RASSEGNA 20/10/2013 CAPO DI SOPRA E CAPO DI SOTTO SOLUZIONE PER LE UNIVERSITÀ UNICA MELIS: GOVERNO E REGIONE INVESTANO SULL'UNIVERSITÀ MACCHÉ RACCOMANDATI, ABOLIAMO I CONCORSI CONCORSI UNIVERSITARI: "LA COLPA NON È DI NOI BARONI" NODI E STRINGHE DELLA FISICA IL SAPERE INUTILE CI FA RICCHI SOLDI E LIBERTÀ, COSÌ LA SCIENZA PRODUCE INNOVAZIONE» L'EBOOK AI DOCENTI NON PIACE LA MEZZA MODERNITÀ DELL’ITALIA A SCUOLA I CINQUANT’ANNI DELLA SCUOLA MEDIA (IN CRISI D’IDENTITÀ) ODIFREDDI: IL MATEMATICO NEGAZIONISTA E LE RAGIONI DELLA STORIA ERASMUS: UN MONDO DI STUDENTI ERASMUS RADDOPPIA E PUNTA AD ACCOGLIERE 4 MILIONI DI STUDENTI TRUCCATE LE FOTO DELLE CELLULE ========================================================= LA NOSTRA SANITÀ SCENDE NELLA CLASSIFICA EUROPEA SANITÀ, ECCO COME SI PUÒ RISPARMIARE SENZA TAGLIARE VITA PIÙ LUNGA DI TRE MESI OGNI ANNO LA RIVOLUZIONE CHE NON VEDIAMO DIGITALIZZARE PER NON TAGLIARE AOUCA: NON INCENDIÒ LA CAPPELLA, ASSOLTO DOPO OTTO ANNI AOUCA: NEL NUOVO BLOCCO Q PORTATE SOLO I BAMBINI FINO A UN MESE» AOUCA: IL 26 OTTOBRE OSTETRICIA E GINECOLOGIA A MONSERRATO AOUSS: IL COMUNE VENDE ALL’AOU L’AREA DEL NUOVO OSPEDALE AOUSS: INDENNITÀ MEDICI: UNIVERSITÀ SBORSA 4 MILIONI LE DIECI REGOLE PER NON CADERE NELLE TRAPPOLE DEI "GUARITORI" "BRAIN. IL CERVELLO: ISTRUZIONI PER L'USO" LA RIVINCITA DEL CERVELLO ELETTROSMOG E DANNI ALLA SALUTE LA SCIENZA VIGILA MA NON CONDANNA MEDICINA NARRATIVA «Darei la vita per non morire» QUANTA PAURA HANNO I DOTTORI I DOLORETTI CHE PREVEDONO IL TEMPO LA CREDENZA POPOLARE ORA È SCIENZA ALCOLISMO, ECCO IL MECCANISMO CHE CREA PIACERE E DIPENDENZA IL MINISTERO BOCCIA LA SPERIMENTAZIONE DEL METODO STAMINA STAMINA: ORA SI PUÒ DIRE CHI HA SBAGLIATO? L'ITALIANO CHE «INVENTÒ» LA TAC ITALIA SECONDA AGLI USA NELLA RICERCA IN CAMPO RADIOLOGICO DIETRO AI MITI SULLA SALUTE INTERESSI ECONOMICI E POCA CULTURA ========================================================= _____________________________________________________ La Nuova Sardegna 15 Ott. ‘13 CAPO DI SOPRA E CAPO DI SOTTO SOLUZIONE PER LE UNIVERSITÀ La prospettiva di unificazione delle due università isolane, a seguito del recente decreto del ministro Carrozza, ha generato un articolato dibattito. Viceversa, dopo il referendum abrogativo delle provincie sarde dello scorso anno, è calato sull'argomento una pesante cortina polemica. E se la soluzione del secondo, risolvesse anche il primo problema? Per quanto riguarda le provincie, il governo avrebbe l'intenzione di impugnare la frettolosa leggina proposta dal consiglio regionale tesa all'abolizione totale di quelle esistenti (storiche e non), senza però disegnare una valida alternativa. La discussione della legge di riordino, infatti, si profila con un dibattito praticamente a zero. Si arriva così impreparati all'appuntamento della riforma con il rischio di un compromesso al minimo che lascerà tutti scontenti, tranne coloro che avranno salvato il loro scranno. Per fortuna sotto i cieli d'Italia c'è qualcuno che ha pensato di approfondire l'argomento e di proporre una riordino globale degli enti intermedi (regioni e provincie) alla luce di una visione moderna ed efficace di questo importante spazio di governo vicino alle esigenze dei cittadini. La Società Geografica Italiana, in collaborazione con il Cnr, in uno studio iniziato nel 1999 e consegnato qualche mese fa al Ministero degli Affari Regionali, ha delineato un'Italia con 36 regioni al posto delle attuali 20 regioni e 110 provincie. Il presidente della Società, Sergio Conti, spiega che il disegno riguarda la riaggregazione innovativa dei comuni in entità territoriali di dimensione intermedia fra le attuali regioni e provincie, e non il accorpamento di provincie già esistenti (come frettolosamente proposto dal governo Monti). Secondo la società, «si tratta di un disegno programmatico che trascende le consolidate suddivisioni amministrative provinciali e regionali. Competitività, sostenibilità ambientale, innovazione socio-culturale rappresentano i nuovi assets strategici su cui fondare una possibile proposta. L'obiettivo è quello di disegnare un'organizzazione dell'Italia articolato in una molteplicità di centralità strategiche secondo l'individuazione di una pluralità di nuovi fattori di localizzazione amministrativo adeguato al territorio». Nello studio, il cuoi testo completo può essere trovato all'indirizzo http://www.socie- del Mediterraneotageograficalt/images/stories/ Pubblicazioni/ -ebook. Il riordino territoriale dello Stato per la Sardegna. Al posto della regione e delle 8 provincie, sono state proposte due aggregazioni (nello studio non si creano denominazioni, ma ci si ispira agli arrondissement francesi o ali lander tedeschi): quella del capo di sopra e quella del capo di sotto (esattamente quanto auspicato da me in tempi non sospetti su queste colonne). Lo studio, però, suggerisce che per i territori dotati di particolari caratteristiche di concentrazione urbana, possano essere previste le aree metropolitane. In sostanza per la Sardegna potrebbero essere previste due provincie regionali (che assumeranno la denominazione definitiva una volta varata la riforma della costituzione che le riguarda), due aree metropolitane per i territori di Cagliari e di Sassari. Per quanto riguarda le regioni-provincie del nord e del sud, potrebbero essere previste delle aggregazioni territoriali (comprensori, ci ricorda qualche cosa?) sovra comunali, 3 a nord (Anglona-Gallura, con capoluogo Tempio, Barbagie, con capoluogo Nuoro, Gallura-Baronie, con capoluogo Nuoro) e 3 a sud (Montiferru - Oristanese, con capoluogo a Oristano, Ogliastra-Sarrabus-Gerrei, con capoluogo Lanusei e Campidani-Sulcis, con capoluogo a Iglesias). In tal modo, le Università regionali sarebbero due, con buona pace della fusione (travestita, secondo il ministero, da Federazione) fra. Sassari e Cagliari. Gli atenei, potrebbero, paritariamente, aggregarsi in una federazione più_ vasta euro mediterranea che comprenda Corsica e Catalogna, ma anche Maghreb e Malta. E la capitale della Sardegna? Pensiamole in un centro- centrale, per favore. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Ott. ’13 UNICA MELIS: GOVERNO E REGIONE INVESTANO SULL'UNIVERSITÀ Giovanni Melis * Una nuova generazione di studenti inizia gli studi universitari. Si apre una fase del loro processo formativo destinata a condizionarne le basi culturali e professionali, la sensibilità sociale e politica, la futura capacità di inserirsi nel mondo del lavoro. Vanno incoraggiati e sostenuti affinché possano inserirsi senza traumi in una realtà diversa da quella cui erano abituati: nuovi professori e materie di studio, spesso sono lontano dalle loro famiglie. Sono chiamati ad impegnarsi in un momento sociale ed economico non facile. Continua ad aumentare la disoccupazione giovanile e femminile, mentre la crisi ridimensiona il reddito disponibile per le famiglie. Sulla ripresa economica gravano le incertezze di un'Europa che non riesce a trovare la forza necessaria per coniugare il risanamento finanziario dei bilanci pubblici con la solidarietà per i più deboli. Non minore incertezza deriva dalla situazione italiana, la cui classe politica da anni sembra aver smarrito l'attenzione prioritaria per il bene comune e non è stata in grado di affrontare le riforme necessarie per migliorare la produttività del sistema indispensabile per competere nei mercati internazionali e riprendere a creare posti di lavoro. Nella moderna società della conoscenza si compete con l'innovazione scientifica e tecnologica, con l'efficienza funzionale del sistema Paese, scuola e ricerca, trasporti, energia, comunicazioni, pubblica amministrazione, fruibilità delle risorse ambientali. L'Italia occupa da tempo gli ultimi posti nelle classifiche internazionali per il numero di laureati e di ricercatori, per i laureati presenti nella classe dirigente, mentre si distingue per il tasso di disoccupazione, per essere ormai da oltre un decennio senza crescita economica e per l'emigrazione dei giovani a volte fra i più preparati. La Conferenza dei Rettori ha chiesto al governo di prevedere nella legge sulla stabilità una maggiore attenzione al merito ed ai giovani, ricercatori e studenti. Il sistema universitario ha in questi anni realizzato una profonda riorganizzazione conseguente ai massicci tagli nel finanziamento, meno 15%, e negli organici, il numero dei docenti si è ridotto da 62.000 a 52.000. Ciò nonostante le università italiane continuano a formare giovani, la cui preparazione è apprezzata dagli altri Paesi che li accolgono e valorizzano. Oggi l'Università costituisce l'unica pubblica amministrazione la cui attività (didattica e ricerca) è oggetto di analitica valutazione, da cui deriva la stessa entità del finanziamento ministeriale. In tal senso è importante che la classe politica regionale vigili affinché i parametri ministeriali considerino le peculiarità regionali. La Conferenza dei Rettori chiede un sostegno per premiare il merito dei ricercatori, un sostegno per impiegare nella ricerca in Italia i giovani di talento e per consentire il diritto allo studio di quelli capaci e meritevoli. Propone, in sostanza, l'investimento migliore per il futuro della collettività. * Rettore Università di Cagliari _____________________________________________________ L’Espresso 24 Ott. ‘13 MACCHÉ RACCOMANDATI, ABOLIAMO I CONCORSI Michele Ainis Confesso: ho peccato. E prima di me ha peccato il mio maestro, e il suo maestro, e di maestro in maestro per generazioni Tutti colpevoli d'aver raccomandato i propri allievi, d'aver brigato per appoggiarli nei concorsi. Ma il peccatosi traduce in un reato? A leggere le cronache, parrebbe di sì: decine di prof indagati dalla procura di Bari, concorsi truccati in undici università italiane. Poi, certo, la notizia meriterebbe una verifica. In primo luogo perché gli unici nomi rimbalzati sui giornali chiamano in causa cinque membri della commissione di "saggi", quella incaricata dal governo d'indicare le riforme costituzionali necessarie. Ma guarda un po', che coincidenza. Proprio nel mezzo d'uno scontro politico rovente sulle medesime riforme, proprio alla vigilia della manifestazione indetta a Roma da quanti vi s'oppongono. Fin troppo comodo screditare il saggio per screditare la riforma. E in secondo luogo, c'è trucco e trucco. Noi non sappiamo di quali malefatte vengano accusati questi professori, e il bello è che non lo sanno neanche loro, avendo ricevuto un'informazione a mezzo stampa, anziché un'informazione di garanzia. Ma un conto è favorire i propri allievi, altro i propri figli (ahimè, succede: come diceva l'ex ministro Mossi, certi Consigli di facoltà sembrano Natale in casa Cupiello). Un conto è che il concorso venga vinto da candidati con zero pubblicazioni accreditate, o che i commissari di concorso abbiano, tutti insieme, meno titoli del candidato trom bato (ahimè, succede pure questo: a Parma nel 200.1, a Bari nel 2002, a Reggio Calabria nel 2004, a Messina nel 200.5, alla San Pio V di Roma nel 2006). Un altro conto è stringere alleanze fra scuole accademiche, chiedere un bando da ricercatore all'ateneo per offrire una chance all'allievo migliore, magari chiedere voti dichiarando già in partenza d'appoggiarlo, come succedeva quando le commissioni venivano elette fra professori della stessa disciplina, anziché designate per sorteggio. E allora mettiamoci d'accordo: la cooptazione non è un peccato né un reato, è la legge non scritta dell'università. Perché il giudizio culturale non spetta al popolo elettore, bensì - come diceva Adorno - al «denigrato personaggio dell'esperto«. E il prof di diritto costituzionale che valuta le qualità del costituzionalista in erba, non può certo farlo il sindaco. E d'altra parte ogni giovane studioso s'avvia alla ricerca sotto la guida d'un docente, che poi lo aiuta a far carriera. Sempre che, beninteso, lui abbia stoffa da cucire. Questo sistema incoraggia comportamenti borderline, al confine fra il lecito e l'illecito? Può darsi, ma se è così tanto vale prendere il toro per le corna. Con una soluzione radicale: via i concorsi, che ogni professore si scelga il suo assistente, che ogni ateneo si scelga i propri professori. Magari stabilendo i requisiti minimi per essere chiamati in Paradiso, dal titolo di dottore di ricerca a un certo numero di pubblicazioni. Altrimenti rischieremmo la promozione in massa del cretino. E se il cretino trova comunque spazio in Paradiso? Ne risponde chi lo ha scelto, ma a tale scopo serve una doppia condizione: via il valore legale della laurea, via il valore legale della cattedra. Dunque competizione tra i singoli atenei, sicché chi recluta i peggiori docenti si troverà senza studenti. E stop all'inamovibilità dei professori, stop allo stipendio a vita, stop alla stessa busta paga per i prof che scrivono libroni e per quelli che coltivano le rose. È la soluzione proposta mezzo secolo fa da Luigi Einaudi, ma è anche il perno del sistema americano. Dove gli unici docenti a tempo indeterminato sono quelli con tenute (incarico stabile); gli altri lavorano, per così dire, in prova. Ovvero con contratti per lo più triennali, che agli studiosi più brillanti fruttano un milione di dollari. E. che frutta no il licenziamento agli incapaci. Morale della favola? Da concorsopoli ci salverà il mercato. _____________________________________________________ Il Fatto 20 Ott. ‘13 CONCORSI UNIVERSITARI: "LA COLPA NON È DI NOI BARONI" di Bruno Tinti 1 Di tanto in tanto si perde qualche certezza. E si scopre che è meglio non affidarsi ai luoghi comuni, per quanto ossessivamente ripetuti. Sono andato in ospedale per un controllo. Mi visita un vecchio amico, Gianni Di Perri, ordinario all'Università di Torino, direttore della clinica di malattie infettive all'ospedale Amedeo di Savoia. Un "barone". È vero che finalmente vi tagliano le unghie e cambiano il sistema dei concorsi? Eh si... Vi scoccia, eh? Per niente, è dal '92 che i "baroni" le unghie non ce l'hanno più; solo che il nuovo sistema è tutto sbagliato. Passare da commissioni esaminatrici locali a una nazionale estratta a sorte dovrebbe impedire i favoritismi; sai che raccontano di studenti che fanno gli autisti ai professori per "guadagnarsi" il concorso? Per non parlare di altri tipi di prestazione... Può essere successo. Tu non conosci magistrati che si sono venduti qualche processo? In effetti... Il problema non sta nella commissione nazionale. Sta nel tipo di esame. A furia di limitare la discrezionalità della Commissione per evitare favoritismi, hanno impedito la selezione. Nel 1992 c'è stata la riforma. Commissione locale ed esame su quiz, curriculum e prova pratica. E non andava bene? Per niente. I quiz se li imparavano a memoria... Già, ora che mi ci fai pensare questa stessa idiozia l'hanno applicata per qualche anno al concorso per magistratura. Li superava gente che sapeva met- tere le crocette al posto giusto; ma diritto e giurisprudenza sono un'altra cosa... E sai qual è il peggio? Che, su 100 punti disponibili, chi non sbaglia un quiz ne prende 60. Favoritismi zero, vero; ma preparazione professionale... Restano 40 punti. 25 derivano dal curriculum. Però 7 dipendono dal voto di laurea: 110 e lode, vale 7; 110 vale 6,5 e via così fino a 99 che vale O. Anche qui discrezionalità inesistente. Ma c'è laurea e laurea: quelle di università prestigiose sono una cosa, altre sono più facili da ottenere. Lo stesso vale per la tesi: una tesi in malattie infettive, per un posto in questa specialità vale fino a 7, in altra materia meno. Ma anche qui bisognerebbe chiedersi: in quale università ti sei laureato? Capito che succede quando si confonde la patologia con la fisiologia? (Sorride, il gergo medico applicato alla gestione organizzativa lo diverte). Ma resta la prova pratica. Vale solo 15 punti. Uno studente di Torino che ha preso 105 alla laurea e ha sbagliato qualche quiz (chi se ne frega, non significa niente) sarà superato da uno studente di una università poco qualificata che si è laureato con 110 e lode e ha risposto correttamente a tutti i quiz. Un'ingiustizia e una stupidaggine. E poi, con il nuovo sistema, l'aboliranno: troppo potere ai baroni... Solo quiz e curriculum studi, cioè voto di laurea. Tutto automatico, a che serve una Commissione? Basta un computer. Proprio vero. Ma quelli che depositano dal notaio i nomi dei vincitori del concorso e poi si scopre che lo azzeccano? Se ti chiedono di pronosticare il vincitore di Juventus-Crotone tu cosa dici? I quiz li superano tutti o quasi, i voti di laurea si sanno prima, la prova pratica non è in grado di spostare la graduatoria, il risultato è scontato nel 99% dei casi. Ti faccio un esempio. Ultimo concorso fatto da me. Tre posti. Due li hanno vinti medici laureati con me in malattie infettive. Laurea 110 e lode, prova pratica fantastica. Il terzo posto lo ha vinto una che veniva da altra regione, mai conosciuta, molto brava comunque. Quiz perfetti, laurea 110 e lode, prova pratica buona. Ha superato una dottoressa locale bravissima che però si era laureata con 105 perché nei primi due anni aveva accettato voti bassi. Non vincerà mai nessun concorso, brava che sia; chiunque con voto di laurea alto (magari all'Universita di Poggiofiorito) e quiz superati la batterà. Pensa cosa succederà con esame limitato a quiz e voto di laurea. Un bel casino. Ma allora? Non è difficile. Commissione nazionale sorteggiata tra professori della materia: infettivologi per infettivologia, oculisti per oculistica. Niente quiz. Voto di laurea e curriculum che possono valere un massimo di 30 punti. Poi prova pratica che attribuisce fino a 70 punti. Qui la Commissione ci mette la faccia: in un esame pratico orale la preparazione di chi ha frequentato a lungo le corsie (anziché fare l'autista al barone) emerge di sicuro. Non sarà facile, pubblicamente, mescolare il grano e il loglio. E il clientelismo? Ma i componenti della Commissione sono corteggiati! Ci sarà il disonesto che favorirà l'amico o l'amico degli amici. Ma questo non ha nulla a che fare con le "baronie". Secondo te saranno sempre tutti disonesti?. Mi trovo a pensare al mio vecchio lavoro, al Csm lottizzato dalle correnti, al sorteggio dei componenti del Consiglio come metodo per evitare il clientelismo, alla fiera opposizione dei correntocrati. I "baroni" ci sono proprio dappertutto. ____________________________________________________________ Il Sole24ore 20 Ott. ’13 NODI E STRINGHE DELLA FISICA Una lezione a Milano del fisico-matematico, medaglia Fields 1990, che punta a unificare meccanica quantistica e teoria della relatività Umberto Bottazzini «Sebbene sia di fatto un fisico (come mostra chiaramente l'elenco delle sue pubblicazioni) la sua padronanza della matematica ha pochi rivali tra i matematici, e la sua capacità di interpretare idee della fisica in forma matematica è affatto unica. Più di una volta ha sorpreso la comunità dei matematici con la sua brillante applicazione di intuito fisico che ha portato a nuovi e profondi teoremi matematici». Così sir Michel Atiyah – a sua volta premiato con la Medaglia Fields nel 1966 – disegnava la figura di Edward Witten quando venne premiato con quella Medaglia al Congresso Internazionale dei Matematici che si tenne a Kyoto nel 1990. E in effetti, nel ristretto gruppo di giovani matematici (con meno di 40 anni) che nel corso del tempo hanno ricevuto l'ambita Medaglia, Witten ha un profilo scientifico del tutto singolare: quando ottiene il premio più alto cui un matematico possa aspirare, Witten può già vantare prestigiosi riconoscimenti per i suoi contributi alla teoria della relatività generale e la meccanica quantistica: nello stesso anno 1985 ha ottenuto infatti la medaglia Einstein della Einstein Society di Berna, e la medaglia Dirac assegnata dall'Abdus Salam International Centre for Theoretical Physics (Ictp) di Trieste. Del resto, Witten si è rapidamente affermato come uno dei grandi protagonisti della matematica e della fisica teorica del nostro tempo: dopo il dottorato conseguito a Princeton a venticinque anni, e un periodo di perfezionamento ad Harvard, nel 1980 Witten è nominato professore di fisica all'Università di Princeton e, dal 1987, professore alla School of Natural Sciences dell'Institute for Advanced Study. Anche se spesso non presentate sotto forma di dimostrazioni complete, le idee di Witten hanno trovato importanti sviluppi in matematica e, per la profondità delle intuizioni e la chiarezza concettuale, le sue principali scoperte sono ben presto diventate dei teoremi. In fondo, la medaglia Fields era il riconoscimento del crescente impatto del suo lavoro sulla matematica contemporanea. Certo, come riconosceva Atiyah, «l'intuito fisico non porta sempre immediatamente a dimostrazioni matematiche rigorose, ma di frequente porta nella direzione giusta e dimostrazioni tecnicamente corrette possono poi essere trovate. E questo è avvenuto nel caso di Witten». E i riconoscimenti alla sua opera nel corso del tempo si sono moltiplicati, dal Premio Poincaré (2006) alla Medaglia Lorentz e la Medaglia Newton (entrambe nel 2010) solo per citare alcuni fra i più recenti. La ricerca di una teoria unificata in grado di abbracciare la meccanica quantistica e la teoria della relatività generale ha costituito il costante obbiettivo teorico di Witten. In questo campo, gli sviluppi della teoria delle stringhe hanno reso il suo nome noto anche presso il largo pubblico. Negli ultimi decenni quella teoria è stata oggetto di un ampio dibattito nella comunità dei fisici. Pur avendovi dato contributi fondamentali, Witten conserva un prudente atteggiamento: secondo la teoria delle stringhe, dice Witten, «le particelle nell'universo sono composte da orbite (loops) di stringhe vibranti. Come avviene con le corde di un violino o di un piano, differenti armoniche corrispondono a particelle elementari differenti. Se la teoria è corretta, tutte le particelle elementari – elettroni, fotoni, neutrini quarks e così via – devono la loro esistenza a sottili differenze nella vibrazione di stringhe». Che cos'è in definitiva la teoria delle stringhe? Secondo Witten, «può ben essere la sola maniera di conciliare la gravità con la meccanica quantistica, ma – si chiede – qual è l'idea di base che vi sta dietro?». Mentre Einstein ha compreso i concetti fondamentali della relatività generale anni prima di riuscire a formulare le sue equazioni, la teoria delle stringhe, «è stata scoperta a pezzi e bocconi in un periodo di circa quarant'anni senza che nessuno realmente capisse cosa c'era dietro», afferma Witten. «Magari un giorno riusciremo a comprendere cos'è veramente. Ma anche se vi riusciremo, e la teoria è sul binario giusto, saremo in grado di comprendere come opera in natura? Io certamente lo spero» – confida, anche se non si nasconde che «realisticamente, tutto ciò dipende da molte incognite». Ancora nelle più avanzate regioni di confine tra matematica e fisica, nella interazione tra teoria dei quanti, teoria delle stringhe e teoria matematica dei nodi si collocano le sue ricerche più recenti. Un nodo è un oggetto familiare e a prima vista non sembra offrire argomento di interesse matematico. Una prima classificazione dei nodi venne proposta verso la fine Ottocento dal fisico Peter Gunthrie Tait, considerando solo nodi alternati, ossia quelli in cui il filo passa alternativamente sopra e sotto ogni incrocio. Nei primi decenni del secolo scorso, con la scoperta di invarianti associati a un nodo, furono fatti i primi passi verso la soluzione del problema fondamentale: come distinguere fra loro nodi diversi? Lo studio matematico dei nodi ha conosciuto un rinnovato interesse dopo il 1983, quando Vaughan Jones, utilizzando certi polinomi che portano il suo nome, ha scoperto un modo per associare un numero a ogni nodo: per quanto sia complicato il nodo, con un po' di pazienza si può calcolare quel numero. Ora, se il numero di Jones non è uguale a 1, il nodo non si potrà mai sciogliere. Per singolare coincidenza, come Witten anche Jones è stato premiato a Kyoto con la Medaglia Fields. La cosa sorprendente, che recenti ricerche hanno messo in luce, è che i polinomi di Jones hanno a che fare con la teoria dei quanti. Ricorrendo a concetti matematici assai sofisticati e astratti, infatti, negli ultimi anni è stato proposto un «raffinamento dei polinomi di Jones, secondo cui un nodo è un oggetto fisico nello spaziotempo a 4 dimensioni». La matematica che vi sta alla base, ha scritto Witten, «può essere compresa, magari anche meglio, usando i più moderni strumenti della teoria quantistica dei campi e della teoria delle stringhe. Probabilmente tutta quanta la storia chiama in causa idee fisiche che ancora oggi non comprendiamo del tutto». Ma non solo. Un diverso modo di guardare ai polinomi di Jones è stato presentato da Witten nella Lezione Leonardesca tenuta lunedì scorso presso di Dipartimento di Matematica "Federigo Enriques" dell'Università di Milano. Il punto di partenza è assai semplice: si tratta di considerare la figura che si ottiene proiettando un nodo qualunque su un piano. Da quell'intreccio di curve piane ha preso il volo la fantasia matematica di Witten per avventurarsi nelle regioni più astratte della matematica ed esplorare le profonde e recondite relazioni che intercorrono tra teorie a prima vista lontane tra loro (e le loro connessioni con le più avanzate teorie fisiche). Una qualità questa che distingue i grandi matematici e che Witten possiede in sommo grado. ____________________________________________________________ Il Sole24ore 20 Ott. ’13 IL SAPERE INUTILE CI FA RICCHI La ricerca di base, cioè disinteressata, è quella che produce maggiori innovazioni e progresso. Un saggio di Nuccio Ordine Remo Bodei «Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: – Salve, ragazzi. Com'è l'acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po', poi uno guarda l'altro e fa: – Che cavolo è l'acqua?». Il senso di questa storiella raccontata ai suoi studenti nel 2005 dallo scrittore americano David Forster Wallace è che le cose più importanti, onnipresenti e che dovrebbero essere ovvie si ignorano o si fraintendono. L'ignoranza più diffusa e deleteria è proprio quella che considera inutile non solo la ricerca e il sapere disinteressato, sia in campo umanistico che scientifico, ma le istituzioni che lo incarnano (come le biblioteche, gli archivi o i musei). Al pari dei due giovani pesci, commenta Nuccio Ordine, siamo spesso scarsamente coscienti del fatto che «la letteratura e i saperi umanistici, che la cultura e l'istruzione costituiscono il liquido amniotico ideale in cui le idee di democrazia, di libertà, di giustizia, di laicità, di uguaglianza, di diritto alla critica, di tolleranza, di solidarietà, di bene comune, possono trovare un vigoroso sviluppo». Del resto, anche sul piano della crescita individuale, «utile è ciò che ci aiuta a diventare migliori». In appendice al libro è riportato lo straordinario testo dell'educatore americano Abraham Flexner, uno dei fondatori dell'Institute for Advanced Studies di Princeton, L'utilità del sapere inutile (del 1937 e, ripubblicato con aggiunte e modifiche, nel 1939) dove viene combattuta, contro ogni fraintendimento, l'opposizione tra saperi umanistici e scientifici. La distorsione dell'immagine del sapere è sostanzialmente dovuta alla convinzione che utile sia soltanto quello orientato al profitto e all'ottenimento di risultati pratici immediati, mentre è vero che è proprio la ricerca pura, di base – che non si prefigge né guadagno, né pubblica visibilità, né applicazioni successive – a produrre le innovazioni maggiori e ad avere ricadute sui progressi della civiltà. Flexner accenna ad alcuni di questi esiti felici: la radio di Marconi non sarebbe, infatti, stata inventata senza le equazioni teoriche di Maxwell relative al campo elettromagnetico; la batteriologia non sarebbe nata senza la curiosità e gli esperimenti iniziati da un giovane studente, Paul Ehrlich, che si divertiva a colorare i diversi batteri per osservarne la differenziazione. Aggiungerei altri due esempi, tratti dalla matematica: nel 1843 William Rowan Hamilton introdusse degli insiemi, chiamati quaternioni, al cui interno non vale la proprietà commutativa. Al momento non ricoprivano nessuna importanza pratica, più tardi divennero però essenziali per la formulazione della teoria della relatività e della meccanica quantistica, come oggi lo sono per la robotica e la computer grafica in 3D. Nel 1854, poi, George Boole formulò la sua algebra in cui in un insieme K esistono solo i valori di verità 0 e 1. È facile intuire quanto a questo genere di algebra siano debitori, a partire dagli anni quaranta del secolo scorso, l'elettronica digitale e la costruzione di circuiti elettronici. Se mi è permesso citare un'esperienza personale, ricordo che, diverso tempo fa, nel tenere una lezione al Cern di Ginevra, dissi, pensando di scandalizzare i fisici presenti, che la filosofia non serve a nulla, come, peraltro, la musica di Mozart. Con mia sorpresa vidi Edoardo Amaldi sostenere animatamente che avevo perfettamente ragione non solo per quanto riguardava la filosofia e le materie umanistiche, ma anche per le scienze, e aggiungere che non sopportava che si imponessero progetti di ricerca troppo vincolanti. Condivideva implicitamente l'affermazione di Montaigne, secondo cui «il mondo non è che una scuola di ricerca». Nuccio Ordine ha raccolto un'impressionante, istruttiva e gustosa quantità di testi di autori antichi e moderni in difesa dell'utilità dell'inutile. Tra questi Platone, Aristotele, Dante, Petrarca, Leon Battista Alberti, Pico della Mirandola, Tomaso Moro, Montaigne, Shakespeare, Cervantes, Leopardi (che aveva progettato una Enciclopedia delle cose inutili), Gautier, Tocqueville, Baudelaire, Stevenson, Bataille, Borges, Calvino. Riporto solamente, in quanto esemplare, una nota di Antonio Gramsci del 1932, tratta dai Quaderni del carcere, in difesa dell'insegnamento, come si faceva nella "vecchia scuola", delle lingue latina e greca, in relazione con la storia, la letteratura, la politica e la civiltà di un popolo: «Le singole nozioni non venivano apprese per uno scopo immediato pratico–professionale: esso appariva disinteressato, perché l'interesse era lo sviluppo interiore della personalità». Un capitolo importante dell'Utilità dell'inutile è dedicato al disimpegno dello Stato nell'istruzione e al modo di trattare gli studenti come clienti, con la connessa trasformazione delle università in aziende e l'abbattimento degli investimenti sulla cultura. Il senso di questa raccolta di fonti e, insieme, l'impegno civile di questo volume è ben spiegato dal suo autore: «Le pagine che seguono non hanno alcuna pretesa di formare un testo organico. Riflettono la frammentarietà che le ha ispirate. Perciò anche il sottotitolo – Manifesto – potrebbe sembrare sproporzionato e ambizioso se non fosse giustificato dallo spirito militante che ha costantemente animato questo mio lavoro. Ho voluto solo raccogliere, all'interno di un contenitore aperto, citazioni e pensieri collezionati in tanti anni di insegnamento e di ricerca». Quello di Nuccio Ordine è un libro importante, che va incontro al bisogno di dar senso alla nostra cultura e alla nostra vita e che ha perciò riportato un meritato successo. L'edizione italiana è, infatti, la versione accresciuta dell'originario testo francese, salutato con entusiasmo dai lettori d'Oltralpe e in procinto di essere tradotto in diverse lingue, dallo spagnolo al greco e al coreano. © RIPRODUZIONE RISERVATA Nuccio Ordine, L'utilità dell'inutile. Manifesto. Con un saggio di Abrahm Flexner, Bompiani, Milano, pagg. 262, € 9,00 ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Ott. ’13 SOLDI E LIBERTÀ, COSÌ LA SCIENZA PRODUCE INNOVAZIONE» DAL NOSTRO INVIATO GINEVRA (Svizzera) — Dovremo cambiare alla radice l’idea che abbiamo della ricerca scientifica. Di come portarla a essere innovazione, cioè ad arrivare ai cittadini, all’industria, al mercato. Perché «in Europa non siamo molto bravi a fare in modo che la scienza diventi innovazione», secondo Alice Dautry, presidente dell’Istituto Pasteur di Parigi. Spesso siamo legati all’idea di piano quinquennale dall’alto, ma non funziona: non ha prodotto risultati in Unione sovietica, non produce risultati quando sono i governi e la politica a scegliere la specificità del lavoro scientifico. Dovremo lasciare che scienza e creatività si sviluppino dal basso, nascano dalla libertà di chi fa ricerca. A una conferenza internazionale di scienziati organizzata dall’Aspen Institute Italia a Ginevra, presso la sede del Cern, si è detto che questa è una delle cose che si possono imparare dalla Silicon Valley. Ma che il concetto vale anche per ciò che produce Google e per quello che fa lo stesso Cern, il gigantesco centro di ricerca europeo che ha portato all’individuazione del bosone di Higgs e che è forse l’esempio più grandioso di Big Science, di grande investimento (otto miliardi di franchi svizzeri) effettuato con denaro pubblico. «È sbagliato contrapporre Big Science e Small Science, quello di cui abbiamo bisogno è l’ecosistema», ha riassunto Michael Turner dell’università di Chicago e presidente della American Physical Society. Che sia un ecosistema di vicinanza fisica tra ricercatori come in California o di vicinanza virtuale attraverso Internet non cambia molto. Al fondo, la questione è conosciuta: meglio grandi investimenti in grandi centri, sulla ricerca di base, effettuati inevitabilmente dallo Stato, o meglio lasciare che la ricerca corra da sola, trovi finanziamenti privati e si concentri soprattutto sulle applicazioni per essere vicina al mercato? La novità sta nella centralità che la scienza e l’innovazione hanno assunto nel mondo moderno. Per esempio: l’iPhone non sarebbe mai esistito se alla base non ci fossero scoperte scientifiche per lo più finanziate dal governo americano; ma non sarebbe nemmeno mai esistito se non ci fosse stato Steve Jobs a capire come metterle insieme e a creare un mercato che prima non esisteva. Come si risolve il contrasto? La risposta ovvia è che grande e piccolo, pubblico e privato, ricerca di base e ricerca applicata devono andare assieme. Il guaio è che non si tratta di rapporti pacifici. «I grandi progetti pubblici non necessariamente vanno d’accordo con il privato — ha sostenuto William Haseltine, uno dei pionieri della ricerca sul genoma umano in concorrenza proprio con il governo americano —. Nel nostro caso il settore pubblico provò con tutte le sue forze a distruggerci. Ci vedeva come concorrenti». La risposta tracciata nel seminario Aspen si può riassumere nella necessità di lasciare che gli scienziati siano liberi ovunque lavorino. «Anche la Big Science deve essere organizzata in modo light — ha detto Fabiola Gianotti, una delle protagoniste del lavoro del Cern sul bosone di Higgs —. Da noi è l’idea a guidare il lavoro». La stessa Google chiede ai suoi scienziati di fare ricerca anche su filoni laterali a quelli principali, di loro scelta. In parallelo, la ricerca deve avere rapporti sempre più stretti con l’industria, in particolare in un momento in cui «l’ecosistema si sta erodendo», ha sostenuto Richard Muller, fisico della University of California: i finanziamenti pubblici non solo sono in calo, in America, ma per averli ormai occorre chiedere a Washington, mentre una volta l’autonomia finanziaria e quindi la libertà di ricerca erano molto maggiori. Oggi, le «idee folli» le finanzia più probabilmente un privato, ha sostenuto Alberto Sangiovanni Vincentelli, famoso investitore della Silicon Valley. Danilo Taino _____________________________________________________ ItaliaOggi 15 Ott. ‘13 L'EBOOK AI DOCENTI NON PIACE Editori: risparmi sui costi annullati dall'aumento Iva. I genitori: estendere il cornodato In calo le adozioni. Gli esperti avvertono: già vecchio DI EIVIANDELA Aficucci Il Miur lancia la transizione verso i libri scolastico digitale dal 2014, ma i testi totalmente digitali non piacciono agli insegnati scelgono quelli misti. La domanda di ebook, infatti, è in calo: si è passati dall'1,8% delle adozioni all'1,4%, mentre le opere miste nel catalogo degli editori sono 15mila e quelle solo digitali 5.000. E per gli esperti dell'editoria digitale, poi, il concetto di libro interattivo è ormai obsoleto: la scuola 2.0 passa per il testo multimediale, cioè per piattaforme elearning pensate per l'insegnamento personalizzato degli studenti, su cui i docenti si costruiscono la propria lezione multimediale. Un possibilità questa prevista dal decreto sui libri digitali, firmato la scorsa settimana dal ministro dell'istruzione Maria Chiara Carrozza, che in allegato contiene le linee guida per il libro di testo del futuro: sempre meno di carta e sempre più fruibile su tutti i supporti digitali, dal tablet ai pc, alle Lim Intanto, dal prossimo anno scolastico via libera «limitatamente alle nuove adozioni e non per le conferme di adozione» ai soli libri nella versione elettronica o mista. Una conversione al digitale graduale che secondo il Miur avrà un effetto immediato sulla riduzione dei costi per le famiglie: -10% nelle prime medie e nelle prime e terze delle superiori se i testi saranno misti, cioè in parte cartacei e in parte digitali; - 30% in caso di adozioni di libri solo digitali, quelli però che riscuotono meno le simpatie e l'interesse dei docenti. E di risparmi di spesa nell'acquisto dei libri non sono convinti gli editori e neppure ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Ott. ’13 LA MEZZA MODERNITÀ DELL’ITALIA A SCUOLA di Danilo Taino Statistical Editor Possibile (parziale) interpretazione della crisi italiana: il salto nella modernità il Paese l’ha fatto solo per un pezzo. Poi l’ha abbandonato. Viene da pensarlo se si guardano le statistiche sulla scolarizzazione e le si confrontano con i partner europei. Ne risulta un quadro drammatico. Nella fascia di età tra i 25 e i 54 anni, solo il 16,1% degli italiani ha una laurea o un’educazione di livello definito «alto», cioè comparabile (dati e definizioni di Eurostat). La media dell’Europa dei 27 è il 28,8% . La Francia è al 33,4% , la Germania al 28% , la Gran Bretagna al 39,3% . Peggio di noi, non uno dei Paesi della Ue. Nella stessa fascia di età, il 39,5% degli italiani ha un livello di educazione «basso», cioè non ha ottenuto un diploma di scuola secondaria: la media europea è il 23,5% , quella francese il 23,8 , la tedesca il 13,1 e la britannica il 21,4 . Peggio di noi solo Spagna, 41,4% , Malta, 62,8% , Portogallo, 60,4% . Naturalmente le cose non vanno meglio tra coloro meno giovani, tra i 55 e i 74 anni, che solo in parte hanno beneficiato della scolarizzazione di massa. La percentuale dei laureati è dell’8,6% , superiore solo a quelle maltese (7,1% ) e rumena (7,1% ). La media dei 27 è il 17,6% . La Francia quasi ci doppia (16,7% ) e la Germania (23,8% ) e la Gran Bretagna (27,3% ) non ci vedono nemmeno. Anche in questa fascia di età, la percentuale di italiani con istruzione «bassa» è elevatissima: il 67,5% . Peggio di noi la Spagna, 72,1% , Malta, 85,7% , Portogallo (85,5% ). La media Ue è 42,7% . Partivamo male, da Paese agricolo e poco avvezzo all’università, riservata fino al dopoguerra alle élite . Ci siamo industrializzati, siamo diventati una delle maggiori economie dell’Occidente, ma non siamo lontanamente riusciti a colmare il gap di istruzione con la stragrande maggioranza dei Paesi europei. Non si tratta di dati statistici di poco conto. Questi numeri danno il segno della difficoltà strutturale, ormai di lungo periodo, che il Paese ha nel rispondere a un’economia globale che chiede di competere attraverso i saperi, le competenze, la ricerca, l’innovazione. Non è che lo studio universitario garantisca qualcosa in sé, che assicuri il successo a un individuo (anche se chi è laureato ha redditi mediamente piuttosto superiori a chi non lo è).È che l’Italia sta del tutto mancando l’adeguamento al mondo di oggi che pretende si punti sulle classiche tre cose: capitale umano, capitale umano, capitale umano. Sempre l’Eurostat indica che il numero dei cosiddetti dropout , coloro che abbandonano gli studi prima di avere raggiunto un livello medio-alto, è in Italia tra i più elevati. I ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non hanno preso un diploma e che non sono più a scuola e nemmeno seguono programmi di training sono il 14,5% del totale della fascia di età. La media della Ue a 27 è l’11% e risultati peggiori si registrano solo in Spagna, 20,8% , a Malta, 17,6% , e in Romania, 16,7% . La Germania e la Francia sono al 9,8% , la Gran Bretagna è al 12,4% . Sono confronti imbarazzanti da commentare. Raccontano l’inadeguatezza dell’Italia a stare nel mondo moderno. E dicono che uscire da questo abisso sarà un processo lungo e difficile. Ammesso che cominci. @danilotaino ____________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Ott. ’13 I CINQUANT’ANNI DELLA SCUOLA MEDIA (IN CRISI D’IDENTITÀ) I dati Ocse: anello debole del sistema La scuola media italiana compie cinquant’anni. Anzi li ha compiuti 18 giorni fa perché fu proprio dal primo ottobre del 1963 che tutti i bambini italiani poterono continuare la scuola dell’obbligo con tre anni di «Media Unica» che sostituiva la divisione, creata dalla riforma Bottai nel 1940 tra scuola di avviamento professionale e scuola media per chi avrebbe proseguito gli studi. «Una grande riforma democratica dopo la riforma Gentile», l’ha definita il ministro Maria Chiara Carrozza. Ma che cosa resta oggi, cinquant’anni dopo? Qualche dato: nel 1962 i bocciati furono il 16 per cento degli studenti, nel 2007 solo il 3 per cento. Le rilevazioni Ocse-Pisa però sono impietose e dimostrano che le medie sono diventate l’anello debole del sistema educativo italiano. A 15 anni sei ragazzi su dieci non sanno da che cosa dipende l’alternarsi del giorno e della notte. Secondo uno studio della Fondazione Agnelli, pubblicato due anni fa da Laterza, i risultati dei test di matematica tra la quarta elementare e la seconda media segnano un abbassamento dei punteggi del 23 per cento. E ancora: gli insegnanti sono in media i più vecchi del sistema scolastico e uno su tre lascia il posto dopo un anno in cerca di altri approdi, alle superiori soprattutto. Si capisce perché alla domanda diretta i ragazzi italiani rispondano che a loro la scuola media non piace, che si sentono a disagio più dei loro coetanei in Germania, Inghilterra e Francia. «Ricordo le medie come un momento oscuro. Non si è né bambini né adulti, è difficilissimo — racconta lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati, che sulla scuola ha appena scritto L’elogio del ripetente —. Odiavo la scuola e le merendine e chissà cosa avrei risposto a chi mi avesse detto che pochi anni dopo sarei entrato in una classe a insegnare le Ricordanze di Leopardi alla mia prima supplenza alle medie della borgata Giardinetti a Roma». Se è vero che la «Media Unica» ha avuto un ruolo importantissimo nell’alzare il livello di scolarizzazione negli anni Sessanta oggi dimostra tutta la sua età. «È una sfida vinta soltanto in parte — spiega Raffaele Mantegazza del dipartimento di Scienze umane per la formazione della Bicocca —, è una scuola che è rimasta senza identità specifica, schiacciata tra primaria e secondaria. È una scuola che ha scelto di privilegiare l’aspetto cognitivo rispetto a quello emotivo e pedagogico. Sono anni difficili per i ragazzi quelli della preadolescenza, in cui c’è una elaborazione anche psico-sessuale molto importante che la scuola ignora del tutto». E invece sono gli anni in cui si comincia ad essere un po’ più adulti, in cui «l’acquisizione critica del sapere» andrebbe privilegiata. «Ma siamo rimasti ad una impostazione fordista della scuola, unica organizzazione che non si sia evoluta — spiega il pedagogista Giuseppe Bertagna dell’Università di Bergamo —: c’è solo uno studio libresco, disciplinare e separato, troppo strutturato». Di come riformare o rilanciare la scuola media si è discusso ciclicamente ad ogni proposta di riforma, ma non molto è cambiato. «Per esempio è dal 1977 che sono previste 160 ore di attività interdisciplinari di risoluzione di problemi, di compiti per gruppi — insiste Bertagna —, ma non si sono quasi mai fatte perché prevederebbero la rivoluzione degli organici e del modo di insegnamento». Anche per Mantegazza la soluzione si chiama «flessibilità»: «Tanto per cominciare ci vorrebbero percorsi differenziati per maschi e femmine perché negli anni delle medie hanno tempi di sviluppo molto diversi. Ci vorrebbero classi aperte in cui i gruppi si formano a seconda di quello che si deve fare o studiare. Infine manca la continuità con le scuole superiori: come è possibile che, mentre alle medie quasi tutti vengono promossi, arrivati in prima superiori dopo quattro o cinque mesi almeno due su dieci sono in serie difficoltà?». I dati del ministero in parte lo spiegano: quattro ragazzi su dieci alle medie passano l’esame con la sufficienza. «Le medie non sono formative — conclude Bertagna — e non è soltanto questione che un undicenne di oggi è molto diverso da un undicenne di cinquant’anni fa. Le medie dovrebbero integrare la scuola con la società e con il lavoro, ma è stato trascurato il fare, l’esperienza applicata: così l’Italia non raggiungerà gli obiettivi di Europa 2020 per i propri ragazzi». Gianna Fregonara ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Ott. ’13 ODIFREDDI: IL MATEMATICO NEGAZIONISTA E LE RAGIONI DELLA STORIA Il noto matematico Piergiorgio Odifreddi di mestiere scrive e insegna in Università. Insomma fa il maestro. A latere si esercita anche nell’antica arte dell’intellettuale a tutto tondo, del grillo parlante, nella fatti-specie blogger di Repubblica. E spesso inciampa, ruzzola, travolgendo il buon senso e il buon gusto oltre che il rispetto per i lettori, l’opinione pubblica, la Storia. Succede da anni: le sabbie mobili in cui si perde sono sovente quelle dell’antisemitismo più o meno conscio e del negazionismo. È accaduto anche in questi giorni di sconvolgenti anniversari (Fosse Ardeatine, rastrellamento del ghetto di Roma) e tempeste emozionali legate ai funerali di Priebke. Dopo avere sostenuto che i crimini di Israele sarebbero ben peggiori delle Fosse Ardeatine, ora sostiene che il processo di Norimberga sia stato un’opera di propaganda, roba da film e mitologie: «Non entro nello specifico delle camere a gas, perché di esse “so” appunto soltanto ciò che mi è stato fornito dal “ministero della propaganda”... almeno sono cosciente del fatto che di opinione si tratti, e che le cose possano stare molto diversamente da come mi è stato insegnato». Chissà, forse annuncerà di voler chiudere il blog per colpa del «complotto» contro di lui. L’aveva già minacciato tempo fa, sgridato da Scalfari per scivolate simili a questa, poi –— ahinoi — aveva beatamente ricominciato. Il docente. Facesse il bidello sarebbe cacciato da scuola, facesse l’insegnante in un liceo i genitori protesterebbero, invece — come sottolinea la giornalista scientifica Daniela Ovadia — fa lo scienziato... Un paio di commenti scandalizzati ma le sue opinioni hanno la forza della «razionalità». Si dice uomo di sinistra. Che non è garanzia di nulla: le ricerche sui nuovi fascismi segnalano un’area di sovrapposizione tra le opinioni di una certa sinistra estrema e quelle della destra. E io dico: se CasaPound e Odifreddi sostengono le medesime tesi non è certo un problema nostro, no? D’altronde il buon vecchio August Friedrich Bebel lo ripeteva un secolo e mezzo fa che «l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli». Stefano Jesurum stefano.jesurum@gmail.com ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 Ott. ’13 ERASMUS: UN MONDO DI STUDENTI Arrivano a Cagliari da tutta Europa ma anche dal Perù e dal Laos Erasmus e certezze: «Questa è una città ospitale» VEDI TUTTE LE 2 FOTO L'aria è da turista qualunque, ma i libri sottobraccio raccontano un'altra storia. «Ho scelto Cagliari soprattutto per il clima. E poi un mio amico mi aveva detto di essersi trovato bene». Hector Gomez Gracia, 19 anni, arriva dalla Spagna, da Leòn per l'esattezza. È iscritto al terzo anno di Economia e divide un appartamento in viale Regina Elena con altri quattro studenti Erasmus come lui: «Paghiamo duecentocinquanta euro d'affitto a testa», spiega con un italiano ancora stentato. L'anno accademico è appena iniziato, il capoluogo sardo incassa subito pieni voti: «La città è molto bella, e la gente ospitale». Resta lo scoglio delle lezioni: «Non sono ancora bravo con la lingua. È difficile riuscire a seguire». Ada Medina, ventidue anni, peruviana, si muove con sicurezza tra vie e locali: «Sono arrivata a Cagliari ad aprile», spiega. «Ho già la laurea, adesso sto facendo un tirocinio». Occhi e capelli nerissimi e un pizzico di nostalgia per la partenza che si avvicina: «Tra due mesi dovrò tornare nel mio Paese. È stata una bellissima esperienza. Qui si sta davvero bene». L'APPEAL DEL CAPOLUOGO Sono quasi trecento gli studenti stranieri che hanno scelto il capoluogo sardo per trascorrere parte del loro percorso universitario. Centottanta sono già qua, gli altri arriveranno nel secondo semestre da ogni angolo della terra. «Abbiamo subito un leggero calo rispetto all'anno scorso (sono stati 350)», racconta Gianluca Romano, presidente dell'Erasmus student network, l'associazione cittadina che si occupa degli universitari in arrivo, seguendoli passo passo nella loro esperienza. Le attività sono varie: dall'aiuto nella ricerca della sistemazione, agli interventi in caso di problemi nelle attività quotidiane. E poi eventi culturali, cineforum, visite guidate in giro per l'Isola, tornei sportivi, pizza party e tanto altro. «Un modo per farli sentire a casa e una bella occasione per promuovere il territorio», sottolinea Romano. Obiettivo centrato. «A conclusione della loro permanenza in città il livello di soddisfazione degli studenti ci ripaga appieno». DA TUTTO IL MONDO Dal Laos alla Pennsylvania, passando per Cambogia, Argentina e Lituania. Gli Europei fanno la parte dei leoni: in testa ci sono gli spagnoli, a seguire polacchi, turchi, tedeschi e francesi. Erdal Kaya, ha ventitré anni e abita ad Ankara, in Turchia. Studia Lingua e letteratura italiana e divide una camera doppia in via Is Maglias con un connazionale. «L'abbiamo cercata su internet, prima di partire. Siamo stato fortunati, è abbastanza economica. Ci viene centosessanta euro a testa». Resterà sino a luglio, ma sta già pensando di replicare: «Tornerò di sicuro. Cagliari è una bella città, ed è talmente piccola che anche per chi non è del posto perdersi è quasi impossibile». CLIMA DETERMINANTE Colbacco e scarponi imbottiti son rimasti a casa, Anna Rydzewska, 23 anni, polacca, si gode il sole ancora caldo in t-shirt. «Studio Filologia inglese, sono al terzo anno», racconta. «Prima d'ora non ero mai stata su un'Isola. La Sardegna è fantastica». Quando ha iniziato la trafila burocratica per ottenere la borsa di studio Anne Kruse, 22 anni, di Amburgo (Germania), aveva le idee chiare: «Ho pensato che l'Italia fosse il Paese perfetto per fare l'Erasmus. Ho scelto Cagliari perché altri studenti che ci sono stati negli anni passati sono rimasti entusiasti». E lo è anche lei, «l'università è ben organizzata e ci sono tantissimi appelli per ogni esame». L'unico neo il traffico: «Divido un appartamento con sei ragazze, vicino al mercato di San Benedetto. Vorrei andare a lezione in bicicletta, ma ci sono troppe macchine». PROGETTO VINCENTE Nato nel 1987, per mano della Comunità Europea, l'Erasmus è diventato un must tra gli studenti universitari. Dai tre mesi a un anno, l'opportunità di svolgere un piccolo pezzo del proprio percorso accademico in una nazione straniera arricchisce culturalmente, e dà una mano con le lingue. Sono sempre di più gli studenti europei che scelgono il Belpaese come meta. I VIAGGI DEI CAGLIARITANI Per i cagliaritani Spagna, Francia e Germania sono le destinazioni più gettonate. Ma qualcuno va controcorrente. «Ho preferito la Finlandia alle località classiche perché volevo fare un'esperienza estrema. Conoscere una realtà opposta alla mia, anche come clima e ambiente», spiega Edoardo Piras, 23 anni, cagliaritano, laureando in Economia. «Sono partito a gennaio del 2011 e ho vissuto vicino a Helsinki per cinque mesi. Ho imparato tantissimo, ogni persona con cui ho avuto a che fare mi ha insegnato qualcosa. Il mio modo di vedere il mondo è cambiato. L'Erasmus è un'esperienza che tutti gli studenti dovrebbero fare, apre la mente e ti lascia qualcosa dentro». Le difficoltà ci sono state. «Conoscevo poco l'inglese, all'inizio è stato difficile. Ma pian piano ci si abitua». Sara Marci ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 20 Ott. ’13 ERASMUS RADDOPPIA E PUNTA AD ACCOGLIERE 4 MILIONI DI STUDENTI L’Europa stanzia 15 miliardi di euro per il 2014-2020 «Così proviamo a combattere la disoccupazione giovanile» di Lorenzo Robustelli wBRUXELLES Erasmus muore per rinascere più forte e ambizioso di quanto sia stato in questi suoi primi 26 anni di vita. Il programma per la formazione all'estero degli studenti europei è, secondo quanto spiegato dalla Commissione il progetto europeo di maggior successo, quello più apprezzato e dunque si punta in alto: a raddoppiarne la potenza e ad usarlo anche come strumento di lotta alla disoccupazione giovanile, non come “parcheggio”; ma come occasione di alta formazione per preparare i lavoratori del futuro. Erasmus come lo abbiamo conosciuto è però morto, ed al suo posto è nato Erasmus+, figlio di un tormentato negoziato durato un paio di anni. Non era affatto scontato che le cose potessero andare nel segno della crescita. In molti ricorderanno quando alla fine dello scorso anno mancavano i soldi europei per finanziarlo, bloccati dai negoziati tra i paesi dell'Ue che volevano chiudere il portafoglio, per questo e per altre politiche comuni. Alla fine la commissaria all'Istruzione e alla cultura, la cipriota Androulla Vassiliou, sembra aver trovato la quadra: tutti gli altri programmi di sostegno ai giovani come ad esempio Leonardo, o i tanti altri che favorivano lo studio, lo sport e le esperienze di formazione all'estero spariranno come tali per confluire in quello che è sempre stato quello di maggior successo, Erasmus, che ora si guadagna un “plus”. Dal 2014 al 2020, secondo il progetto illustrato da Vassiliou, il nuovo programma aiuterà quattro milioni di giovani, la maggior parte dei quali sotto i 25 anni, a studiare o a effettuare una formazione, a lavorare o fare volontariato all'estero, il doppio di quanto avvenuto nei sette anni appena terminati. L'accordo c'è, ma i governi dovranno dare il loro assenso definitivo entro dicembre. Saranno stanziati ben 15 miliardi di euro, con un aumento di circa il 40% rispetto a quanto era stato concesso tra il 2007 e il 2013. «Erasmus è più importante che mai in tempi di crisi economica e di elevata disoccupazione giovanile», spiega Vassiliou. L'obiettivo è dunque di permettere ai giovani di migliorare le conoscenze di una lingua straniera e di acquisire competenze essenziali per le attuali esigenze del mondo del lavoro. «Con l'Ue muoversi da uno stato all'altro è come muoversi da città a città in Italia», racconta Maria Elena Caputi, studentessa universitaria parmense ora in Svezia. Certo può essere dura, continua, perché «passando dall'Italia alla Svezia le differenze sono tante, ci sono cose che noi italiani non capiremo mai, come ad esempio l'inflessibilità verso qualsiasi cosa. Per gli svedesi è tutto nero o bianco, non esiste il grigio». Nell'anno accademico 2011- 2012 (l'ultimo per il quale esistono dati completi) Erasmus ha registrato un boom di partecipanti: oltre 250mila giovani, numero mai raggiunto in passato. La Spagna è il paese più mobile, da cui è partito il maggior numero di studenti (39.545), seguita da Germania (33.363), Francia (33.269) e, in quarta posizione, dall'Italia (23.377). La Spagna è anche la meta più gettonata, e non solo dagli italiani, essendo stata scelta da 40mila studenti, seguita da Francia, Germania e Gran Bretagna. L'Italia è in quinta posizione con 20.204 giovani. Dal suo avvio nel 1987, quando aderirono in 3.200, oltre tre milioni di studenti europei hanno partecipato al programma Erasmus. lorenzo@robustelli.eu ©RIPRODUZIONE RISERVATA ____________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Ott. ’13 TRUCCATE LE FOTO DELLE CELLULE Il prof universitario sotto accusa I pm: ricerche sul cancro aggiustate al computer per ottenere fondi MILANO — C’è un doping fotoinformatico che trucca persino gli studi sulle malattie? Una inchiesta delle Procure di Milano e Napoli mostra come le immagini destinate a comprovare gli esiti di ricerche sul cancro, pubblicati da primarie riviste scientifiche e utilizzati per rafforzare il curriculum dei ricercatori in concorsi pubblici e per concorrere a finanziamenti erogati dall’Associazione italiana ricerca sul cancro (Airc), in alcuni casi sono stati manipolati al computer con uno sconcertante photoshop. Il caso concreto all’esame della magistratura, segnalato dall’esposto di un biologo molecolare ricercatore del Cnr che ha trovato conferma nella consulenza informatica affidata dai pm milanesi Maurizio Romanelli, Francesco Cajani e Antonio D’Alessio al professor Sebastiano Battiato dell’Università di Catania, riguarda otto pubblicazioni prodotte fra il 2001 e il 2012 dal gruppo di lavoro del professor Alfredo Fusco, ordinario di patologia generale, direttore a Napoli dell’Istituto di endocrinologia e oncologia sperimentale del Cnr, socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei e membro della commissione scientifica consultiva dell’Airc, da tempo impegnato sui meccanismi molecolari alla base di varie forme tumorali. Nell’elettroforesi di gel si cerca l’assenza, presenza, collocazione o mutazione di proteine o geni ai quali si ipotizza possa essere associato l’insorgere di tumori. La consulenza informatica, però, svela che, per supportare quell’esito pubblicato dalle riviste scientifiche, nelle immagini rappresentative dei test sono state duplicate o ribaltate porzioni di immagini di proteine o di geni «scattate» in tutt’altri test. E quando sono stati perquisiti i laboratori di Fusco e di una ricercatrice del suo gruppo, Monica Fedele, nei «quaderni di laboratorio» dei singoli esperimenti non sono stati trovati gli originali delle immagini corrispondenti a quelle (manipolate) pubblicate negli articoli. Un’altra teste ricercatrice ha confermato agli inquirenti il contesto di una mail ricevuta nel 2007 dalla collega ora indagata insieme al professore per le ipotesi di falso e di truffa, la quale all’epoca le scriveva: «Purtroppo il plasmide Atm, come temevamo, non è buono. Ho parlato di tutte le difficoltà con Alfredo (il professor Fusco, ndr ). Siccome gli esperimenti che dovevo fare con questo plasmide sono essenzialmente controlli di esperimenti che tu hai già fatto e per il quale hai già fatto 1.000 controlli, lui si sente sicuro di quello che viene affermato nel paper e mi ha chiesto di modificare la figura aggiungendo quei controlli anche se di fatto non siamo riusciti a farli (...) Spero tu sia d’accordo perché altrimenti questo lavoro rischia di essere bruciato. Ho bisogno che mi invii le foto originali in un formato compatibile con Photoshop». E la destinataria di questa mail si sfoga con un amico: «(...) In pratica se un esperimento riusciva una volta e dieci no, io dovevo decidere che andava bene lo stesso e pubblicare l’unica volta che era venuto bene come lo si voleva far venire! (...)». In effetti la difesa degli indagati, con gli avvocati Arturo Froio e Gianfranco Mallardo, oltre a contestare la configurabilità della truffa sui finanziamenti Airc perché essi sarebbero legati al tema della ricerca proposta e non ai suoi risultati, ribadisce che comunque gli esperimenti sarebbero stati fatti davvero, e con quegli esiti reali: prospettazione che però non spiega perché mai allora si dovesse truccarne la rappresentazione. Ma anche fuori dal caso specifico (nel quale peraltro il professore passa ai suoi ricercatori la palla di eventuali falsificazioni di cui si dice ignaro), altri dettagli dell’indagine, sviluppata ora per competenza territoriale a Napoli dall’aggiunto Francesco Greco e dalla pm Stefania Buda, fanno intuire che il fenomeno è talmente ampio da aver creato un mercato per studi di computer grafica specializzati nel taroccare la visualizzazione di test «su richiesta di dipartimenti scientifici e laboratori di ricerca»: un fotografo ha messo a verbale che i ricercatori committenti «capita siano presenti e dirigano le operazioni (...)», oppure «mandano un negativo e con foglio scritto a mano ci chiedono quali parti delle immagini isolare o spostare in posizione diversa dall’originale». Luigi Ferrarella ========================================================= ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Ott. ’13 LA NOSTRA SANITÀ SCENDE NELLA CLASSIFICA EUROPEA La sanità italiana è uguale per tutti? Ormai soltanto un italiano su 4 pensa di sì. E nell’ultimo anno c’è stato un crollo di fiducia: quelli che pensano che l’accesso alle cure sia paritario sono scesi dal 44% (che è la media europea) al 28%. L:a bocciatura emerge dal 7° barometro sanità e Società, indagine condotta ogni anno da Europ Assistance in 8 Paesi europei e negli Usa. Il sistema sanitario nel suo complesso si merita inevitabilmente un votaccio: 3,2 su 10, con un calo di mezzo punto nell’ultimo anno, contro una media europea di 4,7 (la Polonia in fondo con 2,8; la Francia al vertice con 5,1). Sembrano finiti insomma i tempi in cui gli italiani pensavano che, nonostante tutto, la nostra sanità non fosse poi male. La crisi economica, i tagli, le difficoltà di molte Regioni sembrano incidere profondamente nella percezione della realtà, più di quanto, in verità, i dati oggettivi mostrino. Soltanto i medici sembrano salvarsi, visto che la loro competenza è valutata 4,8. Tra i “rimedi” che gli italiani individuano, inaspettatamente, le nuove tecnologie: il 42% ( era il 26% un anno fa) accetterebbe una consulenza medica via webcam e il 70% si dichiara favorevole al monitoraggio delle condizioni di salute (glicemia, pressione sanguigna, ritmo cardiaco) col telefonino o un tablet. Forse pensano che così possono almeno evitare le code e i ticket. E confidano che alla fine una app ci salverà. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Ott. ’13 SANITÀ, ECCO COME SI PUÒ RISPARMIARE SENZA TAGLIARE Per cure rimborsabili di mille euro un ospedale privato spende 935 euro, una struttura pubblica arriva a 1.289 MILANO — Stavolta non s’abbatterà di nuovo la mannaia, ma la questione dei tagli in Sanità resta all’ordine del giorno. Con la legge di Stabilità il pericolo di altri sacrifici è stato scampato: negli ospedali, però, il problema di fare tornare i conti è più forte che mai, anche perché nel 2012 per la prima volta si è verificata una reale diminuzione di finanziamenti a livello regionale rispetto all’anno precedente, con conseguenze ancora difficili da metabolizzare. Il dilemma quotidiano è: ci sono ancora sprechi da eliminare o il rischio è di mettere in pericolo la qualità delle cure? Il caso del San Raffaele di Milano, finito sull’orlo di uno dei più eclatanti crac di tutti i tempi (1,5 miliardi), viene considerato emblematico: secondo la ricercatrice dell’Istituto Bruno Leoni, Lucia Quaglino, l’operazione di risanamento dell’ospedale fondato da don Luigi Verzé è riuscita a non intaccare i successi scientifici, a riprova che tagliare la Sanità è possibile, con un aumento della produttività e senza arrivare a licenziare. Una ricetta che è applicabile agli ospedali pubblici, dove le nomine dei manager sono più politiche che imprenditoriali? «Io credo di no, proprio per questi motivi», ammette Quaglino. Ma una cosa è certa: i tagli nella Sanità degli ultimi anni sono stimati dalle Regioni in più di 3 miliardi per il 2012 e in 5 miliardi e mezzo per il 2013. Così com’è stata finora, dunque, la Sanità non è più sostenibile. Attualmente, per cure del valore rimborsabile di mille euro, un ospedale privato spende 935 euro, mentre il pubblico ne spende 1.289. Sono dati elaborati dalla Regione Lombardia, che segnalano una grande discrepanza non solo tra pubblico e privato, ma anche tra un ospedale e l’altro (che può superare il 30%). Insomma: o ci sono ancora grandi sacche di inefficienza, oppure c’è chi riduce troppo all’osso l’assistenza medica. Osserva ancora la ricercatrice Quaglino: «Per don Verzé ai conti doveva pensarci la Provvidenza, per i vertici degli ospedali pubblici è un compito dello Stato, per i manager della Sanità privata è una questione di sopravvivenza». Ritorna l’esempio del San Raffaele — dove con l’acquisto da parte dell’imprenditore Giuseppe Rotelli e l’arrivo del manager Nicola Bedin — sono stati disdetti tutti i contratti di appalto delle forniture e rinegoziate le condizioni economiche; lo stesso è avvenuto per l’acquisto di materiale e per l’approvvigionamento energetico (il risparmio è stato del 25%). Si sono aggiunti, poi, il licenziamento di quasi il 20% dei dirigenti, nonché la riduzione del 9% delle retribuzioni dei lavoratori del comparto sanitario e degli incentivi ai medici. Il raggiungimento dell’equilibrio finanziario adesso è a un passo (nonostante gli ulteriori sforzi imposti dai tagli di fondi pubblici e le dure contestazioni degli infermieri). «Ma non solo il privato può avere bilanci virtuosi», sottolinea Giacomo Centini, direttore amministrativo dell’ospedale universitario di Siena. Qui la scommessa con i conti è stata vinta: dalle pulizie alla ristorazione, negli ultimi due anni la revisione degli appalti ha portato a un risparmio tra il 3 ed il 5%; l’uso di lavoratori interni al posto delle ditte esterne per servizi come la sterilizzazione degli strumenti odontoiatrici ha diminuito del 40-60% le spese; allo stesso modo la preparazione di farmaci nella farmacia ospedaliera e la scelta oculata dei fornitori ha ulteriormente aumentato i risparmi virtuosi fino al 7%. Tutte misure che potrebbero essere adottate su scala nazionale. Gabriele Pelissero, alla guida dell’Aiop (ospedali privati) e presidente del San Raffaele, avverte: «Rimuovere gli sprechi spesso non basta per fare stare in piedi ospedali d’eccellenza. È necessaria una grande riforma della Sanità». Simona Ravizza ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Ott. ’13 VITA PIÙ LUNGA DI TRE MESI OGNI ANNO LA RIVOLUZIONE CHE NON VEDIAMO L’età media nei Paesi sviluppati aumenta e la società è in ritardo È noto che da un po’ di tempo la nostra vita si sta allungando con ritmo costante: guadagniamo più di un trimestre di vita ogni anno che passa. Con un bonus per le donne, che vivono in media sei-sette anni più dei maschi. Questi dati valgono più o meno per tutti i Paesi sviluppati, ma anche per molti di quelli meno sviluppati, anche se lì la vita media può essere assai più bassa. Tutto ciò sta accadendo, in maniera strisciante e quasi in sordina, perché abbiamo cambiato il nostro stile di vita: si mangia quasi regolarmente, ci si cura e si lavora generalmente in maniera meno disumana. Se guardiamo nel dettaglio le ragioni del cambiamento, osserviamo che all’inizio del fenomeno stesso la causa principale di questo allungamento della nostra vita media era dovuto alla riduzione della mortalità infantile. È chiaro che quando i bambini morivano spesso in tenera o tenerissima età, il valore della vita media ne risultava molto ridotto. Per i Paesi sviluppati, ciò non è quasi più vero, anche se non ci possiamo legittimamente ancora ritenere soddisfatti dei risultati ottenuti. È subentrata quindi da queste parti una seconda fase, di natura assai diversa: la vita media si sta allungando per i progressi della medicina della terza e quarta età; ci si cura meglio anche da anziani e si vive di conseguenza una vita migliore anche a una certa età. Come risultato la vita si è allungata ulteriormente, praticamente senza aver messo in atto nessuna diavoleria. L’età avanzata comporta malattie abbastanza particolari, alcune delle quali sono aumentate con l’allungamento della vita media, mentre di altre non si era quasi sentito parlare prima. Si può trattare di tumori di vari tipi, di malattie cardiocircolatorie, di diverse patologie neurodegenerative, di diabete senile o di disturbi della risposta immune, sordità, cecità e simili. Per tutte queste la medicina ha fatto enormi progressi e si comincia a sentire parlare addirittura di medicinarigenerativa. Non si tratta di un capitolo simpatico della medicina, ma è quanto di più attuale ci sia in ballo in questo momento e in un prevedibile futuro. L’ostacolo più consistente è probabilmente rappresentato dalle malattie neurodegenerative, anche per i contorni tragici del loro decorso per i pazienti e per le loro famiglie, una vera piaga. Pure se la diagnosi di tumore è ancor oggi la più temuta, enormi passi avanti sono stati fatti e vengono fatti ogni anno in questo campo, con grande sollievo per tutti. Se le cose continueranno così, e non c’è motivo di pensare il contrario, occorrerà dare un nuovo assetto alla nostra società, in modo da fornire una vita piacevole e interessante alle nuove masse di persone di una certa età che saranno sempre più consistenti. Le motivazioni dei trent’anni sono diverse da quelle dei cinquanta anni e ancora di più da quelle dei settanta. E le motivazioni sono l’essenza e l’anima della vita, a tutte le età. Non si può vivere bene senza vere motivazioni. Occorrono quindi proposte nuove e un profondo ripensamento della struttura della società. Ciò non è ancora successo perché i cambiamenti sono stati troppo lenti e continui per poter essere percepiti a fondo. Va da sé inoltre che le condizioni di salute dei nuovi anziani sono fondamentali. Non ha senso essere ancora in vita, se le condizioni di salute non sono buone, almeno per lunghi periodi. La medicina di domani dovrà quindi assicurare la sopravvivenza a persone di età sempre più avanzata, ma anche assicurare loro una condizione fisica sempre più soddisfacente. La medicina di domani dovrà essere conservativa, se non rigenerativa. E infondere soprattutto speranza. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Ott. ’13 DIGITALIZZARE PER NON TAGLIARE La spesa sanitaria pro-capite nel nostro Paese è già ben al di sotto della media dei Paesi OCSE e ulteriori riduzioni rischiano di accelerarne pericolosamente il degrado. Bisogna fare in fretta invece ad affrontare i veri problemi della nostra sanità, che restano due. Il primo riguarda l’efficacia: nel 2000, l’OMS posizionava il nostro fra i migliori sistemi sanitari al mondo. Dodici anni dopo, siamo scivolati al 21° posto per qualità delle cure tra i 34 Paesi censiti dall’EuroHealth Consumer Index . Il secondo riguarda l’efficienza: spendiamo male, sprecando risorse in un sistema inefficiente e disomogeneo. Servono provvedimenti strutturali, che investano le poche risorse disponibili dando priorità a quegli interventi in grado di fermare il declino. Per capire come, basta guardare ai sistemi sanitari più virtuosi o imparare dall’evoluzione di tutti i settori ad alta intensità di informazione. Una delle strade per una sanità più efficace e più sostenibile è la modernizzazione attraverso l’innovazione digitale. I dati dell’Osservatorio ICT in Sanità del Politecnico di Milano parlano chiaro: se il sistema sanitario italiano realizzasse pienamente il potenziale delle tecnologie digitali potrebbe risparmiare fino a 6,8 miliardi all’anno: circa 3 miliardi con tecnologie per la medicina sul territorio e dell’assistenza domiciliare, 1,37 miliardi con la cartella clinica elettronica, 860 milioni con la dematerializzazione di referti e immagini, 860 milioni con sistemi di gestione informatizzata dei farmaci, 370 milioni con la consegna dei referti via web, 160 milioni con la prenotazione online delle prestazioni, 150 milioni con la razionalizzazione dei data center e l’utilizzo di tecniche di virtualizzazione e 20 milioni dalla riduzione dei costi di stampa delle cartelle cliniche. Il digitale al tempo stesso migliorerebbe la qualità aumentando trasparenza e appropriatezza, riducendo gli errori e dando servizi migliori ai cittadini. Per iniziare basterebbe poco. Gli investimenti da attuare per ottenere benefici tanto importanti sono dell’ordine dei milioni di euro. Eppure di innovazione digitale si parla pochissimo e ancora meno si agisce. * Osservatorio ICT in Sanità Politecnico di Milano ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 Ott. ’13 AOUCA: NON INCENDIÒ LA CAPPELLA, ASSOLTO DOPO OTTO ANNI Un ex paziente giudicato innocente al termine del processo per un rogo del 2005 all'ospedale San Giovanni di Dio Sul fatto furono fornite 12 versioni e sul suo nome non è mai emersa alcuna prova Denunciato a piede libero otto anni fa. Indagato dalla Procura. Da tre anni a giudizio per tentato furto e incendio aggravati. Da ieri mattina, assolto per non aver commesso il fatto. L'odissea giudiziaria di Bernardo Fanni, 34enne cagliaritano, iniziò esattamente il 15 settembre 2005, poco dopo le 23. Una notte in cui le fiamme devastarono la cappella dell'ospedale San Giovanni di Dio, dove Fanni si trovava ricoverato nel reparto di chirurgia. Un giovedì di grande paura che, grazie al tempestivo intervento dei vigili del fuoco, non degenerò. Si riuscì ad evitare il peggio e a non evacuare i reparti di degenza. Secondo la relazione dei militari intervenuti per spegnere le fiamme, si trattò di un incendio di origine dolosa. Qualcuno aveva appiccato il fuoco nella stanza utilizzata dai cappellani come sagrestia, scassinato la porta d'ingresso, forzato e rovistato due armadi e rovesciato i cassetti. Probabilmente nel tentativo di un furto. Una persona che secondo il sospetto del cappellano dell'ospedale al tempo, Tarcisio Pinna, «aveva un'età molto giovane, era ricoverata al primo piano vicino alla cappella, portava un cappellino in testa, e proprio in quel lasso di tempo non si trovava nella sua stanza». Venne rimproverato, dallo stesso prete, «perché stava fumando una sigaretta nei corridoi». Ma il cappellano non conosceva il nome di questo ragazzo sospetto. Dopo una seconda testimonianza per Fanni le cose si complicarono. Un'infermiera di turno quella sera dichiarò ai poliziotti di aver visto Bernardo Fanni, che all'epoca aveva 27 anni, uscire dalla sua stanza per due volte, tra le 23 e le 24. Ma non basta. Fanni si trovava davvero nei corridoi mentre gli agenti aiutavano i vigili del fuoco a domare le fiamme. Così, venne identificato ed emerse che aveva dei precedenti penali. La denuncia partì subito. Assistito dall'avvocato Riccardo Floris, venne chiamato davanti al giudice del Tribunale monocratico, Roberto Cau, a rispondere dei reati di tentato furto «per aver compiuto atti idonei e diretti in modo non equivoco ad impossessarsi di quanto contenuto nei locali della cappella». Reato aggravato per «aver commesso il fatto con violenza sulle cose all'interno di un edificio adibito al culto religioso». La seconda imputazione si riferisce, invece, al reato di incendio. Anche questo aggravato: perché «originato su un edificio destinato a uso pubblico». In aula, a processo, vennero raccolte oltre 12 versioni dei fatti, dal lungo elenco dei testimoni dell'accusa: due ispettori della squadra mobile, due ispettori della scientifica, un'infermiera, quattro agenti, due ufficiali dei vigili del fuoco, e, infine, il cappellano dell'ospedale (sentito per due volte e poi morto una settimana dopo l'ultima udienza a cui prese parte). A difesa di Fanni, invece, non c'era nessun testimone. L'unica arma in mano alla difesa era l'elenco dei pazienti ricoverati quel giorno nei reparti di medicina e chirurgia, al primo piano, lo stesso della cappella. Secondo quanto sostenuto dall'avvocato Floris in aula «il colpevole non doveva essere necessariamente Bernardo Fanni, considerato che, quella notte, nei reparti del primo piano erano ricoverati altri cinque ragazzi che avrebbero potuto avere la sua età». Uno di questi, ieri, è stato assolto. Veronica Nedrini ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 17 Ott. ’13 AOUCA: NEL NUOVO BLOCCO Q PORTATE SOLO I BAMBINI FINO A UN MESE» Sono passati quattro mesi dal parziale trasferimento della Clinica Macciotta al Policlinico universitario di Monserrato, eppure c'è ancora chi continua a sbagliare. Nella convinzione che lo scorso 15 giugno tutte le attività dello storico centro pediatrico di via Porcell siano state dislocate a Monserrato, sono infatti numerosi i genitori che quotidianamente portano figli malati (spesso anche in gravi condizioni) direttamente nel nuovo “Blocco Q” del Polo pediatrico universitario. Ma non sempre è la scelta giusta. Se il bambino ha un'età non superiore ai 31 giorni è considerato un neonato, per cui va bene portarlo nel nuovo “Blocco Q” del Polo pediatrico di Monserrato, che ospita i reparti di Neonatologia infantile, Ginecologia e Ostetricia. Ma se il bambino è più grande, dev'essere portato nella vecchia Clinica Macciotta. In via Porcell, infatti, sono rimasti operativi sia il reparto di Pediatria che il Pronto soccorso pediatrico, pronti ad accogliere i casi di bambini con più di un mese di vita, fino ai 16 anni. L'indicazione è importante e dev'essere seguita perché a Monserrato vengono curati prevalentemente bimbi appena nati e non sempre ci sono le attrezzature idonee per intervenire con efficacia su pazienti di età superiore. Il rischio è di perdere tempo prezioso mettendo involontariamente a rischio la vita dei piccoli. L'Azienda mista (ospedaliero-universitaria) ci tiene che sia fatta chiarezza, ricordando nuovamente come si devono comportare i genitori per evitare che portino i figli nel posto sbagliato (cosa che a quanto pare sta capitando spesso). Il rischio, per coloro che ad esempio si muovono da Cagliari, è di fare a vuoto la strada fino a Monserrato per poi dover tornare indietro in via Porcell per accedere alle cure, più adatte, fornite dagli specialisti della Macciotta. In alternativa, non bisogna dimenticarlo, per le urgenze c'è anche il Pronto soccorso pediatrico del Brotzu, con ingresso da via Jenner o da via Peretti. «In futuro», fa sapere l'Azienda mista, «anche il reparto di Pediatria della Macciotta sarà trasferito, ma non a Monserrato, bensì in un nuovo Polo per l'infanzia che sorgerà presso l'ospedale Microcitemico di via Jenner». (p.l.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 13 Ott. ’13 Dal “civile” al policlinico AOUCA: UFFICIALE: IL 26 OTTOBRE OSTETRICIA E GINECOLOGIA A MONSERRATO Tutto in un fine settimana. Dopo un secolo, mille peripezie e trasferimenti mai rispettati, per la clinica universitaria di Ostetricia e Ginecologia del San Giovanni di Dio arriva il giorno del trasloco definitivo nella nuova struttura del Policlinico di Monserrato, nell'ormai famoso Blocco Q. «Sabato 26 ottobre è in programma l'inaugurazione», precisa il professore. «La domenica successiva sarà l'ultimo giorno di ricovero nel vecchio ospedale progettato dal Cima e da lunedì alle 8 i ricoveri verranno effettuati nel nuovo reparto della Cittadella universitaria, dove verranno ospitate anche le scuole di specializzazione. «Nella nuova struttura avremo a disposizione 36 posti letto», afferma Gian Benedetto Melis, direttore della clinica universitaria a capo di un esercito di 150 specialisti (tra medici, ostetriche e infermieri). Nella fabbrica dei bambini saranno disponibili anche quattro letti destinati ai ricoveri in day hospital . Per i parti ci sono a disposizione sei sale dedicate. Medici e infermieri potranno affrontare i casi più delicati in una sala operatoria super attrezzata. Un trattamento particolare, oltre che alle mamme, è stato riservato ai neo papà che potranno assistere alla nascita e potranno stare vicino al bebè e alla mamma nel reparto Puerperio, una struttura in grado di accogliere 14 mamme con i relativi figli, due per stanza. Nel reparto prematuri ed immaturi, e nella puericultura, sono a disposizione delle madri camere con divani letto, per consentire loro di trascorrere la notte vicino ai piccoli ricoverati. «Un altro aspetto non trascurabile», afferma Gian Benedetto Melis, «è il fatto che nello stesso piano del Dipartimento materno infantile ci sono i reparti di Terapia intensiva e Puericultura neonatale». Le novità non sono finite perché l'8 novembre il reparto di Pediatria della clinica Macciotta sarà trasferito al Microcitemico. Sarà così svuotata definitivamente la clinica dei bambini. (a. a.) ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 19 Ott. ’13 AOUSS: IL COMUNE VENDE ALL’AOU L’AREA DEL NUOVO OSPEDALE Oltre 13mila metri quadrati a Piandanna ceduti per oltre 2 milioni di euro Serviranno per realizzare aree verdi, viabilità e parcheggi attorno alle “stecche” di Vincenzo Garofalo SASSARI Il Comune vende 13 mila metri quadrati di terreno all’Aou, spiana la strada all’Azienda ospedaliero universitaria per la costruzione del nuovo ospedale a Piandanna e incassa 2 milioni di euro. La boccata d’ossigeno per esangui casse comunali e lo sprint decisivo per la nuova struttura ospedaliera è arrivata martedì a tarda sera, in chiusura dei lavori del Consiglio comunale, con l’approvazione di una delibera con cui Palazzo Ducale ha acconsentito alla vendita di un terreno pubblico a Piandanna, in una zona compresa tra la facoltà di Medicina e l’Orto botanico. Quell’area sarà utilizzata dall’Azienda universitaria per realizzare attorno a due nuove stecche del presidio ospedaliero tutte le opere urbanistiche necessarie: zone verdi, viabilità e parcheggi. Il resto delle strutture che l’Aou ha intenzione di costruire sfruttando i 95 milioni di euro assegnati dal Cipe nel 2011, sorgeranno su altri 30 mila metri quadrati adiacenti che l’Azienda acquisterà da privati per circa 4 milioni di euro. In Consiglio comunale la pratica è stata presentata dall’assessore al Patrimonio, Vinicio Tedde, ed è passata con i voti unanimi di tutta l’assemblea. In aula sono bastati pochi minuti, ma le trattative tra gli uffici di Palazzo ducale e l’Azienda ospedaliera sono andate avanti per un anno esatto. I contatti sono iniziati nell’ottobre del 2012 quando la Aou ha inviato al Comune una nota informando l’amministrazione del progetto di ampliamento del presidio ospedaliero e di adeguamento degli attuali padiglioni delle Chirurgie. Un intervento finanziato con 95 milioni di euro di fondi Fas, assegnati all’Azienda proprio per quello scopo da una delibera del Cipe emessa nel novembre 2011. In seguito a quel primo contatto, Comune e Aou hanno avuto diversi incontri per definire nei dettagli quali fossero le aree effettivamente funzionali alla realizzazione dell'intervento, anche tenuto conto delle destinazioni urbanistiche delle stesse, già previste nei vigenti Piani urbanistici comunali. E proprio la mancanza di un Puc già in vigore avrebbe rappresentare un ostacolo, ma sarà superata con l’adozione di un cosiddetto Piano d’iniziativa pubblica (P9) che aprirà le porte all’esecuzione del progetto. La trattativa è entrata nel vivo quest’estate, con il Comune che ha manifestato la piena disponibilità alla vendita del terreno di Piandanna, e con l’Aou che ha concretizzato l’offerta valutando l’area al prezzo di 153,29 euro il metro quadro. La stima del valore dell’area ha ottenuto il parer di congruità da parte dell’Agenzia del territorio, e ora i 13 mila 523 metri quadrati di proprietà di Palazzo Ducale si preparano a passare in mano all’Aou dietro il pagamento di una cifra pari a 2 milioni 72 mila e 940,67 euro. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 18 Ott. ’13 AOUSS: INDENNITÀ MEDICI: UNIVERSITÀ SBORSA 4 MILIONI Il consiglio di amministrazione ha autorizzato il pagamento La somma verrà poi restituita dalle due aziende sanitarie di Gabriella Grimaldi SASSARI A fine ottobre 4 milioni e 135mila euro passeranno dalle casse dell’ateneo alle tasche di 36 medici che lavorano nei reparti dell’Azienda ospedaliero universitaria. Una somma ingente che rappresenta le indennità di assistenza nelle corsie spettanti ai professionisti e mai corrisposte prima dalla Asl e poi, a partire dalla sua istituzione nel 2007, dall’Aou. «Con soddisfazione, possiamo segnare un punto a favore dell'università di Sassari, perché si è chiusa una vertenza lunghissima durata un decennio: quella legata al pagamento delle indennità in base al decreto legislativo 517/99». Con queste parole ieri mattina il rettore Attilio Mastino ha annunciato che l'università di Sassari pagherà con lo stipendio di ottobre le somme dovute ai docenti e ricercatori medici beneficiari di sentenze definitive del Tar, esecutive da febbraio 2013. L’università in realtà è stata condannata al pagamento delle somme con una sentenza del Tar che individuava nell’ateneo l’ente responsabile delle mancate corresponsioni. «Nella seduta del 24 settembre il consiglio di amministrazione ha autorizzato l’immediato pagamento delle indennità - ha proseguito il rettore -. L'onere complessivo comprende anche la parte contributiva». Di positivo c’è, oltre al fatto che è stato riconosciuto un diritto previsto dalla legge, che il via libera del Cda è stato motivato dalla buona salute in cui versano le casse dell’ateneo, pertanto l'università di Sassari ha ritenuto di anticipare la somma dovuta dal Servizio sanitario regionale (quindi attraverso fondi regionali da Asl e Aou) al fine di assicurare il rispetto di un diritto sancito per legge e riconosciuto in tutte le altre regioni italiane. E ciò in attesa del rimborso che dovrà essere corrisposto dalle due aziende sanitarie sassaresi. A questo proposito il rettore ha esibito due lettere ufficiali con le quali l'Azienda ospedaliero universitaria e l'Azienda sanitaria locale hanno riconosciuto il debito. La Asl dovrà restituire all'ateneo 1,875 milioni di euro, riferiti al periodo 2001– giugno 2007, mentre l'Aou, nata il 1° luglio 2007, concorrerà per la rimanente somma di 2,260 milioni di euro fino ad aprile 2012. Si è anche saputo che il direttore generale dell'Aou Sandro Cattani ha messo a regime le indennità assistenziali per tutti i docenti universitari con decorrenza 1° gennaio 2013 e ha disposto la liquidazione degli arretrati degli ultimi due anni con lo stipendio di novembre. «Ringrazio l'assessore regionale alla Sanità Simona De Francisci per aver sempre dichiarato che le leggi vanno applicate anche in Sardegna. Ringrazio anche l'onorevole Pietrino Fois, presidente della commissione Bilancio della Regione che ha lavorato per accantonare queste somme nel bilancio regionale». Durante l'incontro è emerso che un altro contenzioso sta per giungere a conclusione: riguarda un gruppo di 18 docenti per i quali il Tar si pronuncerà definitivamente nell'udienza del 6 novembre. In proposito, il Tar, a parziale modifica della linea tenuta con il primo gruppo di ricorrenti, ha fissato criteri di calcolo che presumibilmente determineranno valori decisamente inferiori rispetto ai beneficiari del primo gruppo. Infine, c’è un terzo gruppo di 27 docenti che ha presentato ricorso al Tar nel 2010 e sul quale il Tribunale amministrativo non si è ancora pronunciato. _____________________________________________________ Repubblica 15 Ott. ‘13 LE DIECI REGOLE PER NON CADERE NELLE TRAPPOLE DEI "GUARITORI" ELENA CATTANEO Sembra davvero impresa improba, in questo Paese, far capire come funziona l' approccio scientifico alle cure mediche. Me ne sto rendendo conto sempre più da quando avverto la responsabilità di un ruolo istituzionale a cui sono stata chiamata dal presidente della Repubblica. Le chiedo ospitalità per replicare a chi continua a chiedere di andare «a vedere» i miglioramenti dei pazienti trattati da Stamina con un presunto protocollo che una commissione nominata dal ministro Lorenzin e composta dai massimi esperti italiani, figure peraltro di statura internazionale, ha ulteriormente e irrevocabilmente bocciato. Gli argomenti sono riassumibili in dieci punti: 1) Noi scienziati non possiamo mentire, è un impegno morale quello di dire come stanno i fatti, anche se ben capiamo (anche perché sulle malattie e con i malati ci lavoriamo ogni giorno) che può essere doloroso per quei familiari che hanno riversato speranze verso le purtroppo illusone promesse di due ciarlatani. 2) È chi afferma di avere ideato una cura che ha l'onere della prova e quindi raccogliere dettagli, strategie e risultati per provarne l'efficacia, perché quando non si usava la scienza o se oggi abdichiamo a usare il metodo sperimentale, chiunque poteva o potrà (magari con la complicità di una tv di intrattenimento) chiedere che si «vada a vedere» in una o quell'altra casa come l'estratto di girasole sia efficace per curare il cancro. 3) «Andare a vedere» non è il modo per certificare la validità terapeutica di un preparato: i malati vanno seguiti prima e valutati nell’ambito di una sperimentazione clinica; Stamina non aveva i requisiti per diventare sperimentazione perché non ha nulla - nonostante le opportunità che le sono state date - da far vedere. 4) Non ha ulteriormente senso «andare a vedere» in una casa una malattia come la Sma trattata con "un metodo che non si vede" - perché altamente variabile nel suo decorso; appunto perché variabile solo con studi attenti e continui si potrà valutare se un trattamento verificabile e chiaro nei suoi presupposti produce dei benefici e quali; e per arrivare a valutare servono prima razionalità, competenze, prove sperimentali, dati oggettivi, che nel caso in questione mancano totalmente. 5) Anche a fronte di eventuali movimenti in bambini colpiti da una malattia terribile come la Sma non è possibile dimostrare, andando casa per casa, che cosa effettivamente potrebbe aver prodotto quel miglioramento, ammesso che il miglioramento ci sia stato, e a maggior ragione visto che è provato che non vengono iniettate cellule biologicamente attive ma "non si sa cosa" (e se quei preparati misteriosi che Stamina prepara e che medici di un ospedale pubblico iniettano senza conoscerne il contenuto contenessero anche un farmaco di cui non sappiamo?); quindi eventuali fluttuazioni positive potrebbero derivare da atteggiamenti diversi dei genitori, l'anestesia, la visione dei propugnatori del metodo, la stessa variabilità spontanea della malattia etc. 6) Bambini i cui genitori si sono rifiutati di avere a che fare con Stamina mostrano le stesse fluttuazioni del decorso di malattia; alcuni di questi genitori colpiti dalla stessa sofferenza che va ben oltre l'umano sentire vedono percettibili miglioramenti grazie a una faticosa e intensa attività quotidiana di grande sostegno che si svolge intorno ai loro figli. 7) Da secoli si sa che occorre eliminare la componente soggettiva per riuscire a stabilire quale sia l'effettiva causa di un effetto, o se l'effetto ci sia davvero stato; solo persone terze e indipendenti, e il mascheramento del trattamento (doppio cieco) possono evitare di restare vittima degli autoinganni della coscienza e dell'inconscio. 8) Lo stesso professor Vannoni fa capire che «andare a vedere» non serve perché - ha dichiarato - la Sma è troppo complessa da valutare in una sperimentazione di (ben) 18 mesi e per tale motivo lui stesso -quando consegnò il presunto metodo alla commissione scientifica istituita dal ministro Lorenzin - la escluse dalle malattie sperimenta- bili con il suo presunto metodo. Il tutto dopo avere dichiarato per mesi che la Sma era l'unica malattia su cui esistono dati scientifici relativi all'efficacia del presunto metodo. 9) Stamina e quei politici incredibilmente e irresponsabilmente a favore del metodo invisibile, non dovrebbero inorridire di fronte allo stop dell'ipotesi sperimentazione presunto metodo. 10) I politici che avessero a cuore veramente il valore della vita e delle cure (ammesso che capiscano di cosa si tratta) dovrebbero smetterla di prestare il fianco a guaritori di turno e si dovrebbero invece preoccupare di come affrontare il dramma di persone la cui debolezza è stata oggetto di abuso e ai quali l'intero sistema ora dovrà /trovare un modo di rispondere; ci sono malati con malattie a decorso lento e progressivo che sono grati ingannati e usati come cavie, abbandonati nelle piazze a gridare della loro prossima morte, etc. Nel mondo civile uno studente liceale capisce che è immorale non rendere una vera cura visibile e accessibile al mondo nei suoi dettagli, disponibile e verificabile affinché sia controllata e poi applicata in tutte le corsie d'ospedale,, invece di consentire un sadico gioco delle tre carte che imbroglia i malati, con il consenso di alcuni politici e di trasmissione televisive disposte a tutto: a insultare l'intelligenza umana, il valore dello studio, il futuro dei giovani che si impegnano per capire e sperare di curare, le competenze, le evidenze, la conoscenza, la scienza e la medicina, la vera compassione che non ammette inganni, pur di proseguire nella loro opera di imbarbarimento culturale e civile, a cui vorrebbero piegata l'Italia tutta. L'autrice è senatrice a vita e direttore di UniStem, il Centro di ricerca sulle cellule staminali dell'Università Statale _____________________________________________________ La Stampa 18 Ott. ‘13 "BRAIN. IL CERVELLO: ISTRUZIONI PER L'USO" Alla scoperta del computer che sta nella testa Si studia il cervello per capire come nascono i pensieri ALTRO OBIETTIVO Fare luce su malattie degenerative e sull’autismo, epilessia, ictus Oggi a Milano apre la grande mostra MARCO PIVAR) MILANO Tra I sacro tempio dell'intelletto apre ai profani, è in mostra da venerdì al prossimo 13 aprile al Museo civico di storia naturale di Milano. Parliamo del cervello naturalmente, nell'appuntamento con «Brain. Il cervello: istruzioni per l'uso», un'esposizione che accompagna il visitatore in un viaggio attraverso lo strumento più stupefacente che possediamo. Ma innanzitutto misterioso. Perché è pur vero che la scienza oggi si interroga sulle «bizzarie» dell'infinitamente grande come l'universo, oppure dell'infinitamente piccolo come le parti celle elementari: l'ultimo Nobel per la fisica è andato dopotutto a una ricerca - quella sul bosone di Higgs - che abbraccia necessariamente entrambi gli arcani, le stesse dinamiche che sottendono l'infimo e l'infinito. Ma per varcare le colonne d'Ercole di questi confini che lasciano ancora attoniti i fisici, bisogna indispensabilmente partire dall'organo che ci permette di percepirli e farci domande: il cervello. Il Museo civico di storia naturale di Milano; Codice. Idee per la cultura; il Gruppo 24 ore hanno così portato in Italia la mostra curata dal biologo Robert'DeSalle (Columbia University) in forze all'American Museum of Natural History di New York, e tradotta dai farmacologi Giorgio Racagni ,e Monica Di Luca dell'Università di Milano. La mostra del museo americano prende le mosse dall'ambizioso progetto del presidente degli Stati Uniti Barack Obama «Brain Initiative» (Brain Research Through Advancing Innovative Neurotechnologies), annunciato recentemente, e che intende mappare l'attività di ogni singolo neurone umano, proprio come fece all'inizio del secolo il «Progetto genoma umano» per i geni. L'iniziativa di Obama, cominciata con lo stanziamento di 100 milioni di dollari e supportata da un solido team Usa, si propone di sapere come nascono pensieri, emozioni e ricordi e come emerge e dove si trova la coscienza. Un progetto per portare l'uomo nòn solo a più profonda conoscenza - citando lo stesso presidente - dei «misteri di quella cosa che sta in mezzo alle orecchie», ma anche per fare luce su malattie degenerative o altre come autismo, epilessia e ictus. La mostra milanese è, inoltre e soprattutto, occasione per il Paese di riflettere sull'«economia della conoscenza», un concetto già ripetuto da Obama e ben radicato oltreoceano che sostiene come la ricchezza e il benessere siano innanzitutto un prodotto del sapere. L'esibizione mostra ai visitatori di ogni età e formazione i percorsi dei sensi che hanno origine nel nostro «computer centrale», che ci dà. la percezione del sé, dei legami con le persone e le cose, e che in virtù del suo potere ci ha mandato sulla luna e ci porta continuamente sul ring delle scommesse esistenziali più importanti. Un appuntamento ineludibile non solo per gli scienziati, ma anche per fruitori di ogni estrazione, al quale possono accreditarsi grazie al grande «cinema» di «Brain. Il cervello: istruzioni per l'uso». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Ott. ’13 LA RIVINCITA DEL CERVELLO La simulazione dei supercomputer rilancia l’indagine sul modello umano Per un’intelligenza artificiale «amica» Alan Turing verso gli anni Cinquanta del secolo scorso esplorava l’idea di una intelligenza artificiale. Anzi, ideava un metodo per distinguere questa forma di elaborazione da quella umana. Il matematico Turing arrivava dalle ricerche sui codici segreti che in Gran Bretagna durante la guerra erano un mezzo prezioso per decifrare le intenzioni e i piani nazisti. Guardando all’intelligenza artificiale prendeva come modello il cervello umano e lo indagava per trarre idee alla sua ardua sfida. Nel frattempo, era il 1954, un gruppo di illustri studiosi americani riunito in un seminario estivo al Dartmouth College battezzava queste indagini Artificial Intelligence . Subito dopo lo sviluppo fu tumultuoso sotto la guida dei padri fondatori della nuova disciplina: John McCarthy della Stanford University, Marvin Minsky al MIT e Allen Newell e Herbert Simon alla Carnegie-Mellon University. Nei decenni seguenti, però, le inevitabili difficoltà che la frontiera nascondeva mettevano in discussione la visione di riferimento del nostro cervello proiettando gli studi verso orizzonti diversi. Negli ultimi tempi la visione è di nuovo cambiata e il modello del cervello umano è tornato ad essere considerato come punto di partenza. «È vero — dice Amedeo Cesta dell’Istituto della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche —. La ricerca era piombata in una crisi estrema e la delusione aveva anche preso il sopravvento perché sembrava quasi impossibile affrontare l’argomento. In realtà, dopo i successi iniziali gli scienziati si sono concentrati su aspetti particolari, piccoli problemi, con un riduzionismo eccessivo senza una visione generale. In questo modo ci si è allontanati dalla necessità di mettere idee più complessive di un sistema di intelligenza artificiale, ma essenziali». Il recente cambio della strategia deriva da due fattori importanti. Il primo riguarda l’enorme progresso delle ricerche sul cervello che offrono cognizioni prima inesistenti. Il secondo aspetto è legato alla straordinaria capacità di elaborazione che oggi hanno i supercomputer consentendo di simulare e verificare intuizioni e principi. «Ciò permette — aggiunge Cesta — di riconsiderare le idee di fondo con una nuova maturità. Anche per quanto riguarda la prospettiva. Cioè, si guarda sempre più a un sistema di intelligenza artificiale che non sostituisca l’uomo ma lo integri nelle sue necessità: dalla valutazione della capacità di scelta ad altri aspetti concettuali delle nostra mente». Intanto gli scienziati cercano di evitare alcuni rischi in agguato. «Oggi c’è un eccesso di informazione — precisa Cesta — ed è necessario selezionare gli elementi essenziali finalizzati agli scopi da raggiungere tenendo conto che la conoscenza è in rapida evoluzione». Cercando di arrivare a sistemi artificiali che non siano in grado di nuocere all’uomo come accadde con il computer AL 9000 che governava l’astronave del più bel film di fantascienza mai realizzato come 2001: Odissea nello spazio . In tale prospettiva e per la necessità di indagare cognizioni fondamentali e nuove prospettive, l’Europa e gli Stati Uniti hanno varato ciascuno un programma di ricerca proiettato nel decennio. In Europa è partito proprio all’inizio di ottobre il progetto Human Brain Project coordinato dal neuro scienziato Henry Markram dell’Ecole Polytecnique di Losanna e ben più ricco di quello americano. Gli scopi sono molteplici e riguardano soprattutto tre obiettivi: costruire un supercomputer mille volte più capace degli attuali esistenti che apra un nuovo mondo di possibilità; conoscere il funzionamento di base del nostro cervello e, infine, costruire un cervello completamente artificiale. In parallelo in America si punta ad una mappatura dettagliata delle funzioni cerebrali. Entrambi nella prospettiva di utilizzare, strada facendo, i risultati ottenuti applicandoli al campo medico nella cura di alcune patologie. «Nel 2045 l’intelligenza artificiale supererà nelle capacità quella umana», afferma Ray Kurzweil illustre specialista della Computer Science chiamato a guidare un team di sviluppatori di Google. Alcuni lo hanno accusato di eccesso di ottimismo, ma al di là delle date l’ambizioso obiettivo oggi è più chiaro e affrontabile rispetto al passato. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Ott. ’13 ELETTROSMOG E DANNI ALLA SALUTE LA SCIENZA VIGILA MA NON CONDANNA Rischi accertati per la salute non ce ne sono, almeno stando ai 300 studi pubblicati dal 2009 a oggi sugli effetti delle onde elettromagnetiche. E per questo l’Anses, l’Agenzia per la sicurezza sanitaria francese, nell’ultimo suo rapporto, non ha ritenuto di dover modificare i limiti di esposizione per la popolazione. Per il momento. Ma l’inquinamento elettromagnetico esiste e l’uso di smartphone e tablet si sta espandendo a gran velocità: uno studio, pubblicato l’anno scorso dall’operatore svedese Ericsson, prevedeva un incremento del traffico Internet sulla rete mobile di 15 volte fra il 2011 e il 2017. Anche i minimi effetti sull’organismo, che gli ultimi studi segnalano, non vanno perciò sottovalutati. Per esempio l’esposizione a campi elettromagnetici può provocare danni al Dna e alterazioni cellulari, modificazioni che però, secondo gli esperti, verrebbero rapidamente riparate e non avrebbero effetti duraturi. Non solo. Alcune ricerche dimostrano un aumento del rischio di sviluppare tumori cerebrali nelle persone che fanno un uso intensivo di queste tecnologie. E nel 2011 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro di Lione, affiliata all’Organizzazione mondiale della sanità, ha classificato le radiofrequenze come potenziali cancerogeni. Infine l’esposizione a onde elettromagnetiche può avere un impatto sul sistema nervoso, per esempio provocando disturbi del sonno. Nessuna prova inconfutabile, dunque, che l’elettrosmog sia nefasto per la salute, ma nemmeno rassicurazioni sulla sua totale innocuità. Il problema, però, è che l’esposizione è ormai inevitabile: si può solo cercare di limitarla. L’Anses punta molto sull’informazione al consumatore e raccomanda che i dispositivi destinati a essere utilizzati vicino al corpo (come telefoni senza fili o tablet) rechino l’indicazione relativa alla quantità di energia massima che il corpo può assorbire. L’altro suggerimento è quello di considerare i rischi quando si installano nuove antenne vicino ad altre già esistenti. Ultima precauzione, di buon senso e alla portata di tutti, è di usare il più possibile il viva voce o l’auricolare. Adriana Bazzi abazzi@corriere.it ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Ott. ’13 MEDICINA NARRATIVA «Darei la vita per non morire» «Cancro = Morte. Era davvero proprio così? Non poteva essere, non lo accettavo. Io avevo ancora troppo da fare, da vedere, da amare, da odiare, da rimpiangere, da rimordere perché tutto finisse così. Proprio allora, agli inizi di tutto, sentii dentro una voce che mi diceva: “Tu ce la farai, tu non morirai, tu lo sconfiggi il bastardo” . E anche nei momenti di malinconia e tristezza che non tardarono ad arrivare, chiudevo gli occhi e ripetevo ”Io ce la faccio. Io vinco” ». Chi scrive è Marina Neri (nel disegno), una ragazza qualsiasi che avrebbe preferito restare tale. Invece, la Tuke (il fato della Grecia classica) ha tessuto per lei un disegno diverso. A 22 anni, nel pieno della vita e con un futuro ricco di aspettative, Marina è stata messa alla prova da un nemico formidabile: un condrosarcoma a cellule chiare, tumore raro della cartilagine ossea e dei tessuti molli. Non si è tirata indietro. Per nove anni ha combattuto la battaglia con coraggio e lucidità, con le immancabili debolezze e gli scoramenti, riuscendo però a mantenere per intero femminilità e umanità. Ha lottato Marina, che amava il mare, Parigi e San Francisco. E alla fine, pur sconfitta, ha vinto. Ha vinto perché ha voluto donare a tutti una testimonianza di quella che l’odierna psicologia chiama resilienza, cioè la capacità del malato di assorbire un «urto» come la malattia, senza però «frantumarsi» ma addirittura migliorando. Il dono è diventato un libro: «Un punto nero nell’immenso azzurro del mare». Il titolo originariamente dato da Marina al suo diario era «Darei la vita per non morire», titolo paradossale di enorme suggestione emotiva rinvenuto casualmente solo dopo la pubblicazione del libro, a cui è stato comunque attribuito un titolo preso a prestito da una frase di Marina che svela per intero il suo modo di essere: «Il nero nel mare lo vedi solo se ti fissi. Io preferisco concentrarmi sul movimento delle onde mai uguali fra loro, sul loro profumo. Sul blu meraviglioso». Il dono è diventato anche un’associazione, voluta dalla sua famiglia con l’obbiettivo di contribuire al processo di umanizzazione della medicina, attraverso incontri e dibattiti sul tema, e di aiutare in concreto i giovani malati oncologici e le loro famiglie in difficoltà, raccogliendo fondi da destinare loro. Racconta Marina che l’idea di scrivere il diario della sua esperienza è nata quasi per gioco. Più come risposta alla richiesta di parenti e amici, all’inizio. Poi, mentre il tempo passava e le pagine aumentavano di numero, con la speranza di poter essere di aiuto. Ma, soprattutto, senza la pretesa di voler insegnare nulla a nessuno. «Lo so siamo sovraffollati di pazienti oncologici o ex tali, che solo per il fatto di essere sopravvissuti si sentono graziati ed investiti del potere quasi paranormale di curare gli altri perché loro “ci sono passati e solo loro possono capire”. Io invece parto da un punto di vista leggermente diverso: io non sono nessuno per dire a voi che sfogliate queste poche pagine sincere come condurre la vostra vita. Sono solo qualcuno che ogni giorno siede e cammina in mezzo ad altri esseri umani con una pena enorme nel cuore, che niente e nessuno potrà cancellare ma prova ogni giorno con difficoltà e coraggio a vivere. Esattamente come molti di voi. Questa sono io». Non si può non restare colpiti dalla vicenda umana di questa ragazza dal sorriso dolce e accattivante. Nel 2000, un anno prima di laurearsi, un dolore insopportabile al ginocchio sinistro la porta a fare un esame più approfondito in ospedale. Il verdetto: «Can-cro: due sillabe, una vita in frantumi — scrive Marina —. Forse un monito più che una condanna, forse una lezione di vita. Dura da accettare ma forse chissà indispensabile per iniziare a cambiare. Chi conosce la mia storia la definisce una tragedia, una disgrazia. Io semplicemente dico che è esperienza». Per quasi dieci anni, Marina vive su un ottovolante di sensazioni ed emozioni, tra diversi ospedali in Italia e negli Stati Uniti, il corpo martoriato da interventi e terapie che solo a descriverle trasmettono dolore vivo. In mezzo a questo oceano di sofferenza, però, la famiglia e gli amici si ergono come porti sicuri. La malattia abbatte ogni steccato: il papà, Manlio, e la mamma, Giulia (separati da quando Marina aveva 13 anni); Sue, la nuova compagna di Manlio, e la figlia Tess diventano la sua nuova famiglia “allargata”. Anche grazie a loro Marina scopre una forza d’animo insospettata. Trova la forza di ironizzare con un “catalogo” dei medici: «Con gli anni e dopo aver conosciuto una cinquantina di medici ho imparato a suddividerli nella mia mente in categorie. Dai giovialioni , pacca sulla spalla e “la rimettiamo in piedi presto questa bella fanciulla”, ai possibilisti che forniscono mille opzioni partendo dalla lettera A o dal numero 1, per poi terminare allargando le braccia e dicendo “Mah non saprei”, per poi arrivare agli spietati che sembrano quasi provare un certo godimento nell’informare il paziente su ogni minuzioso dettaglio di terapie e interventi e, ovviamente, le percentuali di rischio». Trova l’Amore (si quello con la “a” maiuscola) in Heider, un ragazzo latino-americano, e lo sposa. Marina lo segue in Germania, dove il giovane lavora. Poi però le sue condizioni di salute peggiorano e preferisce rientrare in Italia, a Milano, con il marito. La malattia non le dà tregua. Ancora due anni, drammatici per i tremendi dolori fisici che la consumano: il 10 aprile 2010, il cuore di Marina smette di battere. Nel finale del libro, completato da papà Manlio, annota: «Per chiunque viva un’esperienza simile alla mia, e oggi purtroppo i pazienti oncologici sono sempre di più, credo che valga sempre la pena di lottare, di provarci credendoci totalmente». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Ott. ’13 QUANTA PAURA HANNO I DOTTORI Anche i dottori hanno paura? Certo, la paura non ti lascia mai e non passa con l’esperienza. Paura di sbagliare, di non essere all’altezza, di fare del male. Quando comincia il turno di guardia e ti raccontano dei casi più gravi: «Un uomo di 78 anni, molto conosciuto (ahi, questo complica tutto) con storia di diabete e infarto del cuore, si ricovera per una polmonite, ma è allergico alla maggior parte degli antibiotici, anche i reni funzionano male, confuso; vedi un po’ tu». «Da che parte comincio?», ti chiedi e intanto fai fare un elettrocardiogramma. Il ritmo del cuore è buono e le cosiddette onde P sono al loro posto: buon segno. Il malato però respira male e urina poco: «Lo si dovrà dializzare», pensi, ma ha febbre e pressione molto bassa, non è nemmeno detto che si riesca a farla, la dialisi, e ammesso di riuscire le cose potrebbero anche peggiorare: «Perché a far morire quest’ammalato devo essere proprio io?». Una domanda più o meno così se la devono essere fatta anche certi dottori di Houston di fronte a un malato illustrissimo, Michael DeBakey, pioniere della cardiochirurgia. L’aorta, la grossa arteria che riceve il sangue dal cuore, certe volte si dilata e si può persino rompere; quando capita si muore, quasi sempre. Meglio: si moriva, prima che Michael DeBakey insegnasse a tutti i chirurghi del mondo come ripararla. Un giorno DeBakey ha un dolore violentissimo al petto; l’aorta, la sua, si sta lacerando ma non si trova un anestesista disposto ad addormentarlo. Rischio troppo alto, dicono, e si capisce, DeBakey ha 97 anni e nessuno ha voglia di passare alla storia per quello che lo ha fatto morire in sala operatoria. E non basta, pare che DeBakey avesse firmato un foglio: «Niente rianimazione se vado in coma». I dottori dell’ospedale che ha fatto la storia della cardiochirurgia sono paralizzati dalla paura. Intanto DeBakey si aggrava; George Noon, uno che con DeBakey ha lavorato per più di trent’anni, sa che non c’è alternativa: o si opera o DeBakey muore, ma ha paura (la solita di quando devi operare un malato così grave e non solo «perché DeBakey devo farlo morire proprio io?»). L’anestesista alla fine si trova. DeBakey dopo la chirurgia finisce in rianimazione: una macchina che respira per lui, un foro nello stomaco per alimentarlo, e serve la dialisi; si va avanti così per settimane finché DeBakey, tra lo stupore di tutti, torna in sé. «Sono felice che l’abbiano fatto», ha detto ai giornalisti del «New York Times» a proposito dei chirurghi che hanno vinto la paura e hanno deciso di operarlo. Un’altra fonte di angoscia è quella di dover parlare con chi ha poche speranze di guarire o nessuna. Dire la verità? Certo, lo si deve fare, ma come? Certe volte non trovi le parole e parli d’altro. Bisognerebbe dirla la verità, sempre, e lo si dovrebbe fare «senza togliere la speranza». Ma non è così semplice. Dire tutto, dire un po’ o dire niente? C’è chi la verità non la vuole, c’è chi vuole sentirsi dire che guarirà anche quando le cose vanno male. E poi ci sono i parenti. È giusto farsi condizionare da loro? Chi lo sa. Così non sempre fai quello che «si dovrebbe», il più delle volte fai quello che puoi e comunque hai paura. E poi ci sono i bambini. Come ci si comporta con loro? Regole non ce ne sono. Una volta con i bambini malati si parlava di tutto meno che della malattia e mai, assolutamente mai, della morte e del morire, nemmeno con i bambini ammalati di tumore, nemmeno nelle fasi più avanzate della malattia. È stato così per decenni e i bambini se ne sono accorti. Perché i bambini malati di tumore non parlano? Forse perché sanno che fare domande ai dottori non serve e così stanno in silenzio. È un silenzio che fa paura. Oggi con i bambini si parla e loro si confidano, raccontano delle loro paure e dell’angoscia di dover morire. Finalmente possono chiedere se morire fa male, cioè se in quel momento lì si soffre. E non gli puoi dire la prima cosa che ti viene in mente, vogliono la verità. I bambini, anche quelli molto piccoli, capiscono quanto succede intorno e sanno della loro malattia molto più di quanto noi non immaginiamo. E allora perché dovrebbero tenersi tutto dentro? Non è giusto, ma quando gli devi parlare hai paura. Certe volte sono più brave le mamme. «Perché non posso uscire a giocare con gli altri bambini?», chiede una sera un bambino di 4 anni con la leucemia acuta alla mamma, e lei: «Sei malato, lo sai, e adesso le cure non funzionano più, dovrai morire un giorno»; e il bimbo: «Ma che cosa succede quando si muore?». «Si va in paradiso — risponde la mamma — e lì sì che puoi riprendere a giocare. Con gli angeli». «Si può pescare?». «Certo Andrea, ci sono tanti laghi pieni di pesci». E il bambino: «E la neve c’è?». «Sì, Andrea». «È quello che volevo sapere, buonanotte». Circola un’altra paura fra i dottori degli ospedali: che tutto quello che vedi possa succedere ai tuoi cari. «Ci sono delle volte che vado via sfatto da questo posto; cerco di non pensarci, non ne parlo a casa, ma ogni sabato sera che sono di turno, ogni 118 che esce, penso sempre che sia mio figlio che viene qua». I dottori delle rianimazioni hanno paura soprattutto di notte, quando si è troppo stanchi, quando c’è troppo silenzio e hai paura di decidere. «Vorrei tornare studente, con qualcuno che decide per me». In certi casi è più facile non decidere. E allora capita che ottantenni con il diabete, l’infarto, già diversi by-pass al cuore, in dialisi, un tumore all’intestino siano tenuti in vita con il respiratore artificiale. Che prospettiva può avere un ammalato così? Nessuna, e allora perché si va avanti? Mah... Per i parenti forse. E intanto capita che non ci sia posto per un ragazzo con la meningite o una puerpera. «Trovo molto ipocrita che nella nostra società non si possa più morire dignitosamente. Viene uno con trecento malattie, perché deve morire in rianimazione dopo mesi di ventilazione meccanica? Non è umano. Siamo mortali e dovremmo poterlo accettare». È vero, quando le cose vanno male dovremmo essere più espliciti con gli ammalati e con i parenti, ma certe volte hai paura, non trovi le parole: «Certo, ho sbagliato ma non ho avuto il coraggio di dire a una giovane mamma che il suo cuore ormai non ce la faceva più e che di lì a poco sarebbe morta e che il trapianto a lei, senza permesso di soggiorno, non lo avrebbero fatto mai», scrive Danielle Ofri nel libro What Doctors Feel , che cosa provano i dottori, dentro. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Ott. ’13 I DOLORETTI CHE PREVEDONO IL TEMPO LA CREDENZA POPOLARE ORA È SCIENZA Andare a vivere in Paesi dal clima caldo e secco non aiuta Spesso la scienza smentisce i luoghi comuni, questa volta però i ricercatori hanno confermato una diceria popolare. Hanno scoperto qualcosa che sapevamo già tutti, perché ce lo ripeteva la nonna: se le ginocchia fanno male, è il tempo che sta per cambiare. Questo non vuol dire che d’ora in poi affideremo le previsioni meteo ai laureati in Medicina. Il contrario è più probabile. Negli Stati Uniti ci sono già dei siti web che — sulla base dei dati attesi per umidità, temperatura, pressione atmosferica, vento — stimano la probabilità di soffrire di male alla testa o alle articolazioni. Chi le segue può decidere di attivare il deumidificatore, infilare un maglione in più nella borsa, tenere un antidolorifico a portata di mano. Se prendessero piede anche qui potremmo sentire bollettini del tipo: «Temporali in arrivo, alto rischio di indolenzimenti in Pianura Padana». La chiacchiera da reparto ospedaliero (o da circolo ricreativo per la terza età) sul nesso tra doloretti e maltempo è stata messa alla prova da diversi gruppi di ricerca nel corso degli anni, con alterne fortune. Da ultimo si è riaffacciata, paradossalmente, sulle pagine di un giornale ad alto tasso tecnologico come il Wall Street Journal . Con l’autunno che raduna le sue nuvole in cielo e il freddo che bussa alla porta, Melinda Beck ha fatto il punto sullo stato dell’arte concludendo che sì, la nonna aveva ragione. Tutti conosciamo qualcuno che è solito dire: «Mi duole qui, domani piove». Il problema è avere un campione statistico abbastanza solido per capire se le previsioni azzeccate sono più numerose di quel che si otterrebbe affidandosi al caso. In passato c’è chi, come lo psicologo di Stanford Amos Tversky, non ha trovato corrispondenze e ha finito per iscriversi al club degli scettici. Eppure altri studi, passati in rassegna dal Wall Street Journal , suggeriscono che diverse patologie abbiano una componente meteo rilevante. Chi soffre di emicrania tende a peggiorare quando piove nel raggio di alcuni chilometri. L’infiammazione al nervo trigemino risente di cambiamenti di temperatura e spostamenti d’aria. Molti pazienti con fibromialgia dicono di sentirsi peggio quando il tempo è cattivo. L’umidità è nemica di chi ha la gotta. Il freddo influenza la circolazione del sangue e aumenta l’incidenza degli attacchi cardiaci (si parla di un 7% di probabilità in più ogni 10 gradi Celsius persi). Quanto all’artrite, per capire il probabile meccanismo Robert Jamison dell’Harvard Medical School suggerisce di pensare a un pallone. Inizialmente la pressione interna è uguale a quella esterna. Se quest’ultima cala, il pallone si espande. Lo stesso potrebbe succedere alle giunture, che gonfiandosi esercitano una pressione sui nervi circostanti. Se sono già infiammati faranno ancora più male. Stando così le cose, verrebbe la tentazione di trasferirsi in luoghi dal clima secco e mite. Ma attenzione: non ci sono prove che i dolori legati al maltempo colpiscano diversamente le varie aree geografiche. Più che i valori assoluti, sono i cambiamenti dei parametri meteo che contano. Perciò, anche spostandosi, i benefici risultano passeggeri. Un’ultima considerazione riguarda la meteorologia, scienza affascinante e complessa, sempre a rischio di spettacolarizzazione. Sappiamo tutti quanto sia facile imbattersi in previsioni sbagliate. L’atmosfera è un sistema caotico e le probabilità non sono certezze. È così che ci capita di uscire con l’ombrello nelle giornate di sole, oppure senza e poi piove. Sicuri di voler mettere sulle spalle dei meteorologi anche il fardello della nostra salute? ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Ott. ’13 ALCOLISMO, ECCO IL MECCANISMO CHE CREA PIACERE E DIPENDENZA Eccezionale scoperta di un gruppo di ricercatori cagliaritani Buone notizie per gli alcolisti. Uno studio firmato dal gruppo di ricercatori dell'università di Cagliari Miriam Melis, Pierluigi Caboni, Ezio Carboni, e guidato da Elio Acquas, dimostra che è possibile inibire la formazione di una sostanza, il salsotinolo, che eccita le cellule nervose del piacere. E siccome se non c'è piacere non c'è abuso, la scoperta può essere decisiva per contrastare un fenomeno sempre crescente. L'AZIONE DELL'ETANOLO Lo studio è stato appena pubblicato su Addiction Biology, la più importante rivista internazionale di neurobiologia delle tossicodipendenze, e rivela come le azioni dell'etanolo (il principale componente delle bevande alcoliche) sulle cellule nervose dopaminergiche siano dovute ad una sostanza, il salsolinolo, che si ottiene nel cervello a seguito della trasformazione dell'etanolo stesso. Lo studio dimostra che quando si impedisce la formazione di questa sostanza, l'etanolo non può eccitare le cellule nervose del piacere e quindi non può esercitare il suo potenziale d'abuso. LE CELLULE La ricerca evidenzia il ruolo chiave del salsolinolo nelle azioni dell'alcol in un'area del cervello, l'area ventrale del tegmento (Vta), in cui sono localizzate le cellule nervose dopaminergiche. Si tratta di cellule implicate nel controllo di funzioni cerebrali come la motivazione e l'affettività, le cui alterazioni sono alla base di disturbi psichiatrici, quali depressione, schizofrenia, e tossicodipendenza (quindi anche alcolismo). Questo studio, che ha svelato un meccanismo a due passaggi secondo cui l'etanolo stimola queste cellule nervose così importanti, è interamente sardo e supportato in parte da un finanziamento della Regione. LE CELLULE Lo studio dimostra che quando l'etanolo raggiunge le cellule dopaminergiche viene dapprima trasformato in un'altra molecola, l'acetaldeide, che poi condensa con la dopamina rilasciata dalle stesse cellule nervose, e genera il salsolinolo. Si può dire, quindi, che l'etanolo eccita le cellule dopaminergiche perché si trasforma in salsolinolo. Secondo i ricercatori dell'università di Cagliari, quando si impedisce la formazione di questa sostanza, l'etanolo non può eccitare le cellule nervose del piacere e quindi non può esercitare il suo potenziale d'abuso. LA RICADUTA APPLICATIVA La ricaduta applicativa dello studio, per le sue implicazioni preventive e terapeutiche, potrebbe essere immediata perché, intervenendo su uno dei due passaggi che precedono la formazione del salsolinolo, si può impedire che l'etanolo eserciti i suoi effetti alla base dell'insorgenza dell'alcolismo. ____________________________________________________________ Le Scienze 10 Ott. ’13 IL MINISTERO BOCCIA LA SPERIMENTAZIONE DEL METODO STAMINA Il ministro della salute Beatrice Lorenzin ha deciso di bocciare la sperimentazione della presunta terapia a base di cellule staminali mesenchimali proposta dalla fondazione Stamina di Davide Vannoni. Il ministro ha recepito il parere negativo dell'apposita commissione scientifica e dell'Avvocatura di Stato(red) Bocciatura ufficiale per la sperimentazione del presunto metodo terapeutico proposto dalla Fondazione Stamina di Davide Vannoni. Il Ministero della Salute ha infatti deciso di non proseguire oltre dopo aver valutato il parere negativo sia del comitato scientifico nominato appositamente sia dell'Avvocatura di Stato. "Mi sarebbe piaciuto molto che questa vicenda avesse avuto un epilogo diverso, ma il metodo Stamina non ha i requisiti per la sperimentazione", ha dichiarato il ministro Beatrice Lorenzin durante la conferenza stampa tenuta oggi per annunciare la decisione di bocciare la serie di test che avrebbero dovuto valutare l'eventuale efficacia della proposta terapeutica di Vannoni, basata sull'infusione nei pazienti di staminali mesenchimali. I motivi della bocciatura sottolineati dal Ministero della Salute sono quattro. Un'inadeguata descrizione del metodo, visto che nei documenti presentati da Stamina per la sperimentazione manca una descrizione del differenziamento neurale delle cellule. Poi c'è un'insufficiente definizione del prodotto, "sia perché le cellule da iniettare non sono definite in maniera corretta, sia perché non viene presentato alcun saggio funzionale che ne dimostri le proprietà biologiche; in difetto di questa adeguata caratterizzazione e dei pochi controlli di qualità, vi è un problema sia di efficacia del trattamento, per la difficoltà di riprodurre il metodo, sia di sicurezza", si legge nel documento. E ancora, sottolinea il comitato scientifico, ci sono potenziali rischi per i pazienti, "specie per quanto concerne l'utilizzazione di cellule allogeniche, per la mancanza di un piano di identificazione, screening e testing dei donatori, con conseguente esclusione della verifica del rischio di malattie e agenti trasmissibili", tra i quali il virus HIV. Infine, ci sono rischi di fenomeni di sensibilizzazione anche gravi (per esempio encefalomielite,come specifica il documento ministeriale) dato che il protocollo presentato da Stamina prevede somministrazioni ripetute. E c'è anche il rischio di iniezione di materiale osseo a livello del sistema nervoso, dato che non è prevista la filtrazione delle sospensioni ottenute dal materiale di partenza, la carota ossea. La bocciatura segue le profonda perplessità emerse nella comunità scientifica in merito al metodo Stamina, in particolare dopo la decisione parlamentare di qualche mese fa di varare appunto una sperimentazione - a spese del servizio sanitario nazionale - per sanare il conflitto tra gli organi di controllo sui farmaci, intervenuti a bloccare il trattamento perché Stamina è in violazione delle norme comunitarie che regolano il settore, e le sentenze che autorizzano le terapie su alcuni pazienti. Sul numero di ottobre di Le Scienze, l'articolo Il caso Stamina di Silvia Bencivelli aveva anticipato la fallacia scientifica del metodo proposto dalla fondazione di Davide Vannoni e il rischio che rappresenta nell'aprire le porte a un mercato senza freni e pericoloso per la salute dei pazienti, come ha poi effettivamente stabilito la commissione scientifica ministeriale. La decisione di oggi del ministro Lorenzin evita dunque che l'Italia si aggiudichi il triste primato di unico paese che autorizza sperimentazioni prive dei requisiti di trasparenza e finanziate con denaro pubblico, come ha sottolineato il direttore Marco Cattaneo nell'editoriale, ricordando che nei paesi più avanzati sotto il profilo scientifico e normativo le cliniche che propongono metodi non validati della comunità scientifica sono di fatto assenti, mentre proliferano in paesi emergenti, anche grazie all'assenza di norme e autorità di controllo _____________________________________________________ Il Sole24ore 20 Ott. ’13 STAMINA: ORA SI PUÒ DIRE CHI HA SBAGLIATO? Dopo il famigerato decreto Balduzzi ci è voluto un anno per confermare quello che Nas ed esperti dell'Aifa avevano già accertato nel maggio 2012 Gilberto Corbellini Diceva il più astuto politico della prima repubblica, cioè Giulio Andreotti, che «a pensar male si fa peccato, ma ci si prende». Volendo pensar male in merito alle responsabilità morali, politiche e legali nel caso Stamina, in pochi si salverebbero: carabinieri dei Nas, Aifa, alcuni scienziati (Paolo Bianco, Elena Cattaneo e Michele De Luca ci han messo faccia e tempo 24 ore su 24) e il ministro Beatrice Lorenzin. Stop. Eppure era chiaro fin dal l'inizio che si trattava di un inganno, e chi l'ha scritto da subito e con continuità su queste pagine non aveva accesso a conoscenze privilegiate né difendeva interessi nascosti. Entrando nel merito delle responsabilità e pur comprendendo la disperazione e la sofferenza che li ha mossi, non si può non dire che i genitori dei bambini malati e i malati che hanno chiesto il trattamento Stamina hanno esagerato e agito non nel loro miglior interesse. Per quanto riguarda Marino Andolina e Davide Vannoni va da sé che in qualunque paese davvero civile sarebbero stati bloccati dai magistrati almeno due anni fa per una serie di reati, per cui al momento risultano solo indagati. Ci provi Vannoni ad andare negli Stati Uniti, dove qualche settimana fa hanno arrestato due medici che vendevano intrugli con staminali! Rimane il fatto che, per capire bene la vicenda forse serve adottare la distinzione che si fa soprattutto nella letteratura in inglese tra ciarlatano (quack) e truffatore (cheater). Il primo è quasi un caso clinico, nel senso che è più o meno in buona fede: si autoinganna a tal punto (per ingannare meglio i clienti) che davvero non sa più dove corre la demarcazione tra vero e falso. I ciarlatani, tipicamente, danno vita a una specie di setta, mancano di senso del ridicolo e di emozioni sane. Naturalmente ciò rende non meno inquietante e pericolosa la loro attività. Nelle vicende medico-sanitarie i truffatori sono coloro i quali sanno che stanno imbrogliando o che sfruttano i ciarlatani. Hanno la capacità di capire che fanno del male, ma decidono, magari non senza interni tormenti, di mettere in atto scelte immorali o illegali per tornaconto personale. C'erano e ci sono truffatori nella vicenda Stamina? Chi e a quali scopi per esempio ha spinto a, e deciso di praticare il trattamento Stamina presso gli Spedali Civili di Brescia? Quale interesse ha mosso la trasmissione Le Iene? Il mero gusto di andar contro la comunità scientifica, per aggredire spontaneisticamente un presunto potere costituito, senza capire alcunché di quel che stava accadendo e usando la disperazione dei malati come cassa di risonanza? Saranno le indagini di qualche commissione parlamentare o di magistrati a dire forse qualcosa; se questi ultimi sapranno essere migliori dei giudici che con sprezzo delle prove hanno deciso di sostituirsi ai medici e agli organi regolatori del ministero, prescrivendo pseudo-trattamenti in assenza di prove di sicurezza ed efficacia. Anche solo per evitare questo genere di scempi, vogliamo deciderci a fare una legge sulla responsabilità civile dei magistrati? Anche sulle responsabilità politiche e morali qualcosa si può dire. Partendo da una domanda: come è stato possibile che ci sia voluto un anno, con sceneggiate imbarazzanti, per confermare quello che i carabinieri dei Nas e gli esperti dell'Aifa avevano accertato nel maggio del 2012? Perché si è arrivati a un insensato voto del Parlamento che il ministro Lorenzin ha giustamente definito irrituale, cioè a stanziare tre milioni di euro e a chiedere una commissione di luminari per esaminare un protocollo (quello consegnato da Vannoni agli inizi di agosto) che a priori si sapeva privo di qualunque fondamento. Per ricevere dalla commissione una risposta che più o meno recita: signori politici e presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, non era necessario toglierci dal nostro lavoro o sprecar soldi per stabilire che il protocollo Vannoni è una patacca! Qualunque studente di medicina a partire dal terzo o quarto anno sarebbe stato in grado, usando Internet, di accertare che il cosiddetto metodo Stamina non esisteva. Peraltro a quello studente sarebbe bastato leggere le inchieste già condotte e pubblicate da Nature, in cui si provava che Vannoni aveva copiato quanto inserito nella domanda di brevetto all'ufficio statunitense. Non meraviglierebbe se anche il protocollo consegnato alla commissione fosse frutto di un lavorio di copia/incolla. Chi dovrebbe dare spiegazioni degli atti compiuti sono l'ex-ministro tecnico Renato Balduzzi e il direttore del Centro Nazionale Trapianti Alessandro Nanni Costa, entrato quest'ultimo in gioco non si capisce bene a che titolo. Perché l'ex-ministro Balduzzi ha chiesto un'ispezione secondaria, quando quella di Aifa e Nas sarebbe stata sufficiente alla luce dell'assenza di ogni razionale scientifico per il trattamento Stamina? E perché, nonostante quell'ispezione e i giudizi della commissione di esperti creata sempre dal ministro confermassero il parere di Aifa, non sono stati compiuti atti conseguenti? Fino a che punto Nanni Costa, e in accordo con quali Senatori, è responsabile del tentativo di derubricare a trapianti (articolo 2-bis del famigerato decreto Balduzzi) le terapie cellulari, andando contro le migliori linee regolatorie internazionali? Nella vicenda è entrato a gamba tesa e con argomenti surreali anche il diabetologo Camillo Ricordi, che dice di battersi contro gli eccessi di regolamentazione delle terapie cellulari. Ma perché condurre una battaglia forse sensata usando il trattamento Stamina, cioè fiancheggiando pseudo-scienziati e facendo pagare al sistema sanitario nazionale della roba altrettanto inutile ma più pericolosa dei farmaci omeopatici? Si può dire che qualcuno ha sbagliato, che non si doveva arrivare al decreto Balduzzi, che chi era chiamato a governare una situazione abbastanza elementare non l'ha saputo fare o si è affidato a consulenti inaffidabili? Ora che forse si è chiusa, la vicenda Stamina dovrebbe mettere in allarme Governo e Parlamento sulla natura deflagrante che può assumere il Titolo V della Costituzione. Ce la vogliamo immaginare una sanità in cui i farmaci vengono approvati e regolati a livello regionale, come auspicano alcuni partiti e politici? Il Titolo V è all'origine della devastazione dei bilanci regionali e quindi anche di quello dello Stato – e per questo andrebbe di corsa ripensato! – ma i danni che può fare vanno oltre il pensabile. I conti di quel che sarebbe costato il trattamento Stamina – già richiesto a gran voce da alcuni consigli regionali – li ha fatti Michele De Luca su queste pagine: almeno quattro miliardi di euro. Qualcuno vuole davvero che alla fine salti per aria il sistema sanitario nazionale? ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Ott. ’13 L'ITALIANO CHE «INVENTÒ» LA TAC di EDOARDO SEGANTINI O ggi la diagnostica per immagini è terreno di confronto industriale planetario tra colossi come General Electric, Philips, Siemens, Fujitsu e Samsung, con uno spazio crescente di mercato anche per l'italiana Esaote. Ma i suoi albori sono stati segnati dalle scoperte e dalle invenzioni di scienziati europei e italiani. Alessandro Vallebona — a cui Genova ha appena intitolato la strada che porta al Parco scientifico e tecnologico degli Erzelli — è uno di questi precursori. Il celebre radiologo, morto nel 1987 a 88 anni nella città della Lanterna, dov'era nato e vissuto, è il grande clinico e tecnologo a cui si deve l'invenzione della stratigrafia, progenitrice dell'attuale tomografia computerizzata. La sua storia è interessante e attualissima, antesignana di un modo al tempo stesso concreto e visionario di intendere i rapporti tra l'università e l'industria. Ordinario di radiologia medica all'Università di Genova dal 1950 al 1969, nel 1930, sul numero 4 della rivista La Liguria Medica, propone "una nuova metodica radiodiagnostica". La definisce, più esattamente, "una modalità tecnica per la dissociazione radiografica delle ombre". Più avanti, nel 1934, riprenderà l'argomento in una nuova comunicazione al Congresso di Zurigo e chiamerà il suo metodo "stratigrafia". Che cos'è la stratigrafia lo spiega Giorgio Cosmacini. «La regione del corpo studiata stratigraficamente — dice il celebre storico della medicina (e lui stesso radiologo) — è come un libro chiuso del quale la radiografia ci dà un'immagine a tutto spessore con sovrapposizione di parti che solo la stratigrafia ci permette di sfogliare pagina dopo pagina e di leggere nelle parti più interessanti». In sostanza: immaginando di avere un libro stampato su carta trasparente e di osservarlo, chiuso, di fronte a una sorgente luminosa, vedremmo un'immagine confusa, come un'ombra di cui non potremmo riconoscere i caratteri di stampa. Invece, osservando una pagina per volta, potremmo riconoscere i diversi caratteri e leggerne il contenuto. La formidabile invenzione di Vallebona è stata quella di passare da una visione sintetica (il libro intero) a una analitica (le singole pagine). A partire dalla fine dell'Ottocento, racconta Cosmacini, dalla Germania di Wilhelm Conrad Röntgen, che scopre i raggi X nel 1895 e riceve il premio Nobel per la fisica nel 1901, la radiologia si diffonde in tutt'Europa. «A lanciarla, in Italia, sono alcuni pionieri come Vittorio Maragliano a Genova, Felice Perussia a Milano, Mario Bertolotti a Torino, Aristide Busi a Bologna e Massimiliano Gortan nella Trieste irredenta. Il loro contributo è stato ricordato durante il congresso della Società italiana di radiologia medica (Sirm) il 5 ottobre a Milano, in occasione del suo centenario». Vallebona, che di Vittorio Maragliano è allievo e successore in cattedra, appartiene alla "seconda generazione di studiosi", quando la disciplina è ormai consolidata e perfezionata. Ed è uno dei grandi innovatori di questa fase. «Per esempio — dice Cosmacini — intuisce, già negli anni Cinquanta, che il futuro riuscirà a superare la bidimensionalità della stratigrafia per approdare alla visione tridimensionale. E se non riesce a mettere in pratica la sua intuizione è soltanto per l'insufficienza dei mezzi tecnici: l'informatica al tempo è ancora di là da venire». Chi ha conosciuto Vallebona lo descrive come elegante, signorile, l'immancabile sigaro all'angolo della bocca come in una delle foto più iconiche. Dice Cosmacini: «Era baronale, certo, ma molto meno di altri. Ostentava il sapere, non il potere. E se non prese mai il Nobel, per il quale fu proposto nel 1960, fu per la tradizione di privilegiare la scienza teorica rispetto a quella applicata e per la forte concorrenza dell'olandese Bernard George Ziedses des Plantes». Conferma Giacomo Garlaschi, ordinario di diagnostica per immagini all'Università di Genova, suo allievo: «Con noi giovani era paterno, ci incoraggiava, un'attitudine che molti predicano ma pochi sanno davvero praticare. Forse replicava verso di noi quell'atteggiamento aperto che lui stesso aveva trovato nel suo maestro, Vittorio Maragliano. Quest'ultimo era stato il titolare della prima cattedra di Radiologia, che allora si chiamava Elettroterapia fisica e radiologia, a partire dal 1912: di fatto il fondatore di quella che chiamiamo la scuola genovese». Vallebona è un personaggio di affascinante complessità. Dell'Ottocento, di cui è figlio, conserva la visione romantica della scienza. Del Novecento, di cui condivide totalmente le inquietudini, un pragmatismo capace di guardare avanti. «I cambiamenti in medicina, diceva, — ricorda Garlaschi — devono essere rivolti al bene del paziente, non a quello del medico. Tant'è vero che non fece brevettare la sua invenzione e dunque non si arricchì». Oggi può far sorridere l'uso della parola "missione" applicata alla ricerca e alla medicina, talmente forte è la retorica dell'antiretorica. Non è un caso che quel termine, senza timore del ridicolo, venga invece impudentemente usato, e più spesso abusato, per parlare di business: la missione aziendale, la missione del manager, la missione del presidente, che tutto sono fuorché missionari. L'epoca di Vallebona non aveva questi problemi lessicali. Ma proprio qui sta la modernità dello scienziato. Perché se, da una parte, lui è il medico che crede nella missione dellamedicina, dall'altra è l'inventore di talento, il creatore di tecnologia nella più attuale e fresca delle accezioni. Fosse vissuto nella Silicon Valley, Vallebona avrebbe avuto maggiori opportunità. E tuttavia è nato in una buona "culla". La sua Genova è stata infatti, in epoca meccanica — e oggi è ancora e ancor più vuole tornare ad essere in tempi digitali — una capitale della tecnologia. Ed è stata, per usare la definizione coniata negli Anni 60 dal professor Albert Geerts, radiologo anch'egli, una mecca della radiologia. In questo habitat, lavorando alla costruzione degli stratigrafi con aziende private come la Meschia e la Zuder, che oggi chiameremmo startup, il clinico-tecnologo è stato tra i primi a mettere in pratica la collaborazione tra Università e impresa California-style: quella cooperazione che oggi viene invocata come rimedio fondamentale per potenziare la competitività dell'industria italiana. E che proprio in Esaote, oggi tra i dieci big mondiali dell'imaging diagnostico, ha trovato un campo abituale di applicazione. Lo stesso direttore della ricerca e sviluppo, Luigi Satragno, viene dall'università. E ricorda come le convenzioni con gli ospedali e con l'università abbiano accompagnato l'azienda fin dagli esordi. Tra il mondo di Vallebona e l'impegno di Esaote c'è un filo rosso. Anzi, oggi, c'è una strada. twitter@SegantiniE IL NOSTRO PAESE SECONDO SOLO AGLI STATI UNITI NELLA RICERCA IN CAMPO RADIOLOGICO N el numero di settembre 2013, l'American Journal of Roentgenology, una delle due più importanti riviste di Radiologia del mondo, ha pubblicato un articolo in cui sono stati individuati e classificati in ordine decrescente i cento articoli della letteratura radiologica mondiale che dal 1945 al 2012 hanno ricevuto il maggior numero di citazioni (il numero di citazioni, citation index, è uno dei parametri più significativi per valutare l'importanza di una pubblicazione scientifica). La classifica vede al primo posto la ricerca dell'inglese Godfrey Hounsfield sull'invenzione della TAC (che gli valse il premio Nobel per la medicina nel 1979). Questo, se da una lato lascia l'amaro in bocca per il mancato riconoscimento dell'Accademia Svedese ad Alessandro Vallebona, d'altra parte conferma l'importanza del suo lavoro. Ma l'articolo dell'American Journal of Roentgenology rende comunque giustizia alla tradizione radiologica italiana, visto che nella classifica delle citazioni per nazioni l'Italia figura al secondo posto, dopo gli Stati Uniti, e che, nella classifica per autori, quello che ha il maggior numero di presenze fra i cento articoli più citati al mondo è un italiano, Tito Livraghi dell'Ospedale di Vimercate (Milano), il secondo è un altro italiano, Luigi Solbiati, dell'Ospedale Civile di Busto Arsizio (Varese) e settima Tiziana Ierace (sempre dell'Ospedale Civile di Busto Arsizio). L. R. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Ott. ’13 DIETRO AI MITI SULLA SALUTE INTERESSI ECONOMICI E POCA CULTURA scientifica Dal «naturale» buono sempre e comunque, ai cibi che bruciano i grassi, alle diete liquide Mangiare l’ananas dopo i pasti perché brucia le calorie. Guai, invece, a portare una mela in tavola come dessert: farebbe gonfiare o addirittura ingrassare. Disintossicarsi da scorie, inquinamento e sostanze nocive con digiuni regolari, magari pulendo «a fondo» l’intestino con un lavaggio del colon di tanto in tanto. Ingurgitare antiossidanti senza freni per allungarsi la vita. Proibire lo zucchero ai bambini perché li rende iperattivi. Sono solo alcuni dei miti che riguardano la salute di cui abbonda internet, la versione moderna della saggezza popolare e del passaparola: a volte si tratta di vere e proprie leggende metropolitane oppure di luoghi comuni tramandati da generazioni, ma non mancano teorie con una parvenza di verità scientifica. Che cosa c’è di corretto nelle raccomandazioni che si trovano ormai ovunque, a volte francamente bizzarre? Spesso non molto, come ha spiegato un recente numero speciale della rivista New Scientist dedicato a «demolire» le ipotesi strampalate o plausibili alle quali ci viene chiesto di dar credito: non di rado si tratta di dicerie senza prove scientifiche che le sostengano, nate per svariati (e non sempre nobili) motivi. «Molti miti da sfatare nascono da interessi commerciali: ad esempio, la spinta a consumare in modo smodato antiossidanti a volontà (pure quando non ce n’è bisogno), decantandone doti antinvecchiamento o antitumorali prende le mosse anche da esigenze di mercato» osserva Gino Roberto Corazza, direttore della Medicina Generale 1 al Policlinico San Matteo di Pavia e presidente della Società Italiana di Medicina Interna. Corazza, nel prossimo congresso della Società, a fine ottobre, dedicherà un’intera sessione alle ricerche scientifiche più recenti su stress ossidativo e antiossidanti. «Anche la raccomandazione a disintossicarsi attraverso diete liquide e soprattutto mediante i lavaggi intestinali, prosegue Corazza — nasce da un malinteso senso di pulizia: i batteri che vivono nel nostro intestino sono essenziali per la nostra salute, producono ad esempio vitamina K e acido butirrico, che protegge il tessuto dai tumori. Eliminarli, alterando la flora intestinale, non è solo inutile, ma può anche essere dannoso. Eventuali squilibri nelle popolazioni batteriche si possono trattare favorendo le specie “buone”, non certo portando via tutto». «Queste sono solo alcune delle innumerevoli credenze da smentire — continua Corazza —. Purtroppo la Medicina ne è piena, soprattutto nei settori dove le evidenze scientifiche certe sono scarse e non abbiamo a disposizione test diagnostici efficienti. Allergie e intolleranze alimentari sono due esempi: diversi esami per individuarle sono poco specifici e poco sensibili, così ne proliferano tantissimi di totalmente inadeguati, senza alcun valore scientifico se non addirittura truffaldini. A cui tuttavia non sono poche le persone che prestano fede». Non è però tutta colpa di chi vuole lucrare su qualche credenza popolare; è anche colpa della nostra innata scarsa dimestichezza con la scienza, come spiega Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano e autore del volume «Fa bene o fa male» (Ed. Sperling & Kupfer), dedicato proprio a far chiarezza su molti equivoci in Medicina. «Gli italiani — dice Garattini — non brillano per cultura scientifica. La maggioranza non ha mai studiato i principi e i modi con cui avanza il sapere scientifico, per cui non ha strumenti per interpretare le informazioni che riceve. La scienza si occupa di stabilire con certezza i rapporti di causa-effetto: se un Medicinale fa passare il dolore della sciatica devo essere certo che sia tutto e solo merito del farmaco, assicurandomi che senza di esso il disturbo non sarebbe scomparso comunque, magari perfino prima. Per dimostrarlo vanno condotti studi rigorosi e ben concepiti: non ci sono scorciatoie».