni, Ralph e Coop confutano l'idea che questo sia paradossale. Dato che vi sono state molte migrazioni, seguite da matrimoni misti, e dato che si facevano molti figli, tali numeri sono ben spiegabili. Naturalmente, il grado di parentela è assai variabile da regione a regione. Uno spagnolo può essere geneticamente connesso a un antenato iberico per mille cammini diversi, ma solo per dieci cammini a un antenato baltico. La probabilità di aver ereditato geni nel secondo caso è, quindi, cento volte inferiore. Uno stesso gruppo di antenati può aver trasmesso un numero variabile di geni a due individui odierni. Le molteplici cause di incertezza nei calcoli sono, comunque, ben descritte e le equazioni rese esplicite. La conclusione, ammessa come contro- intuitiva, è che gli europei sono genealogicamente tra loro più apparentati di quanto si supponesse e che tale comunanza probabilmente si estende, seppur in misura minore, a tutti gli esseri umani. _____________________________________________________________ Le Scienze 29 Mag. ’13 PIANTE CHE RIVIVONO DOPO 400 ANNI SOTTO I GHIACCI Il ritiro dei ghiacciai nell'arcipelago artico canadese ha portato allo scoperto intere comunità vegetali che vi erano rimaste intrappolate durante la cosiddetta Piccola età glaciale, tra metà del XVI secolo e metà del XIX. Malgrado l'aspetto rinsecchito, ben il 30 per cento di queste piante si è rivelata in grado di tornare a germogliare (red) Il rapido ritiro dei ghiacciai nelle regioni artiche sta esponendo comunità vegetali intatte che hanno la capacità di tornare a nuova vita. La scoperta è di un gruppo di ricercatori dell'Università dell'Alberta a Edmonton, in Canada, che firmano un articolo sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”. In seguito al riscaldamento globale, a partire dal 2004 sull'isola di Ellesmere, nell'arcipelago artico canadese, sono tornate alla luce ampie aree che erano rimaste sepolte sotto una coltre di ghiacci fin dall'inizio della cosiddetta Piccola età glaciale, il periodo dal 1550 al 1850 durante il quale l'emisfero settentrionale è andato incontro a un brusco abbassamento delle temperature. Catherine La Farge e colleghi hanno scoperto che in queste aree appena liberate dai ghiacci sono presenti numerose comunità vegetali che, pur apparendo scolorite e annerite, sono ancora vitali. Dopo aver redatto un inventario delle piante, appartenenti a ben 60 specie di briofite (il gruppo di vegetali che comprende muschi ed epatiche), i ricercatori hanno prelevato svariati campioni per confermare con la datazione al radiocarbonio che si tratta effettivamente di organismi risalenti alla Piccola età glaciale. Successivamente, hanno utilizzato alcuni campioni per esperimenti di crescita in vitro che hanno avuto successo: il 30 per cento circa dei campioni ha infatti dato origine a nuove piante. Lo scorso anno, un gruppo di ricercatori russi era riuscito a far germogliare esemplari di Silene stenophylla - una pianta erbacea della famiglia delle Caryophyllaceae - i cui semi, risalenti a ben 32.000 anni fa, erano stati ritrovati fra i 20 e i 40 metri di profondità nel permafrost siberiano Per ottenere questo risultato, però, i ricercatori russi avevano dovuto estrarre il tessuto placentare dai semi, clonarlo e quindi coltivarlo in vitro su terreno nutritivo specializzato. Al contrario, la rigenerazione delle piante emerse in Canada è avvenuta dopo la semplice macinatura dei tessuti di steli e foglie, poi seminati in un terreno di tipo commerciale. )La notevole capacità di sopravvivenza di queste piante, osservano i ricercatori, va attribuita da un lato alla capacità naturale delle cellule delle briofite di de-differenziarsi per tornare allo stato di cellule totipotenti e quindi riprogrammarsi, e dall'altro al fatto che sono piante “poichiloidriche”, ossia prive della capacità di controllare il proprio contenuto di acqua. Quindi, in caso di condizioni ambientali avverse, le cellule delle briofite possono seccarsi e arrestare completamente i propri processi metabolici, che riprendono quando - una volta tornate condizioni più favorevoli - le piante tornano a reidratarsi _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 1 Giu. ’13 TESORI DI MONTE CLARO, SUL COLLE LA STORIA DEI SARDI Rinvenute tracce architettoniche che potrebbero appartenere all’era nuragica L’archeologo Nicola Dessì: «Forse un pozzo sacro risalente all’età dei metalli» di Stefano Ambu w CAGLIARI La città dei colli, pieni di tesori archeologici. Per Monte Claro, per fortuna, la strada è in discesa: i pezzi di storia ritrovati nell'area verde tra via Liguria, via dei Valenzani e via Cadello sono già all'interno di un parco pubblico, al riparo da polemiche e battaglie. Lunedì partono gli scavi per capire meglio che cosa si nasconde nel colle. E comunque andrà, sará un successo: il parco, che già aveva preso imboccato il sentiero della cultura, tra biblioteche e pietre di Sciola, si ritroverà in casa una nuova attrazione, anche turistica. Si tratta di tracce architettoniche di etá nuragica. Per ora è solo un' ipotesi, ma i resti individuati nel 2011 dall'archeologo Nicola Dessì, 32 anni, di Perdaxius, potrebbero appartenere ad un edificio della tarda etá dei metalli. Forse un pozzo sacro, del diametro di due metri e mezzo, con pietre lavorate con la tecnica della "martellina". Ad accertarlo ora saranno proprio gli scavi diretti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano e coordinati da Dessì. La natura archeologica della struttura è stata confermata dalla Soprintendenza dopo il sopralluogo effettuato dall'archeologa Donatella Mureddu. Che il capoluogo sardo fosse frequentato in epoca nuragica per gli studiosi era ormai una certezza. Tanto che si parla di "cultura di Monte Claro". Con stratificazioni successive sino all'etá medioevale. Ma ancora non si avevano le testimonianze architettoniche di queste presenze. Gli scavi riguarderanno anche l'area del ritrovamento di alcune anfore di epoca romana emerse a un centinaio di metri dal pozzo ritrovato. I lavori più importanti, però, riguardano la struttura muraria circolare. L'operazione vede insieme Soprintendenza, Provincia di Cagliari e Amici della Terra, associazione che offre un supporto in termini di risorse e volontari. «Tutto qui a Monte Claro – spiega Angela Quaquero, presidente della Provincia – ci racconta che il passaggio dell'uomo è avvenuto per millenni. Il nostro compito sarà quello di valorizzare questi ritrovamenti e di metterli a disposizione. Con una fruizione attenta al rispetto del bene». Tuvixeddu, Bonaria, Sella del Diavolo e ora Monte Claro: agli antenati dei cagliaritani, ma non solo a loro come dimostra la storia di Roma e di tante altre città, piaceva guardare il mondo dall'alto. Un parco di cultura: ora c'è anche il via ufficiale al trasferimento dei libri dalla biblioteca provinciale di Villanova a quella nuova in cima al colle con vista sulla città _____________________________________________________________ Corriere della Sera 01 Giu. ’13 UTILE O SIMBOLICO, ELOGIO DEL REGALO ALLA MAESTRA Farlo da soli o come iniziativa di classe Il dilemma del dono agli insegnanti per ringraziarli o ritrovarli più benevoli Collane, bracciali, orecchini, ciondoli, anelli. Che cosa si regala alla maestra per la fine dell'anno scolastico? Queste le risposte più ricorrenti tra i genitori. Perché dal dono non si scappa, tanto vale rassegnarsi. E nel catalogo accanto ai bijoux, ci sono soprammobili (comprese le gozzaniane «buone cose di pessimo gusto»), piante d'appartamento, libri, album con le foto di classe... Ma pure: orologi, profumi, cornici, teiere, oggetti in oro, foulard firmati, teli da mare, trolley; e, per chi osa, perfino sedute di massaggio (per la maestra) e rasatura alla siciliana (per il maestro). La verità è che non c'è una regola; alcune scuole li vietano, ma poi ogni classe fa a sé. La proposta del cosa regalare è affidata all'estro di mamme e papà, alla fantasia dei rappresentanti di classe. La scelta alimenta animati dibattiti e feroci discussioni, ma è democratica (vince la maggioranza) e legata al budget (da 15 euro in su). «Se stiamo al significato di dono — spiega Adriano Favole, docente di discipline demoetnoantropologiche all'Università di Torino — ciò che più conta è la reciprocità: ti dono qualcosa perché ho ricevuto qualcos'altro. Si crea una relazione. Non è un gesto di carità o di altruismo e neppure uno scambio, la transazione economica tronca la relazione». Se ad ogni fine anno tocca fare il regalo alla maestra è un dono obbligatorio, in sé un ossimoro, ma chi non partecipa si mette fuori dalla società e dalla relazione. Fin qui parla l'antropologo, ma da padre il dilemma resta: «Anch'io sto raccogliendo i soldi tra i genitori per il regalo alla maestra». Se l'importante è, almeno, che l'oggetto esprima gratitudine, viene da chiedersi che cosa abbia fatto — di bene o di male — una maestra per vedersi regalata una fagioliera. «L'anno scorso — racconta Cristina Petit, maestra, blogger (http://blog.libero.it/maestrapiccola/) e mamma di 3 bambini —, nella classe di mio figlio, ho dovuto cedere: le mamme che ci tenevano a regalare una fagioliera alla maestra. Sono andate all'outlet, hanno fotografato la pentola, fatto girare una mail e tutti hanno approvato». Un pensiero utile? Forse, di sicuro originale. E conta anche quello quando i regali da fare sono tanti: le maestre sono più di una; le occasioni una all'anno (talvolta due, c'è anche Natale) vanno moltiplicate per i tre anni di materna e i cinque anni di elementari. La consuetudine pare, invece, si perda con l'inizio delle medie. Ma a quando risale l'usanza? «Nel primo Regolamento della scuola del 1860 non ce n'è traccia, non era pratica consueta — spiega Umberto Cattabrini, 70 anni, già maestro elementare prestato all'Università, fondatore e direttore del Museo della Scuola di Firenze (www.museodellascuola.it) —, mentre nel Regio decreto del 6 aprile 1913, all'articolo 82, si legge: "È vietato a maestri di ricevere dalle famiglie degli alunni compensi e remunerazioni sotto qualsiasi forma o titolo"». Divieto rinnovato nelle normative del 1928 e del 1946/47; nel Testo unico del 1994, invece, sparisce ogni riferimento. Nell'Italia di campagna degli anni Cinquanta e Sessanta il maestro faceva parte, con il farmacista e il dottore, della triade laica della comunità, godeva di grande rispetto, era normale che ricevesse regali a Natale o a fine anno. Un premio che assumeva una forma genuina. «Uova, verdura, frutta fresca, olio, pane, fiori di campo o pezzi pregiati di carne quando si ammazzava il maiale», ricorda Gisella Donati, classe 1938, che è andata in pensione nel 2008 con il titolo di maestra più anziana d'Italia e che ha raccolto le sue memorie dalla cattedra nel libro «La scuola è bella» (Rizzoli). Dietro il gesto, c'era il riflesso di una differenza sociale: chi più aveva più dava. E dall'altra parte, ricorda Cattabrini, non mancavano le richieste: «Maestre che chiedevano in regalo stufe, lampade, oggetti per la casa». L'ambivalenza del dono — a metà strada tra il ringraziamento per il lavoro svolto e la captatio benevolentiae per gli anni a venire — nel tempo si è attenuata. Oggi prevale il regalo di gruppo, di classe. E viste le carenze della scuola si punta, d'accordo con le maestre, su cose utili: materiali didattici, stampanti, pc, libri, risme di carta, cancelleria. Ma anche su progetti etici, come l'adozione di una classe a distanza di cui negli anni si seguono i progressi. O, complice la crisi, su idee low cost: collanine autoprodotte con le cialde del caffè, marmellate e pasta home made. Ma quali sono i regali più graditi dalle maestre? Risponde Gisella Donati in rappresentanza della categoria: «I biglietti scritti dai bambini. Li custodisco insieme con le foto di classe in una scatola che tengo sul comodino. Ogni tanto ne rileggo qualcuno e mi emoziono». Severino Colombo ========================================================= L’Unione Sarda 29 Mag. ’13 AOUCA: «INTITOLARE IL POLICLINICO A DUILIO CASULA» Il direttore dell'aou filigheddu «La scomparsa di Duilio Casula, rettore emerito dell'Università di Cagliari, è una grande perdita per tutto il mondo accademico e per la sanità sarda». Lo dice il direttore generale dell'Aou di Cagliari Ennio Filigheddu. «In questo giorno di lutto e di dolore per la famiglia a cui siamo vicini - dice ancora il manager dell'Aou - ricordiamo la grande professionalità di un uomo e un professionista, di uno dei padri della medicina del lavoro italiana, di un professore e clinico di fama e lungimirante, che ha dato una svolta alla sanità cagliaritana volendo fortemente la realizzazione del Policlinico di Monserrato. Per questo motivo riteniamo importante dedicare a lui la struttura, proponendone l'intitolazione proprio al professor Duilio Casula». _____________________________________________________________ Sardegna Quotidiano 28 Mag. ’13 ASL DALLE PULIZIE ALL’ANTINCENDIO IL MAXI APPALTO NEGLI OSPEDALI SICUREZZA «Il nostro personale è impegnato»: servizio affidato al consorzio che si occupa della sanificazione. Per un milione e mezzo garantiti il controllo dei cartelli e le corsie sgombre. Il compito, sulla carta, è gravoso, così come la spesa per la Asl: un milione e mezzo di euro, per tre anni scarsi, per la sorveglianza antincendio al Santissima Trinità e all’ospedale Marino. L’incarico è stato affidato con una delibera di gennaio al consorzio Evolve di Firenze che, scartabellando tra le carte di via Pier della Francesca, risulta la stessa società che si occupa della pulizia nei presidi sanitari: un appalto da oltre 28 milioni di euro in tre anni. Quindi: chi pulisce i reparti (un consorzio di facility management) ora deve fare in modo che non prendano fuoco, con una tariffa di oltre 500mila euro l’anno. La delibera della Asl spiega i presupposti dell’affidamento dell’incarico e illustra le attività che dovrà svolgere il personale della ditta esterna. Con ordine, si parte dalla premesse. Il consorzio Evolve, si legge nella deliberazione della Asl numero uno del 10 gennaio, dall’11 novembre del 2012 si è visto prorogare il “servizio di pulizia e attività connesse ” per tre anni (28.334.192,37 euro). L’Asl 8 «intende adottare specifiche misure organizzative finalizzate a garantire un’azione tempestiva tale da evitare che un eventuale principio di incendio possa assumere proporzioni catastrofiche». Così «ha intrapreso alcune iniziative di formazione con particolare riferimento ai corsi antincendio per il proprio personale». Ma, si legge ancora in delibera, «il personale risulta impegnato in attività istituzionali». Quindi l’azienda sanitaria «ha individuato l’opportunità di esternalizzare il servizio di sorveglianza antincendio, chiedendo di individuare le soluzioni più idonee (...) provvedendo alla verifica iniziale dell’evento, la tempestiva segnalazione della gravità del medesimo e attuazione immediata delle procedure previste». Cioè, chiamare i vigili del fuoco e, sembra di capire, organizzare l’eventuale evacuazione di Marino e Santissima Trinità. L’Evo l ve sembra fare al caso della Asl, «in considerazione della diffusa presenza di personale del medesimo all’interno degli ospedali interessati». Il personale è quello che si occupa delle pulizie. Così l’accordo si chiude con facilità: il consorzio fa la sua proposta, la Asl accetta. Totale: oltre un milione e mezzo di euro in tre anni. Gli uomini assunti dal gruppo fiorentino dovranno spegnere incendi? No. L’elenco di attività è contenuto nella stessa delibera. Primo: verifica della giusta collocazione, del l’accessibilità, della manovrabilità e dell’integrità visiva dei principali sistemi antincendio attivi e passivi. Poi: verifica dell’agibilità dei percorsi di emergenza interni ed esterni (cioè: niente barelle o scatole in mezzo ai piedi), verifica della corretta gestione e manutenzione delle attrezzature antincendio e dei sistemi di allarme, verifica del corretto mantenimento della segnaletica di emergenza, aggiornamento costante della documentazione inerente la rappresentazione dei dispositivi presenti nelle strutture, verifica del corretto funzionamento dei dispositivi di compartimentazione. Ossia: il personale di Evolve, che deve garantire una presenza 24 ore su 24, deve controllare che negli ospedali non divampino le fiamme, se succede chiamare il 1 15, e per evitarlo, tra le altre cose, deve controllare che gli estintori siano al loro posto e che le mappe con la classica scritta “vo i siete qui” per l’evacuazione siano chiare e leggibili. Un servizio esternalizzato, in attesa della fine dei corsi di formazione del personale, affidato per tre anni a coloro che si occupavano delle pulizie che hanno fatto una buona offerta. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Mag. ’13 PROFESSIONI SANITARIE: PERDE IL POSTO CHI NON HA I TITOLI Professioni sanitarie. Licenziabile il massofisioterapista che non ha la laurea triennale L'ADEGUAMENTO La mancata frequenza di un corso fa diventare definitiva l'impossibilità temporanea di esercitare la professione Patrizia Maciocchi Il datore di lavoro può licenziare il dipendente che non possiede i titoli per esercitare, previsti da una nuova legge. La massima sanzione può essere però temporanea se il lavoratore corre ai ripari mettendosi in linea con la riforma. La Corte di cassazione, con la sentenza 13239 depositata ieri, avalla il licenziamento di una massofisioterapista, allontanata dalla società di riabilitazione perché non era in possesso del diploma triennale, previsto dalla legge 42 del 1999, che ha riformato le professioni sanitarie. Il tecnico poteva contare invece solo su un corso biennale, che non rispondeva ai requisiti indicati dal Dl 27 luglio 2000 sull'equipollenza dei diplomi per chi fa riabilitazione. La norma, passata all'esame del Consiglio di Stato che ne ha affermato la legittimità, mette il massofisioterapista sullo stesso piano del fisioterapista con diploma universitario, solo se ha in tasca un diploma conquistato dopo aver frequentato un corso di tre anni. Deve essere quindi esclusa la lettura proposta dalla ricorrente secondo la quale, sia per la legge sia per il decreto attuativo, tutti i titoli presi prima dell'entrata in vigore delle norme dovevano avere lo stesso "peso" dei diplomi universitari di nuova istituzione. La corretta interpretazione arriva dalla Cassazione che si collega a quanto affermato dal Consiglio Stato. I giudici amministrativi hanno, infatti, chiarito che per le professioni sanitarie ausiliarie «l'equipollenza può operare in via automatica solo se il relativo diploma è stato conseguito all'esito di un corso già regolamentato a livello nazionale, e cioè solo in presenza di moduli formativi la cui uniformità ed equivalenza fosse già stata riconosciuta nel regime pregresso». Ma i massofisioterapisti non si trovano nella situazione indicata. La legge che ha istituito la professione (403/1971) non ha dettato le norme sul percorso formativo, lasciando che questo fosse disciplinato in modo diverso in tutto il territorio nazionale, mentre i fisioterapisti avevano potuto contare su vie didattiche ben tracciate. Per la Cassazione il decreto legge del 27 luglio 2000 ha giustamente tenuto conto della disparità di formazione, indicando come adeguato a svolgere attività riabilitative solo chi è in possesso di una laurea triennale. Un quadro che porta a escludere il principio, invocato dalla ricorrente, dell'irretroattività di una legge che ha proprio lo scopo di garantire, in un settore delicato come quello sanitario, livelli professionali omogenei, da raggiungere anche attraverso appositi corsi di riqualificazione. La ricorrente non aveva però pensato di tornare "sui banchi", iniziativa che avrebbe potuto salvargli il posto di lavoro rendendo solo temporanea, anziché definitiva come avvenuto, l'impossibilità di svolgere la sua prestazione. La Corte esclude che nel licenziamento abbiano in qualche modo pesato i pregiudizi del datore, neppure per quanto riguarda la procedura del repechage. La società aveva ridotto la sua capacità operativa annuale del 50%, con un conseguente taglio del personale che poteva usufruire dei rimborsi. In un contesto difficile la lavotrice licenziata non aveva fornito alcuna indicazione, neppure di massima, in merito a un'altra mansione a cui poteva essere adibita. La vicenda 01 | L'EQUIVALENZA Il Dl 27 luglio 2000 considera fra i titoli equipollenti al diploma universitario di fisioterapista (Dm 741 del 1992) il diploma di masso fisioterapista solo se conseguito all'esito di un corso triennale 02 | LA RETROATTIVITÀ La Cassazione considera irrilevante il principio di irretroattività della legge 42/1999 sulla riforma delle professioni sanitarie. Lo scopo della normativa esaminata è, spiegano i giudici, quello di regolamentare il passaggio tra ordinamenti, stabilendo criteri per garantire omogenei livelli professionali, anche attraverso appositi corsi di riqualificazione 03 | RIQUALIFICAZIONE La lavoratrice non aveva tentato di mettersi in linea con quanto previsto dalla riforma. La frequenza di un corso triennale avrebbe potuto rendere solo temporanea l'impossibilità di prestare la sua attività _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 1 Giu. ’13 GUARDIE MEDICHE: RIFIUTO DI VISITA PUNIBILE COME OMISSIONE Omissione di atti d'ufficio e lesioni colpose per il medico di guardia che rifiuta la visita domiciliare. La Corte di cassazione (sentenza 23817) punisce la condotta del camice bianco che, nella sua qualità di pubblico ufficiale, durante il turno di guardia deve fare tutti gli interventi richiesti dall'utente o, quando c'è, dalla centrale operativa. Se non lo fa il reato di omissione di atti d'ufficio scatta anche se si verifica che il paziente non era grave. Nel caso esaminato erano state invece sottovalutate le indicazioni date dalla moglie del malato nelle numerose chiamate. In ospedale all'uomo era stata diagnosticata una polmonite. E all'omissione di atti d'ufficio si è unito il reato di lesioni colpose. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 31 Mag. ’13 SUBITO UN WELFARE «INTEGRATO» PER UNA SOCIETÀ CHE INVECCHIA Ageing society. Già oggi in Italia gli over 65 sono il 30% della popolazione IL DIBATTITO Al tema sarà dedicata oggi a Roma una giornata di studi organizzata dall'Accademia dei Lincei insieme a Ocse e ministero dell'Istruzione Claudio Tucci ROMA L'Italia è tra i paesi più vecchi al mondo. Già oggi gli over65 sono il 30% della popolazione e nel 2030 ci saranno tre persone bisognose di cure ogni quattro adulti. È urgente quindi un cambio di mentalità; e nuovi strumenti, multidisciplinari e integrati, per affrontare al meglio la sfida dell'invecchiamento, che interessa praticamente un po' tutti gli aspetti della società, non solo sanitari e della ricerca scientifica. Ma anche (e soprattutto) economici. Nel mondo ci sono 35 milioni di malati di Alzheimer, Demenza, Parkinson (di cui oltre un milione in Italia) che costano mediamente 50mila euro l'anno ciascuno, per un totale di 1.750 miliardi, e si prevede raddoppieranno nei prossimi 20 anni. «In alcuni paesi, come Stati Uniti, Inghilterra e Olanda i rispettivi governi stanno già lavorando per fronteggiare questa emergenza. Da noi bisogna iniziare, e serve farlo presto», sottolinea il presidente dell'Accademia dei Lincei, il neurobiologo, Lamberto Maffei, che oggi aprirà i lavori della giornata di studio dedicata all'«Ageing society», organizzata assieme a ministero dell'Istruzione e Ocse a Roma presso la sede dell'Accademia nazionale dei Lincei. L'obiettivo è arrivare a un sistema di welfare sempre più integrato e innovativo, che aiuti le persone anziane a rimanere attive. Anche perché, secondo le analisi demografiche dell'Ocse, entro il 2050 la popolazione ultra80enne sarà pari a circa il 15% del totale. Non c'è dubbio che la questione dell'Ageing society «richieda particolare attenzione», evidenzia il ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza: «Me ne sono occupata da ricercatore e so che è un tema da innovazione sociale ampio che ha implicazioni scientifiche, tecnologiche e sociali, con possibili ricadute industriali anche a breve termine». La giornata di oggi è un primo passo per «un ampio dibattito sul tema - aggiunge Carrozza - che coinvolga tutta la comunità accademica italiana. Questo sarà utile per rafforzare la partecipazione italiana a progetti europei nell'ambito di Horizon 2020 nell'ottica di fare sistema». Non è un mistero, del resto, che l'Italia, assieme a Giappone e Corea del Sud, è tra i paesi più vecchi al mondo; e - superando i vari approcci settoriali - può quindi essere un osservatorio privilegiato per indagare i molteplici aspetti dell'invecchiamento della popolazione e per delineare le possibili soluzioni. Siamo di fronte «a una sfida globale - spiega Elettra Ronchi, senior policy analist dell'Ocse, esperta di ageing, tecnologie, sanità e welfare - e l'approccio per affrontare questa "rivoluzione grigia" deve necessariamente essere sistemico; e rivolto all'innovazione». Dal punto di vista sanitario, l'Alzheimer è senza dubbio una priorità da affrontare (ormai riconosciuta a livello mondiale); ma il cambiamento demografico in atto (con l'aumento dell'aspettativa di vita - per i cittadini europei al 2060 dovrebbe salire di circa 8 anni in più per gli uomini e circa 7 anni per le donne) ha ripercussioni anche economiche, sul fronte della competitività (specie nel confronto con i paesi emergenti). «In Italia c'è un ingresso ritardato dei giovani nel mondo del lavoro e non si sfrutta il potenziale delle persone più anziane», sottolinea Luigi Paganetto, presidente della Fondazione Economia dell'università di Tor Vergata di Roma: «Bisogna quindi intervenire per favorire maggiore trasmissione di conoscenza tra lavoratori giovani e meno giovani. Mentre dal punto di vista sanitario, per affrontare preparati l'incremento di popolazione anziana, serve migliorare la fase della prevenzione e dell'assistenza di lungo periodo, valorizzando per esempio la telemedicina». L'ospedale dovrà essere sempre più riservato alle sole patologie acute; mentre fattori di innovazione trasversale possono essere soprattutto le tecnologie "smart", la domotica per una longevità attiva, la riduzione dei consumi e lo sviluppo delle energie rinnovabili; il tutto a favore di utenti longevi. Anche la robotica potrà fare la propria parte (per personalizzare prodotti e servizi); come anche la promozione di forme di volontariato intergenerazionale e l'apprendimento attraverso collaborazione e accordi con scuole e organizzazioni no profit. L'ottica a cui guardare è quella per cui gli anziani «sono una risorsa, e non un peso», evidenzia Mario Alì, direttore generale per l'internazionalizzazione della ricerca del Miur: «E soprattutto possono portare stimoli importanti per i giovani». _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Mag. ’13 GIORGIO LA NASA, DALL'OSPEDALE ALL'UNIVERSITÀ ACCANTO AI TALASSEMICI Quanto pesa il camice bianco se decidi sulla vita degli altri All'ultimo summit degli ematologi Gitmo di Milano (Gruppo italiano trapianti di midollo osseo) gli hanno affidato la lectio magistralis su un tema che gli è caro: la qualità della vita dei talassemici dopo l'intervento. Perché Giorgio La Nasa è uno che si porta l'ospedale dentro. Il suo rapporto coi pazienti non finisce quando abbandona il reparto alle pendici di Monte Urpinu. Continua, in un percorso di emozioni che alterna soddisfazioni a sofferenze. Sarà perché al camice bianco c'è arrivato per passione, complice una mitica figura di zio medico, ma della professione ha una visione etica. Sempre pronto a fare i conti con se stesso. Cagliaritano, 59 anni, oggi è professore associato e direttore della Scuola di specializzazione in Ematologia. Posizione prestigiosa, per uno che ha avuto maestri illustri, (Guido Lucarelli, Licinio Contu, Ugo Carcassi) ma non ha trovato la strada in discesa. Anzi, un percorso che definisce «tortuoso». Ha svernato a lungo da ricercatore del Cnr, prima di approdare al lido sicuro della Asl di Cagliari. Dove sarebbe rimasto, se non avesse scalato i ranghi accademici. Un ospedaliero all'università: fra la bestemmia e il miracolo. «No, solo un concorso vinto». Concorso vero? «Sì, anche se mi rendo conto che è una cosa abbastanza rara». Chi non gli vuol bene ricorda il grembiulino massonico. Lui ammette, ma ci ride sopra: «Per questo, la massoneria non serve». Religioso «ma a modo mio», moderato in politica, «non sarei credibile se dicessi che non è utile per fare carriera», si è votato dall'inizio ai trapianti di midollo. Sui talassemici (e non solo). Ricerca e assistenza, con l'animo sempre in affanno, fra trapianto, terapia tradizionale e genica. Scelte difficili, da fare col malato: un coinvolgimento forse eccessivo «perché ti rimangono dentro solo i fallimenti. Ferite quasi inguaribili, notti insonni a interrogarti se hai fatto tutto il possibile». E' il prezzo pagato a un rapporto coinvolgente, «se non lo accetti cambi mestiere». La Nasa si intende anche con gli arabi, colpiti dalla talassemia come i sardi: «Traduttori a parte, a volte basta uno sguardo per capirsi. Entri nella stanza e capisci cosa ci si aspetta da te». Qualcuno ritorna, come quella bambina di Cipro che gli ha portato un rametto di olivo. Ora gli fa compagnia, in un angolo della scrivania. (l.s.) _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 02 Giu. ’13 MALATTIA COME ESPERIENZA LAICA alerio evangelisti In «Day Ospital», il noto autore della saga di Nicolas Eymerich descrive l'intera vicenda del suo ricovero. Dalla diagnosi alle dimissioni, ironia e distacco Filippo La Porta Valerio Evangelisti, il nostro migliore autore di fantascienza, ha scritto un diario della sua malattia – Day Hospital (Giunti) – che somiglia a un esercizio spirituale dell'antichità. Almeno nel senso, ricordato da Pierre Hadot, che l'uomo antico, benché angosciato come l'uomo moderno, ci appare molto più sano: non si compiace nell'angoscia, ha fiducia in se stesso e vive interamente nel presente. Così Evangelisti nella premessa: «Non credo che l'esperienza del cancro vada nascosta… Personalmente l'ho vissuta con una certa serenità. Per via di un certo modo di affrontare la vita, ed eventualmente la morte». E più in là si definisce neoplatonico, con la fede nell'anima mundi. Nel suo caso la tradizione plotinina, e poi stoico-epicurea, è come strappata a filologi e studiosi: piuttosto viene "eseguita" dentro l'esistenza stessa. Per la mentalità borghese la malattia è solo una "fregatura"(qualcosa di accidentale, di esterno, che nulla ha a che fare con la condizione umana). Ora, certamente nessuna malattia rappresenta un evento augurabile ma in questo modo ci si preclude la possibilità di farne esperienza. Anche perché la cultura attuale della pubblicità può essere spiazzante e trasgressiva ma espelle da sé il tragico dell'esistenza, il suo fondo buio: malattia, invecchiamento, morte, sofferenza (a meno che queste cose non vengano spettacolarizzate). Day hospital è il diario di una malattia come esperienza e come strumento di una possibile rivelazione. Si comincia con la diagnosi, nel maggio 2009, di un linfoma non Hodgkin, un cancro del sistema linfatico. Dì lì il libro si snoda come resoconto meticoloso di esami, visite mediche, terapie, protocolli seguiti (e loro conseguenze), cicli di massaggi – punteggiato da riflessioni in corsivo – fino al settembre 2011, quando Evangelisti è dimesso dal Day Hospital dell'ospedale Sant'Orsola di Bologna con la sconfitta della malattia, ma con una neuropatologia derivante da un farmaco legato alla chemio, che dà torpore agli arti. L'autore ha un atteggiamento totalmente laico né intende presentarsi come guru spirituale : «non ho consigli da dare… penso che lo stato d'animo migliore sia quello dello stoico. Essere pronti a morire e, nello stesso tempo, a cercare di evitarlo». Eppure il suo libro, scarno, privo dei vezzi letterari dell'autofiction, è un esempio di forte spiritualità, e cioè una meditazione sulla propria morte che tenta continuamente di assumerla in una prospettiva più ampia dell'io e del corpo individuale. Così immagina le particelle del suo corpo che si spargeranno nel cosmo andando a formare esseri senzienti, creature vegetali ed entità minerali: «assisteranno, separate, alla fine del Tutto, o vivranno forme sconosciute… un'avventura inedita, forse la più bella». All'inizio la malattia – la traumatica consapevolezza della precarietà, la improvvisa contrazione del tempo – riduce all'essenziale il mondo esterno, e serve a capire meglio le persone che ci stanno intorno: alcuni reagiscono con imbarazzo, chiedono ossessivamente e forse ipocritamente cosa possono fare per te (l'autore risponde beffardo: «inviarmi un assegno in segno di solidarietà»), altri svaniscono nel nulla considerandoti quasi infettivo. Se poi volete avere una percezione del fascismo quotidiano, pervasivo della nostra società, leggete la pagina in cui una dottoressa, approfittando del potere che le dà il proprio ruolo, infierisce con "malgarbo" su un paziente stremato e claudicante. Poi Evangelisti ci aggiorna sui rapporti tra lui e l'inquisitore Eymerich. Sapendosi affetto dal tumore si affretta a scrivere l'ultimo capitolo della celebre saga e decide di farlo morire, per non rischiare di lasciare il ciclo incompleto. Nessun finale trionfalistico: «ho avuto salva la vita, ma non la qualità della vita». Né sono prevedibili gli effetti dei farmaci adoperati nella terapia, molti dei quali sperimentali perché «della genesi del cancro nessuno ha una teoria precisa». La malattia in questo libro viene rappresentata con realismo. Eppure non si rinuncia mai a "usarla", per modificare se stessi, per apprendere una verità preziosa sull'esistenza, per capire ciò che resta di noi e che merita di durare, per sentire di più il nostro legame con l'anima del mondo e il ritmo imperscrutabile di tutte le cose. Anche perché il linfoma può danneggiare tutto tranne la facoltà umana – unica virtù autocurativa – di inventare storie e mondi paralleli, di creare personaggi che ci sopravvivono, di viaggiare con la fantasia ovunque ci pare. Valerio Evangelisti, Day Ospital, Giunti, Firenze, pagg. 112, € 10,00 _____________________________________________________________ Avvenire 30 Mag. ’13 CHE MEDICINA È SE IL MALATO È POTENZIALE? Dopo il caso Jolie: la conoscenza del proprio destino genetico può essere destabilizzante nella vita di persone con predisposizione genetica a malattie gravi a scelta di Angelina Jolie di farsi asportare entrambi i seni perché portatrice di una variante del gene Brca-1 che aumenta di molto (oltre 1'80%) il rischio di sviluppare un cancro mammario aggressivo e spesso fatale ha fatto scalpore e ha creato sconcerto. Così come la decisione di un manager inglese cinquantenne di sottoporsi alla rimozione della prostata per la stessa ragione, poiché anch'egli aveva un gene che avrebbe favorito lo sviluppo di una lesione tumorale di quell'organo. La possibilità che si verifichi un boom di interventi di chirurgia preventiva, spesso non giustificati, anche per un "effetto imitazione" inevitabile quando sono di mezzo le celebrità, è alta. Il dibattito è aperto. Oggi la possibilità di conoscere il proprio destino medico mediante l'analisi del patrimonio genetico, ha portato alla nascita alla medicina predittiva, in grado di identificare il rischio di malattia e di cercare di prevenirla o di porvi rimedio quando si è ancora in tempo per cambiarne la naturale storia clinica. È un aiuto per la salute o un ostacolo per una tranquilla e serena esistenza? Il rischio è quello di medicalizzare la vita, facendo sentire ammalato chi è sano. er lungo tempo la medicina ha avuto una funzione soprattutto "palliativa" nei confronti del malato, per il quale aveva scarse risorse curative da offrire. Con la nascita della medicina scientifica grandi progressi diagnostici e terapeutici hanno consentito non solo di conoscere meglio la malattia ma anche di curarla in modo più efficace, cercando anzi di intervenire nella sue fasi precoci (medicina preventiva secondaria), quando il malato non è ancora consapevole della sua patologia. Il passaggio ulteriore è ancora più ambizioso: individuare il "malato potenziale", tale perché è esposto a fattori di rischio patogeni: ha stili di vita sbagliati, vive in un ambiente insano, possiede un patrimonio genetico con particolari modificazioni. Intervenire su questi fattori per eliminarli può ridurre o azzerare il pericolo di ammalarsi (medicina preventiva primaria). Oggi questo eccesso di conoscenze rischia però di creare più dubbi che certezze. In medicina non si usa il linguaggio della certezza, ma quello della probabilità. Anche la medicina predittiva, in presenza di particolari geni che predispongono al cancro o all'insorgenza di gravi malattie neurodegenerative e metaboliche, esprime semplicemente l'alta possibilità che tali condizioni patologiche si sviluppino in quell'individuo, non che la malattia si manifesterà certamente. Qual è allora il confine tra vera prevenzione e ossessione della malattia? La conoscenza del proprio destino genetico può essere un elemento destabilizzante, e i soggetti ad alto rischio genetico per tumore che scelgono la chirurgia preventiva compiono un gesto di mutilazione volontaria per evitare la probabilità che insorga una patologia potenzialmente anche letale. Si tratta di una decisione autonoma del paziente, giustamente rivendicata, ma che deve essere verificata e valutata all'interno di un corretto e leale rapporto tra il curato e il curante. Ogni individuo non si esaurisce nel proprio corpo: egli è anche e soprattutto una persona. Ed è questa l'oggetto (il soggetto in realtà) vero della medicina. Proprio qui si situa il molo fondamentale del medico, che deve essere attento, sensibile e disponibile, insieme affidabile e affabile. Deve valutare, insieme al suo paziente, quale può essere la scelta migliore, considerando la molteplicità degli aspetti esistenziali (di cui la componente genetica è solo una parte) di quella persona nella sua totalità, fornendo tutte le informazioni adeguate per metterlo nelle condizioni di compiere consapevolmente la scelta migliore e più appropriata: che può essere, nel caso dei tumori, l'asportazione radicale preventiva dell'organo bersaglio in alcuni casi ben selezionati, ma anche in molti altri quella di uno stretto monitoraggio clinico per intervenire con l'adeguata terapia solo in caso di comparsa della malattia. In tal modo la medicina predittiva potrà rappresentare un vero elemento di progresso sanitario senza diventare un fattore di turbamento psichico e di devastazione fisica. _____________________________________________________________ La Stampa 28 Mag. ’13 STARE SEDUTI È IL "NUOVO FUMO"? MAURIZIO MOLINARI CORRISPONDENTE DA NEW YORK Stare seduti per troppo tempo causa gravi problemi alla salute e può addirittura accorciare la vita. Chi è che lo afferma? «Uno studio pubblicato sul giornale americano "Diabetologia" sulla base di 18 ricerche condotte nel corso degli ultimi anni su un campione totale di circa 800 mila persone». Quali noi risultati? «Il paragone fra coloro che passano la maggior parte della giornata seduti e coloro che non lo fanno porta a dire che i primi hanno il 112 per cento di possibilità in più di contrarre il diabete, i1147 per cento di possibilità in più di registrare problemi cardiovascolari, il 90 per cento di rischio in più di morte da malattie cardiache ed il 49 per cento in più di morte in generale. Sono numeri che parlano da soli». Cosa nuoce alla salute dello stare seduti troppo a lungo? «Per James Levine, endocrinologo della Mayo School of Medicine all'Università di California a Los Angeles, una persona che lavora alla scrivania consuma in media 300 calorie in una giornata mentre se svolge una professione che lo fa muovere fisicamente arriva a 2300 calorie. Il corpo umano è stato disegnato per camminare, come è avvenuto con grande frequenza agli albori dell'umanità, mentre gli scienziati ritengono che adesso in media un individuo resti seduto per un totale di ore pari alla metà di quelle in cui si muove. Ciò comporta che il corpo si trova in una posizione innaturale, anche se spesso molto comoda, e ciò può portare a problemi seri con la circolazione, ad acciacchi fisici e dolori di ogni sorta. L'obesità è solo la conseguenza più evidente di un problema assai più articolato dovuto allo stare troppo seduti». 7erehé si sta seduti troppo a lungo? «Secondo il magazine americano "Diabetologia" il campione osservato afferma a grande maggioranza di farlo a fini professionali. Stare più seduti in ufficio significa lavorare di più, perseguire promozioni, aumenti di salario e in genere vantaggi professionali con molteplici conseguenze nella vita privata. Ma può anche portare a malattie, addirittura a morti anticipate». Non è eccessivo il lega e con il rischio di decesso? «Anup Kanodia, del Centro di medicina personalizzata all'Università dell'Ohio, afferma che "stare seduti è il nuovo fumo" perché si tratta di una forma di dipendenza del fisico che causa danni progressivamente sempre maggiori. In particolare per il "British Journal of Sports Medicine" ogni ora di televisione vista seduti sul divano accorcia la vita di una persona di 22 minuti mentre ogni sigaretta fumata la riduce di 11 minuti». E tutto sarebbe a causa del minor numero di calorie bruciate? «C'è anche un'altra causa: stare seduti sopprime la produzione di un enzima chiamato lipase lipoproteinico che è essenziale per trasformare il cattivo colesterolo in buono. Stare seduti può anche aumentare la resistenza all'insulina, creando problemi per la metabolizzazione dello zucchero. Sono queste le ragioni che portano ad associare lo stare troppo seduti con malattie cardiache e diabete». La soluzione può essere fare ginnastica prima di andare a lavorare? «La ginnastica, come in genere l'attività sportiva, aiuta a limitare le conseguenze ma non è di per sé un vaccino. Le flessioni, ad esempio, anche se fatte in gran numero, non consentono di ricreare in fretta calorie ed enzimi andati perduti». Ci sono altre strade possibili? «In Oregon stanno sperimentando un nuovo tipo di mobili, tesi a facilitare il movimento di chi si trova a sostare per lunghi periodi in un ambiente chiuso. Vi sono ad esempio dei dottori che hanno un piccolo tappeto mobile nell'ufficio, dove fanno movimento fra una visita e l'altra. Vi sono poi soluzioni di tipo pratico che possono essere, secondo uno studio pubblicato su "Diabetes Care2", camminare più a lungo andando o tornando dal posto di lavoro oppure interrompere il lavoro ogni 20 minuti per camminare almeno 2 minuti di seguito. Ciò che conta è ridurre il più possibile la lunghezza del periodo nel quale si sta seduti senza alzarsi. Vale la pena ricordare che Albert Einstein amava andare in bicicletta e che proprio pedalando pensò per la prima volta alla formula della relatività». Non stare troppo seduti è un consiglio che viene dato anche ai passeggeri dei voli intercontinentali... «In effetti anche nel caso dei voli aerei che durano molte ore, il suggerimento è di alzarsi e camminare, soprattutto per aiutare la circolazione». Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. _____________________________________________________________ TST 29 Mag. ’13 DAGLI ALLIGATORI DEL MISSISSIPPI IL SOGNO DI UN FUTURO SENZA DENTIERE Nella loro lamina il meccanismo per rigenerare incisivi e molari anche nell'uomo In futuro non ci sarà più spazio per i sorrisi «artificiali». Grazie allo studio dello straordinario apparato dentale degli alligatori, nel giro di qualche anno appena, la dentiera potrebbe diventare un lontano ricordo. Infatti, i denti potrebbero essere stimolati a «ricrescere», proprio come fanno i capelli o le unghie. Almeno questa è la promessa di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell'Università di Taiwan e dell'Università della California del Sud, pubblicato sulla rivista «Proceedings of the National Academy of Sciences». Gli scienziati hanno identificato negli alligatori il modello ideale di dentatura da «copiare» per assicurare all'uomo un sorriso naturale, resistente e duraturo. Questi terribili predatori, infatti, sono capaci di sostituire i loro 80 denti ben 50 volte nella vita, sfruttando uno speciale meccanismo che si spera di poter riprodurre anche nell'uomo. Se buona parte dei vertebrati ha la capacità di rinnovare la dentatura per tutta la vita, negli esseri umani questa «performance» può avvenire una sola volta, nonostante anche nell'uomo sia presente una fascia di tessuto epiteliale - chiamata lamina dentale - che è fondamentale per lo sviluppo dei denti. «Gli esseri umani hanno solo due set di denti, quelli da latte e quelli adulti - sottolinea Cheng-Ming Chuong, uno degli autori dello studio -. Noi volevamo identificare delle cellule staminali che possono essere usate come risorsa per stimolare il rinnovamento dei denti, ma prima dovevamo capire come si rinnovano negli altri animali». I ricercatori hanno così deciso di analizzare i meccanismi' molecolari alla base del rinnovamento dei denti degli alligatori. Ricorrendo a diverse tecniche di microscopia, gli scienziati hanno quindi analizzato i tessuti di embrioni e di giovani esemplari di alligatore del Mississippi (l'Alligator mississippiensis), un «lucertolone» che può raggiungere fino ai 4,5 metri di grandezza. Dai risultati è emerso che ciascun dente di questo animale si sviluppa a blocchi di tre elementi: il dente vero e proprio, che cresce esternamente; la lamina dentale (il tessuto che darà origine al dente «di riserva») e le cellule staminali che si trasformeranno in nuovo tessuto quando anche il dente sostitutivo sarà sceso. In pratica, quando il dente più esterno cade, quello di scorta inizia a scendere e speciali segnali molecolari stimolano le cellule staminali a differenziarsi in cellule di nuovo tessuto dentale per creare un-dente sostitutivo. Il processo negli alligatori è così efficiente che può ripetersi fino a 50 volte, tanto che alcuni di questi arrivano ad avere dai 2 mila ai 3 mila denti nel corso della loro esistenza. Un sogno per gli esseri umani, che sono invece costretti a sostituire artificialmente i denti che cadono. In Italia, per esempio, si stima che oltre 7 milioni di persone (e non solo anziani) abbiano bisogno della dentiera. Ecco perché è così importante la prospettiva che si apre grazie alle staminali del grande rettile americano. «In futuro speriamo di poter isolare le cellule provenienti dalla lamina dentale per capire se siamo in graao di usarle per rigenerare i denti in laboratorio», spiega il coautore Randall B. Widelitz. Lo studio, infatti, non è che l'inizio di un percorso molto più ambizioso. «Adesso che abbiamo scoperto il meccanismo negli alligatori - scrivono gli autori - possiamo cercare di riprodurlo nell'uomo, facendo ricrescere i denti eventualmente persi o bloccando la crescita in chi presenta delle patologie in seguito alle quali ne crea in sovrannumero: un'anomalia che, probabilmente, dipende da qualche segnale errato inviato alle staminali». Il team, tuttavia, precisa che per passare dalla teoria alla pratica dovrà passare ancora un po' di tempo. «Noi stiamo già lavorando per raggiungere questo obiettivo», sottolinea Chuong. L'idea degli scienziati è andare oltre la «produzione» dei denti, lavorando anche per la rigenerazione della pelle e di altri organi. «Ciò che abbiamo fatto fornisce i principi-base che possono essere applicati a tutta la medicina rigenerativa». _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 31 Mag. ’13 SPAGNA, OSPEDALI «PROIBITI» AI TURISTI Procedura di infrazione. La Commissione chiede informazioni a Madrid: alcune strutture avrebbero fatto pagare le cure a cittadini comunitari non accettando la tessera sanitaria di un altro Paese membro Luca Veronese I tagli alla sanità stanno creando qualche problema tra Madrid e Bruxelles. E potrebbero avere ricadute negative anche sull'immagine del Paese e sul turismo che contribuisce a formare il 12% del Pil spagnolo. La Commissione europea ha espresso infatti «preoccupazione» e ha inviato alla Spagna una «richiesta di informazioni» perché alcuni ospedali iberici non avrebbero accettato le tessere sanitarie di turisti comunitari, facendo pagare agli stessi turisti prestazioni mediche che, secondo le regole dell'Unione, dovrebbero invece essere gratuite per i cittadini dei Paesi membri. L'intervento di Bruxelles è stato sollecitato da una lunga serie di denunce fatte da turisti stranieri e da compagnie di assicurazione. Secondo le norme comunitarie, la tessera sanitaria europea dà diritto a ricevere all'interno dell'Unione (quindi sul territorio dei 27 Paesi membri ai quali si sono aggiunti Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera) lo stesso trattamento garantito ai cittadini del Paese ospitante: in Spagna dunque, un turista italiano, uno tedesco o uno inglese hanno diritto a ricevere le stesse prestazioni garantite ai cittadini spagnoli, e gratis come previsto generalmente dal sistema sanitario nazionale spagnolo, in modo particolare per il pronto soccorso. Centinaia di segnalazioni inviate a Bruxelles a partire dal 2010 hanno tuttavia descritto come negli ospedali spagnoli spesso la tessera sanitaria di altri Paesi dell'Unione non venga accettata, e come ai turisti stranieri venga chiesto di coprire le spese mediche con la loro assicurazione sanitaria o pagando direttamente con la loro carta di credito. La Bbc ha riportato i casi di due cittadini britannici sottoposti a cure d'urgenza, dopo essere arrivati all'ospedale in gravi condizioni di salute, ai quali è stato chiesto di pagare il trattamento con la loro assicurazione di viaggio. Dal ministero della Sanità di Madrid hanno fatto sapere che «la tessera sanitaria europea ha sempre funzionato secondo le regole comunitarie e che è sempre il cittadino a decidere che documenti firmare e quindi quale trattamento accettare», aggiungendo che «il governo farà luce sulle denunce», ma che non ci sono prove di pressioni ricevute da turisti perché pagassero le cure ospedaliere. La stessa Commissione ha spiegato che con la richiesta di informazioni non intende accusare gli ospedali spagnoli di fare cassa negando le prestazioni mediche. Ma i tagli alla spesa hanno di certo una ricaduta sui servizi garantiti negli ospedali: la sanità in Spagna dipende infatti dalle amministrazioni regionali alle quali è stato chiesto uno sforzo notevole negli ultimi tre anni per limitare il deficit di bilancio. Alcune delle regioni più in rosso sono anche tra le più importanti mete turistiche del Paese: Catalogna, Baleari, Canarie e Andalusia. La richiesta di informazioni della Commissione è il primo passo della procedura di infrazione: il governo spagnolo ha due mesi di tempo per rispondere all'ingiunzione e correggere la situazione. Se non lo farà la procedura di infrazione sarà completata e il caso sarà sottoposto al Tribunale di Giustizia del Lussemburgo. Ma per la Spagna la questione è molto più rischiosa. Il Paese, al suo secondo anno di recessione, ha nel turismo un elemento di forza che non può essere compromesso: le strutture ricettive spagnole accolgono quasi 55 milioni di turisti all'anno dall'estero (superati solo da Francia, Usa e Cina). E anche nei primi tre mesi dell'anno i turisti stranieri sono aumentati del 2,3% arrivando, a circa 9,5 milioni di persone: il massimo dal 2008, ottenuto sulla spinta degli arrivi da Germania, Francia e Paesi nordici. _____________________________________________________________ La Stampa 1 Giu. ’13 L'ONCOLOGO CHE COMBATTE IL CANCRO CON LE EMOZIONI "I"' Non voglio giudicare Angelina Jolie ma non io condivido la sua scelta così radical-islamica di farsi asportare i seni. Davanti alla prospettiva di un evento traumatico che le era stato comunicato, la possibilità d'ammalarsi di cancro come sua madre e sua zia per via di un gene ereditario, ognuno è libero. Anzi, dirò di più: ha il diritto di scegliere cosa fare. Il punto però è che un personaggio pubblico e ammirato come Angelina Jolie rischia di diventare un modello negativo per tanti malati», avverte il professor Enzo Soresi, 75 anni, anatomopatologo e oncologo, primario emerito di pneumologia al Niguarda di Milano. Soresi, che ha lasciato anni fa l'ospedale per dedicarsi agli studi di neurobiologia, è l'autore di un libro di successo - «Il cervello anarchico», pubblicato da Utet arrivato alla 5a edizione - ispirato da un suo amico, il filosofo Umberto Galimberti, sul ruolo determinante del cervello. L'epicentro, secondo il professore, di tutte le malattie. Boom di test genetici, effetto Jolie. «E' estremamente importante non arrendersi all'angoscia», spiega Soresi. «In questi anni sono stati fatti passi giganteschi nella prevenzione. Non solo. Oggi con l'epigenetica, la vera grande novità nel mondo della biologia, puoi controllare un fat- tore di rischio. Anche la chemioterapia (nel 1975 a Niguarda siamo stati i primi ad affrontare i tumori ai polmoni con la chemio) passerà; si sta infatti arrivando a una oncologia raffinatissima giocata sulla biologia. Detto questo, chi riesce a reagire sviluppando una forte resilienza psicologica, cioè riesce ad affrontare e convivere con la malattia senza finire in depressione e paranoia, ha molte più possibilità di farcela. Non a caso io che vengo dalla medicina dura - l'oncologia polmonare - ho scelto di lasciare il mio lavoro in ospedale per buttarmi a studiare le strutture profonde del cervello. In particolare l'amigdala, la parte del cervello che presiede alle emozioni e l'ippocampo, il nucleo della memoria. Con chi parla il cervello delle emozioni? Con il sistema immunitario e questi 2 sistemi parlano con il sistema neuroendocrino. Da questo network dipende la nostra salute. La Pnei, ovvero la psico-neuroendocrino-immunologia è la nuova, grande scienza: il futuro della medicina è nel cervello. Sono stati questi studi ad aprirmi la testa». Considerato uno dei più autorevoli esponenti in Italia della medicina integrata (sul tema ha scritto con Pierangelo Garzia ed Edoardo Rosati «Guarire con la nuova medicina integrata», Sperling&Kupfer) Enzo Soresi non è l'ennesimo santone che promette miracoli ma ai suoi pazienti consiglia un approccio globale. Non so- lo chemio. Da vaccini per rafforzare il sistema immunitario («Esempio: il vaccino di cellule dendritiche. Un tempo si doveva andare in Germania ora lo fanno anche all'ospedale di Siena da Michele Di Maio») alla agopuntura, da prodotti fitoterapici come il vischio («La medicina steineriana lo usa da 50 anni in oncologia») a tecniche antistress come il mindfulness, una via occidentale alla meditazione. «Sia ben chiaro: quando si .è malati bisogna seguire un percorso scientifico solido», sottolinea Soresi. «Parallelamente la medicina integrata aiuta ad affrontare i sintomi in maniera meno aggressiva e a non cedere alla disperazione». Enzo Soresi racconta il caso di S., un uomo di 40 anni («Più che un paziente ormai per me è un figlio!») che, dopo l'infausta diagnosi di un tumore alla pleura, un intervento chirurgico radicale e la radioterapia è riuscito grazie anche alla medicina integrata a conquistarsi un futuro. «Sono passati 8 anni, ora ha 3 figli. Effetto piace- ho? Per la medicina occidentale è una truffa mentre è la premessa di tutte le medicine. Il vero problema però non sono ì pazienti. Troppi medici hanno i paraocchi, non sanno stabilire una relazione consapevole. Nel nostro mondo c'è un impressionante deficit di cultura. Del resto, nei primi anni al mio gruppo di lavoro di Niguarda regalavo libri Adelphi. Poi, avvilito, ho smesso: leggevano solo La Gazzetta dello Sport!». _____________________________________________________________ Le Scienze 27 Mag. ’13 UNA SECONDA VITA PER I SULFAMIDICI I principali effetti collaterali di questa vecchia famiglia di farmaci sono dovuti all'inibizione di un enzima essenziale per la produzione e il metabolismo di alcuni neurotrasmettitori, e in particolare della dopamina. La scoperta permetterà di mettere a punto una nuova e più sicura generazione di molecole (red) Le basi molecolari degli effetti collaterali neurologici legati all'uso dei sulfamidici sono state individuate da un gruppo di ricercatori del Politecnico di Losanna, che le descrive in un articolo a prima firma Hirohito Haruki pubblicato sui “Science”. La scoperta permetterà di progettare nuove molecole di questo tipo ridando slancio a questa vecchia ma importante classe di farmaci. Fin dalla loro scoperta nel 1932, i sulfamidici sono stati utilizzati per combattere una vasta gamma di infezioni batteriche, dall'acne alla clamidia alla polmonite. Pur essendo ben noti i meccanismi attraverso cui queste molecole esplicano la loro azione terapeutica, erano finora rimasti oscuri quelli che danno origine ai loro effetti collaterali, che possono includere problemi neurologici come nausea, mal di testa, vertigini, allucinazioni e addirittura psicosi. Questo ha di fatto impedito la progettazione di nuovi sulfamidici che non rischiassero di interferire con il sistema nervoso. I ricercatori sono partiti dalla constatazione che i sintomi più gravi che si possono manifestare in seguito alla somministrazione di sulfamidici ricalcano quelli presenti nei pazienti affetti da iperfenilalaninemia, la cui patologia è dovuta a difetti nella produzione o nel metabolismo di una importante molecola, la tetraidrobiopterina (BH4), che ha un ruolo fondamentale per la produzione di neurotrasmettitori come la serotonina e, ancor più, la dopamina. I ricercatori sono riusciti a dimostrare che che i sulfamidici interferiscono con l'azione di un enzima, la sepiapterina reduttasi, che partecipa attivamente alla sintesi cellulare della tetraidrobiopterina, determinando anche la struttura cristallografica. Ciò ha permesso, insieme a un nuovo sistema di screening dei farmaci ad alto rendimento, di determinare le differenti capacità di inibizione dei vari sufamidici. Fra i più potenti inibitori dell'enzima vi è in particolare il sulfametossazolo, uno dei più utilizzati e particolarmente utile, in associazione con il trimetoprim (cotrimossazolo) per combattere la polmonite da Pneumocystis pneumonia (PCP), un'infezione opportunistica fungina che colpisce frequentemente i soggetti immunocompromessi. "Ora che sappiamo quello che succede possiamo cominciare a pensare a strategie per affrontare il problema", ha detto Kai Johnsson, che ha diretto la ricerca. "Storicamente, non credo che ci sia una classe di farmaci più importante di sulfamidici, e ora siamo in grado di capirli meglio. Lo studio ci ricorda inoltre che possono essere fatte sorprendenti scoperte anche per farmaci vecchi come questi." _____________________________________________________________ Sanita News 30 Mag. ’13 LA SUPERIORITA' DIAGNOSTICA DEI TEST IMMUNOLOGICI (Sn) - Roma, 30 mag. - I test immunologici per determinare la presenza di sangue nelle feci sono in grado di trovare il doppio dei tumori al colon di quelli tradizionali. Lo afferma uno studio del German Cancer Research Center pubblicato dalla rivista European Journal of Cancer. I test immunologici sono usati in alternativa a quelli enzimatici, i primi a essere sviluppati e ancora molto in voga. Per confrontarli i ricercatori hanno analizzato i casi di 2.235 partecipanti a uno screening tra il 2005 e il 2009, i cui campioni sono stati testati in entrambi i modi. I test enzimatici hanno trovato un terzo dei tumori al colon, il 9 per cento delle lesioni precancerose avanzate e il 5 per cento di quelle ai primi stadi. Quelli immunologici invece hanno permesso di scovare il doppio dei tumori e il triplo delle lesioni. _____________________________________________________________ Sanita News 28 Mag. ’13 UN COCKTAIL DI VITAMINE B RALLENTA LO SVILUPPO DELL’ALZHEIMER I pazienti che hanno un lieve deficit cognitivo che precede l'insorgenza dell'Alzheimer potrebbero avere dei vantaggi dall'assunzione di alte dosi di vitamine del gruppo B. Lo suggerisce uno studio dell'Università di Oxford pubblicato dalla rivista Pnas, secondo cui i supplementi rallentano la perdita di materia grigia. I ricercatori hanno studiato 156 soggetti over 70 che soffrivano di lieve deficit cognitivo. Metà degli anziani ha ricevuto un cockatil di 20 milligrammi di vitamina B6, 0,5 milligrammi di B12 e 0,8 di acido folico, mentre l'altra metà ha avuto un placebo. Dopo due anni tutti i soggetti hanno perso materia grigia, ma mentre il gruppo del placebo ne ha perso il 3,7%, nell'altro la diminuzione è stata dello 0,5. "Le aree meno colpite - sottolineano gli autori - sono proprio quelle associate allo sviluppo dell'Alzheimer" Preventing Alzheimer’s disease-related gray matter atrophy by B-vitamin treatment 1. Gwenaëlle Douauda,b,1, 2. Helga Refsumb,c,d, 3. Celeste A. de Jagerc, 4. Robin Jacobye, 5. Thomas E. Nicholsa,f,g, 6. Stephen M. Smitha, and 7. A. David Smithb,c Author Affiliations 1. Edited by Marcus E. Raichle, Washington University in St. Louis, St. Louis, MO, and approved March 29, 2013 (received for review January 29, 2013) Abstract Is it possible to prevent atrophy of key brain regions related to cognitive decline and Alzheimer’s disease (AD)? One approach is to modify nongenetic risk factors, for instance by lowering elevated plasma homocysteine using B vitamins. In an initial, randomized controlled study on elderly subjects with increased dementia risk (mild cognitive impairment according to 2004 Petersen criteria), we showed that high-dose B-vitamin treatment (folic acid 0.8 mg, vitamin B6 20 mg, vitamin B12 0.5 mg) slowed shrinkage of the whole brain volume over 2 y. Here, we go further by demonstrating that B-vitamin treatment reduces, by as much as seven fold, the cerebral atrophy in those gray matter (GM) regions specifically vulnerable to the AD process, including the medial temporal lobe. In the placebo group, higher homocysteine levels at baseline are associated with faster GM atrophy, but this deleterious effect is largely prevented by B-vitamin treatment. We additionally show that the beneficial effect of B vitamins is confined to participants with high homocysteine (above the median, 11 µmol/L) and that, in these participants, a causal Bayesian network analysis indicates the following chain of events: B vitamins lower homocysteine, which directly leads to a decrease in GM atrophy, thereby slowing cognitive decline. Our results show that B-vitamin supplementation can slow the atrophy of specific brain regions that are a key component of the AD process and that are associated with cognitive decline. Further B-vitamin supplementation trials focusing on elderly subjets with high homocysteine levels are warranted to see if progression to dementia can be prevented. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 31 Mag. ’13 AL BUSINCO UN NUOVO MACCHINARIO PER GLI ANTITUMORALI LOTTA AL CANCRO. Pazienti più tutelati, ma anche un importante risparmio economico Il farmaco lo prepara un robot Tutela dei pazienti, sicurezza dei lavoratori e risparmio economico. Queste le principali conseguenze di Pharmoduct, il nuovo robot che sarà utilizzato all'ospedale Oncologico di via Jenner per la preparazione dei farmaci antitumorali. GLI OBIETTIVI Uno strumento ideato e realizzato in Sardegna, che verrà utilizzato e gestito dall'Unità farmaci antitumorali del Businco. L'obiettivo è quello di centralizzare le attività, garantire un adeguato sistema di protezione ai soggetti esposti dal punto di vista professionale, ma soprattutto un controllo totale del “ciclo lavorativo” che grazie all'informatizzazione diventa infallibile dal punto punto di vista della preparazione e della somministrazione del farmaco ai pazienti. IL RISPARMIO Grazie a Pharmoduct si porrà la parola fine alla perdita delle quote residue di farmaco. Ovvia conseguenza il contenimento delle spese, obbligatorio in un periodo di crisi come questo, ma anche una riduzione dei tempi di attesa per chi deve sottoporsi alla terapia. L'ITER Il processo prevede la prescrizione informatizzata del medico, seguita dalla pianificazione temporale dei cicli di chemioterapia considerando i posti liberi e facendo attendere meno possibile i pazienti. Poi c'è il calcolo automatico della dose dei farmaci e un ulteriore controllo di conformità da parte del farmacista ospedaliero. Dopo di che sarà la volta della preparazione assistita (manuale e robotizzata), la tracciabilità elettronica della preparazione, la registrazione del paziente in accettazione e la somministrazione della terapia controllata in tempo reale mediante programma informatico, verificando la corretta associazione della stessa con il paziente, che verrà eseguita con un tablet direttamente al punto di somministrazione. E ancora la registrazione delle reazioni avverse (la farmacovigilanza), la presenza di “Alert” come la tossicità cardiaca di certi antitumorali, il monitoraggio e la rappresentazione grafica dei parametri clinici. Infine l'organizzazione dei “drug day”, il raggruppamento pazienti con stessa terapia nella stessa giornata, per evitare sprechi e contenere i costi. IL COSTO Il sistema robotizzato, del valore di 250.000 euro, sarà utilizzato “in prova” per un anno a titolo gratuito al Businco, garantirà la somministrazione di circa 70 terapie giornaliere ai pazienti oncologici sia in regime di ricovero che in day hospital. Per garantire il funzionamento di questo delicato strumento sarà impegnata la squadra dei farmacisti ospedalieri e dei medici oncologi della struttura. L'avvio del sistema pone dunque l'Oncologico a un livello di eccellenza pari a strutture di rilievo internazionale come, tanto per fare due esempi, l'Ieo di Milano e l'Irst di Meldola. Piercarlo Cicero _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Mag. ’13 SCLEROSI MULTIPLA. MARIA GIOVANNA MARROSU: «L'INCIDENZA È ALTA» Sardegna, malati in crescita ma la ricerca non si ferma SPECIALE Crescono le persone malate di sclerosi multipla. Se i dati più recenti parlano di 150 persone su 100.000 che combattono con la patologia neurologica, è certo che il numero è in aumento. Anche e soprattutto in Sardegna, dove la malattia è particolarmente frequente. CAUSE «Non conosciamo le cause di questo fenomeno, anche se si ritiene che la concomitanza di vari fattori ambientali, peraltro ancora non conosciuti, agisca su un soggetto predisposto geneticamente alla malattia», spiega Maria Giovanna Marrosu, professore ordinario di Neurologia e direttore del Centro sclerosi multipla dell'ospedale Binaghi di Cagliari. «Certo è che i sardi hanno una particolare struttura genetica, arricchita di varianti di geni che predispongono alla patologia». Più difficile è chiarire i fattori ambientali che incidono sull'insorgenza della malattia, anche se secondo l'ipotesi igienica il miglioramento delle condizioni igieniche generali e la minor incidenza di numerose malattie infettive potrebbero contribuire a spiegare l'elevata reattività del sistema immunitario. GIORNATA MONDIALE Domani si celebra la Giornata mondiale della sclerosi multipla, e per fortuna, sul fronte delle terapie, la situazione appare in miglioramento pur se non esiste ancora una cura definitiva. «Abbiamo a disposizione diversi farmaci in grado di ridurre il numero e la gravità delle ricadute e, in ultima analisi, di rallentare la disabilità conseguente alla degenerazione delle cellule del sistema nervoso», fa notare Marrosu. «Fra questi, gli immunomodulanti, rappresentati da copolimero e vari tipi di interferone beta. Circa il 30-40% dei pazienti risponde positivamente ai farmaci, se somministrati all'inizio della patologia. Sono tutti farmaci iniettivi, che devono essere somministrati cronicamente, valutando accuratamente la risposta clinica e il quadro di risonanza magnetica in particolare nei primi due anni di trattamento». Quando non si ottengono le risposte volute, si può passare alle cure di seconda linea. «Attualmente sono disponibili un anticorpo monoclonale (natalizumab) che viene somministrato mensilmente in flebo, un altro farmaco orale (fingolimod), che il paziente assume a domicilio dopo una prima in regime ospedaliero, e immunosoppressori, primo fra tutti mitoxantrone somministrato in ambiente ospedaliero, in flebo. Tutti questi farmaci hanno possibili effetti avversi, per i quali occorre un monitoraggio particolare». IMMUNOSOPPRESSORI Per il futuro, sono in corso sperimentazioni con nuovi immunosoppressori, con immunomodulatori e con altri anticorpi monoclonali e altre nuove molecole saranno presto disponibili. «Tutti questi trattamenti aumentano le possibilità terapeutiche e la scelta personalizzata del farmaco, il più possibile vicino alle caratteristiche e alle esigenze del paziente», conclude Marrosu. «Tutto questo ha un risvolto in termini di costi, ma anche in termini di impegno nel seguire accuratamente il paziente, per valutare in termini di costo (non solo economico) e di efficacia la risposta farmacologica». Federico Mereta _____________________________________________________________ Corriere della Sera 02 Giu. ’13 I RICERCATORI IN PIAZZA «SÌ AI TEST SUGLI ANIMALI» MILANO — Da una parte i camici bianchi di trecento ricercatori, riuniti in convegno per difendere la sperimentazione animale, con in mano i palloncini blu e i volantini. Dall'altra, i cappucci neri delle felpe di una trentina di animalisti «armati» di fischietti, megafoni e bandiere con i teschi. Gli attivisti urlano, accendono fumogeni. Esibiscono immagini raccapriccianti dai test di laboratorio. Si rischia lo scontro, evitato soltanto grazie al cordone di sicurezza formato da poliziotti e carabinieri tra gli applausi degli scienziati. Pomeriggio di tensione, ieri a Milano, in occasione del convegno organizzato da gruppo di giovani medici e studenti, determinati a comunicare con i cittadini i benefici della sperimentazione animale. L'associazione Pro-test Italia — nata su Facebook, sulla falsariga dell'omonima organizzazione inglese — si è ritrovata alla Loggia dei Mercanti, a due passi dal Duomo, con l'obiettivo di «dare voce agli scienziati intimiditi dal crescente estremismo animalista». Il riferimento è al blitz del 20 aprile scorso nei laboratori di Farmacologia dell'Università di Milano per «liberare» alcuni animali, contro il quale sono state raccolte 5.000 firme della comunità scientifica europea. «Dobbiamo uscire dall'isolamento etico: è il momento di parlare alla gente, non siamo disposti a rinunciare ai nostri diritti» spiegano gli scienziati. Soprattutto giovani, impegnati per il progresso e la salute: «Senza ricerca su animali non avremmo avuto le terapie per il cancro al seno né l'insulina che salva la vita a milioni di diabetici» ricorda la presidente dell'associazione, Daria Giovannoni. Sul palco salgono i relatori, citano gli abbattimenti della mortalità e le leggi che già limitano la sperimentazione. Al muro, c'è un cartellone. «I farmaci non crescono sugli alberi». Ma le «parole di razionalismo» dei ricercatori, per tutta la durata dell'evento, vengono coperte dalle grida degli animalisti. «Vergogna, falsa scienza». Accusano: «Spaccare i crani significa progresso?». I turisti osservano stupiti, mentre i«pro-tester» guardano i contestatori: «Saremmo qui per comunicare, ma è impossibile». Giacomo Valtolina _____________________________________________________________ Corriere della Sera 02 Giu. ’13 MICROONDE, SUPER-FREDDO E RADIOFREQUENZA PER DISTRUGGERE I TUMORI Bersagli polverizzati con onde di tutte le lunghezze emesse da aghi guidati da ecografia, Tac e risonanza O perare un tumore «cuocendolo» con il calore delle onde elettromagnetiche. Senza cicatrici, con costi e ricoveri molto ridotti. È possibile grazie all'oncologia interventistica, un settore giovanissimo della medicina (gli albori della disciplina risalgono ad appena una trentina d'anni fa, nella pratica clinica è arrivata di fatto da poco più di dieci anni) su cui l'Italia ha scommesso fin dall'inizio, quando nel resto del mondo pochi ci credevano. Non a caso, proprio nel nostro Paese, a Cernobbio, si è concluso ieri il più importante evento mondiale sul tema, l'Interventional Oncology Sans Frontières Congress: obiettivo, fare il punto sulle tecniche in uso e i risultati ottenuti a oggi, ma anche stilare linee guida condivise e capire quali saranno le prospettive del prossimo futuro, visto che, stando agli esperti, si tratta di un'area della medicina con notevoli potenzialità, oltre che di un settore in cui negli ultimi anni si è investito molto. Tutto è iniziato quando, negli anni 80, i medici pensarono di provare a eliminare il cancro portando un «killer» fin dentro il tumore, senza toccare i tessuti sani intorno. Per i primi tentativi fu scelto l'alcool assoluto, che uccide i tessuti distruggendo l'endotelio che riveste i vasi sanguigni e provocando trombosi dei piccoli vasi: veniva iniettato nelle masse tumorali con semplici aghi, ma non era sempre un valido «sicario», come racconta Luigi Solbiati, organizzatore del congresso di Cernobbio e direttore della Radiologia interventistica oncologica dell'Azienda Ospedaliera di Busto Arsizio: «Sui piccoli epatocarcinomi (tumori nel fegato, ndr) funziona perché il tumore ha una capsula che trattiene l'alcool al suo interno ed è anche ricco di vasi sanguigni; però su tutti gli altri tumori, che non hanno queste caratteristiche, l'alcoolizzazione non è efficace. Così, negli anni 90 si pensò di provare con il calore della radiofrequenza, già usato per eliminare cellule cardiache da cui originano alcune aritmie o per trattare piccoli focolai di epilessia nel cervello». Il concetto è semplice: una sonda-elettrodo si inserisce nel tumore ed emette una radiofrequenza che, a contatto con il tessuto tumorale, produce un calore molto elevato, fino a cuocere, letteralmente, le cellule circostanti, uccidendole. Poco più lontano l'effetto è pari a zero, per cui i tessuti sani vengono risparmiati. «All'inizio riuscivamo a trattare lesioni minime, ma in pochi anni siamo passati dall'eliminare noduli del diametro di un centimetro a trattare lesioni di 4-5 centimetri — racconta Solbiati —. Negli ultimi 10 anni l'esperienza è aumentata tantissimo in tutto il mondo. Nel caso dell'epatocarcinoma i pazienti trattati sono già decine di migliaia e la termoablazione con radiofrequenza è ufficialmente inserita fra le terapie da praticare nelle linee guida di molte società scientifiche». L'oncologia interventistica, grazie anche a metodi più potenti della radiofrequenza, come le microonde e la crioablazione, viene ormai ampiamente utilizzata per il trattamento mini invasivo di metastasi epatiche (se sono localizzate solo al fegato, in numero limitato, di diametro non superiore a 3-4 cm e in caso di scarsa o assente risposta alla chemioterapia), per tumori del rene entro i tre centimetri e, nel polmone, per tumori primitivi e metastasi di piccole dimensioni. Esistono poi numerosi campi in cui l'impiego è promettente e sempre più frequente (si veda box). «Per decidere se l'oncologia interventistica può essere utile nel singolo caso bisogna considerare però diversi parametri, partendo da caratteristiche e dimensioni del tumore — spiega Solbiati —. Se, infatti, la lesione è inferiore ai due centimetri, la probabilità di successo (ovvero di un'eliminazione completa, definita come la non-ricrescita a un anno di distanza dal trattamento) è attorno al 95%; la percentuale scende gradualmente all'aumentare della dimensione, e al di sopra dei cinque centimetri i risultati sono scarsi. Anche il numero di noduli da eliminare conta: se nello stesso organo ce ne sono 4-5 piccoli il trattamento può essere eseguito, ma la terapia è sconsigliabile se i bersagli sono più grandi e numerosi. Da considerare c'è inoltre il rapporto della neoplasia con i tessuti circostanti: se il tumore sporge verso zone che potrebbero essere danneggiate dal calore è preferibile evitare l'ablazione. Meglio ricorrere a un altro metodo anche se il paziente ha caratteristiche che lo mettono a rischio, come una cirrosi avanzata che potrebbe peggiorare con il trattamento, o disturbi della coagulazione, perché in caso di emorragia interna potrebbe essere difficile eseguire un intervento riparativo. L'oncologia interventistica può sembrare semplice, ma va usata secondo indicazioni precise: non può essere utilizzata sempre, altrimenti si rischia di non ottenere risultati validi ed esporre il paziente a gravi rischi». Fondamentale è anche l'esperienza di chi interviene, per ridurre il pericolo di danneggiare tessuti e organi vicini: in Italia i Centri dove viene praticata l'oncologia interventistica sono ormai moltissimi, ma è essenziale rivolgersi a strutture che abbiano una casistica numerosa e in cui siano disponibili tutte le metodiche, per poter scegliere l'opzione terapeutica più adatta a ciascuno. «Questa branca della medicina, essendo ad altissima componente tecnologica, richiede investimenti consistenti per aggiornare gli strumenti: ha senso perciò concentrare gli sforzi solo su alcuni centri di riferimento — interviene Franco Orsi, direttore dell'Unità di Radiologia interventistica dell'Istituto europeo di oncologia di Milano —. Altrettanto importante, far sì che il radiologo interventista non sia un mero esecutore che interviene sul paziente senza averlo visto prima e senza seguirlo dopo: per avere i migliori risultati tutte le fasi della terapia vanno valutate assieme al chirurgo e all'oncologo. Purtroppo spesso arrivano da noi pazienti che non hanno più né aspettative di cura né altre opzioni di trattamento possibili, a cui serve solo la palliazione del dolore in una fase avanzata di malattia: in realtà, con gli strumenti diagnostici attuali è e sarà sempre più semplice individuare i tumori piccoli, a uno stadio iniziale, in cui potrebbe essere vantaggioso questo approccio». Tutto ciò sarebbe utile anche in termini di costi, visto che per un'ablazione con radiofrequenza occorrono 1.000-1.200 euro di materiali e in genere basta un ricovero di una notte. Il bisturi, tuttavia, sottolineano gli esperti, continuerà a essere indispensabile per tanti malati; l'importante è che cominci a diffondersi la consapevolezza che, a volte, si può intervenire anche in questo modo con efficacia. «In molti casi — osserva Orsi — dovremmo poter tentare prima la strada del l'oncologia interventistica, e solo quando questa non dovesse bastare, passare alla chirurgia, invece dell'inverso».