Rassegna 29/09/2013 ATENEI, SOTTO ESAME IL «PLACEMENT» FINANZIAMENTI SOLO PER GLI ATENEI DI QUALITÀ CRAC GRECO: CHIUDONO LE UNIVERSITÀ CRUI: «FINIREMO COME LA GRECIA» STOP ALL'APERTURA DI NUOVI ATENEI E’SCOPPIATA LA GUERRA DEGLI STAGE MASTER: LA CARTA IN PIÙ PER «VINCERE» IL LAVORO IL DIRITTO ALLO STUDIO DEI MEDIOCRI NON GARANTISCE IL POSTO DI LAVORO PROF BOCCIATI DAGLI STUDENTI I RETTORI: MA GIUDICARE SERVE IL PARERE NEGATIVO DEGLI STUDENTI NON TOCCA DAVVERO I DOCENTI DI RUOLO LA "GENERAZIONE ERASMUS" FA RETE E BUSINESS USA: LIBERARE L’UNIVERSITÀ LE UNIVERSITÀ NON SONO AZIENDE CARROZZA: «MORALIZZARE I CONCORSI» CARROZZA: IL VOTO DI MATURITÀ NON DEVE AVERE VALORE LEGALE MEDICINA: NESSUNO PRENDE IL MASSIMO (E 451 SOTTO ZERO) MEDICINA: BRAVI DISERTANO LE FACOLTÀ DEL SUD PER I TEST D'AMMISSIONE UNA GIUNGLA DI TARIFFE I TEST DI MEDICINA E I NUMERI PRIMI MEDICINA: UNO SU DIECI SCEGLIE NAPOLI MEDICINA, IL SUD LASCIA SCOPERTI PIÙ DI 1.400 POSTI UNIVERSITÀ: SCELTE DI VITA ALL’INSEGNA DEL PRECARIATO RICERCATORI: «NOI PIANGERCI ADDOSSO? E CHI PUÒ PERMETTERSELO?» LA MATEMATICA? È IN ASIA SAN BASILIO: INAUGURAZIONE UFFICIALE DEL MAXI TELESCOPIO A HARVARD IL NOBEL DEI SAPERI BUFFI LITIGANDO (BENE) S'IMPARA CLIMA, COLPA (QUASI) CERTAMENTE NOSTRA ========================================================= AOUCA: I TALASSEMICI: «GIÙ LE MANI DAL MICROCITEMICO» AOUCA: MONSERRATO: IL SINDACO: DARÒ AI PRIVATI LA SEDE EX CRIES ASL7: ANDREA CORRIAS NUOVO DIRETTORE SANITARIO AOB: SE CAGLIARI BATTE NEW YORK LORENZIN: TRIPADVISOR DEGLI OSPEDALI ITALIANI VITAMINE GRANDE BLUFF IL RUOLO STRATEGICO DEL LABORATORIO DI ANALISI IL LABORATORIO È SEMPRE PIÙ TECNOLOGICO UN SANTO GRAAL CONTRO L'INFLUENZA CALIFORNIA E MASSACHUSSETTS ECCO I NUOVI VIRUS INFLUENZALI I COSTOSI MAL DI PANCIA DEI SARDI GLI ITALIANI CONSUMANO PIÙ ANTIDEPRESSIVI E MENO ANTIBIOTICI QUANDO LA MEDICINA NARRATIVA AIUTA I MALATI A NON SCORAGGIARSI UNISS: IL SISTEMA IMMUNITARIO HA UNA BASE EREDITARIA SUICIDI, QUESTIONE DI GENI SESSO, PER GLI ITALIANI 108 RAPPORTI L'ANNO CHIAMI UN DOTTORE? TI RISPONDE SUL WEB MINORI EFFETTI COLLATERALI DELA CHEMIOTERAPIA CON UN ADDITIVO ALIMENTARE USATO PER I CANI USA: VIA LIBERA AI FARMACI PER PREVENIRE IL TUMORE AL SENO CERVELLI BUONI, VERI E BELLI ========================================================= _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 set. ’13 ATENEI, SOTTO ESAME IL «PLACEMENT» Formazione. Al via il progetto Anvur-Italia lavoro per definire gli standard comuni di qualità Il caso Finmeccanica: piano da 1.500 assunzioni ignorato dalle università L'OBIETTIVO Le «pagelle» delle sedi potrebbero valutare anche l'effettiva capacità e utilità degli «uffici di collocamento» per gli studenti Gianni Trovati ROMA Quanti studenti passano dall'ufficio placement per entrare nel mondo del lavoro con stage, tirocini e apprendistato? In quanto tempo ottengono risposta? Quante aziende abbraccia la rete di contatti dell'ateneo, e quali esperienze offre? Anche le risposte a queste domande entreranno nella valutazione delle università italiane, all'interno del processo di accreditamento che in base alla legge Gelmini valuta corsi di laurea e sedi e stabilisce chi può entrare nell'offerta formativa e chi invece si deve fermare. La prima prova dell'accreditamento mette sotto esame anzitutto docenti e strutture, ma la sua estensione alla «terza missione» (cioè alla capacità degli atenei di intrecciare relazioni con l'esterno, che si accompagna alle due «missioni» di didattica e ricerca) è al centro di un piano già avviato da Italia Lavoro, l'ente del ministero del Lavoro per le politiche sull'occupazione, e Anvur, l'agenzia di valutazione dell'università che nei mesi scorsi ha diffuso le valutazioni sulla ricerca scientifica di tutti i dipartimenti che compongono l'università italiana. Nel progetto, presentato ieri a Roma nella sede dell'Anvur, sono entrate già 75 università, chiamate a farsi valutare in base a un set di indicatori concentrato su quattro temi-chiave: il «radicamento territoriale», valuta la rete locale di imprese che intrecciano rapporti con l'ufficio placement dell'ateneo, la «personalizzazione dei servizi» misura la capacità di offrire esperienze tarate sul profilo del laureato e le intermediazioni fra domanda e offerta; la «qualità di misure e strumenti» pesa l'efficacia della gestione di tirocini e apprendistato, e infine la «qualità organizzativa e gestionale» deve mettere sotto esame le competenze del personale. Quattro direttrici che si possono appunto concretizzare in oltre cento indicatori di dettaglio, e che, conferma il presidente dell'Anvur Stefano Fantoni, «devono entrare nella valutazione e nell'accreditamento». Le pagelle, però, non saranno uguali per tutti, perché la struttura è modulare e può essere adattata da ogni ateneo in base alle proprie priorità, a patto comunque di non perdere in trasparenza e confrontabilità dei dati. L'inceppamento occupazionale aumenta la domanda di servizi da parte degli studenti, in cerca di canali strutturati per entrare in un mondo del lavoro sempre più difficile, ma anche da parte di imprese che vogliono entrare in contatto con profili preselezionati. Un caso, eclatante, è quello di Finmeccanica, che ha lanciato due mesi fa un piano di assunzioni per 1.500 giovani, in buona parte laureata, ed è stata invasa dalle candidature ma ignorata dagli atenei, con l'unica eccezione del Politecnico di Torino. La vicenda dimostra che gli uffici placement, da soli, non riescono a essere efficaci se non si abbatte quello che Claudio Gentili, responsabile Education di Confindustria, definisce «il muro di Berlino fra università e aziende, basato sul principio sbagliato che si lavora solo dopo aver finito gli studi»: un principio, questo, criticato poche settimane fa anche dal ministro dell'Università Maria Chiara Carrozza. gianni.trovati@ilsole24ore.com _____________________________________________________ Italia Oggi 26 Sett. ‘13 FINANZIAMENTI SOLO PER GLI ATENEI DI QUALITÀ Firmato il decreto ministeriale sulla programmazione accademica L'università dove serve DI BENEDETTA PACRJJ Corsi di laurea privi di standard di sostenibilità finanziaria? Chiusi. Sedi accademiche decentrate senza i requisiti di docenza previsti? Soppresse. L'attività accademica passa sotto i raggi X e, d'ora in poi, dai corsi di studio attivati, agli interventi per il sostegno agli studenti, tutto dovrà essere pianificato secondo la linea dettata dal nuovo Piano di programmazione triennale delle università 2013-2015 firmato ieri dal ministro •dell'istruzione e università Maria Chiara Carrozza. Una nuova stretta che definisce obiettivi e regole che le università dovranno seguire per i prossimi tre anni su didattica, ricerca, studenti e fabbisogno del personale. Regole ferree da seguire alla lettera, perché solo chi raggiungerà gli obiettivi «di promozione della qualità e dimensionamento sostenibile del sistema universitario», potrà ricevere finanziamenti aggiuntivi dal ministero, sia attraverso la quota premiale, sia attraverso ulteriori fondi triennali messi a disposizione. L'obiettivo? Evitare buchi emersi a sorpresa dalla vecchia contabilità finanziaria come accaduto negli ultimi anni a qualche ateneo, e offrire uno strumento monitorabile sulla programmazione e sui risultati raggiunti dal punto di vista economico. E infine fare in modo che le spese per il reclutamento per il personale siano preventivate nelle programmazioni pluriennali per garantirne la sostenibilità nel medio periodo. Nel nuovo calendario, le università dovranno approvare entro il 31 dicembre di ogni anno il preventivo annuale e entro i130 giugno adottare il programma triennale. Obiettivi di sistema. Nei prossimi tre anni di programmazione, si legge, non si potrà procedere all'istituzione e all'attivazione di nuove università se non a seguito «di processi di fusione tra due o più università» e sarà, invece, opportuno puntare al «dimensionamento sostenibile del sistema» attraverso l'accorpamento o l'eliminazione di corsi di laurea su base regionate in funzione della domanda e della sostenibilità e degli sbocchi occupazionali. Inoltre, sempre nello stesso periodo di programmazione, dovranno essere ridotti í corsi di studio attivati nelle sede decentrate «non sorretti da adeguati standard di sostenibilità finanziaria, numerosità di studenti, requisiti di docenza, delle infrastrutture n'di qualità della didattica e della ricerca». Fermo restando, poi, l'esigenza di procedere a un riassetto delle università telematiche attualmente esistenti Nel prossimo triennio non solo non potranno esserne istituite delle nuove ma, qualsiasi nuova università non statale legalmente riconosciuta (con esclusione comunque delle telematiche), dovrà avere almeno un corso integralmente in lingua straniera. Programmazione delle università. Ogni ateneo, poi, dovrà indicare l'azione per cui intende partecipare relativamente al triennio di programmazione, riportando «lo stato dell'arte, gli interventi pianificati nel triennio» ma anche «l'ammontare di risorse finanziarie richiesto» tenendo conto però dell'ammontare complessivo del finanziamento destinato all'intero sistema universitario. I programmi presentati saranno valutati da parte di apposita commissione di esperti nominata dal Miur. E poi ancora il ministero stesso entro il 30 giugno 2016 verifica quanto realizzato da ogni università e procede poi distribuire i fondi a seconda dei risultati raggiunti dagli atenei. L'obiettivo del ministero è quello di cambiare rotta rispetto al vecchio modello storico di finanziamento, allontanandosi progressivamente dalla tradizionale ripartizione risorse su base storica. Avranno quindi più peso i risultati raggiunti nell'attività di didattica e di ricerca piuttosto delle passate distribuzioni di fondi assegnate sulla base dei parametri quantitativi. _____________________________________________________ Libero 26 Sett. ‘13 CRAC GRECO: CHIUDONO LE UNIVERSITÀ È uno degli effetti più drammatici della crisi economica in Grecia: non poter dare un futuro alle nuove generazioni, anche al livello culturale. La triste prova è quello che sta succedendo al mondo accademico, come denuncia il quotidiano Ekathinwrini. Le università greche sono al collasso, impossibilitate nel procedere con le loro attività didattico-formative. E non si tratta di un grido di allarme per attirare l'attenzione su un problema che potrebbe presentarsi più in là nel tempo: è la realtà di cui sono impotenti tutti, compresi i senati accademici, ridotti allo stremo a seguito delle misure di austerity imposte ad Atene dalla troika (Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale). L'impatto dello schema di mobilità elaborato dal governo per otto atenei ellenici denuncia l'Ekathimerini -è devastante. Secondo i sindacati, il trasferimento di 1.349 impiegati amministrativi, pari al 40 per cento del personale, ad altre amministrazioni ha lasciato gli istituti letteralmente vuoti, bloccando di fatto qualsiasi tipo di attività. Due esempi, prosegue il quotidiano, sono i senati accademici dell'Università di Atene e del Politecnico della capitale, i quali hanno annunciato di dover chiudere le loro istituzioni a causa delle disfunzioni derivanti dalla mobilità in massa dello staff, dagli archivisti ai contabili per non parlare delle guardie notturne. Il responsabile della Federazione ellenica dei professori universitari (Posdep), Stathis Efstathopoulos, ha scritto una lettera-appello al primo ministro, Antonis Samaras, nella quale anch'egli denuncia di «università al collasso» e chiede un incontro urgente con il governo per «evidenziare nei dettagli la tragica situazione dei nostri atenei». _____________________________________________________________ Repubblica 29 set. ’13 Università, decreto di programmazione: STOP ALL'APERTURA DI NUOVI ATENEI Il ministro Maria Chiara Carrozza (agf) Un ministro dell'Istruzione iperattivo, malgrado i venti di crisi che soffiano sul governo, ha firmato la nuova versione del decreto sulla programmazione triennale (2013-2015) delle università. Dice alcune cose importanti, il decreto ministeriale. Dice che in Italia non ci sono le condizioni per aprire nuove università pubbliche: le sessantotto esistenti (più tre promosse da enti pubblici non statali) sono sufficienti, e sufficientemente indebitate. Un nuovo ateneo potrà nascere solo da una fusione: uno al posto di due, come già è accaduto con l'Università di Modena e Reggio Emilia. Maria Chiara Carrozza non ha cancellato alcuna università (in Grecia, per confronto, ne sono state cancellate otto), ma ha scritto che i finanziamenti di Stato arriveranno tenendo conto delle sforbiciate che i singoli atenei daranno ai loro rami secchi: corsi di laurea senza pubblico e con scarso appeal per il mondo del lavoro, corsi di laurea realizzati oggi in sedi decentrate. Il blocco ai nuovi atenei riguarda anche le "realtà telematiche". La possibilità di aprire nuove università private sarà invece "subordinata a un rigido controlli del ministero". Nella competizione virtuosa per ottenere finanziamenti di Stato - si legge nel decreto - le università dovranno puntare soprattutto "sul miglioramento dei servizi destinati agli iscritti, sulla promozione dell'integrazione territoriale fra atenei e centri di ricerca, sul potenziamento dell'offerta didattica in lingua straniera". Si chiede al mondo accademico italiano di darsi un profilo internazionale richiamando, per esempio, insegnanti dall'estero. E di offrire agli studenti un orientamento perpetuo: farsi conoscere presto dalle potenziali matricole, assisterle nella messa a fuoco del piano di studi migliore e accompagnarle in uscita a un impiego coerente con gli studi fatti. Incentivi pubblici arriveranno a chi farà entrare nelle commissioni di concorso "quote maggioritarie di docenti esterni all'ateneo", e qui la Carrozza torna suirecenti e scandalosi concorsi accademici, soprattutto in Medicina. Gli atenei avranno 45 giorni per presentare i loro programmi triennali, il Miur potrà finanziarli singolarmente attingendo al Fondo ordinario di ciascun ateneo (la quota premio, al massimo, potrà essere del 2,5% sul totale). Su un piano europeo, il ministro ha proposto a Bruxelles che l'Unione adotti un sistema di classifiche comunitarie proprio per valutare le università continentali. "Libera circolazione dei laureati, trasportabilità dei titoli in Europa, creazione di uno spazio di istruzione europeo, equiparazione dei titoli e, soprattutto, un ranking europeo delle università". _____________________________________________________ Roma 27 Sett. ‘13 RETTORI: «FINIREMO COME LA GRECIA» Il presidente della Crui lancia un appello per la ricerca a Napolitano e al Governo ROMA. Un piano per i giovani ricercatori e 100 milioni ai migliori nella valutazione della ricerca da inserire nella Legge di Stabilità. È quanto chiede al Governo il neo-presidente della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane), Stefano Paleari, che ha inviato una lettera al Presidente del Consiglio e al Ministro dell'Università, ricordando che «da anni merito e giovani sono trascurati» e la Grecia, dove sono stati licenziati 12.500 dipendenti delle Università e 8 atenei sono a rischio chiusura, «non è più così lontana». «La lettera nasce all'interno di una situazione drammatica ha sottolineato Paleari Negli ultimi anni abbiamo perso 1 miliardo su 7. Stiamo parlando di uno dei finanziamenti per l'Università più bassi d'Europa! Questo ha significato una riduzione di 10mila unità di chi insegna e fa ricerca. E un conseguente decremento dei laureati, che ormai sono di più di 10 punti percentuali sotto la media europea. Un numero a titolo esemplificativo: l'Università della Basilicata ha quest'anno 800 nuovi iscritti, l'anno scorso ne aveva 1.500. Di questo passo il punto di arrivo mi sembra evidente». In quest'ottica, attraverso la lettera, la Crui chiede al Governo un intervento tempestivo. Servono subito 100 milioni ai migliori nella valutazione della ricerca, perché di fatto il taglio ereditato nei bilanci dell'Università per il 2013, pari a quasi 400 milioni (il 4,5% in meno rispetto al 2012), impedirà di premiare chi si è meglio comportato. Inoltre, occorre un piano per i giovani ricercatori che ne arresti l'emorragia, altrimenti ogni richiamo alla crescita risulterà vano: In Italia spiega la Crui abbiamo 4 addetti alla ricerca ogni mille occupati, contro i 9 della Francia, gli 8 di Germania e Regno Unito, i 7 della Spagna: "solo per passare da 4 a 5 avremmo bisogno di 20mila ricercatori". _____________________________________________________ La Stampa 23 Sett. ‘13 E’SCOPPIATA LA GUERRA DEGLI STAGE Il mini-stipendio non piace, le norme sono rigide e molte Regioni in ritardo WALTER PASSERIM MILANO Succede in tutto il mondo, ma non significa che mal comune sia mezzo gaudio. La guerra degli stage riscoppia dall'Europa agli Stati Uniti. Nel giorno del Labor day aiWashington il primo lunedì di settembre gli stagisti americani hanno avviato una raccolta di firme con la Fair pay campaign, chiedendo al presidente Obama di stroncare gli abusi fuori e dentro la stessa Casa Bianca, mentre fioccano le cause contro le internship. Un mese fa ad agosto è morto a Londra uno stagista tedesco, Moritz Erhardt, che aveva lavorato ininterrottamente per 72 ore presso la filiale della Bank of America. In Italia la guerra degli stage procede sottotraccia, ma il rischio è quello della scomparsa di uno strumento che, se si presta ad abusi, resta un'esperienza positiva a forti finalità formative. Qualche giorno fa il ministro Maria Chiara Carrozza ha affermato: «Mai più un laureato che arrivi a 25 anni senza mai avere avuto un'esperienza di lavoro». Due tipologie. Tirocini e stage possono essere la chiave perché svolgono funzioni formative e di orientamento professionale. Ma va fatta subito una differenza: un conto sono gli stage curricolari, svolti dentro il percorso di studi, un conto sono quelli che vengono proposti dopo gli studi, in sostituzione di altre forme di inquadramento contrattuale: è su questi ultimi che si abbattono soprattutto le critiche e le denunce di abuso. Andrea Cammelli, fondatore di Alma Laurea, sottolinea la funzione positiva degli stage dentro il percorso di studi: «Nel 2004 coinvolgevano appena venti laureati pre-riforma su cento. Nel 2012 hanno coinvolto 56 laureati su cento». Anche l'associazione milanese Actl sottolinea la funzione di ponte degli stage tra l'università e le aziende, mentre il movimento che si riconosce nella Repubblica degli stagisti evidenzia soprattutto le scorrettezze compiute dalle aziende e propone un decalogo del perfetto stage, con tanto di bollino blu. LA PAGHETTA DELLA DISCORDIA La situazione in Italia si è paradossalmente complicata con l'avvio della nuova normativa il 24 gennaio di quest'anno, che ha previsto tariffe minime di pagamento obbligatorio degli stage, proponendo una paghetta di almeno 300 euro al mese. Inoltre la norma ha ribadito la necessità di un vero progetto di stage, con tanto di tutor, le durate minime e massime e la percentuale possibile di stagisti dentro le singole imprese. Entro sei mesi, vale a dire dal 24 luglio, le regioni, titolari costituzionalmente dei temi legati alla formazione, avrebbero dovuto emanare le rispettive normative regionali, ma il risultato, ormai alla fine di settembre, è davvero sconsolante. A oggi solo la metà delle regioni ha adottato una precisa normativa sul valore della paghetta (da 300 a 600 euro al mese), l'altra metà ha promesso di farlo ma risulta inadempiente. Non mancano le obiezioni: imprese, direttori del personale e una parte degli studenti denunciano che l'introduzione di una tariffa mensile può disincentivare gli stage, decretandone il de profundis o il ritorno al nero. Certo lo stage gratuito fa comodo ai datori di lavoro ma colpisce i giovani spesso con laurea che si affacciano sul mercato del lavoro e che sono diventati collezionisti di stage gratuiti, e questo è mortificante e causa di demotivazione al lavoro. Inoltre, lo stage abusivo e gratuito sta facendo concorrenza sleale all'altro strumento che avrebbe dovuto diventare il canale privilegiato per l'ingresso nel mondo del lavoro da parte dei giovani, vale a dire l'apprendistato. Il quale, in un gioco di specchi, sta rischiando di finire su un binario morto per le stesse ragioni burocratiche che frenano gli stage. La fine di settembre avrebbe dovuto essere il termine per uniformare le regole tra Stato e regioni. Siamo anche in questo caso in alto mare. Ma è inaccettabile trincerarsi dietro le responsabilità degli altri. Se le regioni non sono in grado di assumere una normativa nazionale e la frantumano in venti rivoli, compito dello Stato e del governo è quello di prendere il toro per le corna e di decidere un'unica normativa nazionale, sia per gli stage che per l'apprendistato. Che cosa si aspetta? La mancanza di lavoro resta il problema economico numero uno _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 23 set. ’13 MASTER: LA CARTA IN PIÙ PER «VINCERE» IL LAVORO Salgono a 2.073 i master proposti dagli atenei: aumentano le imprese coinvolte nell'organizzazione Eleonora Della Ratta Cristina Fei Torna a crescere l'offerta formativa dei master nelle università italiane. Dopo anni di tagli, gli atenei scommettono di nuovo sulle specializzazioni post laurea, rivolgendosi non solo ai giovani neolaureati che investono sulla propria formazione, ma anche ai professionisti che, pur essendo sul mercato del lavoro già da qualche anno, vogliono fare un salto di carriera o dare una sterzata alla strada già intrapresa. La scelta è ampia, con 2.073 corsi attivati, dei quali la maggior parte di secondo livello, ovvero per accedere ai quali è necessaria una laurea specialistica. Con un aumento del numero di master rispetto agli anni precedenti, per il 2013-2014 l'offerta degli atenei italiani e delle università telematiche è anche molto variegata. Per ciascuna area indicata nel dossier, il Management è la specializzazione più presente in tutte le sue forme, dal project management alla direzione di strutture complesse o al coordinamento di professioni sanitarie fino ad arrivare al management di grandi eventi ed expo 2015. Se si tiene conto non solo delle proprie attitudini ma soprattutto delle conseguenti possibilità occupazionali, i profili tecnici restano i più spendibili nel mondo del lavoro con master che puntino all'energia e alla green economy, spesso a cavallo tra l'ingegneria e l'architettura, dove la progettazione s'incontra con le moderne tecnologie. L'attenzione per le richieste che arrivano direttamente dalle aziende, spesso coinvolte in prima linea nell'organizzazione dei corsi, e le opportunità offerte dal mercato del lavoro, caratterizza sempre di più l'offerta degli atenei. Multidisciplinarietà è dunque la prima regola per chi, dopo il percorso universitario, intende acquisire competenze utili a trovare un impiego redditizio. Si tratta di master al passo con i tempi e in linea con l'evoluzione socio-culturale del paese. In ambito umanistico, oltre al web, particolare attenzione è riservata ai fenomeni migratori e alla mediazione interculturale o familiare. Gli specialisti della comunicazione, inoltre, possono fare un salto di qualità esplorando mete all'avanguardia sul digitale 3D, dagli Stati Uniti all'Australia. Non solo informatica e telecomunicazioni invece per chi si orienta all'area scientifica. Le nuove figure aziendali devono essere preparate al calcolo matematico per l'analisi di dati ed elaborazioni statistiche, saper gestire i rischi e trarre i profitti. Inoltre, se l'industria alimentare si fa avanti ricercando esperti di tradizioni enogastronomiche anche i settori della nutrizione e della cosmesi guadagnano popolarità con programmi di studio ad hoc per le esigenze di mercato. Mentre l'area medico-sanitaria, che offre il panorama più ampio di specializzazioni, riflette in pieno i bisogni legati a patologie sempre più diffuse con master dedicati al sostegno per le disabilità psico-motorie e alla chirurgia oncologica o alla medicina riproduttiva. Altro aspetto fondamentale è l'internazionalizzazione. Sono 56 i corsi che permettono di conseguire un doppio diploma, frequentando metà del corso in Italia e metà in un istituto partner all'estero. Un'opportunità che viene data soprattutto a chi frequenta master di area economica, ma che si trovano anche per altre aree, quali ingegneria e medicina. Accanto alle tradizionali mete europee, Francia, Germania e Inghilterra, e agli Stati Uniti, anche tante destinazioni in mercati dinamici, come Russia, Cina, India o Brasile. Fondamentale, quindi, la conoscenza almeno dell'inglese e una propensione per volare fuori dall'Italia almeno per un'esperienza di qualche mese. Nella scelta del master, si sa, gioca un ruolo fondamentale il rapporto costo-beneficio in cui l'elevato investimento economico deve essere ripagato con un'eccellente rete di contatti e rosee prospettive di carriera in Italia o all'estero. La guida del Sole 24 Ore fornisce tutte le informazioni sulle business school più rinomate e i ranking internazionali degli Mba, oltre a consigli pratici su come beneficiare di una borsa di studio o consultare le novità dei bandi regionali. _____________________________________________________ La Stampa 23 Sett. ‘13 LA "GENERAZIONE ERASMUS" FA RETE E BUSINESS LUIGI GRASSIA Altro che generazione perduta (leggi; senza lavoro e senza futuro). Quella di oggi è la Generazione Erasmus, che si appresta a conquistare l'Europa. Gli ex studenti del programma di scambio universitario dell'Ue fanno rete per tenersi in contatto dopo la• fine dell'esperienza, aiutarsi l'un l'altro a trovare e a creare lavoro e soprattutto a lanciare start-up, cioè aziende innovative. Ormai sono 3 milioni e a metterli insieme, per fare massa critica, è la fondazione garagErasmus creata da due giovani professionisti toscani, Francesco Cappè (già funzionario dell'Onu) e Marcò Mazzini (con un curriculum da manager di gruppi della comunicazione fra cui Zodiac). Se Umberto Eco ha celebrato la Generazione Erasmus come «quella dei primi cittadini autenticamente europei», adesso garagErasmus «ha l'ambizione di riunire - dicono i due fondatori - tutti i partecipanti al programma per creare un network di professionisti autenticamente europeo, ricorrendo soprattutto ai media digitali». L'iniziativa sta riscontrando grande attenzione sia fra gli ex Erasmus sia a livelló istituzionale e sarà presentata a Milano il prossimo venerdì 27 e alla Camera del Deputati il 3 ottobre. Il progetto Erasmus prende nome da Erasmo da Rotterdam come simbolo di cultura cosmopolita e permette agli studenti europei di trascorrere un intero anno accademico in un Paese diverso dal proprio vedendosi legalmente riconosciuto quel periodo dalla propria università di partenza. I tre milioni di ragazzi e ragazze che dal 1987 hanno colto quest'opportunità hanno vissuto un'esperienza che ne ha influenzato la vita in maniera durevole. Racconta Marco Mazzini (oggi quarantenne): «L'anno che ho passato a Parigi è stato magnifico, io venivo dalla provincia, per me è stata una palestra di vita, ho intrecciato relazioni bellissime con amici che poi sono rimasti tali per sempre». Incalza Mazzini: «Quelli che hanno fatto l'Erasmus si riconoscono fra loro. Con garegErasmus vogliamo tenere vivi e allargare i contatti ma non si tratta solo di un fatto sociale, non puntiamo a organizzare cene. Fin dall'inizio è stata un'idea di business che punta a creare delle opportunità concrete». Per esempio? «Per esempio abbiamo già un elenco di 5 mila ragazzi e ragazze che hanno finito l'Erasmus da poco e ancora non hanno lavoro; presto saremo organizzati per mandare i loro profili alle aziende che cercano personale in tutta Europa. E stiamo per lanciare un'iniziativa di "crowdfunding" (cioè finanziamento dal basso, mobilitando un gran numero di persone) a livello europeo a sostegno delle start-up». Il sito www.garagerasmus.org contiene anche l'applicazione Check-in Europe dove ci si può registrare. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 24 set. ’13 IL DIRITTO ALLO STUDIO DEI MEDIOCRI NON GARANTISCE IL POSTO DI LAVORO di ROGER ABRAVANEL L'altro giorno, nel corso di una trasmissione televisiva, il nostro premier ha ripreso con calore il tema del «diritto alla studio». Ha deplorato il fatto che da noi l'«ascensore sociale» si è bloccato e che una volta «i figli dei non abbienti potevano laurearsi e diventare professori universitari». Ha poi descritto il pacchetto d'iniziative del suo governo a sostegno del «welfare dello studente», tra cui cento milioni di euro in borse di studio. L'urgenza di affrontare il problema dell'uguaglianza di opportunità nello studio e nella società italiana è pienamente giustificata. In Italia c'è una disoccupazione giovanile spaventosa che colpisce soprattutto i non laureati, checché se ne dica. I laureati sono figli di famiglie più ricche. Con la crisi gli iscritti all'università calano, l'università è sempre meno un ascensore sociale e la società italiana continua ad essere la più bloccata e ineguale d'Europa. Ma quale diritto allo studio serve oggi all'Italia? Non certo quello che ha visto proliferare le «università sotto casa». Né quello delle lauree facili, che non portano all'occupazione perché le aziende non credono più ai 110 e lode di molteuniversità, soprattutto del Centro-Sud. Non certo quello del parcheggio universitario, con il record mondiale di fuoricorso e di giovani che s'affacciano al mercato del lavoro per la prima volta a 27 anni, disoccupati che non vuole (quasi) più nessuno. Non il diritto alla laurea tre anni più due, che dev'essere sempre cinque perché, sennò, «non è una laurea seria». Non quello del caos nella selezione alle università, perché il voto alla maturità non vuole dire nulla e i test «fai da te» di molti atenei sono altrettanto poco credibili. Non quello delle centinaia di borse di studio date ai mediocri (selezionati in base a una maturità falsa) o ai figli di evasori fiscali (selezionati con la dichiarazione dei redditi, anch'essa falsa). E allora di quale «diritto allo studio» hanno bisogno i nostri giovani? Di un diritto allo studio che serva come acceleratore del «diritto al lavoro». Innanzitutto, per creare lavoro servono anche i professori universitari di cui parla il premier: non come sbocco di carriera, ma come docenti di una nuova generazione di giovani, con le competenze che si chiedono nel mercato del lavoro del Duemila e che sono radicalmente diverse da quelle di cinquant'anni fa. I professori universitari devono essere gli «ascensoristi», non i passeggeri dell'ascensore sociale. E per evitare che i cento milioni di euro per le borse di studio finiscano a sostenere privilegi e a diluire ulteriormente il merito, è fondamentale che vadano assegnate per le università «migliori», valutate non solo per i meriti accademici, ma anche perché i loro laureati trovano più facilmente lavoro. Oggi la variabilità del tasso di occupazione dei neo-laureati è alta e non dipende solo dal contesto economico locale, basta vedere i dati del consorzio Alma Laurea: un anno dopo l'uscita dall'università, alla Sapienza a Roma, il 67 per cento dei nuovi ingegneri e il 59 dei laureati in Economia sono occupati, contro il 74 per cento e il 65 di Roma Tre. Purtroppo, oggi, non si può sapere quali siano le università «migliori» nel formare i giovani per il lavoro, perché l'ente che «certifica» la bontà delle università italiane, l'Anvur, l'agenzia nazionale di valutazione, non valuta la didattica, ma solo la ricerca. Poi è auspicabile che queste borse di studio vadano date ai laureati con laurea triennale più che magistrale, per mandare più giovani sul mercato del lavoro, in tempi rapidi, e creare degli incentivi che rompano il tabù della «laurea vera». Queste borse di studio devono poi andare ai veri meritevoli che superano i test d'ingresso delle università più difficili (e in futuro, si spera, un test nazionale standard che sarebbe la unica soluzione al caos attuale). Sul Corriere abbiamo già illustrato la sperimentazione in corso al Politecnico di Milano e a Ca' Foscari, per capire se si possano sostituire i test d'ingresso all'università con il test Invalsi. Infine, le borse di studio vanno date a chi ne ha veramente bisogno, non guardando la dichiarazione dei redditi ma altre misure che pure esistono: per esempio, qualche anno fa, fu lanciata la social card che permise, dopo un lavoro di ricerca, d'identificare le famiglie italiane davvero povere. Soprattutto, queste borse vanno date chiedendo un impegno alle aziende italiane. Il premier dovrebbe dire alle aziende: «Io pago la borsa di studio e chiedo agli studenti di fare un percorso di stage o d'apprendistato presso le vostre aziende. Voi però dovete mettere a disposizione i posti di lavoro». meritocrazia.Corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA Pagina Corrente Pag. 43 _____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 set. ’13 PROF BOCCIATI DAGLI STUDENTI I RETTORI: MA GIUDICARE SERVE I dirigenti: in questo modo miglioriamo l'offerta Ritardatari, poco disponibili, spesso introvabili. Dunque, bocciati. Succede all'università di Padova, dipartimento di Scienze economiche e aziendali, dove due professori (esterni) si sono visti negare il rinnovo del contratto per la valutazione negativa fatta dagli studenti. La reazione causa-effetto non è così immediata: se rinnovare o no l'incarico lo decide, a maggioranza, il consiglio di dipartimento. Che in questo caso, però, si è spaccato (10 voti a 11) dopo che gli studenti avevano lamentato le mancanze dei due prof (ritardi, colloqui svolti al bar e non in facoltà, assenza di indicazioni sui criteri di assegnazione dei voti), «certificate» dal feedback negativo ricevuto nei questionari annuali (obbligatori dal 2005) che misurano il gradimento degli studenti verso i docenti. «La nostra è un'epoca grillina — si è difeso uno dei "bocciati" sul Corriere del Veneto —: le minoranze strillano e ottengono». Strapotere degli studenti? «Chi frequenta un'università pubblica paga ed è giusto che pretenda qualità. I questionari di valutazione sono uno strumento utile per ottenerla» commenta Pierdomenico Perata, rettore della Scuola superiore Sant'Anna di Pisa. Qui la valutazione «dal basso» si attua su tre livelli: «Il questionario obbligatorio e anonimo (predisposto dall'Anvur a livello nazonale, ndr) dato a fine corso a tutti gli studenti, prima dell'esame; un questionario che valuta la Scuola nel suo insieme; infine la valutazione espressa una volta l'anno da un comitato esterno di docenti stranieri che, per raccogliere le impressioni degli studenti, adottano anche metodi più informali, come cenare con loro». Metodi attuabili in una realtà circoscritta come il Sant'Anna. Ma anche sui grandi numeri — Perata ne è convinto — «la valutazione è uno strumento indispensabile per migliorare un ateneo». Come? «Recependo le indicazioni. Quest'anno, per esempio, abbiamo dato meno spazio alla didattica frontale a vantaggio di una più attiva». «La valutazione è uno strumento perfettibile — gli fa eco Massimo Augello, rettore dell'Università di Pisa — ma aiuta a correggere situazioni poco favorevoli». Quali? «Spostare un docente su un insegnamento più adatto alle sue competenze». Dati da maneggiare con cautela: «Un episodio non basta, un giudizio negativo è significativo se si ripete negli anni». Fattore tempo decisivo anche secondo Giovanni Latorre, rettore dell'Università della Calabria: «Assieme al servirsi di diverse fonti: il giudizio degli studenti è solo una variabile. Anche perché il rigore eccessivo di un professore potrebbe influenzarne la valutazione». Un rischio su cui Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano, è più ottimista: «Non credo che la valutazione possa diventare un'arma, se non in casi isolati». Al Politecnico i giudizi sono pubblici, visibili sul sito dell'ateneo: «Ci aiutano a capire quali interventi fare, ma senza automatismi: non c'è una soglia sotto la quale si viene "bocciati". Su 4 mila corsi, i casi oggetto di attenzione sono il 5 per cento». I docenti rischiano poco dalle bocciature, non essendo licenziabili. Diverso è il caso di quelli a contratto, come i due padovani. Che, alle accuse, rispondono di essere docenti part time, professionisti in altri ambiti, in difficoltà a rispettare parametri come puntualità e frequenza. «Parametri basati su reali esigenze didattiche», nota Daniele Checchi, professore di Economia politica alla Statale di Milano che sulla sua pagina web pubblica le «pagelle» dategli dagli studenti. Non si finisce con l'escludere dall'università il valore aggiunto portato da professionisti esterni? «Per questo esistono strumenti diversi dalla docenza a contratto, usiamoli». Giulia Ziino @giuliaziino _____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 set. ’13 IL PARERE NEGATIVO DEGLI STUDENTI NON TOCCA DAVVERO I DOCENTI DI RUOLO Ha suscitato clamore la vicenda dei due docenti a contratto dell'ateneo padovano, cui non è stato rinnovato l'incarico a seguito del giudizio negativo espresso dagli studenti. Lezioni saltate, esami svolti al bar, scarsa disponibilità al dialogo individuale sono alcuni tra i rilievi mossi. Da molti anni nelle università italiane gli studenti valutano i professori su appositi moduli predisposti dalla universitàstessa. Se togliamo tuttavia la meritata vetrina che la stampa locale talvolta concede ai docenti «più amati», non è chiaro quale altra conseguenza abbia per gli insegnanti di ruolo il fatto di essere valutati ottimi o pessimi: certo non ricevono minorazioni o maggiorazioni di stipendio, né la cosa rileva sulla carriera accademica. La realtà è che i questionari compilati dagli studenti, più che alla valutazione, fanno pensare ai moduli sul gradimento del servizio che si riempiono nelle grandi catene di distribuzione, i quali, come è noto, servono non a valutare la prestazione ma a gratificare il cliente, dandogli l'impressione che il suo parere conti qualcosa. Invece non conta nulla. Dal modello delle università americane, dove il giudizio degli studenti è un fattore decisivo per la conferma nella docenza di qualunque insegnante, fosse anche un premio Nobel, abbiamo importato solo la scatola vuota. Ed è un gran male, che riflette la doppia distorsione con cui il nostro sistema considera l'accademia e il mondo accademico considera se stesso: da un lato, la didattica è ritenuta una fastidiosa appendice dell'attività di studio, dimenticando che l'università è fatta di insegnamento e ricerca, e che le due attività dovrebbero non solo stare sullo stesso piano, ma integrarsi e fecondarsi a vicenda; dall'altro, si finge di ignorare che i principali stakeholders dell'università sono proprio gli studenti. Gli altri (aziende, centri studi privati, libere professioni, case editrici...) vengono dopo. Quanto è successo a Padova riguarda, attenzione, non due docenti stabilizzati, ma due avventizi, il cui contratto impegna l'ateneo solo annualmente, peraltro con un esborso modestissimo. Poco per parlare di un'inversione di tendenza, forse abbastanza per cominciare a porre la questione. Paolo Ferratini _____________________________________________________ Liberazione 3 Ott. ‘13 USA: LIBERARE L’UNIVERSITÀ Thomas Frank, The Baffier, Stati Uniti Un tempo erano sinonimo di eccellenza. Oggi le università statunitensi sono macchine da soldi che sfornano laureati pieni di debiti. Il capitalismo accademico ha vinto, scrive Thomas Frank Gli studenti americani sono agnelli che trottano allegramente verso il macello L'università è diventata un articolo di lusso, come un capo di Armani Il sistema non può andare avanti così. È palesemente una frode a tutti i livelli Questo articolo parte da un'utopia, l'utopia dell'università statunitense. Tutti ci dicono che è la migliore del mondo. Anzi, a giudicare dagli elogi che riceve, forse è la migliore istituzione statunitense in assoluto. Con i suoi campus idilliaci e le sue attività di ricerca avanzata, l'università arricchisce spiritualmente più della chiesa, educa più della famiglia, produce più di qualsiasi industria. L'universitàcoltiva sogni. Come altre utopie, come il mondo di Walt Disney, come i paesaggi paradisiaci che appaiono nelle pubblicità dei profumi, come le eroiche gare delle Olimpiadi, l'università è il luogo della realizzazione dei desideri e delle infinite possibilità. È la crociera di lusso che in quattro anni ci trasporterà dolcemente oltre il golfo della nostra classe sociale. È la porta per accedere alla terra del benessere. Non è l'università a dirci queste cose, le dicono tutti. Lo dice il presidente degli Stati Uniti. Lo dicono i più stimati economisti e commentatori politici. Gli eroi del mondo degli affari e dello sport. I nostri insegnanti preferiti e i consulenti per l'orientamento e forse anche la nostra mamma tigre. In fondo, loro ci sono andati. Lo sanno. Alla fine della scuola superiore gli studenti americani si preparano alla vita universitaria come bambini che scrivono la letterina a Babbo Natale. Promettiamo di comportarci bene. Di aprire il nostro cuore all'amata istituzione. Di prendere buoni voti. Di fare del nostro meglio nei test di selezione. Scriviamo in tutta sincerità quale sarebbe la nostra prima, seconda e terza scelta. Diciamo quello che vorremmo fare da grandi. Confidiamo tutti i nostri desideri. Guardiamo le fotografie di studenti che sorridono, visitiamo il campus e scopriamo, immancabilmente, che è bellissimo. E quando arriva la tanto attesa lettera di accettazione, quello è il nostro più grande momento di affermazione personale. Le nostre fatiche sono state premiate. Siamo stati scelti. Poi passa qualche anno, e un giorno scopriamo che non esiste nessun Babbo Natale. Siamo stati ingannati. Abbiamo accumulato centomila dollari di debiti, e non sappiamo come uscirne. Non abbiamo nessuna prospettiva. E se i nostri maledetti sogni sono stati tanto folli da spingerci a prendere un dottorato, allora sì che impariamo una lezione. UN LUOGO COMUNE Tutto è cominciato quando la gente ha iniziato a pensare che una laurea garantisse l'accesso alla classe media: avremmo creato una repubblica modello di cittadini-studenti, che grazie ai loro successi accademici avrebbero raggiunto i livelli più alti del capitalismo aziendale. I feticci dell'arrampicatore sociale moderno erano un titolo di studio e un ufficio con enormi finestre. I migliori avrebbero avuto il benessere garantito. E molti continuano ancora a crederci, nonostante tutto quello che è successo nelle università e nelle aziende. Ogni tanto ci preoccupiamo dei professori troppo di sinistra, ma l'università è ancora il posto dove andiamo per "scrivere il nostro destino", come ha detto Barack Obama nel 2010 a proposito dell'istruzione in generale. Andate all'università, altrimenti il vostro destino sarà scritto da qualcun altro. La laurea è un "prerequisito per tutti i lavori del ventunesimo secolo", dice il sito della Casa Bianca. Lo stesso Obama fa coincidere l'istruzione con la mobilità sociale: più istruzione equivale a più successo, e alla grandezza nazionale. "Le opportunità che vi saranno offerte dipenderanno da quanto studierete", ha detto qualche anno fa. "In altre parole, più si studia, più si andrà avanti nella vita. E in un'epoca in cui gli altri paesi competono con gli Stati Uniti come non hanno mai fatto prima, in cui gli studenti di tutto il mondo lavorano più sodo che mai, e ottengono risultati sempre migliori, il successo scolastico contribuirà anche a determinare quello degli Stati Uniti nel ventunesimo secolo". Ormai è diventato un luogo comune. Tutti lo dicono. È ovvio. L'editorialista del New York Times Thomas Friedman, che da qualche anno si è autonominato lord protettore della cultura, lo ripete continuamente: se volete guadagnarvi da vivere decentemente, dovete acquisire il livello di istruzione e di competenze che richiede la classe imprenditoriale. Il ritornello dell'importanza dell'istruzione superiore è forse il cliché più diffuso del paese. E così il sogno si perpetua. L'istruzione è l'unica cosa che potrà salvarci quando dovremo affrontare la concorrenza diretta di Cina, Vietnam e Filippine, dicono i giornalisti. Le disparità di reddito sono legate ai livelli di istruzione, fanno eco gli economisti: per ristabilire l'equilibrio bisogna studiare di più. Anzi, l'istruzione è praticamente l'unico modo per giustificare il nostro stipendio, l'unico elemento quantificabile che testimonia il nostro valore e le nostre "competenze". La confraternita dei laureati Quantificabile, sì, ma in modo piuttosto vago. Nessuno sa esattamente che tipo di istruzione potrebbe salvarci. Ancora una volta, è un sogno, una formula segreta, una scatola nera in cui versiamo denaro e da cui escono prestigio sociale, ricchezza e realizzazione dei desideri. Come possa l'istruzione universitaria compiere questi miracoli con la matematica? con i classici? -è oggetto di grandi discussioni. L'unica cosa certa è che le persone che sono andate all'università sono ricche. Ne consegue naturalmente che mandando più persone al college, il paese sarà più ricco. In realtà, a giudicare dall'idea che si è fatta la gente comune, questa istituzione da sogno potrebbe non essere altro che una specie di confraternita che si autoperpetua. Forse l'università riesce nella sua impresa magica perché i laureati assumono solo laureati, e dopo aver tessuto per decenni questa "ragnatela di rapporti personali" che come tutti sanno è più importante dei libri letti i laureati sono riusciti a colonizzare l'intera economia. Nessuno sa per certo come funziona, ma tutti vedono che funziona, e questo basta. Se prendi una laurea in una "buona università" i tuoi sogni si realizzeranno. Se invece prendi un diploma da estetista o decidi di fare l'autotrasportatore, sei un perdente. Non ci fermiamo mai a pensare che forse le cose sono andate esattamente al contrario: all'apice della loro popolarità le grandi università sono cresciute per soddisfare le richieste delle imprese, non per costruire la classe media. Quello che tutti pensano, invece, è che l'industria dell'istruzione superiore garantisce una vita agiata, e che è l'unica autorizzata a farlo. Certo, possiamo scegliere tra tante università, pubbliche e private, ma tutte insieme controllano l'unica credenziale che riteniamo abbia un qualche valore. Lo pubblicizzano in tutti i modi: con i loro motti araldici, le torri gotiche, perfino i loro nomi, che evocano l'idea del denaro, dei privilegi e dell'aristocrazia: Duke, Princeton, Vanderbilt. Se vuoi farcela, devi andare lì, sono loro che controllano le porte del successo. Quello che vendono, in altre parole, è un bene così prezioso che è quasi impossibile misurarne il valore. Chiunque abbia un po' di buonsenso dovrebbe essere disposto a pagare qualsiasi prezzo per averlo. Lo conferma il fatto che questa stessa industria, che per legge non dovrebbe avere nessuno scopo di lucro, oggi si pone obiettivi non molto diversi da quelli delle aziende basate sul profitto quotate alla borsa di Wall street. L'arrivo del "capitalismo accademico" è stato annunciato per anni. E ora è qui. College e università rivendicano avidamente brevetti farmaceutici e quote di proprietà di startup tecnologiche, si vantano di essere "imprese", hanno razionalizzato e dato in appalto molte attività per fare più soldi, trattano i dipendenti quasi con la stessa ferocia dei padroni delle ferrovie dell'ottocento, e le più ricche hanno trasformato le loro sovvenzioni in fondi d'investimento ad alto rischio. Ora pensate al "cliente" di 17 anni che deve affrontare questi predatori. Arriva al tavolo delle contrattazioni armato più o meno della stessa scaltrezza con cui, qual- che anno prima, si sedeva in braccio a Babbo Natale in un centro commerciale. Di sicuro sa tutto sull'assoluta necessità di realizzare i suoi sogni, e sul vantaggio sociale che comporterà aver frequentato quell'istituzione. Se non va al college come tutti i suoi amici, dovrà andare a lavorare. Conosce abbastanza il mondo da sapere che genere di lavoro può trovare con in tasca solo il diploma di scuola superiore, ma dell'università sa ben poco. È l'opposto di un consumatore informato. Eppure ci va lo stesso, armato solo della capacità di pagare qualsiasi prezzo gli venga chiesto dalla scuola dei suoi sogni. L'unica cosa che deve fare è firmare la richiesta per un prestito, accettando di essere vincolato per sempre a uno strumento finanziario oscuro e che, grazie all'ottimismo dell'adolescenza, non ha ancora imparato a temere. NESSUN CONTROLLO La maledizione che l'università ha gettato sui giovani americani è il risultato diretto e ineluttabile di questa sinistra equazione. Certo, in alcuni casi le variabili sono diverse e le conseguenze meno terribili. Ma, in generale, una volta entrati in gioco i fattori che ho appena indicato, è una semplice questione matematica. Concedi a un'industria il controllo sull'accesso a tutte le cose belle della vita, spingila a diventare un'istituzione mercenaria senza scrupoli orientata esclusivamente al mercato, convinci i maestri del pensiero a dichiarare che è la risposta a tutti i problemi, metti a tacere i dubbi della gente, e poi consegna a quell'industria i tuoi figli ignari, armati solo di un assegno in bianco sul loro futuro. È inevitabile. Mettendo insieme questi quattro fattori, naturalmente i costi saliranno alle stelle, fino ai 6omila dollari all'anno che oggi chiedono alcuni college privati. E naturalmente i giovani s'indebiteranno per tutta la vita; naturalmente l'università userà quello che sa di loro i college che possono scegliere, le visite ai campus, le speranze per il futuro per spremere fino all'ultimo dollari da quei ragazzi. Sono agnelli che trottano allegramente verso il macello. È la conseguenza inevitabile del nostro amore per l'università e per il mercato. È la stessa lezione che dovremmo aver imparato da tante altre disastrose privatizzazioni. Con la nostra passione per l'impresa e la meritocrazia, ci siamo dimenticati che forse il mercato non è la soluzione per tutto. Qualche mese fa mi ha scritto una casa editrice specializzata in testi universitari. Voleva ripubblicare un mio articolo che aveva trovato su internet, dove può essere scaricato gratuitamente. L'antologia in cui voleva inserirlo sarebbe stata venduta "a un prezzo molto basso", quindi si chiedeva agli autori di ridurre al minimo le loro richieste economiche. Il prezzo molto basso che gli studenti avrebbero pagato era di "circa" 75,95 dollari. Sono rimasto sbigottito, ma dopo aver fatto una rapida ricerca mi sono reso conto che, in effetti, 76 dollari era un prezzo molto basso per gli standard del settore. Oggi è più probabile che un libro di testo costi intorno ai 25o dollari. Secondo un economista, negli ultimi 35 anni il prezzo dei testi universitari è aumentato dell'8iz per cento, superando di gran lunga non solo il tasso d'inflazione ma anche l'aumento dei costi di beni e servizi come la casa e la sanità, che ormai consideriamo fuori controllo. La spiegazione è semplice. Gli editori di libri di testo usano tutti i trucchi degli esperti di marketing per rendere i loro prodotti obsoleti anno dopo anno, in modo che diventi impossibile comprarli di seconda mano. Inoltre, l'editoria didattica è nelle mani di pochissimi editori- praticamente un oligopolio che quindi possono aumentare i prezzi dei libri quanto vogliono. Tanto i professori, che li scelgono e che potrebbero fare qualcosa per impedirlo, non li pagano. Ma non basta. La verità è che rapine del genere sono comuni in tutto il mondo accademico: ogni aspetto dell'istruzione superiore è stato colonizzato da monopoli, cartelli e predatori che nessuno controlla. L'ingenuo studente americano è diventato una mucca da mungere, e tutti hanno inventato un sistema per prendersi la loro parte. Pensate all'industria dei test per l'ingresso all'università e alla sua ombra, quella dei corsi preparatori. Entrambe guadagnano da anni alimentando un'inutile competizione tra i giovani preoccupati che i loro sogni siano cancellati da quelli di qualcun altro. Le aziende che preparano i test, ognuna delle quali detiene il monopolio su un settore specifico, chiedono agli studenti quote di registrazione altissime, pagano stipendi da favola ai loro dirigenti e tramano per allargare l'impero dei test standardizzati, per esempio convincendo sempre più studenti delle superiori a sostenere un esame preparatorio all'università. Hanno invaso anche le scuole elementari, dove il programma No child left behind e la tendenza a offrire un "programma di base comune" hanno aperto la strada all'uso dei test. Nel frattempo, gli addetti alla preparazione cercano di stare al passo: chiedono agli studenti cifre ancora più alte e cercano di convincere le nuove generazioni gli alunni delle elementari che anche loro hanno bisogno di corsi di preparazione. Ogni tanto, sui giornali qualcuno scrive che questo tipo di preparazione influisce molto poco sui punteggi finali, ma anche quegli articoli influiscono molto poco. Quale genitore pensa a risparmiare quando è in gioco il futuro di suo figlio? Così il boom dei corsi di preparazione dura da decenni. L'azienda più famosa del settore, la Kaplan, ha aperto succursali in tutto il mondo. Anche se tecnicamente appartiene alla Washington Post company, da anni i suoi ricavi superano di gran lunga quelli del giornale. Per non parlare dell'industria delle risposte ai test. Casi di frode di massa sono emersi a Harvard, alla prestigiosa Stuyvesant High, alle rigorosissime Atlanta public schools, e in Corea del Sud, dove qualche mese fa hanno dovuto annullare i risultati dei test d'ingresso alle università di tutto il paese. Pensate poi all'industria delle "iscrizioni", che aiuta i college e le università ad avere il numero di studenti che desiderano. Dato che in molti casi questo significa studenti che possono pagare l'esatto contrario dell'apertura che molte università dicono di avere a cuore il compito della caccia alle iscrizioni è lasciato a società di consulenza che usano gli strumenti del marketing per scoprire la "sensibilità ai costi" degli studenti. Ma se concedi uno sconto a uno studente che ha ottenuto un certo punteggio, questo basterà a convincerlo a pagare il resto della retta e a scegliere la tua università? Cosa puoi fare per convincerlo? I consulenti sanno quale sconto possono offrire per aumentare gli introiti dell'ateneo e tenere alto il punteggio necessario per accedervi. Pensate agli accordi segreti così comuni tra le amministrazioni delle università e gli uomini d'affari che siedono nei loro consigli di amministrazione. Pensate alle compravendite immobiliari degli atenei, che sono spesso poco trasparenti e quasi sempre esentasse. Pensate all'esercito di lobbisti che lavorano per loro a Washington, per ottenere fondi ed evitare controlli. Pensate ai loro grandi investimenti nello sport. O ai loro loschi accordi con i produttori di tabacco, le case farmaceutiche e l'industria tecnologica. Infine, pensate alle tante università che hanno aumentato le tasse portandole a livelli stratosferici senza motivo, approfittando della strana credenza popolare secondo cui il prezzo è indice di qualità. Nonostante tutti gli articoli e le denunce, non è possibile togliere dalla testa della gente questa idea del rapporto tra prezzo e qualità, quindi l'università diventa inevitabilmente un articolo di lusso, come un capo di Armani da portare per tutta la vita che costa una fortuna ma non ha nessun valore intrinseco. "È una specie di trofeo, un simbolo", ha dichiarato al Washington Monthly nel 2010 l'ex rettore della George Washington university parlando della sua strategia per far entrare l'ateneo nell'olimpo universitario aumentando enormemente le tasse. "È il simbolo di quello che credono di essere". È anche un'idea meravigliosamente circolare, no? Sappiamo che con una laurea si diventa ricchi perché i ricchi sono laureati. E sappiamo che dobbiamo spendere molti soldi per pagare il college perché siamo convinti che gli status symbol devono essere estremamente costosi. Se ci pensate bene, viene il sospetto che forse l'istruzione si riduce agli adesivi dell'università che mettiamo sulla macchina. DOVE FINISCONO I SOLDI Lo scandalo del giorno nel settore dell'istruzione riguarda la Cooper union, la prestigiosa scuola d'arte e architettura dì Manhattan che, da quando è stata fondata nel 1859 e fino all'anno scorso, ha offerto un'ottima formazione gratuita a tutti quelli che riuscivano a essere ammessi. Lo faceva gestendo in modo oculato i limitati fondi generati dal suo lascito iniziale. Ora non se lo può più permettere e ha annunciato che il prossimo autunno comincerà a chiedere agli studenti ventimila dollari all'anno. Il motivo è che la Cooper union, come tutti gli altri istituti di istruzione superiore statunitensi, qualche anno fa ha deciso che doveva pensare in grande, rinnovarsi e costruirsi un marchio. Il primo passo è stato far costruire un costosissimo trofeo architettonico di fronte alla sua sede originaria. Purtroppo, la Cooper non aveva i soldi per costruire il suo elegante grattacielo, così, come fanno tante società, ha dovuto chiedere in prestito una somma enorme. La fine della "gratuità del servizio" è stato un danno collaterale. Meglio diventare famosi per un' "esaltante" opera di architettura, che per sciocchezze di altri tempi come offrire un'opportunità ai meno abbienti. La storia della Cooper union è tipica dell'era del capitalismo universitario, e non è difficile trovare altri esempi delle spese inutili e stravaganti che caratterizzano le istituzioni accademiche statunitensi di oggi, e le rendono "le migliori del mondo": le squadre sportive che riempiono di orgoglio gli ex studenti, le fantastiche palestre e i raffinati ristoranti per attirare i ragazzi della buona società, i professori famosi a cui bisogna offrire una cattedra, anche se non conoscono la materia che devono insegnare. Ma a intascare la maggior parte del bottino sono i padroni stessi dell'accademia. E non mi riferisco solo al numero crescente di rettori che portano a casa stipendi annuali superiori a un milione di dollari. Naturalmente questo è un vergognoso spreco di denaro preso in prestito da Wall street in un'epoca in cui dovremmo fare esattamente il contrario. Ma quello che ha fatto veramente aumentare l'indebitamento degli studenti è l'assurda proliferazione del personale amministrativo. Il politologo Benjamin Ginsberg racconta questa triste storia nel suo libro del 2011 Thefallofthefaculty. Un tempo le università statunitensi erano governate dai professori, che sottraevano tempo alla ricerca per occuparsi degli affari dell'istituzione. Oggi invece questo aspetto economico è gestito da una categoria di professionisti che non ha niente a che vedere con l'aspetto pedagogico dell'istituzione. Sono solo amministratori. Sono sempre di più, si attribuiscono stipendi generosi e il loro lavoro, che nessuno controlla, non è neanche troppo faticoso. La maggior parte di loro non insegna, non litiga con i colleghi e nessuno pensa mai di sostituirli con un supplente. Quando le tasse universitarie aumentano, sono gli amministratori che si arricchiscono. Le loro fortune sono l'immagine speculare dell'indebitamento degli studenti. Secondo Ginsberg, oggi "il numero degli amministratori supera di gran lunga quello dei professori a tempo pieno", anche se sono i docenti a fare il lavoro educativo che consideriamo tanto importante. Le cifre sono sorprendenti. Mentre dal 1975 a oggi il numero dei professori a tempo pieno è aumentato più o meno parallelamente all'aumento delle iscrizioni, cioè di circa il 5o per cento, gli uffici amministrativi si sono allargati enormemente. Il personale è aumentato dell'85 per cento, mentre il numero di altri "professionisti" che lavorano per le università è cresciuto del 240 per cento. E la quota di bilancio che viene usata per pagarli è aumentata di conseguenza. Il manager al comando Naturalmente sotto gli alberi dei campus è scoppiato un nuovo conflitto di classe. Sembra che gli amministratori abbiano capito che le loro fortune sono inversamente proporzionali a quelle dei docenti. Il benessere di un gruppo è garantito a spese dell'altro e viceversa. E così, secondo Ginsberg, gli amministratori sono costantemente impegnati ad aumentare il proprio numero, a sostituire i titolari di cattedra con incaricati, a sottoporre i professori a piccole umiliazioni, a interferire nelle assunzioni, a ridurre la competenza dei docenti a qualcosa che può essere misurato da un test standardizzato. Ma la lampadina si accende quando si legge la descrizione delle loro attività quotidiane fatta da Ginsberg. L'unica pedagogia alla base del comportamento di questa specie di animali universitari è la teoria del management. Parlano continuamente di "gestione dei processi" e di "eccellenza". Creano "comitati culturali". Partecipano a ritiri in cui si fanno giochi finalizzati al team-building. Interi uffici sono dedicati alla stesura di "piani strategici" per le università. Il fatto che chi prende le decisioni definitive sul destino delle nostre istituzioni sia guidato da una pseudocultura è paradossale, ma anche rivelatore. Lo scopo della teoria del management, dopotutto, è confermare la legittimità di un ordine e di una classe sociali che, in pratica, sono poco più che droni telecomandati. Il grottesco sbilanciamento verso l'alto delle aziende statunitensi è noto: abbiamo più supervisori per lavoratore di qualsiasi altro paese industrializzato, e naturalmente abbiamo prodotto un'ampia letteratura di false teorie sociali per convincere i supervisori del loro diritto a esistere, una letteratura che consiglia anche a tutti gli altri di accettare la propria posizione subordinata nella Grande catena del libero mercato. DOCENTI PROLETARIZZATI La deprofessionalizzazione del corpo docente è un'altra tragedia che va avanti da tempo e diventa ogni anno più triste, dato che insegnare all'università è sempre più un'occupazione a tempo determinato, senza indennità accessorie e senza sicurezza di continuità. Questi professori proletari, che hanno impiegato anni a conseguire titoli di studio avanzati ma che spesso guadagnano meno del salario minimo, costituiscono ormai i tre quarti del corpo docente delle prestigiose e follemente costose università statunitensi. Il loro numero aumenta perché gli atenei continuano a produrre molti più ricercatori di quante siano le cattedre disponibili, e ogni volta che bisogna ridurre le spese, cioè quasi sempre, sono proprio le cattedre a essere eliminate. Cosa posso aggiungere a questa orribile storia? Che da vent'anni continua a peggiorare? Ma c'è qualcosa di nuovo da dire sulle umiliazioni che i professori proletari subiscono dai loro cosiddetti colleghi? E qualcuno rimarrebbe sconvolto se descrivessi la vita squallida e disperata che conducono mentre inseguono il loro sogno universitario? Servirebbe a qualcosa ricordare ai lettori che i professori di trent'anni fa hanno contribuito a mettere in moto le forze della distruzione perché per loro creare più ricercatori significava lavorare di meno? No. Quello che conta è che ormai è fatta. Abbiamo visto tutti come sono andate le cose e quali discipline hanno avuto la peggio. Si dà il caso che siano proprio quelle che negli anni ottanta erano insegnate dalle persone più famose, più rispettate, più teoricamente avanzate, più aggressive e che incutevano maggior soggezione. I loro eredi, i loro studenti, sono stati trasformati in lacchè a salario minimo. Un tempo erano i protagonisti dell'università e ora guardate cosa sono diventati. La loro caduta ci dimostra con quanta facilità si possono far crollare i sistemi di questo tipo. Nella meritocrazia non c'è nessuna solidarietà, neanche di facciata, come ha dimostrato l'antropologa Sarah Kendzior in una serie di articoli sulla situazione dei professori a contratto. Nel mondo accademico quasi tutti pensano di essere stati i ragazzi più intelligenti della loro classe, quelli con i voti più alti. Sono convinti, per definizione, di essere dove sono perché se lo meritano. Sono i migliori. Quindi è facile per i professori di ruolo dire che a lamentarsi della deprofessionalizzazione sono solo quelli meno preparati che non riescono a farcela. Anche molti professori a contratto hanno difficoltà a prendersela con il sistema quando presentano inutilmente domanda per un posto di ruolo o corrono da una parte all'altra della città per fare un secondo o un terzo lavoro. Dopotutto, forse sono loro a non essere all'altezza. E così, sprofonderanno nella melma tutti insieme. Il sistema non può andare avanti così. È palesemente una frode a tutti i livelli, e fa troppe vittime. Uno di questi giorni arriverà a un punto critico, come è successo per la Enron, la new economy e la bolla immobiliare, e tutte le belle parole dei nostri maître à penser saranno ricordate per farli apparire come gli imbecilli che sono. Non sappiamo ancora che forma assumerà la giustizia cosmica: forse quella dei corsi online gratuiti, o di uno sciopero nazionale dei docenti, o del fallimento per debiti di un paio di università prestigiose, o forse la destra finalmente si accorgerà che la logica economica degli atenei contrasta con il liberismo sociale. È facile capire cosa bisognerebbe fare per migliorare la situazione dell'istruzione superiore, c'è un'ampia letteratura sull'argomento. Molti hanno capito da anni che è uno scandalo. Tutti gli esempi e le argomentazioni che ho portato sono già stati usati da qualcun altro. In fondo, molti di quelli che hanno assistito al suo declino sono persone che sanno scrivere. Alla fine degli anni ottanta il paese era già in rivolta per l'aumento delle tasse universitarie. Bill Readings ha pubblicato la sua deprimente previsione, The university in ruins, nel 1996. Nello stesso anno sul Wall Street Journal era uscito uno sconvolgente articolo di prima pagina su come venivano gestite le iscrizioni. La proletarizzazione dei ricercatori è stata oggetto di varie denunce dai tempi dello sciopero degli assistenti di Yale a metà degli anni novanta. Io ho due libri sull'argomento, ma senza dubbio ne esistono molti altri. L'analisi di Chris Newfield sul managerialismo delle università è apparsa nel 2003, e University Inc. di Jennifer Washburn nel 2005. Stanley Aronowitz ha previsto il declino dei docenti universitari nel 1997, e Frank Donoghue ci ha detto esattamente come sarebbe andata a finire in The last professor, pubblicato nei 2008. Quello che dovrebbe succedere è la totale inversione di quanto ho descritto finora. I college dovrebbero diventare gratuiti o molto economici. Dovrebbero essere ampiamente sovvenzionati dallo stato. E la concorrenza tra le università statali dovrebbe far scendere i prezzi. Gli sprechi di denaro per pagare tutto quel personale amministrativo, un rettore prestigioso e una squadra di football semiprofessionale dovrebbero essere eliminati. Le agenzie di certificazione dovrebbero colpire con forza le università che usano troppi professori a contratto e part-time. I debiti degli studenti dovrebbero essere rifinanziati senza interessi o a un tasso di interesse minimo e dovrebbero essere cancellati in caso di fallimento, come qualsiasi altra forma di debito. Ma ripetere queste cose è un po' come continuare a dire che sarebbe un peccato se tutti i giornali fossero costretti a chiudere. È ovvio. Chiunque sia in grado di ragionare lo capisce. Ma capirlo e continuare a dirlo serve a poco. Nonostante l'apparente radicalismo del mondo accademico, la sua meritocrazia in via di estinzione non riesce a trovare la forza per invertire la tendenza del mercato. Anche se ai vertici ci sono persone istruite gli unici componenti della prima amministrazione Obama a non avere un titolo di studio superiore erano i ministri dei trasporti e dell'istruzione nessun politico ha mai proposto di prendere gli ovvi provvedimenti indispensabili per risolvere il problema. INTERROMPERE IL CICLO Quello che succederà veramente all'istruzione superiore, quando arriverà al punto critico, sarà un'estensione di quello che è successo finora, quello che il mondo del denaro vuole che succeda. Ancora una volta, un disastro provocato dalle leggi di mercato sarà interpretato come una catastrofe causata dal socialismo, e sarà imposta una penetrazione ancora maggiore del mercato nelle università. Consigli di amministrazione e rettori raddoppieranno gli sforzi per raggiungere l'"eccellenza" che associano alla tecnologia, all'architettura e alle sponsorizzazioni delle aziende. Ci saranno ancora più test e più corsi di preparazione. I programmi saranno costruiti sempre più in base alle necessità delle aziende, come consiglia Thomas Friedman. I professori continueranno a perdere prestigio e potere, e saranno sempre più sostituiti da personale precario. Un sistema tutto basato sulle celebrità, reso possibile dai corsi online o da qualche altro espediente, alla fine provocherà l'estinzione in massa dei veri docenti. Sarà un cataclisma che miracolosamente risparmierà solo le amministrazioni universitarie. E l'istruzione di qualità nelle discipline umanistiche diventerà di nuovo prerogativa dei figli dei ricchi. E così questa distopia finirà con la corsa per raggiungere il fondo del libero mercato. Quello che ne fa una tragedia è che Barack Obama ha ragione quando dice che l'istruzione è importante. Non perché se andiamo all'università in futuro guadagneremo di più o potremo competere con il Bangladesh, ma perché la ricerca della conoscenza è un valore in sé. È per questo che ogni movimento democratico, dalla guerra civile al sessantotto, ha cercato di estendere l'istruzione superiore a un maggior numero di persone, di rendere i costi più abbordabili. La nostra, invece, è la generazione che è stata a guardare mentre un manipolo di parassiti e miliardari distruggeva l'istruzione universitaria nel proprio interesse. L'unica speranza è che siano gli studenti stessi a interrompere il ciclo. Forse dovremmo chiedere che alcuni atenei in difficoltà siano nazionalizzati e riorganizzati con il sistema opposto a quello del libero mercato, come è stato fatto nel secolo scorso con i servizi di pubblica utilità. Forse i ragazzi che escono dalle scuole superiori dovrebbero rinunciare al rituale delle domande di ammissione che si ripete ogni anno e rivolgere lo sguardo alle università tedesche o argentine. Forse è arrivata l'ora di un altro movimento di protesta, di uno sciopero nazionale degli studenti per chiedere la riforma delle università e l'annullamento dei loro debiti. Qualunque cosa si faccia, è il momento di svegliarsi. • bt L'AUTORE Thomas Frank è uno scrittore e giornalista statunitense. Scrive una rubrica su Harper's. Il suo ultimo libro è Pity the billionaire (Picador 2011). _____________________________________________________________ Repubblica 24 set. ’13 LE UNIVERSITÀ NON SONO AZIENDE Il criterio della competizione di mercato è diventato un metodo universale di giudizio e di semplificazione delle decisioni di NADIA URBINATI Andando alla ricerca di un'aula di seminario agibile e sicura, il collega francese mi fece fare il giro dell'isolato spiegandomi che la Sorbona, gloriosa madre degli studi, si trova in uno stato pietoso poiché il governo ha da anni adottato una politica di "razionalizzazione" ovvero di tagli funzionali delle risorse agli atenei. Il risultato è che un'ala del palazzo storico della Sorbona è inagibile. La destinazione funzionale dei finanziamenti segue questa direzione: dall'Università alle "Grandes Ecoles", le quali si consolidano nel patrimonio e nelle dotazioni alla ricerca con l'obiettivo di riconfermarsi il fiore all'occhiello della Francia, quell'immagine di eccellenza che il Paese porta nel mondo come carta d'identità. Tutto si fa per le istituzioni di eccellenza, mentre le università, quel reticolo di ricerca e di educazione che ha il compito di selezionare e formare, tra l'altro, anche i cervelli che dovrebbero poi concorrere all'accesso nelle grandi scuole. Questa storia non è per nulla eccezionale. È uno spaccato di quel che sta succedendo un poco dovunque in Europa (con le dovute proporzioni dettate dai budget nazionali che non sono come sappiamo gli stessi in tutti i Paesi). Gli effetti sono deprimenti anche perché nel nostro continente vige generalmente un sistema universitario statale che però viene gradualmente gestito secondo criteri privati. Le università sono trattate come aziende che producono scarpe o abbigliamento e devono poter immettere sul mercato prodotti competitivi a prezzi concorrenziali. I prodotti che circolano sui banchi dei supermercati portano etichette con descrizioni standardizzate di quel che contengono, in modo che da Pechino a Varsavia gli acquirenti possano comprendere quel che scelgono e quindi scegliere senza sforzo. E se il mercato stabilisce che un genere o una marca non incontra più i favori del pubblico, l'azienda chiude o si ricicla per produrre altro. Il criterio della competizione di mercato è diventato un metodo universale di giudizio e di semplificazione delle decisioni, esteso anche al campo della ricerca e dell'educazione. Se si tratta di un sistema statale di formazione, il Paese come un'azienda cerca di piazzare i suoi prodotti sul mercato e lo fa mettendo in mostra i suoi gioielli, quelle eccellenze che diventano quindi il bene principale a cui dedicarsi, e per il quale si devono spendere risorse, tralasciando il grosso del sistema, quella moltitudine di atenei che pare diventino una ragione di spreco. Le eccellenze sono investimento mentre le università che coprono il territorio nazionale sono una palla al piede. Scriveva opportunamente Marino Regini sul Corriere della Sera di qualche settimana fa che non esiste un campionato internazionale di università, non solo perché i criteri di valutazione sono così diversi e complessi da rendere impossibile trovarne uno che sia semplice abbastanza da valere per tutte le discipline e in tutto il mondo, ma prima ancora perché il compito degli atenei non è quello di vincere gare ma di formare "capitale umano" e trasmettere un patrimonio di conoscenze che si consolida sul territorio e per mezzo della comunicazione internazionale. Ma non sembra che questa sia la linea vincente, se non altro a partire dalla riforma Gelmini che ha recepito l'idea di trasformare la direzione degli atenei in consigli di amministrazione composti solo in parte da personale docente e operanti secondo criteri di valutazione e decisione cosiddetti "all'americana" (ma che non esistono nelle università americane, dove la reputazione degli atenei si forma secondo criteri non burocratici e centralizzati, primo fra tutti il piazzamento dei diplomati sul mercato del lavoro). Comunque sia, la mentalità del prodotto d'eccellenza che deve risplendere su tutti per dare lustro al Paese (come la Ferrari o le firme dell'alta moda) è diventata moneta corrente, conquistando le nuove leve di politici che a questa opinione si adattano senza ombra di dubbio. Molto significativa la riflessione proposta pochi giorni fa dall'aspirante primo ministro Matteo Renzi in un'intervista a "8 e mezzo". Raccogliendo in poche battute ad effetto il senso dell'opinione generale corrente, ha sostenuto che gli atenei eccellenti italiani dovrebbero essere cinque al massimo, il resto non merita. "Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca, cosa vuol dire? Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni, tutte le università spezzettatine, dove c'è quello, il professore, poi ha la sede distaccata di trenta chilometri dove magari ci va l'amico a insegnare, cinque grandi centri universitari su cui investiamo... le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centottantatreesimo posto? Io vorrei che noi portassimo i primi cinque gruppi, poli di ricerca universitari nei vertici mondiali". Certo, ci sono i casi delle sedi distaccate generate per creare posti di lavoro (i governi della prima Repubblica hanno abusato delle risorse pubbliche per create posti di lavoro assistiti, alle poste come all'università). Ma le "université" che come un reticolo coprono il territorio nazionale (e formano bravi studenti apprezzati in tutti i Paesi dove vanno, numerosi, a cercare lavoro) non sono uno spezzatino che fa velo all'eccellenza; sono al contrario un laboratorio di energie da dove, inoltre, prendono linfa i centri d'eccellenza. Ma il problema è un altro ancora: i centri d'eccellenza sono finanziati con denaro pubblico e dovrebbero quindi essere finalizzati a raccogliere il meglio anche di quel che il sistema pubblico forma. Gli "hub della ricerca" non si contrappongono alle università dunque, ma sono o dovrebbero essere un loro traguardo naturale. La competizione dovrebbe servire a far emergere verso l'alto il più gran numero non a deprimerlo per procacciare la vittoria di pochi eletti in un campionato che, in effetti, non esiste. È auspicabile che avvenga quanto richiesto dalle organizzazioni universitarie e promesso dal ministro Carrozza, ovvero che non si ascoltino soltanto quelle voci che propongono di smantellare l'Università statale e adottano una definizione dura (ma povera) di alta formazione come mercato delle poche eccellenze in un deserto di risorse e ricerca. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 set. ’13 CARROZZA: «MORALIZZARE I CONCORSI» Università, il ministro Carrozza per commissioni nazionali ROMA «Va moralizzato il tema dei concorsi: servono concorsi nazionali con commissioni nazionali e responsabilità diretta dei commissari». Il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Maria Chiara Carrozza, non nasconde il grande problema che riguarda i concorsi per i ricercatori nelle università, specialmente in alcune facoltà. E tocca il tema delle «baronie» nelle università italiane, cioè dei docenti che riescono a tramandarsi posti e potere e che trattano gli studenti come fossero propri «vassalli». «I giovani medici, in particolare - rivela il ministro - sono esasperati. Il settore della medicina è quello in cui ricevo più proteste, anche se la mia è solo un’impressione, non parlo sulla base di dati. Nelle facoltà di matematica, per esempio, non ci sono lamentele. Ci sono settori in cui essere o non essere professore in quella materia può cambiare la vita in termini di salari e quindi a maggior ragione devono esserci concorsi trasparenti». Il ministro vede l’unica strada accessibile nella istituzione di commissioni nazionali, «uno dei problemi dei concorsi - riflette - è il livello di responsabilità: tanto più sono intermediati, e non si risponde a nessuno, tanto più si opera con superficialità. Penso di chiamare i presidenti dei corsi di laurea in medicina e i rettori delle più grandi università di medicina per avere una risposta: hanno ceduto al ministero questa responsabilità come se fosse una questione di tipo amministrativo-burocratico, ma questo non è un problema del ministro, il mondo dei medici deve dare indicazioni su come si formano i medici». Per il ministro, inoltre, «l’università va fatta per trovare lavoro e in questo deve fare un salto di qualità, l’università e la scuola sono mezzi per l’istruzione e per provvedere a se stessi e alla famiglia. Questo non significa farsi dettare da Confindustria il programma, ma il dialogo col mondo del lavoro serve, è fondamentale. Occorre che ci sia un patto tra chi si iscrive all’università e gli atenei stessi, i programmi universitari devono essere connessi con il mondo del lavoro». Nel mondo della scuola, «il percorso per accedere all’insegnamento dovrà avere come primo pilastro la formazione, poi ci dovrà essere una pista unica che porta al concorso». Naturalmente ci sono anche le «graduatorie ad esaurimento» perché vanno tenuti presenti i diritti acquisiti. Per Carrozza, è fondamentale, per una buona formazione, che si studi «bene una lingua straniera, tento che vorrei che non si doppiassero più i programmi in tv». Il ministro vede poi i giovani di oggi «disorientati e angosciati. La dispersione scolastica ne è una dimostrazione. L’elevato numero di fuori corso negli atenei significa che non sappiamo orientarli e assisterli, c’è sfiducia nella politica, con una banalizzazione nel rapporto tra politica e cittadini come quando vengono contate quante sono le auto blu che, è evidente, non sono il problema vero della politica italiana». _____________________________________________________ Il Messaggero 25 Sett. ‘13 CARROZZA: IL VOTO DI MATURITÀ NON DEVE AVERE VALORE LEGALE «Le valutazioni delle commissioni d'esame sono troppo soggettive» IL CASO ROMA Potrebbe essere l'anticamera di una rivoluzione nel mondo della scuola e dell'università. Ed è già una miccia accesa sul significato dei voti conseguiti, rispetto a quello che potrà essere il successo nel mondo del lavoro. «Sono contraria al valore legale del voto di maturità e di laurea», ha detto il ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza in occasione di un Forum organizzato dall'agenzia Ansa. Non solo: «Sono contrarissima ha aggiunto il ministro a dire che bisogna dare valore al voto, soprattutto se abbiamo commissioni che dipendono dalla soggettività». Senza dover ricordare le bocciature di cui si favoleggia riguardo l'infanzia del più celebre Nobel per la Fisica, Albert Einstein (che in realtà non fu ammesso al test per entrare al Politecnico di Zurigo), le dichiarazioni di Maria Chiara Carrozza sembrano una virata improvvisa su quella che è stata la politica del ministero fino ad ora. Appena due settimane fa è stato abolito il bonus maturità (con molte polemiche, perché era stato appena introdotto). Ma quel tratto di penna con cui il Consiglio dei ministri ha cancellato il bonus era dovuto ai dubbi sui criteri scelti per conferirlo. Il bonus altro non era che un premio in base al voto della maturità, da aggiungere al risultato dei test per accedere ai corsi di laurea a numero chiuso. Quindi, un riconoscimento del voto. LE NUOVE VALUTAZIONI In passato si è perfino dibattuto in Parlamento sull'abrogazione del valore legale della laurea, quindi ben oltre il voto. Il precedente governo, guidato da Mario Monti, proprio su questo aveva lanciato una consultazione pubblica. Ora si riapre il dibattito. «In questi ultimi anni andiamo sempre più verso il riconoscimento delle competenze spiega Flavio Corradini, rettore dell'università di Camerino -. Io lavoro molto con gli imprenditori e vedo che lo-ro fanno sempre più riferimento a quello che i giovani sanno fare, indipendentemente dal voto di laurea. Ora si guarda di più alla persona, alle sue capacità». Per Corradini ben venga l'abolizione del valore del voto di laurea e diploma «ma a patto che sia fatto in maniera strutturata. La valutazione deve essere della persona». Una valutazione che dovrebbe innescare una concorrenza virtuosa tra scuole e università e favorire una maggiore meritocrazia. «Oggi chiunque ha interesse a scegliere persone che sanno fare sottolinea Corradini -. E questo vale sia per le aziende private, che per le pubbliche amministrazioni LO SPREAD IN PAGELLA Uno dei nodi dell'istruzione è nelle differenze di valutazione, dalla scuola all'università. Secondo uno studio del periodico Tuttoscuola c'è uno "spread" nella valutazione degli studenti: al Sud gli alunni hanno voti più alti alla maturità rispetto ai coetanei del Nord. Eppure al Nord hanno risultati migliori nelle valutazioni oggettive, come i test Invalsi. Segno che i professori sono più "buoni" nel meridione e viceversa più esigenti nel settentrione. E anche limitandosi ai voti degli esami di maturità dello scorso anno, i "100 e lode" sono più della metà nel Mezzogiorno. «Uno studente non deve valere per un numero scritto su un diploma da commissioni che operano con criteri estremamente diversi dalle Alpi alle Sicilie sostiene Roberto Pellegatta, presidente della Disal (Associazione nazionale dei dirigenti scolastici) ma per l'effettiva preparazione acquisita che porta con sé». Un traguardo non semplice da raggiungere per la Disal, che è contraria pure al valore legale del titolo di studio. «Ma sarà l'unico modo per favorire i migliori conclude Pellegatta e servirà anche a valutare correttamente il lavoro di scuole e università». Alessia Canaplone _____________________________________________________________ Corriere della Sera 24 set. ’13 ECCO LE PROVE DI MEDICINA: NESSUNO PRENDE IL MASSIMO (E 451 FINISCONO SOTTO ZERO) MILANO — Il migliore, indicato con il codice identificativo «19MP32755», ha ottenuto 80,90 su 90. Il peggiore, per effetto delle penalizzazioni previste per chi risponde in modo sbagliato, è sceso a quota -14,50. Non è solo. Insieme a lui altri 450 hanno registrato un punteggio finale sotto lo zero. In 20.783, pari al 30,1% del totale, sono sotto la sufficienza (stabilita a 20 punti su 90). Nonostante la domanda numero 45, di chimica, che per un errore e al contrario delle altre ha due risposte valide. Sono soltanto alcuni dei dati emersi dalla pubblicazione degli esiti del test d'ingresso alla facoltà di Medicina e chirurgia che si è svolto lo scorso 9 settembre in tutto il Paese. Poco meno di settantamila candidati per 10.336 posti a disposizione, tanti codici identificativi — per salvaguardare la privacy —, 691 pagine di documento sul sito www.accessoprogrammato.miur.it, e un consorzio interuniversitario, il Cineca, che ora dovrà «disegnare» la graduatoria finale. Graduatoria che, se ci fosse ancora il bonus maturità (da 1 a 10 punti), avrebbe potuto cambiare la classifica. E gli studenti coinvolti, ieri, si sono lamentati molto sui social network. Per dire: tra la posizione numero 10 mila e la 11 mila — la fascia tra chi è dentro e chi resterà fuori — c'è soltanto un punto di differenza. Cosa dicono le tabelle? Secondo Skuola.net e Alpha Test — che hanno analizzato i primi mille classificati — si scopre che «i ragazzi non mostrano lacune in nessuna delle materie della prova di ammissione». Il punteggio medio dei più «bravi» è di 62,58 su 90, «ovvero il 70% della valutazione massima». Le aspiranti matricole sono andate bene soprattutto in cultura generale e logica e in biologia. Prendendo i primi cento del documento del ministero dell'Istruzione, poi, emerge che il 18% ha svolto il test all'università di Padova, l'11% a quella di Bologna, il 10% alla Statale e alla Bicocca di Milano e il 9% alla Federico II di Napoli. I prossimi giorni saranno cruciali. Il 30 settembre sarà pubblicata la graduatoria finale. Lo studente sarà diviso tra «assegnato» e «prenotato». Il primo potrà procedere all'immatricolazione all'università scelta come prima. Il secondo, invece, può iscriversi nelle sedi di «riserva» oppure sperare di essere ripescato dall'ateneo preferito. Tutti dovranno fare attenzione al 3 ottobre: è l'ultimo giorno utile per immatricolarsi. Leonard Berberi lberberi@corriere.it _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 23 set. ’13 PER I TEST D'AMMISSIONE UNA GIUNGLA DI TARIFFE Per medicina le tasse variano da 21 fino a 160 euro IL PIÙ «CONVENIENTE» L'ateneo meno caro è quello di Cosenza, che per scienze della formazione (dove i posti sono limitatissimi in tutta Italia) applica una tassa di 20 euro Paolo Del Bufalo Per l'ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso uno studente ha pagato quest'anno 160 euro all'Università San Raffaele di Milano (ma solo per medicina), 21 a quella di Cagliari. È una vera e propria giungla di tariffe quella che gli atenei hanno scelto di applicare, grazie alla loro autonomia, ai test di ammissione alle lauree a numero chiuso. Quelle "europee", cioè con analoga disciplina in tutto il continente. E non solo la differenza si fa sentire tra università, ma anche a volte all'interno dello stesso ateneo. Così ad esempio il test alla San Raffaele costa 160 euro per medicina, ma scende a 110 per le 22 professioni sanitarie (infermieri, ostetriche, fisioterapisti, tecnici sanitari, che rappresentano il contingente maggiore di posti a bando - oltre 27mila - e la loro tariffa fa da media). Allo stesso modo, l'università meno cara sarebbe quella di Cosenza, che per il test in scienze della formazione (dove però i posti sono limitatissimi in tutta Italia, poco più di 5mila) applica una tassa di 20 euro, contro i 30 che lo stesso ateneo fa pagare per architettura. Un mercato di tariffe che ha fatto incassare negli ultimi mesi agli atenei italiani quasi 14 milioni di euro, concentrati soprattutto (oltre 11,5 milioni) sulle lauree di area medica che assorbono oltre l'80% delle domande di ammissione e più del 75% dei posti a bando. Un incasso per le università, una spesa non indifferente per gli studenti: a essere ammessi, su quasi 250mila domande (196mila in area medica), sono circa 58-59mila giovani e per gli altri la tassa rimane a fondo perduto. A fare i conti su tasse e domande di ammissione all'anno accademico 2013- 2014 è Angelo Mastrillo, segretario della Conferenza dei corsi di laurea delle professioni sanitarie e membro dell'Osservatorio delle professioni sanitarie del ministero dell'Università, che ha pubblicato la sua elaborazione sul settimanale Il Sole-24 Ore Sanità in distribuzione da domani. Le differenze sono fortissime: per medicina, che ha il range maggiore tra i gruppi di lauree a numero chiuso, rispetto a una media di 61,73 euro si sale ai 160 del San Raffaele di Milano e si scende fino ai 21 di Cagliari. E le medie per gli altri settori sono di 56,7 euro per le professioni sanitarie, 52,75 per veterinaria, 48,54 per architettura e 48,54 per formazione primaria, tutte calcolate però tra massimi oltre i 100 euro e minimi di circa 20. «È una differenza sicuramente legata al periodo attuale di crisi che porta gli atenei a cercare risorse dove possono per fare cassa»,spiega Eugenio Gaudio, presidente della Conferenza dei presidi delle facoltà di medicina. «Oggettivamente però – aggiunge – la cifra ragionevolmente corretta è tra 50 e 60 euro, massimo 70, anche perché si tratta praticamente solo di università pubbliche. Le private probabilmente rincarano le quote, anche perché ricevono meno risorse da parte dello Stato». Ed è proprio sulle private che presidi e ministero dell'Università puntano il dito. Con la richiesta formale di uniformare date e contenuti degli esami: «Abbiamo chiesto che si converga tutti sullo stesso giorno – spiega Gaudio – perché tutti gli studenti devono essere nelle stesse condizioni e con pari opportunità: a Roma uno studente può fare il test negli atenei pubblici e poi anche alla Cattolica e al Campus biomedico; lo studente di Cagliari ha una sola possibilità». E anche perché alla fine lo studente di Roma potrebbe aver speso oltre 300 euro di test di ammissione contro i 21 di quello di Cagliari, senza per questo avere certezze sull'ammissione. La media dei costi è comunque in costante aumento. Nell'area medica – la più pesante sia numericamente che dal punto di vista economico – nel 2011-2012 la media nazionale della tassa di esame era 51,8 euro, nel 2012-2013 si è passati a 54,1 euro e per quest'anno accademico si sale ancora fino a 56,5 euro e fino ai 61 di medicina, con un aumento costante del 2,4% ogni anno accademico, che si concentra in realtà solo su poche università. A Torino ad esempio la tassa per le professioni sanitarie tra il 2012-2013 e il 2013-2014 è più che triplicata (da 30 a 100 euro), mentre è raddoppiata a Messina (da 45 a 90). Ma c'è anche chi, crisi o non crisi, le tasse le ha tagliate: Verona e Roma Tor Vergata, sempre per le lauree di area medica, le hanno dimezzate passando rispettivamente da 100 a 50 euro e da 70 a 35 euro. _____________________________________________________ Il Mattino 26 Sett. ‘13 TEST DI MEDICINA BRAVI DISERTANO LE FACOLTÀ DEL SUD UNIVERSITÀ I RISULTATI DI 69.055 PROVE una brillante carriera professionale. I dati sono anonimi per ragioni di privacy, però si sa che il miglior test in assoluto è stato effettuato proprio a a Padova: su 60 domande, 55 risposte esatte, 4 sbagliate e una mancata risposta per un totale di 80,90 punti sui 90 massimi teorici. Ma un singolo caso non fa statistica. E così II Mattino con la collaborazione di Daniele Grassucci di www.slcuola.net ha elaborato i dati dei migliori mille test d'Italia, ovvero di tutti quelli che hanno conseguito almeno un punteggio di 58 su 90. In pratica l'eccellenza tra gli aspiranti medici, le menti migliori tra quelli che riusciranno a iscriversi alla facoltà di medicina, visto che il minimo per entrare (cioè la posizione 10.336) è di 41,30 su 90.1 punteggi, come è noto, non tengono conto del bonus maturità, cancellato dal ministro Maria Chiara Carrozza dopo che una campagna stampa ne aveva evidenziato le distorsioni. Il Mattino ha quindi verificato il numero di studenti bravissimi, confrontato con il numero di partecipanti ai test, per ciascuna delle 37 Università italiane con la facoltà di medicina. Gli atenei che hanno attirato gli studenti migliori sono del Nordest: sul podio finiscono Padova, Verona e Udine, seguite da Milano Bicocca, Pavia e Milano Statale, tutte con la quota di bravissimi oltre i13%. In coda ci sono sei Università: la Sun, Foggia, L'Aquila, Catanzaro, Sassari e il Molise, con test di alta qualità in percentuali irrisorie, tra lo 0,08 e lo 0,24%. Interessante anche il dato sugli atenei più affollati: alla Sapienza di Roma hanno partecipato al test in 6.361 e i bravissimi sono stati 58 cioè lo 0,91%. Valori analoghi alla Federico II di Napoli dove hanno affrontato le 60 I «cervelloni» hanno scelto gli atenei del Nordest Alla pari Sapienza e Federico Marco Esposito Cesare Lombroso avrebbe sghignazzato. I risultati dei test di medicina spaccano l'Italia, con i bravi al Nord presenti in misura quattro volte superiore rispetto al Sud. La soddisfazione del medico famoso per le teorie (errate) sulla inferiorità congenita dei meridionali appare affrettata, perché numerosi diplomati del Sud hanno scelto per partecipare al test un ateneo del Nord e ne hanno migliorato la performance. Tuttavia il dato è vistoso: tra gli aspiranti iscritti alle facoltà di medicina del Mezzogiorno ci sono pochi, talvolta pochissimi, studenti ad alto potenziale, con il caso limite della Seconda università di Napoli nella quale il numero di ragazzi che ha superato in modo brillante il test per iscriversi a medicina è di appena 2 studenti su 2.450(0,08%) contro i 135 su 3.095 (4,36%) dell'Università che ha attirato più cervelloni d'Italia, Padova. Non c'è un precedente statistico di tale ampiezza sul quale ragionare. È il primo anno infatti nel quale si è tenuto il test con graduatoria unica nazionale, al quale si sono volontariamente sottoposti (pagando 100 euro) 69.055 aspiranti studenti di medicina. I posti in palio sono 10.336 e i130 settembre si saprà chi ha ottenuto, e dove, l'ambita iscrizione nelle facoltà a numero chiuso, premessa di domande in 4.464, con 39 test eccellenti, cioè lo 0,87%. Situazione diversa alla Statale di Milano dove a fronte di 3.492 iscritti, alle prove ci sono stati 108 test eccellenti e cioè il 3,09%. Al quarto posto tra le facoltà gettonate c'è Palermo (3.373 iscritti, 23 bravissimi pari allo 0,68%) seguita da Catania (3.268 iscritti ma 28 bravissimi pari allo 0,86%). A Roma, Torino e Napoli le "seconde università" conseguono risultati decisamente inferiori rispetto alla prima, mentre a Milano la Bicocca batte di una incollatura la Statale. Tra le Università del Nord lo score peggiore è di Genova (0,80%) mentre nel Centro Italia deludono Siena (0,65%) e Tor Vergata (0,51%). Ma in media il Centronord con le sue 23 Università si attesta al 2,06% su 41.078 studenti, ovvero quattro volte meglio rispetto allo 0,54% di test di alta qualità sui 27.977 studenti che ci hanno provato in una delle 14 Università del Mezzogiorno, la migliore delle quali è la Federico II. Questi i dati. Che saranno certificati dal ministero il 30 settembre. Numeri dietro i quali ci sono persone, ambizioni, passioni che non possono lasciare indifferenti. Escluse le tesi lombrosiane, ovvero l'inferiorità genetica dei meridionali, resta il dubbio sulla capacità dei licei del Sud di preparare i ragazzi al meglio. Sulle interpretazioni del dato si potrà ragionare, ma resta il fatto in- controvertibile che nelle Università di medicina del Mezzogiorno quest'anno si iscriveranno pochi studenti ad elevato potenziale. I potenziali geni, insomma, hanno deciso da subito di tentare la sorte del test al Nord, anticipando una migrazione che visti i flussi degli ultimi anni in tanti dànno comunque per scontata. «Padova in particolare spiega Grassucci è nota per gli eccellenti corsi di specializzazione e ciò aumenta la motivazione di chi va in cerca dell'Università migliore». Con effetti paradossali: se Padova attira le teste d'uovo, uno studente padovano di buone ma non straordinarie capacità rischia di essere scavalcato pur rientrando tra i 10.336 vincitori della graduatoria nazionale. In tale caso dovrà accontentarsi di un'altra facoltà tra quelle indicate al momento della preferenza. E se, per aumentare le probabilità, ha opzionato tutte le 37 Università, è quasi certo che gli toccherà spostarsi in un ateneo del Sud. C'è un nuovo differenziale Nord-Sud, insomma, che si sta accentuando, divario che ha poco a che vedere con indicatori grezzi come il Pil: le menti più brillanti disertano le Università del Mezzogiorno. E un tale squilibrio, come qualsiasi squilibrio, rende ciascuno più povero. Lo score A Padova i voti alti sono il 4,34% Ultima la Sun di Napoli a quota 0,08 _____________________________________________________ Roma 27 Sett. ‘13 I TEST DI MEDICINA E I NUMERI PRIMI di Giuseppe Scalera Arrivano i risultati dei test di accesso alle Facoltà di Medicina e, come ogni anno, sgorgano puntuali le polemiche. Il vero tormentone, in effetti, resta il numero chiuso. Se n'è parlato, attraverso varie forme, in Parlamento, almeno da tre legislature. Inascoltati, abbiamo sostenuto, innanzitutto, che i numeri erano sbagliati, che alla luce del turnover corredato dai relativi pensionamenti dei camici bianchi (2,7 % annuo), la media degli ultimi 14 anni (7500 posti a concorso negli atenei italiani) era ampiamente insufficiente. Qualcuno, fortunatamente, negli ultimi tempi, se n'è accorto. E, con l' ultima programmazione, siamo passati dai 9.500 del 2012 ed ai 10mila 336 del 2013. Una battaglia vinta, sicuramente, ma anche il rammarico per esigenze numeriche che erano in campo da tempo e che, nella loro inapplicazione, hanno cambiato, in questi anni, la vita ed il futuro di migliaia di studenti. Ma il problema è più complesso e riguarda anche Facoltà strettamente correlate come Odontoiatria. Rispetto ai 56mila operatori del settore (Odontoiatri e Medici specialisti) il turnover annuale in uscita è del 3%. Ottocento i posti messi a bando nelle Università italiane, ne servirebbero almeno 1.600, il doppio. Lo ha rilevato più volte, in Commissione Università e Ricerca Scientifica del Parlamento chi scrive, lo ha sottolineato anche l'Antitrust in una nota inviata alle Camere 1121 aprile 2009. Al momento, l'elettrocardiogramma ministeriale, su questo versante, è piatto e non si registrano particolari novità. In questo confuso contesto, ognuno si arrangia come può e sono ormai migliaia gli studenti italiani esclusi dai test d'ingresso che, alla luce del modello comunitario, si iscrivono ad Università straniere. Nazioni come Romania, Spagna, Ungheria (dove il numero chiuso non esiste) sono pronte ad accoglierli. Alcuni supereranno il primo anno di studi all' estero, aprendo rapidamente una vertenza legale per trasferirsi poi in un Ateneo italiano (il Tar Abruzzo ha fatto, in questo senso, da capofila riconoscendo, a fine 2009, il diritto di uno studente italiano a spostarsi da un'Università rumena a quella dell' Aquila). Altri avranno, a fine studi, la piena legittimità del loro titolo e la conseguente possibilità di operare professionalmente in Italia. Nel frattempo, l'insufficiente numero di iscrizioni a Medicina e Odontoiatria ha portato all'arrivo di migliaia di medici stranieri nella nostra Penisola (attualmente, quasi 15mila). Si tratta di camici bianchi che operano soprattutto nel settore privato, il loro numero è in netta ascesa. Tutti dati che confermano come il sistema del numero chiuso debba subire modificazioni profonde e come, tra le tante riforme dell' Università italiana, questa abbia caratteri di assoluta priorità perché legata ad un settore delicato e strategico per la società di questo Paese. Un'ultima nota sui risultati dei test di Medicina e sulla mappa dei bravissimi proposta, in queste ore, da alcuni giornali. È vero, tra gli aspiranti medici, le vere eccellenze si registrano soprattutto al Nord ma, da una lettura più profonda, molti di questi cervelli provengono dal Sud. Sfiduciati da una realtà sociale sempre più degradata, attirati da scuole specialistiche di assoluto livello e da sbocchi occupazionali più rapidi e concreti, molti indirizzano, sin dall inizio l'ago della loro bussola al Nord. Nessuna meraviglia. Un dato comprensibile e naturale in un'Europa dove il concetto di formazione s'intreccia sempre più, in un'ideale sintesi, a quello di occupazione. Giuseppe Scalera _____________________________________________________ Il Giornale di Napoli 24 Sett. ‘13 MEDICINA, UNO SU DIECI SCEGLIE NAPOLI Arrivano i risultati dei test. Il 9% degli studenti ha fatto richiesta d iscrizione all'ateneo partenopeo È arrivato il giorno del giudizio per le aspiranti matricole in medicina e chirurgia. Ieri infatti il ministero ha pubblicato i risultati dei test d'ingresso che si sono svolti lo scorso 9 settembre. Il Cineca, l'organismo ministeriale che gestisce la macchina dei test, ha valutato 69.055 questionari che serviranno a disegnare la graduatoria per accedere ai 10.336 posti disponibili tra Medicina e Odontoiatria. In pratica, uno su sei ce l'ha fatta ad iscriversi a medicina e odontoiatria. Ma come si sono comportati gli aspiranti medici? Sicuramente non mostrano lacune in nessuna delle materie oggetto del test, come invece era accaduto per i loro colleghi veterinari. Il portale specializzato Skuola.net e Alpha Test, società leader nella preparazione ai test, hanno analizzato i risultati dei primi 1000 in graduatoria. Il punteggio medio dei 1.000 più bravi è pari a 62/90 ovvero il 70% del punteggio massimo. I risultati nelle varie materie del test sono, infatti, abbastanza omogenei: in matematica, fisica e chimica i migliori mediamente hanno risposto correttamente a 2 domande su 3, mentre in biologia, logica e cultura generale 3 su 4. «Analizzando la graduatoria dichiara Alessandro Lucchese, docente Alpha Test si scopre che rispondendo a 35 domande sulle 60 complessive si entra, a parte di aver indicato tra le preferenze tutte le sedi disponibili. Anche sbagliando le restanti 25, l'accesso è comunque garantito. Il 10millesimo in graduatoria riuscirà comunque ad entrare avendo risposto a metà delle domande, sbagliandone 1 su 5 e tralasciandone 1 su 3». Gli studenti insufficienti sono 20.783, ovvero quelli che non hanno raggiunto il punteggio minimo di 20 punti, sono il 30% del totale dei classificati. [I migliore della classe ha conseguito un punteggio di 80.90 su 90, mentre il peggiore si è portato a casa uno sconfortante -14.50. Infatti il test prevede una penalizzazione per le risposte errate. Fra i primi 100 della graduatoria di Medicina, ci sono alcune università che sembrano averla fatta da padrone. Infatti il 18% dei primi 100 candidati sceglie l'Università di Padova, l’11% Bologna, il 10% Milano e infine il 9% Napoli. La battaglia per gli ultimi posti disponibili si gioca infine su margini molto ridotti: il 10millesimo in graduatoria ha conseguito un punteggio di 41.7, mentre il millesimo 40.7. In che vuol dire che in un punto di scarto rientrano circa 1.000 persone. Interessante il confronto con gli aspiranti veterinari, che, almeno in termini numerici, escono sconfitti dalla contesa pur essendosi cimentali con un test che sulla carta molto simile. Infatti in quel caso il tasso di insufficienze si è attestato intorno al 42%. I primi 100 della graduatoria in medicina sono risultati migliori del migliore in veterinaria. Infatti nessuno dei primi 100 aspiranti medici e' sceso sotto il punteggio di 68/90, mentre il miglior veterinario ha di poco superato il 67. «Probabilmente la difficoltà del test di Medicina è nota a tutti e porta i ragazzi a non sottovalutare la preparazione commenta Lucchese Il grado di selettivita' invece del Test di. Veterinaria è meno noto, pur essendo ormai al livello di quello di Medicina». _____________________________________________________ Il Mattino 27 Sett. ‘13 MEDICINA, IL SUD LASCIA SCOPERTI PIÙ DI 1.400 POSTI Troppo bassi i risultati ai test d'accesso Eccezioni positive la Federico II e Bari Marco Esposito Le Università del Sud e quelle di Roma escono malconce dai test di medicina. Gli studenti che hanno partecipato alle prove per potersi iscrivere nella facoltà più ambita hanno ottenuto in base alle simulazioni realizzate dal Mattino con www.skuola.net in generale risultati inferiori rispetto alla media, lasciando scoperti oltre 1.400 posti. Saranno gli studenti che hanno partecipato al test nelle Università del Nord a ottenere il diritto di iscrizione nelle facoltà di Roma e del Sud, sempre che le abbiano indicate come opzione. Ci sono però due eccezioni positive tra gli atenei del Mezzogiorno: la Federico II e Bari. Entrambe coprono con i propri studenti idonei tutti i posti disponibili e anzi alcuni meritevoli dovranno spostarsi in una delle sedi indicate come seconda scelta. Anche il Nord ha le sue eccezioni, stavolta negative: non hanno brillato gli aspiranti studenti di medicina che hanno partecipato alle prove per Insubria (Como-Varese), Genova, Parma, Ferrara e, al centro, Firenze, Siena e Perugia. I dati ufficiali saranno resi noti dal ministero dell'Università (www.miur.it) lunedì 30 settembre ma intanto i partecipanti alle prove stanno cercando di scoprire se hanno o meno diritto di iscriversi nelle facoltà a numero chiuso, e dove. Il test di medicina è il più ambito, con 69.000 partecipanti per 10.300 posti. La graduatoria novità di quest'anno è unica nazionale. Il principio base è che se una facoltà è stata indicata come prima scelta da uno studente e come seconda scelta da uno studente più bravo, il diritto di iscrizione va al più bravo, a meno che questi non vada nella facoltà che ha indicato come prima opzione. La mente più brillante di tutte le 69.055 è quella di un partecipante ai test di Padova (non è detto che sia un padovano, visto che la facoltà veneta è una delle più ambite da tutta Italia) il quale ha ottenuto 80,90 punti su 90. Seconda si è classificata una persona che ha indicato come facoltà preferita la Federico II di Napoli, con 79,80 punti e così via fino alla posizione numero 10.301, che di punti ne ha fatti 41,30. Ogni aspirante studente di medicina che ha conquistato l'idoneità potrà iscriversi nella sede dove ha fatto materialmente il test, purché il numero di vincitori non sia superiore al numero di posti. Per esempio a Padova i posti disponibili sono 445 ma i vincitori risultano 902 e il numero 446 nella graduatoria locale resta fuori da Padova. Tuttavia a livello nazionale il 446° di Padova si è classificato in un egregio posto numero 4.220, per cui potrà scegliere l'università indicata come migliore opzione. E così via per tutti i 457 idonei di Padova e degli altri atenei con eccesso di vincitori, i quali potranno accontentarsi di una seconda, terza, quarta scelta, sempre che le abbiano indicate (si potevano anche opzionare tutte le 37 Università). Alla Federico II c'è soddisfazione per la presenza di «cervelloni», con ben 6 classificati sui primi 30 della classifica assoluta. In tutto i posti sono 437 e gli idonei 534, per cui ce ne sono 97 che conquistano il diritto a iscriversi a medicina però dovranno cambiare ateneo. Molti di loro, anzi tutti, potrebbero trovare spazio alla Sun, Università nella quale i vincitori sono stati appena 200 su 464 e quindi ci sono 264 posti disponibili, record italiano in valore assoluto di posizioni vacanti. Anche alla Sapienza, nonostante avessero partecipato al test ben 6.361 aspiranti studenti di medicina, i questionari sono andati nel complesso maluccio e gli idonei sono stati meno dei posti e cioè 758 su 939, per cui sono libere 181 iscrizioni. Università particolarmente vuote sono anche Catanzaro (174 posti vacanti in base alle prime scelte), Palermo (164 posti disponibili), Messina (145), Chieti-Pescara (121). Al Nord sono rimasti posti vuoti soprattutto a Parma (98) mentre nel centro Italia è particolarmente vuota Siena, dove in base ai test gli idonei sono stati appena 81 su 231 posti per cui vi sono 150 iscrizioni da coprire con le seconde scelte. Gli studenti che nel complesso hanno ottenuto i risultati peggiori sono quelli che hanno tentato il test all'Università del Molise, dove sono in palio 75 iscrizioni. Appena 16 sui 408 partecipanti ai test di Campobasso hanno risposto alle 60 domande in modo adeguato, ovvero ottenendo almeno 41,30 punti. Ecco perché in 59 dovranno arrivare dalle seconde scelte. Se però il numero di studenti che ha indicato il Molise anche come ultima opzione è insufficiente, allora viene ripescato il migliore dei partecipanti al test con punteggio inferiore a 41,30. I numeri anticipati con questa elaborazione alla quale ha contribuito Daniele Grassucci di www.skuola.net pongono una serie di domande alle quali si potrà rispondere solo quando saranno note le analisi ufficiali del ministero. E fondamentale, infatti, sapere quanti studenti del Sud hanno partecipato ai test in Università del Nord e che risultati hanno ottenuto. Tuttavia il dato complessivo fornisce un'indicazione chiara: le Università del Mezzogiorno nel loro insieme sono state poco attrattive nei confronti degli studenti brillanti. E ciò è indicatore di scarsa competitività del territorio, sia se questo è dovuto alla insufficiente preparazione degli studenti del Sud, sia se è frutto della migrazione anticipata degli studenti meridionali più capaci verso altre latitudini. _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 24 set. ’13 UNIVERSITÀ»SCELTE DI VITA ALL’INSEGNA DEL PRECARIATO I RICERCATORI SCOMMETTONO SUL FUTURO Oltre cento dottorandi si ritrovano in aula magna e mettono a confronto le loro esperienze, le difficoltà e i propri lavori di Luigi Soriga SASSARI C’è una concentrazione viva di neuroni nell’aula magna dell’Università. Un piccolo distillato di futuro, se è vero che l’intelligenza, lo studio e il sapere rappresentano ancora un buon punto di partenza per migliorare il mondo. I giovani ricercatori ci credono eccome in questa ambiziosa missione, della quale si sentono investiti. D’altronde anche il titolo del convegno al quale hanno partecipato ieri mattina suona impegnativo: “Ricerca in vetrina 2013, originalità e impatto sul territorio regionale della ricerva scientifica”. È la teoria che cala sulla realtà, gli accademici che si sporcano le mani con i grattacapi quotidiani di un territorio, di un piccolo comune, di un tratto di costa. L’Adi (Associazione Dottorandi Italiani), ieri ha raggrumato un centinaio di giovani cervelli, ognuno dei quali portatore sano di innovazione. Li ha messi uno accanto all’altro, ha permesso loro di raccontarsi, guardarsi in faccia, confrontare esperienze, scambiare conoscenze. L’identikit medio dell’uomo di scienza è questo: una trentina d’anni sulle spalle, la maggior parte dei quali spesi chini sui libri, stipendi da mille euro, 1467 al massimo, la veste di precario indossata come una seconda pelle, e la lucida consapevolezza di esser finiti dentro un trita-speranze inesorabile quale l’Università italiana, dove solo il 13 per cento dei ricercatori potrà approdare al traguardo: cioè alla stabilizzazione, al rango di docente, a una propria cattedra, al sogno. Gli altri saranno come delle comete che per uno o due anni hanno brillato di luce propria, ma che poi la penuria di risorse e i tagli ministeriali finiranno per spegnere. Uno di questi giovani capaci ancora di emanare bagliori di speranza è Salvatore Lampreu. Ha 33 anni, è di Sedilo, si è laureato da un anno in Scienze dei sistemi culturali, è un dottorando con borsa, campa con 1000 euro, e crede ciecamente nelle potenzialità di una Sardegna formato mosaico, dove ogni piccola identità locale ha le proprie carte da giocare nel grande tavolo dell’economia. Lui ha studiato il caso specifico della Marmilla, ed è convinto che i prodotti tipici, la cultura e l’identità siano valori aggiunti spendibilissimi sul mercato. Ne parla con entusiasmo, con quell’approccio genuino che contraddistingue ancora queste figure professionali in divenire: una via di mezzo tra lo studente e il prof., l’emozione del microfono sopra un solido puntello di conoscenza. Prima di aggiudicarsi la borsa di studio ha fatto tutti i lavori: cameriere in Irlanda, operatore nel riciclaggio dei rifiuti. «Adesso non posso fare altro, l’attività di ricercatore è una spugna che assorbe tutta la tua vita, non ha orari». Giuseppe Onni, 41 anni, assegnista di ricerca al Dodo di Alghero, scivola ancora di più nel filosofico: «Noi non siamo dei semplici lavoratori, noi siamo quello che facciamo». Insomma, ricercatore come condizione esistenziale. Un indomito ottimista, animato dalla passione, perennemente squattrinato, con una leggera inclinazione verso il masochismo, che non si piange addosso, convinto nei propri mezzi e nel proprio sacrificio, che ha investito una fetta enorme della propria vita sui libri e sa che sarà difficilissimo tornare indietro. Per certi versi ancora un puro, se in un terreno così sdrucciolevole come quello dell’Università pensa ancora di poter andare avanti con le proprie gambe e con le proprie forze. E dire: «Se hai veramente qualcosa da dare, allora alla fine arrivi». I RICERCATORI : «NOI PIANGERCI ADDOSSO? E CHI PUÒ PERMETTERSELO?» di Luigi Soriga SASSARI Il precariato, per i ricercatori, è una sorta di saio da indossare come una seconda pelle. Piangersi addosso, o come dice Papa Francesco, «seguire la dea lamentela», è l’ultima cosa che possa venire in mente. Sono consapevoli del loro purgatorio di studiosi squattrinati, hanno scelto di stare chini sui libri per 10 ore al giorno, sanno che su cento alla fine vedranno la luce in dieci, dove vedere la luce significa diventare docenti stabilizzati con una materia da insegnare. Nel convegno “Ricerca in vetrina”, dove un centinaio di dottorandi dell’Università si guardano in faccia, si raccontano, scambiano saperi ed esperienze, si sta a mollo in una sostanza fatta di ottimismo e voglia di migliorare il mondo. Federico Nurra è un archeologo di 32 anni, fa ricerca dal 2007, guadagna 1467 euro al mese, dice: «È bello sentire cose di sinistra proprio da chi non ti aspetteresti. E per quanto mi riguarda il Papa ha ragione. Qui, se non si crede in quello che si fa, si è perduti. Noi ricercatori abbiamo investito tutto nel nostro progetto, è un impegno che non si conclude nell’arco delle 8 ore di lavoro, perché la testa non stacca mai e anche di notte ti capita di pensare al modo migliore per raggiungere i risultati». Eppure l’Università è spietata e la stragrande maggioranza di questi scienziati malati di speranze, sono come stelle che nascono e muoiono con la propria borsa di studio, nell’arco di un paio d’anni. «Con il sistema degli assegni – continua Federico Nurra – abbiamo 4 anni per sparare le cartucce. E anche se vali non è scontato che arrivi al traguardo. Ma una cosa è certa: se ti lamenti non vai da nessuna parte, perché l’entusiasmo è l’unico motore che ti spinge a continuare». Non è incoscienza, illusione, o masochismo. È la passione per un bel mestiere che meriterebbe più considerazione e sostengno. Verdina Satta, 29 anni, dottoranda in Architettura ad Alghero, dice: È normale che talvota ci siano difficoltà e sconforto. Ma non è mai un pessimismo sterile e improduttivo. Alla fine si mette davanti lo studio, al disagio personale. La macchina della ricerca così non si ferma mai». _____________________________________________________ L’Espresso 3 Ott.. ‘13 LA MATEMATICA? È IN ASIA Nessuno batte cinesi, coreani, giapponesi. Merito degli ideogrammi. Che ne plasmano la mente. E noi italiani? Siamo molto indietro DI ELISA MANACORDA Provateci voi, a imparare a memoria 4.700 logogrammi, più tutte le loro possibili combinazioni. Se doveste mai riuscirci, come in effetti deve fare un buono studente di liceo a Taiwan, magari anche le tabelline vi verrebbero più facili. Perché è forse qui, in questo titanico sforzo mnemonico richiesto ai giovani orientali, il segreto del loro successo anche in altri settori. Quello dei numeri, in particolare. Che gli asiatici siano decisamente più bravi di noi occidentali in fatto di calcoli lo dice per esempio l'ultimo "Trends in International Mathematics and Science Study" (Timss), il rapporto sviluppato dalla International Association for the Evaluation of Educational Achievement (I, ul) che dal 1995 ogni quattro anni fa il punto sulle competenze scientifiche e matematiche dei bambini dì scuola primaria e secondaria in tutto il mondo. «L'obiettivo», spiega Elisa Caponera, ricercatrice dell'istituto Invalsi che coordina la parte italiana del Timss, «è quello di identificare le caratteristiche dei Paesi più avanzati per comprenderne i diversi sistemi educativi e proporre soluzioni per migliorare l'insegnamento delle materie scientifiche. Ebbene: i dati dicono che in questa gara non c'è proprio storia. I paesi asiatici (Corea del Sud, Singapore, Taiwan, Hong Kong e Giappone) occupano saldamente i primi cinque posti della classifica, seguiti da Russia e Israele. Poi fa timidamente capolino la Finlandia, quindi gli Stati Uniti e infine l'Inghilterra (con il Galles), Non solo. In ogni paese esaminato, rac>ma ancora la coordinatrice italiana del limss, troviamo circa il 15 per cento di studenti nel livello avanzato. Piccoli geni dei numeri, ragazzi che le equazioni differenziali se le mangiano a colazione. In Asia, questa percentuale sale al 40 per cento. L'italia? Non c'è molto da stare allegri. risultati dei test (messi a punto dagli americani del Boston College e poi tradotti e adattati alle realtà locali) sottoposti ai bambini di quarta elementare e di terza inedia, dicono che nella scuola primaria ci posizioniamo al ventunesimo posto, e appena sopra la linea di galleggiamento. Un andamento, dicono dall'Invalsi, in linea con la media Ocse. E va bene, Ma se esaminiamo i risultati della scuola secondarla, scopriamo che siamo ben al di sotto della media. «Vero,,, continua Caponera, «però questo punteggio rappresenta un netto miglioramento rispetto agli anni precedenti: in algebra, per esempio, abbiamo recuperato quasi 30 punti rispetto alla scorsa rilevazione». Dunque dobbiamo anche essere contenti. Resta però il fatto che anche americani, olandesi o inglesi (che se la cavano in generale molto meglio di noi) sono ampiamente surclassati dagli orientali. E ci si chiede: a cosa è dovuta questa straordina ria superiorità nel far di conto? Sarà forse un'eredità di Confucio, fondatore di una scuola creativa che prevedeva, oltre a politica, musica, calligrafia, tiro con l'arco e guida del carro, anche la matematica? O sarà invece merito dei pit efficienti sistemi di istruzione? Elisabetta Corsi,che insegna Sinologia alla Sapienza Università di Roma, prova a dare qualche spiegazione. Lascerei perdere Confucio e la sua concezione cosmologica: in fondo anche nella tradizione cristiana Dio, spesso raffigurato con il compasso in mano, è il geometra dell'universo. La Bibbia è piena di numeri perfetti, e scienziati come Keplero e Newton hanno cercato di unire mistica e matematica per comprendere le leggi armoniche che regolano il nostro mondo», dice. Dunque dobbiamo trovare altre ragioni. E una potrebbe essere cercata proprio nei segni grafici delle lingue sinofone, che accomunano al cinese anche il coreano o il giapponese. «Penso che l'abitudine alla visualizzazione e rappresentazione grafica dei concetti, come avviene con gli ideogrammi, predisponga al pensiero complesso, come è quello matematico e scientifico» , continua Corsi. Soprattutto, lo sforzo richiesto per ricordare migliaia di segni differenti aiuta il cervello a pensare la complessità. D'altra parte, continua la studiosa, « le scienze cognitive hanno mostrato che le regioni del cervello usate da un cinese o da un giapponese per parlare e scrivere sono diverse da quelle che si attivano in un individuo che usa le lingue alfabetiche». Dunque potrebbe essere nel cervello che si annida una possibile spiegazione di questa speciale familiarità con i numeri. «Non esiste una singola regione cerebrale che sovrintende all'abilità del calcolo», dettaglia Stefano Cappa, professore di Neuroscienze cognitive all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e membro della Società Italiana di Neurologia: «Quella del "bernoccolo della matematica" è un'idea antica, e sbagliata ». Calcolare è una funzione complessa: consiste innanzitutto nell'elaborare i numeri (dunque saperli leggere e scrivere, il che presuppone abilità grafiche e linguistiche) e dare loro un significato, il che implica il concetto di quantità. Ma ragionare per quantità è una caratteristica non esclusiva della nostra specie. Secondo uno studio di alcuni ricercatori dell'Università di Otago in Nuova Zelanda, pubblicato su "Science", persino i piccioni sarebbero capaci di discriminare gruppi dì oggetti più numerosi da quelli meno consistenti, e mettere in ordine immagini diverse a seconda del numero di elementi che contengono. Infine c'è il sistema del calcolo, cioè la capacità di fare addizioni e sottrazioni, fino a risolvere equazioni differenziali. Tutte e tre queste componenti concorrono al pensiero matematico, e mettono in gioco diversi sistemi sia nell'emisfero destro che in quello sinistro, come dimostrano le immagini della Risonanza magnetica funzionale. Ma un ruolo cruciale lo svolge certamente il lobo parietale. «Sappiamo che i bambini affetti da un disturbo dell'apprendimento come la discalculia presentano delle alterazioni, seppur minime, proprio in questa regione», spiega Cappa. Dunque chi presenta una maggiore complessità strutturale di quest'area, con sol chi e circonvoluzioni articolate, può effettivamente trovarsi più a suo agio davanti a una radice quadrata. Ma, avverte ancora il neuroscienziato: «Non ha senso tenere separata la genetica dall'ambiente e dall'educazione, visto che questi ultimi due fattori sono ìn grado di modificare la fisiologia del cervello». Eppure c'è anche chi ha una tale fiducia nella fisiologia da aver analizzato i benefici della stimolazione elettrica del cervello per migliorare le performance in aritmetica: secondo Cohen Kadosh, scienziato cognitivo all'Università di Oxford, che qualche settimana fa ha pubblicato i risultati del suo studio su "Nature", nel quale sostiene che un leggero elettroshock (Transcranial direct-current stimulation) aiuta a imparare e a ricordare l'abilità nel calcolo. Con benefici duraturi nel tempo: sei mesi dopo l'esperimento, i volontari mostravano una capacità di risoluzione di problemi matematici superiore del 28 per cento rispetto al periodo precedente la stimolazione, Insomma, sembra proprio che una qualche connessione tra le abilità matematiche e la fisiologia del nostro cervello ci sia. Anche se, concordano gli esperti, su questa materia cerebrale agiscono, con prepotenza, gli stimoli e l'ambiente nel quali i ragazzi vivono. Prendiamo i sistemi di istruzione dei paesi in cima alla classifica dei giovani matematici, «Hong Kong è un paese molto piccolo e molto ricco, e sappiamo che questi sono due fattori fondamentali per stimolare l'eccellenza, in tutti i settori», spiega Corsi: «A Taiwan le università raggiungono i primi posti nei ranking internazionali, ci sono investimenti a lungo termine nel settore della formazione, e l'efficienza è un grande motore del Paese». Sarà vero, ma resta il fatto che a raggiungere i risultati migliori in matematica sono anche i ragazzi di origine asiatica che da tempo vivono negli Usa, e dunque integrati nello stesso sistema educativo, quello pubblico americano. Uno studio appena apparso su "Psychology of Women Quarterly" fa luce sul fenomeno. Un gnippo di psicologi dell'Università del Maryland ha chiesto di eseguire test in matematica e scienze a 367 studenti di scuola secondaria afroamericani, latini, asiatici americani e caucasici. I risultati dell'indagine mostrano chiaramente come ad ottenere performance nettamente superiori a quelle di tutti gli altri gruppi siano gli adolescenti di origine orientale. I risultati peggiori, invece, sono quelli raggiunti dai ragazzi afroamericani e latini. Ancora più interessante il fatto che a segnare i punteggi più alti nei test fossero non soltanto i maschi, ma anche le femmine asiatico-americane, Sfatando così un luogo comune abbastanza diffuso, secondo cui le ragazze sarebbero intrinsecamente incapaci, per non meglio precisate ragioni biologiche, di avere a che fare con i numeri. Ma questo è un altro dilemma. m _____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 set. ’13 SAN BASILIO: INAUGURAZIONE UFFICIALE DEL MAXI TELESCOPIO SAN BASILIO Il Sardinia Radio Telescope (riassunto nell’acronomi SRT), uno dei più evoluti e potenti strumenti del mondo per lo studio delle emissioni radio provenienti dai corpi celesti e per applicazioni di geodinamica e di scienze spaziali , realizzato nell’altipiano di Pranu Sanguni, quasi al limite di confine tra i comuni di San Basilio, Silius, San Nicolò Gerrei e Sant’Andrea Frius, dall’istituto nazionale di astrofisica ( Inaf) e dall’agenzia spaziale italiana (Asi) con il significativo supporto finanziario del ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e della Regione Sardegna, sarà inaugurato lunedì mattina alle 11. Alla cerimonia inaugurale che dichiarerà ufficialmente operativo il nuovo modernissimo strumento scientifico, unico in Europa e secondo al mondo, parteciperanno tra gli altri il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Maria Grazia Carrozza; il presidente della giunta regionale Ugo Cappellacci e i presidenti dell’Agenzia spaziale italiana Enrico Saggese, e dell’Istituto nazionale di astrofisica Giovanni Bignani e un’ampia rappresentanza di scienziati provenienti dai principali centri internazionali di radioastronomia ed esponenti di primo piano delle agenzie spaziali di tutto il mondo. A ricevere gli illustri ospiti saranno i sindaci dei comuni del Gerrei : Maria Rita Rosas ( San Basilio ) Giuseppe Erriu ( Silius ), Giuseppe Cappai ( Sant’andrea Frius ), Marcello Mura ( San Nicolò Gerrei), Antonio Quartu (Armungia), Marco Lampis (Escalaplano), Leonardo Usai (Villasalto), Severino Cubeddu (Ballao) e Armando Delussu (Goni). Nonchè il direttore dell’iInaf- osservatorio astronomico di Cagliari, Andrea Possenti; il direttore del progetto SRT, Nicolò D’Amico e la responsabile della comunicazione Inaf-oac Silvia Casu. I lavori per la realizzazione del SRT presero il via nel novembre del 2001. (g.c.b.) _____________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 set. ’13 A HARVARD IL NOBEL DEI SAPERI BUFFI L'inventore degli Ignobel racconta i premi che fanno prima ridere e poi pensare. Come Geim che vinse quello per la Fisica per aver fatto levitare una rana, e poi fu riconosciuto anche a Stoccolma! • Testo • Suggeriti Mario De Caro Siamo all'Università di Harvard, la più antica d'America – fu fondata nel 1636 –, nell'edificio che ospita il Sanders Theatre, in cui si tengono cerimonie, concerti e rappresentazioni. Il teatro si trova a due passi da altri celebri edifici di questo ateneo, come la mitica Harvard Yard (con gli edifici più antichi e la Widener Library, il gioiello del sistema bibliotecario harvardiano, che custodisce 15 milioni di volumi), il Carpenter Center for the Visual Arts (l'unico edificio costruito da Le Corbusier negli Stati Uniti) e il Fogg Museum, appena ricostruito da Renzo Piano (in cui si custodiscono opere di Tiziano, Poussin, Van Gogh e Picasso, oltre che dei maggiori impressionisti). Già con il solo nome Harvard intimidisce, e non senza ragione. È per esempio l'università che vanta il maggior numero di premi Nobel: 71 vincitori vi hanno insegnato e altri 80 vi hanno studiato. Ed è l'istituzione accademica più ricca al mondo: nel 2011, nonostante la crisi, aveva un patrimonio di 32 miliardi di dollari, superiore a quello di più oltre cento nazioni. Con tutta la sua autorevolezza, Harvard non manca però di ironia. Un esempio in questo senso si è avuto il 12 settembre, quando nel Saunders Theatre si è svolta la ventitreesima cerimonia per la consegna degli Ignobel Prizes. Ogni anno questi premi vengono assegnati, in dieci diversi campi, a «ricerche scientifiche che prima fanno ridere e poi danno da pensare». L'idea è in primo luogo giocosa: ovviamente è una parodia dei premi Nobel. Ma sullo sfondo c'è anche un intento serio: contribuire alla comprensione pubblica della scienza e del ruolo che essa gioca nella società contemporanea. Oltre a far ridere, dunque, le ricerche premiate dagli Ignobel generano riflessioni di vario tipo: per esempio alcune indicano direzioni di ricerca ingiustamente trascurate dalla comunità scientifica. «Un buon esempio in questo senso – spiega Marc Abrahams l'effervescente creatore e maestro di cerimonie degli Ignobel – è il premio per la Fisica, assegnato nel 2000 ad Andre Geim e Michael Berry per aver fatto levitare una rana mediante l'uso di magneti. Quella ricerca voleva attirare l'attenzione sul magnetismo, un fenomeno che in quegli anni non attraeva molto comunità scientifica. Il tentativo riuscì: di quell'esperimento si parlò molto e ciò suscitò un ritorno di interesse per il magnetismo. E dieci anni dopo Geim vinse anche il Premio Nobel». Altri Ignobel hanno invece un intento satirico: in questi casi, dopo il sorriso, viene da pensare che nella ricerca premiata c'è qualcosa che non va. Abrahams si rifiuta categoricamente di dare motivazioni dei premi oltre quelle ufficiali. Per aggirare il problema gli chiedo se ricorda qualche caso in cui il vincitore non si è presentato a ritirare il suo premio (e non perché fosse malato, ovviamente). «Mi vengono in mente tre casi – risponde –. Jacques Benveniste ha vinto due volte l'Ignobel, senza ritirarlo, per alcune sue ricerche sull'omeopatia: una, in particolare, si proponeva di mostrare che non solo l'acqua ha memoria, ma che l'informazione che essa ricorda può essere trasmessa attraverso le linee telefoniche e Internet. E non partecipò alla premiazione (anche perché era in carcere) nemmeno Michael Milchan, il "titano di Wall Street" e padre delle obbligazioni ad alto rischio, verso cui tutto il mondo è debitore. Infine gli editor di Social Text non ritirarono l'Ignobel che avevano vinto per avere "entusiasticamente pubblicato una ricerca che non erano in grado di capire, che l'autore definiva insensata e che proclamava che la realtà non esiste"». In effetti, viene da pensare che, se la realtà non esiste, c'era poco da ritirare. Ci sono poi casi in cui gli Ignobel risolvono dubbi legati a credenze radicate nel senso comune. Molti per esempio pensano che se un pezzo di cibo cade a terra e lo raccogliamo entro cinque secondi, si può mangiare perché non ha fatto in tempo a contaminarsi. Ma è veramente così? Abrahams sorride: «Nel 2004 Jillian Clarke (che era ancora studentessa!) vinse un Ignobel per aver dimostrato che in alcuni casi il principio è vero, ma in molti altri la contaminazione avviene molto prima di cinque secondi, a causa di fattori come la consistenza e untuosità del cibo e la condizione di pulizia del pavimento». Insomma: se vi cade una fetta di mortadella in garage, è meglio non mangiarsela. Altri Ignobel vengono assegnati a risultati che, nella migliore tradizione scientifica, sono ottenuti per serendipità, sono cioè gli effetti del tutto imprevisti di ricerche intraprese per altri scopi. Così, ricorda Abrahams, «nel 2004 il premio per la Biologia fu assegnato a due team di scienziati che avevano scoperto, indipendentemente, che le aringhe comunicano tra loro emettendo peti. Qualche anno dopo si è saputo che la ricerca di uno dei due team era stata commissionata dal primo ministro svedese Carl Bildt, che supponeva che i misteriosi ticchettii che si avvertivano nella baia di Stoccolma erano dovuti alla presenza di sottomarini russi...». Invece erano flatulenze ittiche a interesse semiotico (povero primo ministro!). Una delle caratteristiche della giocosa cerimonia di consegna degli Ignobel è chi vi partecipano anche vincitori di premi Nobel. Abrahams ricorda che nel 2009 il premio per la Sanità pubblica fu attribuito a Elena Bodnar per aver inventato un reggiseno che si trasforma rapidamente in una maschera protettiva dotata di un sensore che rileva la presenza di radiazioni. Quel premio fu consegnato dai Nobel Paul Krugman (Economia), Orhan Pamuk (Letteratura) e Wolfgang Ketterle (Fisica), che diedero anche pubblica dimostrazione dell'utilità di quell'invenzione. Gli Ignobel sono un premio democratico: chiunque può avanzare candidature, scrivendo a marca@improbable.com. Ogni anno vengono presentate circa 9.000 candidature, di cui il 10% sono autocandidature. «Tendenzialmente le autocandidature non portano al premio, ma tra le eccezioni c'è quella del famoso primatologo Frans de Waal che, autocandidandosi, ha vinto l'Ignobel 2012 per l'anatomia, insieme a Jennifer Pokorny, per aver dimostrato che gli scimpanzé possono identificare individualmente i propri consimili guardando una fotografia del loro posteriore». Quest'anno l'Ignobel per la fisica è stato vinto da un team italiano guidato da Alberto Minetti, per aver dimostrato che gli umani possono correre sulle acque - nel caso, però, che tanto loro quanto le acque si trovino sulla Luna. Non è stato però il primo Ignobel vinto dal nostro paese. «Per esempio – ricorda Abrahams –, nel 2010 un team di Catania vinse l'Ignobel dimostrando matematicamente che le organizzazioni diventerebbero più efficienti se le promozioni, invece di seguire le consuete strategie razionali, fossero distribuite a caso. Fatemi aggiungere, però, che l'Italia è sempre stata una buona produttrice di Ignobel e che ci sono buone prospettive per altri premi in futuro». Gli chiedo se sa quali siano le condizioni in cui oggi i ricercatori italiani si trovano a lavorare. Mi risponde che tutti i ricercatori italiani che incontra gli dicono che la situazione è drammatica. C'è da chiedersi perché abbiano tutti questa impressione... . © RIPRODUZIONE RISERVATA Marc Abrahams, reduce dal Perugia Science Fest che termina oggi nel capoluogo umbro (oggi la conferenza del professor S. Lovejoy sulle dinamiche caotiche nell'atmosfera e la loro relazione col ricaldamento climatico, www.perugiasciencefest.eu), sarà a Roma il 1° ottobre alla Libreria Assaggi, via degli Etruschi 4 (ore 19:30). All'incontro parteciperanno anche Gilberto Corbellini, Mario De Caro, Armando Massarenti e Yuri Yvanenko (co-vincitore dell'Ignobel 2013 _____________________________________________________ Avvenire 28 Sett. ‘13 LITIGANDO (BENE) S'IMPARA DI ROSSANA SISTI Tutta colpa dei sinonimi. Dell'idea che si possano indifferentemente associare e mescolare parole come violenza, conflitto, guerra, litigio, contrasto o prepotenza in un unico calderone. Eppure gli effetti di questa confusione possono essere pericolosi. Si può chiamare conflitto la guerra in Afghanistan e contemporaneamente il litigio tra vicini di casa? E se si definisce violenta la sceneggiata di un bambino che piange e strepita per non aver vinto a un gioco in cortile come si chiamerà lo schiaffo che lo mette a tacere? La domanda non è oziosa: da anni Daniele Novara, direttore del Centro psicopedagogico per la pace di Piacenza, lavora scientificamente sull'idea del conflitto come forma di relazione più evoluta e su un dato oramai incontrovertibile: che alla base di molti comportamenti violenti ci siano l'incapacità di gestire situazioni conflittuali, la difficoltà cioè a tollerare emotivamente le contrarietà nelle relazioni e ad affrontare litigi, parole, sguardi o gesti negativi senza fare dell'eliminazione dell'altro l'unico modo di sanare la minaccia. La cronaca è densa di esempi, di situazioni conflittuali in cui il rancore o la rabbia covati profondamente per anni, in una sorta di analfabetismo di relazione, esplodono in modo drammatico nella coppia, tra colleghi di lavoro, vicini di casa o persino sconosciuti. Perché il mondo è complicato e le persone sempre più inadeguate a mediare dialetticamente divergenze e contrarietà. «Chi non ha imparato a sostare nel conflitto, a litigare, e a litigare bene spiega Novara corre dei rischi. In situazioni di conflitto potrebbe rispondere con la violenza, perché questa è la strada più semplice e immediata. Quella che risolve il conflitto eliminando chi crea il problema. In una società che è sempre più basata sull'autoregolamentazione, invece, bisogna imparare fin da piccoli a stare dentro i contrasti e le contrarietà. In questo senso saper litigare è protettivo, perché insegna a stare al mondo». Lo confermano i risultati di una poderosa ricerca sperimentale sul litigio infantile la prima a livello internazionale sul tema, messa a punto nei mesi scorsi ma risultato di trent'anni di lavoro confluiti in un progetto educativo sano e funzionale. Un metodo "maieutico" che Novara racconta nella teoria e nella pratica in due volumi freschi di stampa: Litigare con metodo, scritto con Caterina Di Chio e pubblicato da Erickson (pagine 104 , euro 17,00), che aiuta a gestire le difficoltà in classe; e Litigare fa bene (Rizzoli, euro 9,90), 270 pagine pensate per i genitori, ricche di storie, esperienze e percorsi pratici. «Un metodo educativo sperimentale efficace per rinforzare la capacità dei bambini, soprattutto di quelli più piccoli, di risolvere autonomamente i conflitti, cioè di cavarsela da soli». Una sponda metodologica liberatoria per bambini e genitori, la definisce Novara, che in più è utile per migliorare il clima familiare spesso invelenito dalle liti tra fratelli. Perché di fatto i bambini tra loro litigano e spesso, con un rumore di fondo che i genitori o gli insegnanti anelano solo a spegnere. Il problema è che per gli adulti il litigio è ancora un tabù. Qualcosa di negativo da reprimere e castigare. Del resto, come spiega Daniele Novara, «in un Paese in cui la pedagogia non esiste più, ma è stata sostituita dalle tate dei reality tv, c'è un vuoto enorme rispetto ai riferimenti di una scienza che stia alla base dell'educazione. Gli insegnanti da anni non fanno formazione e i genitori disinformati e confusi navigano a vista». Così che, tirati in ballo, finiscono per recuperare nella propria storia e quindi riproporre comportamenti vessatori che non hanno nulla di educativo. Gli adulti intervengono per zittire i litiganti, pacificare gli animi, ristabilire un'ideale armonia e chiudere la contesa individuando infine il cattivo da castigare e il più debole da proteggere. «L'educatore invece sottolinea il pedagogista dovrebbe fare esattamente il contrario, creare le condizioni perché i bambini attivino le proprie risorse nel far da soli, sostenere il loro diritto di litigare e di sperimentare il limite ma anche l'espressione delle diverse versioni del conflitto». E il metodo che Novara chiama dei "Due passi indietro e due avanti" che consiste non nel cercare il colpevole e imporre le soluzioni, ma nel favorire il racconto reciproco del litigio e la ricerca dell'accordo tra i litiganti stessi. Ottimo esercizio per l'autostima, fatto di tanti passaggi di crescita poiché la conclusione, anche se pare ovvia, è che i conflitti non si annullano ma si gestiscono. Che nel farlo ci si rafforza, perché strada facendo si imparano le mosse giuste, intelligenti e comunicative che preservano dalla violenza, di cui sono un efficace antidoto. E soprattutto si apprende a stare insieme nella criticità e nella divergenza. I contesti difficili sono la vera sfida. Non c'è storia quando insieme ci si ascolta piacevolmente e l'intesa è pacifica. Troppo facile. _____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 set. ’13 CLIMA, COLPA (QUASI) CERTAMENTE NOSTRA L'Onu: c'è il 95-100% delle probabilità che l'uomo sia responsabile del riscaldamento Che il riscaldamento globale del pianeta misurato dal 1950 sia da attribuire all'attività umana è «estremamente verosimile». Lo si può ormai affermare con un livello di certezza tra il 95 e il 100%, lo stesso che ha la scienza medica quando sostiene che il fumo uccide. Dopo settimane di «leaks», l'organismo dell'Onu che si occupa di valutare quanto la ricerca mondiale sforna sul cambiamento climatico ha pronunciato ieri il suo verdetto. A Stoccolma gli uomini dell'Ipcc, l'Intergovernmental Panel on Climate Change, hanno diffuso una trentina di cartelle che rappresentano soltanto l'avanguardia delle 2.500 pagine prodotte dal primo dei tre «gruppi di lavoro». Due milioni di gigabyte di dati e 9.200 pubblicazioni citate che dovrebbero dare un'indicazione di cosa stia accadendo al clima del pianeta, e orientare le politiche dei governi. Un processo che sarà completato entro ottobre 2014, anche se a dare un quadro sembrano più che sufficienti le pagine di ieri sull'evidenza scientifica del cambiamento. È vero, intanto, che a colpire siano metodo e linguaggio dei ricercatori Onu. Nel 1990 e nel 1995 il legame tra riscaldamento climatico e attività umana era solo suggerito come un'ipotesi possibile. Nel 2001 è diventato «verosimile», con il 66% di probabilità. Nel 2007, l'anno del rapporto precedente, era salito al 90% («molto verosimile»). Una progressione scandita con prudenza, e solo oggi ribadita con il massimo di forza che l'Ipcc si può permettere dati i suoi vincoli scientifici e istituzionali (ha 195 Paesi membri). Ma in concreto, che cosa significa tutto ciò? Ad esempio che nell'emisfero settentrionale il periodo 1983-2012 è verosimilmente stato il più caldo degli ultimi 1.400 anni; che dopo che le acque superficiali degli oceani si sono già riscaldate, la stessa sorte toccherà a quelle più profonde, influenzandone la circolazione; che soprattutto nell'emisfero nord i ghiacci continueranno a perdere massa. E anche che il livello medio del mare nel periodo 1901-2010 è cresciuto di 19 centimetri e continuerà a farlo. Sulla base di quattro scenari di emissioni di CO2 si prevede che in questo secolo le temperature medie cresceranno tra 0,3 e 4,8 gradi. Probabilmente si resterà all'interno di 1,5-2 gradi, al limite estremo della «sopportabilità» per l'uomo ma con effetti poco prevedibili localmente: «Ci saranno onde di calore più frequenti e più lunghe — ha spiegato il co-chair svizzero Thomas Stocker — e con il riscaldamento della Terra le regioni umide riceveranno più piogge mentre quelle più secche ancora meno». Ma come giustificare, invece, l'evidenza secondo la quale negli ultimi 15 anni l'incremento delle temperature si è fermato, un argomento che ha animato le contestazioni recenti dei «clima-scettici»? «I trend rilevanti per il clima non dovrebbero essere calcolati per periodi inferiori a 30 anni», ha risposto Stocker. Il 1998, punto iniziale del presunto rallentamento, sarebbe poi stato un anno particolarmente caldo a causa del Niño. C'è da scommettere, comunque, che la partita che si gioca sul clima non finirà così. Gli scienziati dell'Ipcc si devono ancora far perdonare i grossolani errori commessi nel precedente assessment, quando avevano sostenuto che i ghiacciai dell'Himalaya sarebbero scomparsi entro il 2035. E neppure hanno fatto una bella figura quando nel 2009 sono state rese note le email «hackerate» dall'Università dell'East Anglia (il «Climategate») che mostravano quanto gli effetti dell'influenza umana sul clima fossero sopravvalutati. Resta tuttavia il fatto che all'opera c'è anche una consistente lobby «scettica» e conservatrice, che di volta in volta cerca di smontare le conclusioni dell'Ipcc. Non sempre con argomenti scientifici: lo scorso anno l'Heartland Institute di Chicago, un think tank liberista, ha addirittura affisso cartelloni pubblicitari che mostravano il volto di Unabomber, Ted Kaczynski, e la scritta: «Credo ancora nel riscaldamento globale, e tu?». Va da sé che in mancanza di un accordo planetario sulle emissioni e dopo il fallimento della Conferenza di Copenaghen nel 2009, in gioco ci siano interessi plurimiliardari. Un esempio? La settimana scorsa l'amministrazione Obama ha annunciato che porrà limiti alla CO2 rilasciata dalle centrali a carbone. Ma il carbone, negli Usa, serve ancora a produrre più di un terzo dell'elettricità. Stefano Agnoli @stefanoagnoli ========================================================= _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 set. ’13 I TALASSEMICI: «GIÙ LE MANI DAL MICROCITEMICO» “Giù le mani dal Microcitemico”. Lo slogan, affidato a un lenzuolo imbrattato con le impronte dei pazienti, è solo l'inizio di una lotta che i protagonisti sono pronti a fare se, una volta trasferita qui la Pediatria della clinica Macciotta, vedranno un ridimensionamento dei servizi a loro dedicati. Dei 1000 talassemici sardi cresciuti o quasi fra i corridoi dell'ospedale intitolato al professor Antonio Cao, almeno 50 appartenenti al neonato comitato “In difesa dell'ospedale Microcitemico” ieri hanno riempito l'aula Thun in assemblea insieme ai propri medici e al direttore sanitario della Asl 8 Emilio Simeone. Nel mirino di talassemici e genitori, il nuovo atto aziendale che prevede per il Microcitemico una riorganizzazione che lo renderebbe «una struttura esclusivamente pediatrica, con un reparto per la cura dei malati di talassemia», denunciano gli attivisti: il rischio è che possa diventare «ospedale Pediatrico ex Microcitemico». Il trasferimento del reparto di Pediatria potrebbe partire dall'8 novembre, e determinerà l'assembramento dei pazienti talassemici al secondo piano: una parte dovrebbe essere occupata dagli adulti, un'altra dai bambini (ogni anno nascono circa 10 talassemici) e, al centro, una sala per entrambi. Fra le ipotesi più temute vi è il ridimensionamento dei posti letto per le trasfusioni: si parla di 26 a fronte degli attuali 44 (14 dei quali andrebbero in open space, sprovvisti di privacy). Piena libertà organizzativa, tuttavia, è la promessa di Simeone: «Potrete decidere voi insieme ai medici Paolo Moi e Carlo Dessì come predisporre le trasfusioni». Ma le perplessità del comitato restano: «Dove sarà trasferita la seconda clinica? E i laboratori? E durante la riorganizzazione dove si potrà trasfondere?», chiede Monica Dore, madre di due bambine talassemiche. Facile ipotizzare il recupero di spazi attraverso la costruzione di un corpo aggiunto, più difficile è crederci visto che «è dal primo semestre del 2010 che si parla di un ampliamento della struttura», commenta Anna Crisponi, anche lei genitore, «ma ancora niente è stato fatto». Michela Seu _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 set. ’13 MONSERRATO: IL SINDACO: DARÒ AI PRIVATI LA SEDE EX CRIES MONSERRATO L’ex Cries è ancora chiuso e il sindaco bacchetta la Asl, l’Università e la Regione. Nel corso degli anni sono state cercate diverse soluzioni per utilizzare il casermone di Paluna ma nessuna è andata a buon fine. Nel frattempo è stato in parte ristrutturato (meglio, concluso) e le promesse sulla sua destinazione non sono mancate. Poco tempo fa sembrava dovesse diventare sede della clinica Odontoiatrica dell’Università, poi - bando fallito - il sindaco Argiolas aveva pensato di trasferirci il consultorio della Asl di via Argentina minacciato di chiusura. Ancora, d’accordo con la Regione, si era addirittura discusso di trasformarlo in un centro medico per le donne, punto di riferimento di tutto il Cagliaritano. Peccato che, ad oggi, la sede sia ancora chiusa. Per questa ragione l’altro ieri il sindaco Gianni Argiolas ha inviato una lettera All’assessore regionale alla Sanità, Simona de Francisci, al direttore generale della Asl, Emilio Simeone, al Rettore dell’Università di Cagliari Giovanni Melis e al direttore del Policlinico, Ennio Filigheddu, per richiamarli agli impegni presi. In particolare il sindaco ricorda «gli incontri avvenuti con tutti i soggetti interessati e il successivo tavolo tecnico, nel corso del quale sono state avanzate idee progettuali e tempistica di realizzazione». Promesse che, a quanto sembra, non sono state mantenute. «È mio interesse giungere a conclusioni che possano offrire alla cittadinanza servizi migliori di quelli attuali», scrive Argiolas. «È importante superare la situazione di inadeguatezza in cui si trovano i locali dedicati all’igiene pubblica di via Tito Livio: insufficienti per utenti e operatori». In caso contrario, «in questa persistente situazione di mancanze di risposte, il Comune sarà obbligato a offrire i locali a privati, scelta che recherebbe dei vantaggi economici all’amministrazione ma che continuerebbe a sacrificare gli interessi dei cittadini più deboli». Ora la scelta di trasformare il casermone di Monserrato in un centro servizi sanitari, o di studi, per l’intero hinterland, spetta alla Regione, alla Asl e all’Università. (s.se.) _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 27 set. ’13 AOB: SE CAGLIARI BATTE NEW YORK L'odissea di un architetto cagliaritano che vive nella Grande Mela e l'epilogo positivo in città Curata male e a costi altissimi, guarita bene e gratis al Brotzu Qualche volta capita che Davide batta Golia. O che una piccola squadra surclassi una big in campionato. O che l'allievo superi il maestro. Altre volte si scopre che qualcuno che è ritenuto il più bravo non lo sia, o sia semplicemente il più bravo a far credere di esserlo. Questa storia lo dimostra. Valentina Cocco, cagliaritana, è un architetto che vive e lavora New York da circa cinque anni. Tre mesi fa in un banale scontro sportivo si fa male al ginocchio destro. Portata in un ospedale, viene sottoposta alla tipica trafila statunitense: prima accertano la sua solvibilità finanziaria (nessun problema visto che ha due assicurazioni, una del suo datore di lavoro e una fatta di sua iniziativa in Italia) poi pretendono una cospicua parcella in anticipo. Infine viene visitata da uno specialista ortopedico traumatologo che le diagnostica una contusione dell'articolazione del ginocchio e prescrive oltre a comuni antinfiammatori, un ciclo di fisioterapia. Ma la costosissima cura non dà i suoi effetti perché dopo oltre un mese di cura il dolore persiste e Valentina Cocco non riesce ad estendere il ginocchio. A quel punto l'architetto chiama il padre, noto otorinolaringoiatra, già professore universitario di tecniche audiometriche a Cagliari e consulente otorino del comando regionale della Guardia di Finanza sarda e, attualmente, delle cliniche Sant'Antonio e Madonna del rimedio. «Che cosa faccio, vengo a farmi controllare in Italia?». La risposta del padre è perentoria: «Gli americani sono i migliori, fìdati». Rassicurata, l'architetto va da un altro ortopedico traumatologo ritenuto un luminare (e con parcella proporzionale) che contraddicendo il suo collega e con atteggiamenti da star, diagnostica una frattura del menisco e dei legamenti crociati e propone un intervento urgente al ginocchio. Ovviamente costosissimo. Ma evidentemente urgente non era perché quando Cocco gli comunica che ha programmato un viaggio in Grecia, il luminare non obietta: «No problem, operiamo tra un mese». È a quel punto che il padre medico, molto perplesso, attiva contatti con ortopedici di Cagliari che colgono le incongruenze e si dichiarano disponibili a trattare il caso al Brotzu. Veloce cambio di biglietti aerei, ricovero al Brotzu, intervento per rottura del menisco (ma con i crociati indenni) riabilitazione, amorevoli cure per tutto il mese di agosto. E rientro negli Stati Uniti in perfetta salute. Senza spendere un soldo. «Qual è la morale?», commenta Mario Cocco: «che la grande medicina l'abbiamo qui a casa. Mi viene la pelle d'oca», conclude il padre dell'architetto, al pensiero che poteva essere operata dai banchieri- chirurghi di New York». Fabio Manca _____________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 set. ’13 ASL7: ANDREA CORRIAS NUOVO DIRETTORE SANITARIO CARBONIA Andrea Corrias, 59 anni, residente a Selargius, è il nuovo direttore sanitario della Asl 7: succede al dimissionario Franco Trincas. Corrias si ritrova a dirigere un settore nel periodo forse più delicato della Asl 7, sottoposta come le altre Aziende alla scure dello Stato e della Regione, tant'è che è imminente il congelamento di una cinquantina di posti letto. Andrea Corrias, specialista in Igiene e Medicina preventiva, deve tuttavia difendersi nel secondo grado di giudizio da una condanna a tre anni e mezzo (l'accusa era di tentato peculato anche per altri due suoi colleghi) emessa nel 2011. Nel periodo fra il 1997 e il 1999, quando era dirigente medico al Brotzu, era rimasto coinvolto nella vicenda “bisturi d'oro” legata al servizio di affilatura dei bisturi del principale nosocomio cagliaritano: era nata quando un artigiano spagnolo presentò parcelle (in parte mai pagate) esorbitanti. Tuttavia è possibile che nel frattempo sia intervenuta l'estinzione del reato. (a. s.) _____________________________________________________________ Repubblica 27 set. ’13 LORENZIN: TRIPADVISOR DEGLI OSPEDALI ITALIANI e i cittadini potranno scegliere l'eccellenza" Il ministro: "Servirà anche a razionalizzare le risorse. Dati sanitari online" di MICHELE BOCCI Beatrice Lorenzin (fotogramma)ROMA - "Voglio creare il TripAdvisor degli ospedali italiani". Il ministro alla Sanità Beatrice Lorenzin si butta sull'open data e scommette: sarà internet a suggerire ai cittadini dove curarsi. Come lavorano i chirurghi di quel reparto? Sono efficaci le terapie dell'oncologia della mia città? Quanto rischia una ricaduta chi passa da una determinata medicina interna? Tutte domande che, insieme a molte altre, troveranno risposta in un sito del ministero. Conterrà una rielaborazione dei dati di tabelle e diagrammi piuttosto astrusi per ora riservati a tecnici ed esperti. "Siamo nell'era della trasparenza. Si sa tutto di tutti. Non vedo perché i risultati del lavoro degli ospedali debbano rimanere segreti". E i cittadini, ministro, faranno "recensioni" come sul noto sito dedicato a hotel e ristoranti? "Inizialmente potranno esprimere pareri su aspetti come l'accoglienza del personale, la pulizia dell'ospedale, l'umanizzazione delle cure. Fargli dire la loro su aspetti propriamente sanitari è più delicato. Magari si potrebbero inserire i commenti di questo tipo in sezioni che possono essere consultate solo dagli addetti ai lavori". Partiamo dall'inizio: perché vuole rendere pubblici i risultati sanitari degli ospedali? "È il momento di avere più coraggio ed essere trasparenti. Siamo nell'era degli open data e le informazioni sul nostro sistema sanitario devono circolare. I dati esistono già, bisogna solo renderli consultabili da tutti, eliminare i percorsi farraginosi con cui arrivano al ministero. Gli ospedali li trasmettono alle Asl, queste li mandano alle Regioni e infine vengono inviati qui. Li faremo arrivare direttamente a noi per poter aggiornare in tempo reale i numeri sui risultati dell'assistenza ospedaliera, invece che pubblicarli con cadenza annuale". A cosa servirà il sito? "Prima di tutto permetterà al paziente di decidere dove curarsi. Dovrà essere semplice da consultare. Hai un problema al cuore e abiti vicino al San Camillo di Roma? Online potrai recuperare i dati sulla mortalità in quell'ospedale per l'intervento di cui hai bisogno. Se troverai un reparto migliore altrove, potrai decidere di spostarti. Negli Stati Uniti esiste già una cosa del genere e si possono addirittura vedere gli esiti del lavoro dei singoli chirurghi. Ma il sistema ci servirà anche a capire il livello di efficienza delle strutture, farà suonare dei campanelli di allarme immediatamente, senza dover aspettare due o tre anni per capire che in uncerto reparto qualcosa non va. E si potranno fare interventi di razionalizzazione: tagli di posti letto, o accorpamenti". Mettere tutti i dati online farà arrabbiare le Regioni, da sempre restie a vedere i loro ospedali inseriti in una classifica. "Non devono ragionare in una logica di buoni e cattivi, la valutazione serve a migliorare i sistemi sanitari, non a innescare una competizione. Tra l'altro questa sorta di TripAdvisor degli ospedali potrebbe anche ridurre gli spostamenti da una Regione all'altra, soprattutto dal Sud al Nord. Grazie ai dationline, infatti, chi vive nel Meridione potrebbe scoprire che una struttura vicina a dove vive ha dati ottimi in una certa specialità, simili o migliori di quelle del Nord. Magari il cittadino calabrese o pugliese ha dietro casa un'oncologia che funziona. Il sistema può smentire luoghi comuni e incentivare chi non funziona a fare meglio. Sarà utile anche a livello europeo". In che senso? "Tra poco entrerà in vigore la legge Ue che permetterà ai cittadini di viaggiare senza vincoli da un Paese all'altro per curarsi. Sarà importante comunicare la qualità delle strutture italiane a chi vive all'estero per attrarre i pazienti". Quando partirà il sito? "Prima possibile. I soldi non sono un problema perché ci sono software che costano pochissimo per gestire sistemi del genere. E poi per l'open data ci sono fondi della Presidenza del consiglio ma anche nostri e di l'Agenas, l'agenzia sanitaria delle Regioni". Con la tessera sanitaria avrete a disposizione anche i dati dei pazienti. Di quelli cosa farete? "Si tratta di un'altra sfida, da affrontare tenendo conto della privacy. Far circolare le informazioni sanitarie delle persone servirà ad avviare campagne di salute pubblica, ad esempio di screening, oppure di organizzare i servizi di assistenza e valutare l'appropriatezza delle cure. Abbiamo un immenso data base sulle condizioni di salute degli italiani ma anche informazioni utili da incrociare con altre. Penso a quelle sull'esenzione del ticket, che possono servire a fare controlli sugli evasori". _____________________________________________________ Repubblica 28 Sett. ‘13 VITAMINE GRANDE BLUFF Se fate parte della maggior parte degli italiani (due su tre) avete iniziato la giornata ingurgitando pillole, capsule e tavolette di tutti i colori. Magari l 000 nig di vitamina C o 500 di vitamina E, più o un pizzico di D, o un complesso virtuoso di tutte e tre e altra roba ancora. Gli integratori a base di vitamine sono diventati il sacro Graal della nostra epoca: dal maggio 2012 al maggio 2013 ne sono state vendute 142,8 milioni di confezioni per un valore di 1,939,5 milioni di euro (una crescita del 4,7 per cento rispetto all'anno precedente). Le farmacie e i supermercati hanno gli scaffali pieni, non ci vuole ricetta e noi crediamo così di prevenire di tutto, dal raffreddore alla caduta dei capelli al cancro. Senza alcun effetto collaterale. Ma siamo sicuri? Secondo studi recenti potrebbe essere una grandissima bufala. I supplementi a base di vitamine potrebbero non solo essere assolutamente inutili ma in megadosi addirittura fare grandi danni. Lo sostiene Paul Offit, primario del dipartimento di malattie infettive al Childen's Hospital di Philadelphia e crociato anti integratori. <