RASSEGNA STAMPA 06/06/2013 CARROZZA: STOP AI TAGLI LINEARI, MA I FONDI SONO POCHI E INCERTI CARROZZA: PIANO PER I RICERCATORI NEL DECRETO SUI GIOVANI CARROZZA: RINVIA A SETTEMBRE I TEST D'INGRESSO ALL'UNIVERSITÀ NON SPARATE SUI DOTTORATI DI RICERCA BENIAMINO MORO: IL CAPITALE UMANO DA VALORIZZARE IN ITALIA UNIVERSITÀ COSTO E QUALITÀ: CHI OFFRE IL RAPPORTO MIGLIORE COSA CAMBIA NEI RAPPORTI ATENEI-SCUOLE CARROZZA: «TUTELARE LE SCUOLE PARITARIE» L'IPERSFERA DEI MATEMATICI FU INTUITA GIÀ DA DANTE LA MENTE DI UNA MEDAGLIA FIELDS STUPIDITÀ DELL'ANTISCIENZA NOI SCIENZIATI, AFFLITTI DA SNOBISMO PERCHÉ L’UNIVERSITÀ PUÒ PARLARE SARDO JOVANOTTI A LETTERE ARRABBIARSI COME UNA SCIMMIA ========================================================= AOUCA: MACCIOTTA, GIÙ IL SIPARIO L'ASSESSORE ALLE ASL: BISOGNA RISPARMIARE, ALT ALLE ASSUNZIONI MEDICINA: CONCORSO NULLO, PARLA IL DOCENTE NUOVO DIRETTORE ALLA ASL OLBIA SULLA SANITA’ DIGITALE L’ITALIA E’ IN RITARDO RISPETTO ALL’UE SANITÀ, CALA LA SPESA DELLE REGIONI MENO VIRTUOSE QUELLE AUTONOME ASSISTENZA A MACCHIA DI LEOPARDO IL MALE DELLA SANITÀ AMERICANA AOUSS: CLINICHE GUARDATE A VISTA DALLA REGIONE VERONESI "LA CURA NON SIA LOTTERIA E SOLO STANZE SINGOLE" DIECI VANTAGGI DI ESSERE CITTADINO DELLA SANITÀ EUROPEA MEDICINA BASATA SUL «VALORE» SE UNA CURA È EFFICACE LO SI STABILISCE NEL TEMPO LA SCOMPARSA DEL DOTTORE STAMINA: IL CIARLATANO ATTACCA LE ISTITUZIONI UNA SPERANZA PER I DIABETICI IL MIDOLLO FA DA PANCREAS LOMBROSO È VIVO E LOTTA INSIEME A NOI: LOMBROSO: I DIFETTI DELLA BICICLETTA SECONDO LOMBROSO UN BATTERIO PER AMICO IL PROFETA DELL'OMEOPATIA CHE SFIDÒ LA MEDICINA DIABETE, CALANO I RICOVERI PER COMPLICANZE ACUTE GLI ANTI-VIRUS DEL FUTURO ALLA FINE UN VIRUS-RNA CI SEPPELLIRÀ NEUROGENESI NEGLI ADULTI? LA CONFERMA ARRIVA DALLA BOMBA COME FU CHE GLI UCCELLI PERSERO IL PENE LO SPERMA POTREBBE ESSERE UN SUPERCIBO NATURALE UN NUOVO ESAME DEL SANGUE PER SCOVARE L’ALZHEIMER DALLE DIMENSIONI DEI VASI DELLA RETINA SALUTE DEL CERVELLO DAGLI USA PASSI IN AVANTI VERSO IL FEGATO ARTIFICIALE PAZIENTI SCELTI IN BASE AI GENI PER SPERIMENTARE I FARMACI ========================================================= _____________________________________________________________ Il Manifesto 07 Giu. ’13 CARROZZA: STOP AI TAGLI LINEARI, MA I FONDI SONO POCHI E INCERTI Roberto Ciccarelli Un piano triennale di assunzioni in ruolo per 133 mila docenti precari a partire dal 2014, valutazione delle prestazioni professionali degli insegnanti collegato al «merito» e non più all'anzianità della carriera, finanziamento pubblico alle 13.657 scuole paritarie di ogni grado (11,2% della spesa per le scuole statali), come se il referendum di Bologna non avesse mandato un segnale in senso diametralmente opposto. Sono le linee guida dell'azione ministeriale che Maria Chiara Carrozza ha esposto ieri durante un'audizione alle commissioni cultura di Camera e Senato. Il ministro dell'Istruzione ha riaffermato l'intenzione del suo predecessore Profumo di bloccare l'emorragia degli abbandoni scolastici oggi al 18,2% contro il 13,4% europeo con tassi altissimi nel Mezzogiorno. Sostiene di volere investire 350 milioni di euro sull'edilizia scolastica creando un «fondo unico» e di riaprire le ganasce della spending review 2012 per assumere i precari all'università, ma solo negli atenei «virtuosi», cioè quelli che sono sotto la soglia del 90% nel rapporto tra i fondi governativi e le spese per il personale. Il nuovo corso di Viale Trastevere comporterà un'altra discontinuità con la stagione gelminiana. La «logica dei tagli lineari» sarà abbandonata e il taglio di 300 milioni di euro che ha messo a rischio di commissariamento 20 atenei sarà recuperato ricorrendo all'«autofinanziamento» degli atenei. Il ministro non ha tuttavia chiarito di cosa si tratti nè ha spiegato dove e quando troverà i soldi per rimediare al taglio di 8,5 miliardi di euro alla scuola e di 1,4 miliardi all'università. L'impressione è che la maggioranza «larghe intese» li consideri irreversibili e si sia avviata ad amministrare un futuro di risorse decrescenti allocando e agli atenei e alle scuole «meritevoli» che risponderanno meglio alla «cultura del rendere conto». In inglese tale cultura si chiama «benchmarking» ed è l'altra faccia della meritocrazia da Gelmini e Profumo. Questa parola è un conio neoliberista e può essere tradotta con «valutazione», ma anche con gestione aziendale delle risorse residuali assegnate dallo Stato all'istruzione. Questo compito spetterà agli atenei e alle scuole e non più solo alla megamacchina dell'Anvur, l'ente creato da Fabio Mussi e perfezionato da Gelmini, che si è trasformato in una burocrazia soffocante. Quello del governo è un moderato riformismo neoliberale che prevede anche l'aumento dei fondi per il diritto allo studio e alle residenze, ma non il cambiamento dei criteri «meritocratici» che fanno temere agli studenti della Rete della conoscenza l'istituzione di un sistema «sanziona- tono e non o ettivo». La Flc-Cgil apprezza il ministro, ma avverte che le carriere del personale non possono essere riformate al di fuori del contratto nazionale. L'Anief chiede l'assunzione dei precari della scuola nel rispetto della direttiva europea che ha messo in mora il nostro paese. ____________________________________________ Il Sole24Ore 07 Giu. ’13 CARROZZA: PIANO PER I RICERCATORI NEL DECRETO SUI GIOVANI In agenda un programma triennale per l'assunzione di 44mila insegnanti e il recupero di 300 milioni per il Fondo degli atenei Eugenio Bruno ROMA Inserire il piano nazionale per i ricercatori nel decreto sul lavoro giovanile che il Governo Letta varerà entro giugno. È l'obiettivo più ravvicinato del ministro Maria Chiara Carrozza. Che ha illustrato ieri, alle commissioni Istruzione riunite di Camera e Senato, le priorità programmatiche della sua avventura a viale Trastevere. Una lunga lista di desiderata per ognuno dei tre settori di competenza: si va dalla scuola e dal programma triennale per assumere 44mila docenti all'università e al recupero dei 300 milioni di tagli agli atenei, fino alla ricerca e alla nascita di un sistema unico nazionale. All'indicazione di questi (e degli altri) target la responsabile del Miur c'è arrivata per gradi. Facendo, innanzitutto, la duplice premessa che «l'istruzione e la ricerca scientifica sono fattori determinanti per lo sviluppo economico» e che «l'impatto del capitale umano sulla crescita economica passa anche per il suo effetto sulla disuguaglianza economica e sociale». E indicando poi in «credibilità, trasparenza e coesione» le parole chiave della sua azione complessiva. Dopo aver auspicato una semplificazione degli assetti istituzionali e della normativa «anche attraverso lo strumento della codificazione», Maria Chiara Carrozza si è soffermata sulle politiche per l'istruzione. Raggruppandole in tre diversi ambiti di interventi. A quelli di sistema, intesi come una maggiore concentrazione di risorse per l'edilizia scolastica (da realizzare anche con le risorse della Bei e della Banca di Sviluppo del Consiglio d'Europa) e un rafforzamento dell'autonomia scolastica, il ministro ha fatto seguire le misure per il personale. E cioè un piano per la formazione dei docenti e un «serio segnale» ai precari: 44mila assunzioni negli anni scolastici 2014/17 che garantiscano «il giusto equilibrio tra assorbimento del personale precario e concorso pubblico». Senza tralasciare gli studenti. A ogni livello. Ed è per questo che accanto ai progetti per combattere la dispersione scolastica o rafforzare le sezioni primavera è comparso il rafforzamento dell'istruzione tecnica e professionale, con un occhio di riguardo per gli Its. Così da rinsaldare la «cerniera scuola/lavoro» che in Italia è «molto carente». Un'esigenza ribadita anche nei capitoli dell'audizione dedicati all'università e alla ricerca. Tant'è vero che nel piano per l'occupazione giovanile, che l'Esecutivo approverà entro fine mese, la responsabile del Miur chiederà di inserire un Piano straordinario per il reclutamento dei ricercatori. Che consisterà in un bando nazionale per l'estensione a 1.000 studiosi operanti in Italia del Programma Rita Levi Montalcini, finora riservato ai candidati attivi all'estero. Con una durata triennale e un costo stimato di 70 milioni annui. Sempre a proposito di risorse, il ministro, da un lato, ha definito «improcrastinabile» il ripristino dei 300 milioni del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) degli atenei, da distribuire non a pioggia ma «come quota premiale» per «migliorare la vita degli studenti e la loro mobilità geografica». E, dall'altro, ha auspicato la nascita di un «sistema nazionale della ricerca». Purché dotato di fondi adeguati. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 08 Giu. ’13 CARROZZA: RINVIA A SETTEMBRE I TEST D'INGRESSO ALL'UNIVERSITÀ Carrozza cambia anche il bonus maturità: sarà più equo Le prove I test di ammissione per le facoltà a numero chiuso sono stati rimandati a settembre: il 3 ad Architettura, il 4 per le Professioni sanitarie (queste sono le uniche prove che erano già programmate per settembre), il 9 a Medicina e Odontoiatria, il 10 a Veterinaria. Verranno riaperte le iscrizioni Il bonus Verrà modificato, rendendolo «più equo» anche il «bonus maturità» introdotto da quest'anno, che prevede un premio tra 4 e 10 punti in base al voto di maturità e la scuola in cui è stato conseguito. Invece di essere calcolato con un sistema che tiene conto dei voti ottenuti in quell'istituto l'anno precedente valuterà quelli assegnati nell'anno in corso ROMA — Si faranno a settembre i test d'ingresso alle università a numero programmato, come da tradizione, e non dal 23 al 25 luglio, come invece aveva previsto un decreto dell'ex ministro dell'Istruzione Francesco Profumo. E sarà anche modificato in senso «più equo» il bonus maturità, quei punti, da 4 a 10, assegnati ai maturi più meritevoli. Il tutto sarà contenuto in un decreto dell'attuale ministro Maria Chiara Carrozza che verrà firmato mercoledì. Tornano quindi a settembre i test, il 3 ad Architettura, il 4 (ma in questo caso la data resta la stessa perché non era stata anticipata) per le Professioni sanitarie, il 9 a Medicina e Odontoiatria, il 10 a Veterinaria. Questo significa che si riaprono le iscrizioni che si sono chiuse ieri (anche per questo era importante annunciare subito lo slittamento delle date a settembre): in sostanza, il decreto manterrà la graduatoria nazionale ma prevede l'emanazione da parte delle università di nuovi bandi entro il 25 giugno e, lo stesso giorno, la riapertura delle iscrizioni on line sul portale university. La scadenza sarà fissata per il 18 luglio mentre entro il 25 bisognerà pagare il contributo di iscrizione presso le singole università. Nello stesso decreto sarà modificato il bonus maturità, ed è anche per questo che si è dovuti intervenire sulle date dei test, spiega il ministro Carrozza, altrimenti «se li avessimo fatti a luglio non avremmo avuto i risultati della maturità di quest'anno». Il bonus è contenuto in un decreto legislativo a firma dell'ex ministro Giuseppe Fioroni ed è stato introdotto quest'anno dal ministro Profumo per premiare gli studenti più meritevoli. La norma, ha detto l'attuale ministro Carrozza, «non si può cancellare perché non ci sono i tempi tecnici per intervenire sul decreto legislativo» ma il sistema di assegnazione dei punti va cambiato perché così come era stato pensato, protestavano da giorni gli studenti, con l'assegnazione da 4 a 10 punti esclusivamente ai candidati che ottengono un voto almeno pari a 80/100 ma rapportato alla distribuzione in percentili dei voti ottenuti dagli studenti che hanno conseguito la maturità nello stesso liceo o istituto lo scorso anno, finiva per creare enormi disparità tra istituto e istituto e tra città e città. È probabile (una commissione è al lavoro in questi giorni) che l'assegnazione dei punti non sarà più sui percentili dell'anno precedente ma sui voti assegnati dalla commissione esaminatrice di quest'anno. I percentili potrebbero entrare nel calcolo solo per stabilire chi potrà accedere al bonus. Maria Chiara Carrozza rassicura tutti: «Sarà più equo». Esultano gli studenti. Michele Orezzi, coordinatore nazionale dell'Udu giudica positivamente l'iniziativa del nuovo ministro: «Era davvero poco comprensibile chiedere agli studenti di effettuare una scelta vincolante sul percorso universitario a pochi giorni dall'esame di maturità. Ora però resta da affrontare il nodo del punteggio assegnato al voto di maturità. E sullo sfondo, per noi rimane sempre fermo l'obiettivo di eliminare del tutto il numero chiuso». Soddisfatti anche i rettori. Luigi Frati, rettore della Sapienza, ritiene che il rinvio sia una scelta di «buon senso e pragmatismo»; «il decreto Profumo presentava profili di criticità» e anche riguardo al bonus, continua Frati, «pur riconoscendo a Profumo di aver cercato di valorizzare il percorso di studi del liceo per accedere all'università, la scelta della graduatoria nazionale ha celato alcune criticità». Tuttavia, conclude il rettore, «il sistema del numero chiuso resta l'unico valido se vuoi stare in Europa». Mariolina Iossa _____________________________________________________________ Gazzetta del Mezzogiorno 07 Giu. ’13 NON SPARATE SUI DOTTORATI DI RICERCA di GIULIANO VOLPE RETTORE DELL'UNIVERSITÀ DI FOGGIA Gli studi umanistici in Italia contano su una lunga gloriosa tradizione. È però diffuso il pregiudizio che la ricerca coincida quasi esclusivamente con le scienze esatte e con le tecnologie. Tale pregiudizio si concretizza in numerosi interventi di natura politica e finanziaria: dalla scarsità di finanziamenti alla quasi totale esclusione dai principali progetti europei, dalla spinta verso strategie autonome di ricerca di finanziamenti nel settore privato, che certamente privilegia discipline più facilmente `monetizzatili', alla definizione dei criteri bibliometrici preposti alla valutazione. Nel momento in cui le scienze umane sono rappresentate e sentite come inutili, il rischio di marginalizzazione sociale è assai forte. Il recente decreto sui dottorati di ricerca costituisce una nuova tappa del progetto di destrutturazione del sistema universitario nazionale e di dissoluzione di alcuni ambiti disciplinari, come le discipline umanistiche. Il dottorato di ricerca rappresenta il terzo livello della formazione superiore e la prima tappa verso la ricerca e dovrebbe consentire di acquisire una formazione di elevata specializzazione con la realizzazione di una ricerca innovativa di altissimo profilo. In Italia l'esperienza è partita nel 1983 ed è giunta al 29° ciclo, dopo vari cambiamenti: in origine i dottorati erano settoriali, per lo più organizzati da varie università consorziate; il titolo era rilasciato dal ministero con una prova finale valutata da una commissione nazionale. Poi si è passati a dottorati locali con titoli rilasciati dalle singole università. Il nuovo decreto introduce novità opportune, come l'eliminazione di un'eccessiva frammentazione localistica, la garanzia di alti livelli di qualità con un accreditamento da parte dell'ANVUR, la presenza di collegi dei docenti composti da non meno di 16 studiosi. Le noti dolenti sono relative all'obbligo di dotare ciascun corso di non meno di 6 borse e all'oggettiva difficoltà di dar vita a corsi inter-ateneo e/o a consorzi. È facile prevedere che le università diano vita a corsi di dottorato generalisti (ad es. in scienze umanistiche o in economia), prevalentemente su base locale. L'obiettivo, non dichiarato ma esplicito, consiste nel favorire una differenziazione più netta tra poche università di ricerca, nelle quali attivare anche i dottorati, e università di insegnamento, condannate ad un livello quasi liceale. Una politica che danneggia in particolare le università meridionali. È un errore grave che non tiene conto della presenza di eccellenze in tante piccole sedi. Il rischio concreto è che si organizzino corsi basati su un opportunistico assemblaggio di discipline diverse, falsamente interdisciplinari. Ed è facile prevedere che saranno soprattutto le discipline umanistiche a soffrire maggiormente, non potendo contare su accordi con le imprese o su altre forme di finanziamento esterno. C'è da chiedersi: perché per un corso di dottorato in filosofia teoretica o in paleografia non si possono prevedere 2-3 borse? Perché condannare settori specialistici, apprezzati in tutto il mondo, costretti ad associarsi ad altri, perdendo la loro specificità, pur di mettere insieme 6 borse? Perché non può essere possibile un'aggregazione tra più università intorno ad un progetto specialistico di qualità, destinando 1- 2 borse ciascuna e non le 3 previste dal decreto? Si tratta di norme e limitazioni incomprensibili, se non alla luce della volontà di impedire la sopravvivenza di alcuni ambiti disciplinari. Ancora una volta non si valuta la qualità ma si introducono parametri quantitativi e regole burocratiche, che nulla hanno a che fare con l'eccellenza della ricerca. È in gioco il futuro non solo della ricerca in determinati ambiti, ma anche di numerosi bravi giovani ricercatori. Dopo un lungo periodo di attesa, il decreto è stato emanato in prossimità dei bandi del 29° ciclo, costringendo le università ad un tour de force per rivedere i regolamenti entro 45 giorni e per candidarsi all'accreditamento entro ulteriori 45 giorni, con il rischio di operazioni affrettate e incoerenti. Perché non consentire di progettare i nuovi dottorati con più calma e un maggior approfondimento, con la possibilità di costruire aggregazioni di qualità? Non resta che sperare che la nuova ministra Maria Chiara Carrozza, certamente meno legata ad una visione tecnocratica e settoriale dell'Università del suo predecessore, voglia rimettere mano a questa come ad altre norme 'punitive' di questi ultimi anni. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Giu. ’13 UNIVERSITÀ COSTO E QUALITÀ: CHI OFFRE IL RAPPORTO MIGLIORE Bocconi è la più cara e la più qualificata. Studiando medicina e ingegneria a Bologna si porta a casa una buona laurea a un prezzo conveniente DI ISIDORO TROVATO D isporre di parametri oggettivi può rendere più agevole una scelta. Avere un'unità di misura per valutare meglio le nostre università potrebbe aiutare l'intero sistema a crescere. Il concetto di confronto comparativo tra atenei, facoltà e corsi di laurea (un tabù fino a qualche anno fa) è finalmente passato, ma ancora non ci sono pareri unanimi sull'unità di misura di valutazione. Per esempio, come si pesa la qualità? Con ranking internazionali o in base al costo della retta? Pagare tanto è sinonimo di qualità? È partendo da questi interrogativi che nasce «Universities Europe» il portale dedicato alle università europee dove chiunque sia interessato a studiare in Europa può trovare informazioni su facoltà, tasse accademiche, oltre a un confronto tra costo e qualità dell' insegnamento in tutti gli atenei europei, sulla base di dati provenienti da ranking internazionali. Il portale (www.universitieseurope.net) fa parte di Vaigroup, un incubatore di idee con sede a Dublino ma con una «anima italiana», visto che è nato a Roma e composto da molti italiani. Il criterio Lo staff di Universities Europe ha confrontato il costo annuale delle facoltà italiane di medicina, biologia, ingegneria meccanica ed economia con il posizionamento delle rispettive nel ranking universitario QS per area (2012). Ne vengono fuori delle rilevazioni che emergono sulla base dell'UE Ranking (Universities Europe ranking). L'UE Ranking è l'indice creato da Universities Europe per definire il tasso di convenienza delle università europee. Si tratta di un coefficiente che varia tra 1 e 144. Più il valore è vicino a 1 più è conveniente studiare nell'università di riferimento. Invece, più il valore tende verso il 144 più il livello di convenienza risulta essere basso. Le informazioni circa le tasse accademiche provengono dai siti ufficiali delle università e sono mostrate nel loro ammontare massimo e minimo, considerando la provenienza geografica degli studenti (le tasse sono, di norma, maggiori per gli studenti extra-Ue). Le facoltà sono state ordinate dalla più alla meno costosa, sulla base del valore massimo delle tasse accademiche in ognuna di esse. Per le università che non appaiono nel ranking universitario QS per area è stato attribuito il valore standard contrassegnato con il 602. Le facoltà italiane di Economia sono 46, quelle medicina 36, quelle di biologia 34 mentre quelle di ingegneria meccanica sono 28. In campo economico solo 3 delle 46 Università italiane (meno del 7%) appaiono nel ranking internazionale QS 2012 . Invece per le discipline mediche, 17 delle 36 nostre Università (il 47%) appaiono nel ranking internazionale QS. Uno quota più o meno identica (16 su 34) si riscontra anche per la disciplina biologia e una percentuale più alta (circa il 54%) si registra per l'ingegneria meccanica visto che 15 delle 28 Università italiane appaiono nel ranking internazionale QS 2012. Chi vince Nel campo dell'economia il risultato è, per certi versi scontato: l'Università Bocconi di Milano è la più costosa tra le facoltà di economia italiane (11 mila euro annuali) ma risulta anche una delle più alte nel ranking QS (17°). Non sempre al costo alto corrisponde un ranking internazionale adeguato. Anzi. Per quanto riguarda le facoltà italiane di medicina, l'Università di Bologna Alma Mater Studiorum, con un ammontare massimo di tasse accademiche di poco superiore ai 2 mila euro annuali e al 194° posto del ranking qualitativo QS, è l'università più conveniente dove studiare in Italia in termini di qualità/costo. Il valore del suo Ue Ranking è infatti pari a 60. L'ultima facoltà esaminata, ingegneria meccanica, vede al primo posto di convenienza ancora una volta L'Università di Bologna Alma Mater Studiorum. «Abbiamo provato a comparare tre dati — spiega Carlo Amicucci, ceo della società Vai Group di cui fa parte Universities Europe — il costo delle rette universitarie, il posizionamento Qs, ranking internazionali delle migliori università del mondo, suddivisi in base alla relativa disciplina e la valutazione del Censis. Non pretendiamo che si tratti di un metodo infallibile nella valutazione di convenienza di una facoltà di un corso di laurea. Però offriamo un buon punto di riferimento: i tre parametri che incrociamo sono super partes e quindi cerchiamo di fornire pareri oggettivi e affidabili». _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 Giu. ’13 BENIAMINO MORO: IL CAPITALE UMANO DA VALORIZZARE IN ITALIA Tra il 2001 e il 2011 il numero di laureati occupati in Germania è cresciuto di due milioni e mezzo, salendo a 7,7 milioni, con un incremento di quasi il 50% in un decennio. Contemporaneamente, il tasso di disoccupazione dei laureati, anche nell'attuale periodo di crisi, è crollato al 2,4%, che di fatto viene considerato corrispondere alla piena occupazione. Ciò è confermato dal fatto che, in caso di perdita di lavoro, circa la metà dei disoccupati con laurea trova un nuovo impiego in meno di tre mesi, mentre solo il 12% aspetta più di un anno. Questi dati collocano la Germania ai primi posti in Europa per l'accumulazione del capitale umano. Per capitale umano s'intende l'insieme delle competenze, sia tecnico- scientifiche, sia culturali (storiche, economiche, giuridiche e politiche) possedute dalla popolazione di un dato Paese. Le prime, spesso, si traducono in brevetti industriali, che vengono sfruttati per aumentare la produzione di beni e servizi che si possono comprare sul mercato. Le grandi scoperte hanno sempre generato, dopo qualche tempo e in maniera del tutto imprevedibile, grandi cambiamenti della nostra società. E anche senza aspettare tempi lunghi, l'imprescindibile sinergia tra scienza e tecnologia è un motore costante dell'innovazione che produce risultati immediatamente vantaggiosi per la società. Da un lato, il capitale umano viene utilizzato per produrre le svariate migliaia di beni e servizi che noi possiamo comprare nel mercato e che consumiamo tutti i giorni nelle nostre case, quando ci muoviamo da una parte all'altra del mondo, nonché quando interagiamo nella vita sociale e comunitaria. Dall'altro, le conoscenze si traducono in un aumento della cultura generale, che ci consente di organizzare la vita della società in cui viviamo nel rispetto delle regole, nel rispetto reciproco e nello svolgimento ordinato e corretto dei rapporti umani, sia tra le persone, sia in relazione all'ambiente naturale in cui siamo immersi. In Italia, dai dati di Almalaurea, emerge purtroppo come l'accumulazione del capitale umano sia ancora insoddisfacente. Tra i paesi Ocse, infatti, siamo agli ultimi posti per la quota di laureati sulla popolazione attiva totale (15%), e lo siamo sia per la fascia di età 55-64 anni (10%), sia per quella più giovane di 25-34 anni (22%). Siamo ben lontani dall'obiettivo europeo del 40% entro il 2020 e molto distanti dai Paesi dove i laureati superano il 40% della popolazione attiva, come gli Stati Uniti e il Giappone, o dove questa percentuale oscilla tra il 30-40% come negli altri principali Paesi europei (oltre alla Germania, anche il Regno Unito, la Spagna e la Francia). Si tenga presente che l'evoluzione tecnologica sta penalizzando l'occupazione e i redditi delle qualifiche più basse. Nell'UE27, oltre il 29% degli occupati sono laureati, con punte del 37% nel Regno Unito e in Spagna. In Italia, invece, la percentuale di occupati laureati sul totale scende al 17,6%. (...) Dagli stessi dati, inoltre, emerge come le retribuzioni aumentino col livello d'istruzione, il che prova che studiare e istruirsi rende anche economicamente parlando. Da ciò ne consegue che per riavviare la crescita e superare la grave crisi economica in atto, oltre ai provvedimenti congiunturali di rilancio della domanda aggregata, occorrono anche provvedimenti strutturali volti ad elevare la soglia di formazione del capitale umano del Paese. A tal fine, diventa essenziale promuovere un più ampio accesso all'Università. Quest'ultima, come hanno sostenuto i Rettori in una recente mozione, dopo quattro anni di tagli versa in uno stato drammatico. Il presidente del Consiglio Enrico Letta, all'atto del suo insediamento, ha promesso che s'impegnerà a riportare su livelli adeguati la spesa in istruzione, ricerca e cultura, minacciando di dimettersi qualora non vi dovesse riuscire. Anche il ministro Carrozza ha minacciato le dimissioni se non riuscirà a dirottare più risorse verso la scuola e l'istruzione. Resta da vedere se alle promesse seguiranno davvero i fatti. Beniamino Moro _____________________________________________________________ Avvenire 07 Giu. ’13 CARROZZA: «TUTELARE LE SCUOLE PARITARIE» DA MILANO PAOLO FERRARIO Occorre salvaguardare il ca« 01;0 rattere plurale del nostro sistema di istruzione attraverso misure volte a tutelare la qualità e l'inclusività anche delle scuole pubbliche paritarie». Lo ha detto ieri il ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza, presentando le linee programmatiche del proprio mandato alle commissioni riunite Istruzione e Cultura del Senato e della Camera. Il ministro ha ricordato anche lo stato del finanziamento pubblico alle paritarie, previsto dalla legge 62 del 2000, che ha stabilito che «il sistema pubblico di istruzione è composto dalle scuole statali e dalle scuole paritarie». Per le 13.657 scuole paritarie, lo Stato prevede un finanziamento che, nel 2012, è stato di 510 milioni di euro, pari a circa 1'1,2%, ha ricordato Carrozza, della spesa relativa alle scuole statali. A fronte, però, del fatto che le paritarie contano 1.042.000 alunni, circa il 12% dell'intera popolazione scolastica. È evidente, insomma, la sproporzione tra quanto questi istituti danno, in termini di servizi educativi e quanto ricevono sotto forma di contributi statali. «Il tetto più alto dei finanziamenti — ricorda don Francesco Macrì, presidente della Fidae, la federazione della scuole paritarie cattoliche, che associa più di 2.500 istituti, con 40mila alunni e 30mila docenti — è stato raggiunto nel 2002 con 550 milioni di euro. Da allora è sempre diminuito mentre le spese a carico delle scuole sono progressivamente aumentate». Sul tavolo del ministro delle Finanze, c'è un'ulteriore sforbiciata per 82 milioni di euro, che le scuole sono impegnate a scongiurare. Anche il ministro Carrozza ha inviato una lettera al collega Fabrizio Saccomanni per fare chiarezza sull'effettiva entità dei fondi a disposizione. «Abbiamo già chiesto la convocazione del Tavolo tecnico del ministero — prosegue don Macrì — per ribadire l'importanza delle scuole paritarie. Non soltanto dal punto di vista educativo ma anche economico. Grazie alla nostra presenza, infatti, ogni anno lo Stato risparmia tra i 6 e i 7 miliardi di euro, che altrimenti dovrebbe spendere per garantire l'istruzione ai nostri studenti». Nel suo lungo intervento in Parlamento, il ministro Carrozza ha parlato anche delle scuole dell'infanzia, «che hanno un valore importante per le famiglie, soprattutto in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo». In particolare, il ministro si è soffermato sul finanziamento delle sezioni Primavera, attivate a partire dal 2007 per i bambini tra i 24 e i 36 mesi. Attualmente, ha ricordato, gli stanziamenti sono fissati in 12 milioni l'anno per il triennio 2013- 2015. «Proporrò — ha annunciato Carrozza — di portare tale stanziamento a 20 milioni annui a decorrere dal 2015». Una buona notizia per le circa 2mila sezioni Primavera aperte in Italia e, soprattutto, per le famiglie dei 25mila bambini che le frequentano. «È senz'altro una proposta intelligente sia dal punto di vista educativo che del contenimento della spesa pubblica», commenta Leonardo Alessi, consigliere nazionale della Fism, la Federazione delle scuole materne cattoliche, a cui fanno capo più di 700 sezioni Primavera. Alessi ricorda che, dal 2007 a oggi, «i fondi sono stati più che dimezzati», passando da 30 agli attuali 12 milioni di euro, e che, quindi, l'iniziativa del ministro «può incentivare anche le Regioni a incrementare la propria quota di finanziamenti». _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 03 Giu. ’13 COSA CAMBIA NEI RAPPORTI ATENEI-SCUOLE Strategica la valutazione del percorso scolastico Bachisio Porru * Molte le novità che attendono quest'anno gli studenti che parteciperanno alle prove di ammissione ai corsi di laurea a numero programmato. Oltre all'anticipo di un mese delle prove fissate per fine luglio, subito dopo degli esami di maturità, viene introdotto, nella formazione delle graduatorie, un punteggio di valutazione del percorso scolastico (10%) insieme a quello di valutazione degli elaborati (90%). Saranno le stesse Università ad attribuire ai candidati un massimo di 10 punti per la carriera scolastica sulla base di un meccanismo (in percentili) che attribuisce il bonus a partire dal voto di diploma ma con correttivi matematici per evitare che siano avvantaggiati coloro che hanno conseguito il diploma in scuole di manica larga piuttosto che maggiormente severe, distribuite statisticamente, le prime al centro sud e le seconde al nord, nord/est. Il problema esiste. L'estate deciderà se la soluzione è adeguata. Molti studenti si preparano ai test già dagli anni precedenti e saranno comunque avvantaggiati. Arduo ipotizzare che una prova importante come quella dei test di ammissione ai corsi di laurea più ambiti possa essere preparata tra la fine degli esami di maturità e l'ultima settimana di luglio. Manuale di istruzioni per l'uso… Già le scuole più organizzate propongono agli studenti corsi di riallineamento tra le competenze previste in uscita da un corso di scuola secondaria e quelle in entrata in quel corso di laurea. Le università più virtuose vanno alla ricerca degli studenti migliori offrendo soggiorno gratuito insieme alla frequenza di corsi di preparazione specifici e con l'intento più o meno esplicito di “accaparrarsi” le eccellenze da tutta Italia. Ci sono poi vari enti e società che propongono, un po' ovunque, corsi mirati di durata annuale. È necessario scegliere i migliori testi per preparare la prova. Bisogna evitare di scegliere un volume a caso. Il manuale deve essere il più specifico e il più aggiornato possibile e dotato di un eserciziario specifico di test. Alcuni propongono la serie storica dei test, proposti nei vari anni, sotto forma di schede di esercizio. Fondamentali per corsi come medicina. Il Miur, col DPR 334/'13, indica, facoltà per facoltà, gli ambiti tematici intorno a cui si concentreranno i vari quesiti proposti. Viene richiesta una buona cultura generale con attinenze all'ambito letterario, storico-filosofico, sociale e istituzionale, nonché la capacità di analisi su testi scritti e sulle attitudini al ragionamento logico- matematico. E solo dopo (per medicina ad esempio) a conoscenze, abilità e competenze riferibili alle discipline scientifiche quali Biologia, Chimica, Fisica e Matematica. La scuola italiana non ha ancora sposato la deriva dello specialismo fine a se stesso. Tiene ben ferma la visione generale della cultura muovendo alle specializzazioni da questo approccio che persino l'Europa ha riconosciuto come estremamente valido già nel famoso libro bianco di J. Delors. Infine è importante avere buona familiarità con i test. L'esercizio in questo caso è determinante e purtroppo non tutte le scuole preparano i propri studenti a queste prove, anche per un evidente pregiudizio verso la cultura della valutazione e dell'Invalsi in particolare. * Presidente Associazione nazionale presidi, Sardegna _____________________________________________________________ Repubblica 9 Giu. ’13 L'IPERSFERA DEI MATEMATICI FU INTUITA GIÀ DA DANTE PIERGIORGIO ODIFREDDI Dan Brown, beniamino di centinaia di milioni di lettori in tutto il mondo, è stato in questi giorni a Firenze. Il suo nuovo libro, sesto dei suoi romanzi e quarto della serie dedicata all'investigatore Robert Langdon, sta già in vetta alle classifiche. Si chiama Inferno e parla ovviamente di Dante e della sua opera. Anche senza volerne svelare le avvincenti e mozzafiato avventure, possiamo almeno dire che esse iniziano con una mappa dell'Inferno disegnata da Botticelb verso la fine del Quattrocento, che rappresenta il regno dei morti come una specie di imbuto. Verso la fine del Cinquecento, e più precisamente ne11588, anche Galileo tenne Due lezioni all'Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante. E scopi'', sulla base degli indizi disseminati dal poeta, che l'Inferno ha la forma' di un cono a sezione triangolare equilatera, con il vertice nel centro della Terra e l'altezza passante per Gerusalemme. Per buona misura, la base individua un cerchio che passa nelle vicinanze di Cuma: dal che Galileo dedusse che qui doveva trovarsi la Selva Oscura, perdendosi nella quale Dante iniziò la sua avventura nei tre regni dei morti. Tre secoli e mezzo dopo, agli inizi del Novecento, matematici meno titolari di Galileo hanno scoperto anche la forma del Paradiso. Si tratta di una sfera a tre dimensioni, che Dante immagina come due serie di sfere concentriche (i cieli mondani e quelli celesti), esattamente come la sfera a due dimensioni si può rappresentare sulle carte come due serie di cerchi concentrici (i paralleli dei due emisferi). Con mezzo millennio di anticipo, Dante aveva dunque forse intuito la forma che i matematici chiamano ipersfera. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 09 Giu. ’13 LA MENTE DI UNA MEDAGLIA FIELDS In una avvincente autobiografia intellettuale iI percorso che ha portato Cédric Villani a ricevere il massimo riconoscimento per un matematico Al centro del suo lavoro l'equazione di Boltzmann, «la più bella del mondo», che definisce l'entropia e l'irreversibilità dei fenomeni Umberto Bottazzini Cosa fa un matematico? Qual è la sua vita di ricercatore? Come arriva ai suoi risultati? Se ve lo siete mai chiesto, leggete questo libro di un matematico giovane e geniale come Cédric Villani. Il teorema vivente è, infatti, il racconto appassionante della «genesi di un lavoro matematico, dal momento in cui si decide di lanciarsi nell'avventura» fino a quando vede la luce l'articolo che annuncia il nuovo risultato. In questo caso, un lungo articolo e un risultato d'eccezione, tanto profondo e originale da valere al suo autore la medaglia Fields, l'ambito premio che, in assenza di Nobel della disciplina, sanziona l'eccellenza e consacra chi la ottiene nell'Olimpo dei grandi matematici. Leggendo il libro di Villani scoprirete che «il cammino del ricercatore, lungi dal seguire una traiettoria rettilinea, procede per un sentiero fatto di ostacoli e deviazioni, come spesso accade nella vita di tutti i giorni». Fin dalle prime pagine, con un racconto che ha l'immediatezza di una cronaca, Villani presenta l'argomento dominante delle sue riflessioni, l'equazione di Boltzmann, a suo dire «la più bella equazione del mondo». Un'equazione che compare nei campi più diversi, dalla fisica statistica alla meccanica dei fluidi, la probabilità e la teoria dell'informazione, e genera un mondo matematico di cui Villani conosce ogni dettaglio. Scoperta verso il 1870, quel l'equazione spiega il comportamento di un gas composto di miliardi di particelle che interagiscono tra loro. Boltzmann introdusse poi la nozione statistica di entropia, in un certo senso una misura del disordine, e servendosi della sua equazione dimostrò che, fissato arbitrariamente uno stato iniziale, l'entropia doveva aumentare nel corso del tempo. «In termini figurati, dice Villani, il gas, lasciato libero, diventa sempre più disordinato e questa evoluzione è irreversibile». Nelle mani di Boltzmann, l'interpretazione matematica della "misteriosa entropia" si rivelò estremamente feconda: gli consentì di formulare in maniera matematicamente rigorosa la seconda legge della termodinamica, scoperta sperimentalmente qualche tempo prima, e di "riconciliare", come scrive Villani, «la fisica microscopica – imprevedibile, caotica e reversibile – con la fisica macroscopica, prevedibile e irreversibile». Questo il complesso di problemi che sta sullo sfondo del progetto di ricerca che Villani affronta valendosi della collaborazione di un suo ex- studente di dottorato a Lione. Centinaia e centinaia di e-mail dal contenuto inabbordabile per il lettore comune, scambiate da una parte all'altra del mondo, testimoniano dei passi via via compiuti e, insieme, delle esitazioni, i dubbi, le "cattive notizie" su calcoli che non tornano, i vicoli ciechi e la ricerca di "nuove astuzie" per superare i problemi e uscirne. «In matematica spesso è come in un romanzo poliziesco o in un episodio del Tenente Colombo: il ragionamento grazie al quale il detective smaschera l'assassino è importante almeno quanto la soluzione stessa del mistero», commenta Villani a proposito di un certo teorema, "un enunciato astratto", che tuttavia «si colloca bene nella realtà, in una tematica di importanza teorica e pratica considerevole», e che egli conta di dimostrare. «Devo verificarlo bene, questo calcolo, sarà sicuramente falso, quindi aspettiamo domani! Accidenti bisognerà rifare tutto» confessa a un certo punto con aria desolata Villani. È un racconto emozionante anche per il lettore non matematico, che s'imbatte in pagine piene di formule astruse e incomprensibili. Come quando Villani confessa: «ho le vertigini davanti alla complessità che si erige davanti a me». I calcoli evidenziano fenomeni inaspettati: «non ho mai sentito parlare di una cosa del genere, non è negli articoli e nei libri che ho letto». E poi le incertezze: «un particolare calcolo, sul quale contavo davvero, non funziona più, devo essermi sbagliato. Grave o non grave?». La sensazione di dover abbandonare l'impresa di fronte a difficoltà insormontabili, e la gioia quando anche «l'ultimo grande lucchetto concettuale è saltato» e si entra in una nuova fase: occorre «consolidare, rinforzare, verificare, verificare, verificare... ». Ma gli errori, e i "buchi" nelle dimostrazioni sono sempre in agguato. Le nuove versioni del lavoro si moltiplicano nel tempo, l'entusiasmo si alterna alla disperazione, e di nuovo all'euforia e poi alla delusione quando il lavoro è rifiutato da una prestigiosa rivista. La rapida riscrittura, tutto rifatto, semplificato, migliorato in preda a uno stato di esaltazione per aver avuto ragione delle difficoltà. Il racconto in prima persona è intervallato da pagine di formule e note storiche che dipingono ritratti dei matematici, viventi e del passato, con i quali egli interagisce nel corso della ricerca. Lungo il "sentiero" percorso da Villani nella sua "grande avventura" i sogni e le letture s'intrecciano con le conversazioni con colleghi, i dubbi con le congetture matematiche, l'esposizione di risultati in seminari specialistici con la quotidianità della vita, le questioni amministrative, i figli da prendere a scuola. È lungo il "sentiero" che, dal suo laboratorio nella Scuola Normale Superiore di Lione, attraverso Kyoto, New York, Princeton e Parigi lo conduce a Hyderabad, sede del Congresso Internazionale dei Matematici 2010, dove la medaglia Fields corona lunghi anni di ricerca: «è il momento più importante della mia vita professionale, quello che i matematici sognano, senza osare confessarlo a se stessi». E con un tocco di civetteria ricorda che in quel momento il suo ritratto appare su uno schermo gigantesco: come si vede anche nella copertina del libro, Villani ama vestire in modo eccentrico, una cravattona rosso carminio, annodata in un fiocco enorme degno – a parte il colore – degli anarchici dell'Ottocento che trabocca su una giacca tre quarti con appuntata una grande spilla a forma di ragno, nella circostanza, «bianco con sfumature malva». E a Hyderabad l'avventura si è momentaneamente conclusa: dopo il buio che caratterizza l'inizio di un progetto matematico, s'intravede una flebile luce e poi, «se tutto va bene, si dipana il filo ed eccoci arrivati all'aperto in piena luce!». © RIPRODUZIONE RISERVATA Cédric Villani, Il teorema vivente. La mia più grande avventura matematica, Rizzoli, Milano, pagg. 284, € 19,00 _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 09 Giu. ’13 STUPIDITÀ DELL'ANTISCIENZA Non basta fare della buona divulgazione: bisogna affrontare i luoghi comuni e i pregiudizi che investono la più solida fonte di conoscenza Gilberto Corbellini Di cosa effettivamente si discute quando si argomenta pro o contro qualche aspetto di quel complesso e potente sistema culturale che è la scienza? Si dovrebbe prendere atto del fatto che chi è già disposto a riconoscere i benefici della scienza, se gli si ricorda in virtù di quali caratteristiche gli approcci scientifici producono risultati positivi più o meno riconosciuti, non ricava un miglioramento nella comprensione dei motivi per cui altri la pensano diversamente. Può scoprire qualche nuovo esempio, confermando il suo apprezzamento per la scienza, ma si troverà poi in difficoltà quando qualcuno gli citerà esempi che vanno contro le posizioni tradizionali in favore della scienza, o che ne avvallano di contrarie. Da questo punto di vista, il lavoro di divulgazione scientifica è inesauribile. Chi, d'altra parte, pensa che la scienza abbia anche, o soprattutto, causato danni, o pensa si tratti di una forma di conoscenza come le altre e addirittura che si starebbe meglio senza di essa, non sarà convinto da argomenti di natura empirica e paradossalmente nemmeno dalla constatazione che nei paesi in cui non esiste ricerca scientifica le persone hanno meno lavoro, sono meno libere e meno in salute. Così come non lo sarà l'intellettuale che si crede colto perché ben nutrito di cultura umanistica e snobisticamente giudica la scienza un sapere inferiore. È probabile che per difendere in modo un po' più efficace la scienza sia da critiche ottuse sia da riserve apparentemente illuminate si debbano provare nuove strade. Non più solo spiegare come funziona e che cosa può, cioè perché la scienza funziona. Si devono anche prendere di petto le critiche e i luoghi comuni su cui si fondano gli attacchi alla scienza: sia al suo statuto epistemologico, sia al suo valore sociale, e quindi anche morale. Ho trascorso anch'io anni giovanili, quelli dell'immaturità, a compulsare argomenti a favore dell'esistenza di una realtà non conoscibile con i metodi della scienza e a sperare che il mondo dell'esperienza umana fosse manipolato da qualcosa di irriducibile a processi materiali governati dal secondo principio della termodinamica. Per anni ho tentato di confutare a me stesso l'idea che la scienza moderna costituisca la più significativa e influente novità culturale della storia umana. Mi sembrava un'idea banale e non mi capacitavo del perché in così pochi ci avessero pensato. Se la stragrande maggioranza degli intellettuali pensa il contrario, cioè sminuisce il valore della ricerca e della conoscenza scientifica, qualcosa mi sta sfuggendo, mi dicevo. A un certo punto ho deciso di arrendermi di fronte alle prove soverchianti che indicano come la scienza abbia cambiato in meglio, e di molto, la storia umana, e che questo impatto positivo sia stato possibile perché è estranea al modo umano più spontaneo di pensare. Da questa condizione dipende anche il fatto che la presenza e influenza della scienza nella società non sia quasi percepita. Conoscendo l'atmosfera di molte discussioni colte sulla scienza, confesso di divertirmi sempre meno nel compiacere, anche solo prendendolo spesso di mira, il diffuso misoneismo vittimista che fa tanto snob e identifica nella scienza o nella "tecnoscienza", come si dice oggi, la causa dei principali mali del mondo. Né mi diverto a discutere l'assurda questione di come si potrebbe fare per indirizzare la ricerca scientifica verso risultati che siano prevedibili in anticipo e anche utili o desiderabili. Questo saggio riflette un modo di ragionare sulla natura e la funzione sociale della scienza che è quello di uno storico con interessi filosofici, il quale ha provato a cimentarsi con la sfida di far emergere la razionalità, l'efficacia esplicativa e i benefici generalizzati prodotti dalla scienza prendendo spunto da affermazioni, domande e ragionamenti critici verso di essa. Tra i più comuni che si possono leggere o ascoltare. L'esercizio, che prima d'ora non mi risulta sia stato praticato, consiste in un confronto con alcuni argomenti che mettono in discussione le valenze epistemologiche, etiche, sociali, politiche ed economiche della scienza, così da provare a dimostrare i fraintendimenti e gli autoinganni da cui discendono. L'elenco dei luoghi comuni e sbagliati o insensati sulla natura, la funzione e le ricadute della scienza è lungo: la scienza è fallibile e gli scienziati possono sbagliare: la scienza non spiega tutto; la scienza tradizionale è riduzionistica, quindi inadeguata per spiegare la complessità; l'epistemologia è pluralista e tutta la conoscenza è socialmente costruita; la scienza non è più quella di una volta: oggi gli scienziati imbrogliano; gli scienziati sono divisi e non si riesca mai a capire come stanno le cose; oggi la scienza è una forma organizzata di potere ed è manipolata dal mercato; la scienza ha causato tragedie e peggiorato il mondo: si stava meglio quando non c'era; la scienza e gli scienziati minacciano la democrazia,la libertà e la dignità umane; quando si tratta di questioni pratiche spetta al diritto stabilire che cosa è scientifico e cosa no; la scienza non genera valori, è eticamente indifferente e deve farsi guidare dalla filosofia, dalla politica e dalla religione; la scienza annulla la soggettività e impoverisce la qualità dell'esperienza umana spontanea o naturale; l'Italia non deve investire nella scienza, ma valorizzare la sua tradizione umanistica e le risorse storico-archeologiche , artistiche e paesaggistiche. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Giu. ’13 NOI SCIENZIATI, AFFLITTI DA SNOBISMO Si segue chi lavora in grandi Università e non si considerano i giovani di GIUSEPPE REMUZZI Siamo snob, noi scienziati, e siamo tutti uguali. Prima di andare a un congresso si leggono i riassunti dei lavori che verranno presentati, centinaia, migliaia qualche volta. Certo non li si può leggere tutti, se ne legge un po'. E come li si sceglie? «In base all'argomento» direte voi. No, non sempre anzi quasi mai, lo si fa guardando all'autore o al posto da cui provengono; quelli di Boston o delle grandi Università degli Stati Uniti (Harvard, Stanford e Yale per esempio) e quelli di Oxford o di Cambridge, li leggono subito tutti. E gli altri? Peccato, perché scoperte anche importanti possono venire da piccoli centri anche se quegli studi sono poco citati e dopo un po' si finisce per dimenticarli. Non va bene, soprattutto per i giovani: se il loro lavoro non viene riconosciuto non potranno accedere a quei finanziamenti da cui ormai dipende tutto: persone, macchine, reagenti; insomma senza soldi di scienza non se ne fa. Keith Weaver — che ha lavorato in diverse Università importanti degli Stati Uniti, dal Texas al New England — a un certo punto si trasferisce in South Dakota. Da lì un giorno pubblica un lavoro su certi meccanismi di replicazione dei batteri, un'osservazione importante, mai fatta prima. Succede che altri da una delle Università importanti degli Stati Uniti confermino quei dati e li estendano ad altre condizioni; questi ultimi risultati vengono pubblicati molto bene. E dopo un po' di quelli del South Dakota, non si ricorda più nessuno (Weaver questa storia l'ha scritta su Nature in un bellissimo «comment» di qualche giorno fa). E in Italia? Capita che certi nostri scienziati mandino un lavoro a una rivista buona ma non delle più alte; uno dei due revisori capisce il valore di quello studio, l'altro è contro; con buoni argomenti? No, affatto, le critiche sono emotive, basate su pregiudizi e perfino un po' arroganti («snobbery» insomma, come dicono loro). Passa qualche mese e Nature pubblica un lavoro molto simile, c'è forse qualcosina di più rispetto a quello degli italiani ma è davvero molto poco. E allora? Beh quello di Nature è un lavoro della scuola di medicina di Harvard, a Boston fatto da scienziati molto conosciuti. E non fa in tempo ad essere messo on-line che già ne parla il New York Times e poi giornali e televisioni di tutto il mondo come «scoperta che potrebbe cambiare la medicina». È proprio così? Non lo so, vedremo. Intanto gli italiani vanno avanti, se ti lasci prendere dallo sconforto è meglio che cambi mestiere perché cose così ne succedono tutti i giorni. Il tempo sarà galantuomo? No, non in queste cose. Se quello dovesse rivelarsi davvero un lavoro che cambia la storia della medicina sarà sempre una faccenda di Harvard con tutto quello che segue di fondi per la ricerca e possibilità di lavoro per tanti giovani. Si è molto parlato del lavoro di Cell, quello delle cellule della pelle che tornano embrionali. È stato fatto da ricercatori dell'Oregon «con una tecnica nuova» si legge. Ma quello che hanno fatto nell'Oregon l'avevano già fatto a Cremona Cesare Galli e Giovanna Lazzari, su Cell il loro lavoro non è nemmeno citato. E sì che a Cremona sono stati i primi a clonare grandi animali, il toro Galileo per esempio — che l'allora ministro Bindi voleva mettere sotto sequestro — e poi suini e cavalli (Prometea fu famosa, identica alla mamma salvo una macchia bianca sul muso). Per Keith Weaver quella del South Dakota è una scelta di vita, sua moglie e i suoi figli lì stanno meglio che a Chicago. E in quella piccola Università si può anche fare della buona ricerca, puoi vedere i tuoi studenti anche tutti i giorni (nei grandi campus della costa dell'Est o della California no) e non basta, all'Università del South Dakota incontri altri ricercatori più facilmente che a New York, riesci persino a parlare con gli amministratori e poi c'è meno burocrazia. Eppure gli scienziati sono e continuano a essere snob. E se provassimo a cambiare? Keith Weaver una ricetta ce l'ha: «Al prossimo congresso fermatevi davanti a un poster che vi sembra interessante, anche se viene da un posto qualsiasi. Ci sarà un ragazzo lì pronto a dirvi tutto del suo lavoro, con dieci minuti del vostro tempo lo farete felice. E se poi dovesse invitarvi a vedere il suo laboratorio, andateci; chissà che da quell'incontro non venga fuori qualche buona idea. Non finirà su Nature ma forse aprirà una strada che altri dopo potrebbero seguire». _____________________________________________________________ Sardegna Quotidiano 07 Giu. ’13 PERCHÉ L’UNIVERSITÀ PUÒ PARLARE SARDO di Andrea Pubusa Volete essere moderni e internazionali? Allora prevedete all’università corsi esclusivamente in inglese. Lo ha fatto, con deliberazione del dicembre 2011, il Senato accademico del Politecnico di Milano, prevedendo, tra l’altro, la configurazione di un Ateneo a rilevanza internazionale, con aumento dell’internazionalizzazione del corpo docente in modo da assicurare che entro il 2014 “almeno 100 insegnamenti siano tenuti da docenti stranieri”. Numerosi docenti e ricercatori del Politecnico hanno presentato un appello al Rettore e agli organi di governo dell’Ateneo a difesa della libertà di insegnamento, chiedendo di non dare seguito a quelle delibere, di sospenderne l’efficacia e di disporne la revoca nella parte in cui hanno imposto l’uso esclusivo della lingua inglese per l’insegnamento dei corsi di laurea magistrali a partire dall’anno accademico 2014. Ma il Senato accademico, a maggioranza, ha respinto il reclamo e ha confermato l’adozione della lingua inglese per i corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca. Non è rimasta a studenti e docenti contrari altra via che il ricorso al Tar, che ha annullato le misure anglofone. In sintesi il Tar milanese ha detto che: “Le misure in concreto adottate dai singoli Atenei per mettere in atto il processo di internazionalizzazione previsto dalle disposizioni di legge, sono da considerarsi compatibili con il nostro ordinamento nazionale unicamente nella misura in cui esse non abbiano quale effetto di collocare la lingua italiana in posizione marginale rispetto ad altre lingue, facendole assumere un ruolo subordinato nel contesto dell’insegnamento universitario. L’internazionalizzazione delle Università deve, infatti, essere compiuta nel rispetto del primato della lingua italiana, da intendersi secondo le precisazioni sviluppate dalla Corte Costituzionale. Sicché non risultano conformi al principio del primato della lingua italiana delibere degli Atenei -quale quelle adottate dal Politecnico di Milano nel senso di imporre l’uso esclusivo della lingua inglese nei corsi di laurea magistrale e nei dottorati di ricerca - che, nell’ambito di percorsi di formazione universitari, impongano l’uso di una lingua diversa dalla lingua italiana in guisa tale che, in questi ambiti, sarebbe del tutto precluso l’utilizzo della lingua italiana. Ci vuole buon senso è misura. Dice ancora il Tar lombardo: “Le misure adottate dagli Atenei per porre in essere in concreto l’obiettivo posto dalle norme, di favorire l’internazionalizzazione degli stessi, debbono essere adottate nel rispetto del principio di proporzionalità il quale impone, in estrema sintesi, che la misura adottata dall’amministrazione sia idonea a realizzare l’obiettivo perseguito e non vada. Possiamo trarre spunto per l’insegna - mento della lingua sarda? Sembra di sì. Salvo voler ritenere che l’insegnamento dell’inglese sia di per sé più meritevole in Sardegna di quello della lingua sarda, può ritenersi che, nel rispetto del principio della proporzionalità, ossia del favore verso la lingua sarda e dei valori culturali di cui essa è portatrice, senza comprimere la libertà, costituzionalmente riconosciuta di studenti e docenti di studiare e parlare in italiano, l’introduzione di corsi in sardo siano possibili. Concretamente potrebbe iniziarsi dai corsi sdoppiati (sono tanti), dove sarebbe possibile, tenerne uno in italiano e uno in sardo. In questo modo si evitano antipatiche e anticostituzionali compressioni, e insieme si favorisce un sistema di valorizzazione del sardo anche scritto, con la predisposizione di manuali, dispense e materiali vari. Certo, le difficoltà non sono poche, prima fra tutte il reperimento di docenti in grado di farlo. So che questa soluzione per alcuni è poco, per altri è troppo. Ma forse è l’unico modo per iniziare. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 06 Giu. ’13 JOVANOTTI A LETTERE Scriviamo riguardo all'articolo uscito in Cronaca di Cagliari domenica, che riportava - riprese da Internet - le lamentele e le critiche della professoressa Anna Maria Monteverdi apparse sul giornale La Spezia on line. Articolo denigratorio nei confronti di noi componenti lo Staff amministrativo della Facoltà di studi umanistici con offese e malignità gratuite. «La Cittadella era in subbuglio da settimane»: Come si fa ad affermare una cosa del genere quando la Monteverdi docente fuori sede, è arrivata in Facoltà a Cagliari solo la mattina dell'evento? In ogni caso le iscrizioni sono state aperte on line solo pochi giorni prima dell'incontro, organizzato in tempi brevissimi, grazie alla fattiva collaborazione gratuita (anche di sabato) del nostro staff. I bagni vengono puliti allo stesso modo tutte le mattine e sono stati ristrutturati all'inizio dell'anno: forse la docente, essendo fuori sede e venendo in Facoltà sporadicamente per qualche esame, non se ne era ancora accorta? L'evento è stato organizzato senza alcun onere a carico della Facoltà. Gli studenti del Corso di laurea in Scienze della comunicazione indossavano le magliette con il nome del corso e le spillette erano semplicemente dei cartellini con scritto "staff": non ci sono mai state magliette e spillette griffate Lorenzo. Riguardo alle battute sul personale della segreteria di Presidenza sa benissimo che usa presentarsi al pubblico sempre in ordine, non eccezionalmente per il “Grande Evento” ma per ricevere e dare informazioni a persone famose e non, educate o meno. Inoltre non è chiaro in che senso la docente avesse bisogno dell'assistenza del personale della Segreteria di Presidenza per svolgere e verbalizzare l'unico esame svolto (da lei) nella giornata. È naturale chiedersi come mai la docente a contratto di “Storia del teatro e dello spettacolo” non abbia manifestato il suo interesse per l'evento, divulgato sul sito della Facoltà qualche giorno prima, e abbia invece fatto di tutto per ottenere all'ultimo momento il pass di ingresso per l'evento, per poi esprimere giudizi denigratori nei confronti dell'Università. Lettera firmata Staff Segreteria Presidenza Facoltà Studi Studi Umanistici _____________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 03 Giu. ’13 ARRABBIARSI COME UNA SCIMMIA Borbottare, arrabbiarsi e sbattere porte quando una decisione presa si rivela sbagliata è un comportamento che qualcuno potrebbe chiamare umano. Ma che invece non lo è, almeno non esclusivamente. Uno studio dell'Università di Yale e della Duke University, apparso sulle pagine di PLoS One, dimostra infatti che anche scimpanzé e bonobo hanno brutte reazioni quando una scelta rischiosa non ha l'esito sperato: urlano, battono forte per fare rumore e tentano di tornare indietro sulla propria decisione. Si tratta di reazioni che gli scienziati definiscono "emotive", simili a quelle che potrebbe avere un uomo. La ricerca è stata condotta in un'oasi africana e prevedeva due diversi scenari: in un caso le scimmie potevano accettare subito un premio piccolo o aspettare di vedere se il successivo fosse più grande; nel secondo la decisione da prendere era se mangiare un pasto normale o attenderne uno che poteva essere migliore in seguito. Problemi diversi, ma reazioni simili, visto che gli scienziati hanno osservato come la scoperta di aver preso la decisione sbagliata portasse in entrambi i casi gli animali a mugugnare e lamentarsi, o addirittura a violenti scatti d'ira. Talvolta, inoltre, i primati tentavano di ritornare sui propri passi per cambiare la scelta erronea, cosa che non accadeva mai se la scommessa era vinta. L'unica, curiosa, differenza trovata dagli scienziati tra bonobo e scimpanzé era una minore propensione al rischio per i primi, sebbene la reazione potesse variare da esemplare a esemplare così come cambia tra persone diverse. "Le decisioni più complesse che facciamo come individui, ad esempio su come risparmiare o investire soldi, sono sempre dettate dalle emozioni", ha spiegato Alexandra Rosati, ricercatrice a Yale e tra gli autori principali dello studio. "Ma nessuno aveva mai capito se esse potessero avere un ruolo anche per altri animali, in decisioni per loro altrettanto importanti come quelle che riguardano il cibo". Lo studio sembrerebbe dare una risposta, seppur parziale, indicando che le scimmie possono essere emotive quanto gli uomini (il cui Dna - d'altra parte - differisce dal loro per appena il 2-5%). Per avere un quadro un po' più completo, però, gli stessi ricercatori stanno già pianificando altri studi, ad esempio per scoprire se una scommessa persa in passato possa cambiare i comportamenti e le scelte future dei primati. Laura Berardi ========================================================= _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 05 Giu. ’13 AOUCA: MACCIOTTA, GIÙ IL SIPARIO I piccoli pazienti verranno portati in ambulanza al Policlinico Tra dieci giorni il trasferimento nella notte Il giorno X è stato fissato. Nella notte tra venerdì 14 e sabato 15 finirà la storia pediatrica della clinica Macciotta: scatteranno le operazioni di trasferimento dei piccoli pazienti (compresi quelli in terapia intensiva) e del personale sanitario verso il Blocco Q del Policlinico di Monserrato. Il fine settimana e le ore piccole non arrivano a caso: il traffico ridotto consentirà alle ambulanze di percorrere più agevolmente i dieci chilometri tra il centro del capoluogo e l'ospedale alle spalle della 554. E gli ambulatori chiusi al pubblico il sabato mattina permetteranno di completare le operazioni di trasferimento. DECISIONE FORMALE La decisione era nell'aria da diverse settimane, anche perché la clinica di via Porcell è ormai priva dei più elementari requisiti di sicurezza (il presidio fisso dei vigili del fuoco è la conferma lampante). Il giorno è stato scelto ieri dalla cabina di regia istituita apposta all'assessorato alla Sanità, con la partecipazione dell'Azienda ospedaliero-universitaria, la prefettura, la direzione generale della Protezione civile regionale, i vigili del fuoco, le forze dell'ordine e i rappresentanti dei Comuni interessati. Secondo i calcoli, i bambini da trasferire saranno non meno di 18, ma potrebbero salire sino a 30, anche in base alle nascite negli ospedali del capoluogo nei prossimi giorni. TRASFERIMENTO DIFFICILE L'operazione è complessa, anche perché riguarderà piccoli pazienti in una condizione clinica particolarmente delicata (molti sono nelle incubatrici). Da qui il coinvolgimento della Questura e in particolare della Polstrada. Non si esclude che possano essere necessari temporanei blocchi al traffico lungo il percorso da via Porcell al Policlinico di Monserrato. Saranno ridotti al minimo i tempi di percorrenza per garantire l'assistenza ai bambini: le ambulanze saranno scortate dalle forze dell'ordine, che presidieranno anche gli incroci stradali per evitare anche il minimo intoppo. LA CORSA NELLA NOTTE Il percorso da compiere tra la clinica Macciotta e il Policlinico sarà di circa 10 chilometri. Ci vorranno quindici minuti per ogni ambulanza. Ma sono da calcolare anche i tempi di uscita da via Porcell e il passaggio dall'ambulanza al reparto del blocco Q, una volta completato il tragitto fino a Monserrato. (g. z.) _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Giu. ’13 SANITÀ. LETTERA AI MANAGER L'ASSESSORE ALLE ASL: BISOGNA RISPARMIARE, ALT ALLE ASSUNZIONI Razionalizzazione della spesa sanitaria e contenimento delle assunzioni di personale nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza. È quanto chiede l'assessore regionale della Sanità Simona De Francisci in una lettera rivolta ai direttori generali delle Aziende sanitarie della Sardegna. Una richiesta necessaria, sottolinea l'assessore, considerato quanto imposto dalla recente normativa nazionale sulla revisione della spesa (la spending review) e dalla legge regionale 21/2012. Senza contare che la legge finanziaria 2013 approvata dal Consiglio regionale ha imposto un ridimensionamento delle risorse destinate al fondo sanitario isolano. Per il funzionamento del sistema della sanità sarda, la Regione ha in bilancio 3 miliardi e 135 milioni. A questa cifra vanno aggiunti 150 milioni di investimenti in infrastrutture per le Asl e 130 milioni per le infrastrutture delle aziende miste (ospedaliere-universitarie). In totale l'apparato della salute conta ventiduemila dipendenti, con un indotto che stacca quasi 50 mila buste paga al mese. Una realtà complessa che deve fare i conti con i limiti di cassa imposti dalla spending review. Nella lettera l'assessore ringrazia i manager per l'abnegazione profusa e il lavoro fatto finora, nell'ottica di aver coniugato le esigenze di tutela della salute dei cittadini con i tagli di spesa nazionali e regionale. De Francisci si raccomanda dunque con i direttori delle Aziende sanitarie affinché si adoperino ancor di più nel massimo contenimento della spesa sanitaria, pur sempre nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza, rivolgendo particolare attenzione «alle assunzioni di personale, a qualsiasi titolo, se non giustificate da inderogabili esigenze di tutela della salute dei pazienti, in ogni caso debitamente e formalmente motivate». Inoltre, dovrà essere privilegiata la mobilità di personale in ambito interaziendale. Infine, l'assessore De Francisci ricorda che il sistema delle gare in unione d'acquisto «è già a tutti gli effetti regola generale per l'acquisizione di beni in ambito sanitario e progressivamente sarà esteso a tutti i beni e servizi sanitari e no della pubblica amministrazione». _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Giu. ’13 FACOLTÀ DI MEDICINA CONCORSO NULLO, PARLA IL DOCENTE: IO IN BUONA FEDE «Per consolidata giurisprudenza è irrilevante, ai fini dell'obbligo di astensione nei pubblici concorsi, la circostanza che il commissario e uno dei candidati abbiano un rapporto di collaborazione scientifica, tenuto conto che la circostanza stessa deve ormai ritenersi, nella comunità scientifica, consueta e, addirittura, fisiologica». Rispetta la sentenza del Tar Sardegna che ha annullato il concorso per un posto da ricercatore nella Facoltà di Medicina, ma Alberto Concu, ordinario di metodi e didattiche delle attività sportive dell'Università di Cagliari, non ci sta a passare per il docente che, non astenendosi da presidere la commissione d'esame, avrebbe favorito il proprio pupillo. E per farlo cita un'altra sentenza dei giudici amministrativi della Toscana, pronunciata il 27 giugno 2005. Il caso del ricorso vinto dalla ricercatrice Myosotis Massida, che ha ottenuto l'annullamento del concorso perché il docente non si è astenuto nonostante avesse numerose pubblicazioni firmate col vincitore, Filippo Tocco, tiene ancora banco in facoltà. «Vale la pena precisare» chiarisce Concu, «che anche la ricorrente fino a qualche anno fa faceva parte del numeroso ed articolato gruppo di giovani ricercatori che ho l'onore di coordinare». Il collegio del Tar Sardegna presieduto da Carlo Lucrezio Monticelli aveva motivato la decisione sottolineando la necessità di astensione del docente e il punteggio dato ai candidati per le pubblicazioni. «Riguardo le “Valutazioni condizionate” delle pubblicazioni del dottor Filippo Tocco» assicura il professore, «a decretarne il peso scientifico non è stata la presenza del sottoscritto tra gli autori (peraltro numerosi e spesso internazionali) in quanto la loro accettazione nelle relative riviste internazionali è stata subordinata al giudizio di esperti anonimi di caratura mondiale». Ora la palla passa al Rettore che dovrà decidere cosa fare dopo la sentenza, ma il docente ribadisce la propria buona fede. «Comunque la si voglia girare» conclude, «che il dottor Tocco abbia un curriculum scientifico di gran lunga più consistente rispetto a quello della dottoressa Massidda, lo si può facilmente verificare consultando i più importanti motori di ricerca riguardanti la ricerca scientifica quali Pubmed o Scopus». (fr.pi.) _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 Giu. ’13 NUOVO DIRETTORE ALLA ASL OLBIA Primo giorno di lavoro per il direttore amministrativo dell'Asl 2, Gianfranco Casu. Ieri mattina il dirigente, proveniente dall'Azienda Ospedaliera Brotzu di Cagliari, è ufficialmente arrivato a Olbia, partecipando sin da subito ad alcune riunioni strategiche e incontrando alcuni primari e direttori dei Servizi. Tra gli obiettivi del nuovo Direttore la massima riduzione possibile delle procedure burocratiche che possono creare non poche difficoltà alla popolazione, in particolare quella fetta di cittadini più deboli, come gli anziani e i disabili, ai quali l'Asl 2 intende prestare una maggiore attenzione: "Vogliamo e dobbiamo cercare di facilitare i percorsi dei nostri cittadini all'interno della sanita' pubblica", hanno detto nel corso del loro primo incontro il Direttore generale Giovanni Antonio Fadda, il Da Gianfranco Casu, e il direttore sanitario Serena Fenu.( c.in. _____________________________________________________________ Sanità News 04 Giu. ’13 SULLA SANITA’ DIGITALE L’ITALIA E’ IN RITARDO RISPETTO ALL’UE “Dalla messa a regime del sistema di sanità digitale in Italia (dall'innovazione delle ricette elettroniche alla telemedicina, dal fascicolo sanitario elettronico alle nuove tecnologie per consentire la deospedalizzazione) potrebbero derivare per le casse dello Stato risparmi pari a sette miliardi di euro”. Così il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che ha aperto ieri la Conferenza internazionale sulla sanità digitale a FORUM PA 2013. “Sul fronte della sanità digitale - ha proseguito il ministro - siamo assolutamente in ritardo rispetto a Europa e Usa, ma molto è stato fatto considerando il punto di partenza. Uno dei problemi per la sanità elettronica è che, come avviene per la sanità italiana in generale, abbiamo una situazione che nelle regioni è a macchia di leopardo”. Una delle criticità messe in evidenza dal ministro è stata quella della sfida nell'uniformare accessi e procedure elettroniche, affinché le diverse strutture nelle varie regioni siano in grado di dialogare tra loro. “Infine – ha concluso – è fondamentale sottolineare il fatto che 'intorno alla sanità elettronica si creano anche nuove professionalità, lavoro e si produce quindi economia”. I dati presentati a FORUM PA 2013 parlano chiaro: nel confronto con i principali partner tecnologici europei, le strutture italiane non raggiungono mai il livello massimo di digitalizzazione. In Italia circa 560 strutturesanitarie (il 40 per cento degli ospedali, tra pubblico e privato accreditato) sono state analizzate con il metodo di valutazione internazionale “Emram” (Electronical medical record adoption model), che valuta il grado di digitalizzazione in sanità,messo a punto da Himss Analytics Europe. John Hoyt, Ceo di Himss, ha spiegato che Emram “è uno strumento fondamentale che aiuta i governi a capire dove sta andando il mercato e a indirizzare meglio gli investimenti”. Gli ospedali che completano lo studio, inoltre, hanno diritto al benchmarking: “Ecco perché – ha detto Hoyt – grazie a questo metodo possono migliorare la loro efficienza”. Il cosiddetto “stage 7”, che prevede assenza completa di documentazione clinica cartacea, implementazione totale della cartella clinica elettronica, un sistema di supporto alle decisioni basato su protocolli standardizzati, un sistema di somministrazione dei farmaci ad anello chiuso integrato con la e-prescription, è in realtà un club per pochi eletti. In Europa lo raggiungono solo lo 0.1% degli ospedali. Nel nostro Paese, però, la situazione è più critica: sette strutture su dieci non vanno oltre il secondo “stage”, si limitano cioè ad immettere dati nel sistema digitale ma poi si fermano. Gli investimenti in IT non aiutano: al momento sono abbastanza bassi. La quota di spesa sanitaria ospedaliera dedicata a questo settore, infatti, è pari all’1.4 per cento del totale. Un dato di poco superiore a quello della Germania (1.3%) ma inferiore a Spagna e Olanda. Eppure, in termini assoluti, è proprio la Germania a spendere di più: due miliardi di euro all’anno dedicati alla sanità digitale, un gradino sopra l’Italia che ne spende 1.3 miliardi. Secondo l’Himms, i settori che il nostro paese dovrebbe potenziare in vista di una piena digitalizzazione sono: il ciclo chiuso della somministrazione dei farmaci e i sistemi di supporto alle decisioni cliniche. A trarne vantaggio sarebbe proprio l’organizzazione “regionale” della sanità italiana: diventerebbe più semplice lo scambio di informazioni e la collaborazione tra ospedali, Regioni e Governo centrale. Un passo indispensabile per camminare insieme ed abbandonare la strada del “fai da te” che finora non ha prodotto molti risultati, se non qualche caso isolato di buona pratica. La soluzione, insomma, è un sistema centralizzato a livello regionale di cui beneficerebbero per primi gli assistiti anche e soprattutto in termini di risparmio economico. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Giu. ’13 SANITÀ, CALA LA SPESA DELLE REGIONI MENO VIRTUOSE QUELLE AUTONOME Decisivi il blocco del turnover e il monitoraggio delle prescrizioni ROMA — La cura funziona: il paziente reagisce. Un rapporto della Ragioneria generale dello Stato valuta positivamente gli effetti della terapia intensiva cui è stata sottoposta in questi anni la spesa sanitaria. Il giro di boa è nel 2011, quando per la prima volta è comparso un segno meno davanti alla spesa delle Regioni (-0,1%). Un progresso confermato, e appena ampliato, nel 2012 (-0,3%) che ha fatto dire alla Corte dei conti, nel recente rapporto sul settore: «La legislatura che si apre vede una situazione economica del sistema sanitario migliore del passato». Gli interventi Ma quali strumenti hanno funzionato meglio e quali avrebbero bisogno di una revisione? Blocco del turn over e degli incrementi retributivi hanno agito pesantemente sul contenimento della spesa per il personale dipendente. Così come è stata determinante, per quella della farmaceutica convenzionata, la previsione di un tetto e di un meccanismo di recupero automatico a carico delle aziende farmaceutiche dell'eventuale sforamento dello stesso. Ma anche la predisposizione di un sistema di monitoraggio delle prescrizioni farmaceutiche, attraverso la tessera sanitaria, per non parlare del contributo dei ticket sanitari, imposti dalle Regioni sottoposte ai piani di rientro. Restano indietro altre voci, come quella dei farmaci ospedalieri che registrano tassi di crescita sostenuti, sia a seguito della continua introduzione di farmaci innovativi, specie nel campo oncologico, sia per le politiche di incentivazione della distribuzione diretta dei farmaci da parte delle Asl. Le tappe del risanamento A questo risultato si è arrivati gradualmente. Il primo punto di svolta è nel 2006 il Patto per la Salute del governo Prodi, che elaborò nuovi strumenti quali la costruzione dibenchmark di spesa e di qualità, la previsione di meccanismi premiali e sanzionatori, l'introduzione dei piani di rientro. Ma soprattutto fece venir meno la regola «dell'aspettativa del ripiano dei disavanzi» che rendeva necessaria una rinegoziazione a piè di lista dei finanziamenti. Ancora fino al 2012 però, la ripartizione del finanziamento del Servizio sanitario nazionale tra le Regioni veniva effettuata sulla base della popolazione residente, suddivisa per classi di età e sesso, e pesata in base al profilo dei consumi sanitari. Il secondo punto di svolta è dunque la procedura di determinazione dei fabbisogni standard regionali introdotta nel 2011 dal governo Berlusconi con il federalismo fiscale. La Ragioneria ricostruisce la dinamica del finanziamento ordinario della spesa sanitaria corrente, passata nel periodo 2002-2012 da 78.977 milioni di euro a 110.136, con un tasso di crescita medio annuo pari a 3,4%. Dato che va paragonato al tasso di crescita del Pil (prodotto interno lordo), pari all'1,9%. Ma se nel periodo 2000-2006 il tasso medio di crescita della spesa è del 5,8% annuo, nel periodo 2006-2010, cala al 2,8%, a fronte di un tasso medio di crescita del finanziamento del 3,4%. Il contenimento della dinamica è confermato negli anni successivi: nel periodo 2010-2012, infatti, la spesa sanitaria ha registrato una riduzione dello 0,2% medio annuo, a fronte di un tasso di crescita medio annuo del finanziamento dell'1,1%. Cosa è successo? Tra il 2004 e il 2005 ancora si ripianano a piè di lista quattro miliardi di disavanzo del periodo 2001-2004. Da quel momento in poi il sistema entra sotto controllo: nel 2006 dei circa 6 miliardi di euro di disavanzo complessivo del settore sanitario, circa 3,8 sono concentrati nelle regioni Lazio, Campania e Sicilia. Si decidono ora i primi piani di rientro, veri e propri programmi di ristrutturazione industriale. «Uno strumento — osserva la Ragioneria — che individua e affronta selettivamente le cause che hanno determinato strutturalmente il prodursi dei disavanzi». La cura dei «piani» Ed ecco i risultati: per la Ragioneria il contributo al contenimento della spesa delle Regioni sottoposte ai piani di rientro (Lazio, Sicilia, Abruzzo, Molise e Campania) è «sensibile». Il loro tasso di crescita della spesa medio annuo, pari al 6,7% nel periodo 2002-2006, crolla all'1,5, nel periodo 2006-2010, con un'ulteriore riduzione dello 0,7% nell'ultimo triennio. Valori sensibilmente inferiori a quelli delle Regioni non sotto piano di rientro: 3,4% nel 2006-2010 (rispetto al 5,3% del periodo precedente). A questo punto sono le Regioni autonome a pesare di più: nel periodo 2002-2006 l'incremento medio annuo della loro spesa era pari al 4,6%, nel 2006-2010 è ancora al 4,4%. «Ma nei confronti di queste Regioni — fa osservare la Ragioneria — lo Stato non ha strumenti d'intervento diretto sulla dinamica di spesa e pertanto le politiche di contenimento sono state meno efficaci». È così che l'anno scorso il 44% circa del disavanzo sanitario regionale è stato generato proprio dalle Regioni autonome. Antonella Baccaro _____________________________________________________________ Corriere della Sera 07 Giu. ’13 ASSISTENZA A MACCHIA DI LEOPARDO IL MALE DELLA SANITÀ AMERICANA I confini fra due Stati americani possono diventare una linea di demarcazione (o meglio di discriminazione) fra cittadini che possono accedere a Medicaid, il programma di assistenza sanitaria destinato agli indigenti (che la riforma sanitaria di Obama ha voluto ampliare) e cittadini che, invece, non riescono ad ottenere la copertura sanitaria, nonostante il cosiddetto Obamacare. Il Minnesota, per esempio, ha deciso di far propria la riforma, il Wisconsin no. Il motivo? Il governatore del Wisconsin teme che i finanziamenti federali (previsti dalla legge per sostenere, insieme a quelli di ogni singolo Stato, il programma) possano venire meno. La realtà, però, è diversa. A fare la differenza è la colorazione politica: i governatori Repubblicani osteggiano la nuova sanità e stanno trasformando i poveri in altrettante vittime della loro resistenza al presidente Obama. I Democratici, invece, la stanno attuando. L'ideologia sta diventando una nuova fonte di disuguaglianza in campo sanitario. Gli Stati Uniti sono una nazione dove l'equità in sanità non è mai esistita (il sistema è di tipo privatistico e basato essenzialmente sulle assicurazioni) e la riforma di Obama vorrebbe garantire a tutti l'accesso ai servizi medici essenziali. Ma adesso la situazione si complica e la mappa dell'assistenza medica negli Stati Uniti è diventata una sorta di patchwork. Un po' come sta succedendo in Italia, anche se da noi la realtà è diversa e il sistema di assistenza sanitaria è di tipo universalistico (gratuito per tutti i cittadini, salvo il pagamento di ticket su cui ora si sta molto discutendo). Noi non abbiamo gli Stati, ma abbiamo le Regioni. E ogni Regione decide che cosa offrire ai suoi abitanti, quali programmi di vaccinazione (per esempio) mettere a disposizione o quali screening per i tumori (un altro esempio) finanziare o quali farmaci (gli antitumorali innanzitutto) acquistare negli ospedali. Anche in Italia si è creata una situazione a macchia di leopardo per cui l'accesso a certe cure, come la terapia del dolore, non esiste in metà delle Regioni (lo ha ammesso il ministro Lorenzin in occasione della Giornata Mondiale del Sollievo). Adriana Bazzi abazzi@corriere.it _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 06 Giu. ’13 AOUSS: CLINICHE GUARDATE A VISTA DALLA REGIONE L’assessorato assisterà l’Aou nella messa a norma graduale di strutture realizzate ignorando le norme di sicurezza di Gabriella Grimaldi SASSARI Le cliniche universitarie di Sassari costrette a operare in un regime di “accompagnamento” da parte della Regione. Una sorta di tutoraggio che dovrà portare le strutture ospedaliere di viale San Pietro a una messa a norma graduale. L’alternativa infatti sarebbe la chiusura dei reparti con tutte le nefaste e impensabili conseguenze per la sanità del territorio. Già, perché in sostanza non solo le cliniche a monte di viale San Pietro sono strutturalmente inadatte all’assistenza ai pazienti ma anche quelle “nuove”, costruite intorno agli anni Novanta, non rispondono ai criteri di sicurezza previsti dalle normative italiane ed europee. Una situazione che l’attuale dirigenza dell’Azienda ospedaliero universitaria, attraverso il Servizio Prevenzione e Protezione e l’Ufficio tecnico, sta cercando di sanare con interventi continui dettati perlopiù dalle indicazioni dei vigili del fuoco, che sono deputati a rilasciare il certificato di sicurezza antincendio indispensabile per poter fare assistenza. «Come purtroppo succede in diverse altre strutture sanitarie della Sardegna – si legge in un comunicato dell’assessorato regionale alla Sanità guidato da Simona De Francisci – anche per le cliniche universitarie dell'Aou di Sassari è necessario premettere che si tratta di opere non preliminarmente autorizzate e che l'accreditamento è sempre una procedura che arriva solo per edifici o servizi preventivamente approvati. Non si tratta di un cavillo burocratico, ma di una cautela necessaria per garantire servizi o strutture in linea con gli standard di sicurezza e con le esigenze dell'utente. Anche in questo caso, dunque, si agirebbe in termini di sanatoria». E gli stessi funzionari regionali si chiedono «come mai siano state prima progettate e poi realizzate delle opere fuori da ogni standard di sicurezza e a prescindere dalla programmazione in capo alla Regione». Ieri il manager dell’azienda Alessandro Cattani ha affermato dalle colonne del nostro giornale che in questi ultimi due anni sono stati realizzati presidi e impianti di sicurezza che prima erano completamente assenti. A partire dalle scale anticendio, dai piani di evacuazione, dai corsi di formazione a tutto il personale per arrivare alle uscite di sicurezza appropriate, ai rilevatori di fumo e al sistema di videosorveglianza centralizzato che segnala eventuali scoppi di incendi. Tutta una serie di interventi che servono sostanzialmente a “tappare le falle” e che consentono di ottenere una autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’attività ma che non permettono di accedere all’accreditamento vero e proprio della struttura. Obiettivi che a Sassari potranno essere raggiunti soltanto con la realizzazione di due torri agli estremi della stecca bianca e del palazzo Clemente per consentire vie di fuga verticali in caso di fuoco. Si tratta però di opere piuttosto costose e la Regione dice: «L’assessorato sta conducendo una ricognizione sui fondi disponibili, anche se è necessario precisare che, vista l'importanza in termini economici dell'investimento, tali finanziamenti potrebbero rientrare nel quadro degli interventi sull'edilizia sanitario-ospedaliera previsti dalla prossima firma dell'accordo di programma da oltre 200 milioni di euro». ____________________________________________________________ La Stampa 04 Giu. ’13 IL DECALOGO DI VERONESI "LA CURA NON SIA LOTTERIA E SOLO STANZE SINGOLE" L’oncologo fa bilanci e programmi: "La privacy è già terapia E vanno ripensate sperimentazione e randomizzazione" SARA RICOTTA VOZA MILANO Il Dna, i trapianti, la Tac, le cellule staminali: grandi rivoluzioni a cui abbiamo assistito in questi ul... timi 50 anni e che hanno trasformato profondamente il rapporto tra medico e paziente. Rivoluzioni tuttora in corso e in evoluzione rapidissima, che ogni giorno richiedono riflessioni e approcci nuovi, soprattutto dal punto di vista etico. Anzi, per il professor Umberto Veronesi è l'etica stessa l'ultima rivoluzione nella scienza, che ha portato al passaggio epocale da una medicina «paternalistica» a una medicina «condivisa» e dei diritti del malato. Ecco perché il consueto «Ieo Day» - in cui il professor Veronesi e i suoi collaboratori dell'Istituto Europeo di Oncologia presentano risultati e programmi - quest'anno è dedicato interamente all'Etica della ricerca, declinata in tutte le sue fasi: dalla diagnosi, alla sperimentazione alla cura. «La medicina oggi è integrata con la ricerca dí nuove cure che però necessitano una sperimentazione sull'uomo – spiega Veronesi -. Il medico oggi ha due anime: il soccorritore che vede nel malato una persona da curare, e il ricercatore che vede nello stesso malato un corpo da studiare. I diritti del malato indicano la giusta misura fra l'obiettività della scienza e l'empatia della cura». Ma siccome non siamo nel migliore dei mondi possibili, «il decalogo del malato» stilato all'leo è un buon catalogo di intenti ancora lontano dall'essere realtà. Il primo, per esempio, è il «diritto a cure scientificamente valide». «Sembra ovvio, invece non lo è», sorride il Professore, ricordando quando una mattina venne chiamato da Prodi «per capire come trovare una soluzione a un problema allora spinoso, era il periodo della cura Di Bella». Oggi di quella cura non si parla più, ma il problema esiste ancora e altre cure scientificamente discutibili sono all'ordine del giorno e della cronaca. Il secondo è «il diritto a cure sollecite» e anche qui Veronesi deve ricordare che una struttura come Ileo, ossia percepita come buona, ha liste d'attesa più lunghe. Un diritto, quindi, difficile da vedere rispettato in Italia, diversamente che in Francia: «Ho lavorato a Lione, Nizza, Parigi, lì lo Stato ha previsto almeno 30 istituti oncologici e le liste d'attesa non ci sono». Quanto al «diritto a una seconda opinione» (terzo), ovvero chiedere al proprio medico di poterne sentire un altro, «nella medicina paternalista era un'offesa, una mancanza di fiducia». Ma fra i diritti che più stanno a cuore a Veronesi ci sono quello «alla privacy» (quarto) e quello «al rispetto e alla dignità» (decimo). «Il segreto professionale è sacrosanto e addirittura oggi non si deve chiamare il paziente non per nome ma per numero, poi però lo si ricovera in una stanza da quattro, con tutto il viavai di estranei che questo comporta». E qui il professore, lasciato il proverbiale aplomb, un po' si scalda: «Il malato va trattato bene e anche solo ricoverarlo con un altro è un oltraggio, il malato deve stare solo in una stanza singola e ha diritto di avere tutto il giorno i parenti vicino. È ovvio che ha bisogno dei suoi affetti, anzi è la prima forma di terapia. Per questo l'ora di visita è una cosa primitiva». L'altro nodo etico di grande attualità viene affrontato dal professor Aaron Goldhirsch, vicepresidente Ieo, e riguarda la sperimentazione di nuovi farmaci sull'uomo: «L'evoluzione della ricerca clinica e la pressione dei movimenti di pazienti e familiari richiedono un ripensa- mento. Occorre selezionare meglio la popolazione da studiare, offrire un'informazione più completa e sottoporre al paziente un consenso informato più onesto». Quanto ai metodi attualmente in uso, «occorre trovare vie alternative al placebo - non è più accettabile dare a un malato una sostanza che sappiamo essere inefficace - e mettere in discussione il principio della randomizzazione». Al momento, infatti, un gruppo di malati viene sottoposto alla terapia standard e un altro a una terapia innovati- va. Il criterio di scelta? Random. «Come alla lotteria», traduce sinteticamente il professore. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 09 Giu. ’13 DIECI VANTAGGI DI ESSERE CITTADINO DELLA SANITÀ EUROPEA In arrivo nuove regole per facilitare le terapie «transfrontaliere» I Scegliere di sottoporsi a un intervento in un ospedale tedesco, oppure di farsi visitare in un centro inglese specializzato in una particolare malattia rara... Il diritto dei cittadini dell'Unione europea all'assistenza transfrontaliera — ovvero a ricevere in ogni Stato dell'Ue lo stesso trattamento riservato ai residenti — è sancito dalla Direttiva comunitaria del 9 marzo 2011, che dovrà essere recepita entro il 25 ottobre da tutti gli Stati membri, compreso il nostro. In occasione della recente Giornata europea dei diritti del malato la Commissione europea ha voluto ricordare i principali vantaggi per i pazienti di essere cittadini dell'Unione: dieci punti fermi, a volte però ancora poco conosciuti. «Alcuni sono già realtà, altri vanno implementati e, anche in vista della prossima entrata in vigore della Direttiva, abbiamo voluto ribadirlo — spiega il Commissario europeo per la Salute e la politica dei consumatori, Tonio Borg —. Il diritto alla libera circolazione nei Paesi Ue, infatti, riguarda anche i pazienti, che devono poter accedere a cure sicure e di qualità in tutta Europa, al di là della loro nazionalità». Ma qual è lo stato di attuazione di questi dieci «vantaggi» indicati dalla Commissione europea? Li abbiamo passati in rassegna, uno a uno, col Commissario Borg. 1 Avere assistenza fuori dal proprio Paese. I cittadini europei che hanno bisogno di assistenza durante un viaggio in un altro Stato Ue possono già ottenere le cure necessarie e il loro rimborso grazie al coordinamento dei sistemi europei di sicurezza sociale. «Tutti hanno diritto a ricevere un eguale trattamento, per cui, se un cittadino maltese o italiano si trova in Germania e ha un incidente, sarà curato come un tedesco — chiarisce Borg — . L'European health insurance card (la tessera sanitaria europea, ndr) permette di ricevere le cure alle stesse condizioni dei residenti, quindi tutela contro ogni discriminazione. Ora, con la Direttiva c'è un salto di qualità, direi una rivoluzione: si può scegliere di curarsi fuori confine. Può essere utile curarsi all'estero se, per esempio, si necessita di una cura che non è disponibile nel proprio Paese, o quando i tempi di attesa sono troppo lunghi per cui non si riesce ad avere le cure giuste nei tempi giusti». 2 Rimborso per le prestazioni richieste. In generale, il paziente deve pagare le cure che riceve in un altro Stato, poi, una volta a casa, viene rimborsato dal suo sistema sanitario con l'importo previsto nel suo Paese. In alcuni casi il Paese di residenza può prevedere un'autorizzazione preventiva, prima che ci si rechi all'estero per curarsi. «Potrebbe essere richiesta nel caso di ricovero ospedaliero o, per esempio, nel caso di interventi salvavita molto costosi. Se però l'autorizzazione viene negata, il cittadino non potrà chiedere rimborsi (può però fare ricorso per far valere i propri diritti, ndr). Ma l'autorità sanitaria potrebbe anche adottare la tattica di non decidere. Come Commissione, allora, stiamo ragionando su come prevenire eventuali abusi, da qualsiasi parte provengano: di certo non si vuole incoraggiare i cittadini ad andare a curarsi fuori confine, ma la Direttiva sancisce il diritto alla mobilità ed è frutto di sentenze della Corte europea (che hanno riconosciuto a singoli cittadini il diritto a essere rimborsati per cure ricevute all'estero, ndr)». 3 Notizie sulle cure in altri Paesi Ue. In base alla Direttiva comunitaria, entro il 25 ottobre ogni Paese dell'Unione dovrà istituire sul proprio territorio sportelli o «punti di contatto» per dare ai cittadini informazioni su come ricevere assistenza transfrontaliera, sulle possibilità di trattamento in altri Stati dell'Ue, su qualità e sicurezza delle cure, condizioni di rimborso, procedure di ricorso nel caso in cui sia negata l'autorizzazione a curarsi oltre confine. «Ai cittadini vanno esposti in maniera chiara i diritti di cui avvalersi in caso di spostamento da uno Stato membro all'altro, in modo che possano fare scelte consapevoli». 4 Medici e operatori sanitari qualificati. I sistemi sanitari dell'Unione sono tenuti a offrire un'assistenza adeguata anche attraverso la formazione continua degli operatori sanitari (medici, infermieri, specialisti, dentisti) e il monitoraggio costante della qualità delle strutture e del personale preposto alle cure. Le informazioni relative dovranno essere disponibili presso i «punti di contatto» istituiti a livello nazionale da ciascun Paese. 5 Diritto alla copia della cartella clinica. I pazienti che hanno ricevuto una prestazione in un altro Stato Ue hanno diritto alla cartella clinica, cartacea o elettronica. «Nel rispetto della riservatezza dei dati personali, tutte le informazioni sulle prestazioni ricevute in un altro Paese devono poter essere accessibili ad altri medici, che così potranno conoscere le condizioni di salute del paziente e garantire la continuità delle cure». 6 Prescrizioni riconosciute in tutta l'Ue. Dovrebbero già esserlo, ma non sempre è così. Lo scorso dicembre la Commissione europea ha approvato specifiche Linee guida per le prescrizioni transfrontaliere, con regole comuni negli Stati membri per identificare meglio il medicinale prescritto. «Il riconoscimento della ricetta fuori confine è importante soprattutto per i pazienti con una malattia cronica o rara, che potranno viaggiare senza il timore di rimanere sprovvisti dei farmaci necessari». La prescrizione rilasciata in un Paese Ue, inoltre, va riconosciuta anche in quello di residenza. Lo Stato di residenza, comunque, rimborserà solo i farmaci che rientrano tra le prestazioni erogate dal proprio sistema sanitario. 7 Farmaci più sicuri. Prima di essere introdotti nel mercato europeo, i farmaci devono ottenere l'autorizzazione dell'Agenzia europea per i medicinali (Ema) e quindi sono sottoposti a rigidi controlli per verificare se rispettano gli standard europei di qualità, sicurezza ed efficacia. «Esiste già un sistema avanzato di vigilanza ma, a partire dal 2010, è stato riformato per rafforzare la lotta contro i medicinali falsificati o loro componenti importati soprattutto da India e Cina». Una recente Direttiva europea mira a evitare che i farmaci contraffatti possano entrare nella catena di distribuzione legale. Alcune disposizioni, come per esempio quelle sulle caratteristiche di sicurezza per le medicine soggette a prescrizione (identificativo unico per ogni singola confezione e dispositivi anti- manomissione degli imballaggi), entreranno in vigore dopo l'adozione di specifici regolamenti attuativi che sono all'esame della Commissione. 8 Segnalazione di reazioni avverse. I pazienti hanno il diritto di segnalare eventuali effetti collaterali dei medicinali ai sistemi nazionali di sorveglianza, anche tramite medici e farmacisti. Col nuovo regolamento comunitario, entrato in vigore a marzo, ci saranno controlli più serrati per quei farmaci che richiedono un monitoraggio supplementare. In particolare, dal prossimo ottobre dovranno contenere nel foglietto illustrativo un triangolo nero rovesciato: non indica che il medicinale sia poco sicuro, ma che si devono seguire determinate precauzioni. «Il nuovo simbolo servirà a identificare quei medicinali per i quali è necessaria una sorveglianza maggiore. Si vuole così incoraggiare pazienti e operatori sanitari a segnalare reazioni avverse sospette». 9 Usufruire di dispositivi medici garantiti. Ausili e congegni contribuiscono a migliorare diagnosi e trattamento delle malattie, ma anche la qualità della vita di chi ha una disabilità. «L'innovazione nel settore dei dispositivi medici è fondamentale per i pazienti, ma dobbiamo garantire anche la loro sicurezza. Non è richiesta un'autorizzazione prima della immissione in commercio, ma sono previsti, soprattutto per i dispositivi medici che presentano un rischio più elevato, verifiche e controlli più stringenti, sia prima sia dopo l'ingresso sul mercato. In seguito allo scandalo delle protesi per il seno, le cosiddette Pip (costruite con silicone non conforme all'uso umano, ndr) è al vaglio dell'Unione un nuovo Regolamento per rendere più severe e uniformi le norme in tutta Europa. Ci auguriamo che sia approvato entro maggio 2014». 10 Qualità per sangue, organi, cellule. Terapie mediche basate sulla donazione di sangue umano, tessuti, cellule e organi sono in aumento e possono salvare molte vite. Ma va evitato il rischio di infezioni e di trasmissione di malattie, come per esempio Hiv o epatite. «Esistono già diversi accordi di cooperazione tra gli Stati, ma, per garantire la qualità delle cure e la sicurezza dei pazienti, l'Unione europea prevede procedure comuni in tutti i Paesi membri». Maria Giovanna Faiella _____________________________________________________________ Corriere della Sera 09 Giu. ’13 MEDICINA BASATA SUL «VALORE» Il vantaggio decisivo è sempre la qualità A un famoso economista americano, Michael Porter, dell'Università di Harward, fu affidato il compito, cruciale in una sanità privatistica come quella Usa, di stabilire quale fosse il vantaggio competitivo di un centro medico. L'analisi e i calcoli di Porter e della collega Elizabeth Olmsted Teisberg portarono a una risposta netta: il vantaggio decisivo è quello di offrire le cure migliori e questo vale non solo dal punto di vista della soddisfazione del paziente, ma anche dal punto di vista economico complessivo. Sulla base della sua analisi Porter elaborò quella che chiamò Value Based Medicine, la medicina basata sul valore, dove per valore si intende il miglior rapporto possibile tra il risultato ottimale delle cure (ossia il ripristino del massimo stato di salute possibile) e la spesa sostenuta per generare quel risultato. Ma nell'affermare questo, Porter mise il dito in una piaga. Per calcolare quel rapporto è necessario infatti misurare e valutare l'esito delle cure. E scoprì che i medici, nella maggior parte dei casi, non erano in grado di farlo. Che cosa propone allora la Value Based Medicine? «Il punto nodale per applicare questa filosofia è quello di valutare l'esito delle cure attraverso indicatori clinici di risultato che siano scientificamente validi e facilmente utilizzabili nella pratica quotidiana — spiega Mario Strazzabosco, professore di Gastroenterologia dell'Università Bicocca di Milano e della Yale University School of Medicine —. Attraverso di essi è possibile misurare l'effetto delle cure. E in tal modo si potranno confrontare i centri medici su base oggettiva, orientando le risorse su quelli in grado di fornire i risultati migliori». Strazzabosco, «innamoratosi» negli Stati Uniti della Value Based Medicine, dove è già stata applicata a diverse realtà sanitarie, ha deciso di importare quel metodo in Italia. E ha trovato una sponda preziosa in una onlus, la Fondazione amici dell'epatologia, che ha dedicato tutti i suoi sforzi a quell'idea e ha trovato i fondi, attraverso la Regione Lombardia, per finanziare una grande ricerca, denominata Vbmh, che riguardasse le principali malattie del fegato. Lo studio, condotto dall'Università di Milano-Bicocca, è durato tre anni, con l'obiettivo di definire appunto quali sono gli indicatori (outcomes) di esito delle terapie e di testarli in tre ospedali lombardi (Niguarda di Milano, San Gerardo di Monza, Ospedali Riuniti di Bergamo) su 3.200 pazienti. Sono state analizzate le cure riguardanti le epatiti B e C, la cirrosi epatica, i tumori del fegato, le epatiti autoimmuni e metaboliche e i trapianti di fegato. Ora i risultati stanno per essere presentati a un congresso dell'Aisf, la società scientifica degli epatologi, dedicato esclusivamente a questa ricerca. «È la prima volta che si fa in Italia un lavoro del genere — dice Strazzabosco, che ha coinvolto tutti i migliori epatologi italiani e molti stranieri, appositamente invitati per dare il loro contributo —. E i test clinici hanno confermato la validità degli indicatori individuati. In pratica ora i medici epatologi dispongono di una bussola, sanno che cosa guardare, per assumere decisioni informate e valutare il risultato del loro lavoro e per confrontarlo con altri, avendo come obiettivo esclusivamente il benessere dei pazienti. È da notare che anche i pazienti sono stati coinvolti nella ricerca clinica: anche a loro è stata richiesta una valutazione soggettiva del loro stato e se n'è tenuto conto». Anche questo ci sembra molto innovativo. Visto che spesso i pazienti vengono «dimenticati» dai ricercatori e pochi, non accontentandosi dei risultati degli esami, pongono una domanda cruciale: «Adesso come sta?». _____________________________________________________________ Corriere della Sera 09 Giu. ’13 SE UNA CURA È EFFICACE LO SI STABILISCE MISURANDO IL SUO EFFETTO NEL TEMPO In chiave di risparmio, più che il taglio delle risorse conta la valutazione dell'intero ciclo di trattamento I medici sanno quello che fanno? La domanda provocatoria non vuole essere una banale critica alla categoria, ma rappresentare un dubbio che per primi gli stessi medici si sono posti. «Sembra incredibile, ma di fatto noi medici non sappiamo misurare l'esito di una cura — dice il gastroenterologo Gaetano Ideo — che è un po' come dire che non sappiamo quello che facciamo. In verità disponiamo di linee guida, ci basiamo sugli studi della Evidence Based Medicine, ma ciò ci aiuta soprattutto nella diagnosi e nei processi terapeutici. Ma non ci dice, al termine di un ciclo di cure, qual è il risultato finale, quanto un paziente sia migliorato. E così non possiamo confrontare le diverse terapie». Certo ogni paziente è diverso e la stessa cura può portare a gradi differenti di miglioramento. Per cui è teoricamente impossibile avere «ricette» valide per tutti: la medicina resterà sempre in parte artigianale, legata al singolo rapporto medico-paziente. Ma è utile sapere se e quanto una terapia ha restituito la salute, se con altre terapie sarebbero stati possibili risultati migliori, se certi esami o interventi non siano stati inutili, se, infine, un altro medico o un altro ospedale avrebbe potuto ottenere risultati migliori. È un'esigenza che nasce dalla complessità della medicina attuale, che spesso propone tante soluzioni alternative, ma anche dalla necessità di risparmiare. «È importante che i Lea, le prestazioni che il Servizio sanitario è tenuto a garantire a tutti, — dice Silvio Garattini, direttore dell'Istituto Mario Negri di Milano — vengano continuamente sottoposti a valutazioni aggiornate, che stabiliscano quali interventi costituiscono un reale vantaggio per l'ammalato, che individuino le procedure per un favorevole rapporto benefici-rischi e che, a parità di questo rapporto, indichino la cura meno costosa». Quando il presidente americano Barack Obama ha lanciato la campagna per la sua riforma sanitaria, la parola d'ordine è stata «Best Care at Lower Cost», ovvero «il meglio delle cure, a un costo minore». Per raggiungere tale obiettivo gli amministratori sanitari Usa hanno proposto soluzioni simili a quelle italiane: riorganizzazione della rete ospedaliera, eliminazione degli sprechi e dell'eccesso di burocrazia, pressioni per far calare i prezzi di farmaci e tecnologie mediche. Ma per ridurre la spesa fino al 20%, anche un altro punto fondamentale: l'adozione più diffusa degli interventi sanitari davvero efficaci, eliminando il gap tra ricerca e pratica clinica. È evidente che per fare questo bisogna sapere quali sono gli interventi efficaci, bisogna capire chi pratica l'eccellenza e costringere gli altri ad adeguarsi. Perché la buona medicina, oltre a garantire maggior benessere all'ammalato, diminuisce le ricadute, riduce gli sprechi di esami e trattamenti inutili, riduce i giorni di ospedalizzazione. In sintesi: la buona medicina fa risparmiare. «Nella sanità italiana si è soprattutto cercato di ridurre in vari modi le prestazioni,— riprende Ideo — limitando le risorse all'origine. Ma tagliando oggi, si sarà costretti a spendere molto di più domani». Valutare, misurare, confrontare sono quindi diventate le parole d'ordine negli Usa come in Italia, dove, più che nel mondo anglosassone, i medici non hanno mai gradito molto essere valutati. Dieci anni fa il Corriere Salute, supportato dall'Istituto Mario Negri, cominciò a pubblicare le «classifiche degli ospedali», divise per specializzazioni, basate sul calcolo degli impact factor (indice che evidenzia la quantità e la qualità delle ricerche effettuate). Era certamente un tipo di rilevazione molto parziale, basata sull'idea che «si cura meglio dove si fa ricerca», ma che dava una prima indicazione su dove si trovasse l'eccellenza. Fu ben accolta dal pubblico, molto meno dai medici. Nel frattempo si diffondeva la pratica, a cominciare dai centri più avanzati, di richiedere certificazioni di qualità degli ospedali rilasciate da agenzie internazionali, la più famosa delle quali è la Joint Commission: erano, e sono, attestati di «buon funzionamento» delle strutture sanitarie, nelle procedure e nel rapporto con i pazienti, ma non analizzano gli esiti delle cure. Nel 2006 il ministero della Salute tentò una prima analisi degli esiti nel campo della cardiochirurgia, per quel che riguardava gli interventi di bypass, sull'esempio di una famosa ricerca effettuata a New York, che, pubblicata sui giornali, aveva rovinato la fama di molte star della chirurgia, ma aveva portato in pochi anni a un netto miglioramento della mortalità. I risultati dell'iniziativa italiana furono deludenti, perché troppi centri non fornirono i dati (perché non li avevano, o non volevano rivelarli) o li fornirono solo parzialmente. Oggi però sono sempre più numerose le ricerche, anche in Italia, che hanno come obiettivo di definire gli indicatori di esito delle terapie e di applicarli alla pratica medica, a livello di singoli interventi o di singole patologie. Si è appena conclusa una ricerca, basata sul metodo americano della Value Based Medicine, che ha analizzato le diverse patologie di un'intera specialità medica, l'epatologia (si veda articolo nella pagina a fianco). Altre ricerche meno specifiche mettono a confronto strutture sanitarie, ospedali o reparti. Esiste attualmente un «Programma nazionale esiti», gestito dall'Agenas, Agenzia nazionale dei servizi sanitari, che pubblica periodicamente una «classifica» delle strutture del servizio sanitario basata su 42 indicatori riferiti ad altrettante prestazioni. Quel che impressiona in questo tipo di indagini è l'enorme differenza di risultati che viene rilevata tra diverse strutture, anche situate a pochi chilometri di distanza. Un'importante ricerca, perché è stata la prima di questo tipo, è stata presentata nel 2010 dalla Regione Lombardia che ha messo a confronto tutte le proprie strutture ospedaliere valutandone l'efficacia sulla base di una serie di indici: la mortalità totale prima di tutto (che comprende quella intraospedaliera e quella entro 30 giorni dopo il ricovero) e altri outcomes, detti ambientali, come le dimissioni volontarie dei pazienti, il loro trasferimento ad altre strutture, i ricoveri ripetuti e i ritorni in sala operatoria. Gli ospedali più forti sono risultati essere quelli più grandi e quelli specializzati, ma al di là di questa costatazione, in parte scontata, ora esistono parametri di riferimento numerici che misurano il livello qualitativo dell'ospedale. «Uno dei problemi italiani — dice Giorgio Vittadini, docente di Statistica dell'Università di Milano-Bicocca, uno degli autori della ricerca — è che permangono parecchie difficoltà nella raccolta dei dati, perché molti centri medici non hanno ancora acquisito questa cultura della valutazione. Sono problemi che derivano anche da un'informatizzazione tuttora largamente incompleta». Un secondo problema, aggiungiamo noi, sta nella scarsa diffusione e divulgazione di questo tipo di ricerche, che pure sono pubbliche, ma troppo spesso accessibili solo agli addetti ai lavori. Mentre, almeno i risultati più rilevanti, anche quelli negativi, sarebbero di grande interesse per i cittadini. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 09 Giu. ’13 LA SCOMPARSA DEL DOTTORE di Roberto Satolli Racconta Claudio Rugarli, autore del Trattato di medicina interna su cui hanno studiato le ultime generazioni di medici italiani, che una signora, entrando nel suo studio, gli aveva intimato: «Lei va bene per il fegato?» «Non l'ho ancora dimenticato» era stata la garbata risposta. «Sono ancora un dottore» sarebbe stata una replica altrettanto buona, poiché l'aneddoto è riferito da Giorgio Cosmacini, medico, storico e scrittore, nel suo ultimo saggio La scomparsa del dottore (Raffaello Cortina). Più che certificare un'estinzione, forse avvenuta da tempo, la folgorazione del libro è additare un'assenza che era sotto gli occhi di tutti, ma della cui realtà e origine è bene prendere contezza. Che cosa ci manca, in realtà? Di medici ne abbiamo sin troppi, dopo che la loro schiera si è evoluta in una miriade di sottospecie, ciascuna capace di sapere quasi tutto su quasi nulla, tanto ristretto è ormai il raggio di azione di ogni specialità. Il «dottore» non si trova più perché può esistere solo nella testa del paziente, ed è un riferimento esistenziale che dura una vita (magari si eredita dalla famiglia) e la cui competenza essenziale è proprio la conoscenza personale nel tempo. Dunque forse il dottore non c'è più non solo o non tanto perché l'università non lo forma; l'organizzazione del servizio sanitario lo contempla, nella figura del medico di medicina generale, ma non lo valorizza; lo strapotere delle specialità, in ospedale e fuori, gli tolgono spazio e credibilità. Tutto vero. Però al fondo il «nostro» dottore è scomparso perché noi abbiamo rinunciato a sceglierlo e a costruirlo nel tempo, come rapporto solido di confidenza e comunicazione. Soprattutto le ultime generazioni, che un dottore non lo hanno mai conosciuto e non possono averne nostalgia, è bene che sappiano che un tempo è esistito e potrebbe esserci ancora, per non cadere vittime, anche quando è in gioco la salute, di un consumismo che tutto divora. _____________________________________________ Il Sole24Ore 09 Giu. ’13 STAMINA: IL CIARLATANO ATTACCA LE ISTITUZIONI Alla notizia della morte di una bambina che voleva trattare con procedure medico-illusionistiche, meglio note come «metodo Stamina», lo psicologo Davide Vannoni ha accusato il Parlamento di esserne responsabile. Per neutralizzare Vannoni e i suoi sodali è stata fatta una legge che stanzia 3 milioni di euro per sperimentare una "bufala". È incredibile che questo ciarlatano non sia già indagato per esercizio abusivo della professione medica, e i Nas non abbiano già sequestrato ogni documentazione relativa al «metodo Stamina», là dove viene applicato su pazienti in ospedali pubblici. Ed è indecente che i vertici delle istituzioni sanitarie lo chiamino per concordare un tavolo di confronto su una ridicola pantomima, chiamata sperimentazione. _____________________________________________________________ Repubblica 9 Giu. ’13 UNA SPERANZA PER I DIABETICI IL MIDOLLO FA DA PANCREAS ELENA DUSI A PAGINA 20 "Così abbiamo ricostruito il pancreas nel midollo" Milano, al San Raffaeleprimo intervento almondo: "Dal trapianto di cellule speranzaper i dkibefici" ELENA DOSI ROMA—Il midollo osseo ha cambiato lavoro. La natura gli ha assegnato il compito dì rigenerare il sangue. I medici oggi lo hanno convinto a produrre anche insulina. All'ospedale San Raffaele di Milano, 4 pazienti che hanno subito l'asportazione del pancreas riescono lo stesso — almeno in parte — a regolare il livello degli zuccheri nel sangue. Merito dell'intervento dei medici, che hanno isolato le cellule funzionanti dal pancreas asportato dai chirurghi e le hanno poi infuse con un ago nel midollo osseo, all'altezza dell'anca. Il midollo ha accolto senza problemi le nuove inquiline e da buon ibrido ha iniziato a svolgere il doppio lavoro. Continuando a generare sangue fresco come la natura gli ha insegnato. E producendo insulina grazie alle cellule appena recapitate dai medici. La nuova tecnica è stata pubblicata sulla rivista Diabetes. I primi tentativi di riutilizzare le cellule del pancreas asportato in sala operatoria risalgono agli anni Settanta. Oggi le infusioni vengono spesso fatte nel fegato, dove però si sviluppano infiammazioni che in pochi giorni causano la perdita del 60-80% deItessuto trapiantato. I test sugli animali in passato hanno coinvolto le sedi più varie, dai muscoli ai testicoli, fino all'occhio o al polso. «Il midollo osseo ci è sembrata un'idea semplice» spiega Lorenzo Piemonti, dell'Istituto di ricerca sul diabete del San Raffaele. «Come tutte le procedure nuove, richiede però molte autorizzazioni. Nel 2009, completati i test sui topi, siamo riusciti a ottenere i permessi per partire con gli esperimenti sull'uomo». Oggi, a quasi tre anni di distanza dall'infusione delle cellule nell'anca, uno dei pazienti è morto per la malattia che lo aveva portato all'asportazione del pancreas, ma gli altri continuano ad avere un midollo che svolge il doppio lavoro. «Le cellule hanno attecchito bene — prosegue Piemonti — e producono insulina a seconda del fabbisogno dell'organismo. Dopo un buon pranzo, aumentano la loro funzionalità come accade normalmente nel pancreas. Dal midollo, l'insulina passa direttamente nel sangue, dove svolge il suo lavoro e controlla il livello degli zuccheri. E dove noi possiamo misurarla con un semplice prelievo». . Le ossa del bacino (la cresta iliaca in particolare) sono state scelte perché — insieme allo sterno -- hanno un midollo ricco di staminali anche ìn età adulta. «E siamo convinti— spiega il medico —che queste cellule abbiano un "effetto balia" sulle nuove arrivate». La cresta iliaca può essere raggiunta con un piccolo ago, in anestesia locale, e con un'infusione che dura un quarto d'ora. Più complesso è invece l’isolamento e la purificazione delle cellule dal pancreas asportato dal chirurgo: una procedura che può durare fino a un paio di giorni e richiede laboratori attrezzati. «I nostri studi ora andranno avanti» dice Piemonti. «Abbiamo infuso le cellule del pancreas nel midollo di 4 pazienti con diabete di tipo I, molto più diffuso». In questo caso non si possono usare le cellule del paziente, danneggiate alla fonte dalla malattia. Serve un donatore, e quindi la terapia anti-rigetto. «Nulla vieta poi che il midollo possa accogliere altre cellule produttrici dí ormoni, come quelle della paratiroide o di organi ancora diversi». I PAZIENTI L'esperimento ha riguardato quattro pazienti che hanno d'Ovulo subire l'asportazione del pancreas LA MALATTIA Completamente privi di pancreas, i quattro sarebbero stati condannati a una forma di diabete particolarmente grave IL PRELIEVO Dopo aver prelevato il pancreas, i medici hanno conservato le cellule produttrici di insulina e le hanno reinfuse nei pazienti L'INSULINA L'infusione è avvenuta ne! midollo osseo del bacino. Le cellule del pancreas si sono ambientate, producendo insulina _____________________________________________________________ Corriere della Sera 09 Giu. ’13 LOMBROSO È VIVO E LOTTA INSIEME A NOI: Chiedetelo all'Fbi di Emilia Musumeci «M i chiamavano allora l'alienista della stadera. Ebbene da qui a qualche secolo del mio povero nome non resterà forse altra traccia che questa». Questo paventava nel 1886 Cesare Lombroso, acclamato da allievi e seguaci, deriso da colleghi e detrattori. Così come rapida fu la sua ascesa, altrettanto repentinamente calò l'oblio sulle sue teorie dopo la morte. Eppure oggi lo spettro di Lombroso sembra riapparire in controluce, come in una seduta spiritica di fine Ottocento. Basti pensare alle nuove teorie biologiche del crimine elaborate da neuroscienziati e genetisti e basate sul funzionamento del cervello e sull'importanza dei fattori ereditari e genetici nel comportamento antisociale e violento. Adrian Raine, psicologo e criminologo di fama internazionale, non sembra farne mistero tanto da far riferimento alla ricerca lombrosiana nel suo ultimo lavoro, intitolato, non a caso, The anatomy of violence. The biological roots of crime («la Lettura», 12 maggio). Lo stesso dicasi per le ricerche del neuroscienziato Kent Kiehl, tese a dimostrare la diversità dei cervelli dei criminali psicopatici per l'impossibilità di provare empatia che richiamano i folli morali ottocenteschi incapaci di provare emozioni. Tuttavia, se Lombroso è ricordato Oltreoceano come il padre della moderna criminologia, in Italia il riferimento al medico veronese assume una connotazione negativa, come si evince dall'aggettivo lombrosiano — appunto — usato per indicare, in maniera semplicistica, la possibilità di identificare un delinquente dal suo volto. Lombroso è stato accusato altresì di ogni tipo di nefandezza: dalla diffusione di pregiudizi nei confronti del popolo meridionale e della donna fino alle politiche di eugenetica del regime nazionalsocialista. In realtà, malgrado gli errori scientifici, il lascito di Lombroso è ben più profondo, avendo sovvertito l'approccio agli studi penalistici: grazie al metodo positivista, lo studio astratto del reato è soppiantato dallo studio diretto ed empirico del criminale in tutte le sue sfumature. Non solo il suo volto e la sua conformazione cranica ma anche il suo modo di esprimersi attraverso il linguaggio verbale (il gergo) o corporeo (i tatuaggi) e persino i suoi manufatti. La spiegazione lombrosiana del crimine dunque non è cristallizzata in una teoria ma è un quadro composito in cui le cause scatenanti dell'agire criminoso (dall'atavismo all'epilessia), pur avendo un substrato soprattutto biologico, si intrecciano con i fattori socio-culturali, dando vita a una spiegazione multifattoriale del crimine, simile a quella adottata dall'Fbi americano a partire dagli anni Settanta del Novecento, base del moderno criminal profiling. Ma l'odierna neurocriminologia e le ricerche lombrosiane, a dispetto dell'ovvia diversità di contesti e strumenti, sono accomunate soprattutto dagli stessi interrogativi di fondo, ancora senza risposta: l'uomo è predisposto dalla nascita alla violenza? Che ruolo ha il cervello nelle nostre decisioni morali? Siamo davvero liberi di scegliere tra bene e male? _____________________________________________________________ Corriere della Sera 08 Giu. ’13 LOMBROSO: FAVORISCE I FURTI E CONDUCE ALL'OMICIDIO» I DIFETTI DELLA BICICLETTA SECONDO LOMBROSO Qualcuno sostiene che le gite in bicicletta siano le più leggiadre. Altri non hanno dubbi: è il migliore mezzo per spostarsi in città. Medici ed ecologisti la adorano. Peccato che Cesare Lombroso (nel ritratto), celebre per il saggio «L'uomo delinquente», che condizionò i codici penali di mezzo mondo, considerasse la bicicletta un pericolo sociale. Gite? Salute? Viaggetti? Per carità: lo scienziato italiano in uno scritto uscito nel 1900 sulla «Nuova Antologia» — e ora ripubblicato a cura di Matteo Noja con il titolo «Il ciclismo nel delitto» dall'editore La Vita Felice (pp. 240, 13,50) — ne decretava la pericolosità sociale. Qualche anima candida si strapperà i capelli, ma Lombroso argomentò con i mezzi a sua disposizione che essa favorisce l'aumento della criminalità, agevola fughe e alibi, facilita il furto e quasi tutti i generi di appropriazioni indebite; infine — udite, udite — sa condurre all'omicidio. Nell'ultima parte, tuttavia, il celebre studioso evidenzia anche talune qualità. Che dire? Il libro è una delizia e Matteo Noja, oltre ad avere aggiunto le conclusioni dell'edizione 1902, aver vergato una «Breve storia della bicicletta» e il saggio «Scrittori sul sellino», ci ha soprattutto dato la bibliografia più completa oggi esistente degli scritti di Lombroso (ben 120 pagine). _____________________________________________________________ Corriere della Sera 09 Giu. ’13 UN BATTERIO PER AMICO «Nel nostro intestino c'è una foresta amazzonica da salvare». Michael Pollan compie un viaggio nel proprio corpo e conclude: questa è una società che sterilizza tutto, basta dal nostro inviato a New York MASSIMO GAGGI «N el nostro intestino c'è una foresta amazzonica da salvare»: dobbiamo cambiare stile di vita se vogliamo evitare che la strage indiscriminata dei batteri che vivono nel nostro organismo condotta in tutti i Paesi occidentali, e soprattutto negli Stati Uniti, ci esponga sempre più ad allergie, malattie autoimmuni e cardiovascolari, obesità, diabete. Parola di Michael Pollan, l'ambientalista pragmatico e «crociato» di un'alimentazione responsabile, che coi suoi libri, dal Dilemma dell'onnivoro (Adelphi) al recentissimo Cooked (The Penguin Press), ha denunciato l'impatto sulla nostra salute dei processi industriali di trasformazione del cibo. Un attivista accolto nelle librerie d'America come una rockstar, che invita una nazione ormai abituata a vivere di fast food e che in cucina usa solo il forno a microonde, a mettersi ai fornelli e a ridarsi una cultura dell'alimentazione. Febbrile e infaticabile, Pollan si è già tuffato in un'altra battaglia, mettendo stavolta nel mirino i germi che vivono nel nostro corpo. Alcuni di loro, quelli maligni, sono da combattere, lo sappiamo. Così come sappiamo che molti di questi microrganismi che vivono nell'uomo sono nostri amici. Tanto che dopo una cura antibiotica il medico tende a prescrivere terapie per ripristinare la flora batterica. Ma oggi la questione si ripropone con molta più forza e in termini in parte nuovi per almeno due motivi: l'emergenza dei superbatteri, divenuti ormai resistenti agli antibiotici che abbiamo usato in modo massiccio e spesso sconsiderato per parecchi decenni, e lo sviluppo della tecnologia della mappatura del genoma, che ormai consente di avere un'immagine completa del patrimonio genetico dei soggetti analizzati. Una tecnica che ora comincia a essere applicata anche al microbioma, il nostro patrimonio batterico. È una scienza nuova, che sta muovendo i primi passi. I microbiologi e gli altri analisti che lavorano nei laboratori sparsi in tutti gli Stati Uniti studiano molto e parlano poco: sono consapevoli della complessità della materia e del rischio di suscitare illusioni. È avvenuto con la mappatura del genoma, presentata qualche anno fa come la chiave per combattere malattie tremende, l'Alzheimer per esempio, per le quali, invece, non abbiamo ancora trovato alcun trattamento efficace. I numeri rendono l'idea delle difficoltà affrontate dagli scienziati, ma per il profano sono poco più di una curiosità: nel corpo umano vivono 100 mila miliardi di batteri (non è un errore, avete letto bene), solo il 10 per cento dei quali ha un'origine umana. Molte cose sono ormai abbastanza chiare: i popoli dell'Africa o del Sud America che vivono soprattutto di agricoltura, in condizioni igieniche precarie e con una dieta ricca di fibre e quasi priva di carni, sono più esposti a infezioni potenzialmente mortali, hanno aspettative di vita più brevi, ma sono anche assai meno soggetti alle allergie e, soprattutto, alle malattie del sistema immunitario che, invece, nell'Occidente «sterilizzato» colpiscono ormai almeno 50 milioni di persone. Il giornalista scientifico Moises Velasquez-Manoff ha dedicato un intero saggio, An Epidemic of Absence (Scribner), allo studio di questo fenomeno arrivando alla conclusione che le malattie autoimmuni e le altre con componenti allergiche (dal lupus all'asma, fino al morbo di Crohn) colpiscono ormai un americano su cinque: percentuali mai viste prima. Fenomeni legati all'uso, e spesso all'abuso, di antibiotici: quelli prescritti dai medici per combattere qualche patologia (ogni ragazzo americano riceve 20 cicli di antibiotici tra i 10 e i 18 anni) e quelli assorbiti consumando carne trattata con antibiotici dall'industria della trasformazione. Antibiotici che negli Usa spesso sono presenti perfino nell'acqua potabile. Di alcuni problemi, di certi squilibri provocati dalla diffusione dell'alimentazione industriale, ci si comincia a rendere conto solo oggi. Ad esempio della scarsa utilizzazione della parte inferiore dell'intestino da parte delle persone che mangiano molti cibi processati dalle industrie. Anche quando l'obiettivo è in apparenza condivisibile, come quello di facilitare e accelerare l'assimilazione, ci sono, poi, conseguenze perché uno dei risultati è quello di lasciare disoccupata la seconda parte dell'intestino. Ma il problema più grosso, oggi, è quello dei superbugs: superbatteri resistenti agli antibiotici tradizionali come, o anche più, dello stafilococco che ha rischiato di uccidere Vasco Rossi. L'allarme per i germi patogeni come il «C. difficile» che hanno imparato a difendersi dai farmaci e che uccidono ogni anno 14 mila americani è ormai talmente alto che governo, industrie farmaceutiche ed esperti sono orientati ad autorizzare, almeno nei casi più gravi, il trattamento dei pazienti con nuovi superantibiotici ancora in fase di sperimentazione. Una richiesta sicuramente comprensibile, dal punto di vista di chi non ha altre armi per combattere la sua malattia, ma questa continua rincorsa lascia sul campo batteri sempre più resistenti che ormai la fanno da padroni soprattutto negli ospedali: i luoghi più asettici sono anche quelli dai quali il 30 per cento dei pazienti Usa se ne viene ormai via, dopo una degenza, con qualche infezione più o meno grave. Un universo affascinante e spaventoso al tempo stesso che Pollan ha deciso di esplorare con un viaggio attraverso i centri di ricerca e sottoponendosi in quello forse più avanzato, il Biofrontiers Institute della University of Colorado a Boulder, alla sequenza del suo microbioma: l'esame, cioè, come ha raccontato lui stesso in un saggio pubblicato dal magazine del «New York Times», non dei suoi geni umani ma di «centinaia di microbi che condividono con me il mio corpo», prelevati a campione tra quelli depositati sulla pelle, sulla lingua e quelli che vivono nell'intestino. Un viaggio nel quale lo scienziato-divulgatore si è addentrato nella diversità del patrimonio batterico dei diversi popoli: ha imparato, ad esempio, che i giapponesi hanno un batterio — assente nell'intestino degli occidentali — che consente loro di digerire le alghe. E ha cominciato a capire quanto gli squilibri microbici possano influenzare il metabolismo (e quindi lo sviluppo di patologie come il diabete, le malattie cardiovascolari e la stessa obesità) vedendo dimagrire i topi obesi nei quali sono state trapiantate le colonie batteriche di topi assai più magri. Pollan è, però, rimasto colpito dalla scarsa disponibilità degli scienziati a trasformare i risultati delle loro ricerche in prescrizioni per la vita di tutti i giorni. Spiegano tutti che c'è ancora molta strada da percorrere prima di arrivare a certezze definitive. Ma alla fine, osservando bene il loro comportamento, il loro stile di vita, l'esploratore del corpo umano qualche idea se l'è fatta: «A differenza del genoma dell'uomo, che è la nostra identità permanente, il patrimonio batterico è qualcosa che possiamo cambiare: un giardino che è dentro noi stessi e che possiamo coltivare, sapendo che la sua cura è importante per le nostre condizioni di salute. La maggior parte delle persone che ho incontrato nel mio viaggio cerca di modificare le colonie dei germi delle loro famiglie riducendo ai casi più gravi la somministrazione di antibiotici ai figli, lasciandoli giocare anche in luoghi piuttosto sporchi e con gli animali, disinfettando assai meno la loro abitazione. Quanto all'alimentazione, c'è un maggiore ricorso alle sostanze fermentate — dallo yogurt ai crauti —, mentre viene ridotto, per quanto possibile, il consumo di cibi processati, poveri di fibre e con molti additivi: mi ha colpito vedere la profonda diffidenza di questi ricercatori nei confronti anche di sostanze molto comuni e che io non avevo mai considerato un pericolo come gli emulsionanti e il polisorbato». In anni in cui la crisi economica globale e il fallimento dei tentativi di raggiungere intese planetarie hanno fatto passare in secondo piano la battaglia per la tutela dell'ambiente, Pollan propone una sorta di nuova ecologia: una battaglia per la biodiversità da trasferire anche all'interno del nostro corpo. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 09 Giu. ’13 IL PROFETA DELL'OMEOPATIA CHE SFIDÒ LA MEDICINA di CARLO VULPIO Lo scienziato, morto a 102 anni, ha portato nel nostro Paese le cure non chimiche A Roma apre il primo museo P oiché la storia della medicina omeopatica, soprattutto in Italia, è anche la storia di un pregiudizio e di ripetuti anatemi, non si può non gioire per la fine di questo pregiudizio, che finalmente si spegne dopo un calvario durato sessantacinque anni. Un cammino faticoso e contromano che si può riassumere, senza togliere nulla a nessuno, con un nome, Antonio Negro, morto nel 2010 a 102 anni, e con tre date simboliche — 19 luglio 1947, 2 luglio 1984, 17 giugno 2013. Quest'ultima è la data in cui verrà inaugurato a Roma, in piazza Navona, il primo Museo dell'Omeopatia. Un museo come non ce n'è in nessun'altra parte d'Europa, nemmeno nel Centro omeopatico europeo di Bruxelles. Qualcosa di simile si trova all'Istituto di storia della medicina di Stoccarda — dove, a cura della Fondazione Bosch, sono custoditi i manoscritti delle opere del medico e scienziato Samuel Hahnemann, il padre dell'omeopatia nato in Germania nel 1755 —, ma si tratta più di un archivio che non di un museo. A Roma, invece, la Fondazione Negro ha allestito un museo vero e proprio (documenti e oggetti provengono in gran parte dalla biblioteca medica e dall'archivio privato del professor Antonio Negro), che abbiamo visitato in anteprima: libri rari, edizioni uniche, manoscritti — di Hahnemann, ma anche di Costantin Hering, anch'egli tedesco, «esportatore» dell'omeopatia negli Stati Uniti — e memorabilia di ogni tipo, tra i quali più di duecento trousse di rimedi omeopatici, come quella, elegantissima, dell'ultima zarina, Aleksandra Feodorovna, che si curò omeopaticamente fino a quando a corte non arrivò il monaco «guaritore» Grigorij Rasputin. Il 17 giugno prossimo, l'inaugurazione del museo da parte del ministro della Salute dovrebbe segnare l'ultima tappa di quel pregiudizio antiomeopatico che ancora oggi rispunta a intermittenza, ma con non minore ferocia, e contro il quale Antonio Negro, ligure di Alassio, si batté fin da giovane, grazie all'incoraggiamento e al sostegno di Nicola Pende, pugliese di Noicattaro, che fu suo maestro, oltre che fondatore della moderna endocrinologia, e gli diede il permesso di prescrivere rimedi omeopatici. Anche se in realtà, dirà Negro, «io l'omeopatia l'ho conosciuta all'età di dodici anni, quando guarii grazie alle cure del nostro medico di famiglia, l'omeopata Dante Biscella, che si era perfezionato allo Hahnemann Medical College di Filadelfia». Nomi di persone e di luoghi, fino a quel momento, sono quasi sempre stranieri. Anche tra i pazienti famosi. Nel mondo della musica, per fare un esempio, troviamo soltanto due italiani — Niccolò Paganini e Luigi Cherubini —, gli altri si chiamano Fryderyk Chopin, Johannes Brahms, Robert Schumann, Richard Wagner, Maurice Ravel, Cole Porter. In Italia l'omeopatia arranca, negli anni Trenta ci sono soltanto tre farmacie omeopatiche, ma nel dopoguerra c'è un risveglio che convince Negro a fondare assieme ad altri medici il Centro ippocratico hahnemanniano italiano. È il 19 luglio 1947. «È tempo — dice Negro — che la diffusione dell'omeopatia in Italia raggiunga lo sviluppo che ha negli altri Paesi». Due anni dopo, il Centro organizza i primi corsi. A Roma, a Milano e a Napoli — storicamente l'epicentro della omeopatia italiana — dove nel 1970 con Alma Rodriguez, Tomas Paschero e Proceso Ortega, Negro fonderà la Luimo (Libera università internazionale di medicina omeopatica). Poi ci sono l'Europa — specialmente le scuole svizzera e francese — e il mondo intero: India, America Latina, Israele, ancora oggi all'avanguardia nella ricerca e nella pratica omeopatiche; e gli Stati Uniti, dove dei duecento ospedali omeopatici «puri» (informati ai principi hahnemanniani) non ne è rimasto nemmeno uno. «Dopo la morte di Hering, la tradizione omeopatica negli Usa è stata distrutta dallo strapotere delle industrie farmaceutiche — dice il professor Francesco Negro, figlio di Antonio e omeopata anch'egli —. Sono rimasti soltanto i bellissimi volumi di omeopatia, molti dei quali italiani, della Libreria del congresso». In quegli anni dell'immediato dopoguerra l'omeopatia italiana, avversata e spesso anche derisa dalla medicina ufficiale, fa grandi passi avanti e, soprattutto, cerca con essa un confronto pubblico, franco, aperto. Non solo per confutare accuse infondate e per affermare un principio logico e scientifico quant'altri mai, e cioè che non si può criticare senza conoscere e addirittura bocciare ignorando, ma soprattutto per superare dogmi inutili. In una magistrale conferenza del 1948, a Roma, al Centro internazionale di comparazione e sintesi diretto da monsignor Maurizio Raffa, Negro — affrontando il tema della malattia e dei malati da Alcmeone di Crotone (V secolo avanti Cristo) a Ippocrate di Kos, da Galeno di Pergamo a Paracelso, fino a Samuel Hahnemann — afferma che il dualismo medico omeopatia-allopatia è una lotta insensata. «È un dualismo che separa quanto è destinato a essere unito — dice Negro —. Infatti la medicina è una: essa analizza l'uomo quale costrutto materiale, per sintetizzarlo nel suo complesso psico-fisico». Le certezze dei denigratori vacillano, persino Pio XII e poi Paolo VI (ma il primo Papa a provare l'omeopatia fu Leone XIII) ricorrono con successo alle terapie omeopatiche somministrate dal professor Negro, che per questo viene insignito del prestigioso titolo di commendatore dell'Ordine di San Gregorio Magno. E dopo i papi, sarà la volta del grande pianista Arturo Benedetti Michelangeli, dei presidenti della Repubblica Sandro Pertini, Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro, del soprano italo-statunitense Anna Moffo e di Eduardo De Filippo. Oltre a tutti quei personaggi famosi di cui non si può fare il nome per ovvie ragioni di riservatezza e di tutti quei medici allopati, anche luminari, che si curano con l'omeopatia ma non vogliono che si sappia. Ma dieci milioni di persone in Italia e oltre seicento milioni nel mondo che si curano con l'omeopatia non sono un'opinione. Evidentemente, se ci sono ancora atteggiamenti negazionisti e contrasti ingiustificati è perché, come disse Negro il 2 luglio 1984 in una conferenza all'Istituto superiore di sanità, «c'è un grosso problema di cultura». Ma poiché — aggiunse — nessuna teoria può negare i fatti, «è sommario e superficiale accusare la medicina omeopatica di ciarlataneria: noi non curiamo col pendolino o con i tarocchi». E rivolgendosi agli allopati: «Noi e voi tendiamo, quale fine ultimo, alla sanità dell'uomo. Quindi dovremmo instaurare uno scambio di verità, superando così la pesante ipoteca di una economia farmaceutica alla quale non farà mai comodo una medicina come la nostra. Noi vogliamo uscire dal ghetto, ma non con lo spirito di chi si deve scusare di esercitare la sua medicina, quella con la quale cura se stesso, i suoi cari e le persone che hanno fiducia in lui». Il Museo dell'Omeopatia vuol essere anche questo, un modo per uscire definitivamente dal ghetto e abbattere ogni pregiudizio. «In un'epoca che poco alla volta — disse ancora, profeticamente, Antonio Negro in quell'orwelliano 1984 — ci sta trasformando nelle appendici biologiche delle macchine e nei servi sciocchi di inconfessabili interessi altrui». _____________________________________________________________ Corriere della Sera 09 Giu. ’13 DIABETE, CALANO I RICOVERI PER COMPLICANZE ACUTE In Italia diminuiscono i ricoveri per le complicanze acute del diabete. Crisi ipoglicemiche, iperglicemie complicate da chetoacidosi e iperosmolarità nel decennio 2001-2010 hanno registrato un calo del 51 per cento. È quanto dimostra una ricognizione condotta da alcune ricercatrici dell'Istituto superiore di Sanità (Flavia Lombardo e Marina Maggini) e del Dipartimento di scienze mediche dell'Università di Torino (tra cui Gabriella Gruden, membro del Comitato scientifico della Società italiana di diabetologia e Graziella Bruno, past-president della medesima società), pubblicato sull'ultimo numero della rivista PLoS ONE. In questo intervallo di tempo sono stati oltre 7,6 milioni i ricoveri correlati al diabete in Italia; tra questi, il 3,5% (266.374) è stato causato dalle complicanze acute della malattia, ovvero da episodi di coma ipoglicemico (5,6% dei ricoveri per complicanze) o da complicanze iperglicemiche (chetoacidosi e iperosmolarità), che rappresentano ben il 94,4% dei ricoveri per complicanze acute. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 09 Giu. ’13 GLI ANTI-VIRUS DEL FUTURO Dalla biologia sintetica alla terapia genica. Le alternative ai vaccini tradizionali mirano a bloccare tutti i ceppi influenzali con un solo prodotto hi-tech. Una ricerca che porta la firma di due italiani Craig Venter: «Siamo nell'era del teleporting. Trasferiamo dati e, con essi, i codici della vita» Agnese Codignola e Marco Passarello Se il santo Graal della ricerca sui vaccini influenzali è ancora poco più che una concreta speranza, per il vaccino semi-universale le cose cambiano. Spiega Rino Rappuoli, responsabile mondiale del gruppo Vaccines di Novartis, che ha sede a Siena: «In attesa che le proteine che non mutano possano diventare target di vaccini universali, abbiamo già oggi un vaccino quasi universale, che ha migliorato sensibilmente l'efficacia nei bambini e negli anziani. Il merito è di un adiuvante naturale, un'emulsione chiamata MF59, che porta l'immunizzazione dei bambini dal 43 al 90% e che abbassa le ospedalizzazioni degli anziani del 24 per cento. Inoltre, il vaccino con adiuvante ha dimostrato di funzionare anche quando il virus muta leggermente, avvicinandosi quindi all'universalità». Ma i progressi non finiscono qui. Un altro passo in avanti molto importante, che potrebbe modificare la copertura vaccinale in tutto il mondo, è di carattere metodologico ed è stato esposto in un articolo appena pubblicato dal gruppo di Rappuoli insieme a quello di Craig Venter su «Science Traslational Medicine» (http://stm.sciencemag.org/content/5/185/185ra68). Spiega l'esperto: «Stiamo effettivamente passando alla teleporting life, come ama definirla Venter: oggi non trasportiamo più i campioni con i ceppi da un angolo all'altro del pianeta, ma le informazioni e, con esse, i codici della vita. Una possibilità che ci ha consentito di ottenere un vaccino in cinque giorni dalla prima segnalazione, contro i sei mesi necessari oggi, come abbiamo avuto modo di dimostrare in seguito alla recente comparsa in Cina di un nuovo ceppo». Il giorno di Pasqua la Cina ha infatti messo online la sequenza di un nuovo ceppo appena isolato, H7N9, che ha fatto una quarantina di vittime. «Il lunedì – continua l'esperto – l'informazione è stata recepita a San Diego, dove i geni specifici di questo ceppo sono stati assemblati e poi inseriti in un virus realizzato partendo da altre sequenze, quelle delle proteine virali strutturali, già note. Il virus appena realizzato ha quindi permesso di sviluppare il vaccino, che era pronto il sabato successivo alla denuncia senza bisogno di far viaggiare nulla se non le informazioni». «La tecnologia su cui lavoriamo ancora oggi, inoculando ogni giorno 150.000 uova – 900 milioni ogni anno nel mondo – risale agli anni Trenta» conclude Rappuoli. «Funziona, ma è chiaramente obsoleta e farraginosa. La biologia sintetica unita alle nuove tecnologie ci permette finalmente di fare un passo in avanti nel futuro e di avere risposte rapidissime anche in caso di nuove pandemie». Una strada alternativa per opporsi preventivamente a tutti i virus dell'influenza, e non solo a un ceppo in particolare è quella che ha deciso di percorrere l'americano James Wilson, dell'Università della Pennsylvania. Wilson si occupa di terapia genica, e ha avuto l'idea di utilizzare un virus innocuo per trasportare nelle cellule del paziente i geni per indurle a produrre un anticorpo in grado di neutralizzare tutti i virus influenzali, anticopro che era stato isolato nel 2011 dall'immunologo italiano Antonio Lanzavecchia, direttore dell'Istituto di Ricerca in biomedicina di Bellinzona. L'esperimento è stato condotto su topi e furetti, che hanno regolarmente prodotto gli anticorpi – che possono essere prodotti su larga scala ed essere somministrati come farmaci – e sono risultati protetti da un ampia combinazione di virus influenzali. Da noi interpellato, il professor Lanzavecchia ha elogiato la qualità del lavoro di Wilson, pubblicato su «Science Translational Medicine», ma si è anche dimostrato cauto sull'effettiva praticabilità di questo metodo. «La somministrazione di un anticorpo attraverso la terapia genica rappresenta un approccio molto interessante. Restano però da risolvere alcuni problemi come la durata della protezione, che potrebbe essere limitata perché le cellule epiteliali usate come bersaglio si rinnovano rapidamente, e l'opportunità di utilizzare la terapia genica come misura preventiva in individui sani. Per quanto riguarda l'efficacia degli anticorpi come tali occorrerà attendere ancora qualche anno per avere i dati dei test clinici». _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 09 Giu. ’13 ALLA FINE UN VIRUS-RNA CI SEPPELLIRÀ Superati i 6 miliardi l'umanità è incompatibile con l'ambiente. E la globalizzazione ci rende sempre più vulnerabili alla Sars e ad altre epidemie Arnaldo Benini L'umanità è una specie connessa al resto della natura vivente per origine e destino, nella salute e nella malattia. Gli esseri viventi sono collegati fra loro, scrive David Quammen nel suo splendido studio, anche dal legame naturale delle infezioni, cioè dalle interferenze di una specie nell'altra all'interno degli edifici biofisici dell'ecosistema. Gli agenti delle infezioni sono microscopici (batteri, funghi, amebe) e ultramicroscopici (i virus). La storia è stata influenzata da epidemie di peste, colera, vaiolo, tifo, tbc, influenza, come quella del 1917-1919 con 50 milioni di vittime e ora d'Aids, che ha fatto oltre 30 milioni di morti e infetta 34 milioni di persone. Le cause dello scoppio più o meno improvviso delle epidemie sono mutazioni degli agenti patogeni e degli ospiti, cambiamenti climatici, sociali e ambientali, comportamenti nuovi delle specie aggredite. Le malattie non virali sono controllate con medicine e misure igieniche. L'assedio preoccupante è posto oggi dai virus. Sorti contemporaneamente ai primi esseri viventi, i virus, sostengono molti biologi, contengono un archivio genetico che sta circolando da miliardi d'anni, con effetti sorprendenti. La coevoluzione ha portato, ad esempio, ad un mescolamento genetico in seguito al quale il nostro genoma è costituito per l'8% di materiale virale. C'è chi motteggia che i virus, nel corpo umano, si trovano a casa. Le nostre difese sarebbero geneticamente poco efficaci. Il libro di David Quammen è il resoconto delle strategie virali e delle recenti epidemie in uomini e in animali. Per il biologo Peter Medawar, premio Nobel per la medicina nel 1960, «i virus sono frammenti di cattive notizie avvolti in una proteina». In realtà, non tutti i virus sono nocivi in ogni ospite e in ogni momento. È interesse del virus, parassita e opportunista, non danneggiare troppo e non uccidere l'ospite troppo presto. Il virus Ebola è rimasto, fino a ora, circoscritto perché uccide l'ospite troppo in fretta. Attraverso le vie respiratorie e digestive e per lesioni di pelle e mucose i virus entrano nelle cellule dell'ospite e, per riprodursi, le distruggono. Può succedere che relativamente poche cellule siano colpite e che l'infezione si diffonda senza disturbi. Per molte generazioni, o anche per secoli, può stabilirsi un equilibrio ecologico fra un virus divenuto meno aggressivo e un ospite più resistente in un ecosistema relativamente stabile. La tregua è spesso finita se il virus cambia ospite per zoonosi (che è il passaggio da una specie all'altra) o per cambiamento ambientale o per mutazione genetica. I virus più nefasti sono quelli che colonizzano più di una specie, perché sopravvivono anche se uno degli ospiti è diventato resistente. Poliomielite e vaiolo sono, da tempo, sotto controllo perché colonizzano solo l'uomo. Il 60% delle infezioni virali umane e tutte le influenze avvengono per zoonosi. Pipistrelli, uccelli, polli sembrano essere fra le più vaste riserve dei virus che ci assediano. I virus sono puro materiale genetico di un genoma semplice o molto semplice, senza meccanismi della riproduzione e senza metanolismo. Della vita condividono gli eventi della selezione naturale: competono, combattono, attaccano e distruggono per sopravvivere e moltiplicarsi, mostrando uno straordinario adattamento all'ambiente. Gli antibiotici agiscono contro i batteri impedendo la crescita della loro membrana o interferendo col metabolismo delle loro proteine. I virus non hanno né l'una né l'altro, e per questo sono indifferenti ai killer drugs. Contro di loro agiscono, finché i virus non mutano, gli anticorpi, cioè i vaccini. Il materiale genetico virale può essere Rna o Dna. Il virus-Rna è più semplice perché non ha la doppia elica dei geni ma una sola filiera di molecole. Esso ha un ritmo di mutazioni e variazioni genetiche che è circa mille volte quello dei virus-Dna. In poco tempo i virus-Rna producono nel corpo invaso popolazioni immense e geneticamente non identiche, e quindi meno controllabili da parte degli anticorpi. I virus-Rna causano le malattie più frequenti come influenze e raffreddori, inoltre l'Aids, la Sars (la cosiddetta e temibile influenza dei polli, che nell'uomo provoca l'insufficienza respiratoria acuta), il morbillo, gli orecchioni, la febbre gialla, la rabbia, la dengue l'Ebola, l'Hendra e altre. Essi si trovano ovunque, negli oceani, nel suolo, nelle città e nelle foreste e infettano batteri, funghi, piante e animali. Si pensa che ogni cellula ospiti almeno un virus-Rna. I virus-Dna (come quelli della varicella e dell'herpes zoster) sono stabili e lenti nelle mutazioni e creano di regola popolazioni di dimensioni modeste. Quali "cattive notizie", per usare le parole di Peter Medawar, dobbiamo aspettarci? I microbiologi paventano un next big one, cioè una pandemia virale, probabilmente di tipo influenzale, con un massacro di proporzioni inaudite. Che cosa la farà scoppiare? Quando la crescita di una specie acquista dimensioni innaturali, essa o si arresta lentamente o per crollo improvviso. Una volta superati i sei miliardi di persone, ammonì tempo fa il biologo Edward O. Wilson, l'umanità si avvicina all'incompatibilità con l'ambiente. Da allora la popolazione è cresciuta di un miliardo e continua a crescere di 70 milioni di persone l'anno. La massa umana supera di oltre 100 volte il volume di qualunque altra specie vivente e vissuta. Essa si è estesa e continua a dilagare in tutti gli angoli della terra, sconvolgendo ecosistemi remoti e antichi di millenni, costruendo strade, estirpando e asfaltando boschi e foreste, usando a profusione concimi tossici, inquinando laghi, mari, fiumi e torrenti, trivellando in terra e in mare. Una delle conseguenze della devastazione ambientale è l'attivazione di batteri e virus fino allora silenti. Le dimensioni e la velocità della crescita umana depongono a favore dell'arresto per schianto. Come avverrà? Molti epidemiologi ritengono che i dati convergano a favore dell'ipotesi che il next big one, cioè la riduzione drastica della popolazione, sarà provocata da una pandemia influenzale di virus-Rna, facilitata anche dalla rapidità dei collegamenti fra regioni lontanissime. I virus potrebbero essere nuovi per mutazione oppure esser vissuti in altri animali e attaccare per zoonosi l'uomo per la prima volta, trovandolo privo di difesa in un ambiente divenuto sfavorevole per eccesso d'abitanti. Anche se questa previsione non dovesse pienamente avverarsi, per miliardi d'esseri umani la vita potrebbe diventare un inferno. ajb@bluewin.ch _____________________________________________________________ Le Scienze 07 Giu. ’13 NEUROGENESI NEGLI ADULTI? LA CONFERMA ARRIVA DALLA BOMBA Nel cervello umano adulto nascono ogni giorno circa 1400 nuovi neuroni. La scoperta, che riguarda in particolare l'ippocampo, è avvenuta grazie a una tecnica di datazione al carbonio-14 concettualmente simile a quella usata in archeologia, sfruttando il fatto che la quantità di questo isotopo radioattivo in atmosfera - e fissato nel DNA dei neuroni - è costantemente aumentata nel secondo dopoguerra a causa dei test nucleari al suolo, per poi diminuire altrettanto costantemente dopo la loro messa al bando (red) La pratica di testare al suolo gli ordigni nucleari è stata una delle più deleterie della Guerra Fredda e ha provocato un numero difficilmente calcolabile di vittime umane e di danni all'ambiente a causa della radioattività diffusa in atmosfera. Tuttavia, ha anche portato qualche vantaggio secondario, come dimostralo studio pubblicato sulla rivista “Cell” da un gruppo internazionale di ricercatori, a prima firma Kirsty L. Spalding, che hanno sfruttato quella radioattività per stabilire che anche nell'essere umano un numero significativo di neuroni dell'ippocampo, una regione cerebrale cruciale per la memoria e l'apprendimento, viene generato in età adulta. La scoperta potrebbe mettere la parola fine al lungo dibattito sulla questione della neurogenesi, che è possibile quantificare nei topi ma non negli esseri umani a causa dell'invasività delle indagini necessarie. Spalding e colleghi hanno perciò pensato di usarare un “orologio” fisico molto importante per le datazioni in diversi ambiti scientifici: il carbonio-14. L'abbondanza di questo isotopo radioattivo in atmosfera terrestre è aumentata a partire dal 1945 in seguito ai test nucleari che venivano effettuati al suolo, per poi diminuire costantemente dopo la loro messa al bando, in vigore dal 1963. Il carbonio entra nella catena alimentare attraverso le piante e viene fissato nel DNA ogni volta che si forma un nuovo neurone. I neuroni possono così essere datati come se fossero reperti archeologici. Misurando la concentrazione di carbonio-14 nel DNA dei neuroni umani, Frisén e colleghi hanno dimostrato che più di un terzo di quelli dell'ippocampo vengono regolarmente rinnovati per tutto il corso della vita. Ogni giorno, nell'adulto si aggiungono circa 700 nuovi neuroni per ogni ippocampo, con un ricambio annuale totale che si aggira intorno all'1,75 per cento e che declina solo leggermente con l'età. “Si è creduto a lungo che l'uomo avesse un numero di neuroni determinato alla nascita una volta per tutte”, sottolinea Jonas Frisén, uno degli autori della ricerca. “Questa è la prima prova sperimentale che la formazione di nuovi neuroni può contribuire alla funzione cerebrale anche in età adulta”. E' naturale a questo punto pensare a nuove prospettive di terapia per le malattie neurodegenerative. “Per molto tempo si è sospettato che la depressione fosse legata a una neurogenesi ippocampale ridotta, e i nostri risultati suggeriscono che usando questo processo come bersaglio potrebbero essere sviluppati nuovi e più efficaci antidepressivi", conclude Frisén. Ma la scoperta ha importanti implicazioni per le neuroscienze in generale. Come osserva Gerd Kempermann in un articolo di commento apparso su "Science", la neurogenesi adulta nell'ippocampo, oltre a contribuire alla plasticità del cervello potrebbe avere un ruolo non solo nella sua stabilità, ma addirittura nella sua individualizzazione e quindi nella formazione della personalità, come suggeriscono recenti ricerche sui gemelli monozigoti. _____________________________________________________________ Le Scienze 07 Giu. ’13 COME FU CHE GLI UCCELLI PERSERO IL PENE Un nuovo studio ha dimostrato che nel clade dei galliformi, che comprende i comuni polli e tacchini, lo sviluppo del pene si arresta in una primissima fase embrionale per effetto del meccanismo di apoptosi, la morte programmata delle cellule. Un ruolo fondamentale in questo processo è svolto dal gene Bmp4, che rimane silenziato nelle specie dotate di pene, come papere o emu (red) A un certo punto della loro storia filogenetica, gli antichi progenitori degli uccelli hanno perso il pene ed evoluto un sistema riproduttivo diverso. Unnuovo studio apparso sulla rivista “Current biology” a firma di Ana Herrera dell’Università della Florida a Gainesville in collaborazione con i colleghi dell'Università di Reading, nel Regno Unito, ha ora chiarito i meccanismi embrionali e genetici che bloccano lo sviluppo del pene in un clade molto diffuso di uccelli, quello dei galliformi. La riduzione e successiva perdita del pene da parte degli uccelli è uno dei processi più misteriosi dell'evoluzione, e nessuno dei meccanismi proposti finora si è rivelato convincente. Tutte le specie si riproducono infatti per fecondazione interna, ma solo il 3 per cento di esse possiede un fallo adatto alla penetrazione. In questo studio, Herrera e colleghi hanno analizzato lo sviluppo genitale embrionale di due cladi di uccelli strettamente imparentati: i galliformi (tra cui i comuni polli e tacchini), la maggior parte dei quali è priva di pene, e gli anseriformi (che comprendono cigni, oche e anatre), che invece hanno un pene ben sviluppato. I dati raccolti sono poi stati confrontati con quelli relativi a un gruppo di uccelli non volatori più lontani evolutivamente, i paleognati - la cui specie più conosciuta è l'emu - anch'essi dotati di pene. Si è così scoperto che nella prima fase embrionale, nei galliformi lo sviluppo del tubercolo genitale, precursore del pene, in effetti si verifica, ma poi le sue cellule vanno incontro ad apoptosi. A livello genetico, un ruolo fondamentale in questo processo è svolto da un gene specifico, denominato Bmp4: nei galliformi la sua attivazione corrisponde infatti all'interruzione dello sviluppo del pene. Lo stesso gene è invece silenziato negli anseriformi e negli emu. La comprensione dei meccanismi embrionali di sviluppo getta luce anche sul processo evolutivo, dal momento che, secondo uno dei cardini della biologia, lo sviluppo ontologico riproduce quello filogenetico. “La nostra ricerca mostra che la riduzione del pene durante l’evoluzione è avvenuta grazie all’attivazione di un normale meccanismo di morte cellulare programmata nella sua fase di sviluppo”, ha spiegato Herrera. "Il perché di questo processo non è ancora chiaro, ma si può ipotizzare che conferisca un maggiore controllo sulla vita riproduttiva". Il risultato offre una nuova prospettiva anche su possibili implicazioni per la salute umana. "I genitali sono tra gli organi che si riproducono più velocemente e che sono colpiti da difetti alla nascita quasi più di ogni altro", sottolinea Martin Cohn, ricercatore dell'università di Readings, autore senior dello studio. "Analizzando nel dettaglio le basi molecolari del suo sviluppo embrionale negli uccelli si può arrivare a una migliore comprensione anche delle possibili cause di malformazione nell'uomo". _____________________________________________________________ La Stampa 07 Giu. ’13 LO SPERMA POTREBBE ESSERE UN SUPERCIBO NATURALE Bere lo sperma: un uso comune a diverse specie animali, esseri umani compresi, potrebbe agire come un alimento naturale ricco di sostanze nutritive, vitamine e Sali minerali. Ma tra le specie animali è un’usanza che promuove la riproduzione LM&SDP Ci sono diverse specie animali che usano bere il liquido seminale maschile che, secondo uno studio, conterrebbe molte sostanze nutritive, vitamine e Sali minerali. Le femmine che per esempio adottano questa usanza, si ritiene lo facciano per nutrire il proprio organismo e le proprie uova. Anche se non è parte o pratica comune del nostro processo riproduttivo, spiegano i ricercatori della Monash University, alcuni esseri umani non disdegnano bere il liquido seminale maschile. Questo è tuttavia un atto molto più comune in diverse specie animali. Secondo il professor Benjamin Wegener della Facoltà di Scienze Biologiche presso la Monash, lo sperma maschile contiene sostanze come zucchero (fruttosio), acqua, acido ascorbico (vitamina C), acido citrico, enzimi, proteine, zinco e altre ancora. Tutte sostanze che si potrebbero tranquillamente trovare in una bevanda sportiva. Lo studio, pubblicato su Biology Letters, si è concentrato sull’osservazione dell’assunzione di sperma da parte di specie animali che utilizzano la riproduzione esterna. Questo comportamento, secondo gli scienziati, permette alla femmina di nutrire il proprio organismo e le uova, anche perché parte del liquido seminale ingerito rimane all’interno del tratto riproduttivo. Quello che dunque accade in alcune specie animali ha in sostanza scopi riproduttivi, mentre l’usanza di alcune persone di bere il liquido seminale maschile non ha di certo intenti riproduttivi, ma avviene in seguito ad altre situazioni… _____________________________________________________________ La Stampa 05 Giu. ’13 UN NUOVO ESAME DEL SANGUE PER SCOVARE L’ALZHEIMER Ricercatori spagnoli avrebbero creato un nuovo test del sangue che permetterebbe di diagnosticare la presenza della malattia di Alzheimer fin dalle prime fasi LM&SDP Poter diagnosticare per tempo lo svilupparsi della malattia di Alzheimer è un traguardo che sperano di raggiungere molti dei ricercatori impegnati nella ricerca su questa terribile malattia. Oggi, un team di scienziati spagnoli è a un passo dal perfezionamento di un esame del sangue in grado di scovare le minime tracce della presenza dell’Alzheimer. Ne dà notizia il Journal of Alzheimer's Disease, su cui è stato pubblicato lo studio condotto dai ricercatori della Araclon Biotech, una società di ricerca spagnola, coordinati dal professor Manuel Sarasa. I ricercatori si sono concentrati sul peptide, noto con il nome di beta- amiloide, che sarebbe la causa delle note placche, ritenute svolgere un ruolo primario nella malattia. L’accumulo di questi peptidi nel cervello si ritiene essere la causa della perdita di memoria e gli altri sintomi associati con la malattia, sebbene questo avvenga attraverso un processo che è tutt’ora poco chiaro alla scienza. Il professor Sarasa e il suo team, in questa ricerca hanno perfezionato due metodi di analisi del sangue che hanno battezzato “ABtest40” e “ABtest42”, che sono stati creati per misurare quantità anche molto piccole di questo peptide nel sangue. «Lo studio ha dimostrato che i nostri test sul beta amiloide nel sangue trovano un elevato livello di associazione tra i livelli del peptide e la malattia quando si confrontano persone sane con persone con decadimento cognitivo lieve – spiega Sarasa – Misurando tre diversi livelli nel sangue […] per due dei peptidi più significativi, beta amiloide 40 e beta amiloide 42, confrontando poi i rapporti di tali livelli con i metodi di diagnosi stabiliti, siamo stati in grado di mostrare sempre una relazione tra beta amiloide, i livelli di questi e la malattia». Secondo gli autori, lo studio è importante perché non solo permette di usufruire di un test poco invasivo e di facile esecuzione, ma permette di diagnosticare l’Alzheimer per tempo e far risparmiare denaro alla Sanità. Una volta poi che sarà anche stata trovata una cura per la malattia, potranno essere eseguiti degli screening della popolazione in più larga scala, in modo da poter prevenire la malattia stessa. _____________________________________________________________ Sanità News 06 Giu. ’13 DALLE DIMENSIONI DEI VASI DELLA RETINA SI LEGGE LO STATO DI SALUTE DEL CERVELLO Dalle dimensioni dei vasi sanguigni nella retina e' possibile verificare lo stato di salute del cervello e stimare quanti anni passeranno prima dello sviluppo della demenza e di altri deficit cognitivi. Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Psychological Science, secondo cui questa misura e' legata anche al quoziente intellettivo da giovani. I ricercatori della Duke University hanno usato la scansione digitale della retina per esaminare mille persone nate nel 1972 e nel 1973. Il risultato e' stato che chi ha le vene della retina piu' grandi ha anche un Qi piu' bassso a 38 anni e mostra anche numerosi problemi cognitivi. Sorprendentemente i dati hanno rivelato che le persone che a 38 anni hanno le venule piu' grandi avevano un Qi piu' basso anche durante l'infanzia. "Questo suggerisce - spiegano gli autori - che i processi che legano la salute vascolare e i processi cognitivi iniziano molto presto, prima che si sviluppino i problemi". RETINAL VESSEL CALIBER AND LIFELONG NEUROPSYCHOLOGICAL FUNCTIONING RETINAL IMAGING AS AN INVESTIGATIVE TOOL FOR COGNITIVE EPIDEMIOLOGY Abstract Why do more intelligent people live healthier and longer lives? One possibility is that intelligence tests assess health of the brain, but psychological science has lacked technology to evaluate this hypothesis. Digital retinal imaging, a new, noninvasive method to visualize microcirculation in the eye, may reflect vascular conditions in the brain. We studied the association between retinal vessel caliber and neuropsychological functioning in the representative Dunedin birth cohort. Wider venular caliber was associated with poorer neuropsychological functioning at midlife, independently of potentially confounding factors. This association was not limited to any specific test domain and extended to informants’ reports of cohort members’ cognitive difficulties in everyday life. Moreover, wider venular caliber was associated with lower childhood IQ tested 25 years earlier. The findings indicate that retinal venular caliber may be an indicator of neuropsychological health years before the onset of dementing diseases and suggest that digital retinal imaging may be a useful investigative tool for psychological science. _____________________________________________________________ Sanità News 04 Giu. ’13 DAGLI USA PASSI IN AVANTI VERSO IL FEGATO ARTIFICIALE "Il fegato puo’ rigenerarsi se una parte viene rimossa e questo – spiega l’ingegnere del Massachusetts Institute of Technology Sangeeta Bhatia – accende la speranza di produrre tessuto epatico artificiale per trapianti”. Le cellule del fegato mature, note come epatociti, perdono rapidamente la loro normale funzione quando sono rimosse dal corpo. “E ‘un paradosso, perche’ sappiamo che queste cellule sono in grado di crescere, ma in qualche modo non riusciamo a ottenere questo risultato” al di fuori dell’organismo umano, dice Bhatia, che insieme ai suoi colleghi e’ convinto di aver fatto un passo verso questo obiettivo. In un articolo su Nature Chemical Biology il team descrive la scoperta di una dozzina di composti chimici che possono aiutare le cellule epatiche non solo a mantenere la loro normale funzione se coltivate in laboratorio, ma anche a moltiplicarsi per la produzione di nuovo tessuto. Le cellule coltivate in questo modo potrebbe aiutare i ricercatori a sviluppare tessuto ingegnerizzato per trattare molte delle 500 milioni di persone che soffrono di malattie croniche del fegato come l’epatite C, dicono i ricercatori. Per questo studio il team ha fatto in modo che le cellule del fegato potessero crescere a strati con i fibroblasti, in piccole cavita’ su piatti in laboratorio. Questo ha permesso di capire in che modo 12.500 diverse sostanze chimiche influenzano la crescita e la funzione delle cellule ‘nel mirino’. Il fegato ha circa 500 funzioni, suddivise in quattro categorie generali: disintossicazione da farmaci, metabolismo energetico, sintesi proteica e produzione di bile. Grazie a uno screening su migliaia di cellule del fegato da otto diversi donatori di tessuti, i ricercatori hanno identificato 12 composti che hanno aiutato le cellule mantenere le loro funzioni chiave. Due di questi composti sembrano funzionare particolarmente bene nelle cellule da donatori piu’ giovani. Negli studi futuri, il team del Mit progetta di incorporare le cellule del fegato trattate ad hoc su ‘scheletri’ polimerici di tessuto e impiantarle poi nei topi, per capire se questi mini-fegati artificiali possono essere utilizzati come pezzi di tessuto IDENTIFICATION OF SMALL MOLECULES FOR HUMAN hepatocyte expansion and iPS differentiation Cell-based therapies hold the potential to alleviate the growing burden of liver diseases. Such therapies require human hepatocytes, which, within the stromal context of the liver, are capable of many rounds of replication. However, this ability is lost ex vivo, and human hepatocyte sourcing has limited many fields of research for decades. Here we developed a high-throughput screening platform for primary human hepatocytes to identify small molecules in two different classes that can be used to generate renewable sources of functional human hepatocytes. The first class induced functional proliferation of primary human hepatocytes in vitro. The second class enhanced hepatocyte functions and promoted the differentiation of induced pluripotent stem cell–derived hepatocytes toward a more mature phenotype than what was previously obtainable. The identification of these small molecules can help address a major challenge affecting many facets of liver research and may lead to the development of new therapeutics for liver diseases. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 04 Giu. ’13 PAZIENTI SCELTI IN BASE AI GENI PER SPERIMENTARE I FARMACI L'appello degli oncologi: oggi tempi troppo lunghi MILANO — I dieci diritti inviolabili dei malati sono proiettati su un megaschermo: «Il primo è avere cure mediche scientificamente valide». Lo scienziato Umberto Veronesi non ci gira intorno: «I diritti dei malati troppo spesso vengono calpestati: dal modo di condurre la ricerca per scoprire nuove cure, fino all'accoglienza in ospedale, dove arriva a mancare perfino la privacy. È necessario più che mai ripartire dai reali bisogni dei pazienti». Ieri è stata la giornata dell'Istituto Europeo di Oncologia (Ieo day), l'ospedale fondato da Umberto Veronesi nel '94 e che oggi accoglie 100 mila pazienti l'anno (il 55% provenienti da fuori Lombardia). «La ricerca va cambiata: dieci anni per portare un farmaco dal laboratorio al letto del malato sono troppi», ribadisce più volte Veronesi dal palco. Tutte le criticità vengono elencate da Aron Goldhirsch, il vicedirettore scientifico dello Ieo: «È necessario un ripensamento della sperimentazione sull'uomo». Tra i principi più dibattuti dagli oncologi dello Ieo vi è la randomizzazione, per cui un gruppo di malati viene sottoposto alla terapia standard e un altro alla terapia innovativa: la selezione oggi è casuale (random), mentre per i medicisarebbe meglio scegliere i pazienti in base a criteri genetici. «Bisogna scegliere in modo più mirato la popolazione da reclutare», sottolinea Pier Giuseppe Pelicci, condirettore scientifico dello Ieo: «Il farmaco Crizotinib, per esempio, funziona solo in quei pazienti con tumore del polmone portatore di una alterazione di uno specifico gene, l'Alk. È inutile, dunque, sperimentarlo a tappeto». Negli studi clinici è d'uso, ai fini del controllo dell'efficacia, somministrare a una percentuale di malati il placebo, una sostanza priva di qualsiasi effetto: «Ma non è più accettabile dare a un paziente una sostanza che sappiamo essere inefficace», ammette Goldhirsch. Per indicare la nuova strada da seguire il direttore dell'unità di Psicologia, Gabriella Pravettoni, porta come immagine il quadro di Renè Magritte, Il pellegrino (dove la testa di un uomo è staccata dal corpo): «Non bastano cure personalizzate focalizzate sulla cura del corpo — insiste tra gli applausi la psicologa —. Bisogna dare una risposta alla singola persona nella sua interezza, ricomponendo il puzzle del paziente senza volto». È la vera sfida, forse, della medicina del futuro. La bussola etica devono essere i diritti del malato. Veronesi ne elenca dieci. E — come quello di «avere cure scientificamente valide» — anche gli altri diritti vengono troppo spesso disattesi. Il secondo è «il diritto a cure sollecite»: «Non dovremmo avere solo otto o nove istituti oncologici, ma fare come la Francia, dove non ci sono liste d'attesa perché ce ne sono 30», chiarisce Veronesi. Il terzo, «Il diritto a una seconda opinione». Il quarto, «Il diritto allaprivacy»: «Ma che privacy c'è — domanda l'oncologo — senza la possibilità di una camera singola?». Il quinto, «Il diritto a conoscere la verità sulla malattia». Il sesto, «Il diritto a essere informato sulle terapie»: «Ma oggi il consenso informato è un foglio fitto — annota Veronesi — che serve solo al medico per tutelarsi da accuse di malpractice». Il settimo, «Il diritto a rifiutare le cure». L'ottavo, «Il diritto a esprimere le volontà anticipate»: «Meno male che la proposta di legge sul fine vita non è andata in porto — è la convinzione del medico —. Perché imponeva proprio il contrario». Il nono, «Il diritto a non soffrire»: «Abbiamo la morfina — è l'invito — usiamola». Il decimo, «Il diritto al rispetto e alla dignità». Insomma: è un decalogo che, oggi in Italia, sembra un libro dei sogni. Simona Ravizza sravizza@corriere.it