RASSEGNA 08/09/2013 ATENEI E CLASSIFICHE, IL GIOCO INUTILE FORNIAMO AGLI ATENEI GLI STRUMENTI PER MIGLIORARE UNIVERSITÀ STATI GENERALI PER ATENEI PIÙ COMPETITIVI L'ANVUR E I CRITERI PER LE VALUTAZIONI DUELLO TRA GOVERNATORI SULLE CLASSIFICHE DEGLI ATENEI ATENEI, LE CLASSIFICHE INSTABILI LA SAPIENZA OSCILLA DI 109 POSTI LE CLASSIFICHE DELLE UNIVERSITÀ: POSSIAMO DAVVERO FIDARCI? UN ESERCITO DI ASPIRANTI MEDICI IL FASCINO INTRAMONTABILE DELLA CURA TEST UNIVERSITARI, LA GRADUATORIA UNICA METTE FINE ALLE INGIUSTIZIE UNIVERSITÀ. IN CALO I PARTECIPANTI AI TEST VIA IL BONUS DI MATURITÀ MA SOLO DAL PROSSIMO ANNO SENZA BOCCIATURE LA SCUOLA SAREBBE MIGLIORE? ANCHE GLI UNIVERSITARI ITALIANI DELOCALIZZANO GLI STUDI ALL'EST NON ESISTE MERITO SE NON C’E’ DISCRIMINAZIO SE LA LAUREA ONLINE SFIDA ANCHE HARVARD I BAMBINI NELLA TRAPPOLA DELLA POVERTÀ GLI EFFETTI DELLA POVERTÀ SULLE RISORSE COGNITIVE SCIENZA, MODELLO PER LA SOCIETÀ CONTRORIFORMATORI IN RETE UFFICI PIENI DI COMPUTER, SPENTO UNO SU DUE PA: I PIU’ VECCHI I DOCENTI UNIVERSITARI E MAGISTRATI HANS E IL BELLO DEL MATTONE L'ARCHISTAR RIPENSA CASTELLO ========================================================= CONCORSO NAZIONALE PER GLI SPECIALIZZANDI HARARI: TICKET E SANITÀ SOSTENIBILE TICKET SANITARIO: L'ONESTÀ NON È ANCORA UNA VIRTÙ ASL5: LA PIÙ GRANDE AZIENDA DELL'ORISTANESE ASL7: CALAMIDA ACCUSA LA REGIONE ASL7: CALAMIDA TAGLIA E SI PREMIA UNICA: SOS ANTIBIOTICI: MOLTI SONO DIVENTATI INUTILI PERCHÉ 30 MINUTI DI CORSA BASTANO A TRASFORMARE L'UMORE INTERNET È UTILE A MOLTI MEDICI NEL RAPPORTO CON IL PAZIENTE L'ALZHEIRNER FAVORITO DALL'ECCESSO DI IGIENE" LE PROMESSE E LE ILLUSIONI DELLE DIETE GENETICHE VENDUTE SU INTERNET ATTIVITÀ FISICA QUANDO CI VUOLE IL CERTIFICATO L'ALLIEVO DI PASTEUR CHE SCOPRÌ IL BACILLO DELLA PESTE NERA SEMPRE PIÙ SORRISI «SBIANCATI» MA ATTENZIONE AL FAI DA TE SCIENZA, MODELLO PER LA SOCIETÀ CONTRORIFORMATORI IN RETE L'«IMPERIALISMO» DELL'OBESITÀ LE RAGIONI PER BANDIRE STAMINA MARROSU: L'USO DELLE STAMINALI TRA SCIENZA E MITO SALVIFICO UNA MAPPA NEURONALE PER DISTINGUERE TRA POCHI E MOLTI PERCHÉ SIAMO «INADATTI» ALLE SCELTE ECONOMICHE IL MARIO NEGRI RINUNCIA ALLA RICERCA CON GLAXO DAL SAN RAFFAELE UNA RICERCA SULLE FUNZIONI DELL'AMIGDALA MESSO A PUNTO UN FARMACO PER LE TRASFUSIONI SBAGLIATE UN’ALLEANZA INTERNAZIONALE PER CONTRASTARE LA DENGUE ALLO STUDIO UN NUOVO FARMACO CHE SALVA L’UDITO I MITI DA SFATARE SUL CERVELLO ========================================================= _____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 6 set. ’13 ATENEI E CLASSIFICHE, IL GIOCO INUTILE di MARINO REGINI* I mmaginiamo per un momento che gli inglesi, quando hanno reinventato il gioco del calcio, non avessero stabilito che una squadra può vincere, perdere o pareggiare in base alla differenza reti. In fondo lo scopo del calcio era far divertire gli spettatori, e quindi avrebbero potuto accontentarsi del fatto che le squadre giocassero bene. Facile però immaginare che dopo un pò i tifosi avrebbero detto che la propria giocava meglio delle altre, e quindi sarebbero nate le classifiche. Ma senza criteri universalmente accettati (come la differenza reti) ognuno avrebbe proposto classifiche diverse. Ad esempio, perché non basarsi per il 50 per cento sul possesso palla e per il resto sui calci d'angolo battuti? Ma altri avrebbero detto che solo gli esperti di calcio sanno quanto valgono le varie squadre, quindi meglio basarsi per il 50 per cento sulla loro opinione. E altri ancora avrebbero sostenuto che bisogna basarsi invece sul numero di palloni d'oro o di altri premi vinti dai giocatori delle varie squadre. Ecco, questo è ciò che succede con i ranking internazionali delle università (e peggio ancora con le classifiche nazionali). Quello di Qs, i cui risultati verranno presentati il 10 settembre, si basa per il 50 per cento sull'opinione di accademici e datori di lavoro (l'equivalente degli esperti di calcio) e per il resto su criteri disparati, quali il rapporto numerico fra docenti e studenti, la percentuale di stranieri, eccetera. Quello di Shanghai, che ha presentato i suoi risultati a metà agosto, utilizza indicatori ancora più arbitrari, quali il numero di docenti o ex allievi che hanno vinto un premio Nobel (l'equivalente del pallone d'oro) o il numero di articoli pubblicati su Nature o Science. Il ranking del Times, invece, si basa soprattutto sulla quantità di ricerca svolta dai docenti e sulle entrate e la reputazione che ne derivano all'ateneo. Non c'è da stupirsi se i risultati presentati da ciascuna classifica sono molto differenti fra loro. Ma soprattutto, che senso ha mettere insieme criteri così eterogenei, basati su indicatori così discutibili, a ciascuno dei quali viene attribuito un peso del tutto arbitrario? Nessuno, se non il fatto che purtroppo sia il grande pubblico, sia i decisori politici non chiedono analisi accurate di pregi e difetti di ciascun ateneo, ma una classifica semplice che, come nel campionato di calcio, dica solo chi vince e chi perde.  Il punto è però che, a differenza delle squadre di calcio, le università non sono nate per giocare l'una contro l'altra e vincere un campionato. Sono nate invece per svolgere molte funzioni diverse: formare il «capitale umano» necessario allo sviluppo di un Paese, trasmettere il patrimonio culturale, produrre nuova conoscenza mediante la ricerca, aiutare lo sviluppo del loro territorio. Possono svolgerle bene o male, e per questo è giusto valutarle — e quindi premiarle o penalizzarle — su ciascuna di queste funzioni tenendo conto degli obiettivi che si sono date, delle risorse che hanno a disposizione, del contesto in cui operano. Ma non ha alcun senso dire chi sta in cima e chi sta in fondo a un'immaginaria classifica complessiva che mette insieme tutte queste funzioni differenti, misurandole per di più con un metro arbitrario.  Perciò, quando si leggono le classifiche di un «campionato internazionale di università», è bene ricordare che questo campionato non esiste. E che, se esistesse, sarebbe formato da squadre con tanti obiettivi diversi, non riconducibili semplicemente a vincere delle partite. E infine che, chi invece cerca di creare artificialmente un campionato formato da squadre che vincono o perdono, si scontra comunque con il problema che non esistono criteri condivisi per stabilire a chi assegnare la vittoria. La valutazione degli atenei, se condotta in modo rigoroso, è uno strumento di conoscenza utile e necessario. Le classifiche sono invece un gioco futile, che rappresenta un affare per chi lo guida ma un possibile danno per leuniversità. Perché dal desiderio di vincere un campionato inesistente, queste sono spinte a uniformare le proprie caratteristiche a quelle che vengono premiate, anche se non sono le più importanti rispetto ai loro obiettivi specifici. * Ordinario università _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Ago. ’13 FORNIAMO AGLI ATENEI GLI STRUMENTI PER MIGLIORARE Ogni anno vengono pubblicate le classifiche delle Università e ogni volta i media danno rilievo alle stesse come elemento per ispirare le scelte educative dei futuri studenti e quelle del Governo. Le classifiche internazionali non sono generose nei confronti delle nostre Università, mentre premiano in prevalenza quelle anglosassoni. Nei commenti si sottolinea troppo poco quali sono le principali differenze tra le "prime" Università del mondo e le nostre. Per esempio che i bilanci delle prime sono superiori ai nostri di ordini di grandezza (10-100 volte), che questo è dovuto a elevate tasse studentesche o a forti investimenti pubblici da parte degli Stati di appartenenza o a donazioni di imprese e mecenati, che il rapporto studenti/docenti risulta inferiore a 10 quando in Italia è 30. L'elemento forte dei ranking internazionali è però che i cambiamenti sono di anno in anno limitati, come dovrebbe essere in presenza di una metodologia di valutazione robusta. Guadagnare o perdere troppe posizioni in breve tempo, infatti, è sintomo di un criterio di valutazione molto sensibile ad alcuni parametri e/o che questi risultano troppo volatili. In ogni caso la nostra "assenza" dalle classifiche internazionali viene ripresa come la conferma dell'arretratezza dei nostri sistemi educativi. Diversa è la reazione, ad esempio, di Francia e Germania dove si tende a sottolineare come le Agenzie di rating producano un risultato che è frutto di ipotesi metodologiche "anglosassoni". Il progetto Multi-rank, sostenuto dalla Commissione europea e i cui risultati saranno noti a partire dal prossimo anno, ha proprio l'obiettivo di giungere a classificazioni (e non a classifiche) delle Università meno fondate sui modelli dominanti. Diverso è il discorso per le classifiche nazionali (Anvur, Censis, Il Sole 24 Ore). Qui i risultati tendono facilmente a variare ogni anno e da classifica a classifica. Non per questo esse sono meno osservate e commentate dai media e dagli addetti ai lavori. Ci sono ampie discussioni sull'utilità delle classifiche che si occupano di Università e, più in generale, di "sistemi organizzati complessi". C'è del vero quando si dice che non tutto quello che conta si misura o, anche, che a volte si misura ciò che non conta per gli obiettivi della struttura interessata. Tuttavia, occorre prendere atto che ogni misura genera una discussione, un confronto e una risposta da parte delle Università e ciò è positivo in sé. Inoltre, la tendenza al confronto fra i sistemi di alta educazione è pratica diffusa in tutto il mondo e non possiamo chiamarci fuori. Ciò premesso, le questioni aperte sono tre: quali sono i parametri oggetto di misura e base delle classifiche, quali sono gli strumenti di cui dispongono le Università per rispondere a risultati non soddisfacenti e come leggere le classifiche. Per prima cosa ci deve essere coerenza fra parametri e strumenti. Se ad esempio si vogliono penalizzare le Università con "ricercatori inattivi" occorre che le stesse abbiano gli strumenti per correggere la situazione. In caso contrario, si penalizzano i bravi ricercatori di queste Università senza che chi governa possa fare alcunché. Quanto alla lettura delle classifiche suggerisco due approcci: il primo è di fare i giusti confronti. Lo si fa in alcuni casi (ad es. per i Politecnici), ma in molti altri i paragoni sono del tutto impropri (Atenei con o senza Medicina, molto grandi o molto piccoli); il secondo è quello di classificare le Università per fasce di merito e per intervalli di valori e non per singole posizioni. Un passaggio di fascia (che segue un certo trend di valori) piuttosto che il cambiamento di alcune posizioni, può indurre l'Università interessata a riflessioni più corrette e ad azioni strategiche. Da ultimo, non dimentichiamo il perché degli ultimi posti internazionali; essi dipendono essenzialmente dagli input del sistema (docenti, infrastrutture, fondi,...). Esistono diversi modi per raggiungere maggiori livelli di input e su questo si può aprire una discussione, consapevoli però che l'output di un sistema è correlato agli input. Evitiamo che la pagliuzza delle classifiche nasconda la trave delle responsabilità. Non tutto si può ottenere subito. Forniamo allora alle Università gli strumenti per migliorare dove si evidenziano le criticità. Sono convinto che in qualche anno potremo misurarci con dignità con il resto del mondo, come già oggi avviene per i nostri laureati che ben figurano all'estero dopo essersi formati presso le "povere" Università italiane. Stefano Paleari è Segretario Generale CRUI e membro del board dell'European University Association __________________________________________________ Il Sole24Ore 2 Sett. ‘13 UNIVERSITÀ STATI GENERALI PER ATENEI PIÙ COMPETITIVI Le classifiche pubblicate nelle ultime settimane sui migliori atenei al mondo, insieme a diversi altri indicatori, segnalano in modo univoco che il sistema universitario italiano sta perdendo rilievo internazionale, sia perché non adeguatamente competitivo con i paesi europei di più solida tradizione, sia perché scalzato dalle new entry delle nazioni del resto del mondo. Nei dieci anni di vita del ranking Arwu di Shanghai, l'Italia ha visto peggiorare sia il suo peso quantitativo, scendendo da 23 a 19 università tra le prime 500, che quello qualitativo, non potendo vantare da alcuni anni alcun ateneo nelle prime 100 posizioni. Solo Pisa e "La Sapienza" di Roma riescono a stare tra le prime 150. La classifica della Qs vede una sola università italiana tra le prime 200 e sei tra il 200° e il 350° posto. In quella del Times Higher Education bisogna arrivare ai posti dal 225° al 250° per incontrare le prime tre università italiane. Tale preoccupante tendenza è confermata da una serie di dati. Nell'ambito dei progetti di eccellenza europei Erc, per esempio, la quota di vincitori italiani è scesa in poco tempo dal 6% a poco più del 4% del totale per quanto riguarda i Consolidated o Advanced, che riguardano ricercatori maturi; è calata in modo ancor più netto, dall'8 al 3% circa, per i Starting, riservati a giovani con meno di sei anni dal dottorato. Allarmante è poi la diminuzione delle immatricolazioni che registriamo in Italia da alcuni anni. A mio parere, sarebbe miope alimentare pur giustificate polemiche sulla validità dei diversi modelli di valutazione, senza porci il tema fondamentale del ruolo che le università sono chiamate a svolgere all'interno del nostro Paese, rassegnandoci così al progressivo arretramento del nostro ruolo scientifico internazionale. Per questo, come rappresentante dell'Ateneo di Pisa che anche dalle recenti indagini vede rafforzata la sua tradizione di prestigio e di eccellenza, ho lanciato in questi giorni l'idea di una convocazione degli Stati generali dell'Università, una proposta che è stata accolta in modo positivo dal ministro Maria Chiara Carrozza e da molti autorevoli addetti ai lavori. Questo appuntamento, da tenersi a breve, con il coinvolgimento di tutti gli organismi e i soggetti istituzionalmente coinvolti, vuole porre con forza all'attenzione dell'opinione pubblica italiana il tema dell'università e chiedere che esso diventi con urgenza grande "questione nazionale". Gli atenei devono infatti fare un salto di qualità per quanto riguarda la propria capacità di dialogo con la società italiana e con quella parte consistente del Paese con cui non siamo entrati in piena sintonia, non riuscendo a far percepire l'enorme potenziale di ricchezza culturale ed economica che è all'interno degli atenei. In questo compito, dobbiamo dimostrarci capaci di parlare a tutti i nostri interlocutori – dal governo e dalla politica, alle famiglie, alle istituzioni e alle realtà produttive del territorio – spiegando e condividendo il nostro progetto di università che vogliamo costruire e recuperando appieno la dimensione civile che è elemento fondante dell'istituzione universitaria. All'interno di questo contesto, durante gli Stati generali potranno essere affrontati i temi di maggior impatto per il nostro mondo, a partire dalla necessità di una decisa inversione di tendenza riguardo al finanziamento pubblico del sistema universitario, che ha subito una decurtazione di circa un miliardo di euro sui 7,5 di pochi anni prima, ma anche della certezza e della razionalizzazione delle risorse a disposizione. Parallelamente, andrà affrontato il problema delle risorse umane, con la limitata immissione di giovani che ha di fatto impedito il ricambio generazionale all'interno delle nostre realtà, mettendo a rischio la sopravvivenza di interi ambiti disciplinari. Andranno poi rilanciati i valori dell'autonomia responsabile delle singole università, in modo da esaltare le peculiarità di ogni istituzione, e del diritto allo studio, garantito dalla nostra Carta costituzionale. Occorrerà infine insistere nel percorso di affermazione della cultura della trasparenza, del merito e della valutazione, così come dei principi di semplificazione ed efficienza, promuovendo ulteriormente i processi in grado di aumentare la competitività delle nostre istituzioni sui decisivi aspetti dell'internazionalizzazione e dell'innovazione. Rettore Università di Pisa ___________________________________________________ Corriere della Sera 4 Sett. ‘13 L'ANVUR E I CRITERI PER LE VALUTAZIONI Caro direttore, dopo aver letto nelle scorse settimane l'esuberante giudizio di Giavazzi sollecitante la chiusura di ben tre università italiane (Corriere, 19 agosto), ho molto riflettuto sulla opportunità dí prospettare aí lettori una valutazione più meditata. Oltretutto mi accade di far parte dell'Anvur per il settore di mia competenza (filologia classica): questo mi ha consentito nei mesi scorsi di apprezzare il lavoro che è stato svolto dai nostri comitati per quel che riguarda il meritorio tentativo di veder chiaro nella vastissima massa di pubblicazioni da ultimo particolarmente assidue e talvolta frettolose, ma anche per quel che riguarda le serie difficoltà che sorgono in un così delicato lavoro. La «macchina», come è ovvio, è ancora perfettibile. Già questo dovrebbe sconsigliare deduzioni affrettate e perentorie, come quelle che ci è accaduto di leggere. A rigore chi volesse affrontare con serietà questa materia dovrebbe porsi numerosi problemi, uno dei quali è il declino di strutture valutative di questo genere in Paesi che già le hanno per anni esperimentate e ne sono sempre meno soddisfatti. Un altro e ancor più delicato problema di non facile soluzione è la possibilità stessa di applicare criteri quantitativometrici nel valutare i prodotti dell'ingegno. Criteri che paiono ormai aver dato la stura ad un impressionante &officio volto soprattutto ad accrescere la quantità. Un terzo e non meno rilevante problema è il peso da attribuire alle testate in quanto tali dei periodici: nel campo delle cosiddette «scienze dure» questo criterio regna sovrano; nell'ambito delle discipline lato sensu umanistiche, tale criterio risulta nettamente insufficiente e depistante. Tralascio poi la maniacale esterofilia, in forza della quale una sciocchezza pubblicata in inglese cessa ipso fatto di essere una sciocchezza. Potrei soggiungere, alla luce dell'esperienza già fatta che se il giudicare è sempre un, problema arduo a fortiori lo è in ambiti nei quali la componente soggettiva è inevitabile e talvolta preponderante. E noto che esistono scuole (o almeno esistevano): Giorgio Pasquali fu bocciato nel primo concorso universitario da lui affrontato perché la commissione era dominata da una notevole figura del classicismo italiano, Ettore Romagnoli, avversa al tipo stesso di lavoro che Pasquali, grande filologo, svolgeva. Rimase in minoranza, in quella commissione, nientemeno che Girolamo Vitelli. Se lo immagina l'Anvur alle prese con questo problema valutativo? Cosa avrebbe dovuto fare? Vedere se Pasquali pubblicava in riviste di fascia A? Questo mi è piaciuto scriverle a beneficio anche dei nostri lettori nella speranza che non si sia ancora persa del tutto la coscienza della delicatezza di questi problemi. Suggerisco di dismettere la tentazione di avventarsi con l'ascia in pugno. Lucino Canfora _____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 22 Ago. ’13 DUELLO TRA GOVERNATORI SULLE CLASSIFICHE DEGLI ATENEI «Non ci sono soldi, bisogna chiudere le università che si classificano agli ultimi posti». «Non fare lo sciacallo, pensa piuttosto a ricostruire L'Aquila». «Se proprio vogliamo vederle bene le graduatorie, gli atenei della sua regione fanno peggio dei nostri». Classifiche e polemiche: atto secondo. Da dibattito squisitamente tecnico, i ranking delle università sono diventati terreno di scontro tra dirigenti locali e professori. Colpa, o merito, di Gianni Chiodi, governatore pdl dell'Abruzzo. Che interviene sulla sua pagina Facebook. E sottoscrive in pieno l'editoriale di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 19 agosto scorso a proposito dei tagli possibili alla spesa pubblica.  «Le università di Bari, Messina e Urbino sono in fondo alla classifica dell'Anvur (l'agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca)», sostiene il governatore, «per questo bisogna chiuderle. In un contesto di rarefazione delle risorse pubbliche si deve finanziare la qualità e la buona ricerca. Laddove ci sono atenei non in grado di rispettare gli standard di qualità ed efficienza allora o si accorpano o è giusto che vengano chiusi». Apriti cielo. Prima arriva la risposta dei docenti. «Chiudere l'università? Mi sembra una visione strumentale nel momento delle iscrizioni», replica il rettore dell'ateneo di Bari, Corrado Petrocelli. «Il commento è del tutto fuori luogo», aggiunge Pietro Navarra, numero uno di quello di Messina. «Sarebbe meglio se i politici parlassero di quello che sanno, ammesso che sappiano qualcosa», taglia corto Stefano Pivato, rettore dell'Università di Urbino «Carlo Bo». La politica non sta a guardare. Complice, forse, anche il diverso schieramento dei protagonisti. «Chiodi pensi a ricostruire l'Aquila, se ci riesce, e non si comporti da sciacallo approfittando di discutibili graduatorie scritte nell'interesse delle università del Nord», attacca Michele Emiliano, sindaco di Bari ed esponente pd. «Se per completare la ricostruzione dell'Aquila Chiodi avesse bisogno delle competenze degli atenei pugliesi siamo a disposizione per lottare con l'Abruzzo migliore, del quale evidentemente lui non fa parte». «A Chiodi potrei ricordare la classifica del Sole 24 Ore che regala al Politecnico di Bari il 26° posto, mentre relega al 55° l'ateneo di Teramo e al 58° quello di Chieti-Pescara», sottolinea Nichi Vendola, governatore della Puglia.  Le graduatorie, insomma, continuano a creare tensioni. Tanto che nell'«arena» scende anche Luigi Frati, rettore dell'Università «La Sapienza». Dopo aver sottolineato che il suo ateneo «si piazza sempre tra i tre migliori italiani nei ranking internazionali», Frati punta il dito contro l'Anvur. «L'ente valuta con lo stesso metodo pere, mele e pompelmi, cioè un'istituzione generalista e una specializzata, una con forte impegno nella didattica e una con impegno marginale. Possibile che tutto il mondo sbagli e che l'unica infallibile sia l'Anvur?». Dubbi e critiche che potranno essere discussi, se si faranno, agli «Stati generali dell'università» proposti dal rettore dell'ateneo di Pisa Massimo Augello. «Un'ottima iniziativa», commenta il ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza. Chissà se servirà a spegnere le polemiche divampate in questo agosto fin troppo caldo per il mondo accademico. Leonard Berberi lberberi@corriere.it _____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 18 Ago. ’13 ATENEI, LE CLASSIFICHE INSTABILI LA SAPIENZA OSCILLA DI 109 POSTI Critiche alla graduatoria di Shangai: «Criteri discutibili» MILANO — Dice il ministro francese: «Quella classifica non rispecchia il nostro sistema accademico». Aggiunge più di un esperto: «I criteri utilizzati sono opinabili e parziali». E mentre qualche rettore festeggia, molti altri precisano, mostrano dati disaggregati, si appellano a studi precedenti. Critiche e polemiche. Almeno quattro volte all'anno. E proprio quando vengono pubblicate la graduatorie sui miglioriatenei del mondo. L'ultima, in ordine di tempo, è l'Academic Ranking of World Universities (Arwu) della Jiao Tong University di Shanghai. Le università americane — secondo l'Arwu — sono le migliori. Quelle inglesi inseguono. Le nostre restano indietro (Pisa e «La Sapienza» avanti a tutte). E nemmeno le francesi se la passano tanto bene.  Uno studio, questo cinese, che affianca il Taiwan Ranking, il Qs World University Rankings e il Times Higher Education. Quattro classifiche che, a leggerle, non concordano nemmeno sul migliore ateneo. Per tre di loro al primo posto c'è Harvard. Per l'altra il Mit di Boston. E se, per esempio, la Johns Hopkins è medaglia d'argento per il Taiwan Ranking, lo stesso non compare nemmeno tra le prime dieci nelle altre graduatorie. Una «confusione» che non risparmia gli italiani. La Sapienza oscilla tra il 107° e il 216° gradino. La Statale di Milano tra il 97° e il 200°. Addirittura nessuna traccia di istituzioni tricolori nella «top 100» di Times Higher Education. «Mi fa piacere che nella classifica appena pubblicata da Shanghai le cose per gli atenei francesi siano migliorate rispetto all'anno prima», ha esordito polemica Geneviève Fioraso, ministro transalpino dell'Istruzione superiore e della ricerca. «Ma questa graduatoria non riflette il livello reale del nostro sistema accademico». Che succede? «La questione sta tutta nei criteri che si utilizzano», spiega Marino Regini, esperto di sistemi universitari ed ex prorettore dell'Università Statale di Milano. «Si tratta di quattro studi comunque validi, ma parziali». Prendiamo, per esempio, quella di Shanghai. «La metodologia — continua Regini — privilegia le pubblicazioni scientifiche, ma penalizza l'attività delle facoltà umanistiche. Per forza di cose noi non ci collochiamo molto in alto». «Certo, i tagli alla ricerca e un sistema per nulla competitivo non ci aiutano», ammette Regini. Che però trova del buono anche nell'Arwu: «Se prendiamo le prime 500 università c'è un indice di concentrazione delle nostre abbastanza alto». «I criteri di una ricerca, anche se seri, sono per forza controversi», chiarisce Franco Donzelli, direttore del Dipartimento di Economia, management e metodi quantitativi dell'Università degli Studi di Milano. «Certo, l'Arwu di Shanghai e quella di Taiwan hanno più di una "deformazione"». Una è linguistica: «Il lavoro privilegia gli studi in inglese ed esclude tutti quelli in italiano, francese, tedesco». L'altra è quantitativa: «Più ricerche pubblichi sulle riviste Nature e Science più acquisti punti: ma così finisci per favorire le grandi istituzioni accademiche». E i risultati, a sentire Donzelli, spesso sono «bizzarri». «Secondo i cinesi "La Sapienza" è la seconda migliore università italiana. Ma se andiamo a vedere i dati dell'Anvur, la nostra agenzia nazionale di valutazione, lo stesso ateneo non ne esce molto bene». Detto questo, «noi abbiamo le nostre colpe: per anni abbiamo privilegiato la qualità media dell'istruzione a scapito di quella d'eccellenza». Anche Andrea Bonaccorsi, membro del Consiglio direttivo proprio dell'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, critica alcuni aspetti metodologici delle quattro graduatorie. «Ma togliamoci dalla testa l'idea di avere una classifica unica e certa», avverte. «Trovo in generale opinabile l'uso dei riconoscimenti storici a cui fanno riferimento alcuni ranking — spiega Bonaccorsi — perché così gli atenei antichi sono avvantaggiati». Non solo. «Penso che sia anche abbastanza arbitrario, per esempio, il modo in cui la Jiao Tong University aggrega i vari indicatori». Bonaccorsi cita poi uno studio europeo che ha sottoposto tutte le classifiche internazionali delle università ad alcune «prove di robustezza» per verificarne la validità. «Soltanto le prime cinquanta posizioni sono risultate attendibili», sintetizza. «Tutte le altre presentano un tasso di errore molto elevato». Insomma, fidarsi sì, delle graduatorie, ma fino a un certo punto. E come se non bastasse il prossimo anno ne arriverà una quinta. Si chiama «U-Multirank», è tutta europea (fondi compresi, messi a disposizione dall'Ue) e analizzerà circa 700atenei di tutto il mondo. Una realtà «fortemente voluta dai governi del Vecchio Continente per contrastare proprio le altre quattro classifiche», rivela Regini. Servirà? «Dipende», continua il professore. «Potrebbe farci capire come stanno davvero le cose. Oppure confonderci ancora di più». E allora saremmo punto e a capo. Leonard Berberi lberberi@corriere.it _____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 18 Ago. ’13 LE CLASSIFICHE DELLE UNIVERSITÀ: POSSIAMO DAVVERO FIDARCI? di ANDREA ICHINO Q uando esce una classifica internazionale delle università tutti iniziano ad accapigliarsi su quanto credito essa debba ricevere. E purtroppo il dibattito viene immediatamente monopolizzato da chi per principio è contrario ad ogni tentativo di misurare il merito per dargli un giusto valore e da chi invece crede, un po' ottusamente, che qualsiasi classifica, comunque fatta, sia utile. La realtà è che il prestigio e la qualità di un ateneo dipendono da una molteplicità di caratteristiche che hanno necessariamente valore diverso per utenti diversi. Nessuna classifica può andar bene a tutti perché chiunque sia interessato a comparare tra loro degli atenei, vorrà dare i suoi pesi preferiti a ciascuna caratteristica. Ci sono ad esempio università straordinariamente eccellenti in alcune materie ma molto carenti in altre e università che invece garantiscono un minimo decente nella maggior parte dei campi. Oppure atenei che privilegiano la qualità dei docenti e dei ricercatori a scapito della modernità delle strutture e viceversa. Uno Stato interessato a stimolare l'eccellenza valuterà questi atenei in modo diverso da uno Stato che voglia garantire un livello minimo di qualità a tutti. E diversa ancora sarà la valutazione di uno studente interessato ad una specifica materia o di un docente interessato alla qualità dei colleghi. Dire queste cose, quasi ovvie, non significa però affermare che non debbano esistere università di serie A e B, oppure che le differenze di prestigio e qualità tra gli atenei non siano misurabili e comunque debbano essere tenute nascoste. Significa invece chiedere, a chi formula classifiche, di fare una cosa molto diversa e ben più coraggiosa: ossia rendere trasparenti e il più possibile complete le informazioni elementari sulla base delle quali poi ognuno potrà farsi la sua valutazione scegliendo autonomamente i pesi da dare a ciascuna caratteristica. In questa direzione si è opportunamente mossa l'Anvur per quel che riguarda la valutazione di una delle dimensioni della qualità di un ateneo, ossia la ricerca. I rapporti dettagliati dei Gruppi di Esperti Anvur per ciascuna disciplina, non si sono limitati ad una classifica e hanno cercato di dare informazioni elementari che consentano valutazioni autonome. Ad esempio, oltre a tenere separate le singole materie, non è stato reso pubblico solo il risultato medio ottenuto da ciascun dipartimento, ma sono state anche fornite informazioni utili per capire se quel risultato medio deriva da punte di eccellenza combinate a zone d'ombra, oppure è indice di una omogeneità di valore dei ricercatori. Molto di più l'Anvur potrebbe e dovrebbe fare per mettere a disposizioni le informazioni elementari sui singoli prodotti di ricerca, ma la strada imboccata è quella giusta. C'è però, in questo modo, il rischio di una valutazione «fai da te» in cui tutti possono trovare il modo di risultare primi? No, perché se le informazioni elementari sono disponibili, ognuno può controllare come la classifica è stata fatta e decidere se credere a tutti quelli che dicono di essere i migliori oppure solo ad alcuni, e soprattutto decidere per proprio conto chi sia il migliore disponendo delle informazioni necessarie per farlo a ragion veduta. E dovrebbe essere in primo luogo lo Stato a fornire queste informazioni: basterebbe un sito web nel quale registrare, dipartimento per dipartimento, tutte le informazioni elementari riguardanti la ricerca, le strutture, le dimensioni, la didattica, i risultati ottenuti dai laureati nel mercato del lavoro, e via dicendo. Il sito dovrebbe poi fornire una maschera mediante la quale l'utente possa aggregare nel modo preferito le diverse caratteristiche. Anche lo Stato, come ogni altro utente, potrebbe proporre le sue valutazioni: la trasparenza delle informazioni elementari e dei criteri usati per ogni classifica stopperebbe sul nascere inutili discussioni di principio, consentendo invece una dibattito molto più serio, informato e ragionato sulla qualità dei singoli atenei e dei loro dipartimenti. andrea.ichino@unibo.it _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 set. ’13 UN ESERCITO DI ASPIRANTI MEDICI IL FASCINO INTRAMONTABILE DELLA CURA Domani negli atenei italiani 84.165 candidati (il 25% per cento in più rispetto all'anno scorso) si misureranno con il test di ammissione alla facoltà di Medicina. Solo 10.157 potranno accedere al corso di studi che, fra sei anni, dovrebbe permettere loro di indossare l'agognato camice bianco. Una sproporzione fra domande (di ammissione) e offerta (di posti) che non può non colpire. Fra le possibili spiegazioni del successo di Medicina la prima può essere di natura economica. Nel corso degli ultimi anni, dopo l'introduzione del numero chiuso, le facoltà di Medicina hanno cessato di essere una «fabbrica di disoccupati» e sono, anzi, diventate appetibili per le prospettive di impiego. Ma l'impressione è che non si tratti solo di questo. Anche altre facoltà, infatti, offrono probabilmente possibilità paragonabili in termini di occupazione e remunerazione. Perché, quindi, un giovane (o un meno giovane visto che pare non manchino i cinquantenni fra gli iscritti ai test) dovrebbe puntare per mero calcolo proprio su una professione che si prospetta irta di rischi legati alle responsabilità che comporta anche sul piano economico, vista la sempre maggiore diffusione delle cause legali nei confronti dei medici? E perché, ancora, un giovane dovrebbe desiderare notti insonni, stress, necessità di prendere decisioni rapide, spesso con quasi nessun margine di errore? Perché incaponirsi in un mestiere nel quale, più che in altri, non si può mai finire di imparare, nel quale il progresso scientifico cambia le carte in tavola con una rapidità impressionante? Ai sociologi l'onere di una risposta informata dai dati. In assenza di questi si può azzardare l'ipotesi, e l'auspicio, che il fascino di una delle professioni d'aiuto per eccellenza sia davvero inossidabile. La sensazione, e la speranza, è che a motivare almeno una buona parte dei candidati che affronteranno il test domani, sia l'idea di poter essere davvero utile, di poter spendere la propria vita e le proprie energie per qualcosa cui si attribuisce un vero valore, di poter scommettere su un progetto di sé che non abbia come unità di misura e confronto solo il fixing sul mercato del successo e del riconoscimento sociale. Luigi Ripamonti _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 5 set. ’13 UNIVERSITÀ. IN CALO I PARTECIPANTI AI TEST Meno aspiranti e tasse più alte per l'area medica IL QUADRO Errori nei quesiti: annullate le prove nell'ateneo di Parma La riduzione delle domande pesa sui bilanci Paolo Del Bufalo Meno aspiranti e tasse di iscrizione più alte per i test universitari nelle facoltà a numero chiuso di area medica. Il via lo hanno dato ieri gli esami di ammissione alle lauree delle 22 professioni sanitarie (infermieri, ostetriche, fisioterapisti, tecnici) che hanno registrato l'11,1% di aspiranti in meno rispetto allo scorso anno: 102mila per 26.277 posti contro 114.784 per un numero di posti pressoché uguale in tutte le 37 Università statali. Solo a Parma è tutto da rifare: il test è stato annullato per «errori riscontrati nelle domande» e la nuova data sarà resa nota con un decreto dell'Università. E il 9 settembre tocca a medicina e odontoiatria, dove il calo di domande è dell'1,6%: 76.500 per i 10.483 posti a bando contro 77.734 dello scorso anno nelle 37 Università statali. Per Angelo Mastrillo, dell'Osservatorio della conferenza nazionale dei corsi di laurea delle professioni sanitarie, la riduzione è frutto anche del calo occupazionale che per la prima volta ha colpito l'area delle lauree mediche, con un progressivo trend negativo negli ultimi 5 anni. «È un dato rilevato anche dal consorzio interuniversitario Alma Laurea – spiega Mastrillo – che a un anno dalla laurea evidenzia un calo generale del 17% di occupazione, in particolare per la professione di infermiere che passa e tecnico di radiologia. L'area sanitaria – conclude – resta comunque al primo posto assoluto per occupazione rispetto a tutti gli altri settori». E infermieri e tecnici di radiologia medica sono anche tra le professioni in cui le domande sono calate di più in un anno: -6.970 (-16%) i primi e -1.470 (-17%) i secondi. Il record negativo spetta comunque agli ortottisti (-31,6%), seguiti dagli assistenti sanitari (-27,6%). L'effetto della riduzione di domande ha ripercussioni anche sui bilanci degli atenei: le tasse di iscrizione sono aumentate in media del 5,5% (circa 1,9 euro), ma il calo degli aspiranti porta a una perdita immediata di quasi 500mila euro per le Università. Solo otto atenei si fanno pagare meno, di cui due riducono a metà la tassa (Verona e Roma Tor Vergata), mentre gli aumenti maggiori vanno dal triplo di Torino (da 30 a 100 euro) al doppio di Messina (da 45 a 90), fino all'aumento minimo da 20 a 25 euro di Sassari, tra le più economiche con Padova (27 euro) e Cagliari (21 euro di tassa di iscrizione). Nelle singole Università la differenza di domande con lo scorso anno va dal -28% di Messina e -23% di Siena al -4% Roma Tor Vergata e -1% Verona. Solo tre Università registrano un aumento: Catania +13%, Cagliari con il +9% e Catanzaro con +1,6%. Per queste ultimi due, la crescita dipende dalla riattivazione del corso per fisioterapista a Cagliari e dall'aumento dell'offerta formativa in Calabria (da 6 corsi di laurea lo scorso anno ai 17 attuali). A livello di Regioni, infine, il trend negativo riguarda tutti tranne, appunto, Sardegna e Calabria e va dal -18,2% del Piemonte e -17,5% delle Marche al -1,4% del Lazio e -10,5% della Lombardia. ___________________________________________________ La Stampa 3 Sett. ‘13 TEST UNIVERSITARI, LA GRADUATORIA UNICA METTE FINE ALLE INGIUSTIZIE ANDREA GAVOSTO* Nei prossimi giorni, migliaia di studenti in tutta Italia saranno impegnati nei test di ingresso all'università, per entrare in quei corsi di laurea circa un terzo del totale che hanno deciso di adottare il numero programmato. Sempre più, le prove di ammissione stanno diventando per studenti e famiglie una data da cerchiare sul calendario, con livelli di impegno e di ansia paragonabili a quelli dell'esame di maturità. Anche in questo, l'Italia si sta avvicinando agli altri Paesi avanzati, dove test standardizzati per l'ammissione all'università, confrontabili per tutti gli studenti, sono la prassi. Quest'anno, la principale novità riguarda la prova di Medicina, che è diventata unica a livello nazionale. Questo permetterà di correggere una grande iniquità degli scorsi anni, quando i test venivano somministrati dai singoli atenei o da gruppi di atenei geograficamente vicini e, quindi, con soglie minime di ingresso diverse. Con un'unica graduatoria nazionale per tutti i candidati, non potrà più accadere che uno studente non ammesso, mettiamo, a Torino abbia ottenuto un risultato al test migliore di uno, invece ammesso, a Bari. Sicuramente si tratta di un passo in avanti, che si spera venga presto imitato dagli altri corsi di laurea scientifici ed economici, dove ancora prevale la differenziazione per ateneo. L'adozione di una graduatoria nazionale avrà però almeno due effetti che andranno verificati nei prossimi mesi. Uno è l'allungamento dei tempi. Poiché ogni studente al momento dell'iscrizione può esprimere diverse preferenze relative all'ateneo dove iscriversi, per sapere se una candidata è stato ammessa o no, bisognerà aspettare che tutti quelli prima di lei in graduatoria abbiano esercitato le loro opzioni e se le università prescelte abbiano ancora posti a disposizione: un esercizio complesso, per cui gli ultimi qualificati rischiano di avere il responso definitivo a corsi ben avviati. Il secondo effetto della graduatoria unica sarà, verosimilmente, un aumento della mobilità degli studenti sul territorio: coloro che si collocheranno verso il fondo dovranno, pur di iscriversi, accettare di spostarsi in un'altra città. L'aspetto forse più dirompente è che, a fonte della classifica degli studenti, si creerà un'analoga classifica delle università: sarà facile verificare quali saranno gli atenei scelti dai candidati migliori e quelli che, invece, raccoglieranno gli ultimi in graduatoria. Certo, a nessuna università piace finire nella zona bassa della classifica, ma è il prezzo che si deve pagare quando si introducono criteri meritocratici: e, si spera, anche uno stimolo per migliorare. Le prove di ammissione all'università impongono però una considerazione più generale. Oggi abbiamo in Italia una prova nazionale la maturità al termine della scuola secondaria e, in misura crescente, una prova di ammissione all'università. Le due rispondono a criteri e obiettivi diversi e sono disallineate, nonostante lo sforzo del ministro Profumo di «standardizzare» l'esame di Stato ai fini dell'ingresso universitario. Chiaramente, una delle due è ridondante, come ha recentemente sottolineato anche l'ex-sottosegretario Ugolini. Se si disponesse di un test confrontabile per tutti gli studenti alla fine della scuola superiore, centrato su competenze culturali e logiche comuni, le prove di ammissione all'università sarebbero inutili, perché gli atenei avrebbero già gli elementi necessari per decidere chi ammettere. E il test sulle competenze varrebbe non solo per chi si vuole iscrivere all'università, ma anche per il 40% dei diplomati che preferisce entrare direttamente nel mercato del lavoro, fornendo quindi elementi preziosi per i futuri datori di lavoro. *Direttore Fondazione Agnelli _____________________________________________________________ Corriere della Sera 7 set. ’13 VIA IL BONUS DI MATURITÀ MA SOLO DAL PROSSIMO ANNO L'idea del governo agita i test per le facoltà a numero chiuso MILANO — Il ministro dell'Istruzione non ne ha mai fatto mistero: così com'è il bonus maturità, scattato quest'anno su una norma del 2008 rinviata quattro volte, non va. Per questo, Maria Chiara Carrozza ha messo su una commissione per rivedere il meccanismo. E lunedì porterà al Consiglio dei ministri la bozza di un decreto sulle «Misure urgenti in materia di istruzione,università e ricerca» che prevede un intervento deciso sul sistema di punteggio (da 1 a 10) da aggiungere all'esito dei test di ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso. Bonus addio? «Sicuramente non sarà più lo stesso (introdotto tra mille polemiche, ndr)», trapela dal Miur. «Lunedì si deciderà se abolirlo o modificarlo, ma comunque ogni intervento non riguarderà questa tornata di test». La precisazione è d'obbligo, soprattutto dopo che ieri tra gli studenti — da settimane mobilitati contro l'introduzione del bonus — s'era diffusa la speranza di una cancellazione immediata del punteggio di maturità. La questione è calda: lunedì quasi 85 mila studenti faranno il test d'ammissione di Medicina. È la prova più combattuta: i posti a disposizione sono solo 10.157 e la guerra per essere ammessi è senza esclusione di colpi. «Con l'introduzione del bonus maturità mi aspetto una valanga di ricorsi da parte degli studenti che saranno esclusi — ammette Angelo Mastrillo, referente per l'Osservatorio della Conferenza nazionale dei Corsi di Laurea delle Professioni sanitarie —. Il ministero fa bene a correggere il tiro: è assurdo, però, rimandare l'eventuale cancellazione del bonus all'anno prossimo». I problemi, con i test, non finiscono qui. Dopo l'università di Parma, ieri è toccato a quella di Pavia invalidare la prova per i corsi di laurea in Professioni sanitarie: nei quesiti d'esame c'erano quattro possibilità di risposta e non cinque. Stessa decisione a Messina: test annullato per problemi nella correzione. Altro capitolo importante: il costo per effettuare la prova. L'importo è deciso da ogni ateneo e per conoscerlo bisogna leggersi ogni bando. Si scopre così che si paga poco (15 euro) per quella di «Economia» all'università di Cassino e del Lazio meridionale. Mentre bisogna sborsare quasi nove volte di più (130 euro) per tentare di entrare nel corso di «Biotecnologie mediche, molecolari e biocellulari» al Vita-Salute San Raffaele di Milano e «Medicina e chirurgia» al Campus bio-medico di Roma. Bisogna andare a Cagliari (25 euro), Venezia (26) e Padova (27) per trovare gli importi più bassi. Le differenze sono notevoli anche all'interno delle città. Se a Roma la «forbice» è di 25-130 euro, a Milano si va da 30 (per chi ha fatto il test di Design al Politecnico il 25 luglio) a 130 euro. Non fa eccezione Napoli (20-100 euro). Ma quali sono le voci di spesa per allestire i test? «Si tratta soprattutto di costi organizzativi — la aule, il personale amministrativo —, burocratici e telematici», spiega Andrea Sardella, presidente della commissione che ha organizzato le prove di dopodomani per Medicina e odontoiatria alla Statale di Milano. Ma sulla differenza, a livello nazionale, tra 15 e 130 euro, ammette: «Onestamente mi stupisce. Noi facciamo pagare soltanto il costo effettivo: 50 euro». «Capisco che gli atenei non hanno soldi — attacca Pietro Giordano, presidente nazionale di Adiconsum —, ma la prova d'ammissione non può diventare una fonte di guadagno sulle spalle degli studenti e delle loro famiglie». Leonard Berberi Simona Ravizza ___________________________________________________ Corriere della Sera 4 Sett. ‘13 SENZA BOCCIATURE LA SCUOLA SAREBBE MIGLIORE? ROMA — «La bocciatura? È utile soltanto in casi rari», perché «quando si entra in una scuola, si entra per uscirne vincitori con il diploma». Parole del ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza, che solleveranno il morale agli studenti alla vigilia del rientro. Meglio una selezione all'ingresso, con l'orientamento, suggerisce il ministro, e casomai proprio non riuscissero a seguire, «indirizzare gli studenti verso altri percorsi», che «l'estrema soluzione». Questione di motivare i ragazzi ma anche questione di sistema: «L'alto tasso di respinti in Italia è legato alla dispersione scolastica e all'incapacità delle famiglie di seguire al meglio i propri figli — ha detto ieri Carrozza al Mattino —. Insomma è un elemento di disagio del sistema educativo nel suo complesso». Bocciare o non bocciare, è un'alternativa che torna nel dibattito sull'educazione. E in Italia evoca certi fasti scolastici sessantottini e infastidisce i sostenitori del merito. Ma è diventato negli ultimi anni, da quando sono disponibili i rapporti internazionali dell'Ocse (il prossimo alla fine di quest'anno) un tema europeo. Una questione psico-pedagogica certo, ma anche economica. Era stato nel 2008 il ministro dell'Economia Tommaso Padoa Schioppa a fornire i dati del costo per il bilancio dello Stato delle bocciature scolastiche: due miliardi e mezzo all'anno, dieci miliardi in quattro anni, ottomila euro per ogni ragazzo che deve ripetere l'anno, secondo l'Ocse. Da allora di che cosa fare con i «costi» economici e non solo sociali del fallimento scolastico si è molto parlato. In Italia c'è stata la «stretta» sui voti (condotta innanzitutto) imposta dalla riforma Gelmini. In Europa l'ultima proposta in ordine di tempo è tedesca: la coalizione Spd-Verdi in Bassa Sassonia ha in mente l'abolizione delle bocciature nelle scuole del Land. Non sarebbero d'accordo i colleghi bavaresi: lo scorso giugno in una scuola tecnica vicino a Monaco un'intera classe ha conquistato il record negativo della bocciatura collettiva, 27 su 27 ripeteranno l'anno. Il dilemma europeo attraversa tutti i Paesi. In Francia, dove la scuola vive uno dei momenti più turbolenti degli ultimi decenni, dopo lungo dibattito il Parlamento ha approvato in primavera una legge per la riduzione progressiva delle bocciature che diventano «eccezionali». In Finlandia, il migliore sistema scolastico europeo secondo l'Ocse, come in Danimarca, Grecia, Regno Unito, Norvegia, Svezia e Cipro, la promozione è automatica fino ai 16 anni (scuola dell'obbligo) e la bocciatura è prevista solo in casi eccezionali (assenze, gravissime lacune) e concordata con psicologi e genitori. L'aria cambia nel biennio finale dove il sistema diventa ovunque più rigido. «Il tema non è quello della bocciatura ma delle alternative che la scuola e le famiglie riescono a mettere in campo prima di arrivarci — spiega Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli —. La bocciatura sanziona un errore di percorso e dunque bisognerebbe insistere con l'orientamento». A Torino la Fondazione con il Comune ha predisposto un test attitudinale per tutti i ragazzi delle medie pubbliche per aiutare gli insegnanti a dare indicazioni: «Chi segue i risultati ha un tasso di abbandono minimo». Ma poi servirebbero corsi di recupero personalizzati, scuole aperte il pomeriggio... Insomma, «finanziamenti e una riorganizzazione dell'insegnamento». Certo il rischio che la scomparsa anche solo della minaccia della bocciatura porti un certo lassismo è un dubbio anche per i sostenitori del sistema più «inclusivo». I dati sulla dispersione scolastica contenuti nell'ultimo rapporto del Miur (giugno 2013) sono chiari sul rischio di fallimento del sistema: rispetto alla media europea l'Italia ha una dispersione del 18%, quasi uno studente su cinque, un tasso più alto della media europea. Dunque è venuta l'ora di cambiare, come peraltro consiglia l'Ocse («I Paesi con il maggior numero di bocciati sono anche quelli con il sistema meno efficiente»)? A riabilitare la bocciatura è invece uno che ha dovuto «incassare il colpo», parole sue, di dover ripetere la quarta ginnasio e poi, venticinque anni dopo, ha vinto il premio Strega, Niccolò Ammaniti: «La bocciatura serve, se riconosciuta dallo studente e dalla famiglia come tale: come un momento per resettarsi, mettersi in discussione e ricominciare. Se invece è contestata, considerata come un problema da superare senza onta, allora no. Anche se fosse ingiusta, serve perché ti mette alla prova con l'ingiustizia di fondo che c'è anche nella vita». Gianna Fregonara ___________________________________________________ Il Giornale 2 Sett. ‘13 ANCHE GLI UNIVERSITARI ITALIANI DELOCALIZZANO GLI STUDI ALL'EST CHE LEZIONE Emigranti per imparare Mentre persino i cinesi bocciano i nostri atenei è boom di iscrizioni nell'Europa orientale. E sono 60mila quelli che studiano all'estero Thomas Leoncini Un recente studio cinese, fir- mato dalla Jiao TongUniversity di Shanghai b occia sonoramen- te le università italiane. Non siamo nei 100 migliori atenei del mondo. C'è chi penserà cosa può importarcene a noi dello studio fatto dai cinesi, ma non dimentichiamo che la Cina può vantare l'economia più dinamica del mondo, che crescerà del 7% anche quest' anno e che incrementa ogni anno di almeno tre punti percentuale il numero di ultramilionari (+3% nel 2012). Intanto gli studenti cinesi corrono al riparo: nel Belpaese ne sono rimasti solo 5mila. Nelle università tedesche ce ne sono più di 25mila. La probabile domanda di molti: dove vanno i giovani studenti italiani (nel complessivo sono più di 60mila) che non credono in un degno futuro accademico nello stivale? Le migrazioni italiane sono prevedibili? La risposta è «ni». Se al primo posto delle destinazioni accademiche degli italiani si attesta una prevedibile Germania (il 14,9% degli studenti migranti secondo dati Ocse va a studiare a Berlino e dintorni), sorprende il secondo posto: l'Austria infatti con un 12,5% di studenti italiani ha superato la Gran Bretagna (ferma all'11,1%) e la Francia (9,8% di italiani). Le tendenze che hanno però registrato una crescita maggiore sono due, ed entrambe riguardano non solo l'Italia, ma l'intera Europa. La prima è l'Europa dell'Est, che sta registrando un autentico boom di iscrizioni di italiani e europei, come conferma l'International Herald Tribune e la seconda è un evergreen europeo: l'università di Maastricht. Ma partiamo dalla prima. Sono sempre di più gli studenti stranieri che si iscrivono a medicina, farmacia e odontoiatria in Paesi come Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia e Polonia. Anche se è bene precisare che il totale di affluenza non è ancora al livello di quello dell' Europa occidentale, se analizziamo i dati degli ultimi anni sulle iscrizioni ai corsi di medicina è legittimo parlare di un massiccio fenomeno di importazione di cervelli accademici. In Repubblica Ceca i dati dell' Unesco attestano una presenza letteralmente raddoppiata degli studenti stranieri, in Slovacchia il numero è addirittura quintuplicato e il 45% degli iscritti stranieri studia medicina. In Ungheria il numero di studenti stranieri è passato da 13.600 del 2005 a quasi 17mila de12011 e secondo l'Ocse il 42% di loro studia medicina. La Polonia dal 2005 al 2010 ha registrato un aumento dell'80% di studenti stranieri. La seconda tendenza porta il nome dell'università di Maastricht. Questo ateneo nei Paesi Bassi, vanta un record di popolarità internazionale: il 50% degli studenti è straniero e il governo prevede un contributo di 6mila euro all'anno per ogni studente dell'Ue. Per fare domanda di iscrizione basta la sufficienza agli esami di maturità. Nel 2008 il quotidiano olandese Het Financieele Dagblad ha calcolato che gli studenti stranieri costano ai contribuenti olandesi l'incredibile cifra di 100 milioni di euro all'anno. Quanto basta per attirare molti giovani del nostro Paese: 1'1,3% degli studenti italiani si iscrive infatti nei Paesi Bassi e la percentuale nell'ultimo periodo è in crescita. Ma l'università di Maastricht è anche qualità, parola del Sunday Times: è al 109esimo posto nella classifica delle 700 università migliori del mondo e il 90% dei laureati trova un impiego dignitoso entro sei mesi dalla laurea. Più o meno come le università pubbliche italiane, no? thomas.leoncini ___________________________________________________ Corriere della Sera 6 Sett. ‘13 SE LA LAUREA ONLINE SFIDA ANCHE HARVARD Comincia un nuovo anno scolastico e le famiglie, in Italia come negli Usa, si ritrovano a discutere della rivoluzione tecnologica che cambia le abitudini e il modo di apprendere dei loro figli. Non solo smartphone ovunque, ma anche scuole nelle quale si diffonde l'uso dei tablet. Con tutte le incertezze del caso: come controllare o limitare le ore passate dai ragazzi sui loro terminali mobili, spesso usati soprattutto per giocare, scambiare foto, dialogare con gli amici, se è questa la tecnologia che li accompagnerà per molti anni, che darà forma ai loro rapporti sociali e professionali? Difficile orientarsi in un mondo nel quale in molte scuole i professori ritirano gli iPhone dei ragazzi, ma poi in classe li fanno lavorare con gli iPad che, sempre più, sostituiscono i libri di carta. Ma questo è nulla rispetto a quello che si prepara nel mondo dell'accademia, per chi arriverà alla formazione universitaria. Negli Stati Uniti si stanno moltiplicando le imprese — a fini di lucro, no profit, private o nate da consorzi di università — specializzate in corsi accademici online. E se quelli organizzati dai grandi atenei della East Coast, da Harvard al Mit, e da quelli californiani guidati da Stanford sono concepiti come integrativi rispetto ai campus tradizionali, iniziative più aggressive come Udacity e UniversityNow sono ben più ambiziose: vogliono creare un'alternativa a modelli d'insegnamento — un professore in un'aula davanti agli studenti — mai mutati in mille anni. L'ultima sfida è quella del Minerva Project: la nuova scuola fondata da Ben Nelson (sarà attiva dal 2015) che punta a diventare più autorevole di Harvard offrendo corsi di laurea che costano la metà: niente campus «aristocratici», ma studenti che vivono i semestri di studio in città diverse, da San Francisco a Singapore passando per Londra, alloggiati in residence low cost e frequentando le lezioni in sedi affittate di volta in volta, ma sempre con docenti (presenti fisicamente o in videoconferenza) molto qualificati. È l'inizio di uno tsunami destinato a trasformare l'università tradizionale? Scopriremo che non ha più senso svenarsi per far seguire a nostro figlio un corso qualificato, ma «chiuso», in un'era di formazione continua? Tentativi di trasformare l'università in chiave digitale ne sono stati fatti anche in passato e senza successo: UNNext, creata nel 1997 da Larry Ellison (Oracle) e dal finanziere Michael Milken, è fallita così come Fathom, l'iniziativa tentata nel 2000 dalla Columbia University. Ma ora la tecnologia è assai più pervasiva e sta cambiando tutto: informazione, trasporto, commercio. Perché non dovrebbe trasformare anche un'università immobile i cui costi, almeno in America, continuano ad impennarsi? Ci credono personaggi come l'ex ministro del Tesoro ed ex presidente di Harvard, Larry Summers, che presiede l'advisory board di Minerva Project. E molte università tradizionali, i cui laureati non trovano lavoro e hanno un grosso debito di studio da rimborsare, cominciano a interrogarsi sul loro futuro. @massimogaggi _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 set. ’13 SCIENZA, MODELLO PER LA SOCIETÀ Nel pieno della crisi del '29 John Dewey attaccò l'oscurantismo di chi contrapponeva industria e tecnologia ai progetti emancipativi Un pensiero radicale e attualissimo che proponeva un individualismo nuovo orientato alla soluzione dei problemi collettivi, adottando l'antidogmatismo tipico della comunità scientifica John Dewey Ho cercato di fare un'analisi, piuttosto che esprimere una condanna dei mali della società attuale o prescrivere dei fini e ideali immutabili come loro cura. Credo infatti che le persone serie siano abbastanza d'accordo sia sui mali sia sugli ideali, almeno fino a quando sono considerati in generale. La condanna è troppo spesso soltanto un modo di dimostrare la propria superiorità. È una voce esterna alla situazione; rivela i sintomi, ma non le cause. Non è in grado di produrre nulla; sa soltanto riprodurre cose del suo stesso tipo. Per quanto riguarda gli ideali, tutti sono d'accordo nel dire che vogliamo una vita buona e tutti concordano nel ritenere che una vita buona implica libertà e un gusto che è educato per apprezzare ciò che è onesto, il vero e il bello. Ma fino a quando ci limitiamo a questi aspetti generali, le frasi che esprimono gli ideali potrebbero essere trasferite dai conservatori ai radicali, e viceversa, e nessuno sarebbe il più saggio. Perché, senza l'analisi, non si calano nella situazione reale né sono interessati alle condizioni che rendono possibile la realizzazione degli ideali. (...) C'è chi accetta di buon grado la scienza ammesso che rimanga "pura"; si rende conto che, come oggetto da inseguire e da contemplare, è un'addizione al significato goduto della vita. Ma sente che le sue applicazioni nelle invenzioni meccaniche sono la causa di molti dei problemi della società moderna. Senza dubbio queste applicazioni hanno dato vita a nuove forme di bruttezza e sofferenza. Non mi cimenterò nel compito impossibile di provare a fare il bilancio netto dei mali e dei piaceri fra il periodo precedente e quello successivo all'uso pratico della scienza. Il punto rilevante è che l'applicazione della scienza è ancora limitata: ha a che fare con i nostri rapporti con le cose, ma non con le persone. Impieghiamo il metodo scientifico per dirigere le energie naturali, ma non quelle umane. Di conseguenza, una valutazione della piena applicazione della scienza non può essere una registrazione di ciò che è già avvenuto, ma deve essere profetica. Una tale profezia non è però priva di fondamento. Anche allo stato attuale delle cose c'è un movimento nella scienza che fa presagire, se terrà fede alla promessa in esso implicita, un'epoca più umana. Infatti, guarda avanti a un tempo in cui tutti gli individui potranno condividere le scoperte e i pensieri degli altri per la liberazione e l'arricchimento della loro esperienza. Nessun scienziato può tenere per sé ciò che ha scoperto o trasformarlo in una spiegazione puramente privata senza perdere la sua reputazione scientifica. Qualsiasi cosa sia scoperta appartiene alla comunità degli scienziati. Ogni nuova idea e teoria deve essere sottoposta a questa comunità per essere esaminata e confermata. C'è una comunità in crescita che opera in modo cooperativo e che riconosce le stesse verità. È vero che questi tratti sono per ora limitati a piccoli gruppi che svolgono un'attività in un certo qual modo tecnica. Ma l'esistenza di gruppi di questo tipo rivela una possibilità del presente; una delle molte possibilità che costituiscono una sfida a espandersi e non una ragione per la ritirata e la contrazione. Supponiamo che ciò che ora accade in circoli ristretti sia esteso e generalizzato. Il risultato sarebbe l'oppressione o l'emancipazione? L'indagine è una sfida, non un'accettazione passiva; l'applicazione è un mezzo di crescita, non di repressione. L'adozione generale dell'atteggiamento scientifico nelle questioni umane significherebbe nientemeno che un cambiamento rivoluzionario nella morale, nella religione, nella politica e nell'industria. Il fatto di averne limitato l'uso quasi esclusivamente ai problemi tecnici non vuole essere un rimprovero alla scienza, ma agli uomini che la usano per fini privati e che combattono per scongiurare la sua applicazione sociale per paura degli effetti distruttivi che avrebbe sul loro potere e sui loro guadagni. L'immagine di un tempo in cui le scienze naturali e le tecnologie che ne derivano saranno usate al servizio della vita umana è ciò che l'immaginazione può dare di rilevante al nostro tempo. Un umanesimo che fugge dalla scienza come davanti a un nemico rifiuta i mezzi con cui un umanesimo liberale potrebbe diventare realtà. L'atteggiamento scientifico è sperimentale e intrinsecamente comunicativo. Se fosse universalmente applicato, ci libererebbe dal pesante fardello che ci viene imposto dai dogmi e dalle norme estrinseche. Il metodo sperimentale è qualcosa di diverso dall'uso dei cannelli ferruminatori, storte e reagenti. È il nemico di ogni credenza che consente ad abitudini e usanze di controllare i processi di invenzione e di scoperta e che permette a un sistema già formato di non tenere in alcun conto i fatti verificabili. Il controllo costante è il lavoro dell'indagine sperimentale. Grazie al controllo della conoscenza e delle idee acquisiamo la capacità di compiere delle trasformazioni. Questo atteggiamento, una volta che fosse incorporato nella mente individuale, troverebbe uno sbocco operativo. Se i dogmi e le istituzioni tremano quando appare una nuova idea, questo tremore non è nulla in confronto a ciò che accadrebbe se a quell'idea fossero forniti i mezzi per scoprire continuamente nuove verità e per criticare le vecchie credenze. «Accettare» la scienza è pericoloso soltanto per quelli che, per pigrizia o interesse personale, manterrebbero immutato l'ordine sociale esistente. Infatti, l'atteggiamento scientifico richiede lealtà a tutto ciò che è scoperto e risolutezza nell'accogliere le nuove verità. (...) La moltiplicazione dei mezzi e dei materiali costituisce un aumento di opportunità e di scopi. È segno che l'individualità si lascia andare a emozioni e atti più congeniali alla sua natura. Il nemico non sono i beni materiali, ma la mancanza di volontà di usarli come strumenti per conseguire le possibilità che si desiderano. Immaginate una società libera dal dominio del denaro e diventa chiaro che i beni materiali sono un invito al gusto e alla scelta, sono occasioni per la crescita individuale. Se gli uomini non sono abbastanza forti e risoluti da accettare l'invito ad avvantaggiarsi dell'occasione che si presenta loro, diamo la colpa a chi se la merita. Il determinismo economico ha ragione perlomeno su questo punto. L'industria non è al di fuori, ma all'interno della vita umana. La tradizione aristocratica chiude gli occhi davanti a questo fatto; sia per ciò che riguarda il piano emotivo sia per quanto concerne la dimensione intellettuale, la tradizione aristocratica relega l'industria e la sua fase materiale in una regione lontana dai valori umani. Fermarsi al rifiuto puramente emotivo e alla semplice condanna morale dell'industria e del commercio come materialistici vuol dire lasciarli in questa regione non umana, in cui agiscono come strumenti nelle mani di chi li impiega per fini privati. Questo tipo di esclusione è complice di quelle forze che tengono in sella lo stato di cose. C'è un legame sotterraneo fra quelli che utilizzano l'ordine economico esistente per ottenere un vantaggio economico personale e quelli che gli voltano le spalle a vantaggio dell'autocompiacimento personale, della dignità privata e dell'irresponsabilità. PRAGMATISMO DEMOCRATICO Rosa M. Calcaterra Dai primissimi scritti pubblicati negli anni 80 del XIX secolo fino alla morte, avvenuta nel 1952, John Dewey ha dato voce a un'autentica passione per gli ideali democratici, una passione tanto teoretica quanto morale ed estetica, che lo portava ad impegnarsi senza sosta nell'analisi degli eventi sociali e politici nonché a partecipare in prima persona ai dibattiti sui problemi più scottanti del momento, in ambito sia statunitense sia internazionale. L'impegno deweyano a favore di una politica democratica si svolse alla luce di alcuni criteri che hanno sempre avuto un peso importante nel dibattito filosofico-politico occidentale. Principalmente, va registrata l'idea di Thomas Jefferson per cui la democrazia è un "esperimento" ininterrotto, un ideale socio-politico che necessariamente eccede sempre la propria attuazione. Le pagine di Dewey riprodotte in Individualismo vecchio e nuovo (di cui proponiamo uno stralcio) risalgono al 1929, l'anno della "grande depressione" economica che paralizzò gli Stati Uniti e ridusse in miseria migliaia di famiglie, a dispetto delle appassionate apologie della "religione della prosperità" proferite dal presidente Hoover. Fu una crisi che incrinò profondamente, anche nel resto del mondo, le speranze di una società migliore destate dai padri fondatori della democrazia, in verità già segnata, fin dai primi anni del Novecento, da gravi contraddizioni. Secondo il suo tipico stile di "intellettuale pubblico", Dewey scese in campo con la stesura di un gruppo di articoli pubblicati dalla rivista d'avanguardia «The New Republic». Al di là delle singole argomentazioni, restano importanti la tonalità morale e l'equilibrio con cui egli si accosta alle vicende storico-sociali del l'"americanismo", offrendo spunti di riflessione su temi e problemi che ci appaiono di sconcertante attualità. Ciò che, infatti, viene posto in questione è il valore umano di certi atteggiamenti socio-economico-culturali che tuttora siamo soliti associare all'american way of life e che, per gli inquietanti eventi dei nostri giorni, sollecitano interrogativi analoghi e forse ancor più stringenti di quelli che si imponevano all'epoca in cui Dewey scriveva. Colpisce, comunque, in questi documenti, l'esclusione di cedimenti più o meno retorici sia al pessimismo sia all'utopismo. La tesi di Dewey è che i gravi problemi del momento erano l'esito di uno sviluppo perverso degli ideali individualistici cui risaliva «l'essenza dell'americanismo», vale a dire il progetto di una società basata sui principi dell'uguaglianza e della libertà «per tutti, senza riguardo alla nascita e allo stato giuridico»: uno sviluppo che aveva risolto il 'vecchio individualismo' di Lincoln e Jefferson, di Whitman ed Emerson, nell'ideologia del profitto privato, nelle "costumanze di una civiltà del danaro", anziché riadattarlo alle grandi risorse economiche e tecnologiche dell'America per formare una società più giusta e più stabile. Era questa, secondo Dewey, la "grande rinuncia" che pesava sul presente e sul futuro della realtà statunitense, ma alla quale si poteva rimediare disponendosi ad "un nuovo individualismo", cioè un riassetto culturale in grado di esprimere eguaglianza e libertà «non solo estrinsecamente e politicamente, ma attraverso la personale partecipazione alla formazione di una civiltà con responsabilità e interessi divisi». © RIPRODUZIONE RISERVATA John Dewey, Individualismo vecchio e nuovo, a cura di Rosa M. Calcaterra, traduzione di Roberto Gronda, Diabasis, pagg. 144, € 12,00 Archivia _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 set. ’13 I BAMBINI NELLA TRAPPOLA DELLA POVERTÀ di MAURIZIO FERRERA La condizione di indigenza comporta una riduzione delle capacità intellettive Un dramma per le nuove generazioni che accumulano un dannoso deficit cognitivo I mmaginate di passare una notte completamente insonne. Come vi sentireste il giorno dopo nell'affrontare un colloquio di lavoro o negoziare un prestito in banca? Non certo bene, sicuramente non in grado di dare il vostro meglio. È ciò che succede a chi diventa povero. La preoccupazione su come sbarcare il lunario drena attenzione ed energia, la mente si annebbia, diventa difficile essere intraprendenti e si finisce per restare come imprigionati nella situazione di indigenza. Da tempo gli scienziati sociali parlano di «trappola della povertà». Finora si pensava però che la dinamica sottostante fosse di natura essenzialmente economica: se il welfare state paga un sussidio, il povero perde convenienza a cercare lavoro e si rassegna a vivere con poco, ma a carico dello Stato. I neuropsicologi ci spiegano ora che la trappola è (anche) di natura cognitiva: è cioè connessa alla «finitezza» delle nostre capacità mentali e al loro eccessivo utilizzo, in caso di difficoltà materiali, per salvaguardare elementari esigenze di «sopravvivenza». A lanciare l'allarme sulle conseguenze cognitive della povertà è stato a fine agosto un importante articolo uscito su «Science» (già commentato sul «Corriere» del 31 agosto da Sergio Harari), che ha illustrato i risultati di alcune interessanti ricerche sperimentali. Due partecipanti del gruppo di ricerca hanno anche scritto un libro di taglio più divulgativo, in cui approfondiscono le dinamiche della «psicologia della scarsità», della forma mentis che s'impadronisce di noi quando ci manca qualche bene importante: non solo denaro, ma anche tempo, calorie, amici. La mentalità «da carenza» ci spinge a concentrare energie sui bisogni più pressanti e sulle migliori strategie per soddisfarli (e ciò è un bene dal punto di vista della sopravvivenza evolutiva). Ma al tempo stesso questa mentalità accorcia i nostri orizzonti, ci rende miopi e meno creativi, limitando paradossalmente le nostre possibilità di superare la carenza stessa, di evolvere verso un maggior benessere. Secondo il libro, il «sentirsi povero» abbassa il quoziente di intelligenza di circa 13 punti, più o meno quanto una notte insonne. Si tratta di un'indicazione di portata storica: per secoli la relazione causale fra povertà e intelligenza/impegno è stata di segno opposto. Non è la mancanza di «orgoglio, onore e ambizione» che conduce alla povertà (secondo la famosa teoria di Joseph Townsend, autore di una influente Dissertation on the Poor Laws del 1786). È al contrario la povertà che ci condanna a una vita cognitivamente limitata, a usare il paraocchi per non distogliere la nostra attenzione dallo scopo primario della sopravvivenza materiale, trascurando ogni altro obiettivo di miglioramento. È un dato che nei Paesi in via di sviluppo le persone che si trovano in miseria estrema non prendono le medicine (anche se gratuite), non si lavano le mani per evitare contagi, non strappano dai campi le erbacce che danneggiano i raccolti... Non si tratta di vizi caratteriali, ma di conseguenze cognitive delle loro condizioni economiche. L'impatto della povertà sulle capacità del nostro intelletto è particolarmente nefasto durante l'infanzia. Molti studi di psicologia dell'età evolutiva e di economia hanno già da tempo segnalato che, a partire dal secondo anno di età, il contesto socioeconomico all'interno del quale si cresce condiziona in modo significativo la gamma e il tipo di opportunità di cui i bambini dispongono e aumentano il rischio di «restare indietro» dal punto di vista intellettivo. Dire che quando si inizia la scuola dell'obbligo più della metà delle carte che contano nel successo della vita sono già state giocate può suonare come un'iperbole, ma rende bene l'idea. A quindici anni, a parità di quoziente di intelligenza misurato a sei anni, chi proviene da famiglie povere ha accumulato un ritardo di due anni quando risponde ai test Pisa sulla comprensione verbale. La povertà produce cicatrici precoci nello sviluppo cognitivo, che restano visibili per tutta la vita. Ciò vale in larga parte anche per la disoccupazione. Chi si affaccia sul mercato del lavoro per la prima volta durante una recessione (come purtroppo sta accadendo oggi a moltissimi giovani europei) si sente più insicuro, è oppresso dal timore di restare senza lavoro e senza reddito e tende ad avere un profilo occupazionale e retributivo più sfavorevole lungo tutto il corso della vita rispetto a chi vi entra durante una fase di crescita. La Joseph Rowntree Foundation ha stimato che gli attuali livelli di povertà minorile in Gran Bretagna (superiori al 20%) «costano» circa il 2% del Pil in termini di sussidi e mancato reddito per l'economia (e il fisco). Se è vero che i poveri sono vittime di vere e proprie trappole che ostacolano la loro intraprendenza e che hanno effetti molto negativi a livello sia individuale sia aggregato, la risposta non può che essere una lotta collettiva senza quartiere alla povertà e all'esclusione sociale, soprattutto quella fra i minori. Lo sanno bene i Paesi nordici, che da almeno tre decenni hanno ricalibrato il proprio welfare irrobustendo trasferimenti e servizi per i meno favoriti. La rete di sicurezza di questi Paesi è non solo generosa, ma anche efficace: i beneficiari delle misure antipovertà riescono a fuoriuscire molto rapidamente (pochi mesi) dalla loro condizione e a rimettersi in careggiata. Se hanno ragione i neuropsicologi, le loro capacità intellettive non ne risentono in misura significativa. In Scandinavia inclusione e istruzione (compresi gli asili nido) sono considerate priorità irrinunciabili e a esse vengono dedicate quote importanti di spesa pubblica: intorno al 10%, più della metà in confronto ai Paesi dell'Europa continentale. Riflettendo su tutte queste dinamiche, gli studiosi di welfare sono diventati critici nei confronti di molte politiche di tipo tradizionale, volte a rispondere solo ex post ai bisogni sociali e raccomandano invece un approccio preventivo, che miri a contenere il più possibile ex ante l'insorgenza dei bisogni e in particolare della povertà e dell'esclusione. Secondo un recente studio di Morel, Palier e Palme, è opportuno passare dal welfare state novecentesco a nuove forme di investimento sociale da parte dello Stato, rivolte in particolare ai bambini e alle madri che lavorano. L'Unione Europea ha sposato con entusiasmo questa prospettiva. Una rottura col paradigma dell'austerità? Potenzialmente sì. Naturalmente aspettiamo decisioni concrete, capaci di cambiare la percezione ormai diffusa che Bruxelles sia amica del mercato, ma nemica di ogni forma di welfare. _____________________________________________________________ Le Scienze 28 Ago. ’13 GLI EFFETTI DELLA POVERTÀ SULLE RISORSE COGNITIVE Le preoccupazioni legate a difficili condizioni finanziarie consumano risorse mentali, lasciando poco spazio per dedicarsi ad altro: è la conclusione di uno studio che stabilisce per la prima volta un rapporto di causa-effetto tra povertà e scarse capacità cognitive, due fattori per i quali finora era nota solo una correlazione statistica. Il risultato potrebbe avere notevoli implicazioni per le politiche sociali (red) Le persone indigenti spesso dimostrano scarse capacità cognitive, in particolare nella gestione economica, una carenza che contribuisce a perpetuare la condizione di povertà. Questa correlazione è stata stabilita da numerosi studi, ma com'è, noto, in statistica una correlazione non stabilisce affatto un rapporto di causa ed effetto. Ora però una nuova ricerca, pubblicata su “Science”, dimostra per la prima volta l'esistenza di un rapporto causale tra povertà e funzioni mentali. Combinando i risultati di alcuni test sui clienti di un centro commerciale del New Jersey con quelli di studi sul campo condotti in due distretti agricoli dell'India, Anandi Mani del dipartimento di Economia dell'Università di Warwick a Coventry, nel Regno Unito, e colleghi hanno trovato che la povertà riduce le facoltà cognitive, presumibilmente perché le preoccupazioni legate alla condizione finanziaria limitano o esauriscono le risorse mentali personali. Nel corso dello studio, Mani e colleghi hanno presentato a 101 clienti del centro commerciale quattro ipotetici scenari che descrivono problemi finanziari a cui avrebbero potuto andare incontro: per esempio, la riparazione di un'auto, il cui costo poteva oscillare da poche centinaia ad alcune migliaia di dollari. Mentre riflettevano su ciascuno scenario, i partecipanti eseguivano semplici compiti al computer per misurare la funzione cognitiva. Dall'analisi statistica delle risposte è emerso che i partecipanti con il reddito più basso ottenevano buoni risultati nei test di gestione finanziaria quando il costo dell'ipotetica riparazione era basso, mentre i loro risultati erano scarsi quando diventava elevato. I soggetti più benestanti, al contrario, riuscivano ad affrontare bene entrambe le situazioni. Questi risultati sono in accordo con i test della funzione cognitiva, in cui i soggetti più benestanti si comportavano tendenzialmente meglio dei meno abbienti. dimostrano una notevole disparità nelle capacità cognitive tra prima e dopo la vendita del raccolto, che fa la differenza tra povertà e ricchezza  ( © Manoj Deka/Demotix/Corbis)In India, i ricercatori hanno analizzato il comportamento di 464 coltivatori di canna da zucchero, che dipendevano per almeno il 60 per cento del budget dalle entrate derivanti dalla vendita del raccolto. Anche in questo caso, hanno somministrato test di gestione finanziaria e test della funzione cognitiva, e anche qui è emerso che i risultati prima del raccolto, quando gli agricoltori erano poveri e perciò preoccupati della situazione finanziaria, erano notevolmente peggiori rispetto a quelli dopo il raccolto, quando erano stati pagati e quindi in una situazione finanziaria migliore. I dati, sottolineano i ricercatori, non possono essere spiegati da fattori quali lo stress, le diverse condizioni di alimentari, il lavoro o il tempo disponibile. Gli autori ipotizzano che le preoccupazioni collegate alla povertà, in termini di attenzione dedicata ai problemi e di pensieri intrusivi, consumino risorse mentali, lasciando poco spazio per dedicarsi ad altri compiti.  I risultati, concludono gli autori, hanno importanti implicazioni per le politiche sociali: semplici interventi per aiutare i soggetti più indigenti nelle loro difficoltà cognitive, come un aiuto nella compilazione dei moduli o suggerimenti e promemoria per la pianificazione delle attività, potrebbero essere particolarmente efficaci. _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 set. ’13 CONTRORIFORMATORI IN RETE Accordi tra operatori e fornitori per servizi a qualità garantita sono previsti da una bozza di regolamento Ue Che solleva molti dubbi Juan Carlos de Martin: c'è il rischio di avere lobby a svantaggio di attori minori Alessandro Longo I servizi a qualità garantita non devono «danneggiare sostanzialmente la normale internet». È una frase rivelatrice, questa che si trova all'interno di una proposta di regolamento europeo che è venuta alla luce da pochi giorni. Spinge verso una visione di internet diversa da quella che abbiamo conosciuto finora. E secondo molti potrebbe mettere a rischio la normale internet: danneggiarla, più o meno "sostanzialmente". Il regolamento, che per ora è una bozza, disegna quindi questo scenario: da una parte l'internet normale, che continuerebbe a dare i soliti servizi e su cui i diritti degli utenti verrebbero ulteriormente garantiti da nuove norme in capo agli operatori. Dall'altra, una internet con servizi a qualità garantita, frutto di accordi tra chi li fornisce (Google, Microsoft, editori audiovisivi) e gli operatori di rete. Se ne parla da tanti anni, ma per la prima volta questa visione viene messa nero su bianco, in Europa. Va detto che la bozza, frutto del commissario Neelie Kroes al l'Agenda digitale, deve essere ancora adottata dalla Commissione, che la analizzerà l'11 settembre (a quanto riferisce Reuters). Anche se passerà in quella sede, deve poi superare il vaglio del Parlamento e del Consiglio Ue. Ma è comunque notevole che quella visione, "eretica" per molti sostenitori della libertà di internet, trovi cittadinanza proprio negli uffici del commissario più vicino ai temi del digitale. Si tratta di una proposta di regolamento per creare un mercato unico delle comunicazioni elettroniche, con norme comuni tra i diversi Paesi dell'Unione, superando le divergenze nei diversi ambiti del digitale (reti fisse, mobili, gestione dello spettro, diritti degli utenti, obblighi per gli operatori). Nelle 66 pagine della bozza, che Nòva24 ha potuto leggere, le regole per inaugurare quella nuova visione di internet si inquadrano quindi in uno scenario più ampio. In particolare è notevole l'articolo 19, che non solo dà il via libera ad accordi operatore-fornitore per servizi a qualità garantita (quality of service); ma anche obbliga gli operatori tlc a negoziarli. Questi potranno rifiutarsi di offrire un canale preferenziale sulla rete, per i fornitori che glielo richiederanno, solo con fondati e oggettivi motivi. Di contro, il regolamento introdurrebbe anche nuove garanzie agli utenti, sulla internet normale: vieta agli operatori di rallentare il traffico o bloccare specifici servizi, se non per alcuni specifici motivi. Sono condizioni già garantite in Europa, anche se non con norme ma solo nella prassi degli operatori, almeno sulla rete fissa. Quello che manca sono norme che chiariscano i limiti degli operatori e li obblighino a una maggiore trasparenza su quello che fanno sulla propria rete. La Commissione va in questa direzione, dando – nella proposta – l'incarico alle Authority tlc nazionali di vigilare sul rispetto di queste garanzie (ossia di quella che viene chiamata «neutralità della rete»). Persino, attribuisce alle Authority il nuovo potere di imporre – qualora necessario – agli operatori standard minimi di qualità per specifici servizi sulle proprie reti. Ecco perché Kroes ha dichiarato che la nuova proposta serve anche a tutelare la neutralità della rete. Sono di parere opposto le associazioni pro-internet come Quadrature du Net, secondo cui la semplice nascita di servizi con qualità garantita minaccerebbe la neutralità della rete. Concorda Juan Carlos de Martin, del Politecnico di Torino: «Se ci sono servizi velocizzati per via degli accordi tra operatori e fornitori, tutti gli altri saranno sfavoriti. Future startup innovative dovranno fare accordi con gli operatori, con costi extra, per restare competitive. È una nuova barriera all'ingresso. C'è anche il rischio di avere lobby in cui i principali operatori e fornitori si accordino per questi servizi, annientando le opportunità per gli attori minori». «È vero che questo nuovo modello può sfavorire i service provider minori», spiega Cristoforo Morandini, di Between, «ma la Kroes sta cercando un compromesso tra la tutela dei diritti degli utenti e la possibilità per gli operatori di sperimentare nuovi modi per remunerare la rete, anche in vista del necessario aumento di investimenti sulle reti in fibra ottica. È un compromesso possibile se ci sarà la massima trasparenza sulle offerte e sulle caratteristiche della quality of service». È una partita che è ancora lontana dal chiudersi. «La bozza è poco gradita da altri commissari Ue. Quella alla Privacy, Viviane Reding, ha espresso riserve», spiega Innocenzo Genna, esperto di policy tlc a Bruxelles. Ci sono aspetti contrastanti nella bozza, per esempio (articolo 23) l'apertura a sistemi di gestione del traffico con cui gli operatori addirittura dovrebbero «prevenire o impedire crimini gravi» (fatto possibile solo se facessero i poliziotti e analizzassero tutti i pacchetti, ma sarebbe un'attività illecita sotto vari profili). La bozza sembra figlia di esigenze opposte ed è facile prevedere sarà rimaneggiata ancora. Ragione in più per cui la società civile deve vigilare sulla questione. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 set. ’13 UFFICI PIENI DI COMPUTER, SPENTO UNO SU DUE DA UNO DEI NOSTRI INVIATI CERNOBBIO — Sembra quasi un esercizio letterario quello presentato al Workshop Ambrosetti dal professore dell’Imperial College, David Gann: immaginiamo che grazie all’egovernment (meno file, minori spostamenti, maggiore efficienza nella ricerca di un documento sanitario, meno stress) ogni cittadino italiano risparmi 30 minuti di tempo utile al giorno per fare altro. Distribuendo questa mezzoretta tra lavoro retribuito, riposo e tempo libero, il bilancio collettivo andrebbe in utile di 40 miliardi di euro. D’altra parte Gann è il consulente del sindaco di Londra sulla parola magica per eccellenza: innovazione. Eppure nel 2013 (e a dire il vero già da tanti anni negli altri Paesi) il Pil si produce anche così. Liberando risorse. Gann è stato il curatore dello studio elaborato dall’European House Ambrosetti con il supporto di Poste italiane, «Stato, Cittadini e Imprese nell’era digitale» che sarà presentato oggi a policy makers e imprenditori e che non disegna certo un quadro roseo. I ritardi dell’Italia in questo campo sono così noti che sembra quasi noioso rienunciarli. Quello che c’è di nuovo, però, è che Gann parla di eccellenze che ha trovato in Italia. Molte cose sono state fatte ma è come se non parlassero tra di loro. «Il problema — ha testimoniato ieri il ministro della Pubblica amministrazione e della Semplificazione, Gianpiero D’Alia — è che esistono tante Pubbliche amministrazioni distinte» ricordando il grosso passo in avanti fatto con la concentrazione delle deleghe dell’Agenda digitale sul premier Enrico Letta e l’arrivo di Francesco Caio a fare da “architetto”. Ma è inutile negare che è necessario anche sistemare l’esistente. Sempre il rapporto segnala che se negli ultimi anni sono stati investiti 6 miliardi in 4 mila data center per la Pa ben uno su due è sottoutilizzato (non è certo un caso che l’Agenzia digitale che nella sua prima fase si era lanciata in un progetto di implementazione di nuovi data center sia stata riportata a più ragionati consigli diventando un soggetto di governance). La soluzione per l’amministratore delegato delle Poste, Massimo Sarmi, c’è: «Serve un piano dei servizi utili al cittadino e alle imprese che deve fare il governo: una lista delle priorità dei servizi che fanno parte della vita delle persone e delle aziende, dalla nascita alle varie fasi della crescita, che grazie alle opportunità del cloud potrebbero essere dislocate su questa potenza dei data center inutilizzata». Gann con l’invidiabile aplomb e pragmatismo inglese ha ricordato che «dovete andare avanti su questa strada» mostrandosi ottimista nonostante i dati sconfortanti. Forse è proprio questo atteggiamento la migliore lezione che dovremmo imparare: rimboccarsi le maniche senza stare a guardare sempre a ciò che non è stato fatto finora. Sarmi ha ricordato che grazie al riconoscimento facciale dei sottoscrittori italiani di ben 29 milioni di libretti postali attiverà un accesso digitale semplificato ai servizi finanziari tramite un Poste ID, una carta d’identità postale. Un percorso che, come ha riconosciuto il ministro D’Alia, essendo abilitato da una società controllata dallo Stato potrebbe essere utilizzato per facilitare il dialogo tra gli uffici pubblici e i cittadini. Tanto basterebbe per creare i prodromi di un passaggio dallo Stato.Pdf (quello attuale) allo Stato.com (l’obiettivo). La vera sfida rimane l’occupazione: la teoria del professore di Berkeley, Enrico Moretti, esposta nel suo libro «La nuova geografia del lavoro» (ogni posto di lavoro digitale aiuta altri 5 posti più tradizionali) trova proprio nella Tech City londinese la sua espressione concreta: le start up hanno popolato quartieri che avevano perso centralità. E così intorno alle nuove aziende sono risorti ristoranti, bar e servizi. Massimo Sideri _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 set. ’13 PA: I PIU’ VECCHI I DOCENTI UNIVERSITARI E MAGISTRATI CONTO ANNUALE Secondo il censimento più aggiornato sono più di 20mila i dipendenti che hanno superato i 65 anni di età MILANO. Uomo, docente universitario o magistrato. Ha questi lineamenti l'identikit del dipendente pubblico più avanti con gli anni, e quindi più direttamente interessato alla norma di interpretazione autentica inserita dal Governo nel Dl 101/2013 con le regole sul pubblico impiego. Il decreto prova a fermare con la forza della legge il contenzioso sui pensionamenti "forzati", introdotti come misura di razionalizzazione della spesa pubblica negli anni della crisi, con battaglie di carta bollata fra amministrazione e dipendente che hanno interessato anche alcuni alti dirigenti della Pubblica amministrazione. A livello di comparti, sono però università e magistratura a primeggiare nella piramide dell'età, che negli uffici pubblici è cresciuta anche a causa dei vincoli sempre più stretti al turn over. Secondo il censimento più aggiornato, sono più di 20mila i dipendenti della Pubbliche amministrazioni che hanno già superato il 65esimo anno di età. In media, significa sei persone ogni mille in forza al pubblico impiego, ma tra i ruoli della magistratura la percentuale si impenna al 9,48%, una quota oltre 15 volte la media, mentre in accademia si attesta al 5,7 per cento. Ovviamente, questo dipende dalle caratteristiche del settore e dalle regole previdenziali che lo disciplinano, e proprio l'unione di questi due fattori determina il fatto che restringendo l'osservazione agli over 68, il predominio di magistratura e accademia si fa assoluto: sono poco meno di 3mila i dipendenti pubblici ad aver raggiunto questa età, e nell'85% dei casi sono o magistrati o professori universitari. La regola dei 70 anni, ribadita dal decreto sul pubblico impiego, si rivolge quindi direttamente a loro. Per capire le proporzioni, nei ministeri gli ultra68enni sono meno di 50, mentre nelle aule universitarie se ne contano 1.800 e altri 190 sono divisi fra enti di ricerca e servizio sanitario nazionale. Negli enti locali, invece, solo 8 persone in tutta Italia avevano deciso di rimanere in servizio anche se l'orizzonte dei 70 anni si approssimava. L'altra caratteristica della platea più immediatamente coinvolta dalle regole sull'uscita forzata è data dalla netta prevalenza maschile. Nel tempo il pubblico impiego si era progressivamente femminilizzato, le donne sono il 55% della forza lavoro e nella fascia fra i 40 e i 60 anni raggiungono spesso il 60% del totale. Non accade così invece nelle fascie estreme, dove la prevalenza maschile è netta: oltre i 65 anni di età la quota femminile fra i dipendenti pubblici è del 33,1%, e crolla al 23,8% se si guarda solo a chi di anni ne ha già compiuti 68. Un dato, quest'ultimo, che c'entra solo in parte con le caratteristiche attuali dei settori in cui si concentrano gli over 65, perché in magistratura e università le donne sono il 43-46% del personale, ma che si spiega piuttosto con l'evoluzione della società italiana, perché in questi comparti la presenza femminile è diventata importante in anni più recenti di quanto accaduto in altri settori. Per capirlo è sufficiente guardare l'evoluzione delle corti di casa nostra: nella magistratura le donne rappresentano saldamente la maggioranza fino alla classe di età 45-49 anni, poi la loro presenza declina man mano che si risale la scala anagrafica dei ruoli. Su un piano complessivo, dunque, la regola rilanciata dal decreto ora all'esame del Senato dopo le difficoltà applicative incontrate dai primi tentativi non appare destinata a cambiare i grandi numeri nei pensionamenti del pubblico impiego, che dal 2006 a oggi ha visto uscire per raggiunti limiti di età o di servizio in media poco meno di 40mila persone all'anno (una quota rilevante delle cessazioni dipende da altre cause, a partire dalle dimissioni). Lo scopo, piuttosto, è quello di appianare il contenzioso che ne è sorto. gianni.trovati@ilsole24ore.com _________________________________________ Il Giornale 2 Sett. ‘13 NON ESISTE MERITO SE NON C’E’ DISCRIMINAZIO di Stefano Zecchi Università è lo specchio di una Nazione. Ci saranno anche eccezioni, ma la formazione della classe dirigente e dei ricercatori scientifici che portano avanti lo sviluppo di un Paese è opera delle Università. Il sistema Paese è in crisi; l'Università è in crisi. Ma non si tratta soltanto di una questione economica: almeno per quello che riguarda gli atenei. Molti studenti, molti laureati se ne vanno, ma per favore non chiamiamo questo esodo «fuga di cervelli»: sono semplicemente giovani che hanno capito che aria tira da noi, che hanno voglia di studiare (se sono ancora iscritti alle Facoltà) o che sanno di aver studiato bene e ritengono giusto essere messi alla prova, essere valutati per il loro merito. Non sono dei geni, sono ragazzi e ragazze normali che hanno compreso l'importanza di studiare, che avrebbero voglia di dare il loro contributo al proprio Paese, lavorando. Qui da noi si trovano le porte chiuse, o così difficili da aprire che lo sforzo appare umiliante. Stanno arrivando al pettine i nodi di una situazione che non si è voluta comprendere alle sue origini e poi nei suoi sviluppi. Vi ricordate quando la parola «merito crazia» suonava come una bestemmia? Eravamo agli inizi degli anni Settanta, inizio, anche, dello sfacelo degli studi. Poi ci si è accorti di aver esagerato, e la merito crazia è tornata ad ali spiegate, dopo una ventina d'anni, in tutti i discorsi possibili e immaginabili: non solo nessuno si vergognava più di pronunciarla, ma era diventata la bandiera della rinascita. Ma quando si parla tanto di una cosa, sorge un piccolo sospetto: non si tratterà, per caso, del classico predicare bene e razzolare male? Ci saranno eccezioni, sarò pessimista, ma il merito è tanto osannato quanto poco messo in pratica. Anche perché il premio dovrebbe prevedere il suo opposto: il castigo. Insomma, fare delle differenze, discriminare. Che brutta parola «discriminare»! Abbiamo tutti gli stessi diritti: somari e persone capaci, fannulloni e volonterosi. E poi vorremmo discriminare il figlio di... ?Dobbiamo trovargli un posto all'altezza del padre! I giovani, quelli capaci e volonterosi, sanno che da noi è questa la mefitica atmosfera che respirano. Ma sia chiaro: abbiamo ancora buone Università, buoni centri di ricerca, in cui si formano studenti che possono competere a livello internazionale. Per citare un ateneo (soltanto uno): il Politecnico di Milano. Molte sono le Università decadute, quelle che non riescono a mantenere uno standard di livello europeo. I giovani comprendono subito il valore di chi insegna e, in generale, la serietà degli studi che affrontano. Se sono sostenuti economicamente dalla famiglia, spesso si iscrivono subito in una Università straniera, o abbandonano già dai primi anni quell'italiana, in cui avevano incominciato; oppure, ancora, dopo la laurea fanno un master all'estero: è la bancarotta del nostro sistema formativo accademico, mentre per i giovani universitari o laureati emigranti è una bella avventura. Studiare o lavorare in un altro Paese che sa fare differenze e premiare diventa una sfida entusiasmante che matura la crescita individuale: non è soltanto la questione di trovare un impiego, ma di essere apprezzati, stimati, valorizzati. E, a questo punto, a loro della patria non importa un fico secco se la patria è stata matrigna. Semmai il problema è di chi governa il Paese e amministra l'Università. Un modesto consiglio non richiesto: chiudere tutte le Università nate per soddisfare clientele politiche; controllare periodicamente la qualità dei docenti; concorsi severi, discriminanti. _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 set. ’13 HANS E IL BELLO DEL MATTONE L'ARCHISTAR RIPENSA CASTELLO Kollhoff per la Scuola estiva di architettura: «Diamo il centro cagliaritano agli studenti» «È incredibilmente bello vedere alla sera, la gente che si muove verso il terrazzo di Castello e poi chiacchiera, ascolta musica, beve. Mi piace moltissimo. È un luogo della città molto forte che la gente condivide. Ecco, è questa l'architettura: prendere uno spazio e trasformarlo in un sentimento comune». Negli occhi celesti di Hans Kollhoff, celebre architetto tedesco, si legge il miscuglio di gioia e sorpresa nell'osservare quel rito serale così cagliaritano e considerarlo come uno dei momenti in cui uno spazio architettonico trova il suo punto di equilibrio con le persone che lo vivono: «C'è l'idea di vita condivisa». Ilterrazzo è ovviamente il bastione di Saint Remy, capace di guardare straordinari orizzonti per poi tornare al punto di partenza. «Architettura - incalza ancora l'allievo di Egon Eiermann, il padre della Chiesa commemorativa dell'imperatore Guglielmo, costruita a Berlino intorno alle rovine del tempio distrutto dalle bombe - non è avere un'idea astratta e sovrapporla, ma è far crescere uno spazio che ha nella terra il suo legame più forte». Come un albero che dalle radici trae alimento. A Cagliari per il secondo appuntamento con la Scuola estiva di architettura dell'Università di Cagliari, diretta da Nicola Di Battista, Hans Kollhoff raccoglie i frutti del lavoro iniziato un anno fa quando con gli studenti cominciò a ragionare su Castello. «Mi piace moltissimo questo posto - confida con un largo sorriso, e subito lancia la sua idea - Ci sono tanti edifici rovinati e deserti: potrebbero viverci gli studenti, anziché vederli andare via alle tre del pomeriggio per ritornare a casa dalla mamma. Anzi - incalza - potrebbero loro stessi fare lavori da muratore, da falegname. L'architettura, specialmente in Italia, è una cosa teorica, tagliata fuori dalla vita pratica. Sono convinto che per trovare l'idea della pratica in architettura, Castello sia un posto ideale». Non c'è nulla di provocatorio nella riflessione di Kollhoff, quanto piuttosto un pensiero coerente con la sua idea di architettura che si sforza di costruire uno “spazio per la vita”. «Oggi c'è un'ossessione a costruire edifici slegati dal contesto, quasi fossero satelliti venuti dallo spazio, per il forte contrasto che creano. Questa è l'architettura per il marketing, dove l'immagine è più importante della durabilità e della funzionalità. Purtroppo è forte per un momento, poi evapora». È questo uno dei nodi, o paradossi, del dibattito culturale europeo sull'architettura: il modernissimo, il futuribile, tradisce molto prima i segni dell'età e sopporta meno le ingiurie del tempo. «Noi - osserva ancora - parliamo tanto di sostenibilità e invece facciamo cose che non hanno la stessa capacità di durare nel tempo come quelle di una volta». Considerato tra i più classici degli architetti europei, («non solo il solo, ve lo assicuro»), ritiene che lavorare modernamente significa «fare i conti con la storia del posto, fare i conti e accettare i materiali che si trovano a disposizione. Fare qualcosa bene, meglio, questo è classico. Oggi però i soldi sono limitati, la società moderna li spende per altre cose. Nel passato gli uomini hanno pagato di più per costruire». Al di là dell'aspetto economico, indubbiamente condizionante, l'idea guida dell'architetto tedesco è che un progetto deve saper creare comunione. «Anche la casa tradizionale non era per me solo un edificio, ma una parte della città, della piazza, della strada. Uno spazio pubblico per tutti». Se poi gli domandate del suo materiale preferito, il mattone, disegnandolo idealmente con le mani vi risponderà che «con i mattoni è difficile fare cose stupide». Protagonista negli anni Novanta della rinascita di Potsdamer Platz a Berlino, il grande vuoto tra le due città riempito dalle archistar del mondo, Renzo Piano in testa, il padre della Kollhoff-Tower riflette su quell'esperimento parzialmente riuscito: «L'immagine della città distrutta e l'idea di società contemporanea come luogo di futuro sono le idee forza del progetto, riuscito in parte. Già il termine Platz è improprio perché era in passato un crocevia e lo è ancora. Ma anche fare un crocevia non è così facile: bisogna accettare la linea della strada, il passaggio di confine. Il problema di Potsdamer Platz è lo shopping center che è solo un ingresso, una trappola. Vicino a uno shopping center ci sono le uscite d'emergenza, l'accesso per i camion, il parcheggio, la spazzatura, ma non finestre per comunicare. Ecco perché è triste». Caterina Pinna ========================================================= _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 set. ’13 CONCORSO NAZIONALE PER GLI SPECIALIZZANDI Medici. Aggiornati i criteri di accesso PIÙ TRASPARENZA La misura sarà esaminata dal Consiglio dei ministri e punta a ridurre il rischio di «favoritismi» da parte degli atenei di appartenenza Rosanna Magnano «Sono favorevole al concorso nazionale per i medici specializzandi e non ho cambiato idea, basta Tweet». Con questa affermazione secca il ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza, ha risposto alle contestazioni ricevute ieri dai social network sul decreto legge (anticipato dal Sole 24 Ore di ieri) che contiene «misure urgenti in materia di istruzione, università e ricerca» e istituisce la graduatoria unica nazionale per i medici specializzandi, che sostituirà le attuali per singolo ateneo. Il Dl è all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri di lunedì. Una rivoluzione "antibaroni" nel nome della trasparenza chiesta a gran voce dalle organizzazioni dei giovani medici: la necessità di un concorso nazionale era stata infatti oggetto di una manifestazione a maggio a Roma, del segretariato italiano giovani medici (Sigm) e del Comitato Pro Concorso nazionale. «Si tratta di una norma che favorisce la trasparenza degli esami per l'ammissione alle scuole di specializzazione», spiega Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale e membro della commissione che ha gettato le basi del decreto (le dichiarazioni integrali su www.24oresanita.com). «La prova - continua - sarà su base nazionale, si analizzeranno anche i curricula e la valutazione finale seguirà schemi ben definiti, assolutamente uguali per tutti». Per Domenico Montemurro, coordinatore dell'Osservatorio giovani della Federazione nazionale degli Ordini dei medici, condizione necessaria per ipotizzare un concorso nazionale è «una corretta programmazione in funzione dei fabbisogni di professionisti». «Un concorso nazionale - spiega - permette di uscire da condizionamenti localistici in cui le scuole, diventano sede di tirocini "indotti". In tal modo il concorso assumerebbe connotati di trasparenza ed equità». Un'occasione, insomma, per riqualificare il percorso formativo dei medici: «È un cambiamento che abbiamo chiesto a ben tre ministri», spiega Walter Mazzucco, presidente del segretariato italiano giovani medici. «I risvolti positivi - continua - sono oggettivi: oltre al fatto che si introducono criteri trasparenti e oggettivi di valutazione, la graduatoria nazionale permette di tagliare il cordone ombelicale tra l'aspirante specializzando e la scuola di riferimento, dove spesso non si riescono a privilegiare le esperienze formative effettivamente maturate, ma prevalgono retaggi di altro tipo». Cautamente ottimista il Comitato Pro Concorso nazionale: «La graduatoria nazionale è quello che chiedevamo - fa sapere la libera aggregazione di studenti - ora resta da capire sulla base di quali criteri sarà formulata la graduatoria». Soddisfatti anche i giovani medici di FederSpecializzandi, che giudica il Dl un primo passo verso standard europei: «Riteniamo indegno di un paese civile il fatto che il destino professionale dei giovani medici - sottolinea il presidente, Cristiano Alicino - possa essere intaccato dai margini di discrezionalità che l'attuale regolamento lascia alle commissioni giudicatrici. Al decreto legge dovrà seguire il decreto ministeriale che dettaglierà le modalità di svolgimento del nuovo concorso». _____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 1 set. ’13 HARARI: TICKET E SANITÀ SOSTENIBILE di SERGIO HARARI Se vi è capitato di recente di dover effettuare qualche esame ambulatoriale, e se non siete esenti, come il 50% dei cittadini italiani, quanto avete speso? Decine o centinaia di euro, magari per qualche ciclo di riabilitazione o per effettuare una Tac o una Risonanza. D'altra parte questo è ormai il costo della «compartecipazione alla spesa sanitaria». Non solo paghiamo tasse come nessun altro al mondo ma in più, per avere quei servizi che dovrebbero essere garantiti, e che lo sono stati fino a ieri, sborsiamo altri soldi. La Corte dei Conti nel suo ultimo rapporto annuale promuove la sanità per la riduzione della spesa e dei rossi di bilancio, ma molti hanno dimenticato che se i deficit si sono ridotti le liste di attesa si sono allungate e la compartecipazione alla spesa da parte dei cittadini è sensibilmente aumentata. L'offerta sanitaria da sola, peraltro, non basta a garantire la qualità del servizio, i conti saranno anche meno rossi, la terapia dà segni di riuscita, peccato che intanto il malato sia agonizzante. La spesa sanitaria italiana regge, è tra le più basse d'Europa, ma è il sociale che non ce la può fare. Avevamo uno dei migliori Servizi sanitari al mondo, basato su universalismo e parità di diritto di accesso alle cure, lo stiamo perdendo nell'assordante silenzio generale, mentre qualcuno già si frega le mani. La correzione degli sprechi, che sono molti, non basterà da sola a invertire la rotta se non si interviene con una strategia precisa, coordinando il livello nazionale con quello regionale. Malgrado le recenti rassicurazioni, il rischio sono altri tagli lineari, come è già avvenuto in passato, e ognuno si arrangerà poi come potrà. Intanto i programmi di prevenzione vanno a ramengo, solo che le conseguenze si vedranno fra diversi anni, quando il problema riguarderà altri politici e altri statisti. Avevamo sognato e creduto in un Servizio sanitario di tutti e per tutti, anche con erogatori privati accreditati che hanno pure contribuito al suo sviluppo: vorremmo tornare a quel sogno di 35 anni fa, quando nel dicembre 1978 fu istituito il nostro Ssn, prima che sia troppo tardi. sharari@hotmail.it _____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 1 set. ’13 TICKET SANITARIO: L'ONESTÀ NON È ANCORA UNA VIRTÙ Vent'anni di falsa rivoluzione ma l'onestà non è ancora una virtù di GIOVANNI BELARDELLI Nell'anno in corso i controlli sulle esenzioni dal ticket sanitario hanno rivelato irregolarità addirittura in un caso su due. Se pensiamo che ogni anno le prestazioni esenti da ticket — come ha ricordato Lorenzo Salvia (Corriere del 24 agosto) — sono 67 milioni, possiamo avere un'idea della gigantesca truffa compiuta da molti italiani ai danni dello Stato. Ma la notizia sembra essere scivolata via senza suscitare troppa attenzione; forse per il fatto che è solo una delle tante che costantemente richiamano un fenomeno più generale e a tutti noto: la propensione a non rispettare leggi e regole come dato strutturale della società italiana. Una propensione che è, appunto, documentata ad abundantiam dai nostri tassi di evasione fiscale, dal fenomeno dell'abusivismo edilizio di massa, dalla diffusa considerazione della «tangente» e della microcorruzione come dato inevitabile. Si tratta del resto di un fenomeno evocato un'infinità di volte, spesso richiamando le solite spiegazioni bell'e pronte: il particulare guicciardiniano, la mancata Riforma protestante, la tardiva unificazione nazionale e così via. Ma è più utile interrogarsi invece sulla pseudosoluzione (e sulla connessa pseudospiegazione) che da vent'anni in qua abbiamo creduto di dare al problema dell'illegalità diffusa nel Paese.  La pseudosoluzione risale agli anni delle inchieste di Mani Pulite. Il famoso cartello inalberato da un manifestante fuori della Procura di Milano («Di Pietro facci sognare») ben sintetizzava l'opinione, allora prevalente, che il malaffare e l'illegalità fossero esclusivo appannaggio dei partiti e di quella parte del mondo economico che prosperava grazie ai rapporti, più o meno opachi, con la politica. In quest'ottica, una società civile invece sana doveva soprattutto appoggiare i magistrati nella loro opera di pulizia. Che si potesse cambiare nel profondo un Paese segnato dalla scarsa propensione alla legalità attraverso una rivoluzione per procura (nel doppio senso dell'espressione: lasciando il compito ad altri e affidandosi alle Procure) era evidentemente un'illusione. Un'illusione che tuttavia non è interamente scomparsa: ritorna nella polemica contro la «casta» politica, almeno quando quella polemica (certo non infondata) dimentica i privilegi delle piccole e grandi corporazioni italiane; soprattutto, ritorna nell'idea che la magistratura inquirente abbia il compito non solo di verificare se nel singolo caso la legalità è stata effettivamente violata, bensì anche quello di un generale controllo di legalità (e forse di moralità) sulla vita del Paese. C'è un'idea del genere anche dietro il fatto, piuttosto straordinario, della creazione di due partiti fondati da pubblici ministeri, che alludevano già nel nome all'obiettivo di moralizzare il Paese (Italia dei valori, Rivoluzione civile).  Notizie come quella relativa alle indebite esenzioni dal ticket ci ricordano dunque che in vent'anni il nostro scarso rispetto delle leggi e delle regole non si è granché modificato. Quanto alla corruzione in senso proprio, le costanti denunce della Corte dei conti indicano come essa non abbia cessato di aumentare. Ed ecco allora che di fronte a un Paese che non sembra aver fatto molti passi avanti, a livello di comportamenti diffusi, nel rispetto della legalità e nella moralità pubblica e privata, alcuni commentatori hanno coniato una pseudospiegazione consolatoria. Secondo la quale sono tanti, è vero, gli italiani che cercano in ogni modo di non rispettare regole e leggi, ma sono tutti schierati col centrodestra e dunque la cosa non coinvolgerebbe più di tanto l'Italia che vota a sinistra. I successi elettorali di Berlusconi si spiegherebbero proprio con la sua grande capacità di attrarre i voti di questa parte del Paese. Si tratta di una spiegazione evidentemente inconsistente sul piano analitico. Non solo sarebbe impossibile dimostrare che, ad esempio, i milioni di abusi edilizi che hanno deturpato le nostre coste sono stati compiuti da persone di una determinata parte politica. C'è anche il fatto che, una volta evocate certe caratteristiche profonde, di tipo antropologico-culturale, del nostro modo d'essere rispetto alla legge, non ha poi senso sostenere che una parte del Paese ne sarebbe rimasta immune sulla base della circostanza di votare Pd piuttosto che Pdl. Come disse spiritosamente un paio d'anni fa l'attuale presidente del Consiglio, non ha senso che la sinistra sostenga che a parcheggiare in doppia fila sono sempre e solo gli altri. Eppure, ancora pochi giorni fa un'idea del genere l'ha riproposta un accreditato politologo come Piero Ignazi il quale, sul sito della rivista Il Mulino, ha addebitato i successi di Berlusconi proprio alla diffusa insofferenza per le regole, al familismo e ad altri consimili difetti di chi lo ha votato. Questo «razzismo etico» — come lo definì Luca Ricolfi — non è solo infondato ma anche pericoloso per un Paese dai legami collettivi già piuttosto deboli. Rischia infatti di alimentare, anche per il futuro prossimo in cui Berlusconi sarà uscito di scena, un'idea della politica come scontro di civiltà tra due Italie che sono e devono restare incompatibili; un'idea che è davvero poco conciliabile con la democrazia.  _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 set. ’13 ASL5: LA PIÙ GRANDE AZIENDA DELL'ORISTANESE ORISTANO La sanità da queste parti è rosa. Nell'Asl, l'azienda con il più alto numero di occupati a tempo indeterminato di tutta la provincia, due dipendenti su tre sono donne. Caso unico nel mondo del lavoro oristanese (quel poco che ancora c'è) con un'eccezione nell'eccezione: il 51 per cento della dirigenza è donna: 234 contro i 222 uomini. Di poco ma in testa anche nei posti di maggiore responsabilità. Rispetto al totale del personale il 66 per cento è donna. Su 1.259 dipendenti “ordinari” cioè non dirigenti 358 sono uomini e 901 donne. I numeri: 1.715 dipendenti di cui 54 a tempo determinato. Spesa annuale: 90 milioni sui 254 milioni che rappresentano il valore della produzione della sanità pubblica. Il 35 per cento viene assorbito dal personale. Settantacinque milioni per il personale sanitario, 9 per quello tecnico e 7 per l'amministrativo. Ventotto dirigenti nel 2012 hanno superato i 100 mila euro lordi con punte oltre i 140 per il responsabile della psichiatria e 139 per quello del dipartimento urgenze. Venti superano i 100 mila e tanti altri dei 456 del vertice della struttura sanitaria pubblica viaggiano tra i 60 e 80 mila euro. La busta paga dei manager si compone di quattro parti: lo stipendio tabellare vale a dire la paga base, la retribuzione di posizione legata all'incarico, la retribuzione di risultato ovvero al raggiungimento del budget e un'ultima “altre stipendiali” che tiene conto di incarichi particolari all'interno della struttura. Quest'ultima parte della busta paga può superare anche i 60 mila euro che significa quasi 20 mila euro in più della voce “stipendio tabellare”. L'età media dei dipendenti è di 50 anni. Un dipendente su tre è laureato. Per la formazione l'azienda ha speso 215 mila euro. Nella norma le assenze: 16,32 per cento in un anno. Meno di due dipendenti su cento hanno chiesto di essere trasferiti ad altre aziende. Antonio Masala _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 6 set. ’13 ASL7: CALAMIDA ACCUSA LA REGIONE IGLESIAS I problemi della Asl 7? Tutta colpa della Regione che non fa programmi. A stupire è che a sostenerlo, oltre al sindaco di Iglesias Emilio Gariazzo e all'ex presidente della Provincia Tore Cherchi, sia il direttore generale Maurizio Calamida. Lo ha fatto martedì nel corso dell'incontro organizzato da “Amici della vita” che ha riunito associazioni, addetti ai lavori, politici, sindacati e il vescovo Giovanni Paolo Zedda: «Il direttore generale - ha spiegato - si trova ad amministrare quello che c'è: molte problematiche vanno spostate verso la politica regionale. Paghiamo lo scotto di una mancanza di programmazione. Alla presentazione dell'Atto aziendale ai sindaci, tuttavia, non ci sono state proposte ma solo critiche». L'idea di “Amici della Vita” è formare una squadra che lotti compatta per i servizi del territorio. Una necessità accolta dagli assessori alle Politiche sociali Maria Marongiu (Carbonia) e Alessandra Ferrara (Iglesias) o Piero Fenu (coordinamento provinciale di Centro democratico). Freddo Cherchi: «Non posso fare squadra con chi ha nominato primari o pilotato altrove milioni di euro già stanziati per questo territorio». (m. c.) _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 1 set. ’13 ASL7: CALAMIDA TAGLIA E SI PREMIA La mamma di un paziente talassemico contesta gli incentivi ai manager IGLESIAS «Ma che sanità è quella che premia i manager per i risparmi ottenuti tagliando i servizi?» Potrà sembrare "brutale", ma la domanda di Marisella Marongiu, mamma di un ragazzo talassemico da mesi costretto a emigrare a Carbonia per la chiusura del centro di Iglesias, sottintende la risposta che è lei stessa a dare: «Tagliare conviene, ma non certo ai pazienti». Il riferimento è alla (contestatissima: sia dai sindacati sia dagli amministratori locali) delibera con la quale Maurizio Calamida, direttore generale della Asl 7, ha dato il via alla liquidazione (per sé e i direttori amministrativi e sanitari che si sono succeduti nel 2011), un incentivo economico di circa 15 mila euro. Un premio non inventato dal manager, ma previsto da una deliberazione adottata due anni fa dalla Regione, per il raggiungimento degli obiettivi assistenziali e organizzativi, tra cui quello della razionalizzazione.  Proprio questo suscita l'indignazione di Marisella Marongiu: «Da una parte si riempiono la bocca dicendo che bisogna risparmiare e razionalizzare i servizi, che spesso vuol dire tagliare; dall'altra si concedono il lusso di premiarsi togliendo denaro alle casse pubbliche per i tagli che hanno fatto. È un controsenso. E mi stupisce che la Regione preveda dei premi per chi, di fatto, smantella la sanità pubblica e penalizza i pazient. Invece di premiare i manager, si usino i soldi per migliorare i servizi: invece sentiamo sempre dire che non ci sono risorse a sufficienza. È uno schiaffo agli ammalati». Marisella, da mesi, si batte contro il trasferimento del Centro per la talassemia che la direzione della Asl ha voluto trasferire a Carbonia, sostenendo di avere accolto le richieste da parte di medici e associazione dei pazienti preoccupati per l'inadeguatezza dei locali. «Un vero e proprio sopruso che non ha alcuna giustificazione», ribadisce Marisella.  Cinzia Simbula _____________________________________________________ TST 4 Sett. ‘13 UNICA: SOS ANTIBIOTICI: LI USIAMO COSÌ MALE CHE MOLTI SONO DIVENTATI INUTILI In Italia record di casi di resistenza dei ceppi batterici. E ora l'UE si mobilita PYFERLINI La più semplice delle operazioni, come l'asportazione di un'appendice, potrebbe ridiventare mortale. E' il mondo senza antibiotici, come è stato prospettato con toni catastrofici all'incontro estivo al G8 dei ministri della Salute radunati alla Royal Society a Londra. In cima agli allarmi c'è la resistenza agli antibiotici, derivata dall'adattamento evolutivo dei batteri agli antibiotici stessi, usati spesso in modo sbagliato. La parola catastrofe è forte, ma lo spettro della resistenza non è una novità: già nel 1945 il loro scopritore, Alexander Fleming, raccomandava cautela. Ricevendo il Nobel, sottolineò che non era difficile produrre in laboratorio microbi resistenti alla penicillina. Lo stesso poteva accadere nel corpo umano. Ma si tornerà davvero a morire per un'infezione? «Non siamo ancora in una era post-antibiotici, ma le cose stanno prendendo una brutta piega!», spiega David Livermore, esperto della «Health Protection Agency» di Londra. I numeri sono chiari. Secondo l'Ecdc, il Centro europeo di prevenzione e di controllo delle malattie, ogni anno in Europa muoiono 25 mila persone per colpa dell'inefficacia degli antibiotici. «Cominciano ad esserci più batteri che farmaci e stiamo grattando il fondo del barile», continua Livermore, spiegando che si ricorre sempre più spesso agli antibiotici meno efficienti (e spesso tossici). «Un esempio è la colistina, popolare negli Anni 50 e caduta in disuso a causa dell'elevata tossicità renale. Ma ora è tornata in auge, come ultima scelta nei casi di infezioni di batteri Gram-negativi». Zoomando sull'Italia, si scopre che è tra i Paesi con livelli più elevati di antibiotico-resistenza. «Si assiste, tra l'altro, al fenomeno endemico della presenza dei ceppi di Klebsiella pneumoniae che producono carbapenemasi, enzimi in grado di inattivare i carbapenemi, antibiotici di ultima risorsa usati per trattare infezioni da batteri multiresistenti», sottolinea Gian Maria Rossolini, microbiologo delle Università di Firenze e Siena. E non a caso in Italia la percentuale di ceppi di Klebsiella resistente è passata dall'1,6% del 2009 al 27% del 2011. Secondo gli esperti, però, ci sarebbero diverse linee per contrastare il problema. Innanzitutto da parte delle aziende farmaceutiche, che hanno trascurato la produzione di nuovi antibiotici perchè poco remunerativi. Ora la genomica può aprire nuove vie per la comprensione del meccanismo alla base della resistenza. L'Europa, intanto, investe nella ricerca: un esempio è la «Innovative Medicine Initiative», joint-venture tra la Commissione Europea e un gruppo di aziende. Con fondi di 29 milioni per cinque anni l'obiettivo è rendere più efficiente il lento e costoso processo di ricerca&sviluppo di un farmaco. Nel network dei centri coinvolti l'Italia è rappresentata dall'Università di Cagliari. «Ci occupiamo di simulazioni a livello atomico e analizziamo i composti in uso, e anche quelli scartati in passato, per capire quali sono i fattori che determinano o meno il mantenimento delle molecole nei batteri e, poi, trasferiamo queste conoscenze nel processo di "drug design"», spiega il fisico Paolo Ruggerone, che con Matteo Ceccarelli fa parte del team che coordina il progetto. Una seconda linea di intervento consiste nell'usare gli antibiotici in modo più avveduto. Fino al 50% delle somministrazioni ospedaliere sono inappropriate: da qui la necessità di strumenti diagnostici economici e più rapidi. Senza dimenticare la necessità di mantenere elevati standard igienici nelle strutture. A casa, poi, il trend non è diverso. «Non ha senso usare gli antibiotici per una bronchite», dice Francesco Blasi, pneumologo del Policlinico di Milano e coautore di uno studio europeo, pubblicato su «Lancet infectious disease», che ha dimostrato come superfluo l'uso dell'amoxicillina, uno degli antibiotici più prescritti. «Su 2 mila persone, con tosse e sospetta infezione delle vie respiratorie, a metà è stato somministrato l'antibiotico e all'altra metà il placebo racconta Blasi: tra i due gruppi non sono emerse differenze in termini di recupero». E ci sono, infine, le differenze geografiche. L'Italia usa dosi di antibiotici tre volte di più rispetto all'Olanda. «E' una relazione tra medico e paziente che riflette i problemi del sistema sanitario», conclude Livermore, che cita la Svezia: qui c'è una capillare sensibilizzazione e gli antibiotici sono acquistabili solo su prescrizione medica, mentre si prevedono incentivi ai centri che prescrivono i farmaci in accordo con le linee guida della Sanità. Il punto-chiave, quindi, è trovare il giusto equilibrio, Se ne parlerà in autunno, allo «European Antibiotic Awareness Day». ___________________________________________________ TST 4 Sett. ‘13 PERCHÉ 30 MINUTI DI CORSA BASTANO A TRASFORMARE L'UMORE STEFANO .MASSA1UE111 Come un motore che i deve liberare energia quando è su di giri, l'uomo prova un irresistibile bisogno di muoversi, correre, pedalare o prendere a pugni un sacco quando è in preda all'ansia. Questo istinto produce i suoi effetti, dato che lo sport aiuta a ristabilire nell'organismo un po' di quiete interiore e a placare la caratteristica sensazione di apprensione. Secondo una ricerca norvegese pubblicata sul «British Journal of Psychiatry», una delle più vaste su questo tema, il beneficio è tangibile subito dopo aver fatto sport e si ripercuote anche nel lungo termine: i soggetti più dediti all'attività fisica, indipendentemente dall'intensità dell'esercizio, hanno un rischio dimezzato di andare incontro a sintomi di ansia e depressione nel tempo rispetto a coloro che impiegano il tempo libero in attività sedentarie. Il motivo? Da un lato lo sport aiuta ad allentare le tensioni muscolari e lo stress, dell'altro stimola la produzione di endorfine, sostanze che migliorano l'umore e promuovono una sensazione di benessere. Eppure potrebbe esserci molto di più alla base del fenomeno. A ipotizzarlo è uno studio della Princetown University che ha cercato di spingersi più a fondo sulla questione, dimostrando come lo sport possa indurre delle modificazioni rilevanti nel cervello, con il risultato di renderci più capaci a controllare ansia e stress. Nello studio sul «Journal of Neuroscience» i ricercatori statunitensi hanno preso in esame un campione di topi e hanno iniettato nel cervello una sostanza in grado di registrare la formazione di nuovi neuroni, dopodiché la metà di questi è stata costretta a correre su una ruota per diverse ore al giorno, mentre l'altra metà trascorreva le giornate in completa sedentarietà. A distanza di sei settimane i topi che avevano svolto attività fisica mostravano un atteggiamento meno timoroso rispetto agli altri, quando venivano posti in un ambiente nuovo, e nel loro cervello si registravano delle importanti modificazioni: si formavano, infatti, nuove porzioni di neuroni specificamente designati a rilasciare il «Gaba»,un neurotrasmettitore che funziona come un sedativo naturale, in un'area deputata al controllo delle emozioni: l'ippocampo basale. Secondo l'autrice della ricerca Elizabeth Gould, non c'è motivo di dubitare che un simile rimodellamento non si verifichi anche nell'uomo, con la formazione di nuove aree cerebrali in grado di tenere sotto controllo gli stimoli eccitatori e quindi l'ansia. Questo effetto «calmante» dello sport potrebbe essere più pronunciato in alcuni casi. «Sono numerosi i dati che dimostrano che l'attività fisica può alleviare i disturbi di ansia e depressione, ma l'effetto è ancora più evidente nel caso di somatizzazioni ansiose, in cui c'è un'eccessiva attenzione nei confronti del proprio corpo», spiega Carlo Altamura, direttore del Dipartimento di neuroscienze e salute mentale del Policlinico di Milano. Per osservare i primi effetti basta una quantità minima di esercizio: sedute di allenamento da 30 minuti da ripetere da tre a cinque volte alla settimana sono sufficienti ad alleviare i sintomi ansiosi, senza alcuna differenza significativa evidenziata tra uno sport e l'altro, sia che si tratti di nuoto, corsa o passeggiata veloce. Gli sport troppo impegnativi, però, potrebbero avere un effetto contrario sugli stati d'ansia più gravi. «Nel caso in cui vi sia una particolare predisposizione agli attacchi di panico avverte Altamura può accadere che gli sport troppo "hard", come ciclismo e corsa su lunghe distanze, possano provocare delle crisi legate all'eccessiva produzione di acido lattico». Eventi comuni in molti sportivi professionisti, in cui gli allenamenti troppo intensi e lo stress eccessivo possono generare un mix pericoloso in grado di scatenare crisi di panico. Problemi sconosciuti, invece, per chi vuol fare della calma la propria virtù e pratica sport in modo equilibrato. Trovando così la propria medicina contro l'inquietudine. ________________________________________________ Il Giornale 8 Sett. ‘13 INTERNET È UTILE A MOLTI MEDICI NEL RAPPORTO CON IL PAZIENTE Luisa Romagnoni il web rivoluziona il rapporto medico-paziente. Oltre il 90 per cento dei medici italiani ha ed usa un computer, fisso o portatile, circa il 57 per cento uno smartphone, 1 su 3 ha un tablet. E il medico digitalizzato è oggi colui che meglio può rispondere alle esigenze dei pazienti, a loro volta sempre più informati attraverso la rete e i nuovi strumenti di comunicazione. Lo rivela una ricerca Eurisko, presentata in occasione del lancio della nuova versione di Univadis, il portale di riferimento dei medici italiani, realizzato da Msd. «Il paziente arriva dal medico già informato», spiega Andrea Boaretto, docente di marketing multicanale al Politecnico di Milano. «L'informazione ormai è liquida, scorre su Internet in mille rivoli che vengono intercettati, non solo per arrivare dal medico preparati, ma anche per cercare una conferma a quello che lo specialista dice. Bisogna però guidare i pazienti alla ricerca di informazioni di qualità. Se il medico è in grado di indicare quali sono le fonti attendibili, se ha un sito Internet personale, o riesce a comunicare con i pazienti anche via e-mail, allora è più probabile che si apra un confronto, anche quando le notizie trovate sul web sono discordanti, rispetto a quelle proposte dal medico». Sempre secondo l'indagine Eurisko, per 1'81 per cento, il medico digitalizzato usa Internet come risorsa di aggiornamento, collegandosi non solo attraverso il PC dell'ospedale, dello studio o di casa, ma anche attraverso gli smartphone, utilizzati da oltre il 50 per cento degli specialisti. «La classe medica è fra le categorie professionali che più utilizzano device digitali», sottolinea Boaretto precisando che sono molto utili per essere aggiornati e per rispondere in maniera efficace e tempestiva ai pazienti. Un aiuto lo fornisce il portale per i professionisti sanitari, Univadis (presente in 40 Paesi nel mondo, tradotto in 17 lingue e citato da più del 50 % dei medici nell'indagine Eurisko, come sito a cui ci si collega con più frequenza). È attivo da12003, oggi rinnovato nella grafica e nella fruibilità, compatibile c on tutti i dispositivi mobili. Oltre 2 milioni di utenti iscritti. In Italia vanta 130mila accrediti, con una presenza mensile di circa 45mila utenti attivi. _____________________________________________________ La Stampa 6 Sett. ‘13 L'ALZHEIRNER FAVORITO DALL'ECCESSO DI IGIENE" La ricerca dell'università di Cambridge: più a rischio chi vive in Occidente VITTORIO SABADIN eccesso di igiene per/ sonale e l'attenzione con la quale molte mamme impediscono ai loro bambini di giocare per terra o di sporcarsi le mani sarebbero responsabili della grande diffusione del morbo di Alzheimer nei Paesi sviluppati. A sostenere questa nuova tesi è uno studio dell'Università di Cambridge, che ha messo a confronto i dati sull'incidenza della malattia in 192 nazioni arrivando alla conclusione chi casi di demenza senile sono meno numerosi nei Paesi poveri, dove è maggiore il contatto quotidiano con microbi e batteri, e crescono invece nelle grandi aree urbane. A prima vista lo studio sembra discutibile, visto che nei Paesi poveri l'aspettativa di vita è più bassa e quindi il morbo non ha il tempo di manifestarsi, ma la ricerca ha tenuto conto di tutte le variabili possibili ed è arrivata a conclusioni che gli esperti definiscono interessanti. L'«Ipotesi dell'igiene», una teoria elaborata qualche anno fa, già sostiene che alcune patologie potrebbero essere legate al maniacale stato di pulizia nel quale i bambini crescono in città, senza avere la possibilità di venire in contatto con i microrganismi che favoriscono lo sviluppo del sistema immunitario. Il contatto quotidiano con la terra .e con gli animali è stato una costante nella storia dell'umanità, ma è molto meno frequente nei Paesi sviluppati, dove l'asfalto e il cemento, la disponibilità di acqua pulita e una varietà infinita di disinfettanti sparsi per la casa creano una barriera che protegge in modo eccessivo i bambini anche dai microbi amici. Le conseguenze sono legate soprattutto al mancato sviluppo dei linfociti T, cellule che hanno una parte rilevante nella gestione del sistema immunitario: combattono gli invasori esterni e pattugliano l'organismo, in cerca di estranei da annientare. Ma se mancano i nemici, il sistema di difesa non si sviluppa, favorendo le infiammazioni nell'età adulta. È stata proprio la carenza di linfociti T nel cervello dei malati di Alzheimer a suggerire agli studiosi di Cambridge la possibilità di un legame tra le condizioni igieniche dell'infanzia e l'insorgere della malattia2La ricerca ha evidenziato come negli stati dove i tre quarti della popolazione vive in aree urbane (come la Gran Bretagna o l'Australia) la demenza degenerativa ha una incidenza significativamente superiore rispetto ad aree come l'America Latina, la Cina, l'Africa o l'India. Lo studio, pubblicato da «Evolution Medicine and Public Health» è stato accolto con interesse dall'Alzheimer Society, che raccomanda comunque di non rinunciare alla prevenzione più tradizionale: alimentazione corretta, niente fumo, esercizio fisico, pressione e colesterolo a posto. Lo stesso Dottor James Pickett, capo del team di studiosi di Cambridge, è prudente: «Sappiamo da tempo che il numero di persone affette dal morbo varia da Paese a Paese. Il fatto che questa discrepanza possa essere legata alle ~dizioni igieniche è una teoria avvincente, e si lega bene alle connessioni che esistono tra infiammazione e malattia». I malati di Alzheimer nel mondo sono circa 30 milioni e si stima che entro il 2050 una persona su 85 ne sarà affetta a livello globale. I primi sintomi, di solito dopo i 65 anni, sono l'incapacità di ricordare eventi recenti o di memorizzarne nuove informazioni. Seguono confusione, irritabilità, cambiamenti di umore, difficoltà nel linguaggio e perdita della' memoria. Son esiste ancora una cura, mentre la crescente aspettativa di vita espone sempre più persone al rischio di una atroce vecchiaia e i loro parenti a carichi di assistenza spesso insostenibili. Sarebbe davvero bello se per arginare la diffusione del morbo fosse sufficiente lasciare giocare i bambini in un prato, come accadeva una volta. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 set. ’13 LE PROMESSE E LE ILLUSIONI DELLE DIETE GENETICHE VENDUTE SU INTERNET Sono moltissimi i «semplici test» proposti per svelare quale sarebbe l'alimentazione adatta a ciascuno di noi Dieci o quindici anni fa sarebbe sembrata un'utopia: «sbirciare» nel proprio genoma per decidere come cambiare la dieta per dimagrire, sapere qual è il tipo di attività fisica più adatta a noi, fare semplici scelte di vita quotidiana che migliorino la salute. Complice il crollo del prezzo per l'analisi del genoma (con un migliaio di dollari oggi si può sequenziare l'intero patrimonio genetico di un individuo), su Internet basta sborsare due o trecento euro per avere la «dieta genetica» che sarebbe più adatta per perdere peso, capire quale dovrebbe essere lo sport in cui potremmo eccellere, o sapere se dovremmo preoccuparci del colesterolo alto o se è il diabete il nostro tallone d'Achille. Con il dilagare di sovrappeso e obesità sono soprattutto i test genetici che promettono di svelare l'alimentazione «bruciagrasso» ideale per ciascuno di noi ad andare per la maggiore: costo non proibitivo, procedura banale (basta raccogliere un pò di saliva con un tampone, inviare il campione via posta e dopo un paio di settimane il referto con la dieta genetica arriva a casa), il tutto corredato da un'aura di scientificità a prima vista inoppugnabile. I geni hanno in effetti un peso nella diversa capacità di ciascuno di bruciare più o meno bene grassi e carboidrati, di accumulare più o meno facilmente peso, di reagire a regimi alimentari differenti: scoprire le caratteristiche di una manciata di geni coinvolti nelle «vie del grasso» potrebbe sembrare l'uovo di Colombo. Peccato che la faccenda sia molto meno semplice di così, come spiega Giovanni Neri, docente all'Istituto di genetica medica dell'Università Cattolica di Roma e presidente della Società italiana di genetica umana: «Premesso che si dovrebbe avere la certezza dell'attendibilità tecnica dei laboratori che offrono questi test genetici fai da te, a oggi non esistono prove scientifiche per affermare che la presenza di un polimorfismo genetico (ovvero la "forma" che assume il gene nel singolo soggetto, ndr) indichi la necessità di una dieta piuttosto che di un'altra. L'interpretazione dei risultati di un test genetico, anche nel caso di polimorfismi per cui esistono maggiori certezze di correlazione con dati clinici, come il rischio di sviluppare specifiche malattie, poi è sempre un procedimento complesso e delicato». «L'utilità dei test genetici non si discute, si tratta di una delle innovazioni di portata più ampia degli ultimi dieci anni — interviene Giuseppe Novelli, responsabile del Laboratorio di genetica medica del Policlinico Tor Vergata a Roma —. Il rischio però è che si passi dall'oroscopo al "genoscopo", pensando che i marcatori genetici possano dire tutto di noi: la nutrigenetica ha basi logiche, ma senza un percorso ragionato, senza sapere nulla della persona a cui si fanno i test, le conclusioni non possono essere serie. Anche perché ciascuno di noi è il risultato dei geni, dell'ambiente e del caso: i geni da soli spiegano qualcosa, ma non tutto». «Focalizzarsi solo sul genotipo e pensare di stabilire una dieta è riduttivo — conferma Enzo Spisni, docente di Fisiologia della nutrizione dell'Università di Bologna —. Sappiamo, ad esempio, che se in animali da esperimento con lo stesso identico genotipo modifichiamo il microbiota, ovvero l'insieme dei batteri della flora intestinale, alcuni diventano obesi e altri no: segno che guardando solo ai geni abbiamo una visione molto parziale di ciò che siamo e di come rispondiamo all'alimentazione, perché contano tanti altri fattori. Inoltre, anche se sono stati individuati alcuni geni correlati all'obesità, sappiamo che questi "pesano" molto meno dell'ambiente e dello stile di vita nel provocare l'accumulo di chili. Uno strumento banale come un diario alimentare svela spesso errori madornali nelle abitudini di chi è sovrappeso: al momento è più importante individuare questi errori e modificare la propria quotidianità, che tentare la dieta genetica, la cui efficacia non è dimostrata. Magari in futuro avremo conoscenze più approfondite, ma oggi i test per la dieta genetica sono una fuga in avanti che non serve a molto. Per di più, l'interpretazione dei dati è lasciata spesso a persone non sufficientemente preparate». «Forse, — osserva Luigi Fontana, del Centro per la nutrizione umana della Washington University di St. Louis, negli Stati Uniti — come adesso misuriamo colesterolo, trigliceridi e simili per avere indicazioni sul rischio cardiovascolare, un giorno potremo valutare i geni e consigliare interventi mirati sull'alimentazione. Ma per ora è prematuro: oggi possiamo mappare il genoma, ma dopo averlo fatto ne sappiamo quanto prima». Insomma, la dieta genetica potrebbe avere un senso scientifico, ma è ancora presto per contarci troppo. Vale lo stesso per i test fai da te con cui si scopre la suscettibilità alle malattie? «Bisogna sempre partire da una motivazione e non farli a caso o solo per curiosità, altrimenti i risultati, se non ben interpretati e valutati in un contesto, possono generare ansie, dubbi e portare una persona a cambiare vita senza che ve ne sia un reale bisogno — risponde Neri —. Fra i test fai da te ci sono anche quelli ormai ampiamente validati, per cui non devono essere demonizzati. Vanno però inseriti in un percorso guidato da medici in grado di spiegarne il significato, non sempre immediato. Prendiamo il caso del gene BRCA1 e 2 per il tumore al seno, le cui richieste sono molto aumentate dopo il caso dell'attrice Angelina Jolie (che ha dichiarato di essersi sottoposta a mastectomia preventiva sulla base di un accertato rischio genetico, ndr): se troviamo una mutazione in una donna con familiarità per carcinoma mammario, possiamo essere certi che è correlata ai tumori presenti in famiglia e che la donna avrà un rischio di ammalarsi 10 volte superiore al normale; se però il test fosse fatto a tappeto, o "a caso" in una donna senza familiarità per tumore al seno, oggi non abbiamo prove che quella mutazione, in tale diverso contesto, abbia lo stesso significato». In pratica, in un caso simile il genetista potrebbe consigliare mammografie più ravvicinate, ma non ci sarebbero i presupposti per una mastectomia preventiva. Quali sono allora i passi giusti per utilizzare i test genetici, anche fai da te, in modo corretto? «Bisogna sempre essere affiancati da un consulente genetista, prima e dopo — dice Novelli —. Se si ha il dubbio di essere a rischio per una patologia, ad esempio perché ve ne sono stati diversi casi in famiglia, bisogna rivolgersi a un Servizio di genetica medica, dove un medico raccoglie la storia clinica, indaga su tutto ciò che potrebbe incidere sulla probabilità di ammalarsi e decide se e quale test genetico eseguire. Una volta fatto il test, è sempre il genetista a doverlo interpretare nel quadro di tutte le informazioni raccolte: solo così avrà senso, e si potrà sapere qualcosa di più concreto sul rischio reale di malattia». _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 set. ’13 ATTIVITÀ FISICA QUANDO CI VUOLE IL CERTIFICATO Dubbi dei medici sulle nuove regole S tate per iscrivervi in palestra o in piscina? Sappiate che da quest'anno non è più necessario il certificato medico di buona salute. È invece obbligatorio farselo rilasciare per i vostri figli se partecipano ad attività parascolastiche organizzate al di fuori dell'orario curricolare, senza che sia necessario, tuttavia, eseguire esami medici più approfonditi, a meno che il pediatra o il medico di famiglia non lo ritenga opportuno. È quanto prevedono le nuove norme entrate in vigore a fine agosto (si veda box) che aboliscono l'obbligo del certificato medico di idoneità per l'attività ludico-motoria e amatoriale, mantenendolo, invece, in caso di attività sportiva non agonistica. Ma qual è la differenza tra i due tipi di attività e, di conseguenza, quando il certificato medico va fatto o no? «Le attività sportive amatoriali, come per esempio andare in palestra o giocare a calcetto con gli amici, si svolgono in forma autonoma, e di solito non richiedono un impegno cardiaco importante né competizione — spiega Guido Marinoni, vicesegretario di Fimmg Lombardia (Federazione italiana dei medici di medicina generale) e membro del Comitato centrale della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (FnOmceo) — . Chi invece partecipa, per esempio, a un torneo di calcetto, svolge attività sportiva non agonistica, come pure gli alunni che seguono attività parascolastiche organizzate dal Coni o dagli istituti in orario extracurricolare. In questi casi il certificato medico è obbligatorio, mentre non serve per l'ora di educazione fisica». Fin qui sembrerebbe tutto chiaro, ma non è così secondo medici di famiglia e pediatri, che segnalano il rischio di confusione. Vediamo perché. «Potrebbe accadere che, anche quando non è più necessario il certificato medico, i gestori di palestre e piscine continuino a richiederlo, allo scopo di tutelarsi — sottolinea Marinoni — . Noi medici siamo tenuti a rilasciarlo, anche se faremo presente al nostro assistito che non è più obbligatorio. In assenza di chiarimenti forniti dal Ministero della Salute, dovremo attenerci alle procedure diagnostiche indicate dal "Decreto Balduzzi", in vigore da luglio, sia per le diverse tipologie di attività motoria sia, per esempio, in presenza di patologie croniche o determinati fattori di rischio». Da qui la richiesta di una circolare ministeriale interpretativa da parte del segretario della Fimmg Giacomo Milillo, anche «per dare ai medici la certezza delle responsabilità che si assumono». Il "Decreto Balduzzi", poi, aveva introdotto l'obbligo dell'elettrocardiogramma per il rilascio dei certificati medici non agonistici. «Ora la nuova norma ha abrogato l'obbligo di questo esame — chiarisce Rinaldo Missaglia, segretario nazionale del Sindacato medici pediatri di famiglia (Simpef ) — . Spetta comunque al medico di famiglia o al pediatra stabilire annualmente, dopo anamnesi e visita, se l'assistito deve fare ulteriori accertamenti, come l'ecg. Del resto, già lo facciamo quando abbiamo un dubbio diagnostico o un sospetto clinico». Medici di famiglia e pediatri, però, temono che la scelta di non eseguire un esame come l'elettrocardiogramma potrebbe anche configurarsi come "imprudenza" in un eventuale contenzioso legale. «L'ecg può mettere in evidenza anomalie pure in assenza di qualsiasi indizio clinico, come per esempio nel caso della sindrome del QT lungo — fa notare Giuseppe Mele, presidente dell'Osservatorio nazionale sulla salute dell'infanzia e dell'adolescenza —. Se fossero introdotti gli screening, potremmo intervenire precocemente, nonché prevenire alcune patologie cardiache». Maria Giovanna Faiella _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 set. ’13 L'ALLIEVO DI PASTEUR CHE SCOPRÌ IL BACILLO DELLA PESTE NERA di RUGGIERO CORCELLA «C ara madre sono certo che siate piuttosto ansiosa di ricevere questa lettera, poiché sono consapevole di trovarmi in un luogo dove non ci si reca esattamente per un viaggio di piacere!». Alexandre Emile John Yersin (nato il 22 settembre 1863 a Lavaux, vicino ad Aubonne, sulle rive del lago Lemano in Svizzera, e morto il 28 febbraio 1943 a Nha Trang in Vietnam) usa l'arma dell'ironia per descrivere la situazione ad Hong Kong. Alexandre scrive alla madre Fanny due volte la settimana, costantemente, da quando ventenne è andato a studiare Medicina prima a Marburgo, poi a Berlino, a Jena (qui, da Carl Zeiss acquista il microscopio migliore, che porterà sempre con sé in giro per il mondo e grazie al quale farà le scoperte più importanti) e a Parigi. È il 24 giugno 1894 e da nove giorni il medico trentunenne, allievo di Louis Pasteur, sta combattendo la battaglia contro il morbo che da lui prenderà il nome, Yersinia pestis, e che lo innalzerà fino all'Olimpo della scienza. Sul terreno dell'ex colonia britannica, il giovane svizzero naturalizzato francese deve misurarsi non solo con la «Morte nera» (così veniva definita la peste), ma anche con il collega-rivale giapponese Shibasaburo Kitasato, discepolo di Robert Koch ed elemento di spicco dell'Institut fondato dal Premio Nobel tedesco a Berlino. La lotta è senza esclusione di colpi: Yersin accusa Kitasato e il suo team di accaparrarsi l'esclusiva sui cadaveri da sezionare, a colpi di «mazzette». Lui però farà lo stesso aiutato da Padre Viganò, un missionario italiano francofilo. Il confronto tra i due microbiologi fa da spartiacque del racconto in «Peste & colera», il libro di Patrick Deville sull'«ultimo dei pasteuriani», nelle librerie dal 6 settembre (Edizioni e/o). L asciamo all'autore descrivere l'esito della disputa: «Viganò unge le ruote dei marinai inglesi in servizio all'obitorio dell'ospedale dove sono accatastati i cadaveri in attesa del rogo o del cimitero e gliene compra qualcuno. Yersin lavora di bisturi ... "Il bubbone è ben evidente. Lo estraggo in meno di un minuto e salgo nel mio laboratorio. Faccio rapidamente un preparato e lo metto sotto il microscopio. Al primo colpo d'occhio riconosco un purè di microbi tutti simili fra loro. Sono piccoli bastoncini tozzi dalle estremità arrotondate". Tutto è già stato detto. Nessun bisogno di scrivere un libro di memorie. Yersin è il primo uomo a osservare il bacillo della peste ...». Nonostante le polemiche a suon di pubblicazioni su riviste internazionali, alla fine il mondo scientifico dichiarerà vincitore Yersin (anche se qualcuno continua a reclamare almeno un ex aequo...). Alexandre chiamerà il bacillo Pasteurella pestis, in onore del suo mentore. Sarà ribattezzato Yersinia solo nel 1944. Non è falsa modestia, quella di Yersin. Al «grande vecchio» fondatore della moderna microbiologia, deve molto. E non solo dal punto di vista professionale. Alcune biografie riportano che nel 1886 Yersin, ancora studente, si infetta durante un'autopsia sui cadaveri dei pazienti di Pasteur all'obitorio dell'Hotel Dieu e viene salvato dal siero antirabbia. Ad iniettarglielo sarebbe Émile Roux, il più famoso dei «pasteuriani». Nel suo libro, Deville sorvola sull'episodio. Racconta solo che Yersin manda i risultati delle analisi batteriologiche sulle salme a Roux. Entrambi orfani di padre, Yersin e Roux si conoscono all'obitorio «in mezzo ai cadaveri morti di rabbia, e la loro vita ne viene sconvolta». Comunque sia andata, continua Deville, «Roux presenta Yersin a Pasteur. Il giovane timido scopre il luogo e l'uomo, e in una lettera a Fanny scrive: "Lo studio di Pasteur è piccolo, quadrato, con due grandi finestre. Sopra a un tavolino vicino a una finestra ci sono dei calici che contengono il virus da inoculare". Di lì a poco Yersin si stabilisce in rue d'Ulm». Lavora sui pazienti colpiti dalla rabbia, ma assieme a Roux scopre anche la tossina della difterite. Alexandre non è però un «topo» da laboratorio. Fin da piccolo coltiva la passione per le esplorazioni. Già ai tempi del suo breve soggiorno di studio a Berlino scrive alla madre: «Mi rendo conto che giungerò fatalmente all'esplorazione scientifica. Ho troppa passione per questa cosa, e tu ricorderai come sia sempre stato il mio intimo sogno quello di ripercorrere da lontano le tracce di Livingstone». Eccolo dunque nel 1890 imbarcarsi sulla nave Oxus, in partenza per l'Estremo Oriente. La lettera di presentazione di Pasteur gli ha spalancato le porte della compagnia Messageries Maritimes come medico di bordo: prima sulla linea Saigon-Manila e poi Saigon-Hanoi. Da allora il Vietnam gli entra nel sangue. A 29 anni, Yersin si stabilisce a Nha Trang. È il primo medico occidentale della regione. Gli abitanti del posto lo chiamano con affetto dottor Nam, «lo zio Cinque, in onore dei cinque galloni dorati sull'uniforme bianca», spiega Deville, che Yersin portava quando era medico di bordo. Sul «promontorio dei Pescatori» il medico svizzero si fa costruire una baita di legno dove cura gratuitamente i poveri. N ha Trang diventa il campo base delle esplorazioni che nei due anni successivi Yersin condurrà anche in Cambogia e Laos, scoprendo terre vergini e inaugurando così nuove vie di comunicazione. I suoi resoconti sono pubblicati nella rivista della Société de Géographie. È la sua consacrazione al rango di esploratore internazionale. Assieme a Paul Doumer, allora governatore generale dell'Indocina francese e futuro presidente della Francia, fonda anche una città: Da Lat. Ma il genio multiforme di Yersin trova modo di esprimersi anche nel campo dell'agricoltura e dell'allevamento. Nel 1899 introduce l'albero della gomma in Indocina. Nel 1915 apre una stazione agricola attorno al suo chalet di Hon Ba. Conduce esperimenti per acclimatare le piante di Cinchona, dalle quali si ricava il chinino necessario a tutta l'Indocina. Anche per questo Yersin, quasi sconosciuto in Svizzera e Francia, è invece venerato come un bodhisattva (cioè, un saggio illuminato buddista) nella pagoda di Suoi Cat a Nha Trang e la sua tomba è meta di pellegrinaggio. P atrick Deville racconta un particolare curioso e sconosciuto. Nella fattoria di Suoi Giao (dove è sepolto), Yersin fa piantare «anche piante Medicinali, fra le quali mille gambi di Erythroxylum coca per la preparazione della cocaina, a quel tempo utilizzata in farmacia». «Yersin incrementa la produzione e immagina un concentrato liquido, che avrebbe potuto fare di lui il miliardario inventore di una bibita nera e frizzante, se solo ne avesse depositato il brevetto. Dà a quella cosa il nome di Kola-Cannelle, che potrebbe abbreviare in Ko-Ca. Da Nha Trang scrive a Roux: «Vi ho spedito, per pacco postale, una bottiglia di Kola-Cannelle. Ne prenda un centimetro cubo e mezzo circa in un bicchiere d'acqua zuccherata quando si sentirà affaticato. Mi auguro che questo "elisir di lunga vita" abbia su di lei la stessa azione ricostituente che ha su di me». _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 set. ’13 SEMPRE PIÙ SORRISI «SBIANCATI» MA ATTENZIONE AL FAI DA TE Certamente non tutti lo fanno in onore di Charlie Chaplin, il grande comico che diceva: «Un giorno senza sorriso, è un giorno perso». Comunque, ogni anno, mezzo milione di italiani si sottopone allo sbiancamento chimico dei denti. La stima è di Alberto Libero, segretario sindacale dell'Associazione nazionale dentisti italiani (Andi). Anche la ricerca del sorriso smagliante, tuttavia, deve seguire alcune regole. «Lo sbiancamento è una trattamento medico — spiega Alberto Libero — e implica un processo complesso, con l'uso di prodotti, come il perossido di idrogeno, con concentrazioni "ad hoc", molto alte». Attenzione, dunque — ribadisce l'Associazione — al «fai da te», ai prodotti acquistati online. «Lo sbiancamento deve essere fatto sotto indicazione odontoiatrica — avverte Carlo Ghirlanda, segretario culturale di Andi —. Bisogna prestare attenzione a chi offre trattamenti a basso costo e per risparmiare usa, ad esempio, prodotti a base di ammonio: un rischio per la salute dei denti, perché intaccano i tessuti delle gengive». _____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 set. ’13 L'«IMPERIALISMO» DELL'OBESITÀ di ADRIANO FAVOLE L'indice di massa corporea è inapplicabile alle popolazioni dell'Oceania Semmai è la diffusione del junk food che mette in pericolo la salute Con il termine globesity, cioè «globesità», lo studioso americano Sander Gilman (La strana storia dell'obesità, Il Mulino, 2011) ha definito l'ossessione per i corpi abbondanti che pervade l'Occidente contemporaneo. Una «epidemia di obesità» si starebbe pericolosamente diffondendo, portando con sé gravi rischi di malattie come il diabete, l'ipertensione, problemi cardiaci e vascolari. Espressioni forti come «guerra» e «lotta» all'obesità, un nemico o «virus» da sconfiggere, sono piuttosto diffusi sui media. Nel 2008 il Centre for Disease Control americano ha dato all'obesità lo statuto di «malattia», permettendo quindi la prescrizione di farmaci. In un mondo in cui, paradossalmente, una parte consistente dell'umanità soffre la fame, la «globesità» è enfatizzata come un problema prioritario. Un articolo pubblicato sulla rivista «Science» il 23 agosto scorso, firmato da Ahima Rexford e Lazar Mitchell (The Health Risk of Obesity, vol. 341), mette in discussione non tanto il quadro allarmistico, quanto il modo in cui calcolare le condizioni di «sovrappeso» e di «obesità». L'articolo propone di rottamare niente meno che l'Indice di massa corporea (noto a livello scientifico come Bmi, Body Mass Index). Inventato nell'Ottocento dal matematico e criminologo belga Adolphe Quetelet, il Bmi categorizza le persone in «sottopeso», «normopeso», «sovrappeso» (una condizione già di rischio) e «obese», mediante un semplice rapporto tra il peso (in chilogrammi) e il quadrato dell'altezza (in metri). Nel tempo, la linea di confine tra «normali» e «sovrappeso» è stata spostata verso il basso: nel 1998 il confine venne ridotto da 27,5 a 25, con il risultato che ben 29 milioni di statunitensi entrarono a far parte dell'area di rischio. «Science» propone ora di adottare un indice molto più complesso, che tiene conto del rapporto tra massa grassa e massa muscolare, delle differenze di genere e di corporatura tra persone appartenenti a diverse popolazioni. Le perplessità e i dubbi di «Science» non suonano nuovi per le scienze sociali. A partire almeno dagli anni Novanta, sociologi e antropologi, alla luce di ricerche comparative e nel quadro di riflessioni sul carattere «imperialista» di alcuni aspetti della biomedicina, hanno espresso riserve sul Bmi, sull'idea che sia in corso una «epidemia di obesità» e sulla definizione dell'obesità come malattia. A essere messe seriamente in discussione sono le pretese di definire in modo semplice, lineare e universale le caratteristiche di un corpo in salute, senza tenere conto delle variabili sociali, culturali e politiche. Ridurre il problema dell'obesità a un appetito vorace, a questioni genetiche o a scelte individuali è apparso come una diagnosi non solo errata e riduttiva, ma soprattutto generatrice di politiche sanitarie inefficaci quanto costose. Il Bmi, tarato su un corpo «ideale» costruito a partire da modelli occidentali, soffrirebbe insomma di una malattia concettuale che gli scienziati sociali definiscono «etnocentrismo». Misurare gli altri (letteralmente, in questo caso) con il metro della propria cultura, delle proprie concezioni (e mitologie) del corpo. Un interessante testo al proposito è quello scritto da Gaia Cottino, antropologa culturale romana, in uscita nelle prossime settimane (Il peso del corpo. Un'analisi antropologica dell'obesità a Tonga, Unicopli). Dopo uno studio sugli aspetti politici dell'obesità alle Hawaii, Cottino ha compiuto un lungo lavoro di campo alle isole Tonga, nel Sud Pacifico. La scelta dell'Oceania è motivata dal fatto che questo «mare di isole» racchiude molti degli Stati che occupano i primi posti delle classifiche mondiali dell'obesità. Il rapporto dell'Organizzazione mondiale della sanità del 2000 collocava infatti ben otto nazioni oceaniane nei primi dieci posti — Nauru con il 94% della popolazione obesa, seguito da Samoa, Samoa Americane, Cook, Tonga, Polinesia francese, Stati federati di Micronesia, Niue. Perché questo «primato»? Osservando la «globesità» a partire da uno specifico contesto, collocandosi cioè in una delle tante periferie del sistema globale, Cottino sfata diversi miti. In primo luogo molte lingue e culture fanno distinzioni tra «grasso» e «grosso». In rapporto agli europei, i polinesiani hanno in effetti una corporatura più robusta. La grande diffusione del rugby a partire dagli anni Ottanta ha ulteriormente «ingrossato» i polinesiani, per i quali l'essere grossi è un ideale corporeo che riflette le capacità dell'individuo di avere molte relazioni sociali (le quali comportano in primo luogo il mangiare insieme) e uno status elevato. La genetica, la storia, l'organizzazione sociale, i valori legati al cibo e alla corporeità, sono tutti fattori che insieme concorrono a modellare il corpo dei tongani. L'opportuna correzione o abolizione del Bmi contribuirà ad abbassare drasticamente il numero dei polinesiani sovrappeso o obesi — suonava ironico che i rugbysti All Blacks maori finissero nella categoria dei ciccioni a rischio! Rimane il fatto che, negli ultimi decenni, l'aspettativa di vita in molte di queste isole è scesa, a causa di malattie come il diabete e i problemi cardio-vascolari. I risultati della ricerca di Gaia Cottino spostano l'attenzione dall'obesità alla malnutrizione. Il problema di fondo non è il controllo dell'appetito, né l'impatto della modernità (con cui i tongani si confrontano da più di due secoli). La storia ci dice che la preferenza per pasti abbondanti, per cibi grassi e unti, per corpi grandi — le donne tahitiane incantarono i marinai inglesi per la loro prosperità — è un tratto persistente delle culture di questi popoli. Ciò che è cambiato non è tanto la quantità di cibi, quanto l'infima qualità di quel junk food («cibo spazzatura») che proprio a partire dagli anni Ottanta ha cominciato a invadere le isole. Bevande ipercaloriche, costolette di agnello considerate come scarti dal mercato occidentale, carne in scatola e snack di varia natura sono entrati nella dieta quotidiana dei tongani e di molte altre popolazioni, deteriorando le condizioni di salute. La miglior cura dell'obesità, insomma, consisterebbe in una revisione delle politiche alimentari globali, piuttosto che nell'imposizione di diete e nella prescrizione di farmaci. @AdrianoFavole _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 Ago. ’13 LE RAGIONI PER BANDIRE STAMINA lettera aperta alla commissione L'appello di cinque scienziati alla Commissione Scientifica ministeriale che esamina il protocollo clinico del progetto di Vannoni Stimati Colleghi ed Esperti, membri della Commissione Scientifica ministeriale che esamina il protocollo clinico Stamina, conoscendo e apprezzando le Vostre competenze, e mossi da timori per la salute dei pazienti e del sistema sanitario italiano, nonché per l'immagine della nostra scienza medica all'estero, auspichiamo che mettiate fine, alla tragica farsa della sperimentazione del cosiddetto metodo Stamina. Alla luce di quanto sin qui accaduto, pensiamo che sia urgente uscire dall'equivoco di aver a che fare con una vicenda di natura medico-scientifica, perché i fatti parlano altrimenti. Si può documentare che: a) Al Professor Vannoni e altre 12 persone sono stati contestati dal magistrato Raffaele Guariniello, dopo accurate indagini dei carabinieri dei Nas, i reati di somministrazione di farmaci imperfetti e pericolosi per la salute pubblica, truffa e associazione a delinquere. Per inciso, non riusciamo a immaginarci il presidente dei Nih o una figura equivalente di un Paese a libera scelta tra i G20, che accetterebbe di intavolare una trattativa con un signore che è pluri-indagato. b) La Fondazione Stamina ha ripetutamente manipolato le informazioni, ad esempio non riconoscendo le risposte negative avute dal "metodo", che il "metodo" non era per nulla brevettato, che dal 2012 (o oltre) intesseva rapporti con una ditta farmaceutica e che, invece di trattarsi di un approccio originale, il cosiddetto "metodo", descritto in una grossolana richiesta di brevetto, è copiato e falsato da artefatti sperimentali prodotti da ricercatori russi – le prove del plagio sono state scoperte e pubblicate dalla rivista Nature. c) La «Indagine Amministrativa diretta a verificare la regolarità dei trattamenti eseguiti con cellule staminali presso l'Azienda Ospedaliera "Spedali Civili" di Brescia nell'ambito della collaborazione con la "Stamina Foundation Onlus" di Torino», condotta dal ministero della Salute, Aifa, Centro Nazionale Trapianti (Cnt), disegna uno scenario di abusi raggelanti, che configurano una retrocessione morale della pratica medica a prima della Dichiarazione di Helsinki. Lo stesso presidente del Cnt in Commissione Affari Sociali, lo scorso aprile, definiva illegale quanto si è fatto agli Spedali Civili di Brescia. d) Non è scientificamente pensabile e non esistono dati confermati per ipotizzare che cellule staminali mesenchimali si possano trasformare in neuroni terapeutici, come i responsabili di Stamina affermano che accadrebbe a seguito di una generica manipolazione biochimica. e) I preparati della Fondazione Stamina, sequestrati dai Nas, sono stati esaminati dal Professor Massimo Dominici dell'Università di Modena nell'agosto 2012, il quale ha testimoniato presso il Ministero e in interviste pubbliche che erano inquinati e senza proprietà biologiche clinicamente significative. f) Da interviste pubblicate e mai smentite, nonché da lettere ufficiali, risulta che il professor Vannoni abbia chiesto e ottenuto di discutere la composizione della Commissione. Egli si è accanito con insulti e minacce contro gli staminologi italiani che lo hanno criticato, ottenendo che non facessero parte della Commissione i migliori esperti di cellule staminali mesenchimali. Il professor Vannoni ha altresì dichiarato che il protocollo consegnato è semplificato in modo da poter essere usato da "inesperti", per cui non è affatto chiaro che cosa si andrebbe a sperimentare. g) La lettura dei pochi testi pubblicati e della profusione di dichiarazioni scritte e immagazzinate nel data base di Facebook, dimostra l'assenza di qualunque idea sensata, nella testa dei proponenti, sia della biologia di base delle staminali sia della biopatologia e clinica delle malattie che si pretendono di curare, e della minima attenzione ai malati, che sono usati come cavie per provare quel che succede. h) La comunità scientifica italiana, ai massimi livelli e cioè attraverso un documento dell'Accademia Nazionale dei Lincei votato dalle classi riunite, ha stigmatizzato la decisione di procedere alla sperimentazione – decisione presa per evitare l'impiego irresponsabile e generalizzato di false terapie cellulari inutili e pericolose, di fatto derubricate da farmaci a trapianti dal Senato, con devastanti conseguenze economiche e ingenti rischi per i pazienti. i) Non è vero che malati e parenti chiedono lo pseudo-trattamento Stamina: il professor Vannoni dice cose che offendono i pazienti colpiti da atrofia muscolare spinale (Sma), e l'Associazione Famiglie Sma lo ha ripetutamente diffidato dal proseguire nei suoi inganni ai danni dei malati e delle loro famiglie. In qualunque Paese civile, questo elenco di fatti giustificherebbe la messa al bando della Fondazione Stamina e dei suoi imbrogli. L'attenzione sgomenta con cui i massimi esperti al mondo di staminali e ricerca clinica guardano a quel che sta accadendo in Italia richiede un segnale forte. Che voi potete dare. Con i nostri sentimenti migliori Gilberto Corbellini, Sapienza Università di Roma; Umberto Galderisi, Seconda Università di Napoli, Presidente Stem Cell Research Italy; Antonio Musarò, Sapienza Università di Roma; Pier Lorenzo Puri, Sanford-Burnham Medical Research Institute, San Diego, Fondazione Santa Lucia, Roma, Mario Stefanini, Emerito Sapienza Università di Roma e Accademico dei Lincei _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 set. ’13 MARROSU: L'USO DELLE STAMINALI TRA SCIENZA E MITO SALVIFICO di Francesco Marrosu* Faceva un certo effetto un logo sulla T-shirt di un malato di SLA che dichiarava la sua (incondizionata?) fiducia nell'uso delle “staminali”, a fronte di una distanza ancora stellare tra evidenza scientifica e risultati sperati. Ancor più clamoroso, perché supportato da tribunali e ministri (!), l'avallo di un utilizzo delle staminali in una certa patologia a dispetto, questa volta, del chiaro pronunciamento della comunità scientifica internazionale sull'assenza di qualsiasi garanzia di un protocollo terapeutico che includeva “quell'uso” delle staminali. L'imposizione “de jure” di una terapia del genere, per chi non lo sapesse, ci ha sprofondato ad un equivalente “voodoo” pseudoscientifico negli articoli comparsi su prestigiose riviste (Nature, una su tutte) che hanno pesantemente commentato l'operato non dei medici italiani, si badi bene, ma della interfaccia socio-politico-legislativa del nostro Paese su tale materia.  Premesso che le staminali rappresentano un reale destino per il trattamento di diverse malattie, ma premesso anche che in molti settori (Parkinson, SLA, Alzheimer...) il loro utilizzo non può essere effettuato prima di risposte su molti temi correlati (ad esempio: perché le cellule responsabili delle malattie di cui sopra muoiono? Sono ancora operanti i comandi killer su queste cellule che vanificherebbero trapianti di qualsivoglia cellule?), alcuni aspetti antropo-culturali su questo tema vanno delineati.  Il ragionamento deve essere portato entro la temperie dei rapporti tra società, medicina e razionalità, tenendo bene a mente l'antifrasi irrazionale che alberga nell'animo umano, impersonata dalla dimensione mitica, nella sua versione più profondamente presente (ben in rilievo in antropologi come De Martino) che è rappresentata dalla trascendenza del Mito sulla Morte. Il mito espunge l'incombenza del “memento mori” così che in tutte le società la tematica mitica è presente anche in forme sofisticate, traslate o quasi evaporate nella sublimazione religiosa o paganeggiante, amplificate a dismisura dai media, metabolizzate a fini di lucro persino nella cartellonistica pubblicitaria, alimentate costantemente da riti (il rito rafforza il mito) che cadenzano le stagioni dell'anno e della vita. Ma qui, in tema di staminali, sorge un curioso corto-circuito. Si mutua la posizione della moderna medicina, forte di una rendita di posizione di una “sana” epistemologia realista, convinta nella “progressio ad infinitum” delle cure basate sulla “credenza salvifica nel potere della scienza” e da questo bastione si fa partire un sillogismo irrazionale: le staminali sono “vera” medicina, dunque non è possibile non avere benefici da questo utilizzo. Una razionalità da Curva Sud avrebbe facile ragione su queste proposizioni pseudologiche... ma le dimensioni della malattia incurabile sono diverse e le aspettative sulle staminali, se non opportunamente ragionate e filtrate da un tessuto sociale maturo, sconfinano dalla dimensione del bisogno a quella del desiderio che ha per l'appunto nel Mito il suo grande veicolo. Come dire: normalmente si procede a piedi, sotto il sole su una mulattiera polverosa (facile metafora della Ricerca), ma alla fantasia umana piace viaggiare sul teletrasporto di Star-Trek.  *Università di Cagliari _____________________________________________________________ Le Scienze 7 Set. ’13 UNA MAPPA NEURONALE PER DISTINGUERE TRA POCHI E MOLTI La percezione della numerosità degli stimoli visivi è "mappata" in un'area della corteccia cerebrale, proprio come le altre zone in cui sono elaborate le sensazioni. Si tratta della prima dimostrazione della presenza di un'organizzazione topografica per una caratteristica astratta degli input sensoriali (red) Saper rappresentare mentalmente la numerosità degli oggetti percepiti con i sensi - in pratica, se sono pochi o molti - è una facoltà che gli esseri umani acquisiscono fin da piccoli e che ha sede nella regione cerebrale della corteccia parietale. Un nuovo studio pubblicato su “Science” a firma di B. M. Harvey e colleghi del dipartimento di psicologia sperimentale dell’Università di Utrecht, nei Paesi Bassi, dimostra ora che la numerosità ha una rappresentazione topografica nella corteccia parietale, analogamente a quanto avviene con le cortecce somatosensoriali. Ciò significa che quando gli stimoli nel campo visivo aumentano di numero, per esempio da uno a quattro (anche se il numero finale non è importante), nel cervello si attivano cellule cerebrali diverse, ma secondo uno schema ordinato: l'attivazione passa cioè da un'area a un'altra adiacente e nella corteccia si produce una sorta di “mappa” neurale della numerosità degli stimoli. Uno dei risultati più affascinanti delle neuroscienze è la scoperta che le cortecce sensoriali, le aree della corteccia cerebrale a cui afferiscono i neuroni che trasportano le informazioni raccolte dai cinque sensi, sono organizzate in modo topografico. Nel caso della vista, per esempio, le cellule della retina attivate dalla luce inviano informazioni a zone neuronali anch’esse spazialmente vicine. Lo stesso avviene per le informazioni tattili: i campi recettivi della lingua per esempio sono adiacenti a quelli per la mandibola, che confinanti con quelli per le gengive e così via.  In generale quindi si ha una rappresentazione topografica quando le aree neuronali riproducono una dimensione dello stimolo, non necessariamente spaziale, in una delle tre dimensioni spaziali. Nella corteccia  uditiva, per esempio, diverse aree adiacenti “mappano” la frequenza del suono percepito: le cellule sensibili a una frequenza di 500 herz sono adiacenti a quelle sensibili ai 1000 herz e così via. Quante sono le pillole arancioni? Nessuno riuscirebbe a rispondere immediatamente senza contarle. Se fossero tre, quattro o cinque, invece, la risposta sarebbe più immediata: la percezione della numerosità degli oggetti è infatti indipendente dalle capacità matematiche (© Ted Morrison/Galeries/Corbis)Harvey e colleghi sono partiti dall'ipotesi che esistesse una rappresentazione analoga anche per la numerosità degli stimoli, che è fondamentale per la sopravvivenza nel mondo animale (basti pensare quanto sia importante in natura valutare se si viene attaccati da uno o più predatori) e che, come dimostrano gli studi sperimentali sia sugli animali sia sui bambini piccoli, è indipendente dalla capacità di contare e di utilizzare simbolicamente i numeri. Ciò risulta chiaro se si pensa che tutti noi riconosciamo immediatamente che abbiamo di fronte tre, quattro o cinque palline anche senza contarle, mentre se ne abbiamo un sacchetto pieno possiamo stimare che sono una decina, prima di averle contate. Allo stesso modo, possiamo stimare che un sacchetto contiene più palline di un altro. Utilizzando una tecnica di imaging in risonanza magnetica funzionale (fMRI) a campo intenso, i ricercatori hanno registrato l’attività cerebrale di alcuni volontari durante una serie di test visivi in cui sullo schermo di un computer venivano visualizzate alcune figure circolari che col tempo andavano aumentando di numero. Hanno così scoperto che l’attivazione delle cellule della corteccia parietale cambiava con la variazione della numerosità degli stimoli, e che gli schemi di attivazione corrispondevano a una rappresentazione topografica della numerosità. Secondo le conclusioni degli autori, il risultato è importante perché dimostra per la prima volta l'esistenza di una rappresentazione topografica per una caratteristica astratta degli stimoli sensoriali, motivando ulteriori riflessioni sulle attuali conoscenze in tema di percezione e cognizione.  Se da una parte le conclusioni portano infatti a presumere che la percezione della numerosità sia legata alla concretezza dei cinque sensi molto più di quanto ritenuto finora, dall’altra si può ipotizzare che l’organizzazione topografica sia comune anche per le funzioni cognitive di ordine superiore.  _____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 4 set. ’13 PERCHÉ SIAMO «INADATTI» ALLE SCELTE ECONOMICHE Il nostro cervello e le difficoltà a valutare rischi e benefici di MASSIMO PIATTELLI PALMARINI Per meglio comprendere l'importanza e l'originalità di un lavoro scientifico pubblicato ieri sul prestigioso The Journal of Neuroscience da otto neuroscienziati cognitivi dell'Università San Raffaele di Milano, occorre fare qualche passo indietro. È ovvio che contabili, ragionieri, commercialisti e amministratori sempre calcolano il risultato finale di guadagni e perdite mediante somme e sottrazioni. Un introito di 10 e una perdita, o spesa, di 2, rappresentano un guadagno netto di 8. Le cose, però, non vanno così nella nostra testa. Innumerevoli esperimenti di laboratorio e una robusta teoria, chiamata «teoria del prospetto», che è valsa allo psicologo cognitivo Daniel Kahneman il premio Nobel per l'economia nel 2002, confermano che la perdita di una somma, quale che sia, pesa nella nostra mente, soggettivamente, assai più della vincita di quella stessa somma.  Poniamo che al mattino ci si sia accorti di aver perso, non si sa come, 100 euro. Il nostro stato psicologico di sconforto non verrà veramente cancellato anche se poi, nel pomeriggio, ci cadono dal cielo 100 euro inaspettati. Per la maggioranza di noi, la bilancia soggettiva torna all'equilibrio, cioè ritroviamo la serenità economica, per questa particolare vicenda, solo se la somma piovuta dal cielo è tra 225 e 250 euro. In circa 35 anni di ricerche nelle scienze cognitive applicate all'economia, questo dato, cioè un'asimmetria di un fattore tra 2,25 e 2,50 tra guadagni e perdite, è tra i più consolidati. Il fenomeno psicologico va sotto il nome di «avversione alle perdite» (loss aversion). Si noti, nessuno psicologo, nemmeno un premio Nobel, sarebbe autorizzato a criticarci per il fatto che perdere denaro «fa male» e che vincere denaro, invece, «fa bene». L'intoppo, cioè l'irrazionalità economica, si manifesta nella nostra tendenza a rifiutare una scommessa nella quale c'è il 50% di probabilità di perdere 10 e il 50% di guadagnare 15 o 18 o perfino 20. Eppure così siamo fatti. Le dinamiche dei mercati internazionali di investimenti, ritorni e aspettative mostrano molti comportamenti poco razionali. Non è un caso, quindi, che la ricerca del San Raffaele sulle basi cerebrali dell'avversione alle perdite ha avuto il supporto finanziario della Schroders, il più grande gruppo al mondo di fondi di investimento e risparmio gestito, con sede nella City di Londra. Da alcuni anni si è cominciato, infatti, a sondare i processi cerebrali fondamentali che sorreggono e producono le scelte (o le non-scelte) economiche. Spiega uno dei principali autori del lavoro, Matteo Motterlini, fondatore e direttore del Centro di ricerche Cresa di psico-economia al San Raffaele: «Il nostro cervello non traffica con guadagni-perdite allo stesso modo. Li tratta come fenomeni distinti. Non è "progettato" per fare quello che vuole la teoria economica neoclassica, cioè soppesare razionalmente la combinazione di probabilità, in particolare di rischio, e rendimenti attesi. Il cervello non fa naturalmente tale tipo di operazione, ma tratta il rendimento come anticipazione di guadagno — il centro cerebrale responsabile è il nucleoaccumbens —; e elabora il rischio con altre aree, tipicamente aree della corteccia frontale e l'incertezza con l'insula».  In ogni processo psicologico legato al timore, o addirittura alla paura, spicca come protagonista un'area cerebrale molto antica chiamata amigdala. La ritroviamo molto attiva, ora, anche nell'avversione alle perdite. Recentemente un neuropsicologo italiano emigrato prima al California Institute of Technology e poi all'University College a Londra, Benedetto de Martino, ha esaminato due soggetti che avevano subito una lesione focale, simmetrica e bilaterale all'amigdala. Tali pazienti fanno scelte economiche diverse da voi e me. Uno di questi era incline a mosse economicamente rischiose, mostrando un tipo inverso di irrazionalità. Il primo autore dell'articolo, Nicola Canessa, ricercatore al Centro di Neuroscienze cognitive del San Raffaele, spiega il coinvolgimento dell'amigdala registrato nei (sanissimi) soggetti sperimentali: «Il sistema dopaminergico si attiva per anticipare i guadagni e si deattiva per anticipare le perdite, mentre un sistema "emotivo e somatosensoriale" centrato sull'amigdala si attiva per le perdite e si deattiva per i guadagni. A parità di somma in gioco, le risposte associate alle perdite sono più intense di quelle associate alle vincite, e la forza di questa asimmetria, che varia da persona a persona, riflette la propensione individuale all'avversione alle perdite. Ma quest'ultima è anche correlata al volume di materia grigia nell'amigdala. Le differenze individuali nella dimensione dell'amigdala, invisibili a occhio nudo, emergono con le analisi assai sofisticate che abbiamo condotto». Canessa illustra anche la storia evolutiva di questo organello cerebrale, simile a una mandorla: «L'amigdala è una struttura cerebrale profonda, essenziale per le capacità di apprendere i pericoli intorno a noi, riconoscerli e preparare l'organismo a una risposta, ad esempio "combatti o scappa". Oggi sappiamo che l'amigdala riconosce anche i possibili pericoli insiti nelle nostre stesse azioni, e che la sua attivazione ci spinge, più spesso di quanto sarebbe razionale, ad evitare di agire. Questo "freno" al comportamento ci può salvare la vita, ma se non è a sua volta tenuto sotto controllo ci impedisce di cogliere le opportunità offerte dall'ambiente». Negli esperimenti i soggetti, tutti volontari, venivano posizionati nell'apparato di risonanza magnetica funzionale ed erano liberi di accettare o rifiutare, una dopo l'altra, numerose lotterie simili a un «testa o croce». Quelle accettate avrebbero portato a vincere o a perdere, con probabilità 50%, somme di denaro. Poiché queste somme variavano tra le diverse lotterie, le scelte dei soggetti hanno consentito di stimare un indice individuale di «avversione alle perdite» che rivela quanto ciascuno, nel prendere decisioni, sovrastima il peso delle possibili conseguenze negative rispetto a quelle positive. Questo indice è stato messo in relazione all'intensità dell'attività cerebrale «anticipatoria» durante la scelta e al volume di materia grigia nelle singole regioni cerebrali, in particolare quelle cruciali per le emozioni, come l'amigdala. In altre parole, si sono misurate le differenze individuali nell'avversione alle perdite e nella stima (direi piuttosto il timore) del rischio. Motterlini è lapidario: «I presupposti dell'economia della razionalità sono neurobiologicamente falsi o irrealistici. Possiamo imparare a essere razionali nelle scelte economiche, ma non lo siamo naturalmente, quando si attivano i processi automatici e in larga parte inconsci. Ciò non può non avere conseguenze su come progettiamo interventi di politica economica e sulle nostre istituzioni finanziarie». L'autore senior del gruppo, il neurologo clinico e neuroscienziato cognitivo Stefano Cappa, sottolinea: «Il nostro studio mette su basi solide la ricerca sulle differenze individuali. Il futuro è la comprensione dei fattori genetici, epigenetici e dell'apprendimento nel modulare i profili di attivazione e la macro e micro anatomia e le loro conseguenze su scelte e comportamenti: il tutto con misure obiettive». Per concludere, un piccolo consiglio: se vi offrono una scommessa in cui si perde 10 ma si vince anche solo 11 o 12 con la stessa probabilità, mettete a tacere la vostra amigdala e accettate. _____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 6 set. ’13 IL MARIO NEGRI RINUNCIA ALLA RICERCA CON GLAXO «Vogliono gestire i dati» Una sperimentazione finanziata per metà dall'Unione europea ma «secretata» dall'azienda farmaceutica titolare del farmaco sotto test. Così l'Istituto Mario Negri di Milano si è ritirato dal progetto per «scarsa trasparenza». Rinunciando così al finanziamento. E un editoriale della rivista scientifica British Medical Journal racconta l'episodio, abbastanza singolare dati i tempi di crisi anche nel settore della ricerca. Il progetto è l'Innovative medicines initiative (Imi) finanziato, come detto, al 50% dall'Unione europea. Il farmaco da studiare è di proprietà della GlaxoSmith&Kline (Gsk). La quale ha tenuto per sé il diritto di accordare, o di negare, l'accesso ai dati dello studio e il controllo della loro pubblicazione. «Il segreto posto sui risultati degli studi clinici — dice Silvio Garattini, direttore del Mario Negri — rappresenta un'indebita spoliazione dei diritti dei pazienti e dei medici che partecipano allo studio: i dati in definitiva sono loro. Noi, peraltro, non chiediamo mai la proprietà dei dati. Sarebbe contrario ai nostri principi etici». L'istituto milanese infatti non brevetta mai le scoperte dei propriricercatori, ma le rende subito pubbliche. Gsk, invece, avrebbe posto un veto sulla divulgazione dei dati. Inaccettabile, dice il Mario Negri. «L'Innovative medicines initiative — precisa Vittorio Bertelé che ha partecipato alle trattative con Gsk — sostiene, con fondi pubblici Ue, progetti di collaborazione tra industria e accademia con l'intento specifico di promuovere l'innovazione. L'industria ci mette il prodotto grezzo. Ma sono i pazienti e i ricercatori clinici a svilupparlo». Sarebbero loro, quindi, i veri «proprietari» dei dati. Ne è nata una discussione legale sulla bozza di accordo terminata con il no del Mario Negri che ha rinunciato così anche ai fondi. Sacrificio notevole di questi tempi. «Ma non si poteva fare altro — dice Garattini — non potevamo abdicare ai nostri principi né tradire la fiducia di chi sostiene la nostra ricerca». In realtà c'è una battaglia aperta a livello internazionale tra i pur legittimi interessi dell'industria e la salvaguardia dell'indipendenza della ricerca clinica e, quindi, la tutela dei diritti dei pazienti. Gsk, comunque, ha replicato: «Come azienda riteniamo che l'iniziativa sia caratterizzata da una trasparenza e da una possibilità di accesso ed utilizzo dei dati senza precedenti anche se un'apertura totale non è stata ritenuta possibile per ragioni di carattere regolatorio».  Mario Pappagallo _____________________________________________________________ Sanità News 5 set. ’13 DAL SAN RAFFAELE UNA RICERCA SULLE FUNZIONI DELL'AMIGDALA I ricercatori dell’Universita’ Vita-Salute San Raffaele, in uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Neuroscience, hanno scoperto che l’amigdala è il centro neurale della paura e dell’ansia, facendo da “centralina” per l’esagerata anticipazione del dolore conseguente alle possibili perdite derivanti da una scelta. Per arrivare a queste conclusioni gli scienziati del Centro di Neuroscienze Cognitive e del CRESA, Centro di Ricerca in Epistemologia Sperimentale e Applicata, del San Raffaele si sono concentrati sull’origine delle differenze individuali nell’avversione alle perdite e, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, le hanno individuate in un complesso insieme di risposte cerebrali. E’ addirittura il volume dell’amigdala a spiegare le differenze tra i singoli individui nella propensione a cadere vittime di questa insidiosa “trappola” decisionale. L’amigdala e’ una struttura cerebrale posta nella profondita’ di ciascuno dei due emisferi cerebrali, essenziale per le capacita’ di apprendere i pericoli intorno a noi, di riconoscerli e preparare l’organismo ad una risposta adeguata, ad esempio “combatti o scappa”. Prendere decisioni implica la capacita’ di prevedere le conseguenze positive e negative di ogni possibile scelta. Questo consente di soppesarle attentamente, per arrivare a selezionare quella che riteniamo piu’ vantaggiosa. Come dimostrato dagli studi del Premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman, pero’, in questo processo di anticipazione mentale le possibili perdite “pesano” tipicamente piu’ dei guadagni. Nelle nostre scelte, cioe’, preferiamo evitare le perdite all’ottenere guadagni, almeno finche’ il possibile guadagno non e’ pari a circa il doppio della possibile perdita. Questo fenomeno pressoche’ universale, noto come ‘avversione alle perdite’, secondo gli esperti sta contribuendo ad aggravare l’attuale crisi economica. Le neuroscienze cognitive si sono interrogate per anni sul possibile ruolo delle emozioni nel sopravvalutare le conseguenze negative delle decisioni: il nostro cervello non sembra anticipare dei freddi numeri, ma piuttosto dei sentimenti negativi. Durante l’esperimento ai volontari e’ stato chiesto di accettare o rifiutare una serie di scommesse che, come succede quando si gioca a “testa o croce”, avrebbero consentito di vincere o perdere dei punti con probabilita’ pari al 50%. Le possibili vincite e perdite variavano di volta in volta: a volte erano entrambe grandi, a volte entrambe piccole, a volte molto diverse tra loro. In alcuni casi la possibile vincita era circa il doppio della possibile perdita, ovvero la tipica situazione in cui emerge un conflitto tra accettare, assumendosi il rischio della scommessa, o rifiutare, garantendosi la sicurezza di rimanere fermi al punto di partenza _____________________________________________________________ Sanità News 2 set. ’13 MESSO A PUNTO UN FARMACO PER LE TRASFUSIONI SBAGLIATE Un farmaco, già in uso per patologie ematologiche, può aiutare a tenere sotto controllo gli effetti di una trasfusione sbagliata su un paziente e potrebbe entrare a far parte dei protocolli applicati negli ospedali toscani e, in ipotesi, di tutta Italia. La notizia, pubblicata da alcuni quotidiani, e' confermata dal Gian Franco Gensini, ex preside della Facolta' di Medicina e Chirurgia dell'università di Firenze, che coordina la task force regionale toscana per lo studio degli eventi avversi in sanità. ''Le caratteristiche di questa sostanza la rendono potenzialmente utile in situazioni come una trasfusione di sangue incompatibile perche' aiuta a tenere sotto controllo la rottura dei globuli rossi che si verifica in questi casi''. Il farmaco si chiama 'eculizumab' ed è utilizzato per curare la emoglobinuria parassostica notturna e forme di sindrome emolitico-uremica. ''Siccome gli effetti di una trasfusione di sangue incompatibile con quello del paziente produce reazioni simili a quelle provocate da queste malattie - spiega Gensini - abbiamo pensato di inserirlo nel nostro protocollo, a Careggi, proprio dopo un caso di errore trasfusionale avvenuto circa un anno fa su un paziente che però, per fortuna, non ebbe conseguenze''. L'idea, spiega Gensini, fu suggerita da Lucio Luzzatto, uno dei massimi esperti in ematologia e attuale direttore scientifico dell'Istituto Toscano Tumori. ''E' chiaro che la trasfusione sbagliata è un errore che non dovrebbe accadere - aggiunge - ma purtroppo non è possibile escluderlo, e finora si è intervenuti sul paziente con un supporto legato agli effetti negativi della trasfusione sulla funzione renale. Il supporto della funzione renale è necessario, ma eculizumab può utilmente integrare il protocollo di intervento immediato dopo errore trasfusionale. _____________________________________________________________ Sanità News 2 set. ’13 UN’ALLEANZA INTERNAZIONALE PER CONTRASTARE LA DENGUE La multinazionale farmaceutica Johnson and Johnson si e' alleata con l'universita' belga di Leuven e con la 'charity' inglese Wellcome Trust per cercare una terapia contro la febbre Dengue, la malattia tropicale che si sta diffondendo piu' rapidamente in questi anni. Lo hanno annunciato i partner del progetto. Lo scopo dell''alleanza sara' testare il piu' velocemente possibile una serie di composti sviluppati dall'azienda che si sono mostrati attivi contro tutti e quattro i ceppi della malattia sia in laboratorio che sugli animali. Il finanziamento, spiega il comunicato, che pero' non ne specifica l'entita', sara' erogato da Johnson e Johnson sulla base dei risultati raggiunti. Il virus Dengue e' trasmesso dalla zanzara Aedes Aegipti, che si sta diffondendo rapidamente nel mondo tanto che meta' della popolazione del pianeta e' potenzialmente esposta. Al momento non ci sono ne' vaccini ne' terapie disponibili.   _____________________________________________________________ Sanità News 2 set. ’13 ALLO STUDIO UN NUOVO FARMACO CHE SALVA L’UDITO Uno studio della Science University di Portland, Oregon, pubblicato sul The Faseb Journal, ha sviluppato, indagando sui problemi di udito legati al forte rumore, un composto che potrebbe prevenire la perdita della funzione. In seguito al rumore eccessivo, possono verificarsi diversi problemi, che vanno dall’insensibilita’ ai suoni agli acufeni, e gli scienziati hanno studiato i meccanismi molecolari che si celano dietro questi processi. I risultati hanno mostrato che il rumore eccessivo attiva alcune cellule nell’orecchio causando il loro distacco e danneggiando la barriera ematica. L’iniezione di una singola dose di proteina Pedf, pigment epithelium-derived factor, prima dell’esposizione al rumore ha tuttavia fornito una buona copertura della parete capillare, attenuando i disturbi indotti dall’esposizione al rumore, causando cambiamenti nei melanociti situati nell’orecchio interno. _____________________________________________________________ Wired 6 set. ’13 I MITI DA SFATARE SUL CERVELLO Usiamo solo il 10% del nostro cervello. E i creativi hanno l'emisfero destro più sviluppato. Ecco alcune delle più discusse (e a volte false) teorie sul suo funzionamento 06 settembre 2013 di Anna Lisa Bonfranceschi Il cervello, macchina misteriosa e sconosciuta. Non è un caso quindi che nei prossimi anni in Europa con lo Human Brain Project e in America con l'iniziativa Brain (targata Obama), una buona parte della ricerca tenterà di comprenderne i meccanismi di funzionamento, investendo ingenti capitali. Forse è anche per questo, perché la scienza ne sa ancora troppo poco, che col tempo - parallelamente alle piccole conquiste dei ricercatori - si sono accumulati una serie di miti sul cervello e sul suo modus operandi.  Eccone alcune dei più diffusi, duri a morire.  UTILIZZIAMO SOLO IL 10% DEL NOSTRO CERVELLO A quanto pare, rintracciare l'origine di questa affermazione – così diffusa da contare anche una pagina di Wikipedia tutta dedicata – non è facile. Sembra tuttavia probabile che sia nata, in qualche modo, a partire dagli inizi del ventesimo secolo, quando lo psicologo William James avrebbe affermato: “Facciamo uso solo di una piccola parte delle nostre risorse fisiche e mentali”. In realtà altro non si tratta che di una credenza. Le scansioni cerebrali mostrano infatti che a prescindere del compito che stiamo svolgendo non ci sono aree inattive, ma solo aree più attive di altre. E ancora la mappatura del cervello che ha dimostrato come non esistono aree in attesa di ruoli, ovvero che non siano state correlate a specifiche funzioni. Ma anche il fatto che praticamente non esistono danni cerebrali che non abbiamo ripercussioni sulle funzionalità individuali suggerisce che quello del funzionamento al 10% sia solo un falso mito. E infine perché, evolutivamente parlando, la selezione naturale avrebbe mantenuto un cervello in gran parte dormiente?  CREATIVO O RAZIONALE, DI CHE EMISFERO SEI? Tom Bennet, docente britannico che si occupa di neuroscienze e insegnamento, le chiama personalità polarizzate, riferendosi all'idea che la preponderanza di atteggiamenti creativi piuttosto che logici in alcune persone siano dovute alla dominanza di un emisfero piuttosto che dell'altro (rispettivamente, nel caso citato, di quello destro su quelle sinistro). Eppure, come una recente ricerca pubblicata su Plos One ha dimostrato, sebbene i due emisferi assolvano funzioni specifiche, le persone non tendono ad avere network cerebrali più sviluppati a sinistra o destra, suggerendo quindi che non via siano legami tra personalità ed emisferi, che lavorano insieme in modo complesso. Questa convinzione sembrerebbe nata da un'interpretazione alterata del lavoro del premio Nobel Roger Sperry, che aveva studiato la specializzazione emisferica in individui in cui i due emisferi non erano più connessi tra loro.  IMMAGINI O VIDEO: A OGNUNO IL SUO STILE DI APPRENDIMENTO Bennet su New Scientist ricorda il metodo Vark (acronimo di V isual, Auditory, Read-write, Kinaesthetic, a identificare rispettivamente i diversi tipi di apprendimento: visivo, uditivo, scrittura-lettura e cinestetico), proposto dall'insegnante neozelandese Neil Fleming. La teoria prevede che ognuno abbia il proprio metodo di apprendimento e che riesca meglio a far proprie le diverse nozioni se rappresentate attraverso canali specifici. La teoria degli stili di apprendimento, che ha influenzato anche i sistemi stessi di insegnamento, ha però raccolto diverse critiche, a partire dai metodi usati per identificare i vari metodi di apprendimento e per la mancanza di studi scientifici a supporto delle teoria. Nel 2008, a proposito, una rivista dell'Association of Psychological Science scriveva che al momento non esistevano “basi scientifiche adeguate per giustificare l'incorporazione di valutazioni sugli stili di apprendimento nella pratica educativa generale”.  LE ABILITÀ CEREBRALI DECLINANO PASSATI I 40 Se è vero che apprendere una nuova lingua o memorizzare testi, sequenze, immagini e quant'altro risulterà più difficile a chi è più in là con gli anni rispetto a un adolescente, alcune abilità col passare del tempo migliorano. Per esempio aumentano le capacità linguistiche (riferite soprattutto al vocabolario), quelle di risolvere situazioni conflittuali e di gestire le emozioni.  IL CERVELLO FUNZIONA COME UN COMPUTER Le similitudini tra cervello e computer sono tra le più popolari per il misterioso organo: d'altronde, entrambe le macchine sostanzialmente ricevono input che elaborano per fornire degli output. Ma lo fanno in maniera totalmente diversa. Basti pensare al processo visivo, che non è una mera ricezione di stimoli luminosi ma una complessa azione in cui si integrano diverse informazioni del mondo circostante, in modo che le persone riescano, per esempio, anche a elaborare anticipazioni su quanto succederà in futuro. La similitudine con i computer non si ferma qui: spesso infatti ci si riferisce al cervello come un insieme di circuiti elettrici stabiliti, con funzioni specifiche. In realtà il nostro cervello è una struttura estremamente plastica, capace di adattarsi - anche fisicamente - al cambiamento. Un esempio per tutti? La capacità delle aree normalmente deputate a elaborare le informazioni sonore di specializzarsi a percepire il tatto e la visione nelle persone sorde; o allo stesso modo la specializzazione della corteccia visiva nell'elaborare i segnali uditivi e tattili nei ciechi.  This opera is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported License.