RASSEGNA 09/03/2014 LA SCUOLA, TANTI MINISTRI, NESSUNA RIFORMA UNIVERSITA’: BASTA CON LE GRANDI RIFORME UNIVERSITÀ, IL MINISTERO E I CONCORSI A FOTOGRAFIA REGOLE FALSATE ALL'ABILITAZIONE: UNIVERSITÀ ANCORA PENALIZZATA BEFFA PER GLI ASPIRANTI PROF: "TROPPO SPECIALIZZATI, VI BOCCIAMO" SPARISCA PER FAVORE" BUFERA SUI GIUDIZI ALLE ABILITAZIONI-TRUFFA ISTRUZIONE DI QUALITÀ PER SALVARE LE UNIVERSITÀ DELLA SARDEGNA IL PIANO DEI RETTORI PER RILANCIARE L'UNIVERSITÀ RIVOLUZIONE ALL'UNIVERSITÀ C'È LA RICETTA A STELLE E STRISCE LAVORO VIETATO AI DOTTORANDI: RIVOLTA A BOLOGNA COME FERMARE A FUGA DEI LAUREATI DE DUVE: APOCALISSE DA NOBEL È ITALIANA LA SFIDA AL WEB SEMANTICO LO SPOGLIO INFINITO DELLA SARDEGNA BREVETTO EUROPEO, L’ITALIA RISCHIA DI PERDERE LA TUTELA» NOI, SOMMERSI DALLO SPAM ========================================================= AOUCA: IL GOVERNATORE TRA I PAZIENTI DEL POLICLINICO AOUSS: IN FREEZER 5 MILIONI PER IL PRONTO SOCCORSO CONTRACCEZIONE: L'ISOLA PRIMA IN ITALIA POCHE «UNITÀ ICTUS » IN ITALIA E IL SUD NE È QUASI DEL TUTTO PRIVO PROMESSE DI TRASPARENZA SULLA QUALITÀ DEGLI OSPEDALI IL TRIPADVISOR DELLA SANITÀ: DAI PAZIENTI VOTI AGLI OSPEDALI TROPPA CARNE, POCA SALUTE "PERICOLOSA COME LE SIGARETTE" MENU SALVA-PROSTATA CON POCA CARNE E CONTORNO DI SPORT VECCHI FARMACI TRAVESTITI DA NUOVI CARTELLO TRA ROCHE E NOVARTIS». MULTA DA 180 MILIONI ROCHE E NOVARTIS: IL FARMACO TROPPO CARO 700 € VS 10 € ROCHE-NOVARTIS: ADESSO È DISASTRO DOLOSO «VIOLATA LA LIBERTÀ SULL’ABORTO» EUROPA CONTRO L’ITALIA SPERIMENTAZIONE SUGLI ANIMALI QUEL DECRETO È UN PASTICCIO SÌ ALLE CURE CON LA CANNABIS GESSA: LA MARIJUANA DEL FARMACISTA CANNABIS: EFFETTI NEGATIVI A LUNGO TERMINE» IL SOFTWARE CHE FA «VEDERE» I CIECHI CON I SUONI LA VITA BREVE DELLE NOSTRE BUGIE MENO DI MEZZO SECONDO PER SVELARLE LA MACCHINA DELLA VERITÀ MENTE LA TROPPA PAURA DI AMMALARSI CINA: VIOLENZE SU MEDICI E INFERMIERI IN CINA PERCHÉ L'AUTISMO È PIÙ DIFFUSO TRA I MASCHI MARIOTTI: PER LA TIROIDE ATTENZIONE SENZA PAURA ========================================================= ____________________________________________________________ Corriere della Sera 1 Mar. ’14 LA SCUOLA, TANTI MINISTRI, NESSUNA RIFORMA cari Ministri la Scuola non è (solo) Affar Vostro di ORSOLA RIVA I ministri cambiano, i problemi dellascuola restano. In una girandola di personalità anche carismatiche(siamo al terzo rettore universitario in poco meno di due anni e mezzo), si moltiplicano gli annunci ma si faticaa intravvedere un’idea organica di scuola.Basti pensare allo psicodramma del bonus maturità neitest delle facoltà ad accesso programmato: decretato da Francesco Profumo, eliminato in corsa da Maria Chiara Carrozza e che Stefania Giannini ora vorrebbe reintrodurre In assenza di una politica educativa se non ambiziosa almeno saggiamente realistica, il campo viene occupato dai tifosi (spesso veri e propri hooligan ) delle diverse squadre. È così che il dibattito si fossilizza sullo scontro fra i sostenitori della cultura umanistica e quelli della formazione tecnica, in un moltiplicarsi di appelli a favore della filosofia e della storia dell’arte o contro il latino e il greco. Chi rivendica che il compito della scuola è di formare cittadini consapevoli, chi fa presente che in un momento di crisi bisognerebbe creare almeno una passerella fra il mondo della scuola e quello del lavoro, potenziando tirocini e stage. Nell’ultimo giro di poltrone è rimasta appesa anche la sperimentazione del liceo di quattro anni autorizzata dal ministro Carrozza in una manciata di scuole pubbliche e paritarie. Pensata in un’ottica di spending review , ha incontrato da subito la ferma opposizione dei sindacati che lamentavano la perdita, così, di decine di migliaia di posti. Ci aveva già provato Luigi Berlinguer, il quale pure aveva tentato di accorciare il percorso di studi, lasciando però intatto il liceo e accorpando invece elementari e medie in un ciclo unico di sette anni. Nel successivo passaggio di mano con Letizia Moratti, la riforma divenne lettera morta. E ora? Cosa succederà del liceo di quattro anni nel passaggio fra Carrozza e Giannini? Il ministro finora non si è sbilanciato: prima ha detto che l’idea non la entusiasmava, poi ha corretto il tiro dicendo che non ha nulla in contrario ma vuole prima «approfondire la questione». L’impressione è che affrontare una riforma dei cicli della scuola in Italia sia più complicato ancora che immaginare una riforma dei cicli economici. E allora a Matteo Renzi, che dice di voler rilanciare il Paese partendo proprio dalla scuola, vorremmo dire che va bene mettere mano ai muri, ma poi, subito dopo, bisognerebbe iniziare a pensare come aggiustare le cose dentro la scuola. Vogliamo rendere i nostri giovani più competitivi sul mercato del lavoro tagliando un anno di scuola? Bene: ma allora ci si rimbocchi le maniche e si metta mano a un ripensamento più complessivo dei «curricoli» con un occhio particolarmente attento alla scuola della preadolescenza, ovvero le medie, da molti, e con buone ragioni, segnate a dito come l’anello debole della scuola italiana. Il rischio altrimenti è che il taglio si traduca in un’amputazione che costringerebbe a fare di corsa in quattro anni quello che prima si faceva in cinque. Un’amputazione tanto più pericolosa perché, da Berlinguer a Maria Stella Gelmini, la scuola italiana ha già subito due importanti interventi chirurgici: il primo ha dato il via, con l’autonomia, a un decennio e più di sperimentazioni molto creative ma altrettanto disordinate, tanto che alla fine si contavano 900 indirizzi diversi. La seconda ha avviato una necessaria semplificazione, raggruppando i diversi indirizzi all’interno di dieci «percorsi» principali, sei licei, due istituti tecnici e due professionali. Ma è un cambio, quest’ultimo, di cui non conosciamo ancora gli esiti (andrà valutato quando, l’anno prossimo, si diplomeranno i primi ragazzi del «ciclo Gelmini»). E allora va bene dire come fa Renzi che bisogna ridare valore sociale alla figura del professore, ma una chiamata d’intenti non può bastare. Tocca alla politica farsi carico di un’emergenza educativa che troppo spesso viene scaricata sulle spalle dei soli docenti. E per farlo il governo, e segnatamente il ministro Giannini, deve avere il coraggio di ripensare la scuola in modo globale, tenendo conto delle istanze dei docenti ma avendo come unico obiettivo i ragazzi. Che sono i cittadini di domani, ai quali la Costituzione riconosce il diritto-dovere del lavoro. Non basta ricalibrare di volta in volta in un mix diverso le materie di studio: un po’ più di inglese qui, un po’ più di informatica là. Bisogna immaginare un percorso di formazione che dalla scuola d’infanzia all’ultimo anno delle superiori sia teso a preparare i ragazzi per il dopo, dando loro non solo le competenze ma anche le capacità umane necessarie per essere forti in un mercato del lavoro sempre più asfittico. E per farlo ci vogliono idee, e soldi. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 Mar. ’14 NO ALLE GRANDI RIFORME INTERVENTI PER LA SICUREZZA DA UN MILIARDO DI EURO» Il ministro Giannini: pronti ad agire Ministro Stefania Giannini, lei guida di fatto tre dicasteri: Istruzione, Università, Ricerca. Provi a sintetizzare il suo piano d’azione. «È ovviamente difficile, si parla di un universo sterminato, dalla scuola dell’infanzia alla ricerca post universitaria. Prima di tutto semplificazione degli aspetti procedurali che spesso sono ostacolo e non strumento. E poi massima concentrazione sui risultati, mettendo da parte l’ossessivo accanimento sulle procedure. Insomma: poche regole ma chiare, e attenzione ai principi valoriali». Bello slogan. Ma intanto le scuole italiane cadono a pezzi. Non metaforicamente. Si parla di muri, di strutture reali. «Non ho l’abitudine di scaricare sulla politica tutte le responsabilità, ma se un tema non viene percepito come essenziale per il Paese, questi sono i risultati. Questo governo ha invece proprio la scuola al centro della propria azione. Lo ha annunciato il presidente Renzi…». Ma per ora sono, appunto, degli annunci. Parliamo di cifre. «Le cifre ci sono e il ministero è pronto ad agire. In ogni Paese civile la scuola deve avere agibilità, sicurezza, dignità e decenza. Movimenteremo un miliardo di euro: 150 milioni di euro sono già stanziati. Sono in calendario 700 interventi e abbiamo prorogato fino al 30 aprile i termini per la presentazione delle domande. C’è una lista di circa 2.000 interventi immediatamente cantierabili per circa 320 milioni. Poi, attraverso l’Inail, potremo contare su ulteriori 300 milioni: saranno mutui per la messa in sicurezza, la prevenzione del rischio sismico, l’adeguamento energetico. Infine, grazie alla Banca europea degli investimenti e la Cassa depositi e prestiti, sono in vista altri finanziamenti per ristrutturazioni e messa in sicurezza per 40 milioni annui in un lungo periodo, fino alla somma di 900 milioni». Lei parla di dignità. E gli stipendi degli insegnanti così bassi? Gli scatti di anzianità sono in pericolo? «Ho detto e ripeto che gli insegnanti italiani avrebbero diritto a retribuzioni di livello europeo. Tagliare gli scatti di anzianità? Non ho detto questo, nessuno pensa a togliere uno strumento economico indispensabile in un sistema di fatto bloccato, significherebbe peggiorare le condizioni di vita dei docenti. Ma bisognerà pur trovare strumenti per valorizzare le migliori professionalità, la capacità di aggiornamento. La disponibilità ad assumersi responsabilità. Per il momento è un libro dei sogni. Dovremo approfondire la questione». Anche le sue dichiarazioni di sostegno alla scuola paritaria privata hanno aperto un dibattito. Sono stati stanziati 483 milioni. Così non si danneggia la scuola pubblica? «Non sono un Robin Hood al contrario, non me lo merito proprio... C’è di mezzo il Consiglio d’Europa che il 12 dicembre 2012 ha inviato all’Italia una raccomandazione per il rispetto del principio di uguaglianza e parità nella scelta educativa. Non mi metto certo a togliere risorse alle scuole statali per darle ai privati. Ma, questo sì, responsabilizzare le scuole paritarie, sapendo ben distinguere il grano dal loglio, garantendo alle famiglie una autentica libertà di scelta. Senza ideologie. In Italia c’è grande confusione tra il concetto di “pubblico”, che ha la sua radice nell’espressione pro-populo , cioè al servizio della comunità e che può anche essere privato, e quello di “statale”». Come vive le spettacolari visite nelle scuole di Renzi? Grillo è andato giù duro: «Sembri Mussolini»... «Grillo è uomo di spettacolo. Non era al centro della scena, sotto i riflettori, e così ha fatto il controcanto. Io penso che quando le istituzioni vanno tra la gente con semplicità e immediatezza, per confrontarsi in questo caso col mondo reale della scuola, quindi insegnanti e famiglie, è sempre un bene. Faccio io una domanda: qualcuno ha da obiettare quando vede le stesse scene con Barack Obama o David Cameron?». E l’inno dedicato a Renzi a Siracusa? Non era eccessivo? «Io ero impegnata in Aula e non ho potuto accompagnare il presidente del Consiglio ma in qualunque scuola, quando arriva il sindaco o un’altra autorità locale, si preparano festeggiamenti simili. Hanno fatto lo stesso con Renzi. Trovo bello che i bambini abbiano un forte senso delle istituzioni». Il suo ministero risente, come gli altri, di continui cambi di vertice. Non è dannoso per la scuola che ogni ministro voglia lasciare la propria impronta cambiando tutto? «Io non sono afflitta dalla sindrome della continua rivisitazione del già fatto, non ho questa patologia... Nemmeno penso che scuola e università abbiano oggi bisogno, in Italia, di una grande riforma che scardini ancora una volta il sistema. Penso invece, come dicevo all’inizio, che ci sia massima urgenza di principi valoriali, di semplificazione, di poche ma chiare regole, di attenta valutazione dei risultati». Lei viene dall’università, dove lavora da anni. Non rischia di sapere troppo poco di scuola primaria o secondaria, dove ci sono grandi difficoltà didattiche e organizzative? «Prima risposta. Io ho l’abitudine di studiare a fondo ciò che non conosco. Seconda risposta. Mi sento, e sono, un ministro politico e non tecnico. Intendo esercitare al meglio questo mio ruolo. Il governo Renzi ha una forte impronta politica, grazie anche alla presenza di segretari di partito, e io sono tra loro. E un governo deve mettere la propria faccia politica sulle scelte essenziali. Soprattutto in settori chiave come il mio, che riguarda la vita delle famiglie e il futuro delle nuove generazioni». Paolo Conti ____________________________________________________________ L’Unità 7 Mar. ’14 UNIVERSITÀ, IL MINISTERO E I CONCORSI A FOTOGRAFIA Alessandro Figà Talamanca Matematico SIAMO IN REGIME DI BLOCCO DEL RECLUTAMENTO UNIVERSITARIO, MA QUALCHE CONCORSO VIENE ANCORA BANDITO. Si tratta di concorsi a posti di «ricercatore a tempo determinato» una nuova figura che, secondo la recente riforma dovrebbe costituire il canale principale di reclutamento dei giovani alla carriera universitaria. I concorsi dovrebbero essere aperti a tutti i giovani qualificati, ma molti professori, con il consenso delle università e del ministero hanno trovato il modo di riservarli a priori ad alcuni predestinati. Lo strumento è ben noto, si tratta del cosiddetto «concorso a fotografia» per il quale nel bando viene disegnato un «profilo» del futuro vincitore che corrisponde esattamente al profilo scientifico del predestinato, ad esempio corrisponde al titolo e all'argomento della sua tesi di dottorato. Questa pratica furbesca che consente di prescindere dal merito scientifico dei concorrenti è talmente ben nota che la legge la proibisce esplicitamente. La legge 240 del 2010 stabilisce che un eventuale «profilo» può essere specificato «esclusivamente tramite indicazione di uno o più settori scientifico disciplinari», per fare un esempio si potrà specificare che il candidato debba essere un esperto di «Probabilità e statistica matematica» ma non necessariamente un esperto di «Processi di diffusione negli spazi ultrametrici». I bandi che non rispettano la legge dovrebbero essere censurati dal ministero, ma questo non avviene; anzi il ministero stesso incoraggia questo tipo di bando consentendo la descrizione del profilo nel sito ufficiale del ministero. La violazione della legge potrebbe essere eliminata attraverso il ricorso di un candidato ai Tribunali amministrativi, ma i ricorsi costano e nessuno può garantire che il ricorrente che ottenga dal tribunale la cancellazione del «profilo» dal bando, risulti poi vincitore. Complice il ministero si sta diffondendo quindi una prassi illegale che può portare solo danni al sistema universitario. Naturalmente le scuse per violare la legge sono molte, ma tutte legate a una caratteristica negativa del sistema universitario e scientifico in Italia e cioè la sua struttura gerarchica, che prevede che gli argomenti e la direzione della ricerca siano indicati da un anziano «grande capo», mentre i giovani nell'età più creativa vengono mantenuti in una situazione di dipendenza. Secondo questa prassi il posto di ricercatore appartiene quindi ad un «grande capo» che ha diritto di scegliersi il «collaboratore». Localismo e nepotismo, i mali dell'università italiana sono casi estremi di questa assurda prassi. ____________________________________________________________ Avvenire 4 Mar. ’14 REGOLE FALSATE ALL'ABILITAZIONE: UNIVERSITÀ ANCORA PENALIZZATA Caro direttore, in questi giorni la frenesia è di casa nel mondo accademico. Difatti stanno venendo fuori poco a poco i risultati della prima tornata del concorso di Abilitazione scientifica nazionale (Asn) partito nel 2011 e relativo al 2012, che abilita (o meno) i candidati alla docenza universitaria sulla base dell'impatto scientifico della ricerca effettuata. Si era detto e voluto che attraverso la riforma Gelmini dell'Università si sarebbe dato il via al reclutamento dei docenti con criteri oggettivi, che sarebbero dovuti andare in deroga a favoritismi di ogni sorta, che spesso venivano invocati come vizio dei concorsi fatti in precedenza sulla base di giudizi qualitativi, che erano puramente soggettivi e a discrezione dei commissari. Si era pensato che attraverso le mediane calcolate sulla base dell'impatto della produzione scientifica dei candidati comparativamente ai prodotti della ricerca dei docenti di I e II fascia, si sarebbe ovviato al giudizio ad personam. Anche se va detto che una volta ottenuta l'abilitazione non sarebbe stato automatico l'ottenimento della docenza, in quanto è necessario che gli abilitati si presentino ai concorsi locali per essere questa volta sì giudicati qualitativamente e comparativamente. Le commissioni nell'ambito dell'Asn avrebbero avuto il compito di garantire il controllo dell'adeguatezza della ricerca e delle relative pubblicazioni al settore concorsuale, l'apporto del candidato ai lavori. Ma in corso d'opera il ministro Profumo cambiò le regole del gioco, nel senso che se prima si era scritto che era condizione necessaria e indispensabile per avere l'idoneità all'Asn il superamento delle mediane (solitamente 2 su 3), si è poi scritto che il superamento delle mediane non poteva essere più la conditio sine qua non dell'idoneità. Insomma, l'intento della riforma è stato stravolto. Ne è scaturito un gran polverone che di certo non è salutare per l'immagine della nostra Università. Anche in questo caso le lobby sono state più forti e hanno riportato la situazione allo stadio precedente, addirittura peggiorando il quadro generale. E ora si aspetta una paralizzante stagione di ricorsi. Anche perché, nel leggere alcuni giudizi, si ravvisano non solo disparità, ma anche valutazioni qualitative, offensive e comunque inopportune, come quando si emette il giudizio su un candidato che si muove su un orizzonte paradigmatico cattolico e si afferma che «poiché gli studi ... del candidato sono impostati con una metodologia scolastica e dottrinaria, la valutazione generale rischia di essere criticabile come mossa da pregiudizi culturali». L'Asn sta facendo emergere tutto questo e molto di più, costringendo a interrogarsi seriamente sulla sorte della nostra Università. Si attendeva aria nuova, ci si ritrova ancora una volta a dire nihil novi sub sole. Maurizio Soldini, Roma Università "La Sapienza" ______________________________________________________________ Repubblica 2 Mar. ’14 UNIVERSITÀ, BEFFA PER GLI ASPIRANTI PROF: "TROPPO SPECIALIZZATI, VI BOCCIAMO" Decine di esclusi eccellenti in rivolta: "Favoriti i parenti dei baroni" di GIOVANNI VALENTINI Il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini (ansa)ROMA - Mentre Matteo Renzi pensa di ricostruire l'Italia dalla scuola, qualcun altro vuol finire di distruggerla all'università. Una pioggia di ricorsi amministrativi s'è abbattuta sull'ultimo concorso per l'Abilitazione scientifica nazionale 2012-2013 per professori ordinari e associati che prelude poi a quella didattica con la chiamata e l'assunzione in ruolo. È una montagna di carta bollata che minaccia ora di provocare una valanga di annullamenti o di revisioni, sconvolgendo la vita già travagliata dei nostri atenei. Nell'ambito della controversa riforma Gelmini, il ministero della Pubblica istruzione aveva disposto una nuova procedura di abilitazione, introducendo la meritocrazia come principale criterio di valutazione. Questa avrebbe dovuto fondarsi su elementi trasparenti e oggettivi, definiti "bibliometrici", forniti dalla produzione scientifica di ciascun candidato nei rispettivi curricula: cioè monografie, articoli o citazioni pubblicati da riviste specializzate. Ma successivamente sono stati inseriti criteri aggiuntivi, del tutto discrezionali, in forza dei quali le commissioni di valutazione hanno ribaltato le graduatorie, suscitando anche alcune interrogazioni parlamentari. La pietra dello scandalo che ha consentito di modificare l'ordine di merito si chiama "sottosettorialità". E già il termine, criptico e ambiguo, la dice lunga sulla sua pericolosità. Questo parametro variabile ha consentito alle commissioni di stabilire arbitrariamente quali lavori possono essere considerati "sottosettoriali", e quindi di minor rilevanza o interesse, per correggere in negativo il giudizio sull'idoneità di questo o di quell'aspirante professore. Fatto sta che molti candidati bocciati avevano ottenuto valori più alti di quelli promossi: per alcune discipline, la discriminazione ha toccato addirittura il 75%. E contemporaneamente è riemerso anche un vizio antico del nostro mondo accademico: i figli dei "baroni", vale a dire dei cattedratici più anziani e autorevoli, sono risultati tutti idonei indipendentemente dal livello della loro produzione scientifica. Dall'illusione della meritocrazia, l'università italiana è ripiombata così nella realtà della parentopoli più abusata e brutale. Il caso più clamoroso è quello di Medicina e in particolare di Ortopedia con oltre cento candidati. Nel settore disciplinare delle "Malattie dell'apparato locomotore", denominato 06 F4, i cosiddetti sottosettori sono stati variamente interpretati come distretti anatomici (spalla, gomito, anca, ginocchio, caviglia ecc. ecc.) oppure come ambito di ricerca (scienza di base, traumatologia, oncologia, traumatologia sportiva, patologia degenerativa, ortopedia pediatrica eccetera). Così il concorso per titoli s'è trasformato in una sorta di lotteria che, secondo un'analisi statistica dei risultati, ha premiato gli autori di pubblicazioni che avevano un valore medio di gran lunga inferiore a quello di diversi candidati giudicati "non idonei". Nel sito del ministero, con un po' di pazienza si possono verificare i titoli di ciascun candidato. Vi sono storie professionali di medici noti e affermati: uno nella chirurgia della spalla o del ginocchio e l'altro nel trattamento delle lesioni delle cartilagini, sono stati valutati negativamente dalla commissione proprio a causa di quella "sottosettorialità", ovvero specializzazione, che ha permesso loro di eccellere in un determinato campo di ricerca. A citare qualche nome, a titolo di esempio, è un illustre cattedratico come il professor Andrea Ferretti, primario all'ospedale Sant'Andrea di Roma e già medico della Nazionale di calcio: Alessandro Castagna di Milano (spalla); Stefano Zaffagnini (ginocchio) ed Elisabetta Kon (cartilagini), entrambi di Bologna. "Quest'ultima - dice Ferretti - è una vera scienziata, un'autorità in campo internazionale. Ma tengo a precisare che nessuno dei tre fa parte della mia scuola". E aggiunge: "A parte la Medicina e il nostro settore, questo concorso non fa onore all'intera università italiana". I ricorsi presentati alla giustizia amministrativa puntano in genere sulla tesi che quello della "sottosettorialità" può anche essere un criterio complementare, ma non l'unico per valutare la produzione scientifica di un candidato. I commissari, inoltre, avrebbero dovuto specificare preliminarmente come sarebbe stato interpretato e applicato, per mettere i candidati in condizione di integrare o eventualmente ritirare la domanda. A ogni modo, qualunque sia stato il parametro di valutazione, i ricorrenti sostengono che nel complesso "non sono stati espressi giudizi uniformi". Per paradosso, insomma, in un concorso del genere anche un Premio Nobel avrebbe rischiato di essere respinto. E a partire dall'Ortopedia, è proprio il caso di dire che ancora una volta l'università ne escecon le ossa rotte. ____________________________________________________________ Repubblica 5 Mar. ’14 SPARISCA PER FAVORE" BUFERA SUI GIUDIZI ALLE ABILITAZIONI-TRUFFA Nuove accuse ai commissari: "Offese grafilite" CORRODO ZUNINO ROMA—Quel carrozzone dell'abilitazione nazionale scientifica —la grande prova, 59 mila candidati, che sta scegliendo chi è meritevole di prendere una cattedra universitaria domani— snocciola un nuovo scandalo: i giudizi alla Bastianich. Così sono stati titolati nel mondo dell'architettura, alludendo alla perfidia gratuita di uno dei conduttori della trasmissione Masterchef, i pareri della commissione "Progettazione architettonica". I giudizi accademici, però, non fanno audience e umiliano candidati (anche sessantenni) che l'architettura vorrebbero insegnarla in facoltà. I verbali dei cinque commissari di Progettazione, oltre a zoppicare in italiano, regalano considerazioni maligne, incisi grevi, battute sarcastiche. Non si era mai visto in un bando universitario. Gli autori dei siluri da bando sono docenti della Seconda università di Napoli, curatori del Museo Mai di Roma, presidi della facoltà di Architettura di Valle Giulia, ordinari della scuola politecnica di Losanna, architetti associati abituati a lavorare nel Nord Europa. Docenti qualificati, ecco. Magari, in alcuni casi, presupponenti, esteticamente naive, forse frustrati. Tutti insiemesi sono divertiti — è tutto pubblico, archivio Cineca a scrivere commenti di questo tipo: «La candidata non è scema, ha dimestichezza con la scena internazionale e rivela curiosità». Sì, «non è scema». Ancora: «Le pubblicazioni ci offrono la possibilità di avvicinarci alla produzione progettuale del candidato (e non è una bella esperienza)... Indimenticabili i testi di Molinari e Garofalo sulle opere di Saito. Sparisca per favore». Scritto di pugno da un commissario. Diffuse le ironie. «Con il dovuto terrore per una posizione davvero poco interessata a ciò che accade attorno all’architettura il candidato è abilitabile». Poi: «Le pubblicazioni sono interessanti e pericolose al tempo stesso soprattutto se le si pensa in mano a studenti in formazione». Sono un po' più di studenti, in verità, i candidati che la commissione si è trovata davanti, eppure scrivono di loro: «Candidato in via di formazione (si spera). Abilitazione: no». Oppure: «È ricercatore dal 2011 alla Sapienza. I suoi interessi variano (sbandano?) tra l'architettura romana tra le due guerre, la pianificazione e il patrimonio». Alcuni giudizi sono freddure. «Le pubblicazioni vertono in gran parte sull'argomento (non solidissimo dal punto di vista scholarly) della tesi di dottorato e sulle sue derivazioni, vale a dire "la linea di terra" (anche se non stiamo parlando di sicurezza negli impianti elettrici)». Nei verbali ci sono diverse considerazioni non richieste sull'anima dei candidati: «Ha una specializzazione molto settoriale, che sembra una sorta di condanna ad esercitare un credo a tutti i costi». E critiche esplicite al malcostume universitario: «Molte pubblicazioni sono raccolte di lavori didattici degli studenti pubblicati con contributo dell'università. Ma com'è possibile che in un paese così "povero" ci siano a disposizione nelle facoltà tanti soldi per pubblicare lavori di studenti e qualsiasi altra cosa venga in mente a un docente? Non abilitata». La commissione Masterchef ha attaccato, via concorso, anche colleghi più affermati: «Le pubblicazioni pullulano di detriti portoghesiani e subportoghesiani, la stessa candidata confessa la difficoltà di uscire dall'ombra del Maestro (cui concede la maiuscola!)». A "Progettazione architettonica" solo il venti per cento è stato abilitato. Sotto le forche caudine dei commissari battutisti sono caduti progettisti come Beccu e Raimondo autori dell'Auditorium di Firenze e del Museo dei Bronzi di Riace, poi Peluffo e Femia (Palazzo del cinema di Venezia), Alessandra Segantini (Uffici giudiziari di Venezia), Vincenzo Corvino (restauro del Pirellone di Milano). L'Associazione italiana di architettura e critica parla di una commissione sessista e maschilista, «che non rispetta la dignità delle persone giudicate e squalifica l'università italiana». Il professor Sergio Pace del Politecnico di Torino cita Bombolo e Cannavale. Una lettera plurifirmata chiede al ministro dell'Istruzione di fermare tutto. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 28 Gen. ’14 ISTRUZIONE DI QUALITÀ PER SALVARE LE UNIVERSITÀ DELLA SARDEGNA di ANDREA MONTELLA Direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Sassari E’ auspicabile che, nonostante il poco tempo che ci separa dalle elezioni regionali, i candidati alla carica di governatore trovino il tempo per un confronto sulla Scuola e sull’Università. E che fossero anzi gli studenti, attraverso le loro associazioni, tra Cagliari e Sassari, a sollecitare l’iniziativa. Questo perché non si può parlare di futuro, di sviluppo della Sardegna, senza affrontare il nodo cruciale dell’istruzione e della formazione. Sono ben note le posizioni non lusinghiere dell’Italia per la diffusione dell’istruzione universitaria: nel 2012, secondo il rapporto Eurostat, nel nostro paese interessava solo il 21,7 per cento dei soggetti con una età compresa tra i 25 e i 34 anni. Un dato che ci colloca al penultimo posto in Europa - davanti solo alla Turchia - e ben lontani dal target del 27 per cento di laureati che viene posto dall’Ue. In Sardegna la situazione è ancora peggiore: l’accumularsi degli effetti del calo demografico e della crisi economica è all’origine della riduzione degli iscritti negli atenei sardi. Peraltro, le proiezioni di popolazione, uno strumento da cui l’Università non può prescindere nel programmare la propria azione, lascia intravvedere uno scenario di impoverimento demografico: ed è una preoccupante realtà la fuga dei giovani che lasciano la Sardegna per studiare altrove, facendo venir meno forze vive e risorse d’intelligenza. Quali iniziative e rivendicazioni avanzare perché le politiche ministeriali non penalizzino gli Atenei delle aree più deboli e non allarghino la forbice tra aree forti e aree deboli, favorendo l’emigrazione studentesca da queste ultime? E come consolidare, per il futuro, i risultati ottenuti nella soddisfacente collaborazione tra le due Università di Cagliari e Sassari con la Regione? Al di là dello schieramento politico che andrà al governo della Regione, si dovrà lavorare per continuare su una strada che ha aperto nuove prospettive e ha portato a raccogliere un confortante successo nel migliorare la qualità della ricerca e della didattica e nell’aprirsi all’internazionalizzazione. Una strada che può allontanare l’ipotesi di un’Università "federata" della Sardegna, ipso facto sostenibile ed efficiente. Una cosa è certa. L’Università deve produrre, con i propri ricercatori/docenti, attività di ricerca riconoscibili e valutabili in un sistema nazionale e internazionale competitivo, come quello del mondo di oggi. Essere competitivi è indispensabile per ottenere una adeguata quantità di fondi pubblici, in un sistema che attribuisce una quota del finanziamento in relazione ad una serie di indicatori di performances accademica, rappresentativi anche della qualità della ricerca e della didattica. Se vogliamo che gli atenei sardi possano continuare la loro storia di secoli bisogna essere capaci di attrarre più studenti, più studenti sardi e se possibile anche studenti dalla penisola e dalle coste del Mediterraneo. Come? Dovremo mettere in campo idee e progetti. Ma, intanto, dobbiamo orientare e convincere sia gli studenti, sia i loro genitori, che l’università sarda è prima di tutto concepita per dare loro il miglior servizio possibile con le risorse disponibili. L’offerta formativa, in particolare deve essere di qualità, sostenibile negli anni ed adeguata alle richieste del mercato del lavoro e con una visione ampia. E con riferimento agli studenti, l’università oggi deve saper incarnare il ruolo di luogo di studio e di incontro con la conoscenza, laddove la conoscenza viene prodotta. I problemi sul tappeto sono tanti. E nessun momento come questo sembra più propizio per discutere dell’Università che vogliamo. ____________________________________________________________ Unione Sarda 29 Gen. ’14 IL PIANO DEI RETTORI PER RILANCIARE L'UNIVERSITÀ Un piano quinquennale per i ricercatori che preveda l'assunzione di duemila nuovi studiosi all'anno e ringiovanisca così il corpo docente: è uno dei 18 punti per la nuova Università contenuti nel documento approvato dalla Conferenza dei rettori italiani. Ai lavori ha partecipato anche quello di Cagliari, Giovanni Melis. «Il nostro Paese non può più trascurare le sue Università», si legge nel documento della Crui, che ruota attorno a quattro parole: autonomia, competitività, finanziamento e semplificazione, «proprio nel momento di avvio del programma Horizon 2020 e alla vigilia del rinnovo del Parlamento europeo». La Crui chiede anche la previsione del credito di imposta per la creazione di nuove imprese, il riconoscimento del titolo di dottore di ricerca sia nella Pubblica amministrazione che all'interno delle imprese, e la riduzione del cuneo fiscale sul modello di quanto accade in Olanda con gli “High skills workers”, le assunzioni che danno diritto a particolari benefici contributivi. ____________________________________________________________ TST 5 Mar. ’14 RIVOLUZIONE ALL'UNIVERSITÀ C'È LA RICETTA A STELLE E STRISCE Dalla scelta dei prof alla destinazione dei fondi, come portare un po' d'America in Italia GEORGE WASHINGTON UNIVERSITY NATIONAL INSTITUTES OF HEALTH GEORGE WASHINGTON UNIVERSITY NATIONAL INSTITUTES OF HEALTH Siamo una scienziata e un'amministratrice di fondi governativi per la ricerca a Washington, entrambe laureate in biologia in Italia. Rappresentiamo un gruppo di italiani negli Stati Uniti e in Canada che, ispirati da carriere in Paesi dove l'innovazione e la ricerca sono il motore dell'economia, stanno elaborando alcune proposte di riforma per l'università e la ricerca in Italia. Tra i temi su cui il «Gruppo Università e Ricerca» sta lavorando vorremmo sottolineare tre punti che crediamo fondamentali e che dovrebbero essere il punto d'approdo di un percorso di trasformazioni che richiederà tempo e impegno. 1) L'università assuma chi vuole e sia responsabile delle assunzioni. In Nord America ogni università statale o privata sviluppa un piano strategico che definisce le offerte didattiche e le linee di ricerca su cui investire e ottenere finanziamenti. Se un dipartimento riceve fondi per ampliare la didattica o la ricerca, il reclutamento di nuovi professori si basa non solo sulla produttività passata del candidato (il curriculum); ma viene realizzato in base ad una proposta quinquennale, in cui il candidato descrive i corsi e i progetti di ricerca che svilupperà. La valutazione della performance del professore assunto del dipartimento è poi continua e determina gli scatti di livello. Le regole sono chiare e, se un dipartimento assume persone non valide, il successo nell'ottenere fondi di ricerca declina e con questo la sopravvivenza del dipartimento stesso, poiché il budget sarà minore. L'università italiana ha già cominciato a muoversi verso una realtà più meritocratica e programmatica, ma su questa traiettoria ora si devono fare passi più audaci. Molti auspicano di eliminare concorsi e abilitazioni nazionali. Noi proponiamo che i dipartimenti scelgano autonomamente i propri membri in base ad un piano programmatico reso pubblico. Questo radicale cambiamento ha senso solo se il dipartimento che assume si prende la totale responsabilità di rendere conto della propria scelta, perdendo prestigio e fondi nel caso in cui il candidato non è produttivo. Inoltre, previo un doveroso aumento del Fondo di finanziamento ordinario che sostiene gran parte dell'attività universitaria, la sua percentuale di “quota premiale” (in base alla produttività passata) potrebbe anche essere assegnata sulla base di progetti futuri. La quota, però, dovrebbe essere aumentata ben oltre il 16% attuale. Il conferimento di fondi ai dipartimenti in base all'attività dei propri professori diventerebbe così sostanziale e di stimolo, senza ingarbugliarsi tra rigidi parametri bibliometrici. Così si creerebbe un circolo virtuoso, in cui le scelte di programma portano a risultati tangibili, e sarebbe interesse dell'università stessa assumere solo i migliori. 2) La gestione della ricerca sia trasparente e comprensibile a tutti. Gran parte del lavoro del ricercatore è comunicare i propri risultati agli altri scienziati, ma negli Usa è routine rendere conto anche alle agenzie di finanziamento e al pubblico, cioè ai contribuenti. Le procedure di richiesta di finanziamenti seguono un iter definito. Sono guidate da funzionari governativi con un dottorato, che gestiscono il portafoglio di finanziamenti per aree tematiche, consigliano i proponenti e scelgono revisori ad hoc. Come già proposto dall'ex ministro Carrozza, queste figure professionali sono necessarie anche in Italia, dove le proposte spesso finiscono in un buco nero, da cui escono accettate o rifiutate. Dopo l'assegnazione dei fondi, poi, particolare attenzione dovrebbe essere dedicata al comunicare, al pubblico i risultati della ricerca. Sarebbe quindi auspicabile un portale online accessibile a ogni cittadino, con l'elenco delle scelte programmatiche dei ministeri o degli enti finanziatori, la lista dei fondi, l'ammontare e una descrizione del progetto comprensibile a chiunque. 3) Si promuova la mobilità. L'esperienza in altri Paesi (europei e non) dimostra che la possibilità di cambiare università è un'arma potente ed efficace per sviluppare nuove idee ed evitare conflitti di interesse. Questa mobilità è praticata volontariamente ed è implicito che dopo il dottorato si prosegua la carriera al di fuori dell'ateneo dove lo si è ottenuto. Gli, scambi promuovono l'indipendenza intellettuale dei giovani scienziati e la condivisione di competenze tra gruppi di ricerca. Alcune di queste consuetudini potrebbero essere incoraggiate anche in Italia attraverso un'estensione della «portabilità» dei fondi di ricerca a tutti i finanzi amenti (il principio per cui li si può portare con sé, indipendentemente dall'istituzione in cui si opera): il tutto in linea con l'ottima iniziativa del ministero italiano dell'Istruzione nel bando «Sir» (Scientific indipendence of young researchers») per lanciare la carriera di giovani ricercatori. Università e ricerca sono potenti motori di crescita culturale ed economica e ci auguriamo che il nuovo governo di Matteo Renzi introduca con energia questi temi nel suo programma ____________________________________________________________ L’Unità 2 Mar. ’14 LAVORO VIETATO AI DOTTORANDI: RIVOLTA A BOLOGNA COMASCHI Ricerca per ricchi lavoro vietato per i dottorandi L'ateneo di Bologna applica un decreto del ministro Profumo sull'incompatibilità fra attività post laurea e contratti lavorativi di ogni genere • Così fa carriera solo chi ha i soldi di famiglia Pateracchio all'italiana» lo definisce il prorettore Vale anche per i ricercatori senza borsa di studio ADRIANA COMASCHI acomaschi@unita.it O il dottorato o la vita. Ovvero la ricerca da una parte e la possibilità di mantenersi dall'altra. Questo è il dilemma, secco e senza alternative, davanti a cui potrebbero trovarsi migliaia di dottarandi italiani e che è già realtà per i vincitori dei bandi dell'ateneo di Bologna. Compresi quelli che hanno un posto di dottorato ma non la borsa di studio: anche per loro niente più possibilità di lavorare mentre fanno ricerca, che si tratti di impieghi part time o a partita Iva. L'Alma Mater però obietta di non avere scelta, ha solo recepito le novità del decreto 45 emanato dall'allora ministro Francesco Profumo. Un testo che, se non emendato, rischia di fare dell'istruzione post laurea una faccenda di censo, corsi da pochi intimi per chi abbia una famiglia alle spalle disposta e soprattutto in grado di sostenerli economicamente per i tre anni di dottorato. Quello che persino il prorettore alla ricerca dell'ateneo bolognese Dario Braga bolla come un «pateracchio all'italiana» esplode in sordina. A febbraio 2013 il Dm 45 all'articolo 12 stabilisce che «l'ammissione al dottorato comporta un impegno esclusivo e a tempo pieno», e basta l'aggettivo «esclusivo» a ribaltare la vita di chi pur avendo scelto la strada della ricerca deve fare quadrare i conti a fine mese. In pratica, si stabilisce l'incompatibilità tra attività di dottorato (che pure non hanno orario fisso) e contratti lavorativi di qualsiasi genere: quasi fosse una vocazione spirituale, chi firma per un dottorato rinuncia a ogni altro impegno. Una svolta che cozza contro la realtà: facile immaginare che sia impossibile mantenersi senza borsa di studio e senza un lavoro "parallelo", ma anche chi incassa dall'ateneo il contributo di 1095 euro al mese per i più alti in graduatoria già oggi è costretto ad arrotondare, i medici ad esempio fanno pratica con guardie notturne ed attività clinica. Il decreto in questione, ricorda l'ateneo bolognese, doveva però essere recepito dalle università entro 45 giorni. L'Alma Mater lo fa modificando il proprio Regolamento il 7 luglio dello scorso anno. Le conseguenze però non si notano subito. La novità interessa infatti i bandi di dottorato emanati dopo quella data, dunque quelli della seconda parte del 29° ciclo i cui vincitori - tra le 350 e le 400 persone, di cui la metà senza borsa - cominciano la propria attività più o meno a gennaio 2014. È allora di recente che i singoli Dipartimenti bolognesi cominciano a contattare i diretti interessati facendo loro presente un aut aut, che quasi nessuno aveva considerato. IL BIVIO DI ALBERTO Come succede ad Alberto, ingegnere trentenne e dottorando senza borsa. «Un lavoro ce l'ho, ma volevo fare ricerca per interesse e per acquisire nuove competenze. Spendo almeno 800 euro al mese, senza lussi, ne guadagno 1200 - racconta -: come potrei rinunciare allo stipendio, visto che l'università non mi dà nulla? È fuori discussione, di questi tempi poi. Ma se ora mi costringono a lasciare il dottorato avrò pagato 600 euro di tasse annuali per niente. Questa è una vera assurdità burocratica, non si sono resti conto di cosa avrebbe provocato». La Flc Cgil di Bologna raccoglie e rilancia l'allarme dei ricercatori, messi con le spalle al muro. È chiaro che i più penalizzati saranno i titolari di dottorato senza borsa, «così di fatto i meno abbienti per quanto meritevoli verranno tagliati fuori dai bandi - accusa la segretaria Francesca Ruocco l'Alma Mater è stata troppo solerte e rigida nell'interpretazione del Dm 45, chiediamo che l'applicazione di questo criterio sia sospesa in attesa di un intervento del Miur». Braga non ci sta però a giocare la parte più sgradita della commedia. LA DIFESA DELL'ATENEO «Non è questione di solerzia o di interpretazione, l'Alma Mater ha l'abitudine di rispettare le leggi. Se qualche ateneo ha tardato a recepire il Dm 45 questo non cancella i problemi - ribatte dunque il prorettore alla Ricerca -, quel testo apre la strada a fior di ricorsi da parte di chi magari si è visto scavalcare nella graduatoria del bando da un ricercatore che poi risultasse titolare di un contratto di lavoro. E comunque avevo segnalato all'ex ministro Carrozza che con il Dm 45 si varava un'operazione di censo». Braga anzi rincara la dose, «dò ragione a questi ricercatori, credo che si sia varato un testo senza considerarne bene le conseguenze, la questione è anzitutto politica e si può riassumere nell'idea che il dottorato debba essere pagato da mamma e papà». Un calcio insomma al modello di università aperta a tutti, che piaccia o meno dovrebbe essere quella proposta oggi in Italia. E un autogol clamoroso, per chi davvero voglia puntare sulla ricerca come fattore di crescita anche economica del sistema Paese. L'Adi (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca Italiani) sollecita il rettore Ivano Dionigi a intervenire sul Regolamento «sostituendo ai vincoli formali dei vincoli sostanziali: si valutino i dottorandi, senza e con borsa, in base alla produzione scientifica». L'Alma Mater per ora non torna indietro e rimanda la palla al governo, «il neo ministro Stefania Giannini come ex rettore non dovrebbe faticare a cogliere il problema - nota Braga la Commissione di studio sul Dottorato di ricerca nella sua relazione boccia già l'articolo 12 del Dm 45». ____________________________________________________________ Espresso 13 Mar. ’14 COME FERMARE A FUGA DEI LAUREATI Venticinque anni fa a lasciare l'italia, spinti dal desiderio di continuare a studiare oltre ai limiti di quello che l'università italiana poteva offrirci, eravamo in pochi. Pianificavamo tutti di tornare, anche se poi per molti le cose sono andate in altro modo. Oggi ad emigrare sono in tanti (vedi l'inchiesta sul numero scorso de " l'Espresso" ). Non solo per ricerca, ma per lavoro, per ottenere quelle prospettive di carriera che sono negate loro nel nostro Paese. È una fuga che si preannuncia senza ritorno. Perché quella che era una goccia si trasformata in un fiume in piena? PARADOSSALMENTE, uno dei motivi è l'integrazione europea. La libertà di movimento e di lavoro all'interno dell'Unione europea facilitano la migrazione.. Ma è la stessa integrazione monetaria a rendere la migrazione necessaria. Prima della moneta unica, quando solo alcuni dei Paesi dell'eurorozona erano colpiti dalla recessione, la differenza tra domanda ed offerta di la voro in questi Paesi veniva risolta con un aggiustamento dei tassi di cambio o con una politica monetaria differenziata, che stimolasse la domanda di lavoro nei Paesi in recessione e la raffreddasse nei Paesi in boom. Oggi che c'è una moneta e una politica monetaria comune per l'eurozona l'unica forma di aggiustamento possibile di fronte a shock asimmetrici è la migrazione. Da questo punto di vista la migrazione è un bene perché riduce la caduta dei sala necessaria per riassorbire la disoccupazione in Italia e riduce l'inflazione che la domanda di lavoro in Germania potrebbe produrre. Ma questa migrazione sembra avvenire in una direzione sola. Quando era il sud d'Europa in fase di boom, non molti tedeschi migravano a sud. Ora che è la Germania in fase di boom (almeno in termini relativi) sono tantissimi gli spagnoli, i greci, e gli italiani ad emigrare lì. Questa migrazione non è neppure equamente distribuita a diversi livelli di abilità. Migra la crema dei laureati, che sa le lingue ed ha una cultura che rende più facile l'adattamento in un Paese straniero. E migrano i muratori ed i gelatai che possono facilmente lavorare all'estero anche senza la piena conoscenza della lingua. Nel mezzo della distribuzione dei talenti, dove risiede la maggior parte della popolazione, la migrazione è difficile e permane la disoccupazione. La migrazione è anche il prodotto del nostro sistema pensionistico, che concede generose pensioni ai vecchi, finanziate con il prelievo sui giovani. A fronte dei loro contributi questi stessi giovani non riceveranno pensioni altrettanto generose. Si tratta a tutti gli effetti di un'imposta sui giovani. Quando si tassano le sigarette, il consumo di sigarette scende. Quando tassiamo i giovani lavoratori in Italia, dobbiamo forse stupirci se il numero di giovani lavoratori nel nostro Paese scende? MA LA FUGA DEI GIOVANI è dovuta soprattutto alla mancanza di prospettive che il nostro Paese offre alle nuove generazioni. Mia nipote, neolaureata in Farmacia a Milano, è andata in visita all'University of Illinois. È rimasta stupita non solo del livello di preparazione dei farmacisti clinici, ma soprattutto della diversa attitudine che gli anziani mostravano per i giovani. Quando c'è da prescrivere dei medicinali al paziente, il chirurgo chiede consiglio al farmacista, anche se ha metà dei suoi anni. I professori consigliano ed indirizzano i neolaureati, invece di rifuggirli quasi fossero delle pesti. I giovani di talento fanno carriera rapidamente e non solo per anzianità. Lei vorrebbe poter vivere e lavorare in Italia. Ma vorrebbe anche poter avere un lavoro retribuito e delle prospettive di carriera. È troppo chiedere entrambe le cose? In questo momento in Italia sembrerebbe di sì. A suon di proteggere tutti i diritti "acquisiti", abbiamo finito per lasciare i nostri giovani senza speranza. F. giunta l'ora di ridiscutere tali diritti, non per sostituirli con un giovanilismo disperato, ma per rimpiazzare all'anzianità il merito. Speriamo che il più giovane presidente del Consiglio della nostra storia sia in grado di effettuare questa trasformazione. Non solo per il bene della sua generazione, ma per quello di tutto il Paese. ____________________________________________________________ Il FOglio 08 Mar. ’14 DE DUVE: APOCALISSE DA NOBEL Simbolo dell'eutanasia belga, Christian de Duve credeva che l'uomo fosse un pericolo mortale per la terra. Si è ucciso di fronte ai figli di Giulio Meotti C hristian de Duve è morto come nel film di Georges-Henri Denys Arcand "Le invasioni barbariche", con una eutanasia celebrata accanto ai figli, tramite una iniezione letale. De Duve ha deciso di aspettare che un figlio rientrasse dagli Stati Uniti, "per morire circondato dalla famiglia". Così il premio Nobel per la Medicina del 1974 è diventato il simbolo dell'eutanasia del Belgio, paese pioniere nell'impartire la "dolce morte", adesso anche ai bambini. La figlia Anne ha descritto così l'eutanasia dello scienziato: "Sorrideva, ci diceva di non piangere, che era un momento felice, ci ha salutato". Era un party quello di De Duve e l'arcivescovo di Bruxelles, André Léonard, ha negato la cerimonia religiosa in chiesa: "Coloro che ricevono l'eutanasia in queste condizioni e le loro famiglie dovrebbero avere la delicatezza di non chiedere alla chiesa cattolica di organizzare una liturgia in un luogo di culto". I chiodi che trattenevano tutta la maestria scientifica di De Duve cadono all'istante quando scopriamo il drappo funebre appoggiato sulle vecchie spalle di questo pioniere della scienza novecentesca. Christian De Duve pensava che la sua scoperta sul cancro gli conferisse anche il diritto di pontificare su come e chi dovesse nascere. La sua eugenetica è una mandorla avvelenata dentro il guscio razionalista della scienza. Condita con tanto antropocentrismo sclerotico. Il primo ministro Elio Di Rupo ha definito De Duve "un uomo che ha consacrato tutta la vita al progresso dell'umanità, dando lustro al Belgio nel mondo". Eppure non è questo che emerge dal suo ultimo libro, scritto prima di morire, "Sept vies en une", quanto un grande odio per l'umanità. Secondo il premio Nobel per la Chimica del 1995, l'olandese Paul J. Crutzen, siamo entrati in una nuova era geologica, l'antropocene, quella in cui l'essere umano è la più grande minaccia contro la vita. La pensava così anche De Duve, convinto che il mondo fosse sul punto di implodere e che il pericolo mortale per la terra avesse un nome: uomo. "Se continuiamo in questa direzione sarà un disastro, l'Apocalisse", scriveva il Nobel. La scienza può fare qualcosa? "Essa non può aumentare la superficie della terra o le sue risorse. Il problema è la demografia. L'unica speranza che ha l'umanità per sopravvivere è quello di non continuare la sua espansione". E per dimostrarlo, De Duve portava l'esempio dei microrganismi nella capsula di Petri, una piastra con colonie di batteri e nutrienti. Poco prima di raggiungere le estremità della piastra e prima che si esauriscano i nutrienti, i batteri si moltiplicano in modo rapido e irrazionale. Poi, all'improvviso, muoiono. L'umanità appariva a De Duve come questa capsula di Petri. Alcuni anni fa, a Lindau, in Germania, De Duve fu salutato con una standing ovation per aver incitato il pubblico a controllare demograficamente il genere umano. Questo acerrimo avversario della chiesa cattolica aveva ricevuto una istruzione tutta cattolica, prima dai gesuiti, poi all'Università di Lovanio. "Dobbiamo fare qualcosa attraverso il controllo delle nascite", disse De Duve a Lindau. "Altrimenti il futuro dell'umanità e della vita sulla terra sarà seriamente minacciato, con la conseguenza di una totale estinzione". Secondo De Duve, "la specie di maggior successo in tutta l'evoluzione biologica è di gran lunga la nostra, a parte i microbi. Questo successo però ha dei costi". Eccoli: "Esaurimento delle risorse naturali; perdita della biodiversità; deforestazione e desertificazione; cambiamento climatico; crisi energetica; inquinamento; sovraffollamento delle città; conflitti e guerre". Idee che il belga De Duve mutua dal reverendo inglese Thomas Malthus, secondo cui gli uomini, come le piante o gli animali, sono capaci di sovra riprodursi, e se non regolano le dimensioni delle proprie famiglie, inevitabilmente le carestie, le epidemie e le guerre si incaricano di spazzare via le persone in sovrappiù. Se non si interverrà sul ciclo evolutivo, diceva il premio Nobel Christian de Duve, "raggiungeremo presto un punto di non ritorno verso l'estinzione". La soluzione? L'eugenetica. "Quel che scandalizza più di tutto nel progetto eugenetico originario è la distinzione che esso faceva fra portatori di 'cattivi geni' e, ancor dí più, i mezzi proposti per eliminare i soggetti geneticamente sfavoriti o, quanto meno, per impedire loro di procreare e propagare in tal modo le loro `tare'. Oggi è però concepibile un'altra forma di eugenetica che mira all'eliminazione o alla creazione di certi geni sfavorevoli che noi tutti abbiamo in comune, geni che un tempo furono adattativi o addirittura essenziali, per la sopravvivenza dei nostri progenitori, ma che sono diventati sempre più dannosi". Già nel suo primo libro, "Vital Dust: Life as a Cosmic Imperative" ("Polvere Vitale", Longanesi, 1998), De Duve sosteneva che "l'evoluzione biologica marcia a un ritmo accelerato verso una grande instabilità; si può dire in un certo modo che il nostro tempo ricorda una di quelle importanti rotture dell'evoluzione indicate come estinzioni di massa". Nel suo libro successivo, "The Genetics of Original Sin" (in Italia pubblicato da Raffaello Cortina), De Duve parlava di un mondo che sembra uscito da un quadro di Hieronymus Bosch: "Il mondo vivente è diventato inospitale: si perdono specie ogni giorno, l'energia e altre risorse sono in fase di esaurimento, l'ambiente si sta deteriorando, l'inquinamento è ovunque, il clima sta cambiando, gli equilibri naturali sono minacciati. In particolare, gli esseri umani vengono schiacciati dal loro stesso numero. Lo spettro di un olocausto nucleare è diventato pensabile. Vista l'urgenza del problema, le autorità politiche dovrebbero, con il sostegno delle autorità morali, prendere posizione a favore della limitazione delle nascite". Anche l'idea stessa di una procreazione naturale e libera se a favore dell'inseminazione artificiale: "Sostituire una scena razionale a questo gioco cieco sarebbe desiderabile". De Duve auspicava anche "il controllo sociale da parte di persone competenti". Una sorta di falansterio di "saggi". De Duve si espresse a favore della "sterilizzazione volontaria", possibile oggi per mezzo di interventi chirurgici semplici, come la legatura delle tube di Falloppio e la vasectomia. Si lamentava che poche persone vi facessero ricorso: "E' un peccato, perché la generalizzazione di questi interventi rappresenterebbe una risposta particolarmente semplice ed efficace al problema demografico". Elogiava l'omosessualità in quanto "è un'altra forma di sessualità che non comporta la riproduzione". E' vero che all'omosessualità non si comanda. "Ma un mondo più tollerante nei suoi confronti potrebbe tuttavia produrre un certo effetto". Allora, così stando le cose, "i modi più efficaci e sicuri per ridurre il numero degli esseri umani rimangono la contraccezione e, il più precocemente possibile, l'interruzione volontaria della gravidanza, ivi compresa la sua forma preventiva, la 'pillola del giorno dopo'. E' con questi mezzi che l'umanità può opporsi nel modo migliore all'espansione demografica". Ma non basta: "Questi mezzi non dovrebbero essere semplicemente tollerati, ma dovrebbero essere incoraggiati". De Duve stravedeva per forme di coercizione totalitarie: "La limitazione delle nascite dev'essere incoraggiata e il suo contrario punito, con misure finanziarie e fiscali. I poteri politici, con l'appoggio del massimo numero possibile di autorità morali, devono prendere attivamente posizione a favore di una limitazione rigorosa delle nascite, e incoraggiarla con un numero consistente di vantaggi e penalizzazioni, fondandosi sul fatto che, in media, perché la popolazione non aumenti, si può appena superare di poco il numero di due figli per coppia. Preservativi, spirali, diaframmi, pillole e altri mezzi contraccettivi dovrebbero essere messi gratuitamente a disposizione di tutti i cittadini sessualmente maturi, come anche l'assistenza medica necessaria per un'interruzione di gravidanza (in presenza di certe condizioni da definire) I sussidi familiari dovrebbero essere limitati al primo figlio. A partire dal terzo figlio si potrebbe addirittura assoggettare una famiglia a un'imposta, crescente col numero di figli che eccedono il numero di due". Contro il pericolo della sovrappopolazione, la più sterile e falsa delle moderne profezie scientiste, il famoso biologo di Stanford Paul Ehrlich proponeva di tassare i prodotti per l'infanzia: "Culle, pannolini, giocattoli, cibo per bambini". Poi di rendere ancora più facile l'accesso all'aborto, di varare campagne di sterilizzazione ("un programma di sterilizzazione delle donne dopo il secondo o il terzo figlio, nonostante la relativamente maggiore difficoltà dell'operazione rispetto alla vasectomia, potrebbe essere più facile da implementare rispetto al tentativo di sterilizzare gli uomini"). Secondo De Duve, "dovrebbero essere prese anche delle misure per favorire la sterilizzazione volontaria su vasta scala, soprattutto nei genitori che rischiano di superare la 'quota' autorizzata". Il celebre scienziato ammetteva che in questo c'era qualcosa di sinistro, efferato, totalitario. "Ma ci si deve inchinare alla logica dei numeri". Le tristi profezie di De Duve sono state tutte sconfessate: la popolazione mondiale ha superato i sette miliardi e il cibo è divenuto abbondante, l'acqua è di più e più pulita, la terra non è stata distrutta da glaciazioni e non c'è stata alcuna conflagrazione atomica fra stati, l'aspettativa media di vita è cresciuta ovunque in maniera esponenziale, la mortalità infantile è scesa, il reddito medio mondiale salito come la disponibilità di risorse. In pratica lo stato di salute dell'umanità e del mondo non è mai stato migliore, e persino in via di costante miglioramento. Ma il premio Nobel ha vinto la sua battaglia sull'eutanasia, trasformando la medicina in un quadro di Hieronymus Bosch. Senza mai nominare De Duve, alcuni giorni fa la studiosa americana Tracey Rowland ha scritto sul magazine Crisis: "Nel 2011 ho partecipato a una conferenza di teologia a Cracovia, e lì ho sentito un professore belga tenere un discorso all'Accademia polacca delle Arti e delle Scienze. Un'orazione travolgente a favore dei progetti della cultura della morte, eugenetica, eutanasia, tasse sui bambini. Il professore sosteneva che chi si oppone alla contraccezione dovrebbe essere condannato per un reato penale. Rimasi completamente scioccata che un simile discorso anti vita e totalitario potesse essere tenuto all'Accademia polacca a un paio d'ore di macchina da Auschwitz. L'accademico era stato educato dai gesuiti ad Anversa ed era stato un, prodotto della Università cattolica di Lovanio. Una recente ricerca ha rivelato che si è tolto la vita in presenza dei figli. Ha avuto la forza di praticare ciò che predicava". E' il Nobel della morte. ____________________________________________________________ Avvenire 8 Mar. ’14 È ITALIANA LA SFIDA AL WEB SEMANTICO di Gigio Rancilio Quando pensi a Internet, alle nuove tecnologie e al cosiddetto "mondo diga ale", l'Italia ti appare se non ai confini dell'impero almeno in periferia. Questione di soldi, di predominio linguistico, di lungimiranza (o meno) dei governi e di molto altro. Eppure qualcosa di grande si muove anche dalle nostre parti. Per scoprirlo occorre lasciare le solite città, quelle dove sembra che accada tutto. Decollare idealmente da Milano o Roma e atterrare a Oristano, Torino, Pavia e Padova. È qui che l'Italia sta giocando una delle sue partite più importanti. Dimostrare al mondo - e a se stessa - che è capace di creare grandi progetti tecnologici, non solo film da Oscar, ottimo cibo e arte. Prima di raccontarvi come, conta il perché. Anzi, «i perché». Innanzitutto perché tra gli italiani albergano ancora menti tecnologiche geniali che si ostinano orgogliosamente a vivere in Patria, nonostante tutto. E poi perché il nostro Paese - che spesso denigriamo nei discorsi da bar e non solo lì - ha inventato anche nel digitale progetti e prodotti importanti. Il più (mis)conosciuto? L'algoritmo alla base di quei file mp3 che hanno rivoluzionato il mondo della musica, nato a Tori no. Ora la nuova partita nella quale l'Italia vuole giocare da protagonista si chiama web semantico. Semplifichiamo un po'. Avete presente Google, cioè il popolarissimo motore di ricerca del web? Bene, usandolo vi sarete resi conto che trova le cose ma non è capace di selezionarle. Così molte ricerche che facciamo sono piene di dati inutili. Il futuro del web - o almeno un'ampia porzione di esso - si gioca su motori di ricerca (pubblici e aziendali) capaci di organizzare le informazioni in maniera intelligente, cioè basandole sulla pertinenza e non sulla rilevanza. Bene, in tutte le città che abbiamo citato sono in corso progetti simili. Hanno nomi internazionali come Tykli o FacilityLive. Quest'ultimo, in particolare, è il capofila. Ha già ottenuto brevetti in 42 paesi, Usa compresi. L'European Internet Foundation l'ha accolto tra i propri membri, collocandolo tra Google e Facebook. Un riconoscimento che vale quasi un Oscar. E lascia sul campo una domanda enorme: ma l'Italia è pronta ad avere tra le sue fila un progetto che potrebbe rivoluzionare tutto il mondo digitale? ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 Mar. ’14 LO SPOGLIO INFINITO DELLA SARDEGNA Mariano Maugeri «Unbelievable!» ha esclamato l'ambasciatore di sua maestà britannica a Roma, Christopher Prentice, quando è stato informato che nel corso della visita in Sardegna di venerdì scorso, 28 febbraio, avrebbe dovuto incontrare due governatori isolani: l'uscente ma ancora in carica, Ugo Cappellacci, e l'entrante ma non ancora proclamato, l'economista Francesco Pigliaru. Se qualcuno nutrisse dei dubbi sull'autolesionismo delle Regioni italiane, troverebbe in Sardegna argomenti fluviali a sostegno di un ridimensionamento dei loro poteri. A ventuno giorni dalle elezioni del 16 febbraio è nebbia fitta sulla proclamazione del governatore e la nomina dei 60 consiglieri. All'alba del sette di marzo, il sito della Regione che riporta i risultati elettorali recita: sezioni scrutinate 1824 su 1836. Le 12 renitenti appartengono a una delle otto circoscrizioni, quella di Sassari. Che si fossero accavallati una serie di problemi sullo spoglio delle schede si era capito nel corso della giornata di lunedì 17 febbraio. Un anno fa il consiglio regionale ha partorito una legge elettorale bipartisan che nell'ansia di stroncare l'ascesa dei grillini, forti di un risultato clamoroso alle ultime Politiche, tagliava le ali alle formazioni che avrebbero potuto drenare consensi alle due coalizioni maggiori. Con qualche mostruosità evidente, come l'esclusione dal consiglio regionale della scrittrice Michela Murgia, 70mila voti con le tre liste di Sardegna Possibile. Peggio, il regolamento attuativo della legge elettorale ottiene l'approvazione in dicembre - in cinque minuti, dicono i presenti - nel bel mezzo di una delle ultime riunioni del consiglio regionale convocata per discutere di ammortizzatori sociali. Quello stesso regolamento prevede la conclusione delle operazioni di scrutinio entro dodici ore dall'inizio dello spoglio. Alle 19 del 17 febbraio centinaia di presidenti di seggio si sono attaccati al telefono per comunicare alle Prefetture che avrebbero sforato i tempi non di qualche ora ma probabilmente di parecchi giorni. A loro discolpa c'è la farraginosità del famoso regolamento attuativo che consta, informa l'ufficio stampa del consiglio regionale, di ben 275 pagine. Le prefetture, inconsapevoli del caos che regnava nelle sezioni, concedono uno slittamento di cinque ore, ma a distanza di ventuno giorni dalla chiusura dei seggi 12 sezioni sassaresi contano e ricontano le schede. Un ritardo incomprensibile se si tiene conto che la Sardegna ha il corpo elettorale di una grande città metropolitana: 1,5 milioni, di cui la metà ha disertato le urne. Il vuoto di potere ognuno lo riempie a modo suo. Cappellacci ha convocato un paio di giunte per ratificare una serie di atti dovuti, ma la nuova maggioranza accusa: il governatore uscente ne avrebbe approfittato per ufficializzare un'infornata di nomine pubbliche. Pigliaru, dal canto suo, lavora alla composizione dell'esecutivo, che nelle sue intenzioni dovrebbe essere formato da personalità con competenze al di sopra di ogni sospetto. Ovvio che ogni giorno in più di attesa logori il neo governatore, alle prese con l'assalto alla diligenza degli undici partiti della coalizione. L'economista tira dritto. E, forse imbarazzato al cospetto dell'ambasciatore inglese per il ritardo nella sua proclamazione, ha ricordato che «la Sardegna adotterà al più presto il modello europeo di semplificazione burocratica». Magari, suggeriscono gli isolani, a partire dalla legge elettorale. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 7 Mar. ’14 BREVETTO EUROPEO, L’ITALIA RISCHIA DI PERDERE LA TUTELA» DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES — Ricerca e sviluppo, innovazione e tutela del made in Italy. In una parola: i brevetti. L’ufficio europeo che se ne occupa (European patent office) ha ieri diffuso i dati relativi alle richieste di tutela dell’ingegno che gli sono arrivate dai 38 Paesi contraenti nel 2013. L’Italia ha depositato 4.663 brevetti, con un calo del 2,7% rispetto all’anno precedente che si era già chiuso con una flessione del 3,4% e si piazza all’undicesimo posto nella speciale classifica. Qualche segnale di ottimismo però c’è. Ad esempio con 62 domande la Lyondellbasell, società petrolchimica, è risultata la più innovativa. Sorprende anche il produttore di elettrodomestici Indesit alle prese con un complesso piano di riorganizzazione aziendale (60 domande). A seguire la Pirelli e il colosso della difesa Finmeccanica che ha depositato all’ufficio europeo 30 richieste. Fin qui i numeri, poi c’è il piano politico. Qui il nostro Paese fa scuola per l’impasse mostrata nei confronti del brevetto unitario europeo, un sistema comunitario di protezione dei marchi e delle invenzioni. Dopo l’ostracismo iniziale (l’Italia fece ricorso alla Corte Ue perdendo sonoramente) ci si era man mano convertiti a un mite europeismo culminato nella firma dell’ex ministro Enzo Moavero al trattato che istituirà il Tribunale unico per i brevetti. Con il cambio di governo questo processo si è arenato. Manca il sostituto di Moavero che aveva in carico i rapporti con la Ue e la delega alle politiche comunitarie è stata dirottata alla presidenza del Consiglio senza che finora ci sia un sottosegretario incaricato di seguire il dossier. Di più: nella relazione programmatica per il 2104 elaborata dall’esecutivo al sistema del brevetto unitario sono state dedicate poche righe in un’ottica di valutazione dei suoi effetti su tutti gli «agenti economici interessati». Lo stop inatteso non è piaciuto agli industriali che da tempo si battono per l’adozione di questo regime giuridico. Rileva Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria, che «l’Italia può decidere di restarne fuori ma a un prezzo carissimo in termini di attrazione di investimenti diretti dall’estero e di mancato rafforzamento della nostra capacità competitiva». Si pensi che in caso di non adesione le imprese di casa nostra dovranno sobbarcarsi una causa parallela all’estero oltre quella italiana con un costo medio di circa 100 mila euro. Cifra al di fuori della portata delle piccole imprese, ma anche un ingeneroso fastidio nei confronti di chi vuole investire da noi con la certezza di potersi difendere da eventuali contraffattori. Fabio Savelli ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Mar. ’14 NOI, SOMMERSI DALLO SPAM Nonostante filtri potentissimi e vari strumenti legislativi, i nostri server e le nostre caselle di posta vengono invasi con 120 miliardi di messaggi al giorno Ermanno Bencivenga «Spam» è il nome di una carne in scatola messa sul mercato nel 1937 e onnipresente nella cucina inglese durante la Seconda guerra mondiale, in tempi di feroce austerità e malinconici razionamenti. Questa sua caratteristica fu volta in satira dal gruppo Monty Python, in uno sketch televisivo del 1970: in un ristorante tutti i piatti contengono «Spam», un gruppo di vichinghi canta un inno in onore dello «Spam» e un esperto, in collegamento da uno studio, a un certo punto perde il controllo di sé e inserisce ripetutamente la parola «Spam» in quel che sta dicendo. Nella preistoria di internet, quando le connessioni erano di penosa lentezza (e i nerds erano appassionati di Monty Python), quella parola diventò una metafora per contenuti indesiderati e ripetitivi che occupavano il poco spazio disponibile per comunicare. In quarant'anni la realtà della rete ha subìto enormi cambiamenti e lo spazio a disposizione di ciascuno è oggi praticamente illimitato, ma la parola è rimasta; è diventata anzi una categoria ufficiale di posta elettronica. In Spam, un libro dedicato a questo fenomeno, Finn Brunton, professore all'Università del Michigan, si pone la suggestiva domanda di che cosa giustifichi tale continuità fra le situazioni arcaiche e quella contemporanea: come si possa definire in generale «spam» (che ha perso l'iniziale maiuscola, non essendo più inteso come il nome proprio di una marca ma come il nome comune di una pratica e dei suoi risultati). Prima di arrivare alla risposta, però, sarà bene illustrare le tenaci controversie che si sono addensate intorno all'oggetto di analisi. Negli anni Novanta, l'Ufficio Immigrazione degli Stati Uniti introdusse una lotteria per il rilascio del visto permanente (la mitica green card). Per partecipare bastava inviare una cartolina; ma avvocati poco scrupolosi si fecero subito avanti presentandosi come indispensabili intermediari. In particolare, una coppia di avvocati dell'Arizona, Laurence Canter e Martha Siegel, decise di usare Internet e il 12 aprile 1994 distribuì in modo capillare nella rete un annuncio di 34 righe che pubblicizzava i loro servizi. Era il primo caso di «spam» usato su larga scala a fini commerciali. La reazione fu molto violenta: il loro indirizzo elettronico fu investito da decine di migliaia di messaggi di protesta e di insulti e dovette essere chiuso; lo stesso capitò al loro telefono e al loro fax (i cui numeri erano contenuti nell'annuncio). Ma Canter e Siegel non si lasciarono intimidire: si dichiararono paladini della libertà di espressione, con un diritto di utilizzare Internet almeno pari a quello dei tecnocrati che, a loro dire, volevano conservarne il monopolio. Attraversarono il loro quarto d'ora di celebrità, dando interviste al New York Times e scrivendo un libro di successo: How to Make a Fortune on the Information Superhighway. Di lì a poco sarebbero rientrati nell'anonimato; intanto avevano posto il problema. Lo spam sarà stupido, inutile e irritante; ma è illegale, o moralmente illegittimo? In che senso è diverso dagli altri messaggi stupidi, inutili e irritanti che ci bombardano quotidianamente dalla carta stampata, da radio e televisione? Internet nacque in un mondo accademico e militare, alieno dal mercato e dominato gerarchicamente dall'autorità di chi comanda o dal prestigio di una cattedra universitaria. Canter e Siegel dimostrarono che non era più possibile mantenerlo in questa condizione protetta: la «comunità» che esso rifletteva si andava irresistibilmente trasformando da una Gemeinschaft organizzata da rapporti personali a una Gesellschaft aperta a tutti, quindi anche a chi ci appare stupido e irritante (i due termini furono coniati dal sociologo tedesco Ferdinand Tönnies nel 1887). Il che spiega perché, nonostante l'introduzione di filtri potentissimi e di vari strumenti legislativi, lo spam continui a prosperare, invadendo i nostri server e le nostre caselle di posta con 120 miliardi di messaggi al giorno. Torniamo dunque alla domanda fondamentale: che cos'è lo spam»? La risposta di Brunton è: «l'uso della struttura tecnologica informatica per sfruttare aggregati esistenti di attenzione umana». Possiamo sorridere delle modalità operative in cui ebbe origine lo spam; ma le più efficienti modalità con cui operiamo oggi non hanno fatto che chiarire meglio la sostanza di quel che c'è in gioco. Che allora si potesse accedere a contenuti limitati, quindi messaggi indesiderati rubassero il poco spazio a disposizione, voleva dire che questi messaggi s'imponevano alla nostra attenzione, distraendoci da quel che c'interessava. Ora non si può più dire che ci venga imposto qualcosa, perché lo spazio che abbiamo è infinito; ma ne segue solo che bisogna trovare, e si trovano, altri modi per distrarci. La vera scarsità in cui lo spam cerca di farsi largo è, ed è sempre stata, quella del contatto che, quale che sia la sofisticazione delle nostre tecniche, la nostra anima può avere con il mondo. © RIPRODUZIONE RISERVATA Finn Brunton, Spam: A Shadow History of the Internet, Cambridge (MA), Mit Press, pagg. XXIV+270, $ 27,95 ========================================================= ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 5 Mar. ’14 AOUCA: IL GOVERNATORE TRA I PAZIENTI DEL POLICLINICO Pigliaru in ospedale. Ma sta benissimo: era lì (al Policlinico universitario di Monserrato) nella veste di quasi-presidente, per avere qualche elemento in più sulla sanità sarda, e nello specifico sull'azienda mista di Cagliari. Per un po' si è mescolato agli utenti in fila all'ufficio ticket (dove più d'uno lo ha riconosciuto e fermato), ha visitato il centro unico di prenotazione, poi ha tenuto un incontro operativo col manager dell'azienda mista Ennio Filigheddu, con Piero Tamponi e Luigi Serreli, rispettivamente direttore amministrativo e sanitario, e col rettore dell'ateneo Giovanni Melis. Il governatore si è fatto descrivere i problemi legati a progetti bloccati, fondi che non arrivano, insomma quegli intoppi che la Giunta può alleggerire. Per esempio, l'accordo Stato-Regione necessario per spendere i 40 milioni destinati al completamento della sezione emergenze. Pigliaru ha anche confermato, tra le priorità della prossima Giunta, il nuovo piano sanitario. Curiosità: anche Renato Soru, in uno dei suoi primi giorni da governatore, aveva fatto un blitz “sanitario”, presentandosi all'alba, a sorpresa, all'ospedale Santissima Trinità di Cagliari. __________________________________ L’Unione Sarda 9 Mar. ’14 AOUSS: IN FREEZER 5 MILIONI PER IL PRONTO SOCCORSO - La Regione lascia a secco l'Azienda ospedaliera «Oltre che uno scippo sulla sanità, è un atto di pirateria nei confronti del territorio». Lo ha detto ieri mattina Manuel Alivesi, consigliere comunale di Forza Italia, puntando il dito contro l'ex presidente e collega di partito Ugo Cappellacci. Oggetto conteso: cinque milioni di euro che la Regione avrebbe promesso all'azienda ospedaliero universitaria. Risorse che sarebbero servite per potenziare i servizi di pronto soccorso e le attività ambulatoriali di emergenza. Riconosciuti solo 700 mila euro. L'AZIENDA Non ha parlato di sottrazione il direttore generale dell'Aou, Sandro Cattani, ma di mancato riconoscimento. «Dagli accordi con Cagliari - ha spiegato il dirigente - confidavamo in quella cifra, da aggiungere ai 123 milioni già stanziati. Prima di fare commenti, preferirei però studiare la delibera». Finanziamenti molto attesi in città, necessari per potenziare una decina di servizi di pronto soccorso ed emergenza che l'Asl non fornisce. «Penso alla ginecologia, la reumatologia, l'otorino - ha spiegato Cattani - ma anche la ginecologia e la chirurgia pediatrica. Sono servizi che abbiamo solo noi e che andrebbero potenziati». LA POLITICA Ed invece, uno degli ultimi atti della giunta Cappellacci, sembra aver creato l'ennesimo danno al sassarese e alla sanità. Tanto da sollevare le proteste di alcuni colleghi di partito. Soprattutto Manuel Alivesi che, in una nota, ha espresso il suo rammarico, spiegando che quelle risorse finiranno nelle casse del Brotzu di Cagliari e dell'Asl 8: «È inspiegabile - ha detto - che si voglia infierire su un territorio, come il nostro». Polemica tra componenti dello stesso partito: «La politica, qualsiasi colore abbia, deve essere sempre al servizio della gente. Chiedo al presidente Cappellacci che ponga rimedio a questo errore prima che pregiudichi gli sforzi fatti dall'Aou». Anche l'azienda mista, intanto, ha già scritto una nota alla Regione per avere chiarimenti sulla ripartizione delle somme. «Per queste attività nel 2010 - ha aggiunto Cattani - ci erano stati riconosciuti 10 milioni di euro. Attendiamo di conoscere in che maniera sono stati fatti i tagli». Antonio Brundu ____________________________________________________________ Corriere della Sera 9 Mar. ’14 PROMESSE DI TRASPARENZA SULLA QUALITÀ DEGLI OSPEDALI C’è in Italia un ospedale dove ogni 100 interventi di bypass muoiono 14,78 pazienti entro 30 giorni. C’è un centro specialistico dove il tasso di mortalità per lo stesso intervento è pari a 0 e cinque dove è inferiore allo 0,5%. Voi dove preferireste essere operati? C’è un centro medico dove, se vi ricoverano per ictus, avete il 43,69% di probabilità di morire entro 30 giorni, in un altro le probabilità sono l’1,03%. Vi consiglio vivamente quest’ultimo. Dei dati sulle performances ospedaliere, raccolti dal 2005 al 2012 dal Programma nazionale esiti per conto dell’Agenas, agenzia del ministero della Salute, finora sono stati pubblicati parzialmente, per iniziativa di alcune Regioni, soprattutto quelli positivi: l’intero rapporto è disponibile online solo per medici e amministratori sanitari. Per accedervi bisogna essere accreditati, ci vuole Username e Password. Si tratta di decine di tabelle, di classifiche che riguardano mortalità, complicanze, ricadute, tipo di intervento per le prestazioni mediche più importanti. Tra chi può accedere a queste informazioni ci sono i responsabili regionali della sanità: che speriamo provvedano a chiudere subito i centri peggiori e a premiare i migliori. Ma non siamo sicuri che ciò avvenga. Per questo quello che veramente speriamo è che tutti i dati vengano al più presto resi pubblici. La ministra Lorenzin l’ha promesso, presentando il nuovo sito Dovesalute.gov.it. Quando la promessa sarà mantenuta (ma prevediamo qualche difficoltà) sarà un grande passo avanti: senza se e senza password. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 Mar. ’14 CONTRACCEZIONE: L'ISOLA PRIMA IN ITALIA Donne sarde e il sesso consapevole La Sardegna è in testa alla classifica tra le regioni italiane nella contraccezione ormonale. Secondo l'Istat, più del 30 per cento delle donne utilizza la pillola: la percentuale è quasi doppia rispetto alla media nazionale, che si attesta al 16,2 per cento. Ma le giovani, a volte, cercano anche altre strade. È soprattutto dedicato a loro Love it! Sesso consapevole , campagna d'informazione sulla contraccezione promossa dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (Sigo) in collaborazione con lapillolasenzapillola . « Love it! Sesso consapevole è diversa dalle altre campagne d'informazione perché per parlare di contraccezione usa i linguaggi dei giovani come la moda, la musica e il web e perché, per la prima volta, le ragazze non saranno semplici destinatarie, ma potranno diventare protagoniste e testimonial in prima persona della campagna - spiega Nicola Surico, docente di Ginecologia e Ostetricia presso l'Università del Piemonte Orientale e Past President Sigo - . L'obiettivo è avvicinare la contraccezione al loro mondo, rendendole consapevoli delle loro scelte in materia di sesso, offrendo le informazioni corrette anche su quei metodi contraccettivi che, pur essendo meno conosciuti, meglio rispondono ai loro stili di vita, in primis quelli che non prevedono l'assunzione quotidiana di una pillola». Per manifestare la propria consapevolezza sulla sessualità responsabile, le giovani verranno invitate a indossare il bracciale simbolo Love it! . Vicino a loro ci sarà anche la musica, attraverso il brano e il video firmato dalla cantante Baby K, “femmina alfa” del rap italiano e testimonial della campagna. Ovviamente, un punto fermo dell'iniziativa sono i ginecologi attraverso una “Love Band” formata da 12 professioniste a livello nazionale che attraverso il sito www.lapillolasenzapillola.it gestirà un servizio di consulenza online, per chiarire tutti i dubbi e rispondere alle domande. «Grazie alle fonti pubbliche e alle iniziative locali, le ragazze sarde sono ben informate sulla contraccezione - fa sapere una delle componenti della “Love Band”, Monica Pilloni, Dirigente Medico della Clinica universitaria di Ginecologia a Cagliari - ma il canale preferenziale d'informazione è sicuramente il passaparola che, a volte può diffondere messaggi contraddittori sui contraccettivi ormonali. Anche attraverso Internet possono circolare informazioni non corrette, mentre sarebbe opportuno utilizzare questa risorsa per incoraggiare le giovani ragazze a rivolgersi agli specialisti». Compito della “Love Band” sarà anche quello di far conoscere tutte le alternative contraccettive disponibili in grado di superare perplessità e timori legati all'uso della contraccezione. Il 37 per cento delle donne italiane ha infatti abbandonato l'uso della pillola a causa di disturbi, paura di ingrassare e ansie legate al peso dell'impegno quotidiano, ma le alternative esistono. Oggi l'alternativa alla pillola sicura, efficace e a basso dosaggio, è rappresentata da nuove formulazioni: il cerotto, ma soprattutto l'anello vaginale, una forma evoluta della pillola che possiede il duplice vantaggio di liberare le donne dall'assunzione quotidiana per bocca e di essere caratterizzato da ormoni a bassissimo dosaggio e con livelli molto stabili. «Uno dei metodi di contraccezione non orale maggiormente apprezzati - osserva Pilloni - è sicuramente l'anello vaginale, che è il metodo alternativo più comodo e più congeniale per le giovani generazioni». Federico Mereta ____________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Mar. ’14 POCHE «UNITÀ ICTUS » IN ITALIA E IL SUD NE È QUASI DEL TUTTO PRIVO Al contrario di quelle contro l’infarto, le strutture specializzate per affrontare la trombosi o l’emorragia cerebrale in emergenza sono ancora mal distribuite Nel mondo succede a una persona ogni sei secondi: un trombo va a occludere un’arteria cerebrale, oppure un vaso sanguigno si rompe all’improvviso, e una parte più o meno estesa del cervello va in black- out. È l’ictus, una malattia che in Italia e nel mondo occidentale è la prima causa di invalidità e ogni anno è responsabile di oltre un decesso su dieci. Viene da pensare che per affrontare un’emergenza tanto grave siano messe in campo tutte le risorse possibili; invece durante l’annuale International Stroke Conference dell’American Stroke Association è stato lanciato l’allarme, sottolineando che il 60% degli ospedali Usa non è attrezzato per erogare la terapia con trombolitico, che “scioglie” il coagulo in caso di ictus ischemico (si veda nella pagina accanto), e appena il 4%dei pazienti candidabili a questa cura la riceve davvero. Sbagliato credere che da questa parte dell’oceano le cose vadano meglio, proprio la scorsa settimana durante il congresso dell’Italian Stroke Organization sono state segnalate le tante carenze nella gestione dell’ictus nel nostro Paese: dal momento in cui un paziente ha i sintomi a quello in cui affronta la riabilitazione, infatti, sono tantissime le cose che possono andare storte compromettendo la possibilità di un reale recupero che, se tutti gli ingranaggi funzionassero a dovere, sarebbe alla portata di un numero molto più alto di malati. «Intanto, purtroppo, sono ancora pochi gli italiani che sanno riconoscere i segni di un ictus per chiamare subito i soccorsi – spiega Paolo Binelli, presidente dell’Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale (A.L.I.Ce Italia Onlus) –. Un’indagine recente del Censis ha mostrato che appena uno su quattro conosce i sintomi meno noti, come un mal di testa forte e improvviso, un calo repentino della vista, l’incapacità di capire che cosa viene detto o iniziare a parlare a vanvera. Tanti perciò non chiamano il 118 e vanno a letto sperando che passi. Una perdita di tempo che può essere fatale». Chi ha un buon livello socioeconomico e culturale è più probabile che non trascuri gli indizi di un ictus, ma anche in questi casi bisogna augurarsi di abitare nei paraggi di una delle Unità Emergenza Ictus, o Stroke Unit. In Italia ce ne dovrebbe essere almeno una ogni 200mila abitanti (quindi non meno di 300 in totale), invece sono operative poco meno di 160 e quasi tutte al Nord e al Centro, tanto che al Sud oggi si muore più di ictus che di infarto. Perché le Stroke Unit non riescono a diffondersi come le Unità di Terapia Intensiva Cardiologica (Utic), che hanno ridotto moltissimo le conseguenze nefaste degli attacchi cardiaci salvando la vita a migliaia di persone? «Le Utic sono fiorite sull’onda della comparsa di cure risolutive per l’infarto come l’angioplastica; anche la Stroke Unit fa la differenza, perché riduce del 10% la mortalità da ictus, ma questo purtroppo non è stato capito appieno e in molte Regioni si è preferito non investire per realizzarle – risponde Giuseppe Micieli, direttore del Dipartimento di Neurologia d’Urgenza dell’Istituto Neurologico Mondino di Pavia –. In molti ospedali peraltro esistono risorse e professionalità che renderebbero relativamente semplice l’apertura di una Stroke Unit». Non serve infatti chissà che cosa per attrezzarne una, bastano medici, infermieri, logopedisti, fisioterapisti per cui l’ictus sia da anni il pane quotidiano: proprio l’esperienza sul campo fa la differenza. Un paziente con sintomi sospetti che arriva in questi reparti viene subito sottoposto a una TAC o comunque agli esami più adatti per capire il tipo di ictus in atto, poi senza perdere tempo si somministrano i trattamenti più indicati al caso. «Tutti hanno vantaggi dall’essere seguiti da una Stroke Unit, anche chi non può fare la trombolisi perché è arrivato tardi in ospedale o chi è più grave perché ha un ictus emorragico – interviene Carlo Gandolfo, docente di Neurologia dell’Università di Genova –. Grazie alle competenze acquisite seguendo solo questo tipo di malati i medici riescono a prevenire e ridurre le complicanze, ad esempio iniziando la riabilitazione il giorno stesso dell’ictus per ritrovare movimento, parola, capacità di deglutire». «In chi è stato seguito da una Stroke Unit la disabilità a un anno è inferiore del 25 per cento – aggiunge Binelli –. Questo spiega perché l’investimento necessario a realizzare queste unità si ripaghi in appena due o tre anni: in Italia per i pazienti con ictus si spendono ogni anno circa 3,7 miliardi di euro, a cui si aggiungono almeno 13-14 miliardi di costi stimati per le famiglie, sulle quali la malattia ha un impatto devastante perché si trovano a dover gestire, spesso del tutto da sole, l’impatto delle disabilità residue». Ridurre le conseguenze dell’ictus con trattamenti tempestivi e specifici in Unità specializzate sarebbe perciò essenziale, ma la strada per arrivarci è in salita: alla carenza di Stroke Unit si somma infatti la mancanza di un protocollo specifico per il soccorso. «Quando il 118 interviene su una persona con chiari sintomi di ictus la regola impone di portarlo al più vicino Pronto Soccorso, indipendentemente dal fatto che vi sia una Stroke Unit – spiega Binelli –. Questo rallenta le cure perché spesso in un normale Dipartimento d’Emergenza non si può fare la terapia più adeguata e si deve perciò trasferire comunque il malato in una Stroke Unit, perdendo altro tempo. La nostra proposta è adottare ovunque il “codice ictus”, già attivo in Regioni come Liguria e Lombardia: in pratica, un protocollo di emergenza che funzioni come una corsia preferenziale e consenta di portare il paziente con ictus alla Stroke Unit più vicina, guadagnando minuti preziosi». Il codice ictus ovviamente deve andare di pari passo con la realizzazione delle unità, perché se non sono a portata di ambulanza arrivarci diventa impossibile: «A Napoli, una città con un milione di abitanti, non esiste una Stroke Unit; in Sicilia per 5 milioni di persone ce ne sono appena 5 – sottolinea Gandolfo –. Dove c’è una buona rete, come in Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna o Veneto, il 60-70 per cento dei pazienti viene seguito in una Stroke Unit riducendo mortalità, disabilità, durata dei ricoveri e aumentando la probabilità di tornare a casa propria senza doversi ricoverare in strutture per lungodegenze. Altrove i malati finiscono in reparti di ogni tipo, non attrezzati per affrontare casi spesso complessi e impegnativi; negli ospedali organizzati per intensità di cura, poi, dove i pazienti vengono “smistati” solo in base alla gravità, chi ha l’ictus viene gestito accanto a chi ha una pancreatite e l’approccio iper-specializzato che servirebbe è del tutto capovolto». Così, escludendo le Regioni “virtuose”, nel nostro Paese solo un paziente su quattro arriva dagli specialisti dell’ictus entro quattro ore dai sintomi, in tempo per essere curato al meglio. ____________________________________________________________ Repubblica 6 Mar. ’14 TROPPA CARNE, POCA SALUTE "PERICOLOSA COME LE SIGARETTE" Un esperimento di lunga durata dimostra che il consumo eccessivo di proteine animali crea gravi danni. E dopo i 50 anni meglio evitare proprio la bistecca SILVIA BENCIVEW ROMA Ad una certa età, mangiare troppa carne diventa dannoso come fumare. Aumenta cioè il rischio di tumore nella stessa misura della sigaretta. E provoca un peggioramento della salute. Lo ha mostrato una ricerca pubblicata ieri sulla rivista scientifica "Cell Metabolism". Condotta da scienziati americani e italiani, lo studio è condotto su un database di più di seimila over 50, monitorati per diciotto anni Il gruppo è stato suddiviso in tre categorie, a basso, medio e alto consumo proteico, riferendosi alla percentuale di calorie derivanti da bistecche e formaggi sul totale di quelle assunte a tavola in una giornata. Dopodiché si è andati a vedere tempi e cause di morte nel corso degli anni. Si è notato così che i grandi mangiatori di carne hanno un rischio quadruplo di morire di tumore rispetto ai piccoli mangiatori. Più o meno lo stesso aumento del rischio che si procura chi fuma un pacchetto di sigarette al giorno, rispetto a chi non tocca tabacco. Non solo: considerate tutte le cause di morte, i "carnivori" hanno mostrato un aumento della mortalità del 75% rispetto ai frugali. Attenzione stiamo parlando di persone di mezza età. Diciamo che un maschio vicino ai sessanta dovrebbe mangiare una piccola quantità di proteine al giorno, cioè 0,8 grammi per peso corporeo. Quindi 200 grammi di fagioli o un pesce alla griglia coprirebbero il fabbisogno quotidiano senza essere dannosi quanto l'equivalente in carne. «Il nostro studio dimostra inoltre che non c'è una sola ricetta da seguire per tutta la vita», spiega Valter Longo dell'università della California, autore dello studio insieme a ricercatori americani e italiani di Napoli, Palermo, Brescia e dell'università della Calabria. Infatti superati i 65 anni l'effetto negativo del consumo di proteine sembra rientrare. Anzi, sembra che il consumo dì carne e latticini, purché non eccessivo, diventi un fattore di protezione. Il motivo di questa differenza è stato indagato con studi di laboratorio che hanno confermato un vecchio sospetto. Cioè quello per cui il consumo di proteine animali stimola la produzione di un ormone legato alla crescita delle cellule e dei tessuti: l'IGF-1. Lo si è visto grazie a un esperimento su animali da laboratorio affetti da tumore sottoposti a una dieta iperproteica: nel giro di poco tempo crescevano sia i livelli di IGF-1 sia il tumore, e molto dipiù rispetto a quanto non succedesse in altri topolini. Negli esseri umani la conferma è arrivata misurando 1'IGF-1 e osservando che ogni 10 nanogrammi di ormone in più per millilitro di sangue il rischio di tumore aumenta del 9%. «In Italia in particolare, possiamo riflettere sui centenari di certi centri del sud Italia: persone per tutta la vita hanno mangiato poco, per cominciare a farlo verso i 70 anni», conclude Longo. Ma per tutti vale il consiglio di tornare alla vecchia dieta mediterranea. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 4 Mar. ’14 PARTE IL TRIPADVISOR DELLA SANITÀ: DAI PAZIENTI VOTI E STELLETTE AGLI OSPEDALI C’è chi l’ha definito il Tripadvisor della sanità. Un sistema di voto, da una a cinque stelle, che consente al cittadino di esprimere un parere sull’accoglienza ricevuta presso le strutture sanitarie italiane. Per ora soltanto gli Istituti di ricerca e cura a carattere scientifico, i cosiddetti Irccs, che sono sotto il controllo diretto del ministero della Salute. Ospedali di eccellenza che, oltre a fare ricerca, hanno un’attività di ricovero e cura a 360 gradi. Dal pronto soccorso al laboratorio, dagli ambulatori al ricovero, dalla diagnostica più o meno sofisticata alla chirurgia anche super specialistica. Complessivamente: 49 istituti in tutta Italia, di cui soltanto 6 al sud. Purtroppo la maggior parte delle strutture è sotto il governo regionale, ma il ministro Beatrice Lorenzin è ottimista: «Speriamo di poter allargare al più presto il censimento ai servizi sanitari delle Regioni, cui sarà sottoposta una specifica richiesta». Non solo. Una volta a regime, il portale non dovrà riguardare la sola assistenza ospedaliera, ma anche quella territoriale: farmacie, guardie mediche, medici di medicina generale. È l’obiettivo del ministro. Obiettivo trasparenza, obiettivo informazione-comunicazione, obiettivo controllo-valutazione. Anche la problematica meritocrazia può avere un’inizio dalla partecipazione in Rete. Meritocrazia di struttura all’inizio, liste d’attesa incluse. E verificare anche se il percepito si sovrappone al reale. Un mantra per la Lorenzin: «Stiamo facendo degli Open data un mantra, per divulgare le informazioni ai cittadini e come incentivo a migliorare le prestazioni». Più trasparenti, più competitivi. Informazioni a portata di click sul sito dovesalute.gov.it , portale del ministero battezzato ieri sul web e che ha subito calamitato commenti e prime stelle. Una mappatura dell’offerta? Sarebbe riduttivo. Il ministro Beatrice Lorenzin definisce questa novità in Rete una «rivoluzione copernicana» per quanto riguarda l’accesso alle informazioni. E sottolinea la «trasparenza dei servizi sanitari e il «salto culturale». Un cambiamento che, in stile governo Renzi, sia rapido e — una volta tanto — efficace nello scovare i difetti burocratici del sistema salute. Ma anche premiare chi merita. Il cittadino entra in dovesalute.gov.it , scrive la malattia e la città in cui lui vive e scopre dove c’è la cura e con che esiti. Scopre il numero posti letto, le unità operative, le apparecchiature diagnostiche disponibili dalla struttura. E scopre anche se può evitare un «viaggio della speranza» perché in casa ha ciò che serve. Può infine commentare e votare qualità dei pasti, pulizia, cortesia del personale. «E i commenti non andranno a vuoto», parola di Beatrice Lorenzin. Italiano, inglese e spagnolo le lingue del portale. Scelta intelligente nell’ottica della sanità unica europea: attrarre pazienti da altri Paesi sarà fondamentale per l’Italia, ora che è in vigore la Direttiva sull’assistenza transfrontaliera. E se è vero che la nostra sanità è tra le migliori, il confronto sarà vincente. I fatti oltre le parole. Mario Pappagallo @Mariopaps ____________________________________________________________ Corriere della Sera 9 Mar. ’14 MENU SALVA-PROSTATA CON POCA CARNE E CONTORNO DI SPORT L’ iperplasia prostatica benigna, ovvero l’ingrossamento della prostata, come è noto, è molto diffusa dopo i 50 anni e si aggrava con l’età. La novità è che anche la dieta, almeno secondo studi preliminari, sembra avere un ruolo nella sua insorgenza. «È sempre più evidente — dice infatti Furio Pirozzi Farina,professore associato di urologia e direttore dell’Unità Operativa dipartimentale di urologia andrologica all’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Sassari — che, come avviene per altre malattie, la dieta e lo stile di vita possano influenzare anche l’instaurarsi e il progredire dell’ipertrofia prostatica benigna e dei conseguenti problemi urinari. Alla base di questa convinzione c’è l’osservazione che questi disturbi si sviluppano spesso in concomitanza con la sindrome metabolica, condizione caratterizzata da un insieme di elementi di rischio cardio-metabolico, quali aumento del girovita, intolleranza al glucosio, ipertensione, alterazione dei lipidi plasmatici. L’infiammazione cronica associata alla sindrome metabolica, colpendo tutto l’organismo, colpirebbe anche la ghiandola prostatica, causandone un aumento di volume». Quale consigli dare, allora? «Fra i fattori che potrebbero avere un ruolo — commenta Mario Maggi, professore di endocrinologia all’Università di Firenze e responsabile di una revisione degli studi in materia, appena pubblicata su International Journal of Endocrinology — ci sono gli eccessi calorici, un’elevato girovita e il sovrappeso. L’iperplasia prostatica benigna è stata anche associata a un elevato consumo di grassi di origine animale, carni rosse e in particolare di acidi grassi polinsaturi (contenuti in molti oli di semi) che possono indurre e sostenere la risposta infiammatoria nelle cellule prostatiche. Al contrario, un elevato consumo di vegetali, in particolare frutta e verdura ricche di beta carotene, luteina, o vitamina C, è stato associato a una riduzione del rischio. Ma anche l’attività fisica all’aria aperta conta moltissimo: si sommano l’effetto benefico del moto e, grazie all’esposizione al sole, l’aumento della produzione di vitamina D, importante agente anti-proliferativo e immunodepressore per la prostata». Che cosa consigliare riguardo a alcol e alla caffeina? «Le linee guida europee suggeriscono di evitarne, o almeno moderarne — prosegue Maggi— il consumo, per il loro possibile effetto diuretico e irritante. Ma il nesso causa-effetto è debole». E l’acqua? «Bere in quantità adeguata è sempre importante, — riprende Pirozzi Farina — ma bisogna evitare di esagerare prima di coricarsi». Spezie e peperoncino fanno male? «Non solo loro, ma anche i formaggi dal sapore forte andrebbero consumati con molta moderazione: possono aumentare l’infiammazione anche a livello prostatico». C. F. ____________________________________________________________ Repubblica 6 Mar. ’14 VECCHI FARMACI TRAVESTITI DA NUOVI così le multinazionali alzano i prezzi Dosaggi cambiati e micro-modifiche, le strategie per batterei generici MICHELE BOCCI ROMA—A volte basta un piccolo particolare, un milligrammo appena e via, un vecchio farmaco sul punto di diventare generico si trasforma in un prodotto nuovo di zecca, da vendere ovviamente a un prezzo adeguato. Big Pharma spinge continuamente verso il profitto e non fa prigionieri. Mette sul mercato medicine nuove, in grado di combattere malattie un tempo incurabili, ma anche doppioni travestiti da novità grazie a trucchi ormai noti ma difficili da neutralizzare, perché quasi sempre vengono rispettate le leggi. Non c'è bisogno di arrivare agli estremi del caso Avastin-Lucentis, basta molto meno per aumentare la spesa farmaceutica e quindi i fatturati. E poco male se vecchi medicinali ancora utili escono di produzione o molecole davvero innovative perdono il loro reale valore nel calderone di false o mezze novità. Quel milligrammo ha regalato mesi di nuova giovinezza al Procaptan della Stroder, un farmaco efficace contro l'ipertensione. Quando il brevetto è scaduto e sono entrati sul mercato i generici a base del principio attivo perindopril, il produttore ha avuto un'idea. Ha cambiato i dosaggi da 4 e 8 milligrammi a 5 e 10, di fatto creando un nuovo farmaco. Così quando il medico scrive sulla ricetta Procaptan il paziente non può chiedere al farmacista il generico, come avviene per altri medicinali di marca con il brevetto scaduto, e il sistema sanitario spende 20,69 euro invece di 7,14. Proprio in questo periodo stanno entrando in commercio versioni "low cost" con il nuovo dosaggio del prodotto di marca. Cambiare il peso è solo uno dei sistemi per continuare a vendere un farmaco ormai vecchio a prezzo alto. Altre tecniche prevedono la combinazione tra molecole diverse, che solo in alcuni casi può essere davvero utile per il paziente, oppure il cambiamento dei tempi di assorbimento dell'organismo, creando magari un effetto "retard". Anche qui il risultato può non dare alcun beneficio ma solo influire sui costi. Il sistema forse più utilizzato è quello di mettere in commercio un nuovo farmaco molto simile a quello per cui sta scadendo il brevetto. Per ricominciare da capo, promuovendo al massimo solo il prodotto più recente e spingendo i medici a prescriverlo. E quello che è successo per il gabapentin e il pregabalin. Si tratta di due principi attivi molto simili che si usano contro il dolore neuropatico. Il primo è più vecchio, e quando è il brevetto è scaduto il produttore, la Pfizer, ha messo sul mercato il secondo, ben più caro, organizzando campagne pubblicitarie martellanti e mettendo pure in piedi un sito insieme a medici di famiglia e Cittadinanzattiva che oggi non è più in rete. Il risultato? Lo ha scritto l'Aifa nel suo rapporto sul consumo dei farmaci del 2011: «Il pregabalin, farmaco antiepilettico utilizzato quasi esclusivamente nel trattamento del dolore neuropatico cronico, registra un costante aumento della prescrizione (+13,5%) e della spesa (+13,8%) nonostante dagli studi clinici emerga un'efficacia limitata e comunque non superiore a quella di farmaci meno costosi, come il gabapentin, prescritto in quantità molto inferiori». Le cose, insomma, sono andate piuttosto bene. Lo stesso percorso ha fatto, ormai molti anni fa e con un certo successo chi produceva (più aziende farmaceutiche) l'omeprazolo contro i problemi gastrici e poi ha messo sul mercato l'e someprazolo, una molecola molto simile. Ma i casi sono tanti. Nel campo della psichiatria, ad esempio, c'è quello degli antidepressivi citalopram, più vecchio, e escitalopram (venduto da Lundbeck Italia e Recordati) che hanno la stessa molecola ma una configurazione diversa. Simile la vicenda delle statine, che contrastano il colesterolo. Via via che perdevano i brevetti venivano rimpiazzate da prodotti nuovi. Il meccanismo sta per incepparsi, perché l'ultimo farmaco di questa classe ad essere in esclusiva, ancora per poco, è la Rosuvastatina. E se non è possibile creare un nuovo medicinale per sostituire quello troppo vecchio si fanno manovre per ritardare i generici. È successo sempre alla Pfizer, multata dall'Antitrust per 10,6 milioni di euro per abuso di posizione dominante. La decisione è stata confermata il mese scorso dal Consiglio di Stato. Aveva ostacolato l'ingresso dei prodotti a basso costo per continuare a vendere il suo Xalatan contro il glaucoma. Nella ricerca del fatturato, BigPh arma lascia indietro medicine che sarebbero ancora efficaci, come alcuni vecchi chemioterapici. Gli oncologi li richiedono perché possono funzionare per alcuni pazienti ma non riescono a reperirli. La scarsa domanda ha interrotto la produzione. Più volte si è parlato di produrli in strutture pubbliche in Italia, come l'Istituto farmaceutico militare di Firenze, ma i progetti non sono andati in porto. Una situazione che rischia di far perdere di vista, per assurdo la potenza innovativa di certi nuovi farmaci biologici, che vengono messi in commercio dopo studi che li confrontano al placebo e non alle vecchie molecole. L'inseguimento del profitto hai suoi effetti collaterali. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 6 Mar. ’14 CARTELLO TRA ROCHE E NOVARTIS». MULTA DA 180 MILIONI ROMA — Una multa record, 180 milioni di euro, per due case farmaceutiche che hanno ingannato anziani affetti dalla degenerazione maculare senile, una malattia della retina che colpisce una persona su tre dopo i 75 anni. Se non viene curata in tempo porta alla cecità. In Italia i casi gravi sono circa 200 mila, da trattare con due farmaci. Uno costosissimo, «Lucentis», di Novartis, 900 euro, che ha un’indicazione specifica per questa patologia. Poi c’è il vecchio «Avastin», di Roche, sui 50 euro, nato per il tumore al colon, altrettanto efficace ma privo della scritta che sul foglietto illustrativo autorizza a darlo per la maculopatia. I medici che lo prescrivono con la procedura dell’off label se ne assumono la responsabilità. «Lucentis» è arrivato nel 2007. Da allora una parte degli oculisti e varie associazioni si chiedono perché i due medicinali non vengono messi sullo stesso piano. L’Antitrust ha dato una risposta con una sentenza che infligge una multa record alle due aziende: 180 milioni. L’accusa è di aver costituito un cartello per condizionare le vendite dei due principali farmaci anticecità. Secondo l’Autorità della concorrenza l’accordo tra i due colossi mondiali aveva l’obiettivo «di ostacolare la diffusione dell’uso di un farmaco molto economico a vantaggio di uno molto più costoso, differenziando artificiosamente i due prodotti». Veniva alimentata la tesi secondo cui le due molecole pur avendo lo stesso effetto sono diverse e solo quella targata Novartis è specifica per essere inoculata nella macula, con minori rischi. L’Antitrust stima che il presunto cartello abbia causato al nostro servizio sanitario«un esborso aggiuntivo di oltre 45 milioni di euro nel 2012 con prevedibili costi futuri fino a oltre 600 milioni di euro l’anno». Novartis e Roche respingono fermamente le accuse, negando ogni accordo e annunciano individualmente il ricorso al tribunale amministrativo, il Tar. Tra i primi a denunciare l’accaduto è stata la Società oftalmologica italiana, la Soi, presieduta da Matteo Piovella che ha accusato anche Aifa (l’agenzia nazionale del farmaco) per l’esclusione di «Avastin». Commenta Piovella: «La sentenza rimette a posto la situazione. Aifa ha di fatto bloccato l’impiego del farmaco che prima era utilizzato 9 volte su 10. Non è pericoloso. Equivale a “Lucentis” per sicurezza ed efficacia». Secondo Soi circa 100 mila persone restavano senza cure perché in molte Asl «Lucentis» non veniva rimborsato, in quanto non economico. La Regione Emilia Romagna non accettò l’esclusione di «Avastin» e lo impose come unica terapia mutuabile. Aifa si dichiara favorevole alla sentenza e rileva di aver raccomandato l’uso attento di «Avastin» su indicazione dell’Agenzia europea dei medicinali che segnalò «gravi reazioni avverse». Dopo quella di Torino, anche la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta. L’associazione Codacons attacca: «Ora ministero e Regioni chiedano i danni o agiremo con i risarcimenti». Margherita De Bac ____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 Mar. ’14 ROCHE E NOVARTIS: IL FARMACO TROPPO CARO E L’ALLARME (A VUOTO) DEGLI OCULISTI 700 € 10 € ROMA — C’era un «piano» ben determinato e concertato tra Roche e Novartis per gettare un allarme ingiustificato sul farmaco meno costoso e far sì che gli oculisti non avessero, com’è a tutt’oggi, il permesso dall’Aifa (l’agenzia del farmaco) per utilizzarlo. Malgrado studi internazionali avessero riconosciuto che i rischi e gli effetti nella cura di maculopatie di Avastin (di Roche, all’epoca 80 euro, ora circa 10) e Lucentis (di Novartis, all’uscita 2.019 euro, ora circa 700) fossero equivalenti. Sono sorprendenti le carte che hanno dato origine alla maximulta dell’Antitrust per i due colossi del farmaco, ora finite nei fascicoli anche della Procura di Torino, che da due anni lavora a 360 gradi sulla vicenda e ha già iscritto alcuni indagati ipotizzando un’associazione a delinquere per reati di vario genere, incluso l’aver fatto mancare le cure ai malati indigenti, e si avvia a chiudere il cerchio al più presto. E quella di Roma che due giorni fa ha aperto un fascicolo sul «patto» ipotizzando pure l’aggiotaggio e la truffa. Sorprendono alla luce degli allarmi inascoltati degli oculisti all’Aifa e al ministero lanciati già dal 2009. Un carteggio tra il presidente della Soi (Società oculisti italiani) e l’Aifa, dimostra che i medici avevano messo nero su bianco l’equivalenza clinica dei due farmaci e avevano lanciato l’allarme sui pazienti per mesi lasciati senza cure perché Lucentis era troppo costoso per essere rimborsabile e non poteva essere somministrato in ospedale, ma l’Avastin non aveva il via libera dall’Aifa. Così, mentre Novartis fa sapere di non aver ricevuto nessuna comunicazione dalla Procura di Roma, come ovvio giacché il fascicolo è ancora contro ignoti, e di aver sempre rispettato «il quadro regolatorio nazionale ed europeo», il presidente della Soi Piovelli chiede: «E ora cosa farà il ministro della Salute Beatrice Lorenzin? Ci permetterà finalmente di usare il farmaco meno costoso? E interverrà sull’Aifa che non ci ha dato ascolto lasciando per mesi nelle strutture pubbliche malati senza cura?». E la signora Tina, pensionata di 94 anni, indignata, segnala al Corriere : «Chi mi ridarà i 1.700 euro che ho dovuto tirar fuori dalla mia pensione per il farmaco che la clinica convenzionata non mi passava»? Partono dal febbraio 2009 gli allarmi inviati dal presidente Soi Piovelli al presidente dell’Aifa Pani e al suo predecessore Guido Rasi. Il massimo interlocutore scientifico dell’oftalmologia italiana scrive che «nel perseguire l’obiettivo primario di tutela della salute oculare dei cittadini ritiene necessario non escludere dalla legge il farmaco Avastin». Aggiunge che «non ci sono evidenze di effetti avversi» e che tutte le «comparazioni non hanno riscontrato nessuna differenza» tra Avastin e Lucentis. Niente. Il 18 giugno Piovelli avverte del «grave e ingiustificato vuoto di trattamento rimborsabile». Specifica che «l’autosufficienza di migliaia di pazienti è una responsabilità a cui non è possibile sottrarsi». Nulla. Scrive ancora, e ancora. Il 13 luglio 2011 torna a segnalare il «cavillo giuridico» che impedisce l’uso del «farmaco gemello» e segnala «l’enorme spreco» di denaro e il mancato «trattamento dei malati svantaggiati». Il 29 febbraio 2012 segnala a Pani lo studio indipendente Usa che testimonia l’«equivalenza» dei farmaci e sottolinea «con il costo del trattamento con Lucentis di un solo paziente se ne potrebbero curare 60 con Avastin». Nulla. Il 2 febbraio 2012 segnala al ministero della Salute il rischio «di danni irreversibili alla vista per 2 milioni di pazienti». Un carteggio che prosegue tra i «sospetti effetti avversi» sostenuti ancora ieri dall’Aifa. Intanto nel novembre 2011 gli avvocati Giorgio e Giancarlo Muccio dell’Aiudapds (associazione di medici di day surgery) presentano il primo esposto che finirà all’Antitrust. Contemporaneamente si svolgeva l’«attività» di Roche e Novartis per «creare ad arte inesistenti differenze di pericolosità», scrive l’Antitrust, basato su una «comunicazione efficace, convegni, finanziamento di pubblicazioni di revisioni degli studi comparativi, articoli». Ci sono le mail tra l’amministratore delegato della Roche che chiede al responsabile farmacovigilanza dell’azienda dell’«eventuale esistenza e consistenza di eventi avversi». E l’altro replica: «Ho guardato nel database di Aifa, ci sono 13 segnalazioni delle quali 4 sono casi di letteratura inseriti da noi. Le altre 9 provengono dal Nord dove storicamente si segnala di più». Praticamente zero. In una mail di inizio 2013 nell’«intento di difendere le vendite di Lucentis in Francia e Italia» raccomanda metodi spicci: «generando e comunicando preoccupazioni per la sicurezza di Avastin». Virginia Piccolillo ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 Mar. ’14 ROCHE-NOVARTIS. L'INDAGINE DI TORINO FARMACI: ADESSO È DISASTRO DOLOSO TORINO Non solo truffa ai danni del Servizio sanitario nazionale, come già dichiarato nei giorni scorsi, ma anche aggiotaggio, disastro doloso e associazione a delinquere. Sono questi i reati contestati dalla Procura di Torino ai vertici di Roche e Novartis per la vicenda dei due farmaci usati nelle cure oftalmologiche, Lucentis e Avastin. Sulla vicenda, esplosa mercoledì scorso in seguito alla multa di 180 milioni sanzionata dall'Antitrust ai due colossi farmaceutici con l'accusa di aver creato un «cartello», sta indagando dalla fine del 2012 – dopo le segnalazioni degli oculisti della Società Oftalmologica Italiana (Soi) – il pm Raffaele Guariniello, che ha anche affidato due consulenze su gli aspetti economici e sugli aspetti riguardanti la salute. Il disastro doloso si configurerebbe, secondo la Procura, per aver potenzialmente messo in pericolo la salute di un numero considerevole di pazienti in tutta Italia che, a causa dell'elevato costo del farmaco, non avrebbero potuto accedere alle cure. Roche e Novartis avrebbero infatti ostacolato illecitamente, accordandosi tra loro, la diffusione di un prodotto economico (Avastin, che costa al massimo 81 euro) destinato alla cura della degenerazione maculare senile e di altre gravi malattie degli occhi, in favore di un altro farmaco (Lucentis) molto più costoso: in media 900 euro, ma anche con punte di 1.700 euro. L'accusa di associazione per delinquere è invece legata all'ipotesi di truffa e al reato di rialzo o ribasso fraudolento dei prezzi. Nell'ambito dell'inchiesta, Procura di Torino ha anche aperto un fascicolo, per ora senza indagati, per l'ipotesi di corruzione, sulla base di un esposto presentato lo scorso dicembre contro l'Aifa (Agenzia italiana del farmaco) e l'Ema (European medicine agency) dalla Soi. Proprio tra Aifa e Soi sono volate reciproche accuse nei giorni scorsi. Sulla vicenda è intervenuta ieri anche il ministro alla Sanità Beatrice, invitata dal presidente della Commissione sanità del Senato Emilia Grazia De Biasi a riferire in commissione la prossima settimana. «L'Aifa sarà riformata – ha dichiarato il ministro –. Con una nuova legge cercheremo di evitare altri casi come quello Avastin-Lucentis». Lorenzin ha anche avviato la valutazione tecnica per proporre una legge che introduca nel sistema sanitario, su parere dell'Aifa, i farmaci «off-label» anche per motivi economici». All'indagine della procura di Torino si è inoltre affiancata mercoledì quella di Roma, che ha aperto un fascicolo processuale senza ipotesi di reato e senza indagati in merito alla vicenda Roche-Novartis. Gli accertamenti sono stati affidati al pool reati economici. Al centro delle indagini la verifica dell'eventuale organizzazione di una campagna artificiosa diretta a sminuire l'efficacia del farmaco Avastin. In questo caso potrebbero configurarsi le ipotesi di reato di aggiotaggio e di turbativa del mercato. R.I.T. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 Mar. ’14 «VIOLATA LA LIBERTÀ SULL’ABORTO» CONSIGLIO D’EUROPA CONTRO L’ITALIA MILANO — I medici obiettori: troppi, oltre il 70 per cento in tutto il Paese. Gli abortisti: talmente pochi da essere costretti a orari di lavoro massacranti. La libertà delle italiane che vogliono interrompere la gravidanza: calpestata o ignorata, con conseguenze a volte drammatiche. Sulla base di queste denunce, l’associazione non governativa International planned parenthood federation european network (Ippf) ha presentato un reclamo collettivo al Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa. La risposta è appena arrivata: l’Italia viola i diritti stabiliti dalla legge 194. «L’obiezione di coscienza non può impedire la corretta applicazione della norma». Una lunga battaglia legale. Iniziata quasi due anni fa (il reclamo 87 è stato depositato l’8 agosto 2012) con la partecipazione di varie associazioni — tra cui i ginecologi della Laiga — e il supporto legale degli avvocati Marilisa D’Amico e Benedetta Liberali, che hanno presentato, oltre al «ricorso», tutti i dati sulla «reale non applicazione della legge 194» (consultabili su www.coe.int/socialcharter). Esempio: «In Calabria — racconta D’Amico, ordinario di Diritto costituzionale alla Statale di Milano — i mediciabortisti sono quasi spariti; a livello nazionale, i ginecologi obiettori sono passati ufficialmente dal 58,7 per cento del 2005 a oltre il 70 del 2009, ma i dati ufficiosi raggiungono percentuali molto più alte». Precisazione: «Nessuno di noi vuole mettere in discussione il diritto a non praticare l’aborto, ma la legge 194/1978 parla chiaro: indipendentemente dalle dichiarazioni di obiezione di coscienza, ogni struttura deve poter sempre garantire la possibilità di interrompere la gravidanza». Questo principio — continuano i legali — non è rispettato. «Il crescente numero di obiettori compromette questa facoltà, in contrasto con la Costituzione italiana e la Carta sociale europea». Obiezione accolta, Italia condannata. Il Comitato europeo lo scorso settembre (la procedura prevede un periodo di embargo) ha accettato il reclamo di Ippf (che è presente in 172 Paesi a sostegno delle fasce deboli) accogliendone tutte le osservazioni. In particolare, «le autorità competenti non assicurano il diritto delle donne di accedere all’interruzione di gravidanza alle condizioni previste dalla legge 194, e ciò si traduce in una violazione del loro diritto alla salute garantito dalla Carta sociale europea». Altro punto, la «discriminazione irragionevole»: «Le donne sono costrette a spostarsi da una struttura all’altra, con ciò compromettendo il loro diritto alla salute, anche tenendo conto che in materia di interruzione volontaria di gravidanza assume un rilievo cruciale il fattore tempo». La decisione è stata presa a larghissima maggioranza: 13 voti favorevoli, uno contrario. Gli effetti della sentenza: «A breve — commenta Marilisa D’Amico — l’Italia dovrà dimostrare di aver cambiato rotta. Mi auguro che al più presto vengano presi i provvedimenti necessari per applicare la 194 in tutte le strutture nazionali». Aggiunge Vicky Claeys, regional director di Ippf: «Dimostrata una mancanza fondamentale nell’applicazione della legge italiana». E la battaglia è appena cominciata: un secondo reclamo (elaborato dagli avvocati D’Amico - Liberali) è stato presentato dalla Cgil, con Susanna Camusso. Il «ricorso» intende far valere non solo i diritti delle donne, ma anche quelli dei medici non obiettori «sui quali grava tutto il carico di lavoro relativo alle interruzioni di gravidanza». Annachiara Sacchi ____________________________________________________________ Unità 9 Mar. ’14 SPERIMENTAZIONE SUGLI ANIMALI QUEL DECRETO È UN PASTICCIO Robero Maria Antonietta Caminiti Farina Coscioni IL CONSIGLIO DEI MINISTRI HA APPROVATO IL DECRETO LEGISLATIVO CHE RECEPISCE LA DIRETTIVA EUROPEA SULLA SPERIMENTAZIONE ANIMALE, TESA AD ARMONIZZARE LE LEGISLAZIONI EU SU UN PROBLEMA economicamente ed eticamente sensibile. Non stupisce, quindi, che questa sia stata il risultato di un complesso negoziato tra tutti i soggetti interessati, mondo della ricerca, associazioni veterinarie, animaliste, dei pazienti, agenzie di finanziamento della ricerca. Il nuovo sistema normativo mira a garantire qualità della ricerca, benessere animale, informazione e consenso della pubblica opinione; attraverso il principio delle 3R (Replacement/sostituzione, Reduction/riduzione, Refinement/affinamento), promuove una progressiva riduzione e sostituzione, con metodi alternativi, dell'uso degli animali e il miglioramento di quelli oggi in uso nel loro trattamento. Il decreto approvato dal governo, temiamo inconsapevolmente, va in direzione opposta ed è caratterizzato da una esuberanza di divieti che riguardano l'uso degli animali per ricerche su tossicodipendenza, e per quell'insieme di approcci indicati con il nome generale di xenotrapianti (cioè trapianti di cellule o organi da animale ad uomo e viceversa), di uso comune per lo studio dei trapianti d'organo, per lo sviluppo di nuove valvole cardiache, in oncologia sperimentale, per citare gli esempi più comuni. Questi divieti entreranno in vigore il 1° gennaio 2017, ma entro il 30 giugno 2016 si dovrà accertare l'effettiva disponibilità dei cosiddetti «metodi alternativi». L'importanza di tali filoni di ricerca è evidente se si pensa, ad esempio, come le moderne terapie antitumorali, a causa della variabilità del comportamento dei tumori in pazienti diversi, mirino a una crescente «personalizzazione” della cura, grazie al trapianto di genoma di malati oncologici su topi nei quali si induce lo stesso tumore, e al successivo trasferimento sul paziente dei risultati della terapia rivelatasi più efficace nel modello animale. Sostenere di poter sperimentare sui trapianti d'organo e dipendenza fisica e psicologica dalle droghe su delle fettine di tessuto cardiaco o cerebrale, o prevedere l'effetto di terapie oncologiche su una piccola popolazione di cellule in vitro, evidenzia la prospettiva illusoria lungo cui si muove la ricerca dei cosiddetti metodi alternativi. Il decreto impone norme cautelari speciali per l'uso degli animali geneticamente modificati, che provocherà arbitrarietà di interpretazione e limitazione nello sviluppo di modelli animali cruciali per lo studio di malattie oncologiche, degenerative, neurologiche; la proibizione di procedure che non prevedano l'anestesia, che limiterà la ricerca sull'origine e natura del dolore, ma anche su ictus, e infarto cardiaco; la limitazione del riutilizzo degli animali, che comporterà un aumento del loro uso, in violazione al principio della riduzione. Il decreto abbonda di norme speciali (ben 5 articoli ad hoc!) sui primati non umani (scimmie), tutte di esclusiva inutilità. Il risultato è un pasticciaccio brutto su un argomento che il legislatore mostra di ignorare del tutto, ma che condizionerà significativamente l'uso di una specie a noi evolutivamente vicina per la ricerca di base e applicata in settori delicatissimi per la fisiologia e patologia umana. Il decreto del governo colpisce al cuore anche la formazione di quei giovani ricercatori che costituiscono a tutt'oggi il «capitale umano,' principale delle discipline biomediche, cioè i laureati in Scienze biologiche, naturali, farmaceutiche, biotecnologie, psicologia sperimentale, etc, poiché confina l'uso degli animali alla formazione di medici e veterinari, contrariamente alla direttiva Ue, che alla formazione dedica primaria importanza. Infine, il divieto di allevare cani, gatti e primati non-umani destinati alla ricerca scientifica, comporterà un deciso aumento dei costi d'acquisto e dipendenza dall'estero, peggiorerà il benessere degli animali, e renderà impossibili molte ricerche, quali quelle sullo sviluppo pre- e post-natale e sulle sue gravissime patologie. L'articolo 2 della direttiva europea, sul piano formale, vieta ai Paesi membri di applicare legislazioni più restrittive di quelle enunciate nella direttiva stessa, sul piano sostanziale promuove il principio delle 3R. Il decreto legislativo del governo viola nella forma e nella sostanza la direttiva Ue e colpisce al cuore la ricerca italiana in settori di eccellenza. Esso viola la libertà di ricerca, sancita dalla Costituzione e costerà all'Italia una sicura procedura di infrazione da parte della Ue. Per tutto ciò, a nome dei 13mila firmatari dell'appello www.salvalasperimentazioneanimale.it ci appelliamo al Presidente della Repubblica, perché non lo firmi. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 Mar. ’14 SÌ ALLE CURE CON LA CANNABIS Ma potranno prescriverla solo i medici PESCARA Via libera alla cannabis per uso terapeutico. Il Governo ha deciso di non impugnare la legge promulgata nello scorso gennaio dalla Regione Abruzzo nella quale è prevista l'erogazione su ricetta medica, che apre anche alla prescrizione dei medici di famiglia, dei farmaci galenici a base di cannabinoidi. Altre leggi regionali erano state invece impugnate dal Governo Monti. «Questa è una vittoria del buon senso perché già il ministero aveva autorizzato l'uso terapeutico e l'Abruzzo diventa capofila perché lo ha disciplinato», ha detto il consigliere regionale Maurizio Acerbo (Prc), promotore e primo firmatario della legge. In particolare, secondo la legge promulgata in Abruzzo, in base al piano terapeutico redatto da un medico specialista, i cannabinoidi potranno essere prescritti anche dai medici di base. «Affidare anche ai medici di base la prescrizione dei cannabinoidi per le cure terapeutiche, è una scelta strategica della nostra legge», ha detto Acerbo spiegando che un altro degli aspetti qualificanti «è la possibilità di trattamento anche domiciliare». La legge Acerbo prevede inoltre che la Giunta regionale possa stabilire convenzioni con centri attrezzati per la produzione e la preparazione dei farmaci. L'iter di approvazione regionale è partito l'11 settembre 2013 mentre la promulgazione è del 4 gennaio scorso. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 9 Mar. ’14 GESSA: LA MARIJUANA DEL FARMACISTA Gian Luigi Gessa - Via libera all'uso medico Il Governo ha dato il via libera all'uso medico dei cannabinoidi: potranno essere prescritti dal medico di base, preparati dal farmacista, assunti a domicilio, a carico del servizio sanitario nazionale. È una cattiva notizia per le multinazionali che vendono farmaci a base di cannabinoidi, meno efficaci della marijuana del mercato nero ma ben più costosi. Se il Ministero, lo specialista, il medico di base garantiranno che la droga preparata dal farmacista non porterà all'uso di droghe pesanti, non produrrà criminali o schizofrenici, perché non permetterne l'uso anche a chi utilizza la marijuana per combattere l'ansia, la depressione, i disagi della vita quotidiana o semplicemente per goderne gli effetti euforizzanti? I proibizionisti selezionano da un'immensa e controversa letteratura quelle verità favorevoli a demonizzare la marijuana. Gli antiproibizionisti fanno il contrario. Qui non intendo discutere se la marijuana sia più leggera delle droghe legali alcol e tabacco ma se la legge che la proibisce sia utile o dannosa. Prima che fosse proibita meno dell'1% degli americani aveva provato la marijuana. Oggi sono più del 50% i giovani dai 12 ai 35 anni che l'anno usata almeno una volta nella vita. Naturalmente la proibizione non è la causa della diffusione dell'uso della droga ma la diffusione è la prova che la legge che doveva cancellare "the assassin of youth" ha fallito. Si può obiettare che la proibizione ha mantenuto la diffusione della marijuana ad un livello inferiore a quello che altrimenti si sarebbe verificato senza la proibizione. La risposta a questo può venire dal confronto della diffusione della droga tra i paesi con severe sanzioni e quelli in cui l'uso della marijuana è decriminalizzato o legalizzato. Convince l'esempio olandese. Dove il possesso e l'acquisto di marijuana sono di fatto legali, l'incidenza dell'uso della droga è inferiore a quella dei paesi in cui il possesso è punito con la prigione. Se i successi sono così limitati, quali sono i danni prodotti dalla criminalizzazione della marijuana? In Italia essa contribuisce al sovraffollamento delle carceri e finire in carcere produce un danno alla salute psicofisica molto più grave dell'effetto di qualsiasi droga. Ma la proibizione causa danni anche a tutta la società. Il settore è in mano a criminali che non pagano le tasse, la repressione comporta alti costi ed infine, esenta il mercato da regole per la produzione e vendita delle droghe. Chi produce e vende alcolici deve possedere una licenza e rispettare i parametri di legge. Gli spacciatori non chiedono ai minori la carta di identità e non possono certo dare le garanzie di un farmacista. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 Mar. ’14 CANNABIS: EFFETTI NEGATIVI A LUNGO TERMINE» «Si tratta di capire bene quali sono le finalità e i destinatari della cannabis a uso terapeutico», commenta Antonio Spagnolo, direttore dell’Istituto di Bioetica della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma. «Quando non ci sono alternative e la situazione è grave anche la cannabis può essere considerata fra gli strumenti a disposizione del medico per alleviare le sofferenze del paziente. «Nei casi in cui i sintomi sono refrattari ad altri trattamenti e la cannabis riesce a combattere, oltre al dolore, anche l’ansia è giusto considerare questa opzione». «Il problema però, non è questo, ma, piuttosto, soppesare bene i rischi connessi con un eventuale trasferimento dell’utilizzo terapeutico della cannabis sul lungo termine», puntualizza il professor Spagnolo. «In questo caso bisogna valutare attentamente il bilancio costo/beneficio della scelta, perché gli effetti negativi di una somministrazione prolungata potrebbero essere maggiori di quelli positivi, perché, per esempio, ci sarebbe da considerare gli aspetti legati allo sviluppo di dipendenza». «Un altro fronte» — rinforza il bioeticista dell’Università Cattolica — è quello rappresentato dalla preparazione. Può non essere affatto facile, specialmente nelle preparazioni galeniche, avere un controllo esatto del contenuto effettivo in tetraidrocannabinolo (il principio attivo della cannabis) di ciò che viene somministrato». «Quindi — conclude Spagnolo — è decisivo capire quali sono i pazienti cui il trattamento è davvero destinato. Non si può trattare la cannabis come qualsiasi altro antidolorifico che si possa prescrivere da prendere a casa per periodi prolungati senza una seria indicazione e in presenza di precise condizioni, altrimenti, ripeto i danni potrebbero essere, sul lungo termine, maggiori dei benefici». Luigi Ripamonti ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 Mar. ’14 UNA APP PER VEDERE CON L'UDITO All'Università Ebraica di Gerusalemme si stanno studiando dei dispositivi che mirano a insegnare al cervello dei ciechi come percepire colori e forme usando gli altri sensi Amir Amedi Cosa accadrebbe se potessimo ascoltare i colori? O magari le forme? Di solito, percepiamo queste proprietà visivamente. Oggi però, utilizzando Dispositivi di Sostituzione Sensoriale (SSD), possiamo trasmetterle al cervello in modo non invasivo e per mezzo di altri sensi. Nel mio centro, dedicato agli studi sulla percezione e sulla cognizione umana (Edmond and Lily Safra Center for Brain Sciences presso l'Institute for Medical Research Israele-Canada dell'Università Ebraica di Gerusalemme), stiamo sviluppando questi SSD visuo-uditivi e visuo- tattili, in modo tale da offrire a pazienti non vedenti o con danni alla vista un mezzo per ricevere informazione visiva dall'ambiente e per interagire con esso in modi altrimenti inimmaginabili. Per menzionarne alcuni, l'SSD EyeMusic (disponibile gratuitamente nel l'Apple App Store) è un dispositivo che utilizza note musicali gradevoli per comunicare informazioni su colori, forme e posizione degli oggetti nel mondo, l'EyeCane è in grado di offrire informazioni su distanza e profondità e il sistema ibrido 3D Kinect-sounds EM-EC permette una completa mappatura 3D dello spazio circostante entro un diametro di cinque metri. Una delle parti più interessanti e complesse di questo programma di ricerca è cercare di capire come insegnare al cervello di un cieco a "vedere" utilizzando gli altri sensi in suo possesso. Stiamo sviluppando ad esempio un programma di addestramento unico nel suo genere, per insegnare ai non vedenti come estrarre e interpretare l'informazione visiva trasmessa, e stiamo mettendo a punto piattaforme per l'apprendimento online e per la creazione di ambienti virtuali. Mediante l'utilizzo di questi dispositivi e mediante l'addestramento, combinato con l'impiego di SSD di cui parlavamo, pazienti ciechi – perfino dalla nascita – sono stati in grado di imparare varie abilità complesse di tipo visivo. In due recenti pubblicazioni su Restorative neurology and neuroscience e Scientific Reports, abbiamo mostrato che sia utenti non vedenti che utenti vedenti ma bendati possono, grazie all'utilizzo di EyeMusic, percepire correttamente e interagire con gli oggetti, come ad esempio riconoscere differenti forme e colori e riuscire a raggiungere una bevanda. In un altro lavoro, che prevedeva sempre l'impiego di EyeMusic, abbiamo inoltre dimostrato che movimenti rapidi e accurati possono essere guidati da EyeMusic e da apprendimento visuo- motorio. In altri studi pubblicati da due delle riviste scientifiche più prestigiose, ovvero Neuron e Current Biology, abbiamo dimostrato che il non vedente può caratterizzare le immagini trasmesse in modo sonoro in categorie complesse di oggetti (come facce, case, scene all'aria aperta, oggetti della vita quotidiana), localizzare le posizioni delle persone, identificare espressioni facciali e leggere lettere e parole (per una dimostrazione dell'addestramento e dei test condotti mediante compiti di vario genere si veda il canale Youtube: LINK). Nonostante risultati comportamentali così incoraggianti, al momento gli SSD non sono largamente diffusi nella popolazione non vedente. Tuttavia, in una rassegna recente pubblicata su «Neuroscience & Biobehavioral Reviews», i miei colleghi e io spieghiamo che le ragioni per cui se ne è impedito l'impiego finora si sono, negli ultimi anni, prestate a migliori interpretazioni. In particolare, recenti impressionanti risultati comportamentali riguardano nuovi avanzamenti tecnologici che consentono agli SSD di essere molto più economici, piccoli e leggeri e di girare sui comuni Smartphone (come detto, adesso l'applicazione gratuita di EyeMusic può essere scaricata e utilizzata sui vostri dispositivi Apple touch come iPhone, iPad o iPod), nonché di incorporare nuovi sensori per colori e profondità. In aggiunta, metodi di addestramento e ambienti computerizzati come quelli menzionati aumentano capacità di addestramento e di prestazione. Dal punto di vista teorico, le scoperte degli ultimi dieci anni hanno mitigato i limiti imposti dalle teorie neuroscientifiche tradizionali. Si pensi a idee come quella dell'esistenza di periodi critici fissi, nella prima infanzia, durante i quali l'esperienza sensoriale sarebbe cruciale per il normale sviluppo o come quelle che emergono dalla tradizionale visione dell'organizzazione funzionale del cervello sulla base dei diversi input di tipo sensoriale (secondo cui la corteccia è divisa in aree di elaborazione visiva, aree uditive, eccetera). Queste scoperte dimostrano che molte aree del cervello sono caratterizzate dal compito computazionale che eseguono, ma possono essere attivate utilizzando sensi diversi da quelli comunemente utilizzati per attivare questa attività, perfino se non sono mai state esposte del tutto all'informazione sensoriale "originale". Per esempio, è stato dimostrato dal mio gruppo di ricercatori, in studi pubblicati su «Neuron» nel 2012 e su «Current Biology» nel 2011, che persone cieche dalla nascita, che hanno imparato a leggere attraverso il tatto utilizzando il metodo Braille o attraverso le loro orecchie con dispositivi di sostituzione sensoriale, utilizzano le stesse aree della corteccia "visiva" utilizzate dai lettori vedenti. Un esempio più recente di questo approccio è stato mostrare che i soggetti che "vedono" forme corporee attraverso le loro orecchie utilizzando SSD facevano uso selettivamente della stessa area cerebrale utilizzata normalmente in modo visivo dai vedenti, l'area corporea extrastriata (la cosiddetta EBA, da Extrastriate Body Area). Inoltre, l'EBA del non vedente appariva connessa funzionalmente all'intera rete neuronale di elaborazione corporea come nel vedente, quali ad esempio le aree implicate nel decifrare il linguaggio corporeo per interpretare le emozioni altrui. Risultati similari sono stati osservati da vari gruppi di ricerca che lavorano sul riconoscimento tattile e uditivo degli oggetti, sulla localizzazione degli oggetti, sull'identificazione di movimento, eccetera. Questo ha dato forza alla nostra teoria dell'organizzazione funzionale del cervello. Per noi, il cervello è una macchina i cui compiti sono indipendenti dai sensi specifici, piuttosto che una macchina sensoriale pura (visione, udito, tatto). «Il cervello umano è più flessibile di quanto pensiamo» sono solito dire. Questi risultati ci danno una grande speranza di successo nel recupero delle funzioni visive mediante l'utilizzo di dispositivi economici e non invasivi come gli SSD o mediante altri approcci di recupero della vista invasivi (come le protesi visive, ovvero quelli che comunemente vengono chiamati "occhi bionici"). Ci suggeriscono che, nel non vedente, utilizzando tecnologie e approcci di addestramento appropriati, le aree cerebrali potrebbero potenzialmente essere "risvegliate" a processare proprietà e compiti visivi anche dopo anni o anche dopo un'intera vita di cecità. In due rassegne, una uscita lo scorso anno su «Current Opinion in Neurology» e l'altra di quest'anno su «Neuroscience and Behavioral reviews», ho suggerito un nuovo sistema ibrido che trasmette informazione visiva in parallelo alle protesi visive e al dispositivo EyeMusic, in modo sincronizzato, per potenziare il recupero delle abilità visive in persone non vedenti nel decorso post operatorio per una protesi agli occhi (brevetto in corso di approvazione). Il potenziale di questa integrazione è stato migliorato dal lavoro di un tesista di Dottorato, Uri Hertz, recentemente pubblicato su «Cerebral Cortex» e che indaga l'interazione tra input sensoriali regolari e input ricevuti mediante sostituzione sensoriale. (Traduzione di Elisabetta Sirgiovanni) ____________________________________________________________ Corriere della Sera 9 Mar. ’14 LA VITA BREVE DELLE NOSTRE BUGIE MENO DI MEZZO SECONDO PER SVELARLE Così il cervello riesce a riconoscere chi mente in 300 millesimi A volte ci basta un’occhiata, e a qualcuno anche meno. Ci basta un’occhiata per comprendere che qualcuno sta fingendo o sta dicendo un bugia. Direi che ce ne accorgiamo subito o non ce ne accorgiamo proprio. Purtroppo qualcuno appartiene alla categoria di quelli che non si accorgono e si fanno invariabilmente ingannare; sono alcuni autistici o persone che hanno qualche problema alla amigdala, la sede cerebrale della memoria emotiva. Per il resto siamo abbastanza attrezzati contro la simulazione e l’inganno. Ci mettiamo un terzo di secondo, cioè 300 millesimi di secondo, ad accorgerci che qualcuno finge, quando ce ne accorgiamo. Questa osservazione è stata fatta all’Università di Milano Bicocca, in collaborazione con il Cnr e gli atenei di Parma e San Diego in California. Ad alcuni volontari sono state fatte osservare immagini di persone che mostravano un’espressione consona con lo stato d’animo denunciato e persone che fingevano. Lo stato d’animo veniva ovviamente espresso in parole in una dichiarazione a parte. Il cervello dei volontari era contemporaneamente «osservato» con una risonanza magnetica a bassa risoluzione per cogliere «sul fatto» l’attività di questa o quella regione cerebrale. Nel caso di simulazione la corteccia orbito- frontale del volontario, e precisamente nella sua regione ventromediale, si attiva appunto in 300 millisecondi e «svela» l’inganno. Ci sono da dire due cose. La prima è che il «ritardo» di 300 millisecondi non è affatto un ritardo, perché questo è esattamente l’intervallo di tempo che ogni percezione richiede per giungere alla coscienza. Da ciò ne segue che la presa di coscienza è richiesta per svelare l’inganno e che, se c’è, il riconoscimento è immediato. Non sappiamo che cosa accade in quei 300 millisecondi, ma certo deve trattarsi di un periodo di frenetica consultazione delle diverse parti del cervello da parte della corteccia cerebrale. In questo caso «l’autorità» consultata contiene almeno le regioni dell’amigdala che ci fornisce il ricordo vivente di esperienze precedenti e dell’effetto che ci hanno fatto. In un attimo consultiamo il «notaio» che tiene i registri delle nostre esperienze emotive, praticamente da quando siamo nati, ma ovviamente con la prevalenza delle esperienze più recenti. Sappiamo che in animali di laboratorio l’amigdala si può ingannare: sottoposti a nuovi condizionamenti o, meglio, ricondizionamenti, positivi o negativi, le cellule delle varie parti dell’amigdala si possono ingannare, facendo «imparare» informazioni sbagliate al soggetto dell’esperimento. Nell’uomo l’esperimento non avrebbe senso, ma l’osservazione in oggetto potrebbe spiegare perché ci facciamo più facilmente ingannare da persone che conosciamo da tempo e delle quali ci fidiamo. «Oh che lieve è ingannar chi s’assecura!» dice il Petrarca. Esistono poi persone che tendiamo a definire «venditori di tappeti», anche se nulla hanno a che fare con tale attività, che hanno un dono naturale nel solleticare la nostra amigdala in modo da farsi più spesso prendere sul serio. E chi ha orecchi per intendere, intenda. In secondo luogo, la corteccia orbito-frontale è una vecchia conoscenza che sovrintende a molte delle nostre decisioni, segnalandoci in particolare se sono completamente soddisfacenti o in parte sospette. Insomma tende a essere il decisore ultimo o, meglio, il mentore del decisore stesso. Moltissime cose le abbiamo decise in maniera appropriata grazie alla sorveglianza di questa parte della corteccia anteriore, ma quante cretinate abbiamo fatto grazie anche al suo avallo! Insomma, gli imbroglioni esisteranno sempre, come esisteranno sempre i «gonzi», ma ora conosciamo un po’ di più i meccanismi sottostanti. D’altra parte come sarebbe la vita senza simulazione? ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 Mar. ’14 LA MACCHINA DELLA VERITÀ MENTE Arnaldo Benini Nella rubrica "Neuroscience and Law" della rivista «Nature Review Neuroscience» sono pubblicati saggi e comunicazioni sul l'applicazione delle neuroscienze cognitive a problemi della giustizia. Il Sole 24 Ore del 22 settembre 2013 ha riferito sulle valutazioni neuroscientifiche, in alcuni tribunali degli Stati Uniti, del grado di sviluppo del cervello in casi di omicidio commesso da minorenni. Lo studio pubblicato ora è il bilancio di 10 anni di ricerche di base sulla fenomenologia nervosa della menzogna, orientate all'introduzione, nella pratica giudiziaria, di una procedura scientificamente valida per identificare chi mente volontariamente. Negli Stati Uniti la sollecitazione politica e sociale preminente a questi studi è la lotta al terrorismo. Il problema di smascherare il bugiardo è antico. Nell'antica Cina, ad esempio, la persona sospetta doveva riempirsi la bocca di riso secco e poi sputarlo. Il nervosismo della menzogna attivava il sistema simpatico con blocco della salivazione, e quindi il bugiardo impiegava più tempo del normale per sputar fuori il riso che s'era appiccicato alle guance. La soluzione "scientifica" del problema non è in vista. Oggi, negli Stati Uniti, si valutano il tono della voce, il linguaggio, la fisionomia e le reazioni del sistema simpatico allo stato d'animo della menzogna deliberata, come il rialzo della pressione sanguigna sistolica, l'accelerazione del polso e della respirazione. I risultati sono aleatori e arbitrari. Queste procedure sono impiegate nelle indagini, non nelle pratiche giudiziarie. Le neuroscienze puntano allo studio del cervello della persona sospetta di mentire volontariamente, impiegando la risonanza magnetica cerebrale funzionale (fMRI), che indica quali aree del cervello sono attive per le modificazioni fisiologiche associate ai processi nervosi. I nodi fondamentali della procedura sono tre. Innanzi tutto l'identificazione delle aree cerebrali coinvolte nella menzogna. Poi l'affidabilità dei dati dell'attività nervosa che produce la menzogna. La fMRI mostra l'area attiva in un particolare evento, ma non il suo contenuto. Infine occorre riflettere sugli aspetti morali e sociali della procedura. Circa quest'ultimo punto, per ora c'è poco da dire, perché non sono ancora chiare l'affidabilità dei risultati e le pratiche concrete dell'indagine. Circa il primo punto, le menzogne non sono una categoria omogenea del comportamento. Ci sono menzogne per profitto, altre per proteggere qualcuno, si mente su cose gravi e su banalità. La menzogna può essere una dichiarazione falsa ma anche l'omissione di un'informazione. Una difficoltà nell'interpretazione dei dati è la differenza dello stato d'animo fra un volontario che, in laboratorio, ha il compito di mentire su eventi che gli sono indifferenti, e soggetti che, nelle indagini e in tribunale, mentono su eventi gravi che li toccano da vicino. Ogni categoria ha un substrato nervoso suo proprio, condizionato dal l'intensità dell'emozione. Le regioni più sospette come aree della menzogna volontaria sono la corteccia prefrontale, la parte anteriore della corteccia cingolata e la corteccia parietale, aree attive quasi in ogni evento mentale. Le regioni cerebrali che, nei test su verità e menzogna, mostrano nella fMRI attività più intensa sono considerate correlate alla falsità. Con eccezioni vistose: ad esempio, criminali con disturbi antisociali della personalità, non mostrano la altrimenti frequente attivazione prefrontale in caso di menzogna deliberata. In linea di massima, la dichiarazione veritiera sarebbe correlata a una attivazione meno intensa della menzogna. Oltre alla menzogna deliberata occorre identificare il meccanismo nervoso della falsità involontaria per difetto dei meccanismi della memoria. È già ora convinzione corrente che la metodologia non sarà applicabile a persone anziane con segni d'invecchiamento cerebrale, a coloro che hanno subito traumi o altre lesioni del cervello e agli schizofrenici. Il problema lontanissimo dalla soluzione è la specificità delle modificazioni della corteccia rilevate dalla fMRI: è impossibile, per ora, escludere che eventi mentali diversi dalla menzogna volontaria abbiano attivazioni identiche alle aree corticali registrate dalla fMRI in caso di dichiarazione falsa, tanto più che le aree interessate sono più o meno le stesse per qualunque attività mentale. Inoltre è nota la comparsa spontanea e casuale di attività corticale circoscritta senza eventi materiali, come un movimento, o mentali. Gli studi sono interessanti per la comprensione dei meccanismi nervosi di un evento frequente nella vita, la scelta di non dire la verità. Il bilancio dell'articolo, critico e scrupoloso, è un panorama delle difficoltà da superare per avere una procedura tecnicamente indiscutibile e moralmente ineccepibile a disposizione della giustizia. L'applicazione pratica non è imminente e non è escluso che si riveli impossibile, a dispetto delle esigenze della lotta ai movimenti micidiali del terrorismo. ajb@bluewin.ch © RIPRODUZIONE RISERVATA Martha J. Farah, J.Benjamin Hutchinson, et al., Functional MRI-based lie detection : scientific and social challenges, Nature Review Neuroscience 15, gennaio 2014, 123-131, 2014 doi:10.1038nrn3665 ____________________________________________________________ Corriere della Sera 9 Mar. ’14 STRESS CRONICO E TRAUMI INFANTILI FRA LE (MOLTE) POSSIBILI CAUSE DELLA TROPPA PAURA DI AMMALARSI Per il trattamento di questa particolare patologia buoni risultati dalla psicoterapia cognitivo-comportamentale Sono percepiti come veri e propri sintomi, e talvolta arrivano a essere invalidanti, eppure non hanno una spiegazione medica convincente: sono quelli che in inglese si chiamano Medically Unexplained Physical Symptoms (Mups ). Rappresentano tra il 25 e il 50% dei sintomi che le persone dichiarano ai propri medici di medicina generale. Oltre l’80% di essi scompare spontaneamente nel giro di breve tempo. Resta però un 20% circa di sintomi inspiegabili che possono tendere a diventare cronici, tra i quali i più tipici sono fatica, vertigini, dolori di vario genere. Situazioni stressanti per chi ne soffre, anche perché vengono facilmente considerati esagerazioni o addirittura finzioni. Senza contare che chi ne soffre corre anche il rischio di essere sottoposto a procedure diagnostiche inutili e dolorose, a trattamenti medici ingiustificati o addirittura a interventi chirurgici non necessari. Secondo il dottor Nikki van Dessel, del Department of General Practice and Elderly Care Medicine, dell’University Medical Center di Amsterdam, che assieme ad alcuni suoi collaboratori ha pubblicato un articolo sull’argomento sulla rivista Journal of Psychosomatic Research, almeno tre differenti teorie potrebbero spiegare i Mups . «Una incorpora il modello della teoria dell’amplificazione somatosensoriale , secondo la quale una sensazione fisica porta a un aumento di attenzione verso quella sensazione, da cui si generano false attribuzioni e interpretazioni ad essa relative. Questo crea un circolo vizioso dal momento che amplifica la percezione del sintomo — spiega van Dessel —. Una seconda teoria fa parte del modello della teoria della sensitività : alcuni individui sono più vulnerabili di altri nel manifestare e mantenere sintomi fisici. I fattori correlati a questa vulnerabilità sono specifici tratti di personalità, come la presenza di tratti nevrotici, il pensiero catastrofico e l’aver avuto esperienze traumatiche durante la prima infanzia. Una terza teoria è basata sul fatto che lo stress fisico o psicologico influenza il sistema ormonale di risposta allo stress stesso, ossia l’asse adreno-ipofisario-ipotalamico. Uno stress prolungato può portare questo asse a una regolazione verso il basso, con una conseguente riduzione di produzione del cortisolo. Il risultato è un aumento della sensibilità allo stress. Quest’ultima teoria riflette l’esistenza di un’interfaccia tra corpo e mente e può quindi fornire una connessione concreta tra il carico psicologico e i sintomi fisici». Una revisione sistematica di studi effettuati sul campo, realizzata da Kate Dunn e da alcuni collaboratori della Keele University inglese, pubblicata sul British Journal of General Practice , ha esplorato il fenomeno della “trasmissione” dei Mups attraverso le generazioni. La revisione ha messo in evidenza come le persone che si recano dal proprio medico lamentando dei Mups, abbiano maggiori probabilità di accompagnare poi dal medico figli che lamentano Mups a loro volta. «Non è chiaro il meccanismo attraverso il quale si forma questa associazione tra genitori e figli — dicono gli autori dello studio —. Esiste comunque una qualche prova del fatto che possa esserci una base genetica, condivisa con fattori ambientali, oltre che con un possibile apprendimento comportamentale da parte dei ragazzi». Per riuscire ad aiutare persone che lamentano in maniera continuativa dei Mups sono stati tentati diversi approcci terapeutici. Secondo Kate Dunn alcune ricerche avrebbero dimostrato una certa efficacia della psicoterapia cognitivo comportamentale: si tratta dello stesso tipo di psicoterapia che funziona anche su una condizione vicina ai Mups, quella che una volta si chiamava ipocondria, e oggi viene indicata come disturbo da ansia di malattia . Lo indicano i risultati di una ricerca, realizzata da un gruppo guidato dal professor Peter Tyrer del Centre for Mental Health dell’Imperial College di Londra, e pubblicata sulla rivista The Lancet . La ricerca è stata effettuata su un gruppo costituito da circa 450 persone tra i 16 e i 75 anni di età, che erano state individuate in vari reparti cardiologici, endocrinologici, gastroenterologici e pneumologici in sei diversi ospedali inglesi. Una parte di loro ha ricevuto una media di sei sessioni di psicoterapia, che è stata realizzata da parte di operatori sanitari, compresi infermieri, appositamente formati; gli altri pazienti hanno seguito il normale percorso di cura. Quando a distanza di un anno è stata fatta la rilevazione dei livelli di ansia, i ricercatori hanno verificato che il gruppo trattato con la psicoterapia mostrava una significativa riduzione di tali livelli. Inoltre, paragonando i costi della psicoterapia con quelli generati dalle ansie di malattia, non sono emerse differenze significative. Quindi la psicoterapia ha ridotto i livelli di ansia dei pazienti, senza incrementare il costo dei servizi sanitari impiegati. Comunque, esistono alcune riserve sulla possibilità e sull’opportunità di importare nella pratica clinica corrente il trattamento psicoterapico cognitivo-comportamentale: considerazioni critiche provengono. per esempio, da Chris Williams e Allan House dell’Institute of Health and Wellbeing della University of Glasgow, in un editoriale di commento, anch’esso pubblicato su The Lancet . Sottolineano infatti come la psicoterapia non possa essere considerata una forma di trattamento specifica per l’ipocondria o ansia di malattia, essendo utilizzata in maniera aspecifica in diversi disturbi psicologici; e fanno anche notare che i numeri assoluti delle persone che hanno tratto beneficio, poche decine, sono piccoli rispetto al grande numero di persone valutate, che erano diverse migliaia. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 8 Mar. ’14 VIOLENZE SU MEDICI E INFERMIERI IN CINA LA CORRUZIONE MINA ANCHE LA FIDUCIA Trentamila medici cinesi in una settimana hanno firmato una petizione online per il ristabilimento di una «relazione armoniosa» tra ospedali e pazienti. Dietro questa formula apparentemente ingenua c’è un male oscuro al centro del sistema sanitario della Repubblica popolare: i pazienti aggrediscono e uccidono i loro medici e i loro infermieri. Gli ultimi due casi atroci questa settimana. A Nanchino un’infermiera ventenne è rimasta paralizzata dopo essere stata picchiata e scaraventata dalle scale dai genitori di una ragazza ricoverata. La colpa dell’infermiera: aveva piazzato un altro malato, appena uscito dalla sala operatoria, nella corsia femminile, dove c’era l’unico letto libero del reparto. I genitori avevano protestato, valendosi del loro status sociale: curatrice del museo delle Scienze la madre; capo ufficio alla Procura il padre. Non ottenendo soddisfazione sono andati in reparto e hanno massacrato l’infermiera. Nella provincia del Guangdong un centinaio di amici e parenti di un giovane morto al pronto soccorso hanno preso d’assalto l’ospedale, preso in ostaggio un medico di guardia e poi lo hanno trascinato per le strade. Non sono episodi isolati di follia: nei primi otto mesi del 2013 sono state registrate 2.240 aggressioni al personale sanitario, in media 27 casi di violenza per ogni grande ospedale della Cina. Il fenomeno è tanto grave che il ministero ha deciso di inviare rinforzi di polizia. A Shanghai sono stati istituiti corsi di difesa personale: ai medici viene insegnato come usare sedie o anche le mani per schivare le percosse. La professione medica è in piena crisi in Cina, personale sottopagato, ospedali sovraffollati. E molta corruzione: si pagano tangenti per essere visitati e curati. La gente non si fida: un sondaggio su 250 mila persone ha rilevato che il 67% della gente non crede ai dottori, alle loro diagnosi, alle terapie. E il 78% dei medici censiti dall’Associazione nazionale di categoria ha risposto di non volere assolutamente che i loro figli seguano la loro professione. Ecco spiegato l’appello perché si ricostituisca un «sistema armonioso». Guido Santevecchi ____________________________________________________________ Le Scienze 2 Mar. ’14 PERCHÉ L'AUTISMO È PIÙ DIFFUSO TRA I MASCHI Per manifestare i disturbi del neurosviluppo e in particolare dello spettro autistico, le mutazioni genetiche legate allo sviluppo cerebrale devono essere più gravi nel caso delle femmine rispetto ai maschi. Lo dimostra un'estesa analisi su decine di migliaia di soggetti, che documenta per la prima volta l'origine genetica di una E' noto da tempo che i disturbi dello spettro autistico, caratterizzati da comportamento anomalo nelle relazioni sociali, disturbi della comunicazione e comportamenti stereotipato, colpiscono con più frequenza i maschi delle femmine. Un ampio studio pubblicato sulla rivista “American Journal of Human Genetics” ha dimostrato ora che i sintomi dell'autismo si manifestano nel sesso femminile in presenza di mutazioni genetiche più gravi di quelle che invece caratterizzano la comparsa della patologia neil sesso maschile. “Questo è il primo studio che dimostra in modo convincente la differenza genetica tra uomini e donne rispetto alle manifestazioni cliniche di questo deficit del neurosviluppo”, ha spiegato Sébastien Jacquemont, dell'Ospedale universitario di Losanna, primo autore dell'articolo. “Il risultato indica che, a parità di mutazioni genetiche, esistono diversi livelli di suscettibilità alla malattia e che le donne sembrano avere un chiaro vantaggio”. Bambini con disturbi dello spettro autistico durante una lezione (© Najlah Feanny/Corbis)Le statistiche epidemiologiche hanno evidenziato da tempo una differenza di genere in vari disturbi dello sviluppo neurologico, tra cui i disturbi dello spettro autistico, il ritardo mentale e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Alcuni studiosi hanno spiegato il fenomeno con un biassociale, cioè una distorsione delle valutazioni cliniche indotta dal pregiudizio, che porterebbe a un eccesso di diagnosi nei soggetti maschi. Altre ricerche, invece, ne hanno individuato la causa in una differenza di suscettibilità alla malattia a livello genetico, senza però arrivare a conclusioni esaurienti. In quest'ultimo studio, Jacquemont e colleghi hanno analizzato campioni di DNA raccolti in circa 16.000 soggetti con disturbi del neurosviluppo e in circa 800 famiglie in cui almeno un membro è autistico. I ricercatori hanno conteggiato due specifiche mutazioni genetiche che hanno influenza sul neurosviluppo: le variazioni nel numero di copie di interi geni, e le variazioni di singolo nucleotide, cioè mutazioni che riguardano i singoli nucleotidi, "anelli" che costituiscono la catena del DNA. E' così stato possibile evidenziare le differenze di genere a livello genetico: per quanto riguarda in generale i disturbi del neurosviluppo, nella popolazione femminile colpita sono presenti molte più variazioni nel numero di copie rispetto alla popolazione maschile, mentre nel caso specifico dei disturbi dello spettro autistico le femmine hanno rispetto ai maschi più variazioni di singolo nucleotide. Questi risultati vengono interpretati ipotizzando che il cervello femminile richieda un maggior numero di alterazioni genetiche rispetto ai maschi per produrre i disturbi del neurosviluppo. “Complessivamente, a parità di mutazioni in grado d'influenzare lo sviluppo cerebrale, il cervello delle femmine funziona molto meglio”, ha concluso Jacquemont. “Le nostre conclusioni potrebbero portare all'elaborazione di approcci più raffinati per lo screening diagnostico dei disturbi del neurosviluppo”. ____________________________________________________________ Unione Sarda 29 Gen. ’14 MARIOTTI: PER LA TIROIDE ATTENZIONE SENZA PAURA ENDOCRINOLOGIA Parla il prof. Mariotti L ' invito dei medici specialisti è alla prudenza, non all'allarmismo. Perché sebbene in Sardegna l'incidenza delle patologie tiroidee superi di circa il 40 per cento la media nazionale, la stragrande maggioranza di esse può essere trattata adeguatamente dalle moderne terapie. Il primo mito è così sfatato: le popolazioni prossime al mare non sono preservate da questo genere di malattie. «Lo iodio, elemento essenziale degli ormoni tiroidei e ricco in natura nelle acque marine, non può essere significativamente assorbito in ambienti distanti oltre il chilometro e mezzo dalle coste», spiega Stefano Mariotti, professore ordinario di Endocrinologia nel dipartimento di Scienze Mediche Internistiche del Policlinico Universitario di Monserrato. «Una falsa credenza ha così creato un effetto “collaterale”: ha illuso molti sardi di poter fare a meno del sale appositamente arricchito di iodio. La carenza di iodio, responsabile di alcune patologie della tiroide, rappresenta un problema epidemiologico rilevante per la Sardegna». Nell'Isola infatti le persone che soffrono di un malfunzionamento della tiroide, nello specifico di ipotiroidismo, sono 82 mila. Numeri non trascurabili considerata la popolazione totale sarda. Tuttavia l'aumento dei casi diagnosticati può essere spiegato, come per tante altre patologie, non solo con l'incremento dei fattori ambientali nocivi e inquinanti, ma anche con il numero sempre maggiore di test diagnostici a cui si sottopone la popolazione. Insomma, non aumentano solo i pazienti affetti da noduli e tumori tiroidei, ma diminuiscono soprattutto i casi non diagnosticati. La tendenza dei pazienti inoltre è quella di reputare pericolose disfunzioni che non lo sono: «Il riscontro occasionale di noduli è sempre più frequente grazie all'utilizzo dell'ecografia», dice Mariotti. «Possiamo evidenziare masse di piccole dimensioni che spesso però non hanno alcuna rilevanza clinica. La comparsa di un nodulo infatti non è sintomo di tumore, anzi, soltanto il 5 per cento dei noduli evidenzia tumori maligni (carcinomi); la maggior parte sono lesioni benigne (cisti, adenomi, noduli di iperplasia)». La diagnosi definitiva può arrivare esclusivamente dall'esame citologico mediante ago-aspirazione del nodulo tiroideo. Inoltre va sottolineato il fatto che la maggior parte dei carcinomi differenziati della tiroide hanno una buona prognosi con un bassissimo tasso di mortalità anche a distanza di trent'anni dalla diagnosi. Da Mariotti arriva quindi un appello di buon senso rivolto a colleghi e pazienti. «L'elevata prevalenza dei noduli tiroidei, il loro basso rischio di malignità e l'indole scarsamente aggressiva delle forme tumorali ci portano a sconsigliare la messa in atto di screening ecografici indiscriminati nella popolazione generale». Le cause scatenanti ancora da accertare con completezza e la silenziosità dei sintomi o la loro frequente diagnosi errata affidano quindi al medico di base il compito della scrematura dei pazienti bisognosi di ulteriori accertamenti, nonostante sia stato confermato che alcune forme tumorali alla tiroide non hanno inciso sulle aspettative di vita di pazienti ignari di esserne affetti. Le vere sfide per gli specialisti sono altre: la Sardegna, a causa di caratteristiche genetiche, presenta un'alta prevalenza e incidenza di malattie autoimmuni; tra queste vanno incluse anche le tiroiditi autoimmuni. La loro tempestiva identificazione e cura rappresentano oggi un obiettivo prioritario. Luca Mascia