RASSEGNA STAMPA 27/10/2013 L'ORDINARIA FOLLIA DENTRO L'UNIVERSITÀ SYLOS LABINI: UN BARONE VALE PIÙ DI UN NOBEL VENDOLA CONTRO CARROZZA: "OBIETTIVO È DEMOLIRE UNIVERSITÀ MERIDIONALI" SOS RETTORI: "VOGLIONO CHIUDERCI,I SOLDI PER GLI ATENEI DEL NORD" TRE SCELTE STRATEGICHE SULLA SCUOLA PERCHÉ L’ITALIA TORNI A COMPETERE UNICAL: CARROZZA CONTESTATA CON LANCI DI PIETRE E UOVA UNICAL: L’OBIETTIVO SBAGLIATO DEGLI STUDENTI UNCIAL: IL RETTORE: UNICAL HA PRESTIGIO E DIGNITÀ DA VENDERE TALENTI DALL’ISOLA AGLI ATENEI DEL MONDO SCIENZA DELLA DISOCCUPAZIONE RICERCA INQUINATA: LA SICUREZZA NON È ALCHIMIA PARIGI PUNTA SU UN NUOVO CAMPUS UNIVERSITARIO NON SI MUORE DI OGM EXPO NO-OGM, GRAVE ERRORE I ROBOT DOTATI DI COSCIENZA SARANNO UNA SPECIE ALIENA WIKIPWDIA: 250 AUTORI FANTOCCIO FALSIFICAVANO LE VOCI A PAGAMENTO WIKIPEDIA: CORREZIONI PERICOLOSE IL RISORGIMENTO MATEMATICO II LATO DEMOCRATICO DEGLI OPEN DATA ECCO PERCHÉ I FENICI VISSERO FELICI E CONTENTI NELLA SARDEGNA ARCAICA SORPRESA, L'UOMO NURAGICO ERA IMMUNE DALLA MALARIA CITTÀ “INTELLIGENTI” CAGLIARI 47ª ========================================================= UNIVERSITÀ, RIAMMESSI 2 MILA STUDENTI DOVE VANNO A FINIRE I 100 MILA ESCLUSI DAI TEST UNIVERSITARI AOUCA: SAN GIOVANNI DI DIO DIVENTERÀ UN POLIAMBULATORIO AOUCA: GINECOLOGIA DEL SAN GIOVANNI ENTRO NOVEMBRE AL POLICLINICO AOUCA: LA SIFILIDE TORNA A COLPIRE: AOB: ERNIA DEL DISCO? STOP AI DOLORI CON LA TECNICA PLDD OBAMA DIFENDE LA RIFORMA SANITARIA: È PIÙ DI UN SITO WEB BLOCCO STIPENDI ANCHE PER I MEDICI DI BASE LA SANITÀ FUCINA DI POSTI” IL PRONOSTICO DI BRUXELLES NEI LABORATORI 5.700 POSTI A RISCHIO TECNO-ASSISTENZA PER FAR VIVERE MEGLIO I NOSTRI ANZIANI LA CURA DI RISATE DEI CLOWN DOTTORI ADESSO VA PRESA SUL SERIO LA VITA DIVENTA DIGI TALE «IL TELETRASPORTO DEL DNA» LA SCIENZA DELLA SALUTE È UN BUSINESS PER L'EUROPA UN NUOVO ESAME SUL SANGUE MATERNO CAMBIA LA DIAGNOSTICA PRENATALE SESSO E SINESTESIA: QUANDO L'ORGASMO È VIOLETTO COME CAMBIARE IL SISTEMA DI CODIFICA DELL'INTERO GENOMA E TU DI CHE CERVELLO SEI PERCHÉ SU STAMINA I TONI SONO COSÌ VIOLENTI ========================================================= ____________________________________________________________ Il Manifesto 22 Ott. ’13 L'ORDINARIA FOLLIA DENTRO L'UNIVERSITÀ Non le riforme dei ministri (di destra e di sinistra), ma la legge del liberismo ha trasformato gli studenti in individui a caccia di crediti e l'università in una associazione burocratica transnazionale Enzo Scandurra Nell'anno 1966 o '67, non ricordo, mentre ero alla guida della Seicento di mio padre, fui fermato da un auto della polizia stradale. Mi contestarono un sorpasso azzardato fatto lungo un tratto in curva e per di più oltrepassando la doppia striscia bianca che separa le due corsie. Alla domanda di uno dei due poliziotti: «Lei che lavoro fa?», risposi con fierezza: «Sono uno studente del primo anno di Ingegneria». I due poliziotti si scambiarono un'occhiata compassionevole, poi uno di loro mi disse con aria paterna: «Ingegnere stia attento a guidare e non ripeta più questo gesto», lasciandomi andare senza alcuna contravvenzione. Ho raccontato questo episodio diverse volte per far rilevare come, a quei tempi, uno studente fosse coccolato, protetto e infine considerato come un bene comune dell'intero paese. Già perché era diffusa l'idea che l'università fosse un luogo sacro dove si preparava la futura classe dirigente dell'intera nazione. Insomma uno studente universitario godeva del rispetto e della stima di tutti come se, appunto, tutti, si sentissero partecipi della costruzione del futuro della nazione. Pensavo a queste cose leggendo della disperazione di almeno due intere generazioni definite "antagoniste" che hanno partecipato alla giornata di protesta del 19 ottobre a Roma e riflettendo su e in che cosa si è trasformata oggi l'università italiana. Se la grande controffensiva liberista di questi ultimi venti anni fosse rimasta isolata nel campo dell'economia, avrebbe trovato nell'università una fortissima resistenza a penetrare per i conflitti esasperati che essa produce. Ma, paradossalmente, ha trovato proprio qui il suo più potente alleato, il terreno più fertile, l'accoglienza più insperata. Perché il Grande Racconto del neoliberismo si rivolge direttamente all'individuo, fa leva sull'affermazione individuale, sulla capacità dei singoli scoraggiando la loro cooperazione, sull'importanza del successo (sempre individuale) e del merito. La cooperazione (fondamentale per la ricerca) tra ricercatori diventa pericolosa e inutile, vale di più scrivere in lingua inglese su riviste accreditate secondo i criteri dell’ Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca). Così la controffensiva liberista senza alcun bisogno di spargimento di sangue, senza alcun bisogno di atteggiamenti autoritari e senza alcun bisogno del rogo dei vecchi libri ha compiuto il suo delitto perfetto, è dilagata come un fiume in piena, a livello molecolare, dentro le cittadelle universitarie che gli hanno spalancato i cancelli d'ingresso, salutata come la fine del vecchio potere dei baroni. Non è stata la Gelmini (anzi...) a sconfiggere i baroni universitari, è stata l'egemonia liberista a declassarli ai rango di vecchi strumenti di un potere già sconfitto, roba da rigattiere. Semmai la Gelmini e i suoi illustri predecessori al Ministero (a partire da Luigi Berlinguer) ne hanno solo facilitato la marcia trionfale; ma il gioco era già fatto. Così, come profetizzava molti anni fa Remo Ceserani dalle pagine di questo giornale, l'università da comunità di studiosi si è progressivamente trasformata in compagine burocratica transnazionale. Qui si passano intere giornate a compilare moduli e questionari, a fare classifiche delle riviste più accreditate, a spiare il vicino di stanza per vedere se possiede un Vqr (Valutazione Qualità della Ricerca) più alto del nostro. Nel Politecnico di Milano si è tentato di eliminare l'odiosa lingua italiana a favore di corsi forniti direttamente in lingua inglese (tentativo almeno parzialmente fallito ad opera del Tar); sempre a Milano ísi è stabilito che un testo è credibile scientificamente se supera le 17.500 battute,, e via dicendo. E gli studenti? Loro non si sono neppure accorti che il vecchio potere rappresentato dai baroni è stato da tempo sostituito da un più efficace e occulto potere che agisce molto più in profondità. Il sistema dei crediti, la presunta efficienza dei corsi, il sistema della valutazione, hanno introdotto a dosi omeopatiche, ma inesorabilmente, il pensiero unico di stampo europeo che consiste nel non dare più alcuna importanza a ciò che si studia, a come si studia e a tutte quelle sciocchezze che costituivano il fondamento dei saperle a declassarli al ruolo di "clienti". L'importante è superare l'esame, uscire da questo luogo infernale e continuare a sopravvivere nel mondo. Un noto docente universitario ormai andato in pensione raccontava una sto- della divertente, ancorché drammatica. Una volta fu avvicinato da uno studente che gli chiese: «Professore, mi dia un consiglio spassionato; conviene che faccia l'esame su Leopardi che vale 5 crediti o su Manzoni che ne vale 8?». Lui rimase un po' perplesso, poi rispose: «Mi scusi, ma lei ha mai baciato una ragazza gratis?». Anche in questo campo la nota dolente è il comportamento della sinistra. Ha un'idea dei danni fin qui prodotti in un sistema universitario, una volta, tra i migliori del mondo? Ha un'idea di come tentare il processo di ri-costruzione a partire dalle macerie? La mutazione antropologica è iniziata da tempo ed è in fase piuttosto avanzata, occorre che chiunque abbia titolo per farlo inizi a disobbedire e a far valere le ragioni dì un pensiero critico perché, fortunatamente, le contraddizioni del pensiero unico si stanno moltiplicando anche tra ii sostenitori delle "nuove buone" ricette liberiste. ____________________________________________________________ Left 26 Ott. ’13 SYLOS LABINI: UN BARONE VALE PIÙ DI UN NOBEL di Francesco Sylos Labini Un barone vale più di un Nobel Per vincere un posto da professore contano solo gli articoli Da qualche anno a questa parte l'università e la scuola sono al centro di processi valutativi che hanno suscitato molte critiche per come sono stati sviluppati. Non c'è dubbio che in un sistema con risorse finite, come qualsiasi sistema universitario, la valutazione è necessaria per tre scopi differenti: assumere, promuovere e ripartire le risorse. In Italia un nuovo modo per arruolare docenti universitari e promuovere quelli già in servizio è stato recentemente introdotto come "sotto-prodotto" della riforma Gelmini, vediamo con che risultati. Supponiamo che sia disponibile una posizione da professore e che si presentino come candidati l'ultimo premio Nobel per la fisica, Peter Higgs e, per fare un esempio esplicativo, il rettore della più grande università italiana (la Sapienza), il professor Luigi Frati. In un sistema di valutazione ideale si preferirebbe assumere un grande scienziato premiato con il Nobel piuttosto che qualcuno che ha dedicato la propria attività a dirigere un ateneo con 200mila studenti per quasi un decennio. Dovrebbe essere anche l'obiettivo della riforma Gelmini, ufficialmente diretta a contrastare il "potere dei baroni". Invece il risultato del sistema che è stato implementato in conseguenza di questa legge è paradossale: il famoso premio Nobel Higgs non verrebbe arruolato come membro di una commissione di selezione né passerebbe la soglia per essere candidabile al primo livello di professore, mentre il rettore Frati, dall'alto dei suoi strabilianti numeri di articoli e di citazioni, passerebbe tranquillamente entrambe le selezioni. Ma la riforma Gelmini non doveva favorire la meritocrazia? In realtà questa situazione paradossale si verifica perché in Italia c'è un grave ritardo nella cultura della valutazione, al punto da usare metodi banditi a livello internazionale come questo. Una situazione ha permesso di far passare il bianco per nero e viceversa. Ma solo a chi non s'informa su quanto accade nel mondo scientifico internazionale sfugge la natura abnorme di regole escogitate dalla nostra agenzia di valutazione, i cui sostenitori somigliano sempre più agli ultimi giapponesi nella jungla, che "misurano" la qualità di un ricercatore contando solo il numero di articoli e di citazioni da questi ricevuti. Qualcuno dica loro che Okinawa è caduta in mano agli americani. ____________________________________________________________ Repubblica 23 Ott. ’13 VENDOLA CONTRO CARROZZA: "OBIETTIVO È DEMOLIRE UNIVERSITÀ MERIDIONALI" Duro intervento del Presidente della Regione Puglia: "Ci opporremo con tutte le nostre forze a questo tentativo di cancellazione della cultura nel Mezzogiorno" Lo leggo dopo (fotogramma)Dopo la denuncia dei rettori delle Università di Bari e Foggia contro il nuovo decreto per la ripartizione dei punti organico tra gli atenei, arriva anche la dura presa di posizione del presidente della Regione Nichi Vendola: "Per celebrare degnamente la retrocessione dell'Italia dall'ottavo al nono posto delle "potenze" mondiali, il governo Letta-Alfano ha pensato bene di assestare un nuovo, durissimo colpo alle Università italiane, cioè al cuore pulsante della vita stessa del paese: l'istruzione, la formazione, la cultura. In particolare, la netta diminuzione dei 'punti organico' nelle Università pugliesi rispetto alle università del Nord, non permetterà assunzioni di personale nonostante le centinaia di pensionamenti e metterà a rischio persino l'ordinaria didattica". "In questo modo - ha proseguito Vendola - si aumenta scientificamente, ed in maniera evidentemente premeditata, il divario del sostegno alle Università. Obiettivo, ormai esplicito e non più camuffato, è demolire le Università meridionali, a cominciare dalla riduzione di fondi o dal decreto mobilità che premia chi va a studiare altrove, fino ad arrivare a quest'ultimo atto". "Ci opporremo con tutte le nostre forze a questo tentativo di cancellazione della cultura nel Mezzogiorno - ha aggiunto Vendola - e vorrei ricordare, a questo proposito, che la Regione Puglia ha stanziato 26 milioni per progetti di ricerca e assunzione di ricercatori a tempo determinato. Noi rinnoviamo quindi, come abbiamo sempre fatto, la nostra attenzione all'Università e continueremo a sostenere, a dispetto dei numerosi attacchi, la ricerca, la formazione, la cultura". "Siamo profondamente consapevoli - ha concluso Vendola - che solo così il nostro Paese potrà salvarsi. Ridando ai giovani le opportunità di studio, di formazione di alto livello, di opportunità di crescita che consenta alle nostre eccellenze ed alle nostre intelligenze di continuare a primeggiare". ____________________________________________________________ Repubblica 23 Ott. ’13 SOS RETTORI: "VOGLIONO CHIUDERCI,I SOLDI PER GLI ATENEI DEL NORD" Addio al turn over, il nuovo decreto penalizza Bari e Foggia. "Strategia lucida e diabolica che penalizza il Mezzogiorno". "I nostri fondi per finanziare le assunzioni di altre università" FRANCESCA RUSSI Lo leggo dopo "È una strategia lucida e diabolica, vogliono chiudere le università del Sud". Non usa giri di parole il rettore dell'Università di Foggia Giuliano Volpe di fronte al nuovo decreto per la ripartizione dei punti organico tra gli atenei che allarga ulteriormente la forbice tra Nord e Sud. "Crea un'intollerabile disparità, è un clamoroso abbaglio" si accoda il rettore dell'Aldo Moro di Bari, Corrado Petrocelli. Sono proprio le università di Bari e Foggia a uscirne peggio dalle tabelle ministeriali per la suddivisione delle risorse derivanti dai pensionamenti. Dallo scorso agosto, infatti, con l'entrata in vigore della spending review di Monti, i pensionamenti non vengono più calcolati ateneo per ateneo ma sommati in un'unica banca dati. È di qui che si attinge per distribuire i punti organico che determinano le nuove assunzioni. I punti, però, sono calcolati in base a un indice che prende in considerazione indebitamento, spese per il personale e tasse studentesche. Così c'è chi guadagna punti extra e chi si vede sottratti punti: in poche parole ci sono atenei che possono assumere di più e altri che devono invece tagliare i nuovi contratti. Il vincolo nazionale del 20% al turnover - ogni dieci pensionamenti due assunzioni cambia allora da università a università in base ai punti. E si creano divari incolmabili. La Scuola Sant'Anna di Pisa, ateneo di provenienza del ministro Chiara Carrozza, potrà assumere più del doppio dei pensionati con un turnover al 212%; va bene anche alla Normale di Pisa con un turnover del 161%. La situazione cambia completamente nel Mezzogiorno e non di pochi punti percentuali. L'Università di Bari e quella di Foggia, infatti, si bloccano al 6,86%. Penalizzato anche il Politecnico di Bari con un turnover effettivo all'8,99%. Gli effetti del decreto sui punti organico sono stati analizzati in uno studio del ricercatore dell'Università di Cagliari, Beniamino Cappelletti Montano, pubblicato sulla rivista scientifica online "Roars" che ribattezza il provvedimento come un decreto da Robin Hood al contrario: prendere ai poveri per dare ai ricchi. "È un meccanismo senza formule correttive che finisce per spostare i soldi nostri per finanziare le assunzioni di altre università - protesta Petrocelli - non si capisce perché non sono stati applicati correttivi di salvaguardia come lo scorso anno, così non c'è futuro". All'ateneo di Bari, che pure ha migliorato le prestazioni, sono stati decurtati circa 10 punti organico: questo vuol dire quasi azzerare le nuove assunzioni. "Chi è più robusto, diventa ancora più forte - prosegue Petrocelli - non c'è nessun riconoscimento degli sforzi e dei miglioramenti e non si tiene conto, nell'indice fatto anche sulle tasse studentesche, che qui ci sono 7500 studenti esonerati dal pagamento che, nel calcolo, è come se non esistessero". Sul calcolo delle tasse studentesche punta i piedi anche il rettore di Foggia. "Le entrate calcolate sulle tasse studentesche sono un elemento di sperequazione, qui sono minori perché le tasse sono più basse - spiega Volpe - continuano a penalizzarci, ma, devo ammettere, non sono meravigliato. È l'esito di una politica cominciata con Gelmini, continuata con Profumo e ora con Carrozza: vogliono far morire le università del Sud. A Foggia è andata peggio delle più cattive aspettative che erano di un turnover al 12%. È un taglio mostruoso - prosegue - con queste regole siamo condannati a essere in difficoltà, va via il personale e non lo rimpiazziamo, questo paese espelle i giovani ricercatori del Sud". Intanto ieri il Senato accademico dell'ateneo di Bari ha detto no alla richiesta di rimanere in servizio oltre l'età pensionabile presentata da 7 professori. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 21 Ott. ’13 TRE SCELTE STRATEGICHE SULLA SCUOLA PERCHÉ L’ITALIA TORNI A COMPETERE Il sistema formativo italiano, dopo il ’68, ha privilegiato la prima esigenza, ben rappresentata dal principio ispiratore della Scuola di don Lorenzo Milani a Barbiana: «Il programma scolastico si ferma fino a che tutti hanno capito». Questo principio ha posto fine a una odiosa scuola classista in cui solo i «Pierini» figli dei ricchi andavano avanti senza difficoltà, indipendentemente dalla loro capacità e intelligenza. Ma dalle macerie del sistema precedente è nata una scuola di pessima qualità per tutti, come lo stesso Governatore ci ricorda sulla base delle numerose indagini internazionali che lo dimostrano. E questo risultato non è certo andato a beneficio dei poveri. In Usa avere un padre laureato aumenta di 6 volte la probabilità di laurearsi piuttosto che fermarsi al diploma. In Italia l’aumento è di 24 volte, tanto che mentre in Usa conviene, se si può, laurearsi piuttosto che scegliersi la famiglia giusta, in Italia è vero il contrario. E questo perché, come disse Margareth Thatcher: «People from my sort of background needed Grammar schools to compete with children from privileged homes» (La gente della mia origine sociale aveva bisogno di buone scuole secondarie per competere con i ragazzi delle famiglie privilegiate). Una scuola di bassa qualità per tutti toglie ai poveri uno strumento per annullare il vantaggio dei ricchi. Quindi, dato che le risorse sono scarse, dobbiamo decidere quanto investire in scuole e università di qualità per quelli che davvero le meritano, poveri o ricchi che siano. La seconda decisione difficile riguarda l’equilibrio tra cultura classica e cultura tecnico scientifica, ossia quella di cui il Governatore lamenta maggiormente la mancanza. Che io sappia, siamo rimasti l’unico Paese al mondo in cui, nella scuole tradizionalmente di élite , gli studenti dedicano il massimo delle loro energie a studiare latino, greco e materie umanistiche invece di dedicare più tempo ed energie a materie scientifiche. Si sente spesso dire che questo è un bene e lo dimostrerebbe il fatto che i diplomati del liceo classico, che poi vanno a studiare materie scientifiche all’università, non hanno problemi e anzi sono i migliori. Questo argomento non mi ha mai convinto perché se gli studenti che decidono di iscriversi al liceo classico sono i migliori già prima di iscriversi, è ovvio che poi siano i migliori anche dopo. La correlazione non implica necessariamente causazione. Anzi, sorge naturale il sospetto che se questi studenti avessero potuto modulare meglio il loro curriculum in preparazione di futuri studi scientifici il loro risultato sarebbe stato ancora migliore. Purtroppo le ore di lezione sono limitate anche per gli studenti più bravi. Cosa vogliamo che studino? I mitocondri o l’aoristo passivo? Anche perché se vogliamo retribuzioni elevate abbiamo bisogno di investire in tecnologia ad alto valore aggiunto nell’interesse di tutti, a ogni livello della scala sociale. L’allarme del Governatore ci impone poi di decidere se continuare ad affidare solamente allo Stato il compito di migliorare il sistema formativo. È lo stesso Visco a dire che lo Stato non spende poco per la scuola italiana. Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti, e quindi il sospetto è che spenda male. Non dovrebbe sorprendere, perché è difficile gestire dal centro una organizzazione più grande quasi dell’esercito americano. Per questo è necessaria una forte dose di autonomia e concorrenzialità reali, a tutti i livelli del sistema scolastico, riguardo alla gestione dell’offerta formativa e delle risorse, soprattutto umane. Questo proprio perché anche l’amministrazione pubblica più efficiente al mondo farebbe fatica a governare l’immensa struttura che il Miur (Ministero dell’istruzione, università e ricerca) pretende di gestire da viale Trastevere a colpi di «concorsoni» e circolari. Avete mai visto un anno scolastico in cui ogni classe abbia iniziato con tutti i suoi professori al loro posto o senza una girandola di supplenti? In questo caso, però, la scelta è più facile. Non è necessario abbattere la scuola pubblica, anzi. Basta accettare il principio che la scuola è pubblica anche quando chi la gestisce non è lo Stato in prima persona, ma chi localmente ha le informazioni migliori per farlo, sottostando alle regole e alla valutazione che la collettività ritiene necessarie . andrea.ichino@eui.eu ____________________________________________________________ Corriere della Sera 22 Ott. ’13 UNICAL: CARROZZA CONTESTATA CON LANCI DI PIETRE E UOVA Momenti di tensione ieri sera a Rende, in provincia di Cosenza, durante la visita del ministro dell’Istruzione Maria Grazia Carrozza all’Università della Calabria. Alcuni studenti dell’ateneo hanno inscenato una manifestazione di protesta al suo arrivo, con lanci di pietre e uova contro il corteo di auto che accompagnava il ministro. Due carabinieri del servizio d’ordine, colpiti dai sassi lanciati dagli studenti, sono rimasti leggermente contusi. «Posso assicurare che nessuno studente mi ha lanciato uova o pietre contro la macchina», ha scritto Carrozza su Twitter, aggiungendo che la notizia della contestazione «è stata amplificata troppo» e di aver parlato con gli studenti «faccia a faccia». I ragazzi chiedevano la liberazione dei giovani arrestati a Roma durante i cortei organizzati dal Movimento antagonista, la riduzione delle tasse e il reddito minimo garantito. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Ott. ’13 UNICAL: L’OBIETTIVO SBAGLIATO DEGLI STUDENTI: «NO ALLA CARROZZA, SÌ ALLE NAVETTE» , c’era scritto su uno dei cartelli esposti dagli studenti che lunedì all’Università della Calabria hanno contestato Maria Chiara Carrozza tirando un po’ di uova e di sassi. Obiettivi della protesta: «Rilanciare una mobilitazione territoriale che a partire dal tema dell’austerity e della crisi economica e democratica di questo Paese, sappia riconnettersi alle questioni che attraversano il nostro territorio» e cioè «la questione dei trasporti e il contrasto alla metropolitana leggera; le migliaia di lavoratori precari e cassa integrati della nostra regione; il mondo del precariato della scuola e dell’Università». I cartelli e gli striscioni erano tutti centrati sugli stessi temi. Ora, il ministro potrebbe avere anche mille torti. Ma è sba-lor-diti-vo che fra i temi posti dai ragazzi ci sia di tutto tranne le condizioni penose in cui versa il loro ateneo sotto il profilo che a loro dovrebbe interessare di più e invece ignorano: la capacità di preparare laureati in grado di gettarsi tra i flutti di un mondo del lavoro sempre più difficile, ostile e competitivo senza affogare dopo due bracciate. Nella classifica 2013 delle migliori Università del pianeta compilata dalla Shanghai Jiao Tong University, l’ateneo di Arcavacata fondato quarant’anni fa da un gruppo di entusiasti tra i quali il trentino Beniamino Andreatta e il romano Paolo Sylos Labini, non è neppure nelle prime 500. In quella compilata dallo spagnolo Cybermetrics Lab incrociando i dati di 21.000 atenei mondiali è al 675º posto dopo una miriade di atenei che teoricamente dovrebbero stare ben dietro e peggio ancora è al 237º posto nella classifica europea. Quanto alla hit-parade italiana elaborata dal Sole 24 ore, il grande campus universitario nato sul modello americano è malinconicamente in 38ª posizione. classifiche da prendere con le pinze. Giusto. posizione. C’è chi dirà: sono classifiche da prendere con le pinze. Giusto. Ma dicono una cosa: la reputazione mondiale, europea e italiana dell’Unical, a dispetto della statura di tanti docenti preparati e perbene, è a pezzi. Ed è probabile che venga ulteriormente sgretolata dall’inchiesta sullo scandalo sugli esami falsi che ha visto giorni fa la richiesta di rinvio a giudizio di 61 studenti, impiegati e un professore. E qui ti domandi: perché quei ragazzi non hanno fatto neppure una manifestazione (neanche una!) contro il degrado della loro università svelato dall’inchiesta? Perché hanno fatto sentire il preside di Lettere Raffaele Perreli che per primo denunciò gli esami taroccati, come lui stesso ha raccontato a Maria Francesca Fortunato del «Quotidiano», un «ospite ingrato»? Perché non si battono per pretendere docenti d’eccellenza, corsi d’eccellenza, laboratori d’eccellenza, seminari d’eccellenza, selezioni d’eccellenza? Cosa se ne fanno di una laurea che vale il 2 di coppe rispetto a quella presa negli atenei più selettivi, più esigenti, più duri se il potenziale datore di lavoro può avere perfino il dubbio che qualche esame è stato «aggiustato»? Insomma, perché continuano, nelle loro proteste, a sbagliare mira? © RIPRODUZIONE RISERVATA ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Ott. ’13 LATORRE: UNICAL HA PRESTIGIO E DIGNITÀ DA VENDERE L’articolo pubblicato da Gian Antonio Stella il 23 ottobre è un concentrato di violenza verbale e di arbitrarie elucubrazioni contro l’Università della Calabria, che ha prestigio e dignità da vendere. L’Ateneo verificherà se esistono le condizioni per tutelare la propria immagine nelle sedi opportune. Intanto, però, è necessario richiamare alcuni elementi che affermano esattamente il contrario di quanto sostenuto da Stella riguardo alla qualità della didattica, alla preparazione dei nostri laureati e al prestigio di cui gode l’Ateneo. Intanto, occorre ricordare l’indagine annualmente condotta dal consorzio «Alma Laurea», da cui emerge che l’accesso all’occupazione dei nostri laureati, a distanza di 1, 3 e 5 anni dal conseguimento del titolo, è quasi in linea con i dati nazionali, nonostante la gravissima situazione del mercato del lavoro calabrese. In secondo luogo, la valutazione Anvur — l’unica condotta con criteri scientifici da un’agenzia statale terza e che, a differenza delle graduatorie internazionali, non si basa sulle sole citazioni ma sulle effettive pubblicazioni dei docenti — nella quale l’Università della Calabria risulta al 25° posto tra le università italiane al top in tutte le aree scientifiche e sul totale di 81 sottoposte a valutazione. Quindi, la classifica Censis-la Repubblica, per i servizi agli studenti, che vede l’Unical da anni stabilmente ai primi posti tra gli atenei del nostro Paese. Infine, gli esami truccati. Qualcuno forse accampa meriti, ma è stato possibile scoprire le anomalie immediatamente segnalate alla Procura della Repubblica attraverso la mia denuncia, solo grazie ai controlli di routine che vengono effettuati dagli uffici, e quindi agli «anticorpi» amministrativi di cui l’Ateneo dispone. Ed è stata sempre l’Unical, su mio impulso, a costituirsi parte civile. Altro, non sarebbe stato possibile fare in una vicenda seria, ma lontana dal poter essere presentata come la cartina di tornasole dello stato di salute dell’Ateneo. Giovanni Latorre Rettore Università della Calabria È un piacere vedere che il rettore, dopo avermi bollato alle tv e sui giornali locali come un «antimeridionalista becero» (magari sento anch’io i legali…) lasci perdere questo argomento. Il tema è: ammesso che le classifiche internazionali, che vedono male un po’ tutti gli atenei italiani, vadano prese con le pinze, c’è o no un problema di reputazione delle nostre università? A torto o a ragione, a prescindere dalle eccellenze e dalla bravura di tanti docenti, c’è o no soprattutto al Sud che non ha neppure un’università tra le prime 500 e vede l’Unical, scossa anche dallo scandalo degli esami falsi, al 657° posto? Dicono i dati Miur 2011 che i giovani calabresi che sono andati a laurearsi fuori dallaCalabria sono stati 43,4%. Come mai, se va tutto così bene? Gian Antonio Stella ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 22 Ott. ’13 TALENTI DALL’ISOLA AGLI ATENEI DEL MONDO FUGA DEI CERVELLI Princenton, King’s College, London School: sardi in cattedra di Giacomo Mameli CAGLIARI C'è sempre più Sardegna – e di assoluta eccellenza – nelle università inglesi. Dopo l'economista di Sorso Giovanni Razzu (London School of Economics e senior economist a Downing Street, ora salito in cattedra a Reading), il politologo di Benetutti Roberto Roccu (31 anni) da qualche settimana insegna Politica internazionale al King's College. Gigliola Sulis, cagliaritana, dallo scorso anno è Director of Italian a Leeds (200 studenti distibuiti in quattro anni). E ora riapproda nelle aule del lungo Tamigi anche la sociologa di Ozieri Sara Farris, 36 anni. Esaltanti le sue esperienze precedenti: prima la laurea in Sociologia alla Sapienza di Roma, successive ricerche all'università di Costanza e alla Humboldt di Berlino, Lse e King's, adesso Sara Farris è rientrata dagli Stati Uniti dove ha trascorso dieci mesi presso l'Institute for Advanced Study di Princeton (reso famoso da Albert Einstein). A Londra terrà lezioni su “Donne e nazionalismi” alla Goldsmiths, University of London, nel Dipartimento number one per la Sociologia del Regno Unito. Sorto nel 1891, poco più di 7600 studenti, l'ateneo si è distinto per le sua reputazione e il contributo al mondo delle arti e delle scienze. Racchiude la più grande collezione di materiale audio-visivo del Regno Unito. Quella di Goldsmiths è anche l'università dei più famosi registi e degli attori di cinema e teatro, di musicisti. Il campo di ricerca della sociologa sarda è sempre quello femminile. Dice Sara Farris: «Le mie lezioni saranno centrate sulla relazione storica tra le rivendicazioni delle donne e i movimenti nazionalisti. Approfondirò la distinzione sempre più necessaria tra nazionalismo e populismo e come la stessa impatta sulle donne. È un tema attualissimo, i miei alunni sono di diverse nazionalità e religioni, è quindi necessario spaziare a 360 gradi». Già a Princeton ha ultimato una ricerca sull'immigrazione in Europa dai Paesi poveri del mondo. A lei ozierese, nata nel rione di Corralzu – è capitato di sedersi nel divano nella “Common room” dove il grande Nobel tedesco Einstein si fermava a leggere. È uscito un suo libro che ha già avuto due recensioni autorevoli: “Max Weber's Theory of Personality”. Dice: «Continuerò comunque a interessarmi delle donne immigrate che lavorano come domestiche e nel settore della cura agli anziani. Mi occuperò del Femonazionalismo (in inglese Femonationalism), termine da me coniato e che fa discutere a livello internazionale». Cervello “fuggito” dalla Sardegna? «È stimolante fare esperienze fuori casa, conoscere altri mondi per poter fare comparazioni. Le università americane sono molto più aperte alle idee e al loro potenziale di originalità. Ma non tutto è oro nemmeno negli States. È marcata la gerarchia tra università di serie A e serie Z sono classiste. Le università europee danno una formazione più generalista allo scienziato politico, al sociologo, offrono più strumenti. I confronti si possono proporre dopo aver vissuto in mondi diversi e contrapposti». ____________________________________________________________ Il Foglio 25 Ott. ’13 SCIENZA DELLA DISOCCUPAZIONE Declino è bivaccare nel culturalese, ma facendo Comunicazione L’ Italia declina. E gli italiani, in questo, hanno le loro colpe. Chiacchierano con i loro innumerevoli telefonini, guardano la tivù e sempre come hanno scritto ieri sul Corriere Alberto Alesina e Francesco Giavazzi bivaccano senza leggere neppure un libro all'anno. L'Italia crolla e non ha saperi. E però "comunica". E bisogna perciò dire che quella dei due editorialisti di Via Solferino, ieri, non è stata una trombonata. Tra le preoccupanti metastasi rivelatrici di un danno mentale (proprio un disastro sociale) hanno, infatti, individuato la più squinternata delle chimere assai in voga presso le giovanotte e i giovanotti: il pezzo di carta, uno in particolare. "Bisogna convincere i nostri figli", scrivevano ieri, "che laurearsi a 27 anni in Scienze della Comunicazione difficilmente apre prospettive nel mondo del lavoro". E' solo una Scienza per le Disoccupazioni quella di questa moda. E' un diploma frutto di una parcellizzazione degli studi di certo perfetta per elargire cattedre e settorializzare tutto, dove nulla ne cale perfino del deposito umanistico, come se fosse possibile fare l'esame di latino senza sapere di italiano. "Lettere", diceva Marzio Pieri, "significa leggere". Scienze della Comunicazione, forse, fu utile in un'altra stagione. Nelle tivù giravano i soldi, le aziende investivano in immagine e nell'ebbrezza degli anni 80, tra creativi e mazzette, tra le professioni c'era pure quella dei pr, gli addetti alle pubbliche relazioni. Fu l'epopea delle cicale ma oggi s'è consumata: perfettamente inutile quando il saper fare risulta ben più urgente del faccio cose e vedo gente, pratica assai utile negli happy hour più che nella ripresa del pil. Di culturalese si muore ed è ben difficile immaginare i coetanei indiani, turchi o brasiliani dei nostri figli indirizzarsi verso questi studi buoni per fare solo gnagnera perché la realtà fa testo già da oggi è certo che neppure un dottorino troverà poi un lavorino. Un po' come i simpatici giovani che affollano le scuole di giornalismo o i festival sia esso a Perugia, ormai chiuso assai volenterosi tutti, tutti entusiasti, ma sempre tutti lanciati nel bucare la notizia principale: e cioè che è fi-ni-ta. Più che di giornalisti, ormai, c'è bisogno di giornalieri. E più che di comunicatori, quindi, c'è urgenza di faticatori e questa Scienza che è parente stortignaccola di ciò che fu il Dams di Bologna, quello di Umberto Eco, quello-per l'appunto della mistica tossica disegnata e narrata da Andrea Pazienza è pur sempre, nella migliore delle ipotesi, parto di una gestazione: il passatempo. Così come nella peggiore è solo un surrogato. Di un altro surrogato: il pezzo di carta. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 Ott. ’13 RICERCA INQUINATA: LA SICUREZZA NON È ALCHIMIA I laboratori di ricerca universitari (e non solo) si rivelano spesso pessimi posti per l'incolumità. Ecco come riparare Scienze farmaceutiche a Catania è il dipartimento più inquinato d'Italia. Ferrara invece è uno dei virtuosi: merito di chi lo dirige e del chimico Francesco Dondi Gianni Fochi «Dentro i laboratori ci sono anche i figli dei professori. Chi manderebbe suo figlio a studiare in un posto, se sa che poi in quel posto s'ammala?». Lo dice Stella, protagonista malata di Con il fiato sospeso, film breve in cui la regista Costanza Quatriglio riesce a condensare il dramma dei tumori maligni tra i frequentatori del dipartimento di Scienze farmaceutiche all'università di Catania. Dramma ora all'esame della magistratura, che fornirà forse la verità su cause e responsabili. Quelle parole di Stella superano però l'ambito catanese, e di fatto introducono il tema generale della sicurezza nei laboratori chimici universitari. Nella mentalità del ricercatore dominano la curiosità, la bellezza e la soddisfazione della scoperta, la gara coi colleghi sparsi nel mondo. Di fronte a tutto questo, accettare un certo rischio è spesso considerato inevitabile. Nella mia vita di chimico ho attraversato varie fasi. La prima, un quarto di secolo, m'ha visto ricercatore sperimentale: soprattutto nell'università, ma per un quinquennio anche nell'industria. Ho conosciuto dall'interno un grande centro in un colosso industriale italiano: l'università lo batteva di molte lunghezze in fatto d'efficienza, inventiva, interesse delle persone per il loro lavoro. Rimaneva però molto indietro nella sicurezza degli addetti. Parlo di circa trent'anni fa. Nell'industria i sindacati avevano ormai ben stabilito il loro potere e, fra le conseguenze buone e cattive, una senz'altro buona era proprio l'attenzione alla salute e all'incolumità dei dipendenti. C'erano anche esagerazioni e controsensi. Per un presunto rischio d'incendio, mi fu vietata una piccola fiamma a ossigeno per sigillare fialette di vetro, cosa che mi lasciò in grosse difficoltà, perché maneggiavo sostanze conservabili solo al di fuori del contatto con l'aria. Le altre persone del laboratorio usavano però un bunsen – il classico fornello a gas dei chimici – per farsi il caffè. Comunque nell'insieme la sensibilità era quella giusta. Nel mondo universitario la mentalità è invece sempre stata assai lontana da quella sindacale: per fortuna, altrimenti non avremmo i successi che il mondo riconosce alla nostra ricerca accademica, che pur annaspa nella ben nota miseria cronica. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio, che non si può ignorare e a cui sarebbe bene porre rimedio, pur senza cadere nella trappola opposta degli impedimenti inutili. Conosco fatti raccapriccianti avvenuti in laboratori universitari, italiani e non solo. Mi limiterò a qualche esempio. Sono in piedi davanti alla mia cappa aspirante, dove sto facendo avvenire una reazione. Sento un gran botto dietro di me e qualcosa fa risuonare la bombola d'azoto, sbattendovi con forza poco sotto al rubinetto su cui tengo la mano per regolare il flusso di quel gas. Mi giro di scatto: la cappa dove lavora un laureando è in frantumi. Lui, bianco in faccia più del suo camice e impietrito dallo spavento, è incolume: la violenza del l'esplosione s'è dissipata sui fianchi della cappa e non verso di lui. È successo l'imponderabile? No. Il giovane, ovviamente inesperto (è lì per imparare), nel lavoro pratico non viene seguito da nessuno. Il suo relatore è un professore importante; molti studenti gli chiedono la tesi e lui li accetta volentieri. Non può, ovviamente, seguirli di persona; ma neppure vuole cedere, a ricercatori più liberi di lui, collaboratori preziosi perché gratuiti e perché il loro stesso numero è indice della sua grandezza. In questo caso, il laureando ha fatto qualcosa che un esperto gli avrebbe raccomandato d'evitare con cura: per staccarlo dal fondo del recipiente, ha grattato con una spatola un solido di cui non conosceva la natura esplosiva. Altro lieto fine: l'ascensore, stravecchio, si guasta irrimediabilmente e deve esser sostituito; i lavori durano parecchie settimane. Come fare per le bombole di gas necessarie ai laboratori? Fermare la ricerca e il lavoro dei giovani che devono completare la tesi per potersi laureare? Per tutto quel periodo bombole d'acciaio alte un metro e mezzo, pesantissime e piene di gas a duecento atmosfere, vengono faticosamente trascinate dai laureandi su per le scale, fino al quarto piano. Nessuna di esse scivola, nessuno si fa male. Mica sempre però va bene. Due tecnici hanno ricevuto l'incarico di smaltire il contenuto d'un vecchio armadio, dove venivano riposte sostanze d'ogni tipo. Alcuni barattoli hanno perso l'etichetta: che c'è dentro? Mistero. Uno dei due ne apre uno e con una bacchetta di vetro preleva una piccola porzione del contenuto. La porta sul bunsen acceso, per vedere se il fuoco può essere un metodo adatto allo smaltimento. Non ottiene indicazioni chiare e decide di prendere un altro po' di sostanza. Ma stavolta la bacchetta è calda: quando essa entra di nuovo nel barattolo, la sostanza esplode. I due tecnici vengono feriti seriamente. Probabilmente Catania ha toccato il fondo sul piano nazionale. Il film della Quatriglio s'affianca al libro Morti e silenzi all'università di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, dove si sostiene l'idea che quei tumori siano dovuti all'aria interna inquinata. Lettura assai raccomandabile, sebbene qua e là manchi la partecipazione diretta di qualcuno che la chimica la conosca di prima mano. Non tutte le università sono come quel dipartimento. Si resta anzi addirittura perplessi di fronte a qualche obiettivo ben al di là dei guai reali e concreti. A Ferrara c'è uno degli atenei più impegnati nel non inquinare: merito di chi lo dirige e del chimico Francesco Dondi, anima d'iniziative che, rispetto a Catania, prospettano un mondo tutto diverso. Perfino troppo diverso. Se osserviamo le linee secondo cui Ferrara intende muoversi, vien fatto di pensare che l'università italiana avrebbe piuttosto bisogno di senso pratico e di azioni spicciole. Nella pagina web http://sostenibile.unife.it, come primo gradino del comportamento virtuoso è presentato il calcolo delle cosiddette impronte di carbonio e d'acqua, tentativi di dare valori numerici all'acqua consumata e al biossido di carbonio immesso nell'aria. Andate a dirlo ai parenti d'Emanuele Patanè, morto di tumore poco dopo aver finito il dottorato in quel dipartimento catanese. Non ne riceveranno gran consolazione. Da una parte le malattie gravi e gli incidenti spesso evitabili, dall'altra la responsabilità presunta nei cambiamenti del clima, della quale fra l'altro la scienza non è affatto unanimemente convinta. È il mondo ordinario dei laboratori a dover essere, qua e là, guarito, per il bene di chi vi trascorre la gioventù. I problemi planetari non distolgano l'attenzione da quelli veri e immediati. Sarebbe ora che la chimica universitaria si esaminasse sulla sicurezza del suo stesso mestiere, discutendo nelle opportune sedi nazionali la situazione dei singoli laboratori. Senza aspettare l'iter giudiziario in corso per Catania: i giudici migliori potrebbero essere gli stessi chimici. ____________________________________________________________ ItaliaOggi 23 Ott. ’13 PARIGI PUNTA SU UN NUOVO CAMPUS UNIVERSITARIO È la prima volta da 45 anni Riunisce 12 sedi sparse DI SIMONETTA SCARANE Il governo francese ha deciso di dare una nuova sede all'università Nuova Sorbona Parigi III. Entro il 2018, sarà costruito il campus, innovativo e ecologico, di 35 mila metri quadrati nel XII arrondissement parigino, in rue Picpus, a sud est della città, poco distante dal bois de Vincennes. Un evento. È la prima volta da 45 anni che viene costruita una sede universitaria intra-moenia. Un investimento pubblico di 135 milioni, tra stato e regione Ile de France, che darà un assetto definitivo alla Nuova Sorbona Parigi III, oggi sparpagliata in 12 sedi. E risponderà ai bisogni di sviluppo dell'ateneo di arti, lettere, lingue, scienze umane e sociali. A dare l'annuncio sono stati i ministri dell'insegnamento superiore e della ricerca, Geneviève Fioraso, e dell'Agricoltura, Stéphane Le Foll. Realizzato il nuovo campus universitario, nel 2018 la Nuova Sorbona sarà strutturata intorno a due poli: Sorbona-Quartiene Latino (con l'ampliamento di 1.200 mq, circa, dedicati alla ricerca) e dove resterà la presidenza dell'ateneo, e la SorbonaNation-Picpus, nuova di zecca. Dopo dieci anni di progetti abbandonati, il governo darà finalmente una risposta a un problema di salute pubblica: l'edificio principale Nuova Sorbona Parigi III, il Censier, costruito negli anni 60, è degradato e presenta problemi a causa della presenza dell'amianto A breve, verrà dunque lanciato il concorso di architettura. Per i progettisti sarà una sfida stimolante perchè dovranno misurarsi con l'università posto- rivoluzione numerica, dal momento che alcuni rettori americani si domandano se le loro università esisteranno ancora fra trent'anni, con la dematerializzazione degli insegnamenti. Tuttavia, per il vicepresidente della Nuova Sorbona Parigi III, Raphael Costambeys-kempczynski, la dematerializzazione degli insegnamenti è una cosa, e se ne prende atto, ma non significa la dematerializzazione di persone e studenti. Anzi, al contrario, pur apprezzando l'insegnamento a distanza, gli studenti hanno dichiarato di amare l'interazione diretta con la squadra degli accademici. I progettisti dovranno integrare tutte le innovazioni. Arrivare a decidere la realizzazione del nuovo campus universitario non è stato facile. Si sono dovuti superare molti ostacoli, non ultimo quello delle aree: di proprietà del ministero dell'agricoltura avrebbero dovuto essere utilizzate per costruire uffici, ma il progetto è rimasto lettera morta. ____________________________________________________________ Il Foglio 24 Ott. ’13 NON SI MUORE DI OGM Basta con le isterie, è da vent'anni che li mangiamo, dice il Wsj E, da quasi vent'anni che gran parte del mondo si nutre con cibi Ogm e ancora non ci è successo niente. Nessuna epidemia, nessuna mutazione, eppure la paura irrazionale per le colture geneticamente modificate si fa di anno in anno più forte in molte zone del pianeta. Quanto dovremo aspettare ancora perché l'isteria finisca? Se lo è chiesto ieri, sul Wall Street Journal, Marc Van Montagu, scienziato della Ghent University in Belgio, che pochi giorni fa ha vinto il World Food Prize, considerato il premio Nobel per il cibo. Se l'India è diventata un paese esportatore di cotone, se in alcune zone l'uso di insetticidi è stato ridotto del 25 per cento, se nel mondo il numero di persone malnutrite si riduce nonostante l'aumento della popolazione il merito è in gran parte degli Ogm. Questo, scrive Van Montagu, senza che "nessun problema per la sanità sia mai stato documentato". Gli Ogm, anzi, offrono "un record di sicurezza senza precedenti". Ma in Europa (e in molti paesi in via di sviluppo, dove la produttività degli Ogni sarebbe essenziale) un'isteria disinformata blocca produzione e ricerca. Anche in Italia la politica, cavalcando paure irrazionali, è tutta avversa alla diffusione di colture transgeniche, con poche eccezioni. Studi screditati ma diffusi con sapienza hanno accusato le biotecnologie di qualsiasi nefandezza, dalla diffusione di malattie alla vecchia bufala, smontata anni fa, dei semi Ogm che, sterili, avrebbero condotto i contadini indiani al suicidio. Nessuna di queste invenzioni ha trovato conferma. Se non si crede alle ricerche scientifiche basta guardare alla storia, ormai lunga due decenni. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 Ott. ’13 EXPO NO-OGM, GRAVE ERRORE Una fiera che esalta il biologico e pratiche agricole minimaliste non può attirare gli industriali agroalimentari in quanto commercialmente irrilevante Gilberto Corbellini Il primo ministro Enrico Letta avrebbe dunque ottenuto da Barack Obama che gli Stati Uniti siano presenti con uno stand a Expo2015. Alcune settimane fa avevamo scritto che gli Usa stavano valutando se partecipare o meno, e sembra che il capo del Governo abbia fatto il viaggio anche per evitare l'ennesima figuraccia e catastrofe preparata da politici, dirigenti e imprenditori egotisti. Chissà se mentre chiedeva un aiuto "politico", il presidente Letta era informato che nel corso di un recente incontro a Doha tra le multinazionali dell'agroalimentare (tra cui quelle statunitensi), Expo2015 sarebbe stata derubricata a evento commercialmente irrilevante. Domanda: dove troverà i soldi Obama (almeno 20 milioni di dollari) per realizzare il padiglione Usa, se gli industriali del settore agroalimentare di quel Paese non vedono un interesse economico? Expo2015 sarà un fallimento. A meno che non si cambi subito registro. Perché si deve essere incoscienti (non solo provinciali) per fare una fiera internazionale del cibo inneggiando solo al biologico e a pratiche agricole minimaliste, alle soglie di sfide planetarie proibitive per l'alimentazione e la salute. Idee che danno qualche profitto – peraltro poco rilevante sul Pil – solo in Italia! E tagliando fuori tutto il biotech, all'insegna di un NO ideologico (senza se e senza ma) agli Ogm. Mentre la Fao dice che per sfamare la popolazione che vivrà sul pianeta nel 2050 sarà necessario incrementare le rese agricole del 70%. In un Paese serio si dovrebbero ascoltare le analisi e i suggerimenti di veri esperti di agricoltura, come il presidente dell'Accademia dei Georgofili Franco Scaramuzzi, che ha stigmatizzato la miopia dei nostri politici e governanti su una materia cruciale per il futuro economico e alimentare dell'Italia e del mondo. È raccapricciante pensare che Expo2015 sia stata messa, con scelte bipartisan da governi a parole sempre favorevoli al mercato e all'innovazione, nelle mani di cartelli commerciali tradizionalisti e assistenzialisti. I quali da decenni hanno falsificato la realtà dei problemi agricoli e alimentari causando danni epocali al Paese. Bugie che raccontano Slow Food, guidata dal modesto pensatore ma eccellente imprenditore di se stesso Carlo Petrini, e il tycoon di Eataly, Oscar Farinetti, che tutti corteggiano come se il suo business privato coincidesse con gli interessi dell'Italia tutta. Ma chi sta conducendo Expo2015 verso il baratro è Coldiretti: nemesi dell'agricoltura italiana. Nonostante sia responsabile del declino dell'agricoltura e del fallimento di Federconsorzi, che è costato alle casse dello stato centinaia di milioni di euro, questa organizzazione privata continua a condizionare la politica agricola, manovrando la distribuzione di aiuti economici a discapito di qualunque incentivo alla produttività, alla competitività e alla valorizzazione del diversificato e straordinario potenziale insito nel sistema agricolo italiano date le condizioni geoclimatiche. Eppure non mancano opportunità per sfruttare Expo2015 con uno spirito innovativo e funzionale all'obiettivo di "nutrire il pianeta", che è poi quello fondato su metodi scientifici che l'Italia in passato ha insegnato al mondo grazie a figure come Nazareno Strampelli o a Giantommaso Scarascia Mugnozza. Tantissimi agricoltori, soprattutto del nord, che non ne possono più del totalitarismo di Coldiretti, e chiedono, ai sensi della Costituzione, di esercitare il diritto di coltivare sui terreni di loro proprietà i prodotti economicamente più validi. Quindi anche Ogm. Una bella lezione di civismo è venuta da Silvana Dalla Libera e dall'associazione Futuragra, che forti delle sentenze che in sede europea hanno condannato l'Italia per l'ingiustificato ostracismo ideologico anti Ogm, hanno seminato mais Bt (cioè contenente un gene di Bacillus turingensis) sui loro terreni, ma in modo da consentire la raccolta di dati scientifici utili a capire l'impatto ambientale e i vantaggi. Gli Agricoltori di Vivaro (Pordernone), investendo denaro privato e prendendosi rischi legali o di incolumità personale e patrimoniali, hanno fatto le veci di istituzioni statali pagate con le nostre tasse, ma che non svolgono i compiti che la Costituzione detta loro. E migliaia di loro colleghi sarebbero pronti a seguirli. I dati confermano la superiorità di un'innovazione, gli Ogm, con un potenziale di benefici illimitato. Anche per l'Italia, dove vivono quattro milioni di indigenti e oltre dieci milioni di poveri, che si sentono dire da Coldiretti che va pagato di più il cibo per permettere agli agricoltori di coltivare in modi sostenibili. Per chi? Forse per i due massimi dirigenti dell'organizzazione, i quali mentre predicano la decrescita del Paese percepiscono uno stipendio di circa 1,5 milioni di euro all'anno cadauno. Ancora. Possibile che nessuno provi un po' di disgusto morale giacché nei consorzi agrari gestiti da Coldiretti (che parla di contaminazione da Ogm) si vendono mangimi importati e derivati da quegli stessi Ogm e che ai nostri agricoltori è vietato coltivare? (Qui è possibile leggere le prove: http://www.salmone.org/wp- content/uploads/2013/09/coldiretti-vende-mangimi-ogm.pdf.) Mentre il mais italiano deve essere venduto per fare biocarburante, in quanto appestato da parassiti e quindi tossico, gli agricoltori argentini o brasiliani che coltivano mais Ogm si arricchiscono. ____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 27 Ott. ’13 I ROBOT DOTATI DI COSCIENZA SARANNO UNA SPECIE ALIENA All’inizio del Cambriano, tra i 543 e i 538 milioni di anni fa, la vita sulla Terra — o meglio negli oceani — produce un’esplosione di nuove specie: un ventaglio di freaks con morfologie esuberanti (i cinque occhi dell’Opabinia ) e ornamenti o armamenti (a uso predatorio-sessuale) con fantastiche fluorescenze-iridescenze. Secondo Illah Reza Nourbakhsh della Carnegie Mellon (Robot Futures ), staremmo entrando ora in un Cambriano della robotica, destinato a stravolgere — se non a inquinare — il nostro ambiente domestico e sociale. Tra robot-aspirapolvere e cieli solcati da droni o eli-robot capaci di volare a stormi sincronizzati, lo scenario ricorda il brulichio visivo per le strade di Io robot di Alex Proyas (dal classico di Asimov) o di Minority Report di Spielberg (da Philip Dick), in cui l’ibridazione bio- tech è ormai ordinaria quotidianità. In effetti, a seguire Nourbakhsh (e Michio Kaku nella sua Fisica del futuro ) già il quadro attuale sembra contenere frammenti di futuro. Omettendo avatar o simulacri, cyborg e interazioni uomo-macchina (come le protesi articolari di Pistorius o le coclee e retine artificiali) , la robotica ha già colonizzato diversi settori. Ci sono milioni di robot-vigilanti nell’industria e nei servizi; robot-chirurghi come il formidabile Da Vinci, che opera ad alta precisione; robot-cuochi come quello giapponese della Aisei, che può cucinare un pasto in 1 minuto e 40 secondi; e robot-violinisti come quello della Toyota. Mentre sono allo studio robot modulari «polimorfici» (con pezzi in simil-Lego in grado di assemblarsi in forme di anelli o serpenti) e robot-sociali per i soccorsi dopo un sisma o uno tsunami. Tutti questi artefatti, però, sono molto lontani dalla sfida vera, quella di arrivare a un robot umanoide dotato di coscienza, emancipato dal comando esterno o da comportamenti pre-programmati. Di riuscire cioè a costruire — lasciando sullo sfondo i replicanti di Blade Runner o il bambino-androide di A.I. — robot antropomorfi più evoluti del pur sofisticato Asimo di Honda, che, nonostante la sua deambulazione promettente (e il suo ricco vocabolario), ha meno intelligenza di un insetto. Per esempio di un comune scarafaggio, dotato di funzioni cognitive (dal riconoscimento degli oggetti all’aggiramento degli ostacoli) problematiche per molti robot. Il punto, riassume Nourbakhsh, è che gli attuali robot sono ibridi di elementi superumani (una vista più ampia e focalizzata e una superiore capacità di computazione) e altri subumani (la rigidità del movimento e la stessa impasse cognitiva). Possono vedere di notte come i gufi o i pipistrelli, ma non sanno che cosa vedono; e impiegano ore per svolgere operazioni elementari che noi svolgiamo inconsciamente in una frazione di secondo. Più che ad affinamenti di struttura (telai e giunture più flessibili, motori più leggeri, batterie a minor consumo), la progressiva mimesi dovrà così concentrarsi sul rapporto tra cervello e computer, prendendo atto di una distanza, o almeno di una differenza, pressoché irriducibile. Nonostante l’enorme vantaggio quanto a velocità di informazione (prossima a quella della luce) e densità computazionale (fino a 500 milioni di operazioni al secondo), il computer patisce infatti un gap qualitativo: molto più lento (con impulsi elettrici a 320 km/h), il cervello umano funziona «in parallelo», con una rete di sinapsi in cui ognuno dei cento miliardi di neuroni può interagire con altri diecimila. In più, il computer non contempla la dimensione affettivo-emotiva, necessaria per la discriminazione di valori e, in concerto con la corteccia, per la pianificazione di scelte e decisioni. Al momento, dato che il computer è il «cervello» dei robot, gli artefatti umanoidi non hanno nessuna delle proprietà di una coscienza: né consapevolezza di sé, né cognizione del tempo (passato-presente-futuro), né possibilità di manifestare empatia. Delle emozioni, possono riprodurre solo l’esteriorità mimica, come i cagnolini Aibo della Sony. In teoria, una scalata al gap è possibile; ma a livello di hardware non è facile, perché la legge di Moore (che prevedeva un raddoppio della potenza dei processori ogni 18 mesi), sembra essersi arrestata; mentre a livello di software le uniche speranze sono legate ad algoritmi che operino imitando il «respiro» della selezione naturale. Quel respiro con cui il cervello o il sistema immunitario non rispondono passivamente agli stimoli dell’ambiente, ma li anticipano, producendo soluzioni adattative poi selezionate (e memorizzate) in base alla loro efficacia, come succede proprio allo scarafaggio quando impara a evitare un ostacolo. Tra i pochi artefatti «selezionistici», risaltano i vari Darwin (come il Darwin X) messi a punto dall’immunologo-neurobiologo Gerald Edelman, capaci di interagire con ambienti e oggetti in base a schemi di percezione-memoria-apprendimento che imitano quelli del cervello. Del resto lo stesso Edelman, che pure crede nel possibile sviluppo, un giorno lontano, di una «coscienza» robotica, ci ricorda come si tratterebbe in ogni caso di una coscienza «altra», perché l’integrazione di informazione a livello di bit e silicio produrrebbe una «visione del mondo» diversa da quella prodotta da neuroni e sinapsi. In quel momento, sarà come trovarsi a comunicare con una specie aliena; ma avendo avuto il tempo, essendone stati gli artefici, di prepararsi alla sua emersione. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 Ott. ’13 IL RISORGIMENTO MATEMATICO Sono eroi dimenticati che volevano portare il nuovo Stato a livello delle nazioni europee più avanzate. Figure di grande attualità Nel 1860 la pontificia Alma Mater di Bologna riapre i battenti in un clima nuovo. Con il giovane Cremona che presenta un inedito corso di geometria superiore Umberto Bottazzini e Pietro Nastasi Il 20 novembre 1860 gli studenti affollano l'Aula magna dell'Università di Bologna in un'atmosfera di grande eccitazione e curiosità. È annunciata la prolusione a un nuovo corso di geometria superiore da parte di un giovane professore di fresca nomina inviato dal governo di Torino, capitale del Regno di Sardegna. L'Alma mater, che a Bologna riapre i battenti, ha perso infatti l'appellativo pontificia, che l'aveva designata nei lunghi secoli del potere temporale. Non è la sola novità in una stagione di grandi e radicali cambiamenti, nell'università e nel Paese. In poco più di un anno, da quando Vittorio Emanuele II e Napoleone III sono entrati trionfalmente a Milano, il panorama politico è profondamente mutato. Le sanguinose vittorie di San Martino e Solferino hanno innescato insurrezioni popolari in Toscana e nei Ducati, che hanno costretto alla fuga i sovrani di un tempo. Gli austriaci sono stati cacciati da Bologna e Ferrara, le Marche e l'Umbria sono insorte contro l'autorità pontificia. L'armistizio di Villafranca voluto da Napoleone III non è valso ad arrestare «la rivoluzione italiana del 1859», come la chiamerà Manzoni. In marzo, il plebiscito indetto a Bologna dal dittatore Carlo Farini ha sancito l'annessione delle Legazioni pontificie al Regno di Sardegna, accolta dall'entusiasmo della popolazione e dai fulmini della scomunica comminata da Pio IX al re e a «tutti coloro i quali hanno perpetrata la nefanda ribellione nelle predette provincie». Analogo è l'esito del contemporaneo plebiscito indetto in Toscana da Bettino Ricasoli. L'eco dei plebisciti non si è ancora spento che dallo scoglio di Quarto salpano due vapori carichi dei volontari di Garibaldi alla volta della Sicilia. Nel corso dell'estate le cronache delle loro imprese infiammano la gioventù patriottica. In agosto Garibaldi sbarca in Calabria, ai primi di settembre entra a Napoli. Un mese più tardi sconfigge definitivamente l'esercito borbonico sulle rive del Volturno, e i suoi volontari si congiungono coi soldati piemontesi, vittoriosi a Castelfidardo sulle truppe pontificie. I plebisciti di annessione al Regno di Sardegna si susseguono, nel Regno delle Due Sicilie, nelle Marche, in Umbria. Quando il nuovo anno accademico inizia, è di pochi giorni la notizia che Vittorio Emanuele è entrato a Napoli: il Regno d'Italia è ormai un fatto compiuto. Luigi Cremona, il professore che si appresta a tenere la prolusione al suo corso, è un giovane non ancora trentenne, nominato sulla cattedra di geometria superiore da Terenzio Mamiani, ministro della Pubblica Istruzione del governo Cavour. Non è la prima volta che Cremona capita nella capitale felsinea. Gli studenti che gli stanno di fronte non immaginano certo che nel '48 il loro professore era passato da Bologna tra i volontari del battaglione di studenti "Italia libera", e con loro si era battuto fino all'ultimo nella difesa di Venezia. Ora Cremona vede finalmente realizzati gli ideali d'indipendenza per i quali ha combattuto quando aveva a malapena l'età dei suoi studenti, e le sue parole traboccano di amore per la scienza e di entusiasmo patriottico. «Le nostre facoltà universitarie non possedettero sin qui alcuna cattedra da cui si potessero annunciare alla gioventù italiana le novelle e brillanti scoperte della scienza. Ognun vede quanto fosse indecoroso che l'istruzione, data dallo Stato, non fosse che una piccola parte di quella reclamata dalle odierne condizioni di civiltà; ma a ciò non potevan provvedere né un governo straniero, né governi mancipii dello straniero, pei quali l'ignoranza pubblica era arte potentissima di regno. Quest'era un compito serbato al governo nazionale; ed il governo nazionale tolse a sdebitarsene instituendo cattedre d'insegnamento superiore». Non era stata cosa da poco il "debito" pagato dal "governo nazionale" per ammodernare l'Università di Bologna: insieme a Cremona, infatti, il ministro Mamiani aveva nominato professori un bel gruppo di giovani, da Giosué Carducci all'oculista Francesco Magni, dal latinista Giovan Battista Gandino (il futuro maestro di Pascoli) al filosofo del diritto Pietro Ellero. Molti di questi nomi si ritrovano nella vasta corrispondenza di Cremona, e qualcuno anche nella Loggia massonica da lui frequentata assieme a Carducci. L'argomento del corso che si accinge a presentare, «questa vastissima scienza che chiamasi geometria superiore – continua Cremona – è per le nostre università un ospite affatto nuovo; nulla ha potuto preconizzarlo finora, nemmeno farne sentire il desiderio». Così, agli studenti delinea un vero e proprio programma di ricerca «per rimettere in onore i metodi geometrici». E, sfidando i rischi della retorica, li esorta a seguirlo nell'impresa: «Respingete da voi, o giovani, le malevole parole di coloro che a conforto della propria ignoranza o a sfogo d'irosi pregiudizi vi chiederanno con ironico sorriso a che giovino questi ed altri studii. Lungi dunque da voi questi apostoli delle tenebre; amate la verità e la luce, abbiate fede ne' servigi che la scienza rende presto o tardi alla causa della civiltà e della libertà. Credete all'avvenire! questa è la religione del nostro secolo». È una religione che, agli occhi di Cremona, trova alimento nelle nuove prospettive che le battaglie risorgimentali hanno aperto al Paese, e le sue parole conclusive acquistano i toni appassionati dell'orazione civile: «O giovani felici, cui fortuna concesse di assistere ne' più begli anni della vita alla risurrezione della patria vostra, svegliatevi e sorgete a contemplare il novello sole che fiammeggia sull'orizzonte! Se la doppia tirannide dello sgherro austriaco e del livido gesuita vi teneva oziosi e imbelli, la libertà invece vi vuole operosi e vigili». L'avvenire dell'Italia "è nelle vostre mani", esorta infine Cremona: «Ancora una volta dunque, o giovani, io vi dico: non la turpe inerzia che sfibra anima e corpo, ma i militari e li scientifici studi vi faranno ajutatori alla grandezza di questa nostra Italia, che sta per rientrare, al cospetto dell'attonita Europa, nel consorzio delle potenti e libere nazioni, con una sola capitale, Roma, con un solo re, Vittorio Emanuele, con un solo e massimo eroe, Garibaldi». Il discorso di Cremona è un vero e proprio manifesto che annuncia l'impegno dei matematici della generazione risorgimentale nella vita civile e scientifica della nazione. Dall'Aula magna di Bologna le sue parole si diffondono nel Paese dalle pagine del Politecnico, la rivista di Carlo Cattaneo, introdotte da una vibrante esortazione dello stesso Cattaneo ai poeti italiani ad abbandonare arcadie e romanticismi, mitologie e sepolcri, e a cantare "la nuova poesia della scienza": «O giovani poeti, non eleggete la vostra dimora nei sepolcri; lasciate al passato le sue leggende; date una melodiosa parola alla pura e semplice verità; perocché questa è la gloria del vostro secolo; e voi non dovreste mostrarvi ingrati torcendo gli occhi dal sole nuovo della scienza a voi concesso per tenerli confitti nei sogni della notte che si dilegua». Con l'entusiasmo per le imprese appena compiute, prefigurando in Roma la capitale naturale di un'Italia indipendente e unita, Cremona dava voce a quella che, nel novembre del 1860, era tuttavia ancora solo una speranza. La speranza che, dall'inizio del secolo, aveva nutrito gli ideali e motivato le battaglie di generazioni di patrioti. U. Bottazzini - P. Nastasi, La patria ci vuole eroi. Matematici e vita politica nell'Italia del Risorgimento, Zanichelli, Bologna, pagg. 434 € 27,00 ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Ott. ’13 WIKIPWDIA: 250 AUTORI FANTOCCIO FALSIFICAVANO LE VOCI A PAGAMENTO Articoli sponsorizzati da aziende e manager: via dall’enciclopedia DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — Duecentocinquanta collaboratori messi al bando perché, violando le regole di Wikipedia che vuole essere il frutto di lavoro volontario e disinteressato, si facevano pagare da aziende e singoli individui per metterli in una buona luce negli articoli pubblicati dall’enciclopedia digitale gratuita. Dopo mesi di denunce, la fondazione che gestisce l’ambiziosa impresa editoriale ha deciso di rompere gli indugi. Sue Gardner, direttore esecutivo della Wikimedia Foudation ha reso noto che 250 «account» di collaboratori sono stati bloccati o, addirittura, messi al bando. Forse è solo la punta dell’iceberg: i controlli degli ispettori vanno avanti e altre centinaia di collaboratori sono già finiti sotto osservazione. Lodevole iniziativa questo tentativo di fare pulizia in tutti gli angoli da parte della più straordinaria impresa planetaria di «filantropia editoriale»: un’enciclopedia digitale disponibile in 287 lingue e contenente più di 29 milioni di articoli redatti da 80 mila collaboratori sparsi nel mondo. Uno straordinario successo ma il gigantismo è il tallone d’Achille di un’impresa gestita da una fondazione che, con le donazioni che riceve, può permettersi di pagare solo 187 persone che devono gestire i servizi legali e l’infrastruttura tecnica: fanno del loro meglio per combattere i molti casi di vandalismo digitale e cercano di spazzare via le voci con un contenuto smaccatamente pubblicitario che vengono inserite nell’enciclopedia. Ma è un lavoro ciclopico che i filtri automatici riescono ad eseguire solo in piccola parte. «Nessuno dovrebbe fare soldi con Wikipedia» ha scritto mesi fa su Business Insider un collaboratore dell’enciclopedia, Mike Wood. «Ma la realtà» ha confessato, «è che per ogni articolo che viene eliminato ricevo una chiamata da una società di marketing che mi chiede di riscrivere quella voce». Del resto il problema non è solo di Wikipedia: meno di un mese fa il procuratore generale dello Stato di New York, Eric Schneiderman, ha concluso un’indagine durata un anno sulle recensioni artefatte (giudizi su ristoranti, alberghi e altri servizi per i quali viene creato un «ranking» in rete attraverso servizi come Yelp o Tripadvisor) individuando ben 19 società che producono una gran quantità di giudizi fasulli immessi in rete da finti utenti. Recensioni ben pagate da clienti interessati che le commissionano a società specializzate nate intorno al ricchissimo business dello sfruttamento commerciale del «crowdsourcing» in rete: imprese di ottimizzazione dei motori di ricerca o specializzate nella gestione della reputazione. Difficile batterle perché hanno una loro creatività, un modo di operare molto sofisticato e trovano modi sempre nuovi per aggirare filtri e divieti. Ma nel caso di Wikipedia il problema è più profondo della semplice difficoltà di contenere i tentativi di frode. Anno dopo anno la determinazione con la quale un esercito di volontari ha alimentato il sogno di un’impresa collaborativa volontaria e gratuita è andata attenuandosi. Così non solo non tiene più la diga contro la marea crescente del vandalismo digitale, delle burle e delle manipolazioni, per la carenza delle strutture ispettive, ma è la qualità stessa dell’opera editoriale che si sta deteriorando per il continuo impoverimento dell’esercito dei volontari che scrivono e aggiornano l’enciclopedia: un fenomeno denunciato pochi giorni fa anche da un articolo, «Il declino di Wikipedia» pubblicato dalla Technology Review del MIT. La rivista dell’ateneo di Boston denuncia l’assottigliamento di un corpo redazionale che ha perso almeno un terzo dei suoi effettivi: in nove casi su dieci sono maschi e dedicano alla stesura delle voci molto meno tempo rispetto al passato, i primi anni «eroici». Ci vorrebbe un colpo di reni riformatore, qualcuno che prendesse in mano saldamente il timone. Ma il fondatore Jimmy Wales, utopia nell’utopia, ha optato per una formula di democrazia «perfetta» spogliandosi di tutti i poteri e trasferendoli al collettivo. Così la nave è senza comandante. Massimo Gaggi ____________________________________________________________ Il Sole24ore 20 Ott. ’13 WIKIPEDIA: CORREZIONI PERICOLOSE COME SI INTERVIENE SU WIKIPEDIA Uno studio ha monitorato i conflitti di editing in dieci lingue dell'enciclopedia virtuale dove tutti possono scrivere. Si scopre che la cooperazione produce un valore immenso I temi più controversi: in America le voci «Anarchia» e «George Bush». In Germania si disputa sulla «Croazia», in Francia «Gesù» e «Ufo» Flavia Foradini Con oltre 25 milioni di articoli in 284 lingue, di cui il 30% su cultura e arte, e 4500 amministratori che vegliano sul buon funzionamento del sito, Wikipedia è una gigantesca enciclopedia collaborativa e gratuita, cresciuta a ritmi esponenziali sul web fin dalla sua creazione nel 2001, da parte di Jimmy Wales e Larry Sanger. Oggi la sezione di Wikipedia in lingua inglese è la più corposa, con oltre 4 milioni di articoli, seguita da quella tedesca con 1,5, quella francese 1,3, quella olandese con 1,1. La sezione italiana si difende con circa 1 milione di voci enciclopediche, e dall'inizio del 2013 è ascesa alla quinta posizione mondiale. Finora i 96 milioni di pagine che costituiscono il corpus di Wikipedia hanno subìto un miliardo e mezzo di correzioni. Un'attività di intervento che appare dunque frequente e consente per così dire darwinisticamente a un tema di cristallizzarsi più o meno velocemente in una versione accolta dalla comunità di una certa lingua come giusta, accurata e accettabilmente esaustiva. Per giungere a una fisionomia che necessiti soltanto di attualizzazioni se insorgono nuovi, rilevanti fatti, scoperte o studi, il dietro le quinte dell'interfaccia che tutti conosciamo è spesso caratterizzato da alacri interventi di utenti che aggiungono, cancellano, limano i contenuti di base delle varie voci: un gruppo relativamente ristretto di collaboratori, all'87% maschi, che, forse perché ormai perlopiù sollevati dal servizio in guerre fisiche, si mette in trincea davanti al computer e si lancia in vere e proprie "guerre di modifiche": corpo a corpo virtuali o solo bracci di ferro su una parola, una frase, un concetto, che alla fine lasciano sul campo un soccombente, il quale per stanchezza o per raggiunta convinzione, depone le armi e lascia vivere la versione del vincitore sulla pagina web oggetto del contendere. Già di per sé interessante esercizio che va oltre lo sport, quello delle "guerre di modifiche" è anche un fenomeno che, data l'enorme presenza e utilizzo di Wikipedia nelle maggiori aree geografiche, promette istruttivi sguardi globali su cosa agita o increspa il mondo dei saperi del pianeta Terra. E infatti, prima con un finanziamento dell'Unione Europea nell'àmbito del progetto "ICTeCollective", poi con fondi di varie università e organismi cui fanno capo i firmatari dell'articolato lavoro, dal 2009 un gruppo di ricercatori internazionali sta monitorando le guerre di editing di 10 sezioni linguistiche di Wikipedia: esperti informatici, fisici, antropologi, linguisti e sociologi , matematici. Fra di essi, il prof. Janos Kertesz, direttore dell'Istituto di Fisica dell'Università di Budapest: «Wikipedia è un esempio paradigmatico di collaborazione tra pari, è perfettamente documentata e ha un elevato numero di utenti, dunque è ideale come terreno di indagine, e la nascita e la risoluzione di conflitti ci è sembrato il nodo adeguato da indagare», spiega Kertesz, che illustra come il focus dello studio abbia implicato lo sviluppo di complessi algoritmi per rilevare e analizzare i dati: «La maggiore difficoltà è stata quella di individuare il criterio più efficace per filtrare e selezionare i conflitti. E siamo giunti all'attività di continuo ribaltamento del contenuto di una certa voce, come parametro più utile per il nostro studio». Una volta stabilito il piano di lavoro, l'ineludibile collaborazione con Wikipedia ha aperto il necessario flusso di dati, e come anno di osservazione per l'indagine è stato fissato il 2010: «Se costruttivo, un conflitto può svolgere anche un ruolo positivo nel processo di distillazione di una saggezza condivisa – continua Kertesz –. Davvero problematico è l'esacerbarsi in una sorta di guerra permanente, come è il caso per il lemma "Anarchia" nella sezione inglese e la controversia può essere allora sedata con l'intervento degli amministratori di Wikipedia, e con l'esclusione dei contributi più estremisti, o con altre misure stabilite dalle regole del sito, come la chiusura temporanea di una pagina o la sua divisione in diversi filoni». Lo studio ha classificato anche le differenze di livello di conflitto e i comportamenti nelle varie aree linguistiche, dove non sempre vengono usate le apposite "pagine di discussione" per risolvere differenze: «Mancano ancora dati, per esempio sui Paesi Scandinavi o sull'Italia, ma al momento la Wikipedia tedesca appare più disciplinata di altre, e le diatribe sono spesso su questioni tecniche e procedurali, mentre nelle pagine ungheresi si discute poco, a eccezione dei temi riguardanti i movimenti di estrema destra; in quelle di lingua spagnola i conflitti si fanno accesi sui temi dello sport, in quelle francesi ci si accapiglia su temi scientifici». Assai interessanti nello studio sono sia le classifiche dei temi più gettonati nelle diverse sezioni linguistiche, sia i confronti fra aree linguistico-geografiche. Per l'inglese, oltre a "George Bush" e, al secondo posto, "Anarchia", sono altamente controverse anche Maometto, il tema del riscaldamento globale, la circoncisione, gli Stati Uniti, Gesù, il tema "Razza e intelligenza", la Cristianità. Per il tedesco, la voce "Croazia", Scientology, le teorie di complotti dietro all'attacco alle Torri Gemelle, le corporazioni studentesche di estrema destra, l'omeopatia, Adolf Hitler, Gesù e Hugo Chavez. Per l'area francese, Ségolène Royal, gli Ufo, i testimoni di Geova, Gesù, Sigmund Freud, l'attentato dell'11 settembre. Per l'àmbito spagnolo, il Cile, la squadra di calcio America, l'Opus Dei, ma anche, all'undicesimo posto, la lingua spagnola, seguita da "Spagna" e "Anarchia". Spulciando i dati, si scopre pure che la maggior parte delle modifiche alla voce Egitto, vengono da Stati Uniti e Australia e che in àmbito anglo-germanico-francese-spagnolo, le voci più dibattute sono "Gesù" e "Omeopatia". Wikipedia è inoltre una finestra su priorità, interessi e preferenze trasversali: i temi politici e religiosi sono conflittuali in tutte le 10 lingue studiate, mentre le voci generalmente meno discusse sono quelle relative al cinema e alla musica. Le applicazioni dello studio possono essere assai diverse: «Può servire a chi disegna ambienti collaborativi su internet, sia in ambito scientifico che commerciale – suggerisce Kertesz –. Può essere dunque utile per informatici e manager, ma anche per psicologi, e può contribuire alle ricerche sul tema dei conflitti». «Wikipedia – conclude il fisico ungherese – non può funzionare in teoria, funziona solo in pratica. In altre parole, il principio di base secondo cui chiunque può scriverci qualsiasi cosa su qualsivoglia argomento, produce inaspettatamente un'enciclopedia in larga misura affidabile. Wikipedia è una dimostrazione di come la cooperazione tra umani possa produrre un valore immenso, di come le regole democratiche possano funzionare e di come la saggezza della folla faccia sì che la verità sottometta le menzogne». ____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 27 Ott. ’13 II LATO DEMOCRATICO DEGLI OPEN DATA Nei giorni scorsi, Demand Logic, un’impresa dedicata al risparmio energetico, ha annunciato i risultati di un progetto sviluppato al King’s College di Londra. Analizzando i dati di tre campus dell’università, circa cento edifici con 1.500 elementi di consumo (boiler, pompe, aria condizionata), ha identificato la possibilità di risparmiare in energia elettrica 390 mila sterline ( 460 mila euro) all’anno e di ridurre di 2.500 tonnellate l’anno le emissioni di anidride carbonica. Demand Logic monitora l’efficienza del sistema energetico degli edifici partendo dall’analisi dei dati che i sensori degli impianti raccolgono e trasmettono via Internet a un computer. L’analisi di questi dati permette di individuare i punti di inefficienza degli impianti e di intervenirci. È l’applicazione, in questo caso non troppo complessa, di un’attività ormai diventata diffusissima, l’uso del cosiddetto Open Data, ovvero dei dati a disposizione e utilizzabili da tutti. L’assunto è che la raccolta e l’elaborazione intelligente delle informazioni numeriche permette di ottenere risultati notevolissimi, spesso a basso costo. Demand Logic è una start-up dell’Open Data Institute, un’organizzazione fondata a Londra un anno fa da Sir Thomas Berners-Lee (considerato l’inventore del World Wide Web) e da Nigel Shadbolt, professore di Artificial Intelligence all’università di Southampton. Si tratta di un’organizzazione «indipendente, non-profit, non-partisan» che ha l’obiettivo di diffondere il concetto di «dati come cultura». In giorni in cui la discussione sul Big Data — compresi lo spionaggio di massa e il telefonino di Angela Merkel — è il cuore del confronto diplomatico tra Stati Uniti ed Europa, è meglio avere chiaro che la «rivoluzione dei dati», in pieno dispiegamento nel mondo, ha soprattutto una faccia positiva, benefica. Siamo entrati nell’era delle decisioni guidate dall’analisi dell’enorme massa di informazioni — su ogni aspetto della vita personale e collettiva — resa disponibile dalle tecnologie informatiche e digitali. L’Open Data è il lato democratico di questa poderosa tendenza. Migliaia di aziende lo usano per elaborare le loro strategie commerciali. I governi dovrebbero farlo. L’Institute fondato da Berners-Lee e Shadbolt sta lavorando sulla qualità del cibo, sulla composizione musicale, sulle bugie dei politici, sull’ambiente, sulla finanza, sui fornitori del governo britannico, sulle emissioni di gas nocivi. «Il limite è il cielo», dice Jeni Tennison, direttrice tecnica dell’Istituto. L’enorme massa di informazioni disponibili contiene un valore — anche economico — altrettanto grande: si tratta di liberarlo attraverso l’elaborazione e la comprensione dei numeri. Lo spionaggio a tappeto americano ha messo la questione del Big Data al cuore delle preoccupazioni sulla privacy. Segno che quando vogliono gli Stati sanno essere all’avanguardia nell’uso delle nuove tecnologie. L’organizzazione elettorale di Barack Obama, d’altra parte, ha usato l’Open Data con straordinaria abilità per vincere due elezioni presidenziali. Ora, i governi farebbero bene ad applicare quello che hanno imparato facendo gli spioni alle enormi potenzialità positive di questa nuova frontiera. Su grandi questioni come povertà, malattie, clima. Al boiler ci pensiamo noi. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 25 Ott. ’13 ECCO PERCHÉ I FENICI VISSERO FELICI E CONTENTI NELLA SARDEGNA ARCAICA gotha dell'archeologia mondiale riunito nel Sulcis Ci stavano bene nel Sulcis: era il loro luogo prediletto, al punto che una delle fasi più avanzate della loro colonizzazione fu, ad esempio, Monte Sirai. Qui, grosso modo 2.800 anni fa, accadde qualcosa di speciale: i fenici, entrando in contatto con i nuragici, crearono l'avamposto di una società sarda arcaica i cui sviluppi, poi, fanno parte di un'altra Storia. Su quella dei coloni venuti dal Vicino Oriente, e dei loro discendenti punici, si sono accesi da lunedì a Carbonia e a Sant'Antioco i riflettori del gotha dell'archeologia mondiale, riunito nel Sulcis per l'ottavo congresso internazionale organizzato dall'Università di Sassari, dalla ex Provincia e dai due Comuni padroni di casa. Circa 170 relazioni e una cinquantina di poster (un sistema pratico per divulgare le novità) hanno gettato nuova luce sugli effetti dell'espansione dei fenici, giunti a varie ondate a contatto con le comunità del Mediterraneo. Un mare amico, senza barriere, «cuore degli scambi», ha voluto ricordare nella giornata inaugurale il sovrintendente Marco Minoja riferendosi non a caso alle recenti tragedie costate la vita a migliaia di migranti. La scienza dice che i fenici si adattarono, plasmandosi, alle località in cui andavano insediandosi. Lo fecero quasi in ogni angolo del grande bacino. Il caso del Sulcis è emblematico. Prima lo sbarco a Sant'Antioco, l'antica Sulky, attorno all'800 avanti Cristo, poi in un tempo relativamente breve il trasferimento nell'entroterra, nella vicina Monte Sirai: qui i fenici entrarono in contatto con le comunità nuragiche. Lo ha messo in evidenza in una delle relazioni Michele Guirguis, archeologo che da anni segue gli scavi coordinati da Piero Bartoloni, titolare della cattedra di Archeologia fenicio-punica: «Il ritrovamento di bronzetti nel tempio di Astarte testimonia di contatti precoloniali e della nascita di una sinergia, quasi un nuova società sardo-arcaica». A Monte Sirai e in ogni altra località del Mediterraneo ove questo popolo di navigatori e mercanti mise piede diffondendo i ritrovati della cultura e della tecnologia (l'alfabeto, la porpora, il vetro, i materiali in stile ellenico ed egizio) «ci fu integrazione - ribadisce Bartoloni - non sostituzione». Sempre da Monte Sirai, grazie allo studio di Clizia Murgia, antropologa fisica, e Rosana Pla Orquin, archeologa, emergono spaccati di vita quotidiana che ci fanno quasi immedesimare in questi lontani antenati. Si ammalavano (e morivano) di tubercolosi e le ossa di uno degli abitanti di Monte Sirai ne avevano risentito al punto che si era ingobbito; una donna sulla trentina sarebbe stata invece divoratrice di carboidrati e non doveva possedere esattamente un fisico da mannequin . Di altri insediamenti è stata messa in luce la quasi contemporaneità: quelli di Sant'Antioco e di Sant'Imbenia. Ma diversi sono gli esiti: «I fenici - conclude Bartoloni - si adattavano al posto in cui arrivavano». Altro dato da non trascurare: cosa si portavano appresso. Curioso che le forme di ceramica (vasi, pentolini bollilatte, brocche) attribuibili all'800 e al 750 ritrovate in Spagna e in Nord Africa non venissero fabbricate sul posto, ma giungessero da Tiro, attuale Libano. E a proposito di produzioni (e di globalizzazione molto ante-litteram ) una delle sezioni di studio non ha escluso che anche in Sardegna arrivassero i prodotti semilavorati che nascevano dalle antiche miniere in Marocco. Arte, artigianato, vita quotidiana, ma anche religione, manifestazioni sacre, epigrafia e filologia. Questi ultimi tre aspetti saranno al centro degli approfondimenti in programma stamattina dalle 9 a Sant'Antioco (aula consiliare e Pierre Pub) con diverse sessioni accattivanti: i materiali iscritti di matrice punica di Ozieri, le influenze di Pitagora e del pitagorismo anche in Sardegna tramite il mondo fenicio-punico, l'onomastica prefenicia e la storia delle lingue semitiche nord occidentali, il culto di Ba e di Tinnit (Tanit) in Algeria. Insomma, il modo in cui pensiamo, scriviamo e persino i nomi che portiamo hanno origini così lontane, e così vicine. Andrea Scano ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 21 Ott. ’13 SORPRESA, L'UOMO NURAGICO ERA IMMUNE DALLA MALARIA Arrivano i risultati di una ricerca delle Università di Sassari, Torino e Pisa La presenza del flagello accertato nell'età cartaginese Nell'età nuragica la Sardegna era immune dalla malaria. È il sorprendente risultato di uno studio storico-paleoimmunologico condotto dal dipartimento di Scienze biomediche dell'Università di Sassari, dal dipartimento di Scienze della salute pubblica e pediatriche dell'Università di Torino e della divisione di Paleopatologia dell'Università di Pisa. La presenza di quell'antico flagello è invece accertata per l'età cartaginese. Ma non è tutto. Gli studi hanno verificato la presenza di un'altra malattia: la leishmaniosi umana (un'antropo-zoonosi), nella forma viscerale, da mettere verosimilmente in relazione con il ravvicinato contatto degli allevatori-cacciatori raccoglitori con i cani, reservoirs dell'infezione. Lo studio “Approccio paleobiologico alla storia della malaria e della leishmaniosi in Sardegna dall'età Prenuragica al Medioevo” è stato condotto da un gruppo di ricerca su materiali osteoarcheologici forniti dalle Soprintendenze alle antichità di Cagliari e di Sassari, con fondi della fondazione del Banco di Sardegna. Sulla base di una cartografia della malaria (collegata ai dati paleoclimatici) predisposta dalla professoressa Eugenia Tognotti, storica della Medicina (dell'Università di Sassari), il team scientifico - composto da paleopatologi (Gino Fornaciari e Valentina Giuffra, Università di Pisa), paleoimmunologi (Raffaella Bianucci, Università di Torino), paleoantropologi (Lino Bandiera, Università di Sassari) - ha impostato il lavoro che si è avvalso della possibilità di effettuare screening di ampia portata sulle collezioni osteoarcheologiche, capaci di fornire, in questa prima fase della ricerca, una risposta di tipo qualitativo (ovvero presenza/assenza del patogeno). Nel caso della malaria, l'utilizzo di questi test, la cui sensibilità e specificità su materiale antico è già stata confermata in studi precedenti, permette di identificare le proteine delle diverse specie del genere Plasmodium (falciparum,vivax, ovale, malariae). Le indagini paleo immunologiche sono state effettuate su campioni di siti di varie aree geografiche, corrispondenti a diverse epoche storiche e datati con il metodo del radiocarbonio: età nuragica; età fenicia; età romana; prima età moderna. Non sono stati identificati casi di malaria, né di leishmaniosi umana nei reperti osteologici provenienti dai siti di età nuragica. Sono invece risultati positivi alla malaria due campioni esumati da siti come quello di Sa Figu (600-560 a.C., periodo Cartaginese). Qui è stato rilevato anche un possibile caso di co-infezione malaria-leishmaniosi. «Anche se occorrerà rafforzare questi risultati preliminari attraverso analisi metagenomica, che abbiamo già impostato - hanno sottolineato gli autori dello studio - quello che è già emerso permetterà di scrivere una pagina nuova non soltanto nella storia di quell'antico flagello, ma in quella della Sardegna stessa». «Quello che è emerso in questo studio - aggiunge Eugenia Tognotti - sembra dare ragione a ciò che hanno sostenuto nel secolo scorso alcuni studiosi sardi: le popolazioni che innalzarono le grandiose costruzioni tronco-coniche, chiamate nuraghi, erano in buona salute, non indebolite dalle febbri. La malaria (gli anofeli erano già presenti, forse trasportati dalle navi fenicie) si diffuse in Sardegna nel quinto sec. a.C come in altri paesi rivieraschi del Mediterraneo: un effetto della “globalizzazione” indotta dai fenicio-punici nei paesi che si affacciavano sul Mediterraneo». RIPRODUZIONE RISERVATA ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 Ott. ’13 CITTÀ “INTELLIGENTI” CAGLIARI 47ª Non è tra le città più «intelligenti» d'Italia, ma è prima tra quelle del sud. Cagliari si qualifica al 47° posto (su 103 Comuni capoluogo) nello Smart city exhibition, lo studio realizzato dal Forum della pubblica amministrazione che analizza 100 indicatori utili a descrivere la situazione delle città in sei diverse dimensioni: economia, ambiente, mobilità, governance, qualità della vita e capitale sociale. Nel rapporto, giunto alla seconda edizione, si conferma ancora una volta il distacco tra le città del nord e quelle del sud. La classifica è capeggiata da Trento e Bologna seguite da Milano, Ravenna, Parma, Padova, Firenze, Reggio Emilia, Torino e Venezia. In questa graduatoria Cagliari si posiziona al primo posto tra le città del Sud, ma è solo 47 esima se la classifica si riferisce a tutti i capoluoghi di provincia italiani (103 nella vecchia ripartizione), perdendo 4 posizioni rispetto al 2012. Gli altri capoluoghi storici della Sardegna stanno anche più in basso: Sassari è 75esima (in salita di 3 posizioni), Nuoro 91esima (ne perde una rispetto al 2012) e Oristano 93esima (96 esima un anno fa). Analizzando le singole dimensioni, Cagliari raggiunge la posizione più alta in graduatoria nella categoria mobilità: 27°, anche se un anno fa aveva una posizione decisamente più vantaggiosa: 19esima. Per trovare le altre città capoluogo sarde bisogna arrivare fino alla posizione 85 di Sassari. Oristano è 97° e Nuoro è nel 100esimo gradino. ========================================================= ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Ott. ’13 UNIVERSITÀ, RIAMMESSI 2 MILA STUDENTI Valido per quest’anno il bonus maturità tolto durante i test d’ingresso ROMA — Potranno iscriversi subito all’università gli studenti bocciati al test che all’ultimo momento si sono visti «strappare» il bonus maturità, introdotto dall’ex ministro all’Istruzione Giuseppe Fioroni e cancellato, senza che fosse mai prima applicato, dall’attuale titolare del dicastero, Maria Chiara Carrozza: è questa la soluzione trovata dalla commissione Cultura alla Camera che lavora da dieci giorni agli emendamenti del decreto scuola. I circa duemila ragazzi che avrebbero potuto superare il test di ammissione alle facoltà a numero chiuso (medicina soprattutto, ma anche architettura e veterinaria) se avessero potuto contare sul punteggio aggiuntivo della maturità, ora rientreranno in carreggiata: potranno essere iscritti in sovrannumero ai corsi universitari, anche se l’anno accademico è già iniziato. Un compromesso, quello trovato faticosamente da Pd e Pdl con l’avallo del governo, che dovrebbe avere il via libera la prossima settimana, quando il provvedimento approderà in Aula. Sempre che non abbia conseguenze impreviste il colpo di scena di ieri sera: il presidente della VII commissione, il pidiellino Giancarlo Galan, ha annunciato le sue dimissioni da relatore del provvedimento, per protesta contro le coperture finanziarie del decreto, che prevedono l’aumento delle tasse su alcolici e birra. Una scelta che non lo spingerà a far cadere tutti gli emendamenti già approvati, specifica però lo stesso Galan in un post su Facebook, «per rispetto del lavoro della commissione e soprattutto per rispetto ai ragazzi che aspettavano la reintroduzione di un diritto che gli avevano negato per errore, il bonus maturità». Se tutto filerà liscio, comunque, il lavoro di riammissione dei candidati non sarà semplicissimo: «Bisognerà riaprire le graduatorie e assegnare a tutti i ragazzi il voto di maturità — spiega la deputata pd Simona Flavia Malpezzi — che invece non era stato considerato perché il bonus era stato cancellato dal decreto nei giorni del test. Ma così chi si è visto cambiare le regole in corsa avrà giustizia». Una volta riformulate le graduatorie, i ragazzi che con il punteggio del test più il bonus maturità risulteranno ammessi, potranno scegliere il corso a cui iscriversi in sovrannumero: la scelta dovrà avvenire proprio come è successo per i loro colleghi, ovvero potranno accedere a una delle tre facoltà indicate in ordine di preferenza nella domanda in base al punteggio ottenuto (i più bravi hanno la prima scelta, gli altri si accontentano della seconda o della terza) e in base ai posti disponibili in ogni ateneo. Sarà rispettata la proporzionalità dei posti disponibili anche per gli studenti in sovrannumero, per evitare che affollino le facoltà più blasonate. Secondo le stime della commissione, si tratterà di non più di 2 mila ragazzi, che potranno scegliere se iscriversi subito, oppure aspettare l’anno prossimo: è il caso di chi ha ripiegato su altre facoltà, come biologia, e che potrebbe decidere di sostenere gli esami per farseli poi convalidare a medicina l’anno successivo, ma senza affrontare nuovamente il test di ammissione. «Resta salva la posizione di quanti si sono già iscritti», chiarisce la deputata Elena Centemero (Pdl): l’idea che ha guidato il lavoro della commissione è stata di non ledere i diritti già acquisiti degli studenti. Ma c’è un altro aspetto che l’emendamento al decreto scuola contempla: e cioè la possibilità, anche per gli studenti che hanno dovuto accontentarsi della seconda scelta, di cambiare ateneo, se lo preferiscono, iscrivendosi in sovrannumero nella facoltà preferita. Un esempio: lo studente A ha espresso la sua preferenza, nella domanda di ammissione al test, per la facoltà di Roma, in second’ordine per Torino e infine per Milano. Nella graduatoria è risultato in posizione intermedia, per cui i posti disponibili a Roma sono stati conquistati dai ragazzi con punteggio più alto e lui ha scelto Torino. Con la riassegnazione del bonus maturità si trova nella condizione di vedersi accreditato un nuovo punteggio che gli permette invece di scegliere proprio la prima opzione, cioè Roma. Se vorrà, potrà trasferirsi, anche subito, ad anno accademico iniziato, nella facoltà della capitale, sempre in sovrannumero. Valentina Santarpia ____________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Ott. ’13 DOVE VANNO A FINIRE I 100 MILA ESCLUSI DAI TEST UNIVERSITARI Un anno all’estero o facoltà «gemelle» Che fine fanno i ragazzi che non superano il test delle facoltà a numero chiuso? La domanda riguarda all’incirca 80-100 mila giovani che hanno cercato di entrare nell’università dalla porta ritenuta principale e che sono costretti a rimodulare le loro strategie formative. Sono tre le facoltà che hanno deciso a livello nazionale di adottare le iscrizioni a numero chiuso e sono medicina, architettura e veterinaria. Anche il corso di professioni sanitarie ha un proprio statuto che di fatto equivale a un numero programmato. Ma in realtà ormai in tutti gli atenei la tendenza è quella di monitorare rigidamente i flussi di altre facoltà (in primis economia ma anche ostetricia e marketing) per tenere in equilibrio numero dei docenti e degli studenti. Il numero chiuso, dunque, è un trend che fa proseliti, di conseguenza non è sbagliato porsi il problema di dove vada a finire chi resta fuori dai portoni. Dalle tre facoltà chiuse per decisione centrale sono rimasti esclusi circa 66 mila aspiranti universitari ai quali vanno aggiunti quelli che incontrano lo stesso destino nelle altre facoltà e nei singoli atenei. Chi resta fuori da medicina si iscrive per la maggior parte a facoltà affini, in primo luogo biologia o chimica. L’obiettivo è di ritentare il test l’anno successivo e nel frattempo dare qualche esame che possa essere riconosciuto. Perché questa è la prima conclusione a cui giungere: in tanti non si arrendono dopo il primo flop ma utilizzano l’anno che scorre per preparare la seconda chance. Capita così che in alcune città ad essere ammessi a frequentare medicina nel 2013 siano stati molti ragazzi del ’93 che grazie all’anno in più di preparazione sono diventati più «competitivi» di quelli del ’94. Qualcuno, invece, pur di diventare medico prende la strada dell’Albania come documentato di recente dal Corriere . È chiaro che la strategia di recupero imperniata sul ruolo collaterale di biologia o chimica non potrà andare avanti all’infinito perché il numero chiuso sta già arrivando anche lì. La seconda pratica ricorrente è quella di scegliere una facoltà- parcheggio che quasi sempre è lettere o giurisprudenza. Durante l’anno il ragazzo e la famiglia decideranno se puntare davvero a quel titolo di studio o utilizzare il periodo come un check sulle strategie future. In qualche sede si segnala quest’anno un aumento abnorme delle iscrizioni a lettere, forse proprio in virtù di questa pratica. È evidente che rispetto alla prima strada questa seconda appare meno strutturata e può anche succedere che molte famiglie cambino in corsa la strategia universitaria che inizialmente prevedeva «una facoltà che ti dia lavoro» e che finisce per contemplare come ripiego «la facoltà che veramente ti piace». Esiste poi un terzo tipo di strategia più creativa e meno convenzionale. Le famiglie che possono permetterselo nell’anno «bianco» mandano il figlio in Inghilterra a perfezionare la lingua. Un modo per impiegare utilmente il tempo e integrare funzionalmente quello che sarà l’insegnamento universitario specialistico. È chiaro che si tratta di una scelta minoritaria e non alla portata di tutti i budget. Così come un’altra soluzione, anch’essa minoritaria ma che merita di essere sottolineata è quella di mandare il ragazzo a fare un’esperienza di vita. Si può trattare di una permanenza all’estero presso conoscenti o ancora di un anno di volontariato nei Paesi in via di sviluppo in collaborazione con le organizzazioni del non profit. Quest’ultima soluzione ricalca un po’ quello che gli americani scelgono per il loro gap year , l’anno che intercorre per molti tra la fine dell’high school e l’inizio della vita in college. Detto delle strategie familiari prevalenti è giusto anche porsi la domanda se questo stock di universitari respinti non possa diventare nel medio periodo un problema di cui occuparsi. Una decisione corretta è stata quella di anticipare dal 2014 il test di ammissione universitaria ad aprile piuttosto che dopo la chiusura delle scuole, in questo modo gli studenti hanno più tempo per calibrare le proprie opzioni e per evitare errori. Eh sì, perché dietro tutta questo movimento un rischio si corre: che una quota di respinti alla fine vada a ingrossare le fila degli ormai famosi «Neet», l’esercito dei giovani italiani che non studiano e non lavorano. E francamente quell’esercito andrebbe sfoltito, non allargato. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Ott. ’13 AOUCA: SAN GIOVANNI DI DIO DIVENTERÀ UN POLIAMBULATORIO Il trasferimento dei reparti di ostetricia e ginecologia verso il Policlinico di Monserrato è un nuovo tassello che porta sul viale del tramonto l'attività ospedaliera del San Giovanni di Dio. Ma il vecchio presidio cagliaritano non andrà in pensione e cambierà pelle. Potrebbe diventare «un grande poliambulatorio», ipotizza l'assessore alla Sanità Simona de Francisci. Emilio Simeone, direttore della Asl 8, coglie la palla al balzo: «Abbiamo un interesse notevole», ammette. «A Cagliari non c'è un poliambulatorio adeguato. La struttura di viale Trieste non è l'ideale, per ora continuiamo a utilizzarla perché non ci sono alternative». Poi spiega: «La nostra idea è quella di realizzare al San Giovanni una casa della salute, con i codici bianchi e verdi, una grande radiologia, un presidio di medici di continuità assistenziale. Così si allevierebbe il sovraccarico dei pronto soccorso». La De Francisci condivide: «Il vecchio Ospedale civile potrebbe mantenere la sua vocazione sanitaria. Poi consentirebbe di dare ulteriori servizi nel centro della città». C'è spazio per l'annuncio: «A breve convocheremo una conferenza di servizi con Regione, Azienda ospedaliero-universitaria, Asl 8 e Comune». Felicetto Contu, presidente della Commissione sanità del Consiglio Regionale, mette tutti sul chi vive: «Ho visto una serie di piccoli avvoltoi che si aggirano da quelle parti». Dopo quasi centocinquant'anni sta per finire l'attività ospedaliera del San Giovanni di Dio, mentre nel blocco Q del Policlinico di Monserrato si completa il ciclo della maternità. Oltre alla Terapia Intensiva e alla Puericultura, già in funzione, stanno per comparire anche l'Ostetricia e la Ginecologia. «Apriremo entro il 16 novembre», assicura Ennio Filigheddu, direttore generale dell'Azienda ospedaliero universitaria. Sei sale per il travaglio, di cui una dotata di vasca per il parto in acqua, 36 posti letto, più ulteriori quattro in day hospital, 150 specialisti tra medici, ostetriche e infermieri e apparecchiature super tecnologiche. «È il naturale proseguimento di un processo iniziato col trasferimento dalla Macciotta», sottolinea il manager dell'Aou. «Il San Giovanni di Dio non è in condizioni di proseguire ancora per molto l'attività di degenza, se non con una spesa incompatibile con la situazione finanziaria della Sardegna». Gian Benedetto Melis, attuale responsabile della Ginecologia e Ostetricia in via Ospedale, è lapidario: «Avevamo bisogno di una struttura nuova. Ora abbiamo il massimo». Sara Marci ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 Ott. ’13 AOUCA: GINECOLOGIA DEL SAN GIOVANNI ENTRO NOVEMBRE AL POLICLINICO CAGLIARI Sarà completato entro la prima metà di novembre il trasferimento del reparto di Ginecologia e ostetricia dell’ospedale San Giovanni di Dio al nuovo blocco Q del Policlinico di Monserrato. La tempistica è stata confermata dall’assessore regionale alla Sanità, Simona De Francisci, e dal direttore dell’azienda mista Ennio Filigheddu. Filigheddu ha spiegato che per lo storico ospedale civile (progettato dall’architetto Gaetano Cima nel 1844 e aperto quattro anni più tardi) il piano di dismissione non sarà immediato, anche se questioni di sicurezza per i pazienti e i costi ormai insostenibili lo rendono inevitabile. Si profila la sua trasformazione in poliambulatorio-casa della salute di Cagliari, con l’obiettivo di decongestionare gli altri pronto soccorso degli ospedali cittadini. Sarà una conferenza di servizi - con Regione, Azienda mista, Asl 8, Comune e università di Cagliari - a decidere il futuro del San Giovanni di Dio. I tempi saranno lunghi. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 Ott. ’13 AOUCA: LA SIFILIDE TORNA A COLPIRE: 'allarme dei medici: bisogna fare prevenzione tra i giovanissmi in città un nuovo caso al mese Prima archiviata nei romanzi ottocenteschi, tornata negli anni Novanta, di nuovo scomparsa subito dopo i conflitti nei Balcani, ora la sifilide colpisce ancora. Non casi sporadici, ma un numero di episodi preoccupante. «Da gennaio a ottobre sono dieci, e per la nostra città è tanto. Tutte persone giovani, età media 27 anni, la maggior parte maschi». Il Centro delle malattie sessualmente trasmesse dell'ospedale San Giovanni di Dio (fa parte della clinica dermatologica) è l'unico in Sardegna e uno dei dodici esistenti in Italia, fa parte anche dei Centri rete di sorveglianza nazionale dell'Istituto superiore di sanità, svolge attività di profilassi e fa le segnalazioni all'ufficio di Igiene e sanità pubblica della Asl 8. Da maggio 2008, quando ha iniziato l'attività, ha avuto 1870 pazienti, l'accesso all'ambulatorio è diretto, non serve né l'impegnativa, né la prenotazione. Il papilloma virus è l'infezione in assoluto più comune (il 90 per cento delle malattie che si trasmettono con rapporti sessuali). Spiegano il direttore, Monica Pau, e la dermatologa Roberta Satta, che quello che nel Cinquecento si chiamava “mal francese”, la sifilide, o lue, registra un aumento significativo. «Molti sono convinti che la malattia non esista più, negli anni Ottanta nessuno l'aveva, invece c'è stato un picco quindici anni fa, tra i militari impegnati in Kosovo, poi più niente. Quest'anno - e non si conosce una causa particolare - ci sono già stati dieci casi, un numero decisamente alto, che riguarda esclusivamente cagliaritani. Ragazzi che arrivano qui con la malattia allo stadio primario, con la lesione nel punto dove avviene l'inoculo - cioè gli organi genitali, l'ano e la bocca - e l'ingrossamento dei linfonodi. Inutile dire che sono contagiosissimi, e poiché sono molto giovani e hanno rapporti frequenti, sia eterosessuali che omosessuali, il rischio di diffusione è spaventoso». Alcuni mesi fa si è tenuto a Bologna il Congresso nazionale della società italiana di pediatria, durante il quale sono stati presentati i dati sulle malattie sessualmente trasmissibili tra gli adolescenti. Nonostante la possibilità di informarsi e l'accesso libero a Internet, maschi e femmine tra i 15 e i 24 anni «non mettono in atto alcun tipo di prevenzione necessaria alla sicurezza e la salute sessuale». E, anche a livello nazionale (ma lo stesso dicasi per l'Europa) «stupisce», aggiungono gli esperti, «la crescita di certe malattie: la sifilide I e II o Lue (Treponema Pallidum) è in rialzo tra i giovani di sesso maschile (7585 casi, il 9,6% del totale delle infezioni) con un incremento che dal 1996 al 2008 ha raggiunto l'800 per cento. La sintomatologia della fase primaria è una lesione cutanea che compare nel punto esatto del contatto. La zona ulcerosa si presenta in media dopo 21 giorni dall'esposizione e la lesione può persistere per un mese, un mese e mezzo, se non viene trattata», sottolineano i medici. «Può essere tranquillamente curata», spiegano le dottoresse Pau e Satta, «ma noi vorremmo prevenire, piuttosto». Due anni fa è stato portato avanti un progetto nelle scuole, si chiamava “Mst” (Meglio sapere tutto) e si proponeva di informare gli studenti di terza media sulla protezione, sui rischi, e sull'utilizzo corretto del profilattico. «Purtroppo i più restii alle nostre “lezioni” sono stati i genitori, alcuni ci hanno detto che spiegare “il sesso” ai loro figli sarebbe stata un'istigazione a praticarlo», racconta Satta. «Nonostante tutto vorremmo replicare, tornare nelle aule e riproporre il progetto ai ragazzi. Sarebbe veramente utilissimo. Ma servirebbe il sostegno della Regione». Cristina Cossu ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 22 Ott. ’13 AOB: ERNIA DEL DISCO? STOP AI DOLORI CON LA TECNICA PLDD Neurochirurghi cagliaritani in prima linea contro le patologie della colonna vertebrale, a cominciare dall'ernia del disco che colpisce oltre 10 mila sardi (secondo le ultime stime) di età superiore ai 45 anni con punte tra gli over 60. Due specialisti dell'ospedale Brotzu, Leonardo Polizzi e Francesco Floris, stanno valutando la possibilità di sperimentare (sarebbe la prima volta in Sardegna, con pochi eguali in Italia) l'ingegneria tissutale, ultima frontiera della chirurgia della colonna, finalizzata alla rigenerazione del disco intervertebrale. In cosa consiste? «Si utilizzano cellule staminali prelevate dal bacino», spiega Polizzi, «successivamente tali cellule vengono inserite nel disco favorendo la rigenerazione del tessuto. In teoria potremmo partire anche domani, dato che non servono particolari autorizzazioni, ma dobbiamo ancora discuterne in azienda per valutare ogni aspetto». Nel frattempo Polizzi e Floris operano con una procedura ugualmente all'avanguardia, la Pldd, che sta per Percutaneous laser disk decompression. «Tale tecnica», spiega Polizzi, «è diffusa anche in altri ospedali e case di cura per quanto riguarda le vertebre lombari, ma noi siamo tra i pochi se non gli unici, credo, a intervenire a livello cervicale, in un punto delicato e complesso». Il nuovo approccio terapeutico è stato inaugurato 8 mesi fa. «Da allora abbiamo operato 7 pazienti, tutti con successo». L'intervento si fa in day surgery (chirurgia di un giorno). «In realtà mandiamo a casa il paziente entro due ore dall'arrivo», rivela orgoglioso Polizzi, «l'intervento si fa con il laser e dura quattro minuti. Impieghiamo più tempo per preparare la sala con gli strumenti necessari (20 minuti) che a operare». Polizzi e Floris lavorano in sinergia e hanno sviluppato una perfetta padronanza di questa tecnica micro-invasiva. «La procedura Pldd», riprende l'esperto, «non solo prevede una degenza minima ma è anche priva di sofferenza. È infatti sufficiente l'anestesia locale, una banale punturina meno forte di quella del dentista». Con l'ausilio di un ago s'introduce nel disco la fibra laser con la quale si eroga l'energia che avrà l'effetto di decomprimere le strutture nervose che causano il dolore. I risultati sono positivi, da qui il desiderio di andare oltre, valutando la possibilità di cominciare con le staminali. Il reparto di Neurochirurgia del Brotzu è diretto da Luigino Tosatto ed è anche l'unico centro in Sardegna in cui si eseguono interventi per la stabilizzazione mini-invasiva dell'articolazione sacro-iliaca per il trattamento della lombalgia. Il mal di schiena, come viene genericamente chiamato, include numerosi disturbi anche gravi, tra cui ernie del disco, fratture vertebrali e discopatie degenerative. «Nel nostro ambulatorio visitiamo in media 40 pazienti a settimana e i casi, purtroppo, sono in aumento», riferisce lo specialista, «la realtà è che queste patologie stanno assumendo la triste connotazione di un'emergenza sociale, perché se non curate diventano invalidanti». I più colpiti sono gli anziani, ma in generale si è a rischio già a 40 anni». Scontato l'esito della casistica. «Non sorprende il fatto che la maggior parte di chi si rivolge a noi svolge un lavoro pesante». L'identikit del malato tipo? «Maschio, cinquant'anni, muratore». (Paolo Loche) ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 23 Ott. ’13 NEI LABORATORI 5.700 POSTI A RISCHIO Sanità, IL taglio del 40% delle tariffe per i privati del decreto Balduzzi mette in difficoltà gli operatori Ieri sciopero nazionale: hanno aderito 1.500 tra titolari e dipendenti Paolo Del Bufalo Oltre 4.800 laboratori di analisi privati accreditati con il Servizio sanitario nazionale sono a rischio chiusura. Colpa del taglio del 40% delle tariffe per le prestazioni scritto nel "decreto Balduzzi" (legge 189/2012): solo quelli che eseguono almeno 500mila prestazioni l'anno ce la faranno a sopravvivere, gli altri, la maggior parte che si ferma a 70- 80mila prestazioni, rischia di chiudere i battenti. E migliaia di dipendenti rischiano di perdere il posto di lavoro. È guerra sulle tariffe dei privati per le analisi sanitarie. Tanto che ieri per la prima volta tutte le organizzazioni rappresentative della sanità accreditata si sono unite per protestare contro la situazione che coinvolge i circa 5.700 addetti del comparto. E sempre ieri c'è stata una serrata in tutta Italia: sono rimasti chiusi circa L000 laboratori e 1.5oo tra titolari e loro dipendenti, hanno partecipato a un'assemblea nazionale organizzata da FederLab Italia, Aiop e FederAnisap «per la difesa dei livelli essenziali di assistenza, l'equiparazione pubblico- privato, la salvaguardia dell'occupazione, il riconoscimento del ruolo e della funzione della rete territoriale delle strutture accreditate e la giusta remunerazione delle prestazioni». Con uno slogan eloquente: «Chiudere oggi per non chiudere per sempre». «Produciamo a costi del 30% inferiori rispetto alle strutture pubbliche ha sottolineato Vincenzo D'Anna, presidente nazionale di FederLab Italia e componente Pdl della Commissione Igiene e sanità del Senato -:11 decreto Balduzzi colpisce chi non genera liste d'attesa e ha costi certi. Il Tar del Lazio ricorda D'Anna dietro nostri ricorsi ha già annullato il tariffario Bindi per i laboratori e probabilmente il 5 dicembre annullerà anche quello Balduzzi». E D'Annaha annunciato che oggi le associazioni dei laboratori notificheranno al ministero della Salute un atto di diffida perché attivi i lavori della Commissione prevista per la determinazione delle tariffe e si confronti con le associazioni di categoria. L'atto, ha aggiunto, «sarà inviato anche alla Corte dei Conti e alla procura della Repubblica perché ne accertino l'eventuale danno erariale e i profili di reato omissivo». «Vogliamo un Ssn che marci insieme all'Ue e una grande riforma che punti a veri investimenti in sanità e non al taglio delle tariffe per le strutture private che lavorano con il Ssn. Ma soprattutto una maggiore trasparenza nei bilanci delle aziende pubbliche», denuncia Gabriele Pelissero, presidente dell'Aiop, l'associazione italiana dell'ospedalità privata. «È ora di tornare a investire con tagli selettivi per comparti ha aggiunto ma l'area biomedicale deve essere considerata strategica. Fermiamo il disinvestimento in sanità». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 23 Ott. ’13 OBAMA DIFENDE LA RIFORMA SANITARIA: È PIÙ DI UN SITO WEB Polizze online a rilento I NUMERI Dal primo ottobre elaborate soltanto mezzo milione di richieste, l'obiettivo è raggiungere i sette milioni di nuovi assicurati Marco Valsania NEW YORK Barack Obama ha vinto, per ora, la battaglia sul budget e sul debito. Ma potrebbe ancora perdere lo scontro sulla riforma che può definire la sua presidenza, la legge sulla sanità. Il nemico questa volta non sono i repubblicani, usciti sconfitti dalla crociata per un suo ripudio, piuttosto i passi falsi nel lancio della riforma stessa: gli exchange sanitari, i mercati online dove gli americani senza copertura possono comprare polizze di assistenza con l'aiuto del governo, sono partiti dal primo ottobre tra grande interesse dei consumatori. Sono però rimasti spesso paralizzati da imbarazzanti errori e cortocircuiti tecnologici, tanto da scatenare richieste di dimissioni del Ministro della Sanità Kathleen Sebelius. Obama è passato ieri al contrattacco, preoccupato che le carenze della riforma offrano nuove armi agli avversari. Dalla Casa Bianca ha ammesso per la prima volta che «i siti della riforma non funzionano come dovrebbero» e che i problemi sono «imperdonabili». Ma prendendo a prestito un termine militare ha promesso una «tech surge», una riscossa tecnologica. «Nessuno è più furioso di me per questi problemi», ha continuato. E ha anche dichiarato che la legge «è ben più di un sito web», ricordando l'estensione dell'assistenza familiare ai figli fino a 26 anni di età. «È ora di adoperarsi per il suo successo, non per il suo fallimento, perché su questo contano i lavoratori e i ceti medi». Il segretario al Tesoro Jack Lew, a sua volta, nelle ultime ore ha chiesto pazienza all'opinione pubblica, indicando che il vero test per la riforma arriverà a gennaio, quando le polizze comprate entreranno in vigore e quantità, qualità e costi potranno essere valutati con maggior accuratezza. Gli exchange online della riforma sono stati afflitti da blocchi all'accesso, messaggi erronei e ritardi e lentezze nella navigazione. Nei primi giorni Obama aveva attribuito i problemi a una domanda particolarmente robusta, 14,6 milioni di americani che avevano tentato di collegarsi in poche ore. Ma questa spiegazione si è presto rivelata del tutto inadeguata davanti al prolungarsi della débâcle. Alcuni esperti hanno accusato l'amministrazione di non aver messo alla prova a sufficienza i sistemi informatici e di aver utilizzato tecnologia inaffidabile e obsoleta nella progettazione e nella gestione dei siti, che richiederà costante manutenzione e correzioni per settimane e mesi. Da inizio ottobre gli exchange sanitari dell'Affordable Care Act, noto come Obamacare, hanno elaborato mezzo milione di richieste di acquisto di polizze. Sono gestiti da autorità locali in 14 stati, ma in 36 è dovuto intervenire il governo federale per ovviare a mancanze o boicottaggi da parte di stati in mano all'opposizione. L'obiettivo dell'amministrazione è ben più ambizioso di cinquecentomila polizze: nel primo anno, per poter dichiarare la riforma un successo, ha bisogno di ottenere almeno sette milioni di nuovi iscritti, tra cui molti giovani. E le prime frecciate repubblicane non hanno tardato ad arrivare: «Nel 21esimo secolo organizzare un sito non dovrebbe essere complicato», ha detto il senatore conservatore Marco Rubio. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 Ott. ’13 BLOCCO STIPENDI ANCHE PER I MEDICI DI BASE Ci sarà un contributo sulle ritenute periodiche su delega per l'iscrizione dei dipendenti a fondi previdenziali Prorogato al 31 dicembre 2014 il blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, tra cui sono inclusi anche il personale convenzionato con il Sistema sanitario nazionale (i medici di base). È quanto prevede il Dpr 122/2013, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 251 di ieri. Il blocco è stato introdotto all'origine dal Dl 78 del 2010, e successivamente prorogato. Restano escluse quelle norme dichiarate incostituzionali con la sentenza 223/2012. Per il personale docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario della scuola, l'anno 2013 non sarà utile ai fini della maturazione delle posizioni stipendiali e dei relativi incrementi economici previsti dalle disposizioni contrattuali vigenti, come già accaduto per gli anni gli anni 2010, 2011 e 2012. Un altro decreto che interessa i pubblici dipendenti è il 123 del ministero dell'Economia, pubblicato sempre nella «Gazzetta Ufficiale» di ieri. Si tratta del regolamento che dà attuazione all'articolo 43, comma 4 della legge 449/97. Il decreto individua le prestazioni che secondo il Mef non rientrano nei "servizi pubblici essenziali" per le quali viene richiesto un contributo all'utente (quanto e come resta ancora da definire). Tra i servizi soggetti al nuovo obolo rientrano le ritenute periodiche sugli stipendi pubblici applicate mediante delegazione effettuate a favore di associazioni, fondi previdenziali, istituti assicurativi eccetera (sono escluse le associazioni sindacali); copie ed estratti di documenti d'archivio, rilascio di fotocopie, accesso a banche dati quando queste richieste esulano dall'attività propria dell'amministrazione. ____________________________________________________________ Repubblica 21 Ott. ’13 LA SANITÀ FUCINA DI POSTI” IL PRONOSTICO DI BRUXELLES IL COMMISSARIO EUROPEO PER L’OCCUPAZIONE ANDOR SOSTIENE CHE È IL SETTORE CON MAGGIORI POTENZIALITÀ: “PER QUESTO È URGENTE CHE I PAESI INVESTANO NELLA FORMAZIONE IN QUESTO CAMPO” Lo leggo dopo Milano Per avere un futuro brillante, o quanto meno un futuro, è importante fare scelte mirate e scegliere il giusto tipo di formazione. In Italia, in Europa e persino negli Stati Uniti secondo diverse ricerche servono infermieri, fisioterapisti, ostetriche e sviluppatori software. Ciò che è certo è che sono le lauree o i diplomi che ti regalano una professione “chiavi in mano” che premiano. Lo dice l’Istat nel suo rapporto “La situazione del Paese” pubblicato quest’anno. Per trovare lavoro all’interno dei confini nazionali è meglio avere un diploma rilasciato da un istituto tecnico e professionale che un’istruzione magistrale. Una laurea in ingegneria, in medicina e in chimica- farmaceutica offre probabilità cinque, quattro e tre volte superiori rispetto a una laurea in materie letterarie. Per le lauree triennali, invece, sono avvantaggiate le discipline mediche che regalano una professione, come scienze infermieristiche e ostetriche. Ma se non si è portati per questi mestieri? Si può tentare la carta del lavoro creativo, delle nuove professioni ricercate nel mondo della moda e della cultura, settori che, secondo il rapporto “Io sono cultura” di Unioncamere e Fondazione Symbola, hanno mantenuto occupazione, pari nelle imprese culturali a 1.397 mila persone, poco meno del 6 per cento del totale degli occupati del Paese. Il settore dell’industria creativa e culturale nel 2012 ha prodotto in Italia 75,5 miliardi di euro, il 5,4 per cento del Pil, mantenendo la quota dell’anno prima. E se è vero che la creatività è quel quid che ha reso grande il made in Italy nel mondo, dal-l’Istituto europeo di design affermano che alcune figure professionali sono ancora ricercate: «Si tratta del sound designer (una sorta di tecnico del suono), del fashion stylist, del videomaker, del fashion coordinator e del visual merchandiser ». Nelle professioni del futuro l’inglese non si centellina. In Italia siamo però sempre più vecchi. Così in Europa. E i dati dell’Osservatorio dei posti di lavoro vacanti della Commissione europea, confermano che la domanda di manodopera aumenta soprattutto nel settore sanitario. Lavori meno attraenti del fashion stylist, ma che segnano in tutta l’Unione europea una crescita di quasi il 2 per cento all’anno tra il 2008 e il 2012 per via dell’invecchiamento della popolazione, ma anche della richiesta di servizi di qualità e quantità superiore. Il Commissario responsabile per l’occupazione László Andor, spiegava: «Il nostro obiettivo è dare un’indicazione alle autorità pubbliche affinché investano nella formazione di persone che abbiano le giuste competenze: il settore sanitario è quello le maggiori potenzialità di creazione di posti di lavoro in Europa ed è quindi quello in cui è urgente assicurare investimenti nella formazione». Nel 2012 quasi un milione di persone è stato assunto nel settore sanitario. E il nostro è tra i Paesi con più richieste, insieme a Francia, Germania e Gran Bretagna. Altri professionisti richiesti nel Vecchio Continente, secondo la Commissione europea, sono lo sviluppatore di applicazioni software, l’analista, il segretario amministrativo, e persino l’insegnante elementare e per la prima infanzia. Ma cosa cercano le agenzie di collocamento? ManpowerGroup ha di recente diffuso i risultati di un’indagine che ha coinvolto circa 40mila aziende in 42 Paesi con l’obiettivo di scoprire quali i professionisti che le aziende hanno maggiore difficoltà a trovare: per oltre un terzo delle imprese a livello globale si tratta degli esperti di commercio internazionale, delle segretarie e dei professionisti dell’Information Technology. Mentre negli Stati Uniti — secondo la classifica stilata dal Bureau of labour statistics sui posti di lavoro in crescita nel Paese da qui al 2020 — vanno per la maggiore lavori come la badante, l’operatore sanitario, il fisoterapista e l’ingegnere biomedico, il carpentiere, il falegname e il vetraio. Il lavoro tecnico prevale ovunque. In Italia però, ciò che fa la differenza nel trovare lavoro, non è solo il titolo di studio, ma la classe sociale. Secondo l’Istat «tra i laureati che hanno frequentato corsi lunghi, provenire dalla borghesia determina un vantaggio in termini di occupabilità rispetto ai figli degli operai, mentre tra i triennali sono i figli della classe media ad apparire svantaggiati». (st.a.) Infermieri, fisioterapisti e ostetriche sono tra le figure professionali più richieste ____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 27 Ott. ’13 TECNO-ASSISTENZA PER FAR VIVERE MEGLIO I NOSTRI ANZIANI Strumenti di comunicazione con interfacce per il controllo a distanza dei pazienti, case «intelligenti» con sistemi per rilevare possibili pericoli, sensori «indossati» dai pazienti per un continuo check up e in grado di dare l’allarme in caso di emergenza, orologi che (attraverso il telefono) avvertono se l’anziano cade in casa o ha anomalie del battito cardiaco. Sono solo alcuni esempi di progetti di tecno-assistenza che sono stati già avviati sul territorio e individuati da Italia Longeva, la rete nazionale di ricerca sull’invecchiamento e la longevità attiva, creata dal Ministero della Salute con la Regione Marche e l’Inrca-Istituto nazionale di ricovero e cura degli anziani di Ancona. «Per tecno-assistenza — chiarisce subito il presidente di Italia Longeva, Roberto Bernabei, direttore del Dipartimento di geriatria, neuroscienze e ortopedia del Policlinico Gemelli di Roma — s’intende l’insieme delle tecnologie che vanno dai sensori per misurare la glicemia, ai software che ricordano di prendere la compressa, alla cucina col controllo automatico dei fuochi. Si tratta di soluzioni che aiutano anziani e malati cronici a vivere in autonomia nelle loro case, anche da soli, ricevendo un’assistenza a distanza. Per questo, cerchiamo di individuare le esperienze più riuscite per estenderle su tutto il territorio nazionale». Per esempio, in Veneto, grazie a un progetto europeo cui partecipa Arsenàl, Consorzio volontario delle aziende sanitarie e ospedaliere della Regione, sono controllati col telemonitoraggio, da circa due anni, più di 4 mila pazienti «fragili», soprattutto quelli con scompenso cardiaco e broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco). «I primi risultati segnalano una notevole riduzione delle visite programmate in ospedale — afferma Claudio Saccavini, direttore tecnico del Consorzio —. I dispositivi dei pazienti, come per esempio i pacemaker, sono collegati alla centrale unica regionale che, nel caso in cui i parametri rilevati quotidianamente risultino sopra la soglia di attenzione, allerta il medico di riferimento dell’assistito». Si avvale del supporto di teleconsulto e telemedicina il progetto della Regione Lombardia «Creg» (Cronic related group), che mira ad assicurare ai malati cronici la continuità delle cure sia nelle strutture extraospedaliere sia a domicilio, limitando così i ricoveri. La sperimentazione, avviata a fine 2011 in cinque Asl lombarde, coinvolge circa 65 mila pazienti - che soffrono, per esempio, di scompenso cardiaco, insufficienza renale o Bpco - e oltre 500 medici di famiglia. Gli assistiti sono seguiti dal proprio dottore, da un call center sempre attivo e tramite ausili in caso di necessità. La telemedicina è impiegata anche nel trattamento delle piaghe da decubito all’ospedale San Camillo di Roma. «Il paziente guarisce prima e costa anche meno — sintetizza Sergio Pillon, primario dell’Unità operativa di Telemedicina del San Camillo — . Dopo la visita in ambulatorio, viene “addestrato” all’automedicazione che farà a casa, ma sotto la nostra supervisione. In 5 anni di telemedicina abbiamo registrato la completa guarigione delle piaghe nel 90% dei casi, il 15% in più rispetto ai dati riscontrati in letteratura. Il servizio, poi, ha permesso di ridurre le visite in ambulatorio, con minor disagio per i pazienti e una diminuzione dei costi di circa il 20%». A Lecco sono monitorati a domicilio, grazie alla tecno-assistenza, circa 500 malati che hanno bisogno di cure palliative: sono «in linea» ogni giorno, dal letto di casa, con gli operatori del Dipartimento «Fragilità» dell’Asl, il che rende meno gravoso anche il «carico» di assistenza da parte dei familiari. In Emilia Romagna, oltre a interventi per migliorare anche con la tecno- assistenza l’aderenza alle prescrizioni di farmaci o prevenire le cadute e le fratture nell’anziano, un gruppo di lavoro coordinato dall’Agenzia sanitaria e sociale regionale sta cercando di mettere a punto strumenti in grado di individuare, al fine di prevenirle, condizioni di fragilità cognitiva negli anziani, anche grazie al supporto del database disponibile tramite il sistema SOLE (Sanità On LinE), rete che collega i medici di famiglia con le strutture sanitarie e ospedaliere della Regione. Per ora le buone pratiche sono a macchia di leopardo, in attesa che diventino realtà in tutto il Paese anche con l’entrata in vigore delle «Linee di indirizzo nazionali sulla Telemedicina»: già elaborate dal Consiglio Superiore di Sanità e sottoposte all’esame del ministro della Salute, devono essere approvate dalla Conferenza Stato-Regioni. Tra i progetti in sperimentazione, che puntano poi a favorire l’autonomia degli anziani, ci sono «Robot-Era» - che l’Istituto di Biorobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa sta verificando insieme agli abitanti del Comune di Peccioli - e il prototipo di «Casa intelligente per una longevità attiva e indipendente dell’anziano», sul quale sta lavorando l’Inrca di Ancona. «Sono tutte testimonianze della capacità di fornire risposte efficaci all’invecchiamento della popolazione — fa notare Bernabei — . Il nostro Paese può diventare un laboratorio di nuove tecnologie e prodotti per migliorare la vita degli anziani, validati da Italia Longeva e poi esportabili in tutto il mondo». Maria Giovanna Faiella ____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 27 Ott. ’13 LA CURA DI RISATE DEI CLOWN DOTTORI ADESSO VA PRESA SUL SERIO Ansia ridotta, meno dolore, ripresa più rapida per i piccoli degenti Potete anche chiamarli buffoni. Scoppieranno in una fragorosa risata. In fondo, come sostiene Leonardo Spina, uno dei precursori della clownterapia in Italia, presidente della Federazione internazionale “Ridere per vivere”: «Meglio essere buffoni dottori, perché è triste, molto triste, quando invece il dottore è un buffone». La clown terapia è una realtà nella quale in Italia sono impegnate a vario titolo (professionisti, volontari) tra le 4 e le 5 mila persone che fanno riferimento a circa 200 associazioni. E i clown dottori, almeno quelli professionisti, non sono affatto solo nasi rossi e sorrisi portati in giro con apparente disinvoltura tra le corsie degli ospedali, per lo più nei reparti di Pediatria. Trattenete il fiato, rullo di tamburi: la loro arte, dicono, è terapia. Parola grossa, forse. Di quelle che fanno ancora storcere il naso alla Medicina paludata. Lo stesso Michael Christensen, che nel 1986 con Paul Binder fondò a New York quella Clown Care Unit considerata la “cellula progenitrice” del ceppo dei clown dottori nel mondo, è molto prudente nel dichiarare la terapeuticità del suo lavoro. Hunter “Patch” Adams, il medico statunitense che grazie al film del 1999 interpretato da Robin Williams ha fatto esplodere mediaticamente la figura del clown dottore, preferisce qualificare la sua azione come un rapporto di amore e amicizia con l'ammalato. Eppure negli ultimi vent’anni, di studi scientifici sui benefici della risata ne sono stati condotti molti. È stato provato che ridere ha un impatto positivo sull’organismo sotto diversi punti di vista, sia fisici che psichici. A livello fisico, sembra che il riso riduca l’ansia e provochi la secrezione di beta-endorfine e catecolamine che sono analgesici naturali apportatori di sensazioni di benessere. L’Italia è in prima fila nell’ambito degli studi sulla clownterapia. Nel 2005, un gruppo di ricercatori dell’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze ha dimostrato che è possibile ridurre quasi del 50% l’ansia dei bambini sottoposti ad intervento chirurgico grazie all’aiuto dei clown. A Firenze, i clown professionisti dell’associazione “Soccorso clown”, che deriva la sua attività direttamente dai modelli operativi di Christensen, affiancano i medici da 15 anni. Il lavoro (firmato da Laura Vagnoli, Simona Caprilli, Arianna Robiglio e Andrea Messeri ), uno dei primi al mondo in questo ambito, è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista statunitense Pediatrics . Nel luglio scorso, la ricerca clinica “Influenza del clown dottore sulla percezione del dolore, la somministrazione di analgesici e le complicanze post operatorie dei bambini ricoverati presso il reparto di Chirurgia pediatrica dell’ospedale San Camillo di Roma“ della psicologa Lucia Angrisani, ha ricevuto dalla Swedish Behavioral Medicine Society un importante riconoscimento al XII Congresso Europeo di Psicologia, perché lo studio è stato considerato ”pionieristico” in ambito europeo. La ricerca condotta su 92 bambini operati ha dimostrato che la visita dei Clown Dottori della Federazione Internazionale Ridere per Vivere è stata in grado di diminuire significativamente le complicazioni post operatorie e di un giorno il periodo di degenza. Nel 2001, la Fondazione Aldo Garavaglia Dottor Sorriso onlus di Milano ha studiato gli effetti della presenza dei clown su 343 bambini ricoverati nelle Pediatrie di tre ospedali lombardi concludendo per l’azione positiva dei clown in corsia sia sul bambino che sui familiari «Oggi è possibile asserire scientificamente che il lavoro dei clown dottori è molto efficace — aggiunge Spina — non solo per le comunità dei reparti ospedalieri, ma soprattutto nella riduzione del dolore, delle degenze e delle complicanze: è quindi utile persino per la diminuzione dei costi della sanità». Assieme alla psicoterapeuta (e consorte) Sonia Fioravanti, Spina ha dato vita alla Gelotologia (dal greco ghelos, risata) una nuova disciplina che studia ed applica le potenzialità del ridere e delle emozioni positive in funzione di terapia, prevenzione, riabilitazione e formazione. La Gelotologia si avvale dei contributi della Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) - una branca della medicina che ha confermato come le emozioni, attraverso complessi meccanismi neuro-endocrini, condizionino lo stato di salute o di malattia -, ma anche dell’antropologia e delle arti del clown. Qual è l’identikit di chi sceglie di impegnarsi come clown dottore oggi in Italia? «Ci sono alcune caratteristiche delle persone che si avvicinano a questa attività: una maggiore estroversione, una maggiore apertura e una maggiore coscienziosità, minori livelli di “nevroticismo” e anche di narcisismo» spiega Alberto Dionigi , psicoterapeuta, presidente della Federazione nazionale clown dottori, che da 10 anni si occupa di ricerca in questo campo. «Abbiamo due tipologie che si presentano più di frequente: — dice Roberto Flangini, per anni presidente delle Federazione e oggi a capo dell’Associazione “L’Aquilone di Iqbal” di Cesena — l’artista che si avvicina per un approfondimento sulla materia o persone che magari hanno avuto un’esperienza in ospedale e quindi sentono il bisogno di dare un loro contributo volontaristico». I clown di Fondazione Theodora, nata in Svizzera vent’anni fa e presente in Italia in 17 ospedali (di fatto i veri “importatori” del metodo Christensen, nel ‘95), sono tutti artisti professionisti. «Indubbio è che ci voglia oltre a una professionalità artistica — sottolinea Emanuela Basso Petrino, presidente della Fondazione — che deve essere valutabile, una grande propensione alla comunicazione, alla capacità di interazione con il bambino, che poi vengono sviluppate nel percorso formativo». Ruggiero Corcella ____________________________________________________________ L’Unità 27 Ott. ’13 INTERVISTA A CRAIG VENTER LA VITA DIVENTA DIGI TALE «IL TELETRASPORTO DEL DNA» INTERVISTA ALLO SCIENZIATO CHE DECIFRÒ IL GENOMA UMANO: «STO LAVORANDO A UNA MACCHINA PER IL TELETRASPORTO DEL DNA» ZOE CORBYN Parla lo scienziato del genoma: «Una macchina per produrre vaccini a casa» Lo scienziato che ha decifrato il genoma umano e creato per la prima volta la «vita sintetica» sta costruendo un gadget che potrebbe teletrasportare medicine e vaccini nelle nostre case. O ai coloni nello spazio. Craig Venter reclina la sedia e poggia i piedi sul tavolo. Poi, accarezzando il barboncino color cioccolato che dorme tra le sue braccia (si chiama Darwin), ci parla di questo dispositivo che un giorno potrebbe essere presente in tutte le case. È una scatola collegata a un computer che tramite Internet riceve le sequenze del Dna e sintetizza proteine, virus e persino cellule viventi. Potrebbe prescrivere l'insulina, fornire il vaccino anti-influenzale durante una epidemia e persino produrre virus batteriofagi in grado di combattere i batteri resistenti agli antibiotici. Potrebbe aiutare i futuri colonizzatori di Marte mettendo a loro disposizione vaccini, antibiotici o farmaci personalizzati necessari sul Pianeta rosso. E se mai si trovassero su Marte forme di vita basate sul Dna, i coloni potrebbero trasmettere sulla Terra una loro versione digitale consentendo agli scienziati di ricreare in laboratorio un organismo extraterrestre. LA VITA SINTETICA «Lo chiamiamo "Convertitore Biologico Digitale" (Dbc). E ne abbiamo un prototipo», dice Venter. Sono in visita negli uffici e nei laboratori della società di Venter, la Synthetic Genomics Incorporated (Sgi) a La Jolla, una ricca enclave a nord di San Diego dove Craig Venter ha anche la sua residenza. Il «ragazzaccio» della biologia ci ha ricevuto perché desidera parlare del suo nuovo libro che è appena uscito. L'ufficio della J Craig Venter Institute (Jcvi), l'istituto di Venter che svolge ricerche senza scopo di lucro, si trova a cinque minuti di macchina. Il pavimento dell'ufficio è coperto dai giocattolini di Darwin e la moglie di Venter, Heather Kowalski, che cura i rapporti con la stampa, siede poco lontano con le gambe accavallate sul divano. Le pareti sono piene di premi, compresa la National Medal of Science 2008, il più prestigioso riconoscimento scientifico americano conferito dal presidente in persona, ricevuto per il lavoro nel campo della genomica (lo studio dei genomi dell'organismo). I riconoscimenti scientifici sono mescolati a foto in barca a vela e ricordi di varia natura. Il libro, il secondo di Venter dopo l'autobiografia uscita nel 2007, si intitola «La vita alla velocità della luce: dalla doppia elica all'alba della vita digitale». Parla del futuro che Venter intende creare grazie alle sue scoperte scientifiche nel campo della biologia sintetica, una sorta di versione turbo dell'ingegneria genetica che consente agli scienziati di progettare nuovi sistemi biologici persino la vita sintetica e non solo di limitarsi a manipolare gli organismi esistenti inserendo un gene qui o lì. Nel 2010 Venter attirò l'attenzione dei giornalisti e degli scienziati di tutto il mondo annunciando quella che egli stesso definì «la prima forma di vita sintetica del mondo». Prese il genoma di un batterio sintetico ottenuto in laboratorio a partire da sostanze chimiche e, per dirla con le parole di Venter, «lo mise in moto» inserendovi un batterio monocellulare. La cellula si replicò dando vita ad una colonia di organismi che contenevano solamente il Dna sintetico. «È una concezione completamente nuova della vita che, fino a prima del nostro esperimento, nessuno aveva». Il suo lavoro fu successivamente valutato dalla Commissione Presidenziale per lo Studio delle Questioni Bioetiche che approvò il procedimento e invitò i biologi che lavoravano nel campo della biologia sintetica a darsi una autodisciplina. Venter, che ha la reputazione di persona arrogante, ma vuole anche che la gente sappia cosa ci aspetta: la casa futuristica che sta costruendo e come si potrebbe arrivare a quello che Venter definisce «teletrasporto biologico». Secondo Venter dovrebbe essere possibile realizzare una copia digitale del Dna di un organismo in un posto e inviare il file ad un dispositivo che si trovi in un altro posto e che sia in grado di ricreare l'originaria forma di vita. Non siamo lontani dal teletrasporto immaginato dalla fantascienza dove la materia si sposta da un luogo all'altro in un istante. Il fatto è che finora nessuno ci aveva concretamente pensato. L'anno scorso George Church di Harvard nel suo libro «Regenesis», disse che era possibile resuscitare gli uomini di Neanderthal con l'aiuto di «una femmina umana estremamente avventurosa». Ma Venter, che nel suo libro liquida l'idea di Church come «fantasiosa», mi dice che le sue idee audaci sono diverse perchè qui a La Jolla stanno diventando reali. «Il mio futuro non è una fantasia», dice Venter. «Lo scopo non è immaginare un futuro fantastico. Noi non lo stiamo immaginando, lo stiamo creando». (...)John Craig Venter è nato nel 1946 a Salt Lake City, Utah, ma è cresciuto nella zona della baia di San Francisco. Dopo il liceo, si è trasferito nella California meridionale per dedicarsi ai piaceri del surfing che dovette interrompere quando fu chiamato sotto le armi durante la guerra del Vietnam. Fu in quegli anni che l'ambizioso Venter prese il posto del surfista Venter. Prestò servizio in un ospedale da campo della Marina occupandosi dei soldati feriti prima di fare ritorno negli Stati Uniti dove frequentò il «community college» per poi iscriversi all'Università di California, San Diego, dove conseguì la laurea breve in biochimica e il dottorato di ricerca di fisiologia e farmacologia. (...) Si guadagnò la reputazione di «ragazzaccio» nel 1998 quando fondò una nuova società, Celera Genomics, nel tentativo di essere il primo ad ottenere la sequenza completa del genoma umano. Il progetto pubblico da 5 miliardi di dollari era già partito da tre anni e si riteneva che dovesse proseguire per altri dieci anni. Venter disse che Celera avrebbe usato la tecnica «shotgun sequencing» e altre tecniche innovative e avrebbe portato a termine il lavoro in tre anni. Nel mondo scientifico ci fu chi temette che Venter avrebbe brevettato le sue scoperte precludendo l'accesso ad informazioni vitali nel campo della biologia umana. I responsabili del progetto finanziato con denaro pubblico corsero ai ripari ed ebbe inizio una vera e propria gara di velocità. Dopo tre anni di competizione tutt'altro che leale, nel 2000 sia i ricercatori pubblici che Venter annunciarono contemporaneamente di aver completato la mappatura del genoma. «Alcuni di quelli ancora mi odiano», dice. (...) Venter sostiene che con l'annuncio del 2010 ha dato finalmente risposta all'interrogativo posto dal fisico Erwin Schrodinger nel suo libro di divulgazione scientifica del 1994 di cui Venter possiede una prima edizione «Cosa è la vita?». «La vita è il sistema software del Dna», dice Venter. Tutti gli organismi viventi sono riducibili al Dna e all'apparato cellulare utilizzato per gestirlo. Il software del Dna crea e dirige l'«hardware» della vita che è più visibile ed è rappresentato dalle proteine e dalle cellule. Aver dato risposta a quell'interrogativo, dice Venter, vuol dire che fornendo ad un organismo un nuovo software attraverso la riscrittura del suo genoma, riscriviamo anche il software e quindi la vita stessa. (...) Sebbene Venter lavori su singole cellule, si dice convinto che il suo procedimento è applicabile anche agli organismi più complessi. «Non sono ancora in grado di spiegarlo, ma come per ogni altra cosala si potrà spiegare a livello molecolare, a livello cellulare ed infine a livello di codifica del Dna». Un'altra critica molto comune riguardo al suo lavoro del 2010, è quella secondo cui si accusa lo scienziato di «giocare a fare Dio». Questa critica Venter sembra contento di farla sua. «In senso sia pur limitato con questo esperimento abbiamo dimostrato che Dio non è necessario per creare nuova vita; noi invece lo siamo stati», scrive. «Disponiamo oggi di una serie di nuovi strumenti mai esistiti prima che ci permettono di giocare al 'Creatore'», dice. L'attuale progetto di Venter, il Convertitore Biologico Digitale (Dbc), rappresenta il tentativo di mettere quegli strumenti in una scatola adatta. Il prototipo attuale, che si avvale del sostegno della Darpa, un ente di ricerca del ministero della Difesa degli Stati Uniti, è lungo circa due metri e mezzo e alto 1 metro e 80 cm. «Abbiamo equipe di ricercatori che stanno lavorando per ridurne le dimensioni, per velocizzarlo e renderlo più affidabile», dice Venter, che immagina il dispositivo che verrà commercializzato dalla Synthetic Genomics negli ospedali, nei luoghi di lavoro e nelle case. Un importante test per verificare le capacità del Dbc è previsto prima della fine dell'anno. L'attuale prototipo è in grado di produrre solo Dna, non proteine o cellule viventi, ma anche questo sarebbe sufficiente a rendere il dispositivo molto utile. Alcuni vaccini si ottengono usando solamente molecole di Dna, sottolinea Venter. «In caso di pandemia con la gente che muore e uscire di casa è pericoloso per il contagio, si può scaricare il vaccino da Internet in un paio di secondi», spiega Venter. Il file digitale arrivando nelle case, negli ospedali, negli uffici permetterebbe di «produrre una siringa con all'interno la dose giusta di vaccino». IL DNA DEI MARZIANI Venter immagina anche una versione simile ad una stampante del Dna che potrebbe essere un valido aiuto medico. Questo dispositivo potrebbe stampare il Dna che racchiude in codice le sequenze dell'insulina indispensabile per i diabetici. Aggiungendo il Dna ad un kit per sintetizzare le proteine, uno strumento diffusissimo nei laboratori di ricerca di tutto il mondo, si otterrebbe tutto quanto serve per la cura del diabetico. Venter prevede anche che in futuro potrebbero sorgere problemi di resistenza agli antibiotici. Guardando ancora più lontano, Venter pensa che un giorno i Dbc possano stampare cellule viventi automatizzando e migliorando il procedimento messo a punto nel 2010. Questo genere di ricerca è già in corso allo scopo di creare quella che Venter definisce «cellula ricevente universale», una sorta di «tabula rasa» biologica in grado di ricevere qualunque genoma sintetico e di metterlo in moto. (...) Accanto allo sviluppo del Dbc, i collaboratori di Venter stanno anche lavorando ad una macchina chiamata «unità digitale per l'invio della vita» il cui scopo è quello di completare la sua visione di un sistema completo di teletrasporto biologico. Compito dell'unità di invio è quello di effettuare una campionatura a mezzo robot, sequenziare un genoma del campione e generare un file digitale del Dna che possa essere inviato ad una Dbc che dovrà ricreare la vita originaria in un altro luogo. È un progetto che ha attirato l'interesse della Nasa che senza dubbio spera che in futuro sulle navicelle dirette su Marte si possa imbarcare un dispositivo del genere in modo che il genoma di qualunque microbo marziano eventualmente rinvenuto possa essere copiato in forma digitale e inviato sulla Terra. Al momento non esiste un prototipo di questo dispositivo, ma i ricercatori della Jcvi che lavorano nel deserto del Mojave, California, stanno cercando di progettare un robot capace di isolare autonomamente microbi dal terreno e sequenziare il loro Dna. Venter è convinto che con un Dbc accoppiato alla «cellula ricevente universale» gli scienziati potrebbero ricreare sulla Terra un organismo marziano in laboratorio. «Pensare che dallo spazio ci arrivino in forma digitale forme di vita aliene che noi ri- creiamo in laboratorio, sembra fantascienza, ma potenzialmente è possibile», dice Venter, il quale aggiunge che questa modalità sarebbe oltretutto molto più economica e meno rischiosa che non portare i campioni sulla Terra con il perico- lo di contaminare il no- stro pianeta. Venter ritiene che in futuro tutti gli esseri umani che si recheranno su Marte porteranno con se un Dbc che con- sentirà loro di ricevere vaccini, antibiotici e cellule trasfor- mabili in prodotti alimentari. (...) Quando gli chiedo se saremo mai in grado di teletrasportare biologicamente degli esseri umani, Venter è costretto a fare una ammissione. «È una cosa che al momento non sono assolutamente in grado di prevedere...Sono due mondi diversi e la scienza appoggia una idea del genere tanto quanto appoggia quella di ricreare Neanderthal servendosi di una donna disponibile». © The ObserverlThe Interview People Traduzione di Carlo Antonio Biscotto L'intervista integrale a Craig Venter saràpubblicata oggi su www.unitait ............... .. . IL PROGETTO Il Convertitore biologico è una scatola che, collegata a un computer, riceve le sequenze, sintetizza proteine e cellule ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 27 Ott. ’13 LA SCIENZA DELLA SALUTE È UN BUSINESS PER L'EUROPA di Luca Tremolada «La scienza della salute oggi più che mai non è uno strumento ma è un business. Deve imparare a stare sul mercato, a vendere prodotti e tecnologie ma al tempo stesso restare parte della comunità scientifica». Quelle di Mario Sorrentino, professore di economia all'Università di Napoli Federico II sono parole che si adattano bene a descrivere più che il mercato italiano del biotech, dell'e-health e di big pharma una forma mentis di chi di mestiere sta nei laboratori, si occupa a vario titolo di trasferimento tecnologico o progetta startup nelle scienze della vita. Mai come in questi ultimi anni la salute ha saputo stupire, cavalcando il digitale meglio di altri, imparando a coniugare (soprattutto all'estero) la ricerca di base con i piccoli laboratori, il territorio con la rete delle università. Health 4 Growth è un progetto triennale europeo di condivisione di buone pratiche delle politiche pubbliche di sostegno nell'ambito delle Scienze della Salute. A partire dal 2012 undici partner internazionali hanno avviato un attento programma di screening sui relativi territori al fine di individuare modelli che potranno costituire un esempio di riferimento per le pmi. Il progetto è finanziato per il 75% dal Fondo europeo di sviluppo regionale e per il resto dal Ministero dell'Economia. Ed è interessante anche perché settimana scorsa ha riunito al tavolo startupper, direttori di centri di ricerca pubblica e privata, aziende e università straniere. «In Finlandia - ha raccontato Silvio Aime, Presidente di 2i3T Incubatore d'Impresa dell'Università di Torino - ogni gruppo di ricerca ha almeno due contratti con imprese del territorio. Gli scienziati di quelle strutture interagiscono direttamente con il territorio e orientano i loro studi rispetto alla risoluzione di problemi. Sono finiti i tempi in cui si poteva sperare di restare tutta la vita chiusi in un laboratorio. Conoscere questa realtà è fondamentale perché nella life science l'industria e i cervelli non si spostano dove il costo della manodopera è più basso ma dove c'è competenza». La sensazione, ascoltando le esperienze europee e i progetti che nascono dalle politiche comunitarie e regionali nel settore salute, è che l'Europa stia pianificando come verrà redistribuito il lavoro, sta in altre parole ridisegnando la mappa della conoscenza nei settori ad alto margine di crescita. La scienza della salute sembra essere la prima disciplina pilota. A chi aspira a svolgere un ruolo sul territorio e nella ricerca non resta che accelerare il passo. ____________________________________________________________ Il Corriere della Sera 27 Ott. ’13 UN NUOVO ESAME SUL SANGUE MATERNO CAMBIA LA DIAGNOSTICA PRENATALE Può individuare su frammenti del Dna alcune malformazioni Dal primo gennaio di quest’anno circola in Italia, e dal 2011 negli Usa, una nuova offerta per le future mamme: un test, detto del Dna libero o del Dna fetale , che promette, con un semplice prelievo di sangue, di prevedere con certezza “quasi assoluta” la sindrome di Down e altre alterazioni cromosomiche del nascituro, senza dover ricorrere a esami invasivi come amniocentesi o villocentesi. Circola su Internet, ma viene anche proposto negli studi medici. Nel mare di proposte diagnostiche, genetiche e non, per non parlare di miracolose staminali, questo esordio è passato abbastanza inosservato. Eppure si tratta di un test che rappresenta una novità clamorosa. Non è ancora l’esame perfetto, capace di scoprire con certezza tutte le possibili alterazioni genetiche che possono provocare malformazioni o malattie nel nascituro, che è da decenni uno degli obbiettivi della ricerca. Ma questa volta ci siamo vicini, tanto vicini da sconvolgere nel prossimo futuro le strategie sanitarie e da porre fin d’ora problemi di ordine medico, etico ed economico. L’esame in questione, che richiede un semplice prelievo di sangue materno, è in grado, ad esempio, di individuare la trisomia 21 , cioè l’alterazione cromosomica che comporta la sindrome di Down (1 su 1000 nati) con il 99,5% di probabilità, più di qualsiasi altro test di screening conosciuto, con un’affidabilità vicinissima a quella degli unici esami diagnostici “sicuri”, cioè amniocentesi e villocentesi, ma senza il rischio di aborto che questi esami comportano. Lo stesso vale per le altre due trisomie più comuni, la “18” (sindrome di Edwards , 1 su 6 mila nati) e la “13” (sindrome di Patau , 1 su 10 mila), se pure con un’accuratezza minore, comunque superiore al 90%. I falsi positivi sono, a seconda degli studi, tra lo 0,1 e lo 0,5%. È già in commercio con almeno con almeno 5 brand diversi, a un prezzo elevato, ma che dagli iniziali 1200 euro è già sceso sotto i 1000. Da quest’anno anche alcuni laboratori privati italiani dispongono del kit di prelievo: da qui il materiale biologico viene spedito in uno dei sei laboratori al mondo che sono per ora in grado di svolgere questa analisi. «I dati degli studi finora effettuati sono schiaccianti — dice il professor Luigi Fedele, direttore della clinica di ostetricia e ginecologia della Mangiagalli di Milano —. Siamo all’inizio di un cambiamento epocale, soprattutto per l’Italia, dove si registra una percentuale molto alta, più che negli altri Paesi, di amniocentesi e villocentesi. Speriamo di poter offrire a tutte le donne questo test, una volta che sia ufficialmente validato». Ma come è nato e come è stato sviluppato questo test? Fin dagli anni 90’ gli scienziati cercavano di percorrere quella che sembrava la strada più logica: individuare nel sangue materno cellule fetali e cercare di decifrarne il patrimonio genetico. Cellule fetali sono effettivamente presenti nel flusso sanguigno, ma la loro “lettura” si rivelò assai ostica, perché occorreva estrarle, coltivarle e sottoporle a un’analisi genetica. Tali cellule si rivelarono poco adatte a questo processo, perché spesso non erano integre, perché era molto complesso coltivarle e anche perché, si scoprì successivamente, nel sangue di una madre non primipara è possibile trovare le cellule dei figli precedenti. La svolta venne nel ’97, quando un professore cinese di Hong Kong, Dannis Lo, annunciò in un famoso articolo sulla rivista The Lancet la presenza nel sangue di filamenti di Dna libero, piccoli frammenti circolanti composti da una mescolanza di materiale genetico materno e fetale, certamente prodotti dalla gravidanza in corso. Apparentemente questa “materia prima” sembrava ancora più difficile da decifrare. E invece questa “strada laterale”, come spesso avviene nella scienza, si è rivelata molto più feconda, grazie alle tecniche di sequenziazione ed espansione del materiale genetico e soprattutto alla recente conoscenza della nostra mappa cromosomica. Si tratta di un processo assai complesso, ma in pratica si procede facendo espandere, cioè moltiplicare, i frammenti di queste piccolissime quantità di Dna che la “libreria” genetica classifica come caratteristici dei un determinato cromosoma. Dopo di che si procede a una valutazione quantitativa. La trisomia 21, responsabile della sindrome di Down, è così chiamata perché accanto ai due cromosomi 21, ( i cromosomi sono sempre in coppia) ce n’è un terzo o parte di un terzo. Ecco allora che una quantità anomala di frammenti di cromosoma 21, superiore a uno standard conosciuto, segnala la sindrome di Down. Analogamente si è proceduto per le altre due trisomie, la 18 e la 13. E non solo: la stessa stima può essere effettuata per i cromosomi sessuali, la 24° coppia, che sono chiamati X e Y, per la loro forma: come è noto le femmine hanno una doppia X e i maschi una X e un’ Y. Ovviamente l’assenza di materiale Y definisce il sesso del nascituro, il che non sarebbe una gran scoperta, visto che basta una semplice ecografia per ottenere lo stesso risultato. Quello che è interessante è il fatto che anche i cromosomi sessuali possono essere tre o anche uno solo, alterazioni non così rare come si pensa e che danno origine a diverse sindromi: quella di Klinefelter (XXY),di Jacob (XYY), di Turner (X), e quella detta Triplo (XXX). Anche queste anomalie dunque sono facilmente individuabili con la stessa tecnica. In questo campo si pone però il problema che in molti casi queste sindromi non comportano problemi di salute o mentali (molti se ne accorgono per caso da adulti di avere queste varianti) e si teme quindi un eccesso eugenetico. È stato lo stesso Lo, con la sua équipe di Hong Kong, a sviluppare nell’arco di un decennio le idee e le tecniche che hanno portato alla realizzazione del test. Dopo di che è iniziata la battaglia commerciale, tuttora in corso, che ha portato alla nascita di quattro società californiane e di una cinese che si contendono un mercato che si prospetta molto lucroso. Sul piano più strettamente scientifico, una ricerca multicentrica (NICE) conclusa nel 2011, guidata dall’Università di Stanford (ma finanziata da una delle case produttrici del test) e due studi indipendenti condotti da un centro pubblico inglese guidato dal prestigioso professor Kyprios Nicolaides, hanno portato alla validazione del test da parte di molte società scientifiche, americane e internazionali. Non c’è invece alcuna approvazione da parte dell’FDA o da parte dell’Emea , perché l’esame viene considerato test di screening e non diagnostico. «Ed è giusto che sia così, questo concetto deve essere chiaro — spiega il ginecologo e chirurgo fetale Nicola Persico, della clinica Mangiagalli, che ha lavorato a Londra con lo stesso Nicolaides —. Gli unici esami diagnostici certi sono amniocentesi e villocentesi. Il che significa che se una donna risultasse positiva a uno di questi test, che sono probabilistici, dovrebbe sottoporsi all’esame per confermare la diagnosi. Tutti gli studi comunque sono per ora convincenti: manca, è tuttora in corso, un grande studio su una vasta popolazione di gestanti (non solo quelle considerate a rischio), soprattutto per chiarire la quantità di falsi positivi. Ciò detto non si può negare che siamo di fronte a un grande passo avanti, perché permetterebbe di ridurre drasticamente il numero di amniocentesi». Quale impatto potrebbe avere, insomma, il test del Dna fetale sulla diagnosi prenatale in Italia, soprattutto nell’ambito del servizio sanitario? «Il test arriva in un momento di grande confusione. L’Italia ha un record di amniocentesi, in Lombardia viene effettuata nel 19% delle gravidanze, in Italia nel 18%. Essendoci un rischio dell’1% circa di aborto, si perde una quantità inaccettabile di feti sani. La normativa tuttora in vigore, la legge Bindi del 1998, prevede che si possa praticare l’amniocentesi a tutte le donne che lo richiedono dai 35 anni in su. Ma nel frattempo l’età della gravidanza si è innalzata e quindi le amniocentesi sono aumentate. Oggi sappiamo inoltre che quasi la metà delle sindromi di Down si ritrovano in figli di donne sotto i 35 anni. La normativa è quindi del tutto inefficace. Tant’è vero che nel 2010 le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità hanno raccomandato il test “combinato” come screening per tutte le donne, che possano poi eventualmente sottoporsi ad amniocentesi — prosegue Persico. Il test combinato, che comprende il dosaggio di due ormoni del sangue e un’ecografia per valutare anche la traslucenza nucale è un ottimo test che identifica il 90% dei casi, con una percentuale di falsi positivi del 5%. Già questo esame , adottato come screening in diversi Paesi, a partire dalla Gran Bretagna, potrebbe ridurre a un quarto le attuali amniocentesi. Ma le raccomandazioni dell’Iss sono rimaste tali. Abbiamo linee guida , non obbligatorie, diverse dalla legge, che invece è obbligatoria, e quindi c’è un gran caos, ogni centro, ogni Regione va per conto suo. Solo la Toscana con una legge regionale ha adottato lo screening con il “combinato” per tutte le donne. In Lombardia cerchiamo di proporre il test combinato a più donne possibili, ma dobbiamo chiedere un contributo per coprire i costi». Quindi il test fetale, una volta che fosse approvato ufficialmente, potrebbe sostituirlo? «A mio parere sarebbe un errore, perché l’ecografia che viene fatta nel combinato è molto preziosa: se eseguita con competenza può rilevare almeno la metà delle malformazioni e molti problemi del neonato e della gestante che non si vedono con un test genetico. Lo stesso Nicolaides ha proposto uno schema che prevede il test combinato come primo esame di screening per tutte, Dna fetale oltre una certa soglia di rischio molto larga (circa il 25% dei casi) e infine amniocentesi o villocentesi nei casi positivi. In ogni caso bisognerà uscire dall’attuale confusione, in cui prosperano studi privati che garantiscono amniocentesi “sicure” o si eseguono ecografie sbrigative». «Il test combinato è un indicazione perfetta per fare il Dna fetale, che sarebbe più corretto chiamare Dna totale — dice Antonio Farina, medico ricercatore al Sant’Orsola di Bologna dopo aver lavorato negli Usa e uno dei maggiori esperti in materia —. Attualmente come gamma di informazioni il test offre l’80% di quello che può fornire un’amniocentesi e sul restante 20% si sta lavorando. Certo questo esame avrà un grosso impatto, ma per ora sembra destinato a un pubblico medio alto, sia per il costo sia perché serve una certa cultura: basta pensare che i referti arrivano in inglese. Prevedo poi che ci vorrà qualche anno prima che le strutture pubbliche possano organizzarsi, perché bisogna disporre di genetisti e addestrare il personale. In alternativa si potrà ricorrere a convenzioni con strutture private». «Ci sono ancora dei limiti in questo test, — conclude Luigi Fedele — perché non copre tutta la mappa cromosomica e c’è un margine di falsi positivi. È importante poi che questo, come qualsiasi esame prenatale, sia accompagnato da un colloquio, in cui vengano spiegati con chiarezza i limiti e le conseguenze di quello che si sta facendo. Oggi c’è il rischio del “fai da te”, con una consulenza magari via Internet. Questo va assolutamente evitato. Bisogna in ogni caso che la politica sanitaria si faccia carico di questa problematica, visto che siamo di fronte a una delle più importanti scoperte degli ultimi anni». Il nuovo test del DNA fetale è caduto nella realtà italiana come un sasso non proprio in uno stagno, ma in acque già agitate. Sembra a questo punto necessario prendere decisioni che facciano chiarezza per risolvere i vecchi e i nuovi problemi. Riccardo Renzi ____________________________________________________________ Le Scienze 24 Ott. ’13 SESSO E SINESTESIA: QUANDO L'ORGASMO È VIOLETTO Le risorse della percezione binoculare Alcune persone sperimentano il tipico "cortocircuito" percettivo della sinestesia durante i rapporti sessuali, le cui varie fasi vengono associate alla percezione di determinati colori. Il fenomeno appare collegato all'instaurarsi di uno stato di trance particolarmente intenso che però, isolando dall'ambiente, dà all'esperienza un vago senso di irrealtà e non porta a una maggiore soddisfazione sessuale (red) Più desiderio e uno stato di trance più marcato al momento dell'orgasmo: sono queste le caratteristiche principali dell'esperienza sessuale di chi vive un singolare fenomeno definito sinestesia emotiva, in cui le fasi del rapporto sessuale si "colorano" di tinte diverse. E' questa la conclusione di uno studio condotto da un gruppo di psicologi delle università di Hannover e di Brema, che – come riferiscono in un articolo pubblicato sulla rivista “Frontiers in Psychology” - hanno condotto un'indagine su 19 soggetti che manifestano questa particolare alterazione percettiva. La sinestesia è il fenomeno per cui uno stimolo sensoriale di un certo tipo, per esempio uditivo, provoca percezioni di tipo differente, associando, per esempio, un certo colore all'ascolto di una certa nota. In alcuni casi, tuttavia, a determinare questo “cortocircuito” percettivo non è uno stimolo fisico, ma un particolare stato emotivo, che per alcune persone è quello che accompagna il rapporto sessuale. In questi soggetti, le fasi del rapporto sono caratterizzate da percezioni visive diverse, per lo più relative a colori: la prima fase di crescita del desiderio, per esempio, può dipingersi di arancione, il successivo stato di eccitazione da un'intensificazione del colore, che poi nell'orgasmo vira verso il viola, mentre nella fase di rilassamento subito successiva possono predominare il rosa e il giallo. Sesso e sinestesia: quando l'orgasmo è violetto Durante l'orgasmo, questi soggetti sinestetici sembrano sperimentare uno stato di trance sessuale più profondo del normale, che conferisce all'esperienza un vago senso di irrealtà e che, in modo apparentemente paradossale, non si traduce in un maggiore livello di soddisfazione sessuale ma, anzi, in una sua riduzione. Secondo i ricercatori, la ridotta soddisfazione potrebbe essere dovuta al fatto che l'attenzione esclusiva al proprio mondo interiore indotta da una trance così intensa - e il conseguente isolamento dal mondo esterno - sminuiscano il ruolo di altre due componenti essenziali del coinvolgimento sessuale e della relativa soddisfazione psicologica: la percezione del proprio ruolo sessuale e l'impegno verso il partner. Come osservano gli autori, i risultati dello studio, uno dei pochissimi ad affrontare questo aspetto della sinestesia, vanno comunque presi con una certa cautela sia per il numero relativamente ridotto di soggetti coinvolti, sia perché si fondano sulla compilazione di questionari, dato che “la sinestesia sessuale non può essere testata in condizioni di laboratorio utilizzando gli induttori originali”. ____________________________________________________________ Le Scienze 21 Ott. ’13 COME CAMBIARE IL SISTEMA DI CODIFICA DELL'INTERO GENOMA Una nuova tecnica di ingegneria genetica che permette di modificare in modo uniforme tutto il genoma di un organismo, e non solo un singolo gene, promette di consentire la creazione di proteine e polimeri che non esistono in natura oppure organismi geneticamente modificati incapaci di ibridarsi con le specie naturali, e quindi ecologicamente più sicuri (red) Alterare sistematicamente su larga scala il genoma di un organismo, consentendogli di sintetizzare nuove proteine, anche “esotiche”, ossia non presenti in natura. Oppure di resistere ai pesticidi, ma senza che vi sia il rischio di ibridazione con la corrispondente specie selvatica o di contaminare l'ambiente. E' il risultato promesso dall'applicazione delle nuove tecniche di ingegneria genetica messe a punto da due gruppi di ricerca – della Harvard University e della Yale University il primo, e della Harvard University il secondo – che le descrivono sull'ultimo numero di “Science”. Nel primo articolo, Marc J. Lajoie e colleghi spiegano come hanno manipolato il codice genetico di un ceppo di Escherichia coli, sostituendo sistematicamente a un codone – una tripletta di nucleotidi che indica quale specifico amminoacido andrà inserito nella proteina codificata da un gene o che indica la fine della sintesi proteica (codone di stop) – un altro differente. In particolare, i ricercatori hanno sostituito tutte le occorrenze del codone di stop UAG con un altro codone di stop, UAA, eliminando contemporaneamente il cosiddetto fattore di rilascio 1, quello che permette ai ribosomi – l'organello cellulare che procede alla sintesi delle proteine a partire dalle informazioni genetiche - di riconoscere il codone UAG come codone di stop. In questo modo i ricercatori hanno potuto utilizzare la tripletta UAG, che non aveva più la funzione di stop, per codificare un nuovo amminoacido: reintroducendo quella tripletta nel genoma, ogni volta che il ribosoma la incontra introduce nella proteina in costruzione il nuovo amminoacido, rendendo possibile la sintesi di proteine o polimeri “esotici”. Queste nuove molecole – osservano i ricercatori - potrebbero gettare le basi per una nuova generazione di materiali, nanostrutture e terapie, grazie, per esempio, alla capacità di alcune di esse di veicolare sostanze farmacologicamente attive in modo selettivo su specifici bersagli. Gl esemplari di E. coli dal genoma così "ricodificato" mostravano inoltre una maggiore resistenza alle infezioni virali. Questa capacità potrebbe rivelarsi estremamente utile: organismi così ingegnerizzati sarebbero particolarmente resistenti, ma non potrebbero contaminare i loro corrispettivi naturali, dato che i due genomi sarebbero incompatibili. Incorporando amminoacidi non standard rari, si potrebbe anche far si che simili ceppi di organismi sopravvivano solo in un ambiente di laboratorio. Nel secondo progetto, i ricercatori hanno rimosso ogni occorrenza di 13 diversi codoni attraverso 42 distinti geni di E. coli (usando un esemplare diverso per ogni gene), sostituendoli con altri codoni codificanti per gli stessi amminoacidi. Alla fine, il 24 per cento del DNA di tutti i 42 geni interessati dall'operazione era stato cambiato, ma le proteine prodotte da quei geni erano comunque identiche a quelle prodotte dai geni originari. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 22 Ott. ’13 E TU DI CHE CERVELLO SEI? NUOVA TEORIA SU COME PENSIAMO Il Dalai Lama è del tipo riflessivo, Liz Taylor di quello elastico NOTIZIE CORRELATE Uscirà nei prossimi giorni (da Simon and Schuster, il 5 novembre) un libro intitolato «Top Brain, Bottom Brain: Surprising Insights Into How You Think», ovvero: «Cervello alto e cervello basso: rivelazioni sorprendenti su come pensiamo». Ne sono autori il noto neuroscienziato cognitivo Stephen M. Kosslyn, professore a Harvard, e lo scrittore e sceneggiatore G. Wayne Miller. Gli aggettivi alto e basso si contrappongono ai precedentemente ben noti destro e sinistro, perché Kosslyn e Miller intendono fare piazza pulita della leggenda (secondo loro) che esista un cervello destro, deputato alle forme, l’immaginazione e le analogie e un cervello sinistro, deputato invece al calcolo, la logica e il linguaggio. Kosslyn è stato uno dei neurobiologi cognitivi più importanti degli ultimi anni, noto soprattutto per le sue ricerche sulla «pura» formazione di immagini mentali a occhi chiusi e la sbalorditiva somiglianza di questa con la reale visione, non solo dal punto di vista cognitivo, ma anche per via dell’identica attivazione di alcune regioni cerebrali in entrambe, mostrata proprio da Kosslyn e collaboratori circa venti anni orsono. Ma quale percorso ha portato oggi Kosslyn all’individuazione del cervello alto e basso? «Già nello studio della visione e della cognizione visiva mi ero interessato alla differenza tra le connessioni ventrali (quindi basse) e dorsali (quindi alte). Poi ho notato interessanti corrispondenze di questa suddivisione anatomica e funzionale in altri campi. Con due collaboratori abbiamo svolto una vasta ricerca su tutto quanto si sapeva, pubblicata su American Psychologist due anni fa. Diventava importante evitare la distinzione destro/sinistro, analitico/intuitivo, logico/creativo. Volevamo analizzare in modo diverso come le diverse parti del cervello elaborano l’informazione. È sorta in me l’idea che il cervello, come un tutto, è un sistema integrato e dobbiamo considerare come le diverse parti interagiscono. Sono emersi i quattro modi di interazione che descriviamo nel libro, che si propone di far riflettere sulle implicazioni, tutte testabili, di questo nuovo modo di analizzare cervello e pensiero». I quattro modi di funzionamento e interazione identificati da Kosslyn e Miller per il cervello alto e il cervello basso si chiamano Dinamico («Mover») , Riflessivo («Perceiver») , Creativo («Stimulator») ed Elastico («Adaptor») . E possono essere rispettivamente caratterizzati così. Dinamico (Mover) : utilizzo alternativo, a scelta, sia del cervello alto che del cervello basso, un modo di funzionamento che si traduce in pianificazione a lungo termine, azioni costanti, con conseguenze positive ma non immediate delle azioni. E che rende atti a diventare leader. Tipico di persone che hanno dovuto attraversare un’infanzia difficile o notevoli iniziali contrarietà, poi superate. Gli esempi indicati nel libro sono i fratelli Wright, pionieri dell’aviazione, il presidente Franklin Delano Roosevelt e la star televisiva americana Oprah Winfrey. Riflessivo (Perceiver) : utilizzo opzionale e modulare del cervello basso, ma non del cervello alto. Esplorazione in profondità del proprio pensiero e delle proprie azioni, situandoli in un contesto ampio. Esempi citati: religiosi come il Dalai Lama e scrittori come Emily Dickinson. Schivi, poco inclini ad apparire sotto i riflettori, in genere non realizzano personalmente dei grandi progetti e non ricevono credito per quanto hanno suggerito. Creativo (Stimulator) : l’inverso del modo precedente. Intenso uso del cervello alto, ma non del cervello basso. Eseguono progetti anche complessi, ma non si curano di seguirne le conseguenze, né sanno modificare i progetti quando cambiano le situazioni. Possono essere creativi e originali, ma rischiano di non fermarsi in tempo, creando problemi a loro stessi e agli altri. L’esempio è il campione di golf Tiger Woods, oppure alcuni ben intenzionati attivisti sociali americani che hanno fallito, alla fin dei conti, nel conseguire i propri obiettivi. Elastico (Adaptor) : scarso uso opzionale tanto del cervello alto che del cervello basso. Niente progetti a lungo termine. Si è assorbiti dal contingente e dalle richieste immediate dell’ambiente. Si segue il gregge, anche se spesso si è giudicati spiritosi e vivaci. Si è ottimi membri di un team, negli sport e nelle imprese. Tra gli esempi: alcuni celebri campioni americani di baseball e, curiosamente, anche l’attrice Elisabeth Taylor, che risulta essere stata donna molto spiritosa, ma cattiva programmatrice della propria vita privata, con i suoi ben otto matrimoni. Resta il tema del linguaggio. Come rientra in questa nuova suddivisione? Le aree cerebrali connesse con il linguaggio, a detta di Kosslyn, sono particolarmente interessanti: «A prima vista sembrano una notevole eccezione alla nostra generalizzazione sulle funzioni del cervello alto (top) e del cervello basso (bottom). Infatti l’area di Broca, notoriamente coinvolta nella produzione del linguaggio, si situa in quella che per noi è la regione inferiore del lobo frontale. Riceve ricche connessioni dalle regioni superiori di tale lobo, ma anche dal lobo temporale e dalle regioni motorie, somato-sensoriali e parietali». Quindi quali conclusioni si possono trarre? «Questo schema di connessioni suggerisce che l’area di Broca funziona in parte come se appartenesse al cervello alto, come sarebbe da aspettarsi, dato che controlla la bocca, la lingua, le labbra e le corde vocali durante la produzione del linguaggio. Però sappiamo anche che quest’area si attiva quando capiamo il linguaggio e questo è caratteristico delle funzioni del cervello basso. Inoltre, si attiva quando cerchiamo di capire il senso delle azioni delle altre persone, e dei loro gesti non verbali, di nuovo una funzione del cervello basso. Quindi, l’area di Broca gioca un ruolo nel classificare e interpretare le informazioni che riceviamo dall’esterno, come ci aspettiamo che avvenga, data la sua localizzazione anatomica. Dato che, però, gioca anche un ruolo nel generare i movimenti dell’apparato vocale, si conferma quanto sosteniamo nella nostra teoria: i due sistemi cerebrali, alto e basso, interagiscono senza posa e lavorano sempre insieme». Fino a ieri, alcuni sostenitori della diversità tra cervello destro e cervello sinistro non hanno lesinato «ricette» su come migliorare la nostra intelligenza, attraverso esercizi mentali, allenamenti a diversi tipi di pensiero e simili. La nuova teoria del cervello alto e del cervello basso di Kosslyn non offre nulla di simile. «Assolutamente no, nessun suggerimento di questo tipo, nessuna ricetta, nessuna terapia. Sottolineiamo ripetutamente nel nostro libro che nessuno dei quattro “modi” di funzionamento integrato del cervello è superiore agli altri tre. Ciascuno di questi è più o meno utile degli altri in circostanze diverse». Il libro traccia ciascuna di queste biografie esemplari e spiega in dettaglio come le varie fasi e il profilo biografico globale mostrino l’attivazione e l’interazione (o la mancanza di interazione) tra i due cervelli. Personalmente, sono piuttosto persuaso che la storia del cervello destro e sinistro, seppur gonfiata a dismisura e divulgata in modo talvolta grezzo, non sia una leggenda. Ma forse, da ora in avanti, potremmo integrare queste suddivisioni, e parlare di cervello basso sinistro, alto destro e così via. Qualche biografia paradigmatica italiana non mancherebbe, ma aste ____________________________________________________________ Wired 25 Ott. ’13 PERCHÉ SU STAMINA I TONI SONO COSÌ VIOLENTI Si è creata una spaccatura netta, forse insanabile, tra i fanatici della cura miracolosa e i suoi detrattori. È una storia che si ripete. Perché un paese senza cultura scientifica è un paese allo sbando e senza anticorpi 25 ottobre 2013 di Daniela Cipolloni “Tu che faresti se tua figlia stesse morendo? Non faresti almeno un tentativo con l’unica terapia disponibile?”. È la prevedibile domanda che, notando il mio pancione, mi rivolge uno dei pazienti in sedia a rotelle che manifesta davanti a Montecitorio, a Roma, a favore del metodo Stamina, bocciato dalla commissione ministeriale. Si è da poco conclusa la discutibilissima conferenza stampa di Davide Vannoni e Marino Andolina in cui avrebbero dovuto presentare le prove che la fantomatica terapia funziona, anche se non si sa come e perché, e neppure si può sapere che cosa diamine venga iniettato esattamente ai pazienti perché il protocollo della Stamina Foundation è segreto, privo di studi, pubblicazioni, prove sperimentali, dati oggettivi. Però, l’hanno visto tutti in televisione. Bambini che erano paralizzati, intubati, in condizioni disperate, dopo le infusioni starebbero visibilmente meglio. Alcuni giornalisti, me compresa, mettono in discussione la “versione di Stamina”, ne evidenziano i limiti, le incongruenze. Ma è fuori dall’Hotel Nazionale che scoppia la bagarre. Ci sono trenta, quaranta persone accorse a salutare i paladini della battaglia per le “cure compassionevoli”. Molti sono in sedia a rotelle. Altri sono genitori di bimbi affetti da tremende malattie degenerative. Quasi tutti indossano la stessa maglietta nera con una scritta bianca, a caratteri cubitali: “ Non ho più voglia di morire”. Tutti chiedono la stessa cosa: avere accesso al metodo Stamina. Perché è la loro ultima speranza. Perché ci credono, perché i miglioramenti ci sono, e comunque non hanno altra scelta, tanto vale tentare, no? Uno di loro mi chiede cosa farei io, come madre, se fossi al posto loro. Rispondo sinceramente che non affiderei mia figlia nelle mani di santoni, stregoni e “guaritori” che affermano di avere una cura “salvavita” però non sono disposti a svelare di cosa si tratti, si sottraggono al confronto trasparente con la comunità medico-scientifica, insomma se la cantano e se la suonano. Mi spiace, non ci sto. Mi gridano, allora, che la libertà di cura è un diritto sancito dalla Costituzione. Ribatto che, infatti, ognuno è libero di curarsi come crede, anche con le noccioline nel naso se le ritiene prodigiose contro il raffreddore. Il punto è che non può essere lo Stato a pagare per terapie che non siano state sperimentate e abbiano comprovata efficacia, e valgono garanzie minime anche per le tanto sbandierate “cure compassionevoli”. A questo punto, la reazione del drappello di pazienti diventa più aggressiva. Qualcuno m’insulta, qualcun altro mi augura di trovarmi come madre ad affrontare un male incurabile per capire cosa si prova, c’è persino chi insinua che sia pagata da qualche multinazionale farmaceutica per andare contro Stamina. Mi ritrovo sola, circondata da persone sul piede di guerra, le cui ragioni emotive fanno a cazzotti con le ragioni della scienza. Ai loro occhi, io sarei quella che – vedendo una persona affogare in mare – non gli lancerebbe un salvagente perché non ha il marchio CE. Matta, sadica o in malafede. Il dibattito prosegue con toni sempre più accesi. Che poi, non è più neppure la sperimentazione del metodo Stamina che chiedono queste persone, non hanno tempo per aspettare i risultati e, in fondo, chissenefrega di valutare la sicurezza e l’efficacia quando ti resta poco da vivere. “Qui siamo disposti ad autotassarci, l’importante è che lo Stato ci consenta di accedere al metodo”. Provo a spiegare che la tutela della salute è un dovere della Repubblica. Che è comprensibile il dramma, l’urgenza, la disperazione. Ma la componente soggettiva ed emotiva va messa da parte per valutare con obiettività un trattamento. Se rinunciassimo al metodo scientifico, sarebbe il far-west. Chiunque potrebbe alzarsi la mattina e vantare di aver messo a punto una pozione miracolosa. Purtroppo, non c’è vero dialogo. Stiamo parlando due lingue diverse. Dopo un po’, i difensori di Stamina a oltranza smettono d’inveire contro di me, mi liquidano come una provocatrice, e se ne vanno. L’episodio è indicativo della spaccatura profonda che si è creata nel paese, complice anche la spettacolarizzazione del dolore cavalcata da certe trasmissioni televisive. Così si sono creati due schieramenti: o stai dalla parte dei malati, quindi sei con Stamina, o sei contro di loro, e quindi sei contro la vita. Un paradosso, naturalmente. Una versione infarcita di falsità. Una realtà capovolta, nella quale il 99% dei medici, ricercatori, scienziati che s’impegnano quotidianamente, in prima linea, fanno la parte dei cattivi perché sono scettici, mentre l’unico che medico non è, cioè Vannoni, insieme a qualche sparuto dottore che lo spalleggia ricoprono invece la parte dell’eroe buono, benefattori dell’umanità. Mi chiedo come si sia arrivati a questo punto. Di certo, da esperto di marketing della salute qual è, lo psicologo Vannoni ha centrato nel segno: se parli alla pancia della gente, la gente ti segue. Non è la prima volta che succede, purtroppo. Stesso copione per il metodo Di Bella, quindici anni fa. Stesse divisioni, più recentemente, sulla sperimentazione animale. E di esempi se ne potrebbero fare molti. La responsabilità di chi è? Un po’ forse degli scienziati stessi, che fanno fatica a “scendere” al livello della gente comune. Ma anche del giornalismo. Della tv. Di una classe politica profondamente ignorante in materie scientifiche. Il peccato originale, però, sta monte. Il metodo scientifico andrebbe insegnato dalle scuole elementari, perché i bambini possano diventare adulti capaci di esercitare lo spirito critico. Un paese senza cultura scientifica, purtroppo, è un paese senza anticorpi.