RASSEGNA STAMPA 23/03/2014 UNIVERSITÀ: LAUREA: CI ARRIVA SOLO IL 45,3% TRA I NEO-DIPLOMATI IL 44% INSODDISFATTO DI SCUOLA E INDIRIZZO UNIVERSITÀ: ANATOMIA DÌ UN DELITTO SCELLERATO SE SI ALLUNGA LA LAUREA BREVE UNICA: L'UNIVERSITÀ SI ALLARGA LA RIVOLUZIONE SILENZIOSA PER VALUTARE IL MERITO L'ABILITAZIONE CHE PIACE AI «GIOVANI» COMMISSARIO POLITICO ALL’UNIVERSITÀ UNIVERSITÀ E RICERCA IN ITALIA: IL RAPPORTO DELL'ANVUR UNIVERSITÀ ITALIANA: MENO FONDI E LONTANA DALL'EUROPA ATENEI, IL «BIDONE» CON I CORSI AD HOC CHI INVESTE IN CULTURA RILANCIA L'ITALIA I 70 MASTER ITALIANI AL TOP NEL MONDO SE L'AMERICA PRIVATIZZA LA RICERCA SUPER COMPUTER PER IL CALCOLO DEI TRASPORTI QUEI RAGAZZI TROPPO CONNESSI FIGLI DEL CATTIVO ESEMPIO I GENITORI INFRANGONO IL TABÙ «IL FIGLIO PREDILETTO ESISTE» L'INTERNET VELOCE CORRE SUL DOPPINO CARBONIA FELICE E VENEZIA TRISTE XP: TORNA LA PAURA PER IL MILLENNIUM BUG ========================================================= IN 10 ANNI MANCHERANNO 15MILA MEDICI CENTOTRENTA BORSE DI STUDIO PER LA RICERCA IN MEDICINA LORENZIN: LA SANITÀ RISPARMIERÀ PIÙ DI 3 MILIARDI" PRIMARI O DIRIGENTI? AMBIENTE E SALUTE A RISCHIO ANCHE PER I MOZZICONI DI SIGARETTA SARDEGNAIT: AFFITTI SOSPETTI SARDENGNAIT: TURBATIVA D’ASTA, INDAGATO ZUNCHEDDU AOUCA: CHIRURGIA, I POSTI-LETTO SONO SOLO AGGIUNTIVI» AOUCA: OCULISTICA: POSTO LETTO SENZA DEGENTI ASL8: TRAPIANTO APLOIDENTICO IL NO DI LA NASA ASL8: UN MEDICO SARDO A CAPO DI 36 SCUOLE DI ECOGRAFIA AOB: ECCELLENZE IL REPARTO DI PEDIATRIA: SCENDE LA SPESA OSPEDALIERA PER I FARMACI TROPPO RUMORE, COSÌ DIVENTIAMO SORDI. UNA MEMBRANA CI ISOLA DAI SUONI CHE NON CI PIACCIONO ANEURISMI E ICTUS: PERCHÉ NON SONO PIÙ TRAGEDIE SENZA RITORNO IN CELLA CONTRAGGONO MALATTIE IL 60-80% DEI DETENUTI ORA IL COLESTEROLO CONTENUTO NEI CIBI PREOCCUPA MENO LE SCOPERTE NON FINISCONO MAI NEMMENO IN ANATOMIA LA CRONOTERAPIA PUÒ SERVIRE ANCHE NEI TUMORI DA TBC A EPATITE SONO MALATI 8 DETENUTI SU 10 L’AREA 12 DIVIDE UOMO E MACACO L’OSSESSIONE DELLA VELOCITÀ: IMPAZIENZA E IMPASSE LA RIVOLUZIONE DEI LINFOCITI DALLE PROTEINE UN MODO DIVERSO PER STUDIARE IL PASSATO LA PROTEINA CHE PROTEGGE IL CERVELLO CHE INVECCHIA LE RESPONSABILITÀ DI CHI SI OPPONE AL GOLDEN RICE ========================================================= ____________________________________________________________ Repubblica 21 Mar. ’14 UNIVERSITÀ, IL MIRAGGIO DELLA LAUREA: CI ARRIVA SOLO IL 45,3% DEGLI ISCRITTI I dati Anvur evidenziano una situazione preoccupante. Alta la percentuale degli studenti che per conseguire l'agognato diploma impiegano molti più anni di quanto sia previsto, ma anche quella di chi abbandona gli studi. E poi ci sono gli "inattivi": pagano le tasse ma non vanno avanti di SALVO INTRAVAIA Studenti italiani bamboccioni o percorsi universitari ad ostacoli? Quello descritto dall'Anvur col Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013, più che un disastro annunciato, appare un disastro conclamato. I dati parlano di carriere universitarie infinite, quando non si interrompono a metà. E di studenti "inattivi", che si iscrivono e pagano consistenti tasse ma che poi non riescono a superare neppure una materia - o a conseguire crediti, come si dice più correttamente adesso - per un anno intero e forse più. Parcheggiati in attesa di fare altro o alle prese con un difficile adattamento al nuovo percorso di studi? Sta di fatto che, una volta iscritti all'università, in tutti gli altri Paesi europei gli studenti riescono a laurearsi prima dei nostri ragazzi. In Italia, la situazione descritta dai numeri appare piuttosto grave: il cosiddetto "tasso di completamento dell'istruzione universitaria" è pari al 45,3 per cento, contro il 79,4 del Regno Unito, il 72 per cento della Finlandia e il 64 per cento della Francia. Sarebbe anche questa la causa del penultimo posto in classifica dell'Italia per giovani 25/34enni in possesso di una laurea. In Europa soltanto la Turchia fa peggio di noi. Ma spulciando i dati messi a disposizione dall'Anvur si capisce perché in Italia i laureati sono ancora troppo pochi. Analizzando gli immatricolati nei corsi triennali dell'anno 2003/2004, a nove anni di distanza - nel 2012/2013 - cioè dopo un lasso di tempo pari al triplo della durata legale dei corsi, soltanto il 55 su cento risultano laureati. Ben 38 hanno nel frattempo lasciato gli studi e 7 su cento sono ancora iscritti nella speranza di ottenere l'agognato diploma di laurea. In altre parole, su poco più di 300mila immatricolati ai corsi di primo livello, ben 115mila hanno abbandonato l'università. Il fatto è che, mediamente, i ragazzi italiani impiegano quasi 5 anni a conseguire la laurea di primo livello, quella triennale. Stando a sentire coloro che si cimentano ogni giorno con lezioni ed esami, la riforma del 3+2 varata nel 1999 ha ridotto la durata dei precedenti percorsi quinquennali - con 25/30 materie - in percorsi triennali. Ma con un numero molto simile di materie, che spesso conservano le stesse difficoltà e programmi soltanto alleggeriti di poco rispetto a prima della riforma. Nel 2011 soltanto un quarto dei laureati - il 25,5 per cento del totale - ha concluso in regola il percorso degli studi, contro il 6,5 per cento dei laureati prima della riforma - nel 1999 - ma allora i percorsi erano quadriennali o quinquennali. Il 30 per cento circa dei laureati del 2011 ha raggiunto il traguardo con un solo anno in più dei tre fissati, ma altri 3 studenti su dieci non riescono a laurearsi prima di 6 o più anni di frequenza. Poi ci sono gli "inattivi", coloro che in 12 mesi non sono riusciti ad acquisire crediti, e quelli che rinunciano. I primi, nel 2010/2011, sfioravano il 13 per cento di tutti gli immatricolati l'anno prima. Un dato in calo rispetto al periodo ante- riforma. Mentre gli studenti che, iscritti al primo anno, non confermano l'iscrizione al secondo sono quasi al 16 per cento. Il maggior numero di abbandoni tra il primo e il secondo anno si registra nella facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali, col 33,6 per cento. Seguono Farmacia e Agraria che superano il 27 per cento di forfait ad un anno dall'immatricolazione. ____________________________________________________________ Il sole14Ore 20 Mar. ’14 TRA I NEO-DIPLOMATI IL 44% INSODDISFATTO DI SCUOLA E INDIRIZZO Scuola. L'indagine AlmaDiploma Gianni Trovati MILANO. Delusi e disorientati. Sono gli studenti italiani che escono dalla scuola superiore secondo l'ultimo rapporto di AlmaDiploma, la "versione" per la scuola superiore dell'indagine sulla condizione occupazionale che il consorzio inter-universitario AlmaLaurea conduce da 16 anni sui laureati. Appena chiusi i libri dopo aver superato l'esame di Stato, spiega il rapporto che ha messo sotto esame 72mila diplomati, il 41% dei "maturi" si dichiara pentito della scelta fatta a scuola, e precisa che potendo tornare indietro cambierebbe istituto, indirizzo di studi oppure, nella maggioranza dei casi, entrambi. Quando passa il tempo, e ci si confronta con la scelta universitaria oppure con le difficoltà del mondo del lavoro, la situazione peggiora, e la quota dei delusi cresce ancora fino ad attestarsi al 44 per cento. Numeri, questi, che indicano una scarsissima efficacia delle attività di orientamento, e che trovano una conferma ulteriore quando i neo-diplomati si affacciano all'università. Il tasso di giovani che dopo la maturità continua a studiare, prima di tutto, non si schioda da un 64% che mantiene molto lontana l'Italia dalle medie europee: fra questi, poi, l'8% abbandona le aule universitarie entro il primo anno, e un altro 10% cambia nello stesso periodo il corso di laurea o anche l'ateneo. Anche in questo caso, con il tempo il quadro peggiora e a tre anni dalla maturità la quota dei delusi dalla propria scelta universitaria sale al 28 per cento. Morale: l'orientamento che non ha funzionato dopo le medie si rivela inefficace anche dopo le superiori, quando il peso della famiglia di provenienza sulla scelta dello studente dovrebbe essere minore. Non va molto meglio a chi tenta la strada del lavoro, com'è evidente visti i tassi di disoccupazione giovanile registrati nel Paese. A un anno dal titolo, sono disoccupati 39 diplomati su cento, e questa quota sale fino ad arrivare al 50,3% se si considerano solo gli studenti usciti dagli istituti professionali. I tassi di disoccupazione dei diversi indirizzi si riallineano con il passare del tempo, quando la disoccupazione rimane al 19,1% e scende (al 16,7%) solo fra chi ha in tasca un diploma rilasciato da un istituto tecnico. Rari, fra chi lavora, gli inquadramenti stabili (17,5 ogni 100 diplomati occupati), mentre spopolano i contratti flessibili e a termine (32%) e quelli di formazione e lavoro (26%). Quasi piatti gli stipendi di chi lavora: a un anno dal diploma la retribuzione media degli occupati è di 916 euro netti al mese, sale a 1.063 euro dopo tre anni e si attesta a 1.149 dopo cinque anni. gianni.trovati@ilsole24ore.com ____________________________________________________________ Il Manifesto 19 Mar. ’14 UNIVERSITÀ: ANATOMIA DÌ UN DELITTO SCELLERATO Il rapporto Anvur 2013 certifica il disastro dei tagli Gelmini e il fallimento del 3+2» Roberto CiccareIll Manca solo il nome dell'assassino. Perché il rapporto sullo stato dell'università e della ricerca nel 2013 reso noto ieri a Roma dall'Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della ricerca (Anvur) attestai! delitto compiuto ai danni dell'università italiana. Per la prima volta dalla riforma Gelmini sono state verificate le conseguenze del taglio di 1,1 miliardi di euro all'anno agli atenei voluto nel 2008 da Tremonti-Berlusconi-Gelmini, insieme agli 8,4 miliardi sottratti alla scuola. L'Italia è l'unico paese Ocse ad avere fatto questa scelleratezza, all'inizio della grande recessione. Oggi, dice l'Anvur, le entrate sono inferiori del 30% annuo rispetto a quelle degli altri paesi. In tempi di Fiscal Compact, è difficile solo immaginare come reperire 3 miliardi di euro in più questo è il fabbisogno stimato dall'Anvur per far ripartire una macchina al dissesto. Questi tagli sono il risultato di una decisione politica avvallata dall'interventismo del presidente della Repubblica Napolitano che sostenne la riforma Gelmini, legittimò i tagli, e in un messaggio ieri si è detto preoccupato» per la situazione, consolandosi però dei risultati eccellenti» raggiunti dai ricercatori. Che sono pochi, e lo saranno sempre di più, anche se oggi soddisfano i criteri internazionali della produttività scientifica. Gli studenti che il 14 dicembre 2011 si rivoltarono a Roma contro la riforma Gelmini e i tagli furono molto più previdenti di chi oggi si consola con questi numeri. Il rapporto Anvur dimostra dati alla mano anche la realtà del fallimento della riforma dei cicli didattici «Berlinguer-Zecchino», il «3+2» targato centro-sinistra nel 2000. La riforma ha aumentato il numero dei laureati del 31% (212 mila) rispetto al 2000, ma il traguardo del 40% resta lontano. I laureati 25-34enni sono il 22,3%, mentre calano le immatricolazioni (69 mila tra il 2004 e il 2013), in particolare tra gli over23. Su questo dato ha inuso la fine dei programmi «laureare l'esperienza» che hanno creato una bolla di neo-laureati tra i dipendenti pubblici (da 63 mila a 15 mila) più che la sfiducia dei giovani. Un elemento mai prima di NO considerato quando si celebra il funerale dell'università. Crescono nel frattempo gli abbandoni e si allungano i tempi della laurea triennale, per ottenere la quale ci vogliono 5 anni e 1 mese. I fuori-corso sono oltre il 40% di 1 milione e 750 mila iscritti. Una realtà che ha spinto la ministra Stefania Giannini a definire «patologici» 700 mila studenti. Ci è mancato poco che li definisse «costi sociali» come l'ex ministro Profumo. Questo dato è un ulteriore fallimento del «3+2» che avrebbe dovuto abbattere il numero dei fuori- corso, senza successo. Nonostante i tagli, il ridimensionamento del diritto allo studio, il calo dei dottorati da 1557 a 914, l'aumento delle tasse studentesche, l'aumento della distanza tra atenei del Nord e del Sud, la crisi che secondo l'Ocse ha bruciato 2400 euro del reddito delle famiglie in 5 anni, la precarietà degli studenti che vedono sempre meno nell'università l'occasione di un avanzamento sociale, il valore della laurea sembra resistere. L'Anvur ha ripreso i dati Almalaurea e conferma: a 5 anni dal titolo serve a difendere meglio un posto (precario) di lavoro e la speranza in un reddito sia pure modesto. Fino ad oggi, l'università è' sopravvissuta al fallimento dei tagli e delle riforme solo grazie al blocco degli stipendi e del tum-over dei docenti ordinari e dei ricercatori. Ma i guai sono solo all'inizio. Tra cinque anni, nel 2019, andranno in pensione il 17% degli attuali docenti universitari (9 mila), senza contare quelli che sono fuggiti dal 2010. Per sostituirli ne occorrono 1.800 all'anno per garantire didattica e ricerca. Senza fondi aggiuntivi, e con il blocco totale del tum-over annunciato da Carlo Cottarelli, il destino riservato all'istruzione in Italia è il ridimensionamento previsto sia dal 2008 da Tremonti e Gelmini. La valutazione degli atenei, e l'attribuzione delle risorse scarse a quelli «eccellenti» (del Centro-Nord) sarà effettuata dall'Anvur. Se, come ha detto Giarmini, la «valutazione è fondamentale per prendere decisioni politiche», a questa agenzia oggi è stato attribuito il grave compito di ridefinire il ruolo elitario, e non più pubblico e di massa, dell'università. Nel 2008 tagliati 1,1 miliardi agli atenei, oggi ne servono 3 all'anno per tornare in zona Ocse ____________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Mar. ’14 SE SI ALLUNGA LA LAUREA BREVE di ORSOLA RIVA Mamma, mi si è allungata la laurea breve! Altro che i tre anni previsti dalla riforma Berlinguer: per diventare dottore oggi ci vogliono in media 5 anni e un mese. In media. Il che vuol dire che siccome c’è anche chi si laurea in corso, gli altri ci mettono ben di più: sei, sette anni solo per portare a termine il primo ciclo che, per competenze acquisite, non è certo paragonabile alle lauree del vecchio ordinamento. È questo uno dei tanti dati (e nemmeno il più desolante) del rapporto presentato ieri dall’Anvur, l’ente di valutazione dell’Università e della Ricerca. Cala drammaticamente il numero delle matricole e i pochi che si iscrivono difficilmente portano a termine il percorso. Il tasso di abbandono è pari al 40%. Un dato angosciante, che chiama in causa le nostre Università ma, prima ancora, le scuole superiori e il mancato collegamento fra le une e le altre. Solo così si spiega come mai 3 studenti su 10 abbandonino l’Università o cambino corso dopo il primo anno. Da qui l’importanza, anzi l’urgenza, di fare orientamento. I test ad accesso programmato sono solo uno dei modi possibili (e forse nemmeno il migliore), ma apparentemente funzionano. Lo prova il dato in controtendenza di Medicina. Solo l’8,6% dei ragazzi lascia dopo il primo anno e anche il tempo di percorrenza è migliore: «solo» 7 anni e 4 mesi anziché 6. ____________________________________________________________ Il sole14Ore 19 Mar. ’14 LA RIVOLUZIONE SILENZIOSA PER VALUTARE IL MERITO Gianni Toniolo Una rivoluzione silenziosa sta lentamente investendo l'università. È dovuta in gran parte al lavoro dell'Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca) i cui giudizi, perfettibili ma oggetto di critiche sovente irragionevoli, stanno finalmente diffondendo nel mondo universitario una cultura del merito che, inutile negarlo, è nuova per una parte non piccola della nostra accademia. Giovani ricercatori e affermati professori si pongono il problema non solo di pubblicare ma di farlo su riviste o con editori prestigiosi. I dipartimenti sono attenti alla valutazione Anvur sia dei propri membri sia di coloro che partecipano ai concorsi per nuove assunzioni. Le università cominciano a distribuire le (poche) risorse di cui dispongono tenendo conto delle valutazioni ottenute da singoli e dipartimenti. Si fa strada l'idea che il merito possa essere stabilito sulla base di parametri oggettivi, benché perfettibili, e debba essere incentivato. È, appunto, l'inizio di una rivoluzione quale non si ricorda nell'università italiana che pure ha vissuto molte stagioni di "riforme", quasi tutte di ben poca rilevanza. Perché la rivoluzione non abbia, anch'essa, esiti gattopardeschi sono necessarie due condizioni. La prima riguarda la comunità accademica stessa chiamata a consolidare la nuova cultura del merito con comportamenti coerenti. Ogni "corporazione" ha la responsabilità di creare e accrescere la propria reputazione anche con l'aperta disapprovazione verso i membri che non ne rispettino la cultura e le regole, in questo caso quelle del merito. Per fare un solo piccolo esempio: in una recente procedura di abilitazione al ruolo di professore ordinario, una commissione composta in maggioranza membri i cui lavori hanno ottenuto meno di venti citazioni ha abilitato candidati altrettanto poco citati mentre ne hanno "bocciato" uno che di citazioni ne aveva 667. In questo come in altri casi simili spetta ai membri della comunità accademica manifestare con azioni concrete il ripudio di comportamenti in contrasto con l'affermarsi della cultura del merito. La rivoluzione silenziosa non può essere sostenuta solo dall'Anvur, richiede comportamenti coerenti da parte della comunità universitaria. La seconda condizione perché si consolidi la tenera pianticella della meritocrazia universitaria è che il governo prenda seriamente l'impegno, più volte assunto ma poco realizzato di premiare il merito. I fondi cosiddetti "premiali" che vanno alle università migliori sono una parte piccola del cosiddetto fondo di finanziamento ordinario. Si tratta di cambiare i criteri con cui questo viene distribuito, basandoli fortemente sui risultati raggiunti sia sul piano della ricerca sia su quello della didattica. Ciò richiede una rivoluzione culturale anche nel ministero, nelle comunità locali, nelle famiglie. Si tratta di riconoscere l'evidenza: non tutte le università sono uguali. Non tutte sono in grado di sostenere dottorati di ricerca, non tutte possono produrre buone lauree magistrali. Le finzioni coperte da finanziamenti a pioggia non aiutano né la ricerca, né gli studenti, né le loro famiglie. L'Anvur non si era, sinora, occupata della didattica. Ha cominciato a farlo di recente lanciando un primo Teco (Test delle competenze) condotto, con criteri comparabili a quelli adottati in altri Paesi, su un campione di 6mila studenti di varie università. I risultati, presentati l'11 marzo scorso, aprono la strada anche alla valutazione della qualità della didattica. Se estesi a tutte le università, i test stimoleranno processi di autovalutazione e miglioramento. Offriranno anche preziose informazioni agli studenti e alle famiglie. Contribuiranno a orientare i flussi di risorse, anche private, verso le singole università. Il nuovo governo ha messo la scuola al primo posto. Le provvidenziali risorse promesse per la manutenzione degli edifici scolastici non affrontano ancora il problema della qualità della formazione e della ricerca. Più che nuove risorse queste richiedono il consolidamento della rivoluzione meritocratica che sta silenziosamente sbocciando: il governo le consolidi premiando concretamente il merito sia didattico sia scientifico. I veti incrociati delle burocrazie e della parte meno dinamica del mondo accademico hanno sinora frustrato (quasi) ogni tentativo in merito, sarà questa la volta buona? gt14@duke.edu ____________________________________________________________ Il sole14Ore 17 Mar. ’14 L'ABILITAZIONE CHE PIACE AI «GIOVANI» di Gianni Trovati L'abilitazione scientifica nazionale «si è svolta con modalità di straordinaria trasparenza», soprattutto se «confrontate con quelle del passato». Chi è avventurato in questo appassionato elogio del nuovo sistema di selezione degli aspiranti professori universitari, nato con la riforma del 2010 nel tentativo di archiviare le tante storie di "famiglie accademiche" fiorite nelle vecchie «concorsopoli» locali? Chi cercasse il difensore dell'abilitazione all'Anvur, l'agenzia nazionale che gestisce l'abilitazione, o in un ufficio del ministero dell'Università, sarebbe fuori strada. Il giudizio è scritto in una petizione del Coordinamento giovani accademici della Sapienza di Roma, che è stato fondato da «persone nelle prime fasi o nelle fasi intermedie della loro carriera» e che in calce a questo appello ha raccolto in poche settimane 2.227 firme (si può aderire a questo link: http://cga.di.uniroma1.it/index.php/petizioni). La richiesta è semplice: completare in fretta «questa prima tornata di abilitazioni» e avviare «(con eventuali correttivi ma senza blocchi) le previste tornate successive». A leggere le polemiche di queste settimane, e la loro ricca aneddotica su pubblicazioni valutate in pochi secondi ed esclusioni di talenti "soprassati" da candidati con curricula esili e zoppicanti, la richiesta dei «giovani accademici» parrebbe quantomeno originale, e insensato l'ampio seguito ottenuto subito nelle università. Superare questa prima impressione, però, non è difficile: basta, prima di tutto, ricordare che cos'è, e che cosa non è, l'abilitazione nazionale. L'abilitazione non è un concorso, nel senso che non assegna posti ma seleziona chi può aspirare a una cattedra: per questa ragione, è a numero «aperto», e raccoglie tutti gli studiosi che vogliono candidarsi. Saranno poi le singole università a mettere a disposizione i posti e reclutare gli abilitati. I numeri, appunto, non sono un fattore secondario: la prima tornata di abilitazione (dati ufficiali: http://www.istruzione.it/allegati/Abilitazione_scientifica_nazionale_i_nu meri.pdf) ha esaminato 59.193 candidature, impegnando 998 "giudici" divisi in 184 commissioni per 14 settori disciplinari. Ipotizzando con uno slancio di ottimismo un tasso di errori quasi inumano, per esempio l'1%, si otterrebbero 592 casi controversi: più che sufficienti per alimentare la polemica basata su aneddoti, e per far legittimamente arrabbiare parecchie persone coinvolte, ma troppo pochi per bocciare senza appello il sistema. Anche il lavoro dei Tar, che da sempre tiene per mano l'università italiana in ogni suo passo, sembra per ora confermare questa impressione: i ricorsi sono nell'ordine di qualche centinaio, e le prime pronunce hanno riconosciuto la sospensiva per casi individuali, chiedendo talvolta anche di formare una nuova commissione, ma senza intaccare i pilastri del sistema e i parametri di valutazione. Il dato è importante, perché la novità fondamentale dell'abilitazione nazionale sta proprio nell'aver introdotto un insieme di criteri, a volte discutibili nel merito ma il più possibile oggettivi, su cui poggiare le valutazioni. Da qui nascono anche molti degli attacchi, alimentati anche dal retropensiero non troppo nascosto secondo cui la conoscenza accademica e la ricerca scientifica non possono essere imprigionate in una "gabbia" di parametri troppo rigidi per coglierne la complessità. Certo, i limiti non mancano, i confini delle pubblicazioni da analizzare scientifiche e le «mediane» da superare nel tasso di produzione scientifica hanno mostrato più di un inciampo (a volte corretto in corsa), ma anche da questo punto di vista la richiesta dei 2.227 firmatari è di buon senso: portare a termine il reclutamento, darne un giudizio a consuntivo e introdurre i correttivi che servono, senza ridiscutere tutto da capo. Anche perché su tutta l'università italiana pesa un macigno ben più grave: da cinque anni i tagli di spesa e le lentezze di attuazione nella riforma hanno bloccato l'accesso alle cattedre, bruciando le aspirazioni universitarie di una generazione. Ripartire da zero significherebbe sacrificarne una seconda, e arrivare a un'altra vecchia conoscenza dell'università italiana: l'ope legis, che imbarca tutti, con buona pace delle valutazioni oggettive e non. gianni.trovati@ilsole24ore.com ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 22 Mar. ’14 UNICA: L'UNIVERSITÀ SI ALLARGA Antonio Dessì: «Per noi una grande opportunità» - Gli operai al lavoro per i nuovi dipartimenti scientifici Sono iniziati i lavori per realizzare i nuovi dipartimenti scientifici nella cittadella universitaria di Monserrato. La chiusura dei cantieri è prevista tra nove mesi. Il nuovo complesso ospiterà aule e laboratori di farmacia, matematica, informatica e scienze della terra. Per ultimare l'opera si spenderanno 24 milioni di euro. IL RETTORE «Con il nuovo blocco a Monserrato verranno accorpate strutture dipartimentali e servizi scientifici con una più funzionale organizzazione della didattica e della ricerca che potranno operare con impianti più moderni e con significativi vantaggi per studenti e ricercatori», commenta il Rettore Giovanni Melis. L'incremento dei servizi e dell'affluenza all'interno della cittadella, dovrebbe rappresentare una preziosa opportunità di sviluppo anche per Monserrato, come sostiene Antonio Dessì, renziano capogruppo del Pd: «Dall'Università arriva una grande opportunità. Monserrato deve cogliere la sfida attrezzandosi dal punto di vista strutturale e culturale in modo da fungere da attrattiva nei confronti di studenti e personale. È fondamentale un'attenta pianificazione strategica del territorio. Non ultima la messa in funzione dell'impianto sportivo del Comparto 8 o la ristrutturazione dei teatri chiusi o in disuso in modo da renderli centri d'interesse culturale». LA POLEMICA «Sarebbe una grande occasione e come tutte le precedenti la si lascerà sfuggire», commenta Filippo Marras. capogruppo dei Riformatori. Per Pier Giorgio Massidda (Forza Italia) «bisogna fare in modo che la popolazione universitaria graviti attorno a Monserrato, ma servono volontà politiche per creare le condizioni che ad oggi non vedo». Massidda auspica una svolta con il piano per centro storico: «Al momento la zona storica è spopolata e siamo tagliati fuori dalla 554. A suo tempo abbiamo sfiorato l'opportunità di portare la facoltà di odontoiatria nei locali del Ex Cries, ma poi ci fu il brusco dietro front da parte dell'Università. Risultato: una cattedrale nel deserto». Federico Zucca ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Mar. ’14 COMMISSARIO POLITICO ALL’UNIVERSITÀ di Pierluigi Battista E così, come ha scritto Dino Messina sul Corriere riprendendo una rivelazione di Libero , la studiosa Simonetta Bartolini, autrice di eccellenti studi sulla cultura e la letteratura italiana del Novecento e in particolare di Giovanni Guareschi, non ha passato l’abilitazione nazionale perché secondo un commissario (politico?) Mario Sechi, la cui fama scientifica ha raggiunto gli angoli più remoti del mondo,«la candidata presenta un profilo marcatamente militante». «Militante» è solo un velo di ipocrisia. Il commissario (politico) intendeva «di destra». Fosse stato militante del fronte opposto, i parametri (compiacenti) sarebbero stati ben diversi. Peccato che l’Università funzioni ancora così, come la sacca conservatrice di una cultura arroccata nelle trincee del passato. Peccato che il potere dei commissari per l’abilitazione su base nazionale sia aumentato a dismisura con una riforma, quella Gelmini, concepita per stroncare le cordate baronali, ma attuata come strumento di pressione politica fortissima. Peccato che una studiosa come la Bartolini, di cui si conoscono e si apprezzano i lavori su Ardengo Soffici e Giovannino Guareschi , tra gli altri, non venga giudicata per le sue credenziali scientifiche, per la sua statura accademica, ma sulla base di un pregiudizio politico, come se l’Università dovesse essere culturalmente monocolore, monocorde, conforme, uniforme, grigia, senza ombra di diversità e di pluralismo. Peccato, perché a parti rovesciate si sarebbe gridato, giustamente, al maccartismo. Mentre invece l’odioso maccartismo applicato ai nemici culturali della destra viene considerato normale e non censurabile. Peccato che la liquidazione di un’eccellente studiosa venga affidata non a un empireo di spiriti magni di cui è unanimemente riconosciuta l’autorevolezza e l’erudizione, ma a una mediocre commissione formata da docenti che onestamente non possono vantare un curriculum di pubblicazioni così superiore a quello di un candidato bocciato. Peccato, questo sprofondare nei gorghi del passato in un luogo che dovrebbe essere brillante negli studi e nella ricerca. Non resta che rammaricarsi perché invece l’Università italiana, un’istituzione pubblica, un «bene comune» di cui la collettività dovrebbe andare fiera, si rivela un’istituzione vischiosa in cui le guerre ideologiche del passato hanno la meglio sulla valutazione scientifica dei lavori fatti. C’è qualcosa di male se un’«abilitata» abbia un suo impegno «militante» e di impegno civile in uno schieramento diverso da quello prediletto dai commissari (politici?) chiamati a esprimere un parere culturale e non politico? C’è qualcosa di indecente nel fatto che Simonetta Bartolini diriga e collabori a riviste «militanti». Fortemente connotate a destra? E che si direbbe se a una studiosa «militante» di sinistra si dovesse interdire la carriera universitaria per il pregiudizio ideologico di una commissione? Nell’Italia del 2014: sembrava impossibile. ____________________________________________________________ Le Scienze 19 Mar. ’14 UNIVERSITÀ E RICERCA IN ITALIA: IL RAPPORTO DELL'ANVUR Un miliardo di euro di finanziamenti in meno alle università dal 2009 a oggi e un calo del 20 per cento delle immatricolazioni. Un contributo pubblico alla ricerca inferiore di 3 miliardi di euro alla media OCSE e investimenti privati pari a un terzo. Sono alcuni dei dati contenuti nel Rapporto sullo stato di università e ricerca in Italia presentato oggi a Roma dall'ANVUR, che traccia anche un primo bilancio della riforma "3+2" (red) Non è un quadro rassicurante quello delineato nel Rapporto sullo stato dell'università e della ricerca in Italia presentato stamattina a Roma al ministro dell'istruzione Giannini dall'ANVUR, l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca. Il documento, il primo del genere prodotto finora, sintetizza tutti i dati disponibili su università e ricerca, dalle risorse economiche degli atenei al rapporto tra iscritti e laureati, dall'andamento dei finanziamenti pubblici e privati in R&S alla qualità della produzione scientifica dei ricercatori italiani. LA SINTESI DEL RAPPORTO (124 pagine) Per la prima volta, inoltre, il rapporto traccia un bilancio degli effetti della riforma "3+2" del sistema universitario a 15 anni dalla sua approvazione. La riforma, secondo l'ANVUR, avrebbe "attenuato ma non risolto" i problemi cronici dell'università italiana, dove permangono un abbandono dei corsi molto elevato (quasi il 40 per cento degli iscritti non conclude la triennale), una marcata differenza tra Nord e Sud e, malgrado l'aumento dal 5,5 al 12,7 per cento della percentuale dei laureati sulla popolazione in età da lavoro tra il 1993 e il 2012, un forte divario rispetto alla media europea: 22,3 laureati ogni 100 abitanti a confronto con il 35 per cento nella fascia di età tra i 25 e i 34 anni. In Italia, la spesa per l'istruzione universitaria è inferiore del 30 per cento alla media OCSE. Dal 2009 a oggi, gli atenei hanno perso circa un miliardo di euro di finanziamenti pubblici, una riduzione di risorse che, secondo l'ANVUR, è stata resa sostenibile dalla riduzione del personale e dal blocco delle progressioni degli stipendi. Tuttavia, ricorda il documento, il rapporto studenti/docenti è ritornato a valori elevati. E poiché entro il 2018 andranno in pensione 9000 docenti, pari al 17 per cento del totale, "sarà quindi necessario assicurarne il ricambio (circa 1800 docenti all'anno) per garantire la didattica, il governo degli atenei e il potenziale di ricerca del Paese". LE SCHEDE DI APPROFONDIMENTO DIFFUSE DALL'ANVUR Sotto il profilo dei finanziamenti, non va meglio nemmeno nella ricerca. Anche qui, si registra un contributo pubblico inferiore di circa tre miliardi di euro alla media OCSE, e investimenti privati pari ad appena un terzo della media dei paesi industrializzati. L'ANVUR denuncia inoltre lo squilibrio tra i contributi italiani alla ricerca europea (il 13,9 per cento) e la quota di fondi ricevuti dall'Unione (8,1 per cento). In pratica, si legge nel rapporto, l'Italia ottiene 65 centesimi per ogni euro investito nel programma quadro dell'UE. Malgrado questo, la produttività dei ricercatori italiani rimane alta, con un numero di articoli e di citazioni per ricercatore tra i più elevati a livello internazionale. Il rapporto sottolinea però che considerando "le pubblicazioni giudicate eccellenti (top 10 per cento in termini di numero di citazioni o impact factor della rivista) nelle aree scientifiche la quota italiana è tuttavia generalmente inferiore a quella di tutti i principali Paesi europei presi in esame". ____________________________________________________________ Repubblica 18 Mar. ’14 FOTOGRAFIA DELL'UNIVERSITÀ ITALIANA: MENO FONDI E LONTANA DALL'EUROPA A tre anni dalla sua istituzione, primo rapporto dell'agenzia di valutazione Anvur: più laureati ma pochi rispetto a Ue, risorse ridotte, pochissimi stanziamenti per la ricerca di CORRADO ZUNINO (fotogramma)ROMA - Il primo dossier Anvur su università e ricerca, a tre anni dalla nascita dell'Agenzia (ministeriale) di valutazione, ci dice che negli ultimi dieci anni statisticamente rilevati (1993-2012) la quota dei laureati sulla popolazione in età da lavoro è salita dal 5,5% al 12,7% e la quota dei laureati italiani tra i giovani (25-34 anni) è salita dal 7,1% al 22,3%, dimostrando che l'università è diventata accessibile e possibile per larghi strati della popolazione. Il problema è che non solo si parte da valori più bassi del resto dell'Europa sviluppata, ma il divario tende a crescere. Nell'Unione europea, in media, i laureati nella fascia "età da lavoro" oggi sono il 25,3%, in Francia il 42,9%, nel Regno Unito il 45%. Ancora nel 2008 avevamo uno scarto con la Ue di 11,8 punti percentuali (?), nel 2012 è salito è del 12,7% (?). Sui diplomi di secondo livello (la maturità) siamo in linea con la Ue: 77,6% (età presa in considerazione 20-24 anni). Meglio di Spagna e Germania, peggio di Regno Unito (81,3%) e Francia (84%). Lo scarto, ecco, si verifica nell'ingresso in ateneo. E tra i giovani immatricolati il divario con l'Unione è contenuto (4%), la questione dell'università italiana è che non sa parlare a un pubblico adulto, altrove invece recuperato. Gli immatricolati con almeno 25 anni di età sono solo l'8% del totale, contro un valore medio del 17%. E la quota si va riducendo. Nelle scelte delle matricole (iscrizioni al primo anno) scende (-4%) la facoltà di Lettere e Filosofia, cali più contenuti si registrano per Sociologia, Giurisprudenza, e Scienza della formazione. Incrementi superiori al punto percentuali si conteggiano per Medicina, Scienze matematiche e fisiche, Ingegneria. Crolla il Sud nelle immatricolazioni (-30%) e si assiste all'emigrazione di studenti verso gli atenei del Centro (soprattutto) e del Nord-Est. Infine, il dossier rivela che c'è un rapporto stretto tra il buon voto alla maturità e il portare a termine il ciclo di laurea. Equilibri finanziari. Negli ultimi anni buona parte degli atenei italiani ha ridotto alcuni squilibri e il sistema universitario è stato ricondotto su un sentiero di sostenibilità economica, nonostante il calo delle risorse a disposizione. "L'ammontare degli investimenti appare nel complesso insoddisfacente nel confronto internazionale", sostiene l'Anvur, che chiede "una riflessione ampia sulle dimensioni ottimali o almeno minime necessarie del sistema universitario e sulle risorse da investirvi". Autonomia responsabile, è il principio ispiratore. Dal 2009 il finanziamento complessivo del ministero dell'Istruzione al sistema universitario si è ridotto di un miliardo di euro: -13% in termini nominali, - 20% in termini reali. La riduzione delle risorse è stata resa sostenibile dalla riduzione del personale, soprattutto dei docenti ordinari, e dal blocco delle progressioni stipendiali. Il rapporto studenti-docenti si è riportato, oggi, su valori elevati. Nei prossimi cinque anni usciranno per pensionamento 9.000 docenti, il 17% del totale: "Sarà necessario assicurarne il ricambio per salvaguardare l'assolvimento del carico didattico e di governo degli atenei e il potenziale di ricerca del paese". Le università. Le 67 università statali italiane accolgono il 92% del totale degli iscritti (1,7 milioni). Quindi, ci sono 18 università non statali e 11 telematiche. Oltre il 40% degli studenti è iscritto agli undici grandi atenei del paese (40.000 studenti) e quasi il 70% frequenta uno dei 26 atenei "storici" fondati prima del 1945. I dottorati di ricerca, importati nel nostro ordinamento solo nel 1982, hanno a lungo stentato, e in parte stentano ancora, a trovare un loro equilibrio e una loro fisionomia, ma costituiscono ormai un imprescindibile terzo livello della formazione terziaria. Il numero complessivo di diplomi di laurea - triennali, ciclo unico, magistrali e diplomi del vecchio ordinamento - è stabile intorno ai 300 mila dalla metà dello scorso decennio. Nel 2011 sono stati rilasciati 169 mila diplomi di laurea triennale, 87 mila di laurea magistrale, 27 mila di laurea magistrale a ciclo unico e ancora 17 mila diplomi del vecchio ordinamento. La metà dei laureati ha conseguito la maturità classica o scientifica e la distribuzione dei voti di maturità dei laureati è decisamente più sbilanciata verso i valori più elevati di quanto non avvenga per gli immatricolati: c'è un rapporto tra successo accademico e voto conseguito alla maturità. La composizione del complesso dei laureati per ripartizione geografica è rimasta stabile: dopo una flessione della quota degli atenei del Nord a vantaggio di quelli del Mezzogiorno, negli ultimi anni sembra delinearsi una inversione di tendenza. Emerge nell'ultimo decennio un ulteriore incremento della quota di laureati di genere femminile, che rappresenta ormai il 59% del totale. I laureati. Tra il 1993 e il 2012 la quota dei laureati sulla popolazione in età da lavoro è salita di 7,2 punti percentuali. Tra i giovani in età compresa tra i 25 e i 34 anni del 15,2%. Incrementi rilevanti, che mostrano come l'istruzione terziaria non sia più limitata a una ristretta fascia di persone. I confronti internazionali, tuttavia, mostrano come l'Italia risulti ancora tra i paesi con la più bassa quota di persone in possesso di un titolo terziario, anche tra i più giovani, e come lo scarto rispetto ai valori medi europei nel tempo si sia (lievemente) allargato. Le differenze con gli altri paesi dipendono dalla mancanza nel nostro paese di un'offerta di corsi di livello terziario (la laurea) di carattere professionalizzante, percorsi che nel resto d'Europa hanno un peso del 25% sul totale. L'offerta formativa da noi non permette alternative, dopo la maturità, tra un corso di laurea a contenuto prevalentemente teorico e l'abbandono degli studi. Un terzo degli immatricolati abbandona o cambia corso di studio dopo il primo anno: c'è un deficit nell'orientamento formativo e pure nella preparazione degli studenti. Quasi il 40% tra quanti si iscrivono a un corso di laurea triennale non conclude gli studi. Su 100 immatricolati solo 55 conseguono il titolo, contro il 70% europeo (il Regno Unito è al 79%). Il corpo delle lauree triennali è contraddistinto ancora da alti tassi di abbandono e di fuori corso, i cui laureati solo in poco più della metà dei casi proseguono gli studi iscrivendosi ai corsi magistrali. Sul mercato del lavoro, la laurea, nonostante diffuse convinzioni contrarie, continua a offrire migliori opportunità occupazionali e reddituali rispetto al solo diploma di maturità. Gli immatricolati. Dopo essere cresciuto di 54 mila unità tra l'anno accademico 2000-2001 e il 2003-2004, il numero degli immatricolati italiani si è poi ridotto di 69 mila fino al 2012-2013 (-20,4%). La flessione è stata contenuta tra i più giovani, in età compresa tra i 18 e i 22 anni (-7,6%), molto pronunciata tra gli studenti con 23 anni e oltre (-76%). A fronte di un numero di maturi sostanzialmente stabile tra i 445 e i 455 mila, il tasso di passaggio all'università dei 18-19enni si è ridotto di 3 punti percentuali dal 2009, nonostante la crisi economica abbia ridotto le opportunità di lavoro al completamento degli studi secondari. Il calo degli immatricolati si concentra negli atenei del Centro e del Mezzogiorno e tra i diplomati degli istituti tecnici, che negli ultimi nove anni sono passati da 105 mila a 57 mila a causa di un calo del numero dei maturi e dei tassi di passaggio all'università. A fronte di una riduzione media del 20%, nelle università del Nord il numero delle matricole universitarie è sceso del 10%, negli atenei del Centro del 25, nel Mezzogiorno del 30. Gli immatricolati che scelgono un ateneo in una regione diversa da quella di residenza nel 2011 erano il 21,8%, 1,4 punti in più rispetto al 2006. Il 25% degli immatricolati residenti nelle regioni del Sud e delle Isole sceglie un ateneo di un'altra ripartizione territoriale: il loro saldo migratorio è pari a -20,8% e -22,5% rispettivamente. È positivo per il Centro (+23,6%), per il Nord-est (+13,6) e per il Nord-ovest (+9,3). La ricerca. Il più ampio processo di valutazione della ricerca mai condotto nel nostro paese conferma che l'Italia si caratterizza per una spesa in ricerca e sviluppo tra le più basse tra le grandi economie industriali. Il ritardo è dovuto principalmente alla spesa del settore privato, la metà della media europea. Anche le risorse pubbliche risultano inferiori alla media: lo 0,52% del Prodotto interno lordo, 0,18 punti in meno rispetto alla media dei paesi Ocse. Un gap di 3 miliardi di euro, un terzo delle risorse pubbliche oggi investite. Alle minori risorse corrisponde un minor numero di ricercatori e un minor potenziale di innovazione. . La quota dei fondi ottenuti è inferiore alla quota di contribuzione al budget dell'Unione: non riusciamo a riprendere neppure quello che stanziamo. Poche risorse investite e pochi ricercatori si traducono necessariamente in una minor capacità di competere per le ingenti risorse che l'Europa sta investendo in ricerca. Il tasso di successo dei ricercatori italiani e le risorse complessivamente ottenute risultano molto modeste. Il sistema nel suo complesso, caratterizzato da un'ampia presenza di enti di ricerca al fianco delle università, mostra tuttavia nei settori scientifici, dove più facile è il confronto internazionale, una qualità delle pubblicazioni che si colloca a ridosso dei principali paesi europei. Inoltre, in rapporto alle risorse investite e al numero dei ricercatori, la quantità e la qualità della ricerca appaiono elevate, segno di una produttività più che adeguata e di una vitalità che merita di essere valorizzata. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 17 Mar. ’14 ATENEI, IL «BIDONE» CON I CORSI AD HOC Dall'insegnamento del soccorso a un'imbarcazione della Guardia di Finanza in una regata al largo del Circeo, di fronte alle isole Pontine. Al progetto per la ricerca alimentare. All'apprendimento e al perfezionamento della lingua inglese. E la lista peraltro parziale dei corsi universitari «inventati» da Giorgio Monaco, ex titolare della cattedra di Medicina del Mare alla Sapienza, per strappare finanziamenti da spartire Una truffa che ha prosciugato le casse della Regione e del Ministero della Ricerca e dell'Università di due milioni di euro tra il 2007 e il 2009. Ora il professore rischia di finire sotto processo insieme con altre diciannove persone con accuse che vanno dall'associazione per delinquere alla truffa, all'abuso d'ufficio. Nell'elenco degli imputati spicca il nome della compagna di Monaco, Carmen Botto. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio anche di Vincenzo Ziparo, preside della II Facoltà di Medicina e Chirurgia e della sua segretaria Patrizia Casagrande, che tuttavia in passato per episodi analoghi sono stati assolti. A Monaco, tra l'altro, viene contestato anche un episodio di corruzione per aver pilotato un appalto di 3o7mila euro a favore della Sofiter di Francesco Giordano, che in cambio ha assunto Riccardo, il figlio del prof, retribuendolo con uno stipendio di 94mila euro. sistema è stato semplice, come prova il seguente esempio. Nel 2009 Maurizio Acreman rappresentante legale della «Csa srl» presenta al Ce.r.s.m. (Centro ricerche scuole del mare) una fattura di 17mila euro per aver svolto due corsi d'inglese «basico» ai comandanti della Guardia di Finanza, tra febbraio e marzo del 2008. Ad attestare la regolarità delle lezioni è Monaco, che da il via libera al pagamento delle prestazioni. La bufala dura poco: si scopre che nessuno della Guardia di Finanza ha mai partecipato ai corsi e cosi Monaco finisce sotto inchiesta. Giulio De Santis ____________________________________________________________ Italia Oggi 20 Mar. ’14 I 70 MASTER ITALIANI AL TOP NEL MONDO Vuoi studiare Real Estate Management? Ci sono, al top, i master di Luiss, Politecnico di Milano e dell'università di Torino. Risorse umane? Ottimi i corsi della Bocconi e dell'università di Bologna. Management delle imprese alimentari? C'è un master alla Cattolica. Sono alcuni dei settanta master italiani selezionati ed entrati a far parte della classifica dei 4 mila corsi migliori al mondo: è il ranldng «Best Masters» e a pubblicarlo è Eduniversal, agenzia globale di rating con sede a Parigi, specializzata proprio in alta formazione. I risultati si trovano, divisi per Paese o per aree disciplinari, sul sito www. best- masters.cora. La piattaforma messa a punto dall'agenzia francese è uno strumento di informazione e orientamento per gli studenti che vengono così aiutati a scegliere i migliori corsi in tutto il mondo. Si tratta di una classifica molto particolareggiata che, a differenza di altre classifiche internazionali, non dà un voto alle singole università e business schools, ma valuta i singoli corsi, divisi per area disciplinare. In tutto i programmi sono divisi in trenta materie, con un livello di dettaglio molto specifico, così da trovare il corso più adatto alle proprie esigenze. Si va dai corsi in finanza a quelli sul management del lusso, dalla logistica al turismo. Dalle assicurazioni al settore salute. Per arrivare ai classici Mba qui di corsi italiani ce n'è solo uno: quello full time della Sda Bocconi ed Emba, executive Mba per professionisti già in carriera. Quella• di Eduniversal è una classifica estremamente selettiva. Per giudicare i corsi vengono utilizzati spiega l'agenzia «criteri di mercato», cioè si misura quanto un certo corso valorizzi i propri studenti sul mercato del lavoro. In particolare, si valutano: la riconoscibilità della formazione quanto gli uffici Risorse Umane di grandi società conoscono un certo corso e l'istituzione che lo organizza il salario e il placement al termine del corso e, infine, il ritorno di soddisfazione da parte degli studenti iscritti; una valutazione, insomma; data da chi il corso lo ha effettivamente frequentato. Al punteggio finale concorrono anche un'alta mobilità internazionale e la possibilità di offrire anche formazione a distanza e formazione continua. «Stavolta abbiamo osservato una certa tendenza verso i master specializzati», spiega Cécile Escape, direttrice generale di Eduniversal. Quali i corsi più richiesti? «Quest'anno, anche se la categoria marketing rimane quella più consultata, la categoria Mba, che tradizionalmente occupava la seconda posizione, non appare più nella top 5 delle consultazioni. È stata superata dalla specializzazione Supply chain e logistica, seguita da Management del turismo e dell'ospitalità, Corporate finance ed Economia». In queste tre categorie i migliori programmi italiani secondo Eduniversal sono, rispettivamente: il master universitario Economia e management dei trasporti, della logistica e delle infrastrutture Memit della Bocconi; il master.Five stare in hotel management della Luiss Guido Carli; il master in Corporate finance della Sda Bocconi e il master in Advanced economics della Sapienza di Roma. ____________________________________________________________ Il sole14Ore 23 Mar. ’14 CHI INVESTE IN CULTURA RILANCIA L'ITALIA La forza del made in Italy è una «catena del valore» che affonda le radici nel patrimonio storico-artistico Fabrizio Galimberti «In Italia per trent'anni sotto i Borgia vi furono lotte armate, terrore, assassinî e spargimento di sangue, ma ci furono anche Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, hanno avuto 500 anni di democrazia e pace, e che cosa hanno prodotto? L'orologio a cucù». (Orson Welles, in «The Third Man») La battuta cattiva (la Svizzera non la merita) è di Orson Welles, un autore americano, quello che diresse anche un film famoso, «La guerra dei mondi». Ma serve a sottolineare che in un Paese possono coesistere cose molto brutte e molto belle. Come in Italia, dove ci sono molte cose che non funzionano nel presente, ma anche molte cose che hanno funzionato nel passato, e che in parte funzionano ancora. L'Italia ha un retaggio culturale impressionante. Non ci sono molte classifiche nelle quali l'Italia è la prima del mondo, ma almeno una c'è: come vedete qui in basso l'Italia, fra tutti i Paesi, ha il maggior numero di siti designati dall'Unesco come «Patrimonio culturale dell'Umanità». Cosa c'entra l'economia con la cultura? C'entra molto, almeno se si usa la parola cultura in senso lato. Cominciamo a spiegare partendo dalle "catene di offerta". Cosa sono le catene di offerta? É normale che un'impresa acquisti all'esterno le materie prime che le servono per produrre, ma quando l'impresa acquista anche tanti altri semilavorati da altri fornitori, o addirittura fa fare da altri intere fasi di lavorazione, si crea una catena: il prodotto finito passa lungo questi anelli della catena prima di raggiungere il cliente finale. Oggi questa espressione si usa specialmente quando gli "anelli della catena" sono sparsi per il mondo: abbiamo prodotti pensati in un luogo e realizzati, fase a fase, filo a filo, bullone a bullone, nei quattro continenti. Ma c'è un'altra catena che ci interessa, ed è quella che lega il pensiero alla concezione, la concezione al progetto, il progetto al processo, il processo al prodotto... L'Italia si vanta - giustamente - di essere un grande Paese manifatturiero, ma cosa c'è all'origine di quest'altra catena, la "catena del valore"? C'è - vi potrà sorprendere - la cultura. La cultura in senso lato, un senso che comprende il sistema educativo e la ricerca. Ma comprende anche - ed è qui il tratto italiano di questa "cultura" da cui zampillano produzione e benessere - l'immenso patrimonio artistico del nostro Paese. Un patrimonio che è molto di più di una collezione di musei e parchi archeologici. Perché è dalla linfa di quel passato che derivano i successi della nostra manifattura, dal "saper fare" accumulato nei secoli e tramandato di generazione in generazione, dall'amore per il lavoro ben fatto, da quella mescita di innovazione ed emulazione che segna le inimitabili fattezze dei distretti industriali (ne abbiamo parlato il 2 dicembre 2012 - e abbiamo citato quella frase di un grande economista, Alfred Marshall: «É come se i segreti del mestiere volteggiassero nell'aria»). Ma oggi - e non da oggi - l'Italia arranca. In che misura la povertà della crescita italiana dipende dalla scarsa attenzione a quella culturale e primigenia sorgente? E che cosa si può fare per liberare quella sorgente dai detriti che la ostruiscono e riaprire quei canali che scorrono dalla cultura al prodotto, passando per l'immagine e il "racconto" dei nostri volti produttivi? Possiamo rispondere a questa domanda costruendo un indice di "interesse per la cultura" e correlandolo all'andamento dell'economia La correlazione c'è, e la correlazione ha un'implicazione sorprendente. Un euro in più speso per la cultura scende lungo gli anelli della catena del valore: non è un sussidio ma un investimento. Non è il seme gettato fra i rovi nè quello gettato fra i sassi o sulla strada. É il seme gettato «sulla terra buona», capace di dare «frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta». Oltre all'effetto diretto sulla domanda vi è anche il cruciale impatto - indiretto ma reale - sulla immagine dell'Italia nel mondo, un'immagine che si riflette su tanti volti del nostro Paese, dallo spread al Made in Italy. Non è possibile quantificare con scientifica precisione il frutto di "quell'euro in più" speso per la cultura. Ma in questo processo indiziario, gli indizi sono convergenti e pesanti. É sotto gli occhi di tutti l'incuria per il nostro patrimonio artistico (basti citare Pompei), l'incapacità di usare dei nostri capolavori per farne "racconti" capaci di proiettare un'immagine diversa: non l'immagine di oggi, l'immagine di un Paese mediocre che vive di un grande passato ma quella di un Paese che vuole attingere al passato per proiettare, qui e oggi, la coda brillante di una cometa che solca da secoli i cieli del globo. Fervono, nel nostro Paese,a, le tristi polemiche sul "declinismo". Polemiche che lasciano il tempo che trovano se non sono assortite di rimedi, se alle diagnosi e alle prognosi non seguono le cure. La diagnosi l'abbiamo appena esposta. L'Italia ha distolto lo sguardo dalle sue sorgenti, ha lasciato deperire le sue vere ricchezze, ha dimenticato di curare e innaffiare quella terra dove affondano le sue radici. Ed è la diagnosi che detta la cura. É solo mettendo al centro dell'attenzione la questione cruciale della cultura che potremo ritrovare, attraverso quella proficua collaborazione fra pubblico e privato che finora è mancata, attraverso la moltiplicazione delle iniziative intese a una manutenzione ordinaria e straordinaria dello sterminato patrimonio culturale, l'orgoglio del nostro passato, la fiducia nel nostro presente e lo slancio verso il nostro futuro. fabrizio@bigpond.net.au ____________________________________________________________ La Stampa 17 Mar. ’14 SE L'AMERICA PRIVATIZZA LA RICERCA PAOLO MASTROL1LLI INVIATO A NEW YORK La scienza in America , sta diventando un fatto privato, nel senso che decine di miliardari mettono i loro soldi dove lo Stato non arriva più, per finanziare la ricerca. A seconda dei punti di vista, si tratta di una tendenza molto positiva, perché consente di raggiungere risultati altrimenti impossibili, o molto negativa, perché le priorità vengono stabilite dai singoli benefattori in base ai loro interessi personali. Secondo un'inchiesta del New York Times, circa quaranta tra gli americani più ricchi hanno promesso di donare quasi tutte le loro sostanze in beneficenza, per un totale di oltre un quarto di trilione di dollari. Il primo ovviamente è Bill Gates, l'uomo più facoltoso del mondo, che ha un patrimonio stimato in circa 76 miliardi di dollari e vuole restituirlo quasi interamente alla società. Attraverso la Bill & Melinda Gates Foundation ha già speso dieci miliardi in progetti sanitari globali, che vanno dalla lotta alla tubercolosi, fino alla malaria e la polio. Come lui, però, ce ne sono molti altri, nei settori più vari. Il suo amico e co-fondatore della Microsoft Paul Allen ha stanziato 500 milioni di dollari per lo studio del cervello; Ralph Ellison di Oracle ha creato la Ellison Medical Foundation, grazie a cui tre studiosi hanno vinto il premio Nobel; Eric Schmidt di Google ha aperto un centro per lo studio degli oceani, dopo che la moglie si era appassionata al mare facendo immersioni subacquee; il padre della tecnologia del fracking, George Mitchell, ha regalato 360 milioni per studiare fisica, lo sviluppo sostenibile e l'astronomia, costruendo anche il Giant Magellan Telescope in Cile. Potremmo andare avanti per pagine e pagine. Il Massachusetts Institute of Technology calcola che ormai il 30% dei fondi per la ricerca universitaria vengono dalle donazioni private. A confronto, il governo rischia di diventare un nano. La crisi economica del 2008 ha costretto l'amministrazione a fare risparmi, e gli studi scientifici sono stati una delle vittime. I finanziamenti per la ricerca di base sono scesi a trenta miliardi di dollari all'anno, e infatti Francis Collins, direttore dei National Institutes of Health da cui dipendono i soldi pubblici assegnati agli scienziati americani, ha definito il 2013 come uno dei momenti più neri nella storia della sua organizzazione. Fino a qualche tempo fa, c'era una certa diffidenza per il coinvolgimento dei privati in questo settore. Nel migliore dei casi, erano sospettati di essere guidati da interessi personali, che non coincidevano necessariamente con il bene comune. Magari un famigliare era stato colpito da una certa malattia, e quindi enormi risorse venivano indirizzate a studiarla, anche se l'impatto complessivo sulla società non era così rilevante. Poi ovviamente i privati non hanno il polso degli equilibri demografici, economici e razziali del Paese, e i loro interventi non sono tarati sulla necessità di aiutare particolari gruppi sociali svantaggiati. I medici, per fare un esempio, potrebbero ritenere necessario studiare perché il cancro alla prostata colpisce di più la popolazione afro- americana, ma i donatori non sono sensibili a questo problema e non offrono le risorse. Nel peggiore dei casi, invece, i grandi imprenditori erano sospettati di fare i propri interessi, finanziando solo le ricerche che potevano servire alle loro aziende. Questa percezione ora sta cambiando, un po' per necessità, e un po' perché la stessa filantropia si è evoluta. La crisi economica e la riduzione dei bilanci statali ha reso indispensabile il ricorso ai fondi privati. Nello stesso tempo, i donatori sono diventati più sofisticati, interagiscono meglio con le strutture pubbliche, e spesso vengono avvicinati direttamente dai centri di ricerca, che sollecitano il loro aiuto su progetti pensati autonomamente dagli scienziati e condivisi dalle stesse strutture pubbliche. La privatizzazione della scienza, in sostanza, non è più un tabù, e sembra destinata a diventare sempre più diffusa. Sono i dollari investiti ogni anno dal governo Usa nel grande progetto di studio del cervello umano È quanto ha investito in dollari Paul Allen nell'istituto per lo studio del cervello da lui fondato ____________________________________________________________ Repubblica 17 Mar. ’14 SUPER COMPUTER PER IL CALCOLO DEI TRASPORTI Si chiama CRESCO4 il supercomputer appena acquisito dall’ENEA presso il Centro Ricerche di Portici. CRESCO4 è stato inaugurato nei giorni scorsi alla presenza di Giovanni Lelli, Commissario dell’ENEA, di Guido Trombetti, Vice Presidente della Giunta Regione Campania, e di Fabrizio Cobis, Autorità di Gestione del Programma Operativo Nazionale “Ricerca, Sviluppo, Alta Formazione 2007-2013” del MIUR. CRESCO4, che è stato realizzato nell’ambito del progetto PON 2007-2013 “TEDAT - Centro di Eccellenza per le Tecnologie e la Diagnostica Avanzata nel settore dei Trasporti”, è in grado di offrire una notevole potenza computazionale al mondo della ricerca ed al mondo universitario ed industriale, attestandosi tra le infrastrutture di calcolo scientifico più potenti a livello nazionale ed è finalizzato proprio alla realizzazione di importanti progetti a livello di gestione del sistema dei trasporti italiano ed europeo. Con CRESCO4 il centro di supercalcolo dell’ENEA di Portici, dove già erano operativi altri tre supercomputer, triplicherà la potenza di calcolo disponibile, permettendo applicazioni per attività che richiedono un’elevata capacità computazionale. Questi quattro supercomputer, integrati in un’unica infrastruttura per il calcolo distribuito, denominata ENEAGRID, e connessi tra loro dalla rete GARR, sono in grado di offrire una potenza computazionale aggregata di circa 150 Teraflops, una potenza largamente sufficiente a gestire progetti di vastissima portata. L’ENEA, grazie alla maggiore potenza di calcolo ora disponibile, si pone l’obiettivo di continuare ad essere un punto di riferimento per la comunità scientifica ed industriale a livello nazionale ed europeo. Per presentare il quadro internazionale e le prospettive di sviluppo nel settore ICT è intervenuto alla manifestazione Jack Dongarra, docente di computer science all’University Tennessee, che è anche uno dei fondatori della Top500, la classifica mondiale dei supercomputer. Con la sua relazione, Inmaculada Leyva, docente presso il Centro per le tecnologie Biomediche dell’Università Rey Juan Carlos di Madrid, ha sottolineato come le infrastrutture ICT di elevata qualità siano il motore di prestigiose collaborazioni di ricerca internazionale. (M.d.A.) ____________________________________________________________ La Stampa 20 Mar. ’14 QUEI RAGAZZI TROPPO CONNESSI FIGLI DEL CATTIVO ESEMPIO Ricerca: gli adolescenti non sanno più interagire con le persone Ma gli adulti non sono diversi, 1 su 4 si porta il telefonino a letto VITTORIO SABADIN Dopo avere largamente concesso l'uso di telefonini e tablet ai figli adolescenti, i genitori cominciano a preoccuparsi: i ragazzi stanno sviluppando una dipendenza dai dispositivi digitali, comunicano quasi esclusivamente con messaggi e social network e hanno difficoltà a interagire con le persone parlando e guardandosi negli, occhi. Un'indagine condotta in Gran Bretagna ha rivelato una realtà che gli psicologi e gli studiosi del comportamento considerano allarmante. Dietro agli indubbi benefici delle nuove tecnologie di comunicazione si nasconde un pericolo che va valutato con attenzione, perché può incidere in negativo sulla formazione della personalità degli adolescenti, sempre più lontani dal mondo reale e sempre più affascinati da quello virtuale. Toccherebbe ai genitori porre rimedio a questa situazione, ma spesso da loro viene l'esempio peggiore. La ricerca, condotta da Opinion Research per conto di Halifax Digital Home Index, ha evidenziato come i genitori non si esercitino alcun controllo sul modo con il quale i figli usano tablet e smartphone: nel 65% dei casi li lasciano soli a connettersi con chi vogliono, per quanto tempo desiderano. Due terzi dei ragazzi tra i 7 e i 17 anni possono usare dispositivi elettronici a letto e un terzo dei bambini sotto dei 9 anni controlla i messaggi più volte all'ora. In molte famiglie è abituale permettere di usare gli smartphone anche quando si è a tavola, e lo squillo della suoneria o l'arrivo di un messaggio è prioritario rispetto alla conversazione conviviale, e la interrompe sempre. Utilizzare dispositivi digitali per comunicare è così normale che quasi il 40% dei bambini invia messaggi anche quando deve dire qualcosa a un membro della famiglia che si trova nella stessa casa. Il problema andrebbe risolto con una maggiore sorveglianza, ma molti dei bambini intervistati hanno dichiarato che sono stati i genitori a fornire loro l'esempio di come si usa un telefonino. Come i bambini, anche la maggioranza degli adulti comunica attraverso messaggi con altre persone che si trovano nello stesso edificio, e una persona su cinque preferisce «parlare» al telefono o per mezzo dei social media. Una su quattro si porta telefonino e tablet a letto e una su dieci persino in bagno. Più del 70% degli adulti ha dichiarato di non sopportare l'idea di stare un giorno senza dispositivi di comunicazione elettronici e ha ammesso di cominciare ogni giornata lavorativa controllando email e social network. Una persona su due ha persino detto che preferirebbe perdere la vera nuziale o l'anello di fidanzamento piuttosto che il proprio telefonino. E stato calcolato che un bambino che nasce oggi, a sette anni avrà già passato un.-anno intero, considerando giorni di 24 ore, davanti a uno schermo. A 80 anni ne avrà impiegati 18, un quarto della vita, a inviare email, foto e messaggi non legati alla propria attività lavorativa. E le nuove generazioni, avvisano gli esperti, rischiano di crescere incapaci di avere veri rapporti umani, anche all'interno del gruppo familiare. È compito dei genitori fare qualcosa, cominciando col dare l'esempio. Tra le cose da mettere subito in chiaro ci deve essere il fatto che lo smartphone e il tablet non sono un regalo, ma un prestito che può essere revocato in qualunque momento. Bisogna stabilire regole da osservare e sanzioni da applicare quando vengono violate. E provare ogni tanto a vivere tutti assieme per qualche ora senza telefonino: superato il panico iniziale, la sensazione di libertà che si prova è ancora impagabile. NELLA STESSA CASA 11 40% dei più piccoli comunica con i familiari con messaggi di testo ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Mar. ’14 I GENITORI INFRANGONO IL TABÙ «IL FIGLIO PREDILETTO ESISTE» I pro e contro: sicuro di sé, ma con il timore di deludere DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI — Il tabù famigliare più grande, perché più diffuso, è quello sul figlio preferito. Nessun genitore ammette, prima di tutto a sé stesso, di averne uno, e molti sono pronti a fornire zuccherose rassicurazioni come «l’amore di una mamma non si divide come le fette di una torta, quando nasce un nuovo bambino c’è una nuova torta intera di affetto anche per lui». Non è vero. I genitori spesso non lo sanno neppure, ma mentono. Le preferenze esistono, sono sempre esistite. Solo che in passato erano chiare, evidenti e riconosciute, anche socialmente: il primogenito ereditava tutto. Dal XX secolo in poi si è fatta strada la giusta convinzione che nelle famiglie non debbano esserci figli e figliastri, nel patrimonio e nell’affetto. Tutti o quasi ci provano, ma i rapporti speciali nascono e — ignorati, negati, repressi — resistono. Per questo in Francia sta avendo successo il libro di due docenti dell’Università di Nantes, Catherine Sellenet (Psicologia e Sociologia) e Claudine Paque (Letteratura), che indagano sul più comune non detto della vita famigliare. Accanto a segreti spaventosi e per fortuna relativamente rari (violenza, incesto), c’è quello banalissimo del «cocco di mamma», che molti hanno sperimentato in almeno una delle versioni, in qualità di figli o di genitori. «La preferenza esiste e la sua negazione non fa che danneggiare la relazione, talvolta pervertirla», scrivono le autrici di L’enfant préféré, chance ou fardeau? (edizioni Belin), che aggiungono: «Accettare la realtà della preferenza per uno dei propri figli potrebbe aiutare a ridurre i danni sia sull’eletto sia sugli altri fratelli». Le autrici hanno interrogato 55 genitori: all’inizio del colloquio neanche uno ha ammesso di avere preferenze per un figlio o una figlia in particolare. Alla fine l’80 per cento lo ha riconosciuto. Spesso è l’uso delle parole, il nomignolo, a tradire, come quel padre che cita «il primo figlio», «la più piccola», e poi racconta estasiato di «giocare a calcio con Paul», il prediletto chiamato per nome. Oppure quella madre che parla lungamente di François, Anne e infine arriva a «Josephine, la mia principessa», che unica ha diritto all’iperbole. Il libro è pieno di empatia per i genitori che cercano di fare del proprio meglio, ma la tesi è che bisogna cominciare a indagare sul perché si formano le preferenze e sugli effetti che hanno sui bambini: «una fortuna o un fardello?», si chiede il titolo. Intanto, cosa spinge un papà o una mamma ad avere una predilezione? L’unica socialmente accettata è verso il figlio svantaggiato, più debole o colpito da handicap. Le altre, inconfessabili, sono spesso generate da un riflesso narcisistico: si tende a preferire il bambino che ci assomiglia di più, che ha lo stesso carattere o gli stessi capelli, il bambino-specchio che realizza il nostro sogno di immortalità. E poi il bambino facile che va bene a scuola, non solo perché pone meno problemi, ma soprattutto perché ci risparmia la fatica di dubitare di noi stessi e ci conferma nella riuscita di genitori, grande imperativo della nostra era. Sellenet e Paque sottolineano che nell’attuale mondo di mamme e papà consapevoli e molto presi dalla loro missione, tutte le responsabilità vengono scaricate sui figli. Litigate tra voi, bambini cari? È perché siete di animo poco generoso, siete gelosi. In realtà, quando i figli trovano il coraggio di accusare un padre o una madre di fare preferenze, il più delle volte hanno ragione, hanno captato piccoli segnali molto eloquenti, un tono della voce, un’indulgenza in più, o anche solo una porzione migliore nel grande rito strutturante del pasto tutti insieme a tavola. Il libro non auspica un ritorno al passato, a Menelao che nell’Odissea preferisce serenamente Megapente o a Abramo al quale Dio chiede di sacrificare Isacco proprio perché è il preferito, senza dubbio alcuno. Ma genitori più onesti con sé stessi potrebbero agire per controllare le conseguenze dei loro sentimenti. Prevale una specie di sindrome da «La scelta di Sophie», il celebre e tremendo film nel quale i nazisti costringono la madre Meryl Streep a scegliere chi salvare tra il maschio e la femmina. In condizioni normali, ammettere con sé stessi una predilezione non dovrebbe essere così straziante. Oltretutto preferire un figlio, proprio come discriminarlo, non equivale a fargli un favore. Il prediletto sarà probabilmente più sicuro di sé, affidabile, esperto nel sedurre le figure di responsabilità (dopo i genitori in famiglia, gli insegnanti a scuola e i superiori nel lavoro), ma pure oggetto della gelosia dei fratelli, patirà di sensi di colpa e da adulto farà forse più fatica a trovare una strada autonoma, lontana dall’amore in cerca di retribuzione di quei bene intenzionati, attenti, e bugiardi genitori. Stefano Montefiori ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Mar. ’14 CARBONIA FELICE E VENEZIA TRISTE L’ITALIA CAPOVOLTA DELL’UMORE Analizzati 40 milioni di tweet. I più sereni sono i genovesi Chissà come saranno stati felici ieri gli abitanti di Genova e Cagliari? Ieri, anche se non so quanti se ne saranno accorti, era infatti la Giornata internazionale della felicità, istituita per il secondo anno dall’Onu, e proprio Genova e Cagliari risultano essere le capitali della felicità in Italia. Una delle solite statistiche, direte voi. Be’, proprio solita solita no. Questa fatta da Sentimeter, blog del Corriere curato da «Voices from the Blogs», spin-off dell’Università degli studi di Milano, analizzando oltre 40 milioni di messaggi su Twitter, raccolti ogni giorno, si propone di raccontare il «sentimento» degli italiani in Rete con una velocità e ampiezza di dati impraticabile da altri metodi d’indagine. Ecco allora che sappiamo, e soprattutto in questo preciso momento storico, quali sono le nostre città più felici. Nella top ten, oltre alle due già citate, compaiono anche Parma al quarto posto, Bari al settimo, e Bologna, seconda nel 2012 che ora, e i gaudenti bolognesi dovranno farsene una ragione, viene retrocessa al decimo. La prima sorpresa vera è però al terzo posto. Ci troviamo infatti Carbonia, cittadina del Sulcis che, con i suoi minatori in lotta da anni, non pare una miniera di notizie allegre; il dato positivo, certo dipenderà dal fatto che quei poveri lavoratori hanno ben altro per la testa che «cinguettare». Ma la sorpresa più incredibile ce la riserva la classifica delle città più infelici. Se non meraviglia affatto, e mi perdonino gli interessati, trovarvi la chiesastica Padova e Aosta la glaciale, ci fa trasecolare individuarvi al quinto posto, e nonostante Charles Aznavour gorgheggiasse già nel lontano 1971 «com’è triste Venezia», proprio la meravigliosa città dei dogi, il posto in cui chiunque, almeno una volta, magari durante una spensierata gita scolastica o una torrida luna di miele, ha sognato di vivere. Sarà per via della massa ingombrante dei turisti e il traffico imperterrito delle meganavi da crociera, vallo a capire! L’animo dell’uomo è del resto insondabile come risulta scorrendo gli altri dati forniti da Sentimeter. Per esempio, io ho sempre creduto che tutti salutassero con gioia l’ora legale, abbinata com’è all’arrivo del bel tempo e delle lunghe ore all’aria aperta; al contrario, pare che lo spostamento delle lancette generi ansia e depressione, e faccia crollare la felicità di oltre 5 punti. E questo nonostante la meteopatia che ci affligge. Se nell’inverno del 2013 siamo stati assai tristi, è bastato l’arrivo, a marzo di quell’anno, appunto della primavera, ed ecco la felicità schizzare verso l’alto. Siamo invece ovviamente più tristi di lunedì e più felici di sabato, ma anche il martedì e il mercoledì, i giorni di coppa; penso, anche se i dati non lo dicono, soprattutto gli uomini. Ma forse anche le donne, libere, con i mariti occupati, di dedicarsi ad altre e più sollazzevoli attività magari con amanti che odiano il calcio. L’italiano è poi più felice a Natale, e impazzisce addirittura di gioia alla festa della mamma; d’altronde, si sa, di mamma ce n’è solo una. Così come è assai allegro il giorno che precede la busta paga, effetto che, ahinoi, dura giusto il tempo di calcolare quanto ci rimarrà in tasca dopo aver pagato bollette e conti in sospeso. Per fortuna, ad aspettarci ci sono gli altri giorni di festa comandata, sempre a patto però che non cadano nei weekend, perché in quel caso ci si rovina la vacanza rimuginando per tutto il tempo sul «ponte sprecato». Eggià, perché spesso siamo proprio noi i primi nemici della nostra felicità. Secondo quanto lo psichiatra David Sack scrive infatti su Psychology Today : «Non tutti vogliono essere felici, ci sono anche persone “drogate” di infelicità, persone che trovano sempre qualcosa per cui essere insoddisfatte e fanno a gara con amici e colleghi per mostrare che la propria vita è sicuramente più complicata e infelice della loro». E questo, statistiche a parte, non fa che confermare quello che da Omero a Disney, i maggiori conoscitori dell’animo umano hanno da sempre sentenziato, e cioè che il destino dell’uomo è nel suo carattere. @gaetanocappelli ____________________________________________________________ Il sole14Ore 23 Mar. ’14 L'INTERNET VELOCE CORRE SUL DOPPINO Il vectoring ottimizza il rame, poi arriverà Gfast Ma la rete più lenta d'Europa ha bisogno di un gioco di squadra Alessandro Longo aIl futuro della banda ultra larga italiana è ormai affidato allo sviluppo delle tecnologie che sfruttano un mix di fibra ottica e doppino di rame. Questo destino emerge ora con chiarezza, dettato dalle scelte tecnologiche degli operatori italiani. Sarà particolarmente importante l'evoluzione di tecnologie che ottimizzano le prestazioni del doppino di rame: a breve il vectoring su Vdsl2 e dopo il Gfast. Ma è un percorso che richiederà un buon gioco di squadra, con tutti gli attori (privati e pubblici). Il rischio, altrimenti, è continuare ad avere la rete banda larga più lenta d'Europa. L'Italia è il Paese europeo che ha più bisogno di quelle tecnologie perché è il solo in Europa dove ben due operatori – Telecom Italia e Fastweb – hanno deciso di basare l'espansione della banda ultra larga su un mix di fibra e rame. Nel corso del 2014, vi si aggiungerà l'analoga rete di Vodafone. Avremo insomma già quest'anno tre reti Vdsl2: fibra che arriva fino agli armadi di strada, da cui poi parte per 200-400 metri il normale doppino di rame. Altri Paesi (Francia, Spagna, Svezia) puntano invece di più su reti con fibra ottica nelle case. Siamo inoltre il solo Paese, con la Grecia, a non avere una rete su cavo coassiale, alternativa al classico doppino. "Abbiamo già avviato una sperimentazione con il vectoring su Vdsl2 in un'area, per velocità fino a 100 Megabit. Guardiamo anche al prossimo passo, il Gfast, che nel 2015 promette 1 Gigabit al secondo", dice Sandro Dionisi, direttore di Telecom Italia Lab. Il vectoring sarebbe applicabile già sulle attuali reti Vdsl, che coprono circa il 18% delle case. È un algoritmo che, dall'armadio stradale, cancella le interferenze provocate, su un doppino, dagli altri doppini vicini. Senza interferenze, un cavo riesce a rendere di più e quindi a portare una velocità maggiore fino all'utente. A oggi solo Belgacom e Eircom (in Irlanda) usano il vectoring e solo dallo scorso mese: siamo agli inizi, tanto che la tecnologia non è ancora standard negli apparati. Ci lavorano anche Deutsche Telekom e Kpn. In Italia c'è però un problema. «Abbiamo ottenuto il via libera Agcom per la sperimentazione del vectoring in un'area», dice Dionisi. Agcom deve però stabilire alcune regole d'uso del vectoring prima che gli operatori possano adottarlo in massa. Il motivo è che il vectoring funziona solo se tutti gli operatori di una zona utilizzano apparati di una stessa marca per la Vdsl2. Gli apparati devono infatti interoperare per coordinare la cancellazione delle interferenze sui doppini. E poiché non c'è ancora uno standard, solo apparati di una stessa marca possono coordinarsi in questo modo. Da noi si pone il problema perché Telecom Italia e Fastweb (a breve anche Vodafone) stanno coprendo le stesse case con la Vdsl2, in 48 e 23 città rispettivamente. Fastweb mira a coprire il 20% della popolazione entro il 2014; Telecom il 50% per il 2016. Vodafone vuole coprire entro marzo 2017 6,5 milioni di case, in 150 città (27% di popolazione). Comunque, visto che Telecom ha un piano di copertura più esteso, non avrebbe problemi a usare il vectoring nelle zone in cui non ci sono altri operatori. Inoltre, intende avvicinare gradualmente la fibra al cliente, nelle zone in cui ci sarà maggiore richiesta. È il percorso che porta al Gfast. L'idea è infatti di estendere, in quelle zone, la fibra oltre l'armadio e fino al distribution point, cioè l'elemento di permuta della rete più vicino all'utente. Da quel punto, il doppino di rame è molto corto, massimo 50 metri. In queste condizioni l'operatore può applicare una tecnologia Gfast per arrivare fino a 1 Gigabit (da suddividere tra download e upload, quindi per esempio 500/500 Megabit). I primi chipset Gfast arrivano nel 2014 e i primi prodotti commerciali nel 2015. «Alcuni fornitori di apparati inoltre cominciano a elaborare soluzioni intermedie, applicabili sulle attuali reti Vdsl2 ma più veloci del vectoring. Potremmo adottarle nelle zone meno urbanizzate, comunque dopo il debutto del Gfast», dice Dionisi. «Gli operatori italiani hanno fatto una scelta di campo, a favore del Vdsl2, che concilia l'esigenza di un adeguato ritorno degli investimenti e le caratteristiche della rete di accesso in rame italiana», commenta Cristoforo Morandini, analista di Between. Da una parte infatti sono soluzioni molto più economiche rispetto alla fibra nelle case. Dall'altra, i nostri doppini sono tra i più corti d'Europa, quindi in grado di portare velocità maggiori. Ma bisogna fare squadra: gli operatori e Agcom sono gli attori necessari, che devono agire all'unisono, perché l'Italia possa sfruttare l'opportunità del vectoring. Ma non solo: un'azione corale pubblico-privata potrà anche diffondere la banda ultra larga in quel 50% di popolazione escluso dai piani degli operatori; ma anche per sviluppare soluzioni di fibra ottica nelle case, «ora non necessarie ma che in futuro lo diventeranno, perché l'Italia tenga il passo con i Paesi più innovativi», dice Morandini. «È indispensabile che il Governo svolga un ruolo attivo, per monitorare il gap rispetto agli obiettivi europei e per destinare alla banda larga nella misura più ampia possibile i fondi europei 2014-2020», concorda Stefano da Empoli, fondatore dell'Istituto per la competitività (I-Com). L'Italia ha già scelto la propria via per la banda ultra larga. Adesso deve anche preoccuparsi di garantirne il successo. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 22 Mar. ’14 WXP: TORNA LA PAURA PER IL MILLENNIUM BUG di ALESSANDRA ARACHI Ormai ci siamo abituati: quando si parla di nuove tecnologie, la vita media si misura in un batter di ciglia. Ed è così che a Windows Xp sono bastati 13 anni per raggiungere l’età della pensione. E per far tremare milioni di computer, a quel punto in balia degli hacker anche più sprovveduti. Già: era infatti il 2001 quando Microsoft lanciava sul mercato il suo nuovissimo sistema operativo. In questi 13 anni ne sono stati prodotti altri tre, ma ecco che adesso, l’8 aprile prossimo, l’azienda americana ha annunciato che Windows Xp andrà ai giardinetti dei sistemi operativi. Tradotto: non sarà più disponibile per i computer che usano quel sistema alcun tipo di aggiornamento per la sicurezza, in gergo «patch». E dunque? L’allarme è per un nuovo Millennium bug, planetario. Per attacchi cybercriminali. E se negli Usa hanno già quantificato i margini di rischio, da noi andiamo un po’ a braccio. Per capire: aziende, pubblica amministrazione, reti di trasporto e persino i bancomat. Rischiano un po’ tutti gli attacchi degli hacker. Carlo Mauceli di Microsoft tranquillizza, almeno per quel riguarda la sicurezza degli istituti bancari. L’allarme vero è per la pubblica amministrazione, la situazione più critica nella sanità: Asl e ospedali, ad esempio, stanno ancora aspettando i programmi di aggiornamento sviluppati per Windows Xp. La speranza è che finisca come per il Millennium bug: tanto allarme ma nessun danno. ========================================================= ____________________________________________________________ Repubblica 17 Mar. ’14 IN 10 ANNI MANCHERANNO 15MILA MEDICI. L'ALLARME: "IL SISTEMA RISCHIA IL COLLASSO" L'allarme diffuso da un'indagine del sindacato Anaao Assomed. Pediatri e chirurghi a 'rischio estinzione'. Il problema del sistema formativo. "Urgente riforma programmazione"di VALERIA PINI Lo leggo dopo ROMA - Tra pensionamenti e numero sempre più esiguo di specializzandi, tra 10 anni mancheranno all'appello oltre 15.000 medici specialisti nel Servizio sanitario nazionale. Pediatri, psichiatri e chirurghi sono le categorie più a 'rischio estinzione'. Ma ci sarà carenza anche di oculisti, ortopedici, angiologi. Se è ormai sicuro che 58.000 tra camici bianchi dipendenti del Ssn, universitari e specialisti ambulatoriali andranno in pensione, il numero dei contratti di formazione specialistica previsti dall'attuale programmazione sarà di 42 mila unità, ben al di sotto della soglia necessaria. L'allarme, già anticipato negli ultimi mesi da altri studi e statistiche, arriva questa volta da una indagine del sindacato dei medici dirigenti Anaao Assomed. La ricerca, analizzando i dati forniti dalla Fnomceo -Federazione degli ordini dei medici, dall'ente di previdenza dei medici Enpam (annuario 2012 su dati 2010), del Ministero dell'Istruzione, della ricerca e dell'università Miur e dalla Ragioneria generale dello Stato (sulle curve di pensionamento, fabbisogni specialistici e numero chiuso per l'accesso alle scuole di medicina e chirurgia, ha messo in evidenza le criticità del sistema formativo italiano. A rischio pediatria e psichiatria. Pediatri, specialisti di medicina interna e psichiatri sono le categorie mediche a 'maggior rischio estinzione' in corsia. Se le cose non cambieranno e non verranno adottate politiche adeguate in materia, fra 10 anni ci troveremo di fronte a un 'buco' di 3101 pediatri, ma anche di 1830 medici di Medicina interna e di 911 chirurghi e 833 psichiatri. Se il medico va in pensione. Il problema è costituito soprattutto dal percorso formativo che rende sempre più difficile il ricambio fra nuove e vecchie generazioni. Secondo l'indagine, l'unica via d'uscita è mettere mano ad una nuova programmazione sanitaria puntando su due priorità: l'imbuto formativo, risultato dallo scarto tra numero chiuso per l'accesso alle scuole di medicina e chirurgia e l'offerta formativa post- laurea e il precariato medico, generato sia dal blocco del turnover che da riforme pensionistiche sempre in itinere che rinviano l'uscita dal sistema. Il problema della formazione. Il problema ha già creato ampie sacche di disoccupazione e sottoccupazione medica. Una questione in gran parte dovuto alle inadeguate politiche di accesso alle scuole di specializzazione, con posti in progressiva riduzione a causa della esiguità delle risorse economiche rese disponibili dalla legge di stabilità. Secondo il sindacato, è evidente che "togliendo" e "tagliando" il futuro alle nuove generazioni di medici, impedendo loro un accesso al Ssn, di fatto si vuole costringerle a cambiare paese minando lo stesso sistema sanitario. "Si dovrebbe pensare criticamente ai decreti del Miur che hanno aumentato la durata dei percorsi formativi, introdotto il bonus per chi partecipava al concorso per l'ammissione alle scuole di medicina e chirurgia, per poi toglierlo e reintrodurlo, modificando, di fatto, le graduatorie e spingendo chi non era entrato nelle scuole di medicina a ricorrere alle vie legali", aggiunge Anaoo-Assomed. Il problema del precariato. Gli esperti sono convinti che se il precariato medico è diventato un'emergenza sociale, è necessario ora anche rivedere la formazione, oggi affidata solo alle università, ripensando gli ospedali italiani come occasione professionalizzante per i medici neo-laureati e di sviluppo di expertise per i medici a fine specialità". Il sindacato l'Anaao Assomed propone una serie di soluzioni per superare le criticità: "50% della durata della specialità con contratto di formazione specialistica in ambito universitario; 50% in ambiente extra- universitario senza l'obbligo di aver già conseguito il titolo di specialista; frequenza finale di 6 mesi nella sede ospedaliera di preferenza, tra le massimo 3 frequentate (praticantato valutato ai fini di una possibile assunzione post specialità), oppure facoltà di svolgere il praticantato presso la stessa sede universitaria, qualora lo specializzando decidesse di concorrere per una borsa di dottorato di ricerca; abolizione dei dottorati di ricerca senza borsa". Anticipare l'ingresso nel mondo del lavoro. In concreto, "occorre anticipare l'incontro tra il mondo della formazione e quello del lavoro, oggi estranei l'uno all'altro, animati da conflittualità latenti o manifeste e contenziosi infiniti, consentendo ai giovani medici di raggiungere il massimo della tutela previdenziale ed al sistema sanitario di utilizzare le energie più fresche, si legge nella ricerca. La soluzione consiste nella trasformazione del contratto di formazione- lavoro in contratto a tempo determinato con oneri previdenziali ed accessori a carico delle regioni e nel conseguente inserimento dei giovani medici nella rete formativa regionale. Recuperare il ruolo professionalizzante degli ospedali rappresenta la strada maestra per garantire insieme il futuro dei giovani medici e quello dei sistemi sanitari". Infine, lo studio propone "una ridefinizione razionale dei fabbisogni specialistici, partendo dalle richieste delle regioni, per i prossimi 10 anni e del numero chiuso per l'accesso alle scuole di medicina e chirurgia". ____________________________________________________________ Corriere della Sera 20 Mar. ’14 CENTOTRENTA BORSE DI STUDIO PER LA RICERCA IN MEDICINA Saranno assegnati il 26 marzo, in Campidoglio a Roma, i Grant 2014 della Fondazione Umberto Veronesi. Centotrenta borse a singoli ricercatori italiani e stranieri, 23 per dottorandi alla Scuola europea di medicina molecolare (Semm), 18 a nuovi progetti di ricerca all’avanguardia. I nuovi finanziamenti, tutti a giovani studiosi, si aggiungono a quelli per rinnovare l’impegno ai 12 progetti già in corso dal 2013. «Numeri quasi triplicati rispetto al 2010, anno in cui sono stati messi in campo 7 progetti e 54 borse», spiega Paolo Veronesi, presidente della Fondazione. I progetti selezionati riguardano oncologia, malattie croniche, malattie cardiovascolari, prevenzione e nutrigenomica. ____________________________________________________________ Repubblica 18 Mar. ’14 LORENZIN: "RICOVERI, TICKET, ACQUISTI. LA SANITÀ RISPARMIERÀ PIÙ DI 3 MILIARDI" Il ministro alla salute: "Lotta agli sprechi per investire in strutture e tecnologia" di MICHELE BOCCI Beatrice Lorenzin (imagoec)"TRE miliardi di risparmi in tre anni? Con le Regioni abbiamo intenzione di ridurre molto di più gli sprechi in sanità". Il ministro alla salute Beatrice Lorenzin non è impressionata dalle cifre di Cottarelli. In questi giorni sta affrontando i tavoli del Patto della salute insieme alle amministrazioni locali con più serenità grazie alle parole pronunciate da Matteo Renzi alcuni giorni fa. Il premier ha detto che quanto risparmierete resterà nel sistema sanitario. Soddisfatta? "Molto. E' una grande occasione per rimettersi in piedi. Poter reinvestire nel nostro sistema vuol dire non pesare sulle casse dello Stato. Adesso dobbiamo tutti avere il coraggio di recuperare risorse per fare investimenti. Gli altri comparti di spesa pubblica sono comunque soggetti a tagli, questa presa di consapevolezza di tutti della particolarità della sanità non deve essere tradita. Dobbiamo eliminare gli sprechi". Cottarelli parla di oltre 3 miliardi in tre anni da recuperare grazie il Patto per la salute. E' una cifra veritiera? "Possiamo fare molto di più. Ad esempio abbiamo già individuato 900 milioni di euro da recuperare tagliando i ricoveri inappropriati, cioè che non servono alla cura del paziente, e riducendo le degenze inutili. Quei soldi serviranno, 300 milioni all'anno, per finanziare nuovi lea, i livelli essenziali di assistenza, cioè le prestazioni sanitarie che le Regioni devono assicurare ai propri cittadini. Ma questo è solo un esempio". Degli altri? "Abbiamo ancora grossi margini sull'acquisto di beni e servizi. Se facciamo delle centrali uniche, regionali, per comprare dai fornitori e magari rinegoziamo alcuni contratti possiamo recuperare tra il 10 e il 15% di quanto spendiamo per gli acquisti. Si tratta di diversi miliardi di euro. Questi soldi li reinvestiremo in tecnologie. Poi c'è l'e-health, cioè l'informatizzazione del sistema sanitario. A regime ci farà risparmiare 7 miliardi, perché ad esempio ci permetterà di conoscere in tempo reale come funzionano gli ospedali e gli stessi reparti, cosa che permette di intervenire prima che si crei un danno economico dovuto agli sprechi di risorse, ad esempio per cure di cui i pazienti non avrebbero bisogno". Nel Patto si parlerà anche della revisione dei ticket? Come la affronterete? "Ci sta lavorando una commissione incaricata da me e dalle Regioni. L'idea di partenza è quella di arrivare a un sistema più equo. Vanno aiutate le fasce che oggi sono in difficoltà, come i disoccupati o le famiglie con tanti figli, che devono pagare poco o essere esentati. Allo stesso tempo dobbiamo recuperare parte dell'evasione. Nel nostro paese l'esenzione dal ticket tocca il 50% con punte dell'80 in certe Regioni. Dobbiamo recuperare risorse facendo pagare il ticket a chi può permetterselo, per sollevare chi è in difficoltà. Non voglio però che i costi disincentivino le persone da fare alcune prestazioni, come quelle diagnostiche, che sono fondamentali per la prevenzione delle malattie". Quali settori della sanità hanno bisogno delle risorse ricavate dai risparmi? "Abbiamo bisogno di almeno 2 miliardi per le infrastrutture. E poi la medicina moderna è fatta di tecnologie e risorse umane. Dobbiamo investire in questi ambiti, magari rivedendo i blocchi del turn over nelle Regioni in piano di rientro. Lavoreremo bene, abbiamo avuto un'apertura di credito da parte del premier e dobbiamo chiudere il nostro Patto per la salute. Spero di farlo entro un mese, e allora avremo i dati esatti dei risparmi". ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Mar. ’14 PRIMARI O DIRIGENTI? di ALBERTO SCANNI L’aspetto economico ha invaso le corsie dei nostri ospedali. Bisogna, da una parte risparmiare, dall’altra incrementare gli introiti per far quadrare i bilanci. Far rendere le prestazioni, aprire attività che producano fatturato e che siano particolarmente appetibili per il mercato, ridurre la spesa farmaceutica, far diventare ambulatoriali prestazioni che, per la loro delicatezza, venivano effettuate in day hospital, tagliare posti letto: tutto ciò è diventato un imperativo categorico. Difficile situazione per chi ha la responsabilità di un reparto e dovrebbe avere come unico obiettivo quello di curare bene i malati. Per le leggi attuali costui non si chiama più “primario”, ma si chiama “dirigente”, come quelli delle banche o delle poste. E il malato non è più “paziente” (cioè soggetto che “patisce”), ma, freddamente, “persona assistita”: tutte dizioni indicative di una burocratizzazione del rapporto medico-paziente, e testimonianza di un sistema in cui gli aspetti amministrativi ed economici sono diventati preponderanti rispetto a quelli assistenziali. I dirigenti medici devono occuparsi prevalentemente di conti, devono fatturare, devono contrattare, devono fare budget, devono fare relazioni in continuazione... e chi più ne ha ne metta. Ed è su questo che oggi vengono prevalentemente valutati dalle amministrazioni degli ospedali, le quali, quando devono nominare un primario, sono tentate di prediligere chi è più preparato su questi aspetti, rispetto a chi è più capace di fare bene il medico nel senso classico della parola. I malati però non vogliono tutto ciò, vogliono chi è capace di curali al meglio, vogliono trovare un alleato quando hanno bisogno di un posto letto indipendentemente dai budget, un medico che non li faccia sentire in colpa se stanno un giorno in più ricoverati e se l’esame a cui devono sottoporsi costa tanto o poco. In questo percorso i malati non devono sentire la vicinanza di burocrati, ma di alleati solidali. Brutta cosa per un ospedale averemedici economisti poco capaci di visitare. Su ciò le amministrazioni dovrebbero riflettere. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Mar. ’14 AMBIENTE E SALUTE A RISCHIO ANCHE PER I MOZZICONI DI SIGARETTA L’Italia è un immenso posacenere a cielo aperto. Colpa dei 195 milioni di mozziconi di sigarette che ogni giorno finiscono in strada o in mare. Un problema di sanità pubblica, dal momento che si tratta di rifiuti tossici. Uno studio condotto dall’Enea (Agenzia per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) nel 2010 ha stimato gli inquinanti rilasciati dai 72 miliardi di sigarette fumate in un anno da 13 milioni di italiani: 324 tonnellate di nicotina; 1.872 milioni di bequerel di polonio-210 (radioattivo); 1.800 tonnellate di composti organici volatili. E ancora, sempre secondo l’Enea: 21,6 tonnellate di gas tossici; 1.440 tonnellate di catrame e condensato; 12.240 tonnellate di acetato di cellulosa (il filtro). «I danni alla salute sono ben noti — dice Giacomo Mangiaracina, presidente dell’Agenzia nazionale per la prevenzione —. Meno noto è il pesante impatto del tabacco su ambiente ed economia nazionale: anche smaltire i mozziconi pesa sui bilanci comunali e regionali, perché si tratta di rifiuti di piccole dimensioni che richiedono un tempo triplicato per rimuoverli». Per risolvere il problema basterebbe un po’ di senso civico da parte dei fumatori. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 22 Mar. ’14 SARDEGNAIT: AFFITTI SOSPETTI: NEL BANDO UN’OPZIONE PER ACQUISTARE I LOCALI di Mauro Lissia CAGLIARI Entro il 31 dicembre del 2015 Sardegna.it potrà acquistare i locali dell’Immobiliare Europea dove lavorano oggi i 150 dipendenti della società in house della Regione. Lo stabilisce l’avviso pubblico coi criteri in base ai quali la società dell’editore di Burcei Sergio Zuncheddu si è aggiudicata il contratto d’affitto da 579 mila euro battendo la concorrenza di altre cinque società, di cui quattro riconducibili al suo gruppo. E’ un altro elemento al vaglio del pm Gaetano Porcu e della Guardia di Finanza, che concluse le perquisizioni cominciate giovedì mattina esamineranno il contenuto degli hard disk «clonati» e il materiale acquisito nelle sedi di Sardegna.it, dell’Unione Sarda, dell’Immobiliare Europea e nelle abitazioni private dei sette indagati con l’accusa di turbativa d’asta. L’ipotesi cui lavora la Procura è chiara: nella selezione fra le offerte per la nuova sede operativa, i vertici della società regionale avrebbero favorito l’Immobiliare Europea, che a sua volta avrebbe avuto la strada spianata dalla compiacenza delle altre offerte. Fra queste, l’Unione Sarda editoriale ha proposto un canone quasi doppio rispetto a quello della «sorella» immobiliare nonostante i locali da concedere in locazione fossero - così sostiene la Procura - sostanzialmente di pari valore. Per ora il pm Porcu non sembra orientato ad allargare l’indagine alla giunta regionale, che ha avallato il contratto d’affitto. Il piano di lavoro prevede l’esame del materiale acquisito per cercare di ricostruire i rapporti tra gli indagati nella fase che ha preceduto la selezione delle offerte. Per capire se l’operazione è stata negoziata e realizzata grazie a criteri di selezione elaborati su misura. Criteri che a una prima valutazione - quella che ha fatto partire l’inchiesta giudiziaria - sembrano favorire l’Immobiliare Europea a discapito di chiunque altro. Il pm Porcu attende per le prossime ore una prima relazione sul materiale sequestrato, compreso il file del telegiornale mandato in onda dall’emittente televisiva Videolina - del gruppo Zuncheddu - alle 14 del 20 marzo. A margine del servizio filmato sulle perquisizioni in corso nel complesso dei Fenicotteri, il direttore dell’emittente Emanuele Dessì ha detto che l’intervento della Guardia di Finanza «ha coinvolto in modo arbitrario le sedi dell’Unione Sarda editoriale e dell’Unione Sarda online, estranee all’Immobiliare Éuropea». In realtà le Fiamme Gialle hanno perquisito fra gli altri l’ufficio dell’amministratore delegato dell’Unione Sarda Piervincenzo Podda - indagato con gli altri sei - e l’azienda editoriale cagliaritana risulta pienamente coinvolta nell’inchiesta perché ha partecipato alla selezione per la sede di Sardegna.it con un’offerta economica che viene ritenuta incongrua. La registrazione del tg verrà valutata dalla Procura. Nei prossimi giorni potrebbe essere acquisito formalmente anche il contratto d’affitto della ex sede di Sardegna.it in via San Simone - proprietà di Zuncheddu - liberato dalla società in house e rimasto però in carico alla Regione. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 21 Mar. ’14 SARDENGNAIT: TURBATIVA D’ASTA, INDAGATO ZUNCHEDDU di Mauro Lissia wCAGLIARI Sei offerte per l’affitto della nuova sede di Sardegna.it, la società in house della Regione che si occupa di servizi informatici: una, forse due indipendenti. Le altre per la Procura tutte ricollegabili al gruppo Zuncheddu, che il 23 settembre 2011 ha vinto a mani basse la selezione come Immobiliare Europea e si è aggiudicata un canone di 496mila euro all’anno per sei anni, contratto rinnovabile per altri sei. Fiamme Gialle. Partita ad aprile dell’anno scorso dai servizi giornalistici della Nuova Sardegna e di Sardinia Post, l’inchiesta giudiziaria su quell’assegnazione in odore di combine è esplosa d’improvviso ieri mattina, quando gli uomini del nucleo di polizia tributaria e della sezione di polizia giudiziaria delle Fiamme Gialle si sono presentati alla sede di Sardegna.it, in piazza Unione Sarda, e negli uffici dell’Immobiliare Europea e della società editrice L’Unione Sarda, per notificare un decreto di perquisizione firmato dal pm Gaetano Porcu. Computer e documenti. Pochi minuti e la notizia ha fatto il giro della città mentre i finanzieri bussavano alle porte di sette appartamenti privati, quelli delle persone indagate con l’accusa di turbativa d’asta: per il fronte Unione Sarda-Immobiliare Europea l’editore Sergio Zuncheddu, il vicepresidente Carlo Ignazio Fantola, il cognato dell’imprenditore Davide Piccioni e l’amministratore delegato dell’Unione Sarda Piervincenzo Podda. Per Sardegna.it l’ex presidente Franco Magi, l’attuale amministratore unico Marcello Barone e il consigliere di amministrazione Natale Ditel, avvocato vicinissimo a Ugo Cappellacci e attuale commissario del Cacip. L’intervento era ancora in corso a tarda sera, i militari al comando del colonnello Nicola De Benedictis hanno messo insieme un mucchio di materiale d’indagine che nelle prossime ore sarà esaminato: il contenuto di computer, atti e documenti, contratti, tutto quanto possa servire a ricostruire la storia piuttosto singolare di un’operazione che la giunta Cappellacci ha avallato senza batter ciglio con la delibera 39/27 del 23 settembre 2011 sul presupposto che Sardegna.it avesse davvero necessità urgente per i propri 150 dipendenti di una sede operativa più spaziosa di quella fin’allora occupata in via San Simone. Le offerte. Vero o no, la Procura intende stabilire se la procedura di selezione seguita dal Cda sia legittima e se qualcuno sia stato favorito. Per adesso la certezza è che l’imprenditore Zuncheddu ha partecipato in più vesti: come Immobiliare Europea e come Unione Sarda editoriale, secondo la Procura anche con altre società ricollegabili al suo gruppo. Comunque sia, è stata la compagine immobiliare a stravincere la gara, grazie a criteri che appaiono almeno sospetti: 98,16 punti su un massimo di 100, grazie alla perfetta rispondenza dell’offerta alle esigenze di Sardegna.it, che aveva bisogno di locali per 2200 metri quadri e all’edificio E del complesso immobiliare di piazza Unione Sarda ne ha occupato 2330. La Procura ha deciso di indagare proprio perché i criteri di selezione delle offerte sembrano calzare come un guanto sull’offerta di Zuncheddu, ma l’ipotesi di turbativa d’asta - che al momento è soltanto un’ipotesi di partenza - indica con chiarezza qual è il profilo investigativo: qualcuno potrebbe aver indirizzato la scelta della sede, imponendo criteri di selezione elaborati su misura. La domanda è: chi poteva avere interesse a favorire l’editore dell’Unione Sarda, se davvero è stato favorito? C’è solo il livello attuale dell’inchiesta o è lecito attendersi un livello politico? La domanda ha fondamento nella storia non solo recente del complesso immobiliare I Fenicotteri, che già ai tempi della giunta di centrodestra guidata da Masala rischiò di trasformarsi in sede di alcuni assessorati regionali. Un po’ il veto imposto successivamente da Renato Soru e un po’ le indiscrezioni giornalistiche hanno rallentato il destino delle torri di Santa Gilla. Poi, in silenzio, l’operazione Sardegna.it. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 19 Mar. ’14 AOUCA: CHIRURGIA, I POSTI-LETTO SONO SOLO AGGIUNTIVI» Al San Giovanni di Dio «I pazienti sono regolarmente ricoverati nel reparto di Oculistica e non in Chirurgia»: lo fa sapere il direttore di presidio Giuseppe Ortu. «Non corrisponde al vero che i degenti del reparto di Oculistica siano ricoverati in Chirurgia», precisa in un comunicato stampa diffuso ieri il responsabile di presidio del San Giovanni di Dio e del Policlinico universitario di Monserrato. «Dal lunedì al venerdì - prosegue Giuseppe Ortu - i pazienti, come sempre, vengono ricoverati in reparto. Da due anni offriamo un servizio in più, il week hospital , che garantisce nel caso ce ne sia bisogno posti letto anche in Chirurgia. In questi casi, ovviamente, i pazienti sono curati e assistiti dal personale di Oculistica». I posti letto a disposizione in Chirurgia rappresentano un servizio in più, dunque, non in sostituzione a quelli nel reparto di Oculistica. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 18 Mar. ’14 San giovanni di dio AOUCA: OCULISTICA: POSTO LETTO SENZA DEGENTI I posti letto sono vuoti, ma non ci sono degenti perché dall'estate scorsa i pazienti del reparto di Oculustica sono ospitati in quello di Chirurgia. Accade nell'ospedale San Giovanni di Dio. I posti letto del reparto di Oculistica sono stati occupati dai pazienti fino all'estate del 2013. Poi la direzione dell'azienda sanitaria ha deciso si spostare i degenti nel reparto di Chirurgia. Doveva essere una soluzione momentanea, ma con il passare dei mesi la situazione non è cambiata. Le organizzazioni sindacali e alcuni medici hanno scritto una lettera alla direzione della Asl, ma le proteste sono cadute nel vuoto. Quei letti continuano ad essere inutilizzati. Nello stesso ospedale (ma anche nel reparto di Medicina del Brotzu) nei giorni scorsi sono stati segnalati casi di pazienti ricoverati in corsia. Un episodio è stato denunciato da Nicola Bertelli. «Non si tratta certo di un caso isolato - ha commentato dopo aver visitato un parente - molti anziani sono ricoverati in corsia senza privacy e senza sicurezza». (f. p.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 18 Mar. ’14 ASL8: TRAPIANTO APLOIDENTICO IL NO DI LA NASA «Il rischio è troppo alto» La nuova “frontiera” del trapianto aploidentico sui talassemici gli fa storcere il naso. «Di fronte a una malattia che, con gli adeguati trattamenti, consente di vivere quasi bene, il rischio di mortalità di questo tipo di trapianto non è eticamente accettabile». Lo dice senza polemica, il professor Giorgio La Nasa (nella foto) , direttore del Centro regionale trapianti midollo osseo, al Binaghi di Cagliari. Allievo di Guido Lucarelli, da 30 anni esegue trapianti su pazienti talassemici, utilizzando sia donatori familiari, sia quelli presenti nel registro dei volontari. Con la sua équipe ha fatto del Binaghi un Centro di eccellenza per trapianti di cellule staminali ematopoietiche per la cura di emoglobinopatie, malattie onco-ematologiche e malattie autoimmuni. «Stando ai dati di mortalità, il trapianto aploidentico dovrebbe essere tentato solo nei casi estremi, quando non è possibile trasfondere», spiega La Nasa. «In Sardegna sappiamo fare questo tipo intervento. Ma siamo dell'idea che vada praticato solo quando non ci siano alternative». Per questo motivo, nell'Isola il trapianto aploidentico si esegue soprattutto nel caso di pazienti colpiti da forme particolarmente gravi di leucemia. «In questi casi, sì», spiega ancora La Nasa. «Ma è evidente che saremmo pronti a correre lo stesso rischio anche di fronte a pazienti talassemici gravi», afferma, «come quelli che vivono, per esempio, in Iran e Iraq, dove la terapia trasfusionale non può essere praticata per le carenze delle strutture sanitarie». Non c'è un rifiuto pregiudiziale, quindi, ma solo una «scelta etica» basata sulle terapie moderne, le trasfusioni e la somministrazione di farmaci che militano l'accumulo di ferro provocato dal continuo ricambio del sangue. «L'introduzione dei ferrochelanti orali ha modificato profondamente lo scenario, riducendo al minimo i danni collaterali delle trasfusioni». Il rischio di tutti i trapianti «è quello di provocare la malattia del trapianto contro l'ospite, in inglese Graft versus host disease (GVHD)», spiega La Nasa. In pratica, quando vengono trapiantate le staminali ematopoietiche, accade che tutte le cellule del sangue ricevente vengano sostituite da quelle del donatore, quindi il sistema immunitario del paziente trapiantato viene modificato e sostituito da quello del donatore. A questo punto può succedere che le cellule responsabili della risposta immunitaria nel paziente che le ha ricevute non riconoscano come proprio l'organismo in cui sono state immesse, e reagiscono aggredendolo. «Quando il trapianto avviene da donatore non compatibile», conclude La Nasa, «questo rischio è evidentemente più elevato». ( ma. mad. ) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 19 Mar. ’14 ASL8: UN MEDICO SARDO A CAPO DI 36 SCUOLE DI ECOGRAFIA GINECOLOGIA. Incarico prestigioso per Giovanni Monni Incarico europero per Giovanni Monni, primario del Servizio di Diagnosi prenatale e di procreazione medicalmente assistita dell'ospedale Microcitemico. Monni, già direttore della scuola italiana “Ian Donald” dell'International university school di Ecografia in Ostetricia e Ginecologia, è stato infatti nominato recentemente direttore delle 36 scuole della “Ian Donald” presenti in Europa. La “Ian Donald” school con sede a Dubrovnik, Croazia, è presente in 90 stati in tutto il mondo e ogni anno si arricchisce di nuove scuole. La scuola deve il suo nome al famoso scienziato inglese Ian Donald che per primo ha esplorato il mondo degli ultrasuoni e utilizzato l'ecografia rivoluzionando in tal modo la pratica clinica ginecologica. Le scuole hanno il compito di diffondere la scienza, l'arte, la ricerca e l'educazione ecografica in maniera globale sia nei paesi più sviluppati che in quelli in via di sviluppo attraverso pubblicazioni scientifiche, libri, corsi, convegni, istituzione di protocolli, linee guida e attività tutoriali. Giovanni Monni, che da otto mesi è anche vicepresidente della Società mondiale di perinatologia (Wapm) comprendente ginecologi, neonatologi, pediatri, genetisti (fu eletto in occasione di un congresso a Mosca cui prese parte anche il premier russo Vladimir Putin), deve questo nuovo incarico al lavoro continuo nella medicina materno-fetale e perinatale della sua équipe del Microcitemico. Per apprendere le tecniche dell'ecografia e della diagnosi prenatale invasiva, oltre 160 ginecologi provenienti da oltre 52 nazioni hanno frequentato, come stage, l'ospedale Microcitemico di Cagliari, dove hanno ottenuto il diploma della Ian Donald international university school. Dieci mesi fa, per conto dello stesso istituto, Monni organizzò a Chia un importante corso avanzato interattivo di ecografia, diagnosi prenatale invasiva, terapia fetale e infertilità, al quale presero parte circa 600 specialisti provenienti da vari paesi. Il medico del Microcitemico ha ricoperto anche cariche in seno all'Aogoi, l'associazione che riunisce i ginecologi italiani. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 Mar. ’14 AOB: ECCELLENZE IL REPARTO DI PEDIATRIA: la calda casa dei piccoli Manca solo il cartello “Chiuso per mancanza di pazienti”, ma la situazione è questa: la Dialisi della Pediatria del Brotzu ha cessato l'attività. «Merito della prevenzione - spiega il primario Pierpaolo Pusceddu -. All'origine dell'insufficienza renale cronica (anteprima della dialisi) c'è sempre una malformazione delle vie urinarie che provoca infezioni. Un tempo queste situazioni venivano evidenziate quando il bambino aveva già qualche anno, oggi, grazie all'ecografia, si possono individuare in fase prenatale e fronteggiarle per tempo». L'ultima paziente aveva ormai 30 anni, «la seguivamo da piccola, si era affezionata, ma non giustificava la presenza del reparto. La verità è che non abbiamo più soggetti con insufficienza renale cronica». Un bel traguardo, raggiunto grazie all'attività specialistica di Urologia (responsabile Giuseppe Masnata) e Nefrologia (Patrizia Fonduli e Franca Zurrida) che continueranno comunque a seguire le patologie renali, per evitare che degenerino nell'insufficienza, ma anche i piccoli trapiantati a Genova e Roma (a Cagliari non si eseguono trapianti di rene su bambini). La Pediatria del Brotzu è un reparto a misura di bimbo, creato nei primi anni Ottanta da Mario Silvetti, (che gli diede la sua impronta e introdusse importanti innovazioni), seguito poi da Efisio Angius e oggi da Pusceddu. Vi si respira un'atmosfera da giardino d'infanzia più che da ospedale: corsie coloratissime, scritte sui muri, burattini. «L'accoglienza per noi è sempre stata un punto di riferimento. Il ricovero per il piccolo e la sua famiglia è un momento di condizione critica. Dev'essere quindi organizzato in modo da ridurre al minimo il distacco da casa». Non a caso, in questo “reparto dal volto umano” trova posto anche la Terapia del dolore, della quale si occupa Alessandra Angioni. Accoglienza, attenzione alla sofferenza, ma anche superspecializzazione. La gente lo sa e accorre in massa. In un anno, al secondo piano del Brotzu vedono circa 12 mila pazienti. Merito della presenza di un Pronto soccorso pediatrico cui ci si può rivolgere senza filtri. Così, nei periodi di malanni stagionali (come questo) e nei fine settimana, sono guai. Anche se i medici (16) e gli infermieri (una quarantina) non lo danno a vedere, nel reparto c'è tensione, causa turni stressanti (soprattutto nei festivi) con un organico all'osso. Per la verità, c'è un Pronto soccorso anche all'ospedale Microcitemico «ma forse per una questione di più facile accesso, la maggior parte delle persone si rivolge a noi. Ho già rappresentato la situazione alla Regione e alla Direzione generale, che conta di assegnarci qualche medico in più attingendo alla graduatoria di un concorso». Problemi organizzativi a parte, il reparto rappresenta un punto di riferimento per patologie particolarmente diffuse in Sardegna, come la Fibrosi cistica, malattia ereditaria cronica che colpisce i polmoni e l'apparato digerente. I sintomi principali sono tosse persistente, infezioni polmonari, difficoltà di respirazione, problemi nella crescita, emissione di feci frequente, sapore salato nella pelle, «e infatti - precisa Pusceddu - la diagnosi si effettua anche col test del sudore, per accertare la concentrazione di cloro nella pelle, caratteristica della malattia. Poi si cerca la conferma a livello genetico». In Sardegna si registra 1 caso ogni 2500 nuovi nati, mentre i portatori sani sono 1 ogni 25. È la patologia genetica più diffusa nell'Isola. Al Brotzu se ne occupano Maurizio Zanda e Daniela Manunza. «Seguono 110 pazienti di tutte le età, perché l'assistenza inizia in epoca neonatale e prosegue per tutta la vita del soggetto». Sotto il profilo sociale, è molto attiva la sezione sarda della Lega italiana Fibrosi cistica (www.fibrosicisticasardegna.it). La stessa équipe segue anche la celiachia (e le sindromi da malassorbimento intestinale) che in Sardegna registra un'incidenza di 1 a 100-150 nuovi nati, con 4500 pazienti diagnosticati «ma sono molti di più quelli che non lo sanno». Lucio Salis ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 21 Mar. ’14 SCENDE LA SPESA OSPEDALIERA PER I FARMACI di Stefano Ambu wCAGLIARI Gli ospedali di Sassari sono quelli che hanno risparmiato di più nella spesa farmaceutica degli ultimi due anni. L’ Azienda ospedaliera universitaria, poi, ha battuto tutti i record: tra il 2011 e il 2012 ha ridotto i costi addirittura del 42,22 per cento passando da 6,7 a 3,9 milioni. Ma anche nell'arco di tre anni (2011-2013) è in cima alla classifica con un meno 37,87 per cento. Anche la Asl 1 di Sassari sale sul podio: terzo posto dopo la Asl 3 di Nuoro (-32,13 per cento) con una riduzione di spesa del 28,79. La Corte dei conti, sezione di controllo per la Regione, al termine di una indagine culminata ieri con una adunanza pubblica, ha detto che tutta la Sardegna ha limitato gli sprechi. Promossi Regione, aziende ospedaliere e Sardegna.it, la società in house della stessa amministrazione regionale. La spesa farmaceutica ospedaliera della Regione si è ridotta del 15,66 per cento dal 2011 al 2012 e di un ulteriore 0,73 per cento dal 2012 al 2013. Si è passati insomma nel giro di tre anni da 87,4 milioni a 73,2 milioni di euro con un decremento complessivo del 16,28 per cento. Il Brotzu di Cagliari, invece, ha visto aumentare dal 2012 al 2013 la sua spesa per i farmaci dell'11, 92 per cento. Ma c'è una spiegazione: il ricovero in Nefrologia di due pazienti affetti da una malattia rarissima, la sindrome emolitica uremica. «Comporta – ha spiegato il direttore generale Antonio Garau – una spesa per i farmaci di circa 300mila euro l'anno a paziente». A parte le eccezioni, il crollo delle spese è stato determinato, secondo la Corte dei conti, da almeno tre fattori: la piena entrata a regime del progetto di tracciabilità del farmaco con il progressivo miglioramento della rilevazione dei consumi deimedicinali, la fissazione dei tetti di spesa a livello nazionale e l'utilizzo dell'applicativo “armadietto di reparto” che consente un monitoraggio costante di ciò che arriva e ciò che esce dai reparti. «Per contenere e ridurre i costi dei beni sanitari – è stato spiegato durante l'adunanza – è fondamentale conoscere con la massima precisione i consumi effettivi, poter distinguere tra distribuito e consumato, monitorare le giacenze, controllare il volume degli scaduti: in altre parole raggiungere un significativo grado di certezza in merito al fatto che tutto ciò che si acquista è utilizzato per i pazienti e non dimenticato in qualche magazzino fino ad inevitabile scadenza». Per l’ex governatore Ugo Cappellacci «i dati diffusi dalla Corte dei conti certificano in maniera inequivocabile il lavoro svolto dalla nostra giunta regionale per la riduzione delle spesa farmaceutica e, come una vera e propria operazione verità, sgombrano il campo dagli inganni di chi faziosamente ha tentato di mistificare la realtà». ____________________________________________________________ Pagina99 18 Mar. ’14 TROPPO RUMORE, COSÌ DIVENTIAMO SORDI. Decibel Musica in cuffia, sirene, ma anche dispositivi anti rumore per neonati: gli stimoli uditivi ai quali siamo sottoposti ci stanno facendo perdere l'udito MARJA TERESA CARBONE Facciamo attenzione, quando ci capita, ad ascoltare bene il fruscio delle foglie degli alberi, il ronzare di un calabrone, lo sciacquio dell'acqua contro il pilone di un ponte. Ascoltiamoli bene, questi suoni, perché non è escluso che fra poche decine d'anni, non ci saranno più o, meglio, le nostre orecchie, le orecchie dei nostri figli, non riusciranno a coglierli. Diverse ricerche sembrano infatti dimostrare che l'inquinamento acustico cui siamo di continuo sottoposti possa avere conseguenze gravi, e forse irreversibili, sul nostro udito. Ma n on pensiamo solo alla sirena lacerante di un'ambulanza, al frastuono di un cantiere, alla musica assordante di una discoteca. I rumori che ottundono la nostra capacità percettiva possono essere più sottili, all'apparenza benevoli. È il caso, per esempio, di quei dispositivi che si mettono nella camera dei bambini molto piccoli per conciliare loro il sonno o per evitare che si sveglino all'improvviso. Il "rumore bianco" che emettono, prolungato e regolare, serve per coprire i suoni inattesi, il campanello di casa, lo squillo di un telefono. Ma uno studio condotto da ricercatori dell'università di Toronto e pubblicato su "Pediatrics", la rivista ufficiale dell'Accademia americana dei pediatri, mette in guardia i genitori ansiosi: se non sono tenuti a volume basso, questi congegni possono provocare danni anche gravi all'apparato uditivo del neonato. E come nota Steve Swayne su "Pacific Standard", gli ex infanti bombardati a fin di bene da rumori invadenti hanno forti possibilità di diventare adolescenti che si rovinano del tutto l'udito, ascoltando musica a volume altissimo attraverso le cuffie o gli auricolari. Basti pensare che secondo i parametri indicati dagli statunitensi Centers for Disease Control and Prevention un ascolto di musica in cuffia a 105 decibel non dovrebbe superare i cinque minuti, mentre un'altra ricerca rivela che ragazze e ragazzi americani (e non solo) ascoltano musica per una media di tre ore al giorno, incuranti degli avvertimenti familiari o delle "istruzioni per l'uso" dispensate da Apple. Non sono però solo gli adolescenti a infliggersi rumori eccessivi a rischio di sordità futura. Ancora Swayne cita il caso delle partite di football americano, dove si svolgono gare a colpi di decibel condotte dalle tifoserie. L'anno scorso i fan dei Seattle Seahawks sono riusciti a conquistare l'ambito riconoscimento di squadra più fracassona degli Stati Uniti, con oltre 136 decibel prodotti nel corso di un match. Ma subito il primato è stato strappato dai loro avversari, i Kansas City Chiefs, che li hanno superati di un decibel. Inutile precisare che in entrambi i casi il livello di rumore è considerato pericoloso, pena un calo dell'udito che gli apparecchi acustici almeno quelli in circolazione correggeranno solo in parte, consentendoci di comunicare con le altre persone, ma non di sentire i suoni della natura. Ascoltiamolo, il rumore delle foglie e dell'acqua. Finché siamo in tempo. Repubblica 22 Mar. ’14 UNA MEMBRANA CI ISOLA DAI SUONI CHE NON CI PIACCIONO: SCOPERTO L'UDITO SELETTIVO Ricerca del Mit e dell'università del Sussex: nell'orecchio interno individuata una struttura che fa da filtro alle frequenze che ci arrivano e ci permettono di 'concentrarci' sui suoni che ci interessano ed escludere gli altri Lo leggo dopo BOSTON - Il nostro udito è selettivo. Ci fa sintonizzare su alcune conversazioni e su alcune voci ignorandone altre, tipicamente quelle caratterizzate da suoni che ci infastidiscono. A scoprirlo una ricerca del Mit (il Massachussets Institute of Techology) svolta in collaborazione con l'Università del Sussex. La "chiave" sta tutta in un meccanismo che ha alla base una membrana molto sottile che si trova nell'orecchio interno, chiamata membrana tettoriale: è questa a fare da filtro consentendoci, ad esempio, di sentire la voce della persona con cui stiamo parlando anche in un posto affollato come un autobus o un pub e, al contrario, di bloccare i suoni che in qualche modo ci disturbano. La nostra "selettività", ciò che in sostanza ci porta a non sentire bene alcuni suoni o alcune voci e a udirne in maniera chiara altre - concludono gli scienziati - è basata quindi su un meccanismo di tipo fisico che sembra essere indipendente dalla nostra volontà ed è invece focalizzato sulle frequenze. Sono le frequenze infatti a farci distinguere un suono dall'altro, e lavorare su quanto accade all'interno del nostro orecchio potrebbe portare a sviluppare nuove forme di supporto per chi ha problemi di udito e migliorare i microfoni dei telefonini. ____________________________________________________________ Tst 19 Mar. ’14 ANEURISMI E ICTUS: PERCHÉ NON SONO PIÙ TRAGEDIE SENZA RITORNO" DA NIELE BANEI Diana è a un concerto e viene colta da una crisi epilettica. Quando si riprende, la sua vista è doppia e il mal di testa diventa rapidamente insopportabile. Quando arriva al pronto soccorso, la diagnosi lascia poche speranze: aneurisma cerebrale di grandi dimensioni, oltre i 25 millimetri. Nonostante la giovane età Diana ha solo 15 anni le possibilità di recupero si riducono al lumicino: la probabilità che la sacca di sangue che si è formata nel cervello scoppi con conseguenze drammatiche è elevata. Eppure oggi, a otto mesi da quel giorno drammatico, Diana (il nome è di fantasia) sta benissimo e ha ripreso la vita di tutti i giorni. Uno straordinario capovolgimento di prospettiva che ha un nome preciso: «flowdiverter», il nuovo dispositivo che sta rivoluzionando il trattamento degli aneurismi cerebrali. A spiegarlo è Italo Linfante, direttore del dipartimento di Neurochirurgia Vascolare presso il «Baptist Cardiac and Vascular Institute» di Miami, in Florida, uno dei centri all'avanguardia del settore e dove la ragazza è stata operata. «Quando si parla di aneurisma spiega Linfante ci si riferisce alla dilatazione di alcune arterie all'interno del cervello che, con il passare del tempo, possono espandersi fino alla rottura. In questi casi intervenire in modo tempestivo è fondamentale. Fino ad alcuni anni fa la tecnica base per trattare questi "eventi" prevedeva la craniotomia e il successivo posizionamento di una clip che, come una vera e propria pinza, isolava l'aneurisma». Una tecnica chirurgica che ha lasciato lentamente spazio alla neurochirurgia endovascolare, un approccio che prevede l'utilizzo di microcateteri che dall'arteria femorale raggiungono direttamente la zona del cervello interessata dallo «shock». «Questa metodica, che presenta eccellenti risultati, consiste nel riempimento della sacca aneurismatica attraverso la creazione di una sfera, che è formata da spirali di platino. Si tratta di un'impalcatura capace di evitare la rottura e di promuovere il riassorbimento del sangue», sottolinea lo specialista. Ad oggi, però, alcuni casi come quello di Diana risultano ancora difficili da trattare. Difficoltà che potrebbero essere superate proprio con il «flow-diverter». «E' un dispositivo spiega Linfante pensato già alla metà degli Anni 90, ma solo da poco arrivato nelle sale operatorie dopo un rigorosissimo iter di sperimentazione, iniziato dai modelli in vitro e conclusosi con i test sugli animali e nell'uomo». Tecnicamente, è uno «stent», che permette di canalizzare il sangue, escludendo così l'aneurisma. Una sorta di rete metallica inserita nell'arteria dove è presente il «problema». «La bellezza di questo campo del sapere continua è la rapidità con cui si cambia il modo di lavorare. Se prima ci concentravamo nel trattare la sacca aneurismatica, oggi, con il "flow-diverter" l'attenzione si concentra sull'arteria. L'obiettivo ripristinare il corretto flusso sanguigno. Così facendo, il sangue presente nell'aneurisma si coagula e il problema viene eliminato». Un dispositivo che permette di trattare aneurismi considerati fino a pochissimo tempo fa intrattabili come quello di Diana. Nel centro di Miami dove lavora Linfante quasi il 40% degli aneurismi viene ormai affrontato in questo modo. Ma le novità non finiscono qui. Grazie alle nuove tecnologie endovascolari anche il trattamento degli ictus l'occlusione delle arterie cerebrali è cambiato radicalmente. L'approccio è del tutto simile agli aneurismi. «Oggi prosegue la tecnica più all'avanguardia è quella dello, "stent-retriver". Il metodo consiste nell'inserzione di una rete a livello dell'arteria ostruita con l'obiettivo di ricanalizzare e aprire il vaso. In questi casi però, a differenza dell'aneurisma, lo "stent" viene tolto e sorprendentemente, nel momento della rimozione, il dispositivo porta via con sé anche il coagulo che ha causato l'ictus». Ma se da un lato le tecniche hanno fatto passi da gigante, lo stesso non si può dire per quanto riguarda l'organizzazione delle unità ospedaliere che devono trattare aneurismi e ictus. In Italia (e non solo) la situazione è a macchia di leopardo e le «stroke unit» scarseggiano. «Per trattare bene questi "eventi" occorrono centri organizzati che operino 24 ore su 24. Non solo. Le risorse andrebbero concentrate in pochi centri e ben dislocati. Un esempio di efficienza sottolinea Linfante è Londra, divisa in 8 settori per garantire un punto di riferimento all'avanguardia ogni milione di persone. Più interventi fai e migliore è la qualità. Solo così si potrà veramente avere successo». La sfida conclude «non sarà mai solo di natura tecnica, ma anche di organizzazione sanitaria». gdanielebanfi83 PASSI DA GIGANTE Si curano danni che si consideravano intrattabili UN CASO SIMBOLO Diana aveva solo 15 anni e fu colpita in modo devastante ____________________________________________________________ Repubblica 18 Mar. ’14 CARCERI, IN CELLA CONTRAGGONO MALATTIE IL 60-80% DEI DETENUTI Lo hanno ribadito gli esperti durante il convegno della Simpse, laSocietà italiana di medicina penitenziaria. I tossicodipendenti sono il 32%, il 27% ha un problema psichiatrico, il 17% ha malattie osteoarticolari, il 16% cardiovascolari e circa il 10% problemi metabolici e dermatologici. Tra le malattie infettive è l'epatite C la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), Epatite B (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%) 18 marzo 2014 4 LinkedIn 0 Pinterest ROMA - Non c'è solo la libertà personale tra i diritti che si perdono quando si finisce in carcere, tra le pene accessorie, in qualche modo "occulte", c'è anche la perdita del diritto alla salute, con una situazione che è stata addirittura peggiorata quando la responsabilità è passata dal carcere alle Asl. Lo hanno ribadito gli esperti durante il convegno della Simpse, la Società italiana di medicina penitenziaria, durante il quale è emerso che il 60-80% dei detenuti ha qualche malattia. La "classifica" delle malattie pù frequenti. A trasformare le prigioni in veri e propri lazzaretti sono la presenza di soggetti a rischio, come i tossicodipendenti, che sono il 32% del totale, ma anche il sovraffollamento, che favorisce i contagi e l'assenza di controlli sistematici, per cui anche le dimensioni esatte del fenomeno non sono conosciuti. "Questi numeri derivano da nostre stime - spiega il presidente della Simpse Sergio Babudieri - non esiste infatti un Osservatorio Epidemiologico Nazionale, che noi chiediamo e solo due Regioni hanno attivato quello regionale. Il risultato è che probabilmente i dati sono sottostimati, anche perché molti dei detenuti non sanno di avere una malattia o non vogliono saperlo per non apparire indeboliti". Secondo le stime presentate, oltre i tossicodipendenti che sono, appunto il 32%, il 27% ha un problema psichiatrico, il 17% ha malattie osteoarticolari, il 16% cardiovascolari e circa il 10% problemi metabolici e dermatologici. Tra le malattie infettive è l'epatite C la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%), Epatite B (5,3%), Hiv (3,8%) e sifilide (2,3%). Riscrivere la legge del 2008. Dalla situazione, hanno sottolineato gli esperti, si esce riscrivendo la legge del 2008 che trasferiva le competenze al Servizio sanitario nazionale, istituendo l'Osservatorio e migliorando la formazione dei 3-4mila operatori sanitari carcerari. "Per l'Osservatorio devono muoversi Governo e Parlamento - ha precisato il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Fabrizio Oleari - l'Istituto ha le competenze e le possibilità, ed è ovviamente disponibile". Il problema non riguarda solo il mondo carcerario, che pure è una 'citta di 60mila abitanti, perché come è emerso da diversi rapporti la prigione può diventare una 'riservà di virus che poi circolano all'esterno, anche in virtù del fatto che migliaia di detenuti restano per meno di una settimana dietro le sbarre. "Eppure all'attenzione dei decisori politici a tutti i livelli c'è solo il sovraffollamento - ha sottolineato il senatore Luigi D'Ambrosio Lettieri - e di salute non si parla". ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Mar. ’14 ORA IL COLESTEROLO CONTENUTO NEI CIBI PREOCCUPA MENO è ancora diffusa la convinzione che il modo più efficace per controllare i livelli di colesterolo nel sangue sia limitarne l’assunzione con la dieta. Dal momento che il colesterolo è presente solo negli alimenti di origine animale, se questo fosse vero, un piatto di patatine fritte (con soli ingredienti vegetali) rappresenterebbe, per il controllo della colesterolemia, una scelta migliore rispetto a una piccola porzione di gamberi bolliti. In realtà, sebbene sia tuttora acceso il dibattito su quali siano i fattori alimentari da tenere maggiormente sotto controllo, il ruolo del colesterolo è stato molto ridimensionato. Lo sottolinea anche una recente revisione pubblicata su Current Nutrition Report da esperti della Tufts University di Boston (USA), secondo la quale l’introduzione di colesterolo con la dieta, agli attuali livelli medi di assunzione, ha effetti modesti sulla concentrazione di lipidi plasmatici e, in particolare sul colesterolo LDL («cattivo»). E tali effetti sembrano limitati a sottogruppi di popolazione. Allora, del colesterolo presente nei cibi non dobbiamo più preoccuparci? «Prima di tutto — dice Alessandra Bordoni, professore di Scienza dell’alimentazione all’Universitàdi Bologna — va ricordato che il colesterolo è una molecola fondamentale per l’organismo, perché è componente delle membrane cellulari e dalla sua trasformazione derivano sostanze importanti quali acidi e sali biliari, vitamina D, vari ormoni, compresi quelli sessuali. Ed è proprio per questo che l’organismo provvede a sintetizzarlo: in media, la quantità che introduciamo con gli alimenti è circa 1/3 del fabbisogno, mentre la quota maggiore è prodotta dall’organismo». «In condizioni normali, — prosegue l’esperta — assunzione dietetica e sintesi si compensano: per questo la quantità di colesterolo presente nella dieta non è in grado di influenzare più di tanto la colesterolemia. Le nuove raccomandazioni europee e italiane invitano, infatti, a prestare attenzione più ai nutrienti in grado di influenzare davvero la colesterolemia — cioè agli acidi grassi saturi —, che al colesterolo presente negli alimenti. Una dieta troppo ricca di acidi grassi saturi stimola la produzione di colesterolo, mentre se è povera di grassi saturi e ricca di polinsaturi mantiene sotto controllo la colesterolemia». «Ciò non significa — dice Bordoni — poter mangiare cibi ricchi di colesterolo a volontà: resta valida l’indicazione di introdurne meno di 300 mg al giorno. Ma significa soprattutto scegliere cibi in base al contenuto di grassi saturi (basso) e insaturi (elevato). Attenzione anche ai grassi vegetali idrogenati: il processo tecnologico tipico nella produzione di margarine determina la formazione di grassi trans, che hanno lo stesso effetto dei grassi saturi sulla colesterolemia». Fra i cibi più ricchi di grassi saturi ci sono: burro, formaggi, panna, carni grasse, olio di cocco e di palma. Fra i più ricchi di insaturi: oli d’oliva e di semi, pesci grassi, frutta secca a guscio . C. F. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Mar. ’14 LE SCOPERTE NON FINISCONO MAI NEMMENO IN ANATOMIA Frequenta ormai da un anno il reparto di chirurgia plastica e ricostruttiva del Centro grandi ustionati del Niguarda di Milano. Periodicamente si reca a Parigi, in sala settoria, dove porta avanti le sue ricerche. E a fine aprile sarà a San Diego al Congresso della Società americana di Anatomia, dove è stata accettata la comunicazione del suo lavoro. Una scoperta anatomica che riguarda il volto. Il Terzo millennio è cominciato ormai da 14 anni e ancora si scopre qualcosa nel campo dell’anatomia macroscopica? A livello di fasce muscolari? Sembra incredibile, ma così è. E la scoperta è di quelle che aprono nuove prospettive nella chirurgia del viso. Chiara Andretto Amodeo è una giovane specialista italiana in chirurgia plastica e ricostruttiva. Classe 1977, ma già membro di diverse società scientifiche: American academy of facial plastic and reconstructive surgery (Aafprs); American association of anatomists (Aaa); European academy of facial plastic surgery (Eafps); Societé avancée de médecine et chirurgie esthetique et plastique (Samcep). E fa parte dell’Editorial board della rivista medica «Journal of surgical research update». La specialista, inoltre, annovera già pubblicazioni scientifiche, alcune come primo autore, e uno dei capitoli della prossima edizione della “bibbia” americana della chirurgia plastica e ricostruttiva del volto porterà anche la sua firma. Andretto Amodeo ha scoperto che esiste una fascia muscolare più profonda a livello del volto, che copre e protegge il nervo più importante di quell’area, il facciale. Le fasce sono strati di tessuto connettivo dalle funzioni molteplici e molto importanti, come il «trasporto» dei vasi sanguigni, la protezione dei nervi, la coordinazione dell’attività muscolare. La conoscenza della nuova fascia, mai osservata prima, potrebbe avere un peso notevole in futuro per gli interventi di chirurgia plastico- ricostruttiva dopo tumori e traumi e nelle cicatrici successive a ustioni. Il motivo è che, per riparare chirurgicamente, si potrebbero utilizzare lembi più ampi di tessuto (sapendo che il nervo facciale è comunque protetto), evitando sofferenze da scarso afflusso di sangue, spesso causa di insuccessi. Inoltre, si apre la possibilità di esercitare una trazione su questa fascia per riposizionare i tessuti molli del volto, e di salvaguardare la mimica facciale, fondamentale nei lifting. La scoperta della giovane chirurga è in linea con la tradizione italiana in questo campo. Basti ricordare Giuseppe Sterzi (1876-1919) e Antonio Scarpa (1752-1832), pietre miliari nello studio delle strutture del volto. Individuare oggi qualcosa di nuovo in Anatomia è più che raro, essendo questo un campo della medicina abbondantemente studiato. Le novità quindi sono difficili da «metabolizzare» perché toccano dogmi considerati immutabili. L’ultima sulle fasce del volto risale al 1976. Chiara Andretto Amodeo è nata un anno dopo. Il suo studio, iniziato oltre tre anni fa, ha avuto l’appoggio di personaggi chiave: Gregory Keller, chirurgo plastico ricostruttivo della Ucla (university of California at Los Angeles), Andrea Casasco, ordinario di Istologia ed embriologia dell’università degli Studi di Pavia e, infine, Guy Vallancien, direttore del Centre du don des corps dell’Université Paris Descartes. Andretto Amodeo ora parlerà a San Diego. E in Italia? Vincenzo Rapisarda, direttore del reparto di Chirurgia plastica e ricostruttiva del Centro grandi ustionati del Niguarda, d’accordo con il direttore sanitario Giuseppe Genduso, le ha permesso di portare avanti il progetto di cambiare alcune tecniche di chirurgia ricostruttiva del volto, nell’ottica di risultati estetici e funzionali migliori. Mario Pappagallo ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Mar. ’14 LA CRONOTERAPIA PUÒ SERVIRE ANCHE NEI TUMORI Farmaci più efficaci all’ora «giusta» Sarà capitato anche a voi: «Prenda questa pillola prima di cena e quest’altra appena si sveglia». Il perché sta nell’«orologio biologico» che regola il nostro organismo e cerca di adattare le funzioni biologiche all’alternanza sonno-veglia. In pratica, i farmaci assunti nell’orario più adeguato possono dare risultati migliori e meno effetti collaterali. Da alcuni anni gli scienziati si sono chiesti se questo potesse valere anche nella cura dei tumori: cambia qualcosa se si somministrano i chemioterapici a determinate ore del giorno o della notte? Si possono ottenere vantaggi perché potrebbero risultare più efficaci o meno tossici? «A queste domande prova a rispondere la cronoterapia dei tumori, che studia il sistema circadiano dell’organismo umano (ovvero il modo in cui il corpo si adatta all’alternanza di luce e buio) in relazione alla chemioterapia» spiega Marina Bellet, ricercatrice presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università degli Studi di Perugia, che conduce le sue ricerche grazie al sostegno di Fondazione Umberto Veronesi (Fuv). Diversi studi hanno dimostrato che alterare o danneggiare i ritmi circadiani ha profonde conseguenze sulla salute umana e può favorire l’insorgere di svariate malattie, dalla depressione ai disturbi metabolici, fino al cancro. «Sappiamo anche per certo che tutte le cellule del corpo umano tendono a seguire un preciso ritmo nell’arco delle 24 ore e che le cellule cancerose hanno questi ritmi alterati e si moltiplicano con tempi diversi: questo fa sì che l’efficacia e la tollerabilità di un farmaco antitumorale possa dipendere anche dall’ora in cui viene somministrato» chiarisce Bellet, che verrà premiata in una cerimonia in Campidoglio, a Roma, il prossimo 26 marzo insieme con altri 150 giovani ricercatori vincitori dei finanziamenti elargiti da Fondazione Umberto Veronesi su tutto il territorio nazionale. Alcuni studi, ad esempio, indicano che il 5-fluorouracile (chemioterapico fra i più usati nella terapia di tumori dell’apparato digerente e del seno) andrebbe somministrato di notte, perché gli enzimi che lo metabolizzano sono più attivi e quindi il farmaco risulta meno tossico per i pazienti. Altre analisi, provano che nelle pazienti con un carcinoma ovarico la combinazione di doxorubicina e cisplatino risulta più efficace se il primo medicinale viene preso la mattina e il secondo 12 ore dopo. «Tutto dipende dal tipo di cancro in questione e dal meccanismo d’azione del singolo farmaco, da come agisce e da come viene metabolizzato: quello che stiamo cercando di capire è in quali orari sia meglio dare ciascuna terapia, per colpire le cellule cancerose durante la loro massima attività. E, se possibile, quando l’organismo assimila meglio la cura, così da soffrirne meno gli effetti collaterali». La meta può non essere molto lontana, visto che la cronoterapia è già realtà per altre patologie. Le statine per abbassare il colesterolo, ad esempio, vengono fatte assumere la sera, perché puntano a bloccare l’enzima che produce il colesterolo e che svolge la sua attività soprattutto di notte. Vera Martinella ____________________________________________________________ Corriere della Sera 19 Mar. ’14 DA TBC A EPATITE SONO MALATI 8 DETENUTI SU 10 Il 60-80% dei detenuti ha qualche malattia. È emerso ieri al convegno della Società italiana dimedicina penitenziaria. Il 32% dei detenuti è tossicodipendente, il 27% ha problemi psichiatrici, il 17% ha malattie osteoarticolari, il 16% cardiovascolari e il 10% problemi metabolici. Tra le malattie infettive l’epatite C è la più frequente (32,8%), seguita da Tbc (21,8%) e epatite B (5,3%). ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Mar. ’14 L’AREA 12 DIVIDE UOMO E MACACO Elaborazione del pensiero e del futuro: cosa manca nel cervello delle scimmie Saper decidere, progettare, pensare al futuro, imparare dagli altri: è soprattutto questo che ci distingue dagli animali. Anche da quelli che ci sono più vicino nella scala dell’evoluzione, come le scimmie e in generale i primati non umani. Ma com’è che il nostro cervello sa orchestrare tutto questo e perché le scimmie queste capacità non le hanno? Se lo chiedevano in tanti da anni. Anche perché c’è una forte omologia fra le aree del cervello che regolano le funzioni cognitive dell’uomo e della scimmia — comprese le aree che sono coinvolte nei processi uditivi, nel controllo della mimica facciale, nel riconoscimento dei gesti. A questi studi la ricerca italiana ha dato un contributo fondamentale a cominciare da quando Giacomo Rizzolatti ha scoperto l’esistenza dei «neuroni specchio», prima nelle scimmie — nelle regioni parietali frontali anteriori del cervello — e poi nell’uomo. È stata una delle scoperte più entusiasmanti nel campo delle neuroscienze. Sono i «neuroni specchio» che mettono insieme la percezione dell’azione col momento dell’eseguirla e consentono di comprendere le azioni degli altri. E sono sempre loro che governano i processi motori (la produzione dei suoni per esempio, nelle scimmie ma anche negli uccelli) e l’espressione delle emozioni. Dopo aver dimostrato tutto questo nei macachi, gli scienziati si sono accorti che era così anche nell’uomo: è proprio grazie ai «neuroni specchio» se oggi conosciamo meglio i disturbi del comportamento, per esempio l’autismo. Questo e tanti altri studi mostrano analogie impressionanti di struttura e funzione tra il cervello dell’uomo e quello delle scimmie. E allora, di nuovo, la domanda: perché i processi cognitivi delle scimmie sono molto più primitivi dei nostri? E poi: perché le scimmie non parlano? (Non sono domande da poco. L’uomo moderno ha occupato tutto quello che poteva occupare del pianeta, le scimmie no; l’arma vincente a nostro favore in chiave evolutiva è quasi certamente il linguaggio, oltre al saper collaborare con gli altri — che in fondo è ancora una questione di linguaggio). Cose da neuroscienziati che sfiorano antropologia, filosofia e morale. Insomma, cos’è che ci rende uomini? È vero che il cervello dell’uomo non è poi così diverso da quello delle scimmie, ma potrebbe essere tutta una questione di integrazione fra le diverse aree; forse è questo che ci consente di progettare e mettere in fila i problemi per ordine di importanza e prendere decisioni. Probabilmente questa integrazione è più debole nelle scimmie di quanto non lo sia nell’uomo. Tutte cose estremamente complesse da dimostrare, ma gli scienziati ci stanno provando. C’è anche un’altra possibilità: che l’uomo abbia una o più aree del cervello, fra quelle deputate ai processi cognitivi, che mancano nelle scimmie; ma questo finora non era mai stato dimostrato da nessuno. Così Matthew Rushworth, un professore di Oxford, ha fatto un esperimento molto particolare (il lavoro è stato pubblicato su «Neuron» proprio in questi giorni). Ha studiato il cervello di 25 volontari con sistemi di risonanza magnetica di ultima generazione capaci di indagare la funzione oltre che la struttura del cervello. Poi lui e i suoi colleghi hanno ripetuto le stesse indagini di risonanza su 25 macachi confrontando i dati dell’uomo con quelli delle scimmie. C’è nel cervello una regione particolare che i medici chiamano corteccia frontale ventrolaterale: è la sede dei processi cognitivi più sofisticati e del linguaggio. Come lo sappiamo? Un po’ anche perché un ictus del cervello o una malattia degenerativa che colpisca quella parte della corteccia si manifestano invariabilmente con disturbi del linguaggio. E non basta: da studi precedenti si sa anche che certi disturbi psichiatrici come deficit di attenzione, comportamenti compulsivi e tossicodipendenze dipendono soprattutto da alterazioni della corteccia frontale ventrolaterale. Il cervello è un mosaico di aree collegate una all’altra e che si influenzano reciprocamente attraverso connessioni a volte intricatissime; venirne a capo non è certo impresa facile. Ma gli scienziati di Oxford hanno trovato il modo di studiare non solo la corteccia ventrolaterale; hanno anche saputo indagare le connessioni fra questa regione e le altre che ne condizionano la funzione. L’analisi di una grande quantità di immagini di risonanza magnetica e un numero impressionante di dati funzionali hanno consentito a Rushworth di dividere la corteccia frontale ventrolaterale dei volontari sani in 12 aree ben identificate in tutti e 25 gli uomini che avevano studiato. Ciascuna delle 12 aree aveva però un suo modo speciale di connettersi con il resto del cervello e questo è unico di ciascuno di noi; in un certo senso le impronte digitali del nostro cervello. Fatto questo gli studiosi di Oxford hanno paragonato le 12 aree della corteccia prefrontale dell’uomo con quella delle scimmie. Non si può dire che non siano rimasti a bocca aperta nel constatare che nell’insieme la corteccia frontale ventrolaterale delle scimmie non era poi tanto diversa da quella dell’uomo. Al punto che 11 delle 12 aree in cui avevano diviso questa regione c’erano sia nell’uomo che nel macaco e le connessioni di ciascuna di queste aree con il resto del cervello erano molto simili nelle due specie. Restava però l’area 12 (complicata anche da definire: polo frontale- laterale della corteccia prefrontale); quest’area non ha un equivalente nella scimmia. Cosa da poco? Niente affatto; l’area 12 presiede al saper progettare il futuro, al mettere in fila i problemi in una gerarchia di importanza, al prendere decisioni anche eventualmente a proprio svantaggio, al saper fare tante cose diverse e persino alla capacità di concentrarsi contemporaneamente su diversi problemi, quando capita di doverlo fare. Se l’uomo sa fare tutto questo e tanto d’altro e i macachi no lo dobbiamo forse proprio a questa piccola area, l’area numero 12 della corteccia prefrontale. Quest’area è connessa in special modo con le regioni uditive del cervello; è logico pensare che siano proprio queste connessioni che nel corso dell’evoluzione ci hanno consentito di capire le reazioni dei nostri stimoli, di intuirne il significato, di desiderare qualche forma di interazione. Questi stimoli sfociavano inevitabilmente nella necessità di generare qualcosa che servisse per comunicare, che poi è diventato per l’uomo vero e proprio linguaggio. Allora vuol dire che nei macachi non c’è proprio l’area del cervello che governa il linguaggio? No, gli scienziati hanno visto che c’è anche nei macachi ma le connessioni di quest’area con le regioni uditive sono poche e deboli. Forse è proprio per questo che le scimmie non parlano. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 23 Mar. ’14 L’OSSESSIONE DELLA VELOCITÀ OVVERO IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA IMPAZIENZA E IMPASSE di SANDRO MODEO Dopo la mistica della trasparenza di Wikileaks e quella dell’intransigenza del Movimento 5 Stelle, la nuova folata cool portata dal renzismo e dall’iPd (il Partito democratico in versione Apple) è l’apologia della velocità con i suoi corollari: accelerazione, intraprendenza, decisionismo. Un’apologia non certo nuova: già nel 1908 — dopo essere finito in un fossato campestre con la sua Isotta Fraschini per scansare due ciclisti — il futurista Marinetti tesseva un inno all’auto da corsa («veemente dio d’una razza d’acciaio») proprio come icona di velocità-modernità. E in effetti, il nesso tra velocità e modernità è ormai una tautologia, ratificata da libri come Social Acceleration del sociologo tedesco Hartmut Rosa, in cui si mette a fuoco la velocità come vincolo operativo individuale e sociale, una necessità adattativa in un contesto irreversibilmente mutato. Per riassumere una simile accelerazione, basterebbe pensare a un treno giapponese a levitazione magnetica (fino a 501,5 km/h) o alla trasmissione di dati in una fibra ottica (prossima alla velocità della luce); ma ancora più vertiginoso è il rapporto tra velocità e informazione in un computer (con flussi di un terabyte — equivalente a 300 film in Hd — al secondo) o in una transazione finanziaria Hft (High frequency trading), ormai sulla scala del picosecondo (cioè di un millesimo di nanosecondo, che è a sua volta un miliardesimo di secondo). Per capire genesi e modalità dell’«accelerazione sociale», bisogna inquadrarla in un’ottica biologico-evoluzionistica. È infatti immediato notare come il processo dipenda soprattutto dalle acquisizioni tecno- scientifiche, ben riassunte nella continuità tra osso e astronave della famosa sequenza in 2001 di Kubrick. Ma queste acquisizioni non sono — come recita il luogo comune sociologico — una spinta intrinseca e autonoma, una tirannia cieca e (auto)distruttiva; sono, a loro volta, legate ad altre pressioni e spinte, a partire da quella demografica. È un rapporto che emerge nelle due principali transizioni della specie, con incrementi consistenti di popolazione associati a risposte tecno- scientifiche (ed economiche) rivoluzionarie: quella neolitica (con l’invenzione dell’agricoltura e dell’allevamento) e quella tra fine Settecento e inizio Ottocento (all’origine della rivoluzione industriale); con la fase attuale — caratterizzata da un crescendo di masse urbanizzate e dalla rivoluzione informatica — da leggersi forse più come nuova transizione che come un prolungamento della precedente. Il tutto ha una circolarità ambivalente: risolvendo i «colli di bottiglia» della pressione demografica, la tecnoscienza getta nello stesso tempo (in un feedback o retroazione) le premesse per un’ulteriore crescita di popolazione, dovendo poi risolvere altri «colli di bottiglia» che ha contribuito, con le migliori intenzioni, a creare: ed è per questo che oggi cerca di rispondere al riscaldamento globale con le energie alternative o alla crisi agro-alimentare con gli Ogm. L’accelerazione sociale, in questa prospettiva, non è che un epifenomeno, una nervatura di quelle spinte biologico-culturali. Il punto è che il nostro cervello, per adeguarsi ai nuovi scenari, deve scontare il mismatch , la «dissonanza» che vede comportamenti adattativi al tempo in cui vennero selezionati (il Pleistocene) diventare oggi in parte disadattativi. Tarato per interagire in gruppi di 100-150 individui, il nostro corredo neurale ha difficoltà in comunità claustrofobiche e alienanti, all’origine sia di disagi light (i troppi amici su Facebook) sia di patologie ansioso-depressive; e fatica a rimodularsi in ambienti frammentati, ipersaturi di informazione e, appunto, più veloci. Nel dettaglio, siamo dotati di due processi di pensiero basilari, classificati dal Nobel dell’economia Daniel Kahneman come sistemi 1 e 2; il primo («viscerale» ed evolutivamente più antico) deputato a risposte immediate e automatiche, come il riconoscere un’espressione di paura su un volto in 30 millisecondi; il secondo (in prevalenza «corticale») attivato per elaborazioni più lente e riflessive, come svolgere a mente l’operazione 17 x 24. Ora, nell’attuale contesto delle nostre vite-zapping, il rischio di vedere sovrasollecitato il sistema 1 e sottoutilizzato il sistema 2 (con la prevalenza della rapidità sul pensiero critico) è concreto, con conseguenze socio-culturali evidenti. Intendiamoci, il sistema 1 è molto più di un kit di sopravvivenza. Come ha mostrato Gerd Gigerenzer (scienziato cognitivo dell’Istituto Max Planck di Berlino), ci guida in tante scelte saltando efficacemente inutili passaggi logico-analitici, fino ai casi estremi dei fuoriclasse sportivi, capaci — grazie a talento e addestramento — di «decisioni intuitive» proibite ai normodotati; esemplare un esperimento sul golf, con i campioni, a differenza dei principianti, molto più abili nelle giocate a tempo ristretto (3 secondi) che in quelle a tempo illimitato, piene di errori. Ma in altre situazioni e contesti, le risposte viscerali (il «prima meglio del dopo», il «sapere senza pensare» ) possono essere fonte, se non corrette dal sistema 2, di decisioni irrazionali e disfunzionali, come quelle alla base di certi disastri finanziari o di tanti nostri comportamenti impulsivi. Che la velocità decisionale non sia quindi un valore in sé (ma relativo e contestuale), lo sostiene indirettamente anche il ricercatore del Cnr Fabio Paglieri in un libro recente (Saper aspettare , il Mulino) in cui analizza le nostre difficoltà di pianificazione, combattuti come siamo tra tendenza all’appagamento immediato (altra eredità pleistocenica) e la necessità di proiettare la gratificazione nel futuro per sostenere progetti a lungo termine (una laurea o una famiglia). Di fatto, dimostra Paglieri, questa conflittualità (estensione di quella tra sistema 1 e 2) ci ricorda come la coperta sia sempre corta: come qualunque scelta di vita comporti dei costi, tanto che al lamento della cicala (per la sua imprevidenza) fa da contrappunto il rimpianto della formica sulle troppe rinunce e occasioni perse. In questa scoraggiante ricerca di equilibrio tra impazienza e impasse, non bisogna però sottovalutare le risorse del cervello. Perché se è vero che rispetto a un computer è bradipico (con impulsi elettrici a 320 km/h), il suo funzionamento «in parallelo» collega i 100 miliardi di neuroni in una rete di milioni di miliardi di connessioni, alla base di infinite sfumature sensoriali e psicologiche. E dato che questo incessante brulichio neurale è quasi totalmente inconscio, l’unico accorgimento da soddisfare è alimentarlo con stimoli, nozioni e soprattutto schemi concettuali (pensiero critico): più vasta e stratificata è questa immissione, più vario è il ventaglio di combinazioni cui possono attingere sia il sistema 1 che il 2 per le loro elaborazioni-soluzioni. È un accorgimento, purtroppo, di difficile attuazione, se le ragioni culturali — a livello individuale e sociale — continuano a essere subordinate ad altre o addirittura rimosse; e la sola velocità che conti, alla fine, è quella con cui si cercherà di rimediare alla rimozione. ____________________________________________________________ Il sole14Ore 23 Mar. ’14 leonard herzenberg (1931- 2013) LA RIVOLUZIONE DEI LINFOCITI Alberto Mantovani In una delle scene iniziali di Philadelphia, Andrew (Tom Hanks) riceve il referto delle analisi da cui risulta che il conto dei linfociti "CD4" è diminuito. Si capisce che è un segnale preoccupante. Siamo nel 1993, e il successo mondiale dell'opera di Jonathan Demme, porta a conoscenza di un larghissimo pubblico che l'andamento clinico dell'Aids è monitorato contando il numero di una sottoclasse di linfociti T: cellule del sistema immunitario che svolgono una funzione cruciale nel coordinare le nostre difese da agenti patogeni. Da quel momento, quasi ogni persona di cultura media può sapere che "CD4" è un dato medico importante, ma pochi sanno cosa significhi in termini biologici. Meno ancora conoscono l'origine storica del procedimento per produrre il dato. Ebbene, nel territorio linguistico dell'immunologia, speculativo e allo stesso tempo estremamente sperimentale, la sigla era il marchio di una rivoluzione tecnologica che nel corso degli anni Ottanta aveva fatto fare un salto epocale alle conoscenze sull'evoluzione molecolare somatica delle popolazioni di cellule immunitarie che migrano e si trasformano incessantemente nell'organismo. Quella rivoluzione era stata guidata da un ricercatore geniale: Leonard Herzenberg, morto nell'ottobre scorso a 81 anni. "CD" sta per Cluster of Differentiation (gruppo di differenziazione) e si riferisce a strutture molecolari presenti sulle cellule, in questo caso i linfociti, che possono essere agganciate chimicamente da anticorpi monoclonali fluorescenti, e quindi rilevati e contati elettronicamente con uno strumento che usa il laser, per consentirne così un'analisi biofisica della cellula per scopi di ricerca o diagnostici. Lo strumento si chiama Facs (fluorescent-activated cell sorter), e fu inventato da "Len" Herzenberg e dalla moglie Leonore (Lee): una coppia "alternativa" che ha dedicato la vita alla ricerca scientifica e a pensare con giudizio. L'invenzione e la commercializzazione del Facs sono un esempio virtuoso di ricerca trasferita con successo dal laboratorio alla pratica clinica in infettivologia, immunologia, ematologia e oncologia. Verso la fine degli anni Sessanta gli Herzenberg pensarono di utilizzare le competenze di esperti americani, contrari come loro alla guerra in Vietnam, per applicazioni pacifiche della tecnologia. Nacque il Facs, basato sulla tecnologia laser, che consente di intercettare le singole cellule e rilevare diversi parametri fisico-chimici (volume e complessità morfologica, contenuto di pigmenti, Dna, Rna, proteine, antigeni di superficie e intracellulari, pH) che, correlati tra loro, permettono di identificare e studiare sottopopolazioni di cellule anche rare. Inoltre, attraverso un processo detto "sorting", il Facs separa le cellule che portano una determinata molecola piuttosto che un'altra. Questo secondo risultato fu ottenuto combinando la tecnologia del laser con quella degli ibridomi, cioè la possibilità messa a punto negli anni Settanta dagli immunologi César Milstein e Georges Köehler di creare anticorpi monoclonali, cioè chimicamente specifici nel riconoscere e legare un'unica molecola antigenica. Gli Herzenberg alla fine degli anni Settanta introdussero questa tecnologia, che consentiva una standardizzazione dei dati negli studi sperimentali di immunologia cellulare, nei laboratori statunitensi. Tanto dire, significava il loro uso e la commercializzazione su scala mondiale. Anche se il Nobel per l'invenzione degli anticorpi monoclonali fu dato a Milstein e Köehler, la dimostrazione di quel che se ne poteva davvero fare la fornirono gli Herzenberg. Le ricadute del Facs sulla pratica clinica sono state innumerevoli. Allo stesso modo in cui consente di contare i linfociti CD4+ nei pazienti sieropositivi per Hiv, il Facs permette la caratterizzazione del tipo di leucemia, così come il monitoraggio nei trapianto di midollo, seguendo la ricostituzione del sistema immunitario. E sono solo alcuni esempi di utilizzo: l'elenco completo sarebbe lunghissimo. Il contributo scientifico di Len Herzenberg non si fermò al Facs combinato con gli ibridomi, e alla diffusione degli anticorpi monoclonali nei laboratori statunitensi. La sua formazione da immunologo di base, con competenze di genetica, biochimica e biologia cellulare, si espresse nell'identificazione delle sottopopolazioni di cellule B del sistema immunitario (che producono gli anticorpi) e di numerosi tumori del sangue che derivano da questo tipo di cellule. Le sue scoperte hanno cambiato la clinica delle malattie infettive e del cancro, consentito di classificare con più precisione i tumori che derivano dalle cellule B, quindi diagnosticarli e curarli meglio. Len e Lee erano scienziati colti e impegnati, sensibili alle battaglie civili e politiche. Si sono battuti contro il maccartismo, la proliferazione nucleare e le derive eugeniche, nonché contro i tentativi di caricare di connotati moralistici e omofobi la diffusione dell'Hiv. Molto attento alla responsabilità sociale del suo ruolo, Len ha brevettato le sue scoperte perché riteneva che sviluppare industrialmente i suoi prodotti fosse l'unico modo per renderli utilizzabili da tutti. Tuttavia, dal momento che le ricerche erano state finanziate con fondi pubblici, ha rifiutato qualsiasi guadagno personale, destinando tutti i proventi all'Università di Stanford e al suo laboratorio. Altri tempi. La storia di Len (e Lee) Herzenberg contiene diversi insegnamenti per capire le logiche di sviluppo della scienza moderna. Innanzitutto l'importanza della tecnologia, che ha il potenziale di aprire nuove strade nella giungla del mondo fisico-biologico e consente di vedere cose o orizzonti prima impensabili. Inoltre, esemplifica il valore della ricerca preclinica, senza la quale non ci possono essere progressi sostanziali nel contesto clinico e nelle terapie. Infine, la responsabilità sociale dello scienziato. Oggi questa responsabilità tende a essere enfatizzata a livello delle attività delle charities, come sono in Italia, Fondazione Cariplo o Airc, ma ogni scienziato dovrebbe viverla in prima persona. Direttore Scientifico IRCCS Istituto Clinico Humanitas e docente presso l'Università degli Studi di Milano © RIPRODUZIONE RISERVATA ____________________________________________________________ Le Scienze 20 Mar. ’14 DALLE PROTEINE UN MODO DIVERSO PER STUDIARE IL PASSATO Comprendere meglio la fisiologia dei dinosauri, o diagnosticare le patologie di mummie vecchie di secoli sono alcune possibilità aperte dall'applicazione della spettrometria di massa ad alta risoluzione all'analisi di proteine antiche. Grazie ai progressi nella strumentazione, la proteomica si affianca così alla genomica come potente mezzo per lo studio della vita in epoche remote (red) I recenti progressi nella spettrometria di massa ad alta risoluzione permettono di affiancare l'analisi strutturale delle proteine antiche all'analisi genetica del DNA per ottenere importanti informazioni su organismi vissuti in epoche remote. Lo sostiene, facendo il punto sull'applicazione di questa tecnica, un articolo su “Science” a prima firma di Enrico Cappellini, ricercatore italiano in forza al Museo di storia naturale dell'Università di Copenaghen e pioniere di questa linea di ricerca. L'analisi delle proteine permette di studiare organismi addirittura più antichi di quelli per cui si può analizzare il DNA perché questo si degrada dieci volte più rapidamente. Inoltre,dalle proteine si ricavano dati che non possono essere ottenuti dalle analisi genetiche, per esempio sulle patologie. In realtà, l'uso della spettrometria di massa per l'analisi delle proteine ha fatto il suo esordio già nel 1954, ma la risoluzione degli strumenti non ne ha permesso l'impiego su proteine antiche fino al 2000. Da allora, è stato un continuo ampliamento del campo d'azione della proteomica - la disciplina che studia le proteine per identificarne struttura, funzioni e attività – sia per quanto riguarda l'epoca dei reperti analizzati, sia per lo spettro delle proteine identificate. Così, se agli inizi ci si è concentrati sulle proteine (osteocalcina e collagene) presenti con più abbondanza nel materiale fossile più diffuso, l'osso, limitandosi a reperti di tipo archeologico, oggi questi studi hanno esteso il loro campo d'azione all'ambito paleontologico fornendo dati anche dal collagene recuperato da ossa di dinosauri, utili alla loro corretta collocazione filogenetica. Quanto ai nuovi tipi di proteine analizzabili, uno studio recentissimo ha, per esempio, identificato in una mummia inca risalente a 500 anni fa diverse proteine infiammatorie e antinfiammatorie, suggerendo che al momento della morte l'antico inca fosse colpito da una grave infiammazione alle vie aeree. La sfida che ora deve affrontare la proteomica, osservano Cappellini e colleghi, è passare a una valutazione quantitativa dei livelli di espressione delle proteine negli antichi organismi, che offrirebbe informazioni preziosissime sulla loro fisiologia. Il problema principale per ottenere questo risultato, oltre al miglioramento delle tecniche per identificare possibili contaminazioni con materiale biologico recente, è definire meglio i dettagli dei processi di degradazione delle proteine, ossia dell'intero spettro delle modificazioni chimiche spontanee a cui vanno incontro. ____________________________________________________________ Le Scienze 19 Mar. ’14 LA PROTEINA CHE PROTEGGE IL CERVELLO CHE INVECCHIA L'Alzheimer non sarebbe causato soltanto dall'accumulo di proteine amiloidi, ma anche dalla mancata attivazione di una proteina che finora si riteneva agisse nel cervello solo nel periodo prenatale. Chiamata REST, questa proteina protegge i neuroni dagli stress cellulari e impedisce che muoiano per gli effetti tossici delle placche amiloidi (red) Una proteina che inattiva a livello cerebrale i meccanismi di suicidio cellulare (o apoptosi) legati a uno stress, potrebbe avere un ruolo protettivo cruciale contro lo sviluppo di patologie neurodegenerative come l'Alzheimer. La scoperta – realizzata da un gruppo di ricercatori della Harvard Medical School a Boston, che ne descrivono i meccanismi d'azione in un articolo su “Nature” - apre le porte a nuove ipotesi terapeutiche. Ad attirare l'attenzione dei ricercatori su questa proteina, chiamata REST (RE-1 silencing transcription factor), è stata la scoperta che era estremamente attiva nel cervello in un gruppo di anziani fra i 76 e i 103 anni liberi da demenza. La proteina era già nota per essere attiva nell'organismo per tutta la vita, presumibilmente con la funzione di proteggere da alcuni tipi di cancro, ma si riteneva che a livello cerebrale agisse solo durante il periodo prenatale. Un successivo controllo sui livelli di espressione di REST in pazienti affetti da varie forme di demenza – dall'Alzheimer alla demenza frontotemporale e alla demenza con corpi di Lewy - ha rilevato che erano decisamente più bassi rispetto a quelli in coetanei senza deficit cognitivi. I ricercatori hanno quindi creato una linea di topi modificati geneticamente perché non esprimessero la proteina REST a livello cerebrale. Via via che crescevano, i neuroni cerebrali dei topi hanno iniziato a morire, a cominciare proprio dalle aree, come l'ippocampo e la corteccia prefrontale, in cui l'Alzheimer inizia a provoca i suoi danni. “Questo suggerisce - ha detto Bruce Yankner. che ha diretto la ricerca - che REST sia indispensabile ai neuroni per rimanere vivi nel cervello che invecchia.” Successivi esperimenti su colture cellulari hanno indicato che quando i neuroni sono sottoposti a stress inviano segnali ad altri neuroni circostanti che, allertati, iniziano a sintetizzare la proteina REST nel citoplasma. Per esplicare i suoi effetti REST deve poi spostarsi nel nucleo, dove blocca i geni dell'apoptosi e impedisce la morte del neurone. Nei pazienti affetti da Alzheimer, la proteina è bloccata nel suo viaggio verso il nucleo da enzimi che la degradano. “L'impossibilità di REST di arrivare al nucleo potrebbe essere la prima fase nella perdita della sua funzione. I nostri modelli di laboratorio suggeriscono che questo rende i neuroni molto più vulnerabili a una varietà di sollecitazioni e proteine tossiche”, ha detto Yankner. Di conseguenza, la causa delle patologie neurodegenerative non sarebbe il solo sviluppo, per esempio, delle placche amilodi, ma deve mancare anche l'attivazione di REST. Questo spiega perché in alcune persone anziane le placche amiloidi si formano ma non vi sono deficit cognitivi: in questi soggetti REST è molto attiva. La successiva scoperta di un equivalente di REST nel nematode C. elegans, anche nel quale svolge un'azione protettiva, suggerisce che la funzione della proteina sia evolutivamente molto antica. ____________________________________________________________ Le Scienze 22 Mar. ’14 LE RESPONSABILITÀ DI CHI SI OPPONE AL GOLDEN RICE Gli avversari del Golden Rice, da Greenpeace al Sierra Club, dovrebbero essere chiamati a rispondere dei milioni di morti e disabilità - soprattutto tra i bambini - di cui si sono resi responsabili combattendo una battaglia priva di basi scientifiche contro un alimento in grado di salvare milioni di vite e prevenire decine di milioni di casi di cecità fra le persone che in tutto il mondo soffrono di carenza di vitamina A di David Ropeik Nel 2002, il Golden Rice era tecnicamente pronto per la coltivazione. I test sugli animali non avevano rilevato rischi per la salute. La Syngenta, che aveva trovato il modo per inserire nel riso il gene che produce la vitamina A delle carote, aveva ceduto tutti gli interessi finanziari a un'organizzazione no profit, così questa tecnologia salvavita non avrebbe incontrato le resistenze degli anti OGM che si oppongono alle modificazioni genetiche perché le grandi aziende biotech ne traggono profitto. A parte il processo di approvazione previsto dalle normative, il Golden Rice era pronto a iniziare a salvare milioni di vite e a prevenire decine di milioni di casi di cecità fra le persone che in tutto il mondo soffrono di carenza di vitamina A. E invece, per colpa dell'opposizione alla tecnologia GM, ancora non è in uso da nessuna parte. Due economisti tedeschi ora hanno quantificato il costo di questa opposizione in termini di salute umana, e i numeri sono davvero spaventosi. Il loro studio stima infatti che, a partire dal 2002, il ritardo nell'uso del Golden Rice sia costato 1.424.000 anni di vita nella sola India. Questa metrica (il cui nome completo è Disability Adjusted Life Years, o DALY) che non parla di “vite”, ma di “anni di vita”, non tiene conto solo dei morti, ma quantifica la cecità e le altre disabilità causate dalla carenza di vitamina A. La maggior parte di coloro che sono diventati ciechi o sono morti perché non hanno avuto accesso al Golden Rice erano bambini. )Queste sono morti reali, disabilità vere, vera sofferenza, non i timori fantasma sugli effetti per la salute del Golden Rice agitati dai suoi avversari, nessuna delle quali ha retto a un esame scientifico oggettivo. E' assolutamente giusto accusare l'opposizione a questa particolare applicazione degli alimenti geneticamente modificati di aver contribuito alla morte e alla disabilità di milioni di persone. Gli avversari del Golden Rice che hanno causato questi danni dovrebbero essere chiamati a risponderne. Tra di loro c'è Greenpeace, che nella sua dichiarazione di valori afferma: “ci impegniamo alla non violenza”. Eppure la sua opposizione non violenta al Golden Rice contribuisce direttamente a morti e sofferenze reali. C'è anche l'European Network of Scientists for Social and Environmental Responsibility che, prima rivendica il valore delle competenze scientifiche e poi nega o distorce le prove scientifiche per opporsi agli OGM. Ci sono l'U.S. Center for Food Safety e il Sierra Club e diversi gruppi ambientalisti che negano e distorcono l'evidenza scientifica sugli alimenti geneticamente modificati quanto i negazionisti del cambiamento climatico di cui si lamentano. E c'è il Non-GMO Project, varato da venditori di alimenti naturali che si oppongono a una tecnologia che, guarda caso, ne minaccia i profitti. La società ha bisogno di gruppi come Greenpeace e altre organizzazioni ambientaliste per mettere le grandi aziende di fronte alle loro responsabilità quando antepongono i loro profitti alla nostra salute, come troppo spesso accade. Ma la società ha anche il diritto di chiedere conto a questi gruppi quando si lasciano accecare sui fatti dalle loro passioni e, per perseguire i loro valori, mettono tutti in pericolo. E' bene essere assolutamente chiari: questo è esattamente ciò che sta facendo l'opposizione agli OGM, come evidenzia tristemente l'analisi del ritardo del Golden Rice in India. )E il Golden Rice è solo un esempio. Ci sono molte altre applicazioni della tecnologia OGM che potrebbero contribuire alla sicurezza alimentare e ridurre la fame e la morte per fame. Scettici come la Union of Concerned Scientists criticano la tecnologia OGM per non aver rispettato questa promessa. Ma se è così, è anzitutto perché l'opposizione ha impedito che questi prodotti arrivassero sul mercato. E' abbastanza difficile mantenere una promessa se non ti è permesso di cercare di mantenerla. L'opposizione a diverse applicazioni degli OGM, basata su timori che non reggono alle prove raccolte in numerosi test sulla sicurezza, sta negando alla gente cibo e nutrizione, e procurando danni reali. Tutta la questione degli OGM in effetti è solo un esempio di una minaccia ben più grave alla vostra e alla mia salute. La percezione del rischio è inevitabilmente soggettiva, non riguarda solamente i fatti, ma anche come li percepiamo. Come ha detto un pioniere della psicologia della percezione Paul Slovic, “il rischio è una sensazione”. Il dibattito sociale intorno a questioni che hanno a che fare con il rischio - come il Golden Rice e gli OGM, o le armi da fuoco o il cambiamento climatico o i vaccini - in gran parte non ha a nulla a che vedere con i fatti, anche se li usiamo come armi. Riguardano soprattutto i nostri sentimenti, i nostri valori, e i valori di quale gruppo avranno la meglio, e non quello che oggettivamente porterà maggiori vantaggi alla maggioranza delle persone. Questo è un modo stupido e pericoloso di prendere decisioni sulla gestione pubblica del rischio. Quando la passione degli attivisti nella lotta per i loro valori li spinge a imporre un danno potenziale agli altri, il rischio ci riguarda tutti e abbiamo il diritto di richiamare l'attenzione su quel danno e di chiederne conto a quegli attivisti. Questo va ben più in là degli OGM - Il ritardo su come affrontare il cambiamento del clima ci espone a un rischio molto maggiore. E parte di quel rischio è responsabilità di chi nega ideologicamente il cambiamento climatico, e dovremmo chiedergliene conto. - Negli Stati Uniti, la resistenza a qualunque iniziativa che possa complicare l'accesso alle armi dei malintenzionani mette in pericolo tutti. La società dovrebbe chiederne conto all'arciconservatorismo paranoico che ha resistito a qualsiasi cauto controllo delle armi, contribuendo a quel pericolo. - I genitori che rifiutano di vaccinare i figli mettono a rischio quelli degli altri. Dovrebbero senz'altro essere ritenuti responsabili per questo, e in alcuni posti sta iniziando a essere così. Diversi Stati stanno cercando di far passare leggi che rendono più difficile ai genitori la scelta di non vaccinare i figli. Per mettere questi gruppi di fronte alle proprie responsabilità, ci si può rifiutare di farvi parte o di sostenerli finanziariamente, evitando così di contribuire personalmente al danno. Oppure, si può far parte di un gruppo di attivisti, ma contestarne dall'interno certe posizioni. Si può scegliere di opporsi a questi gruppi in incontri pubblici, sfidandoli civilmente a rispondere delle conseguenze negative e dei contraccolpi delle loro campagne. Una stampa più scettica potrebbe contestare a questi gruppi il danno che può essere causato da alcune delle loro posizioni. Gli scienziati possono offire prove concrete sugli impatti negativi delle posizioni di questi gruppi, come il nuovo studio economico che ho citato all'inizio. I governi possono intervenire se stanno minacciando la salute pubblica. Il governo australiano ha appena revocato il diritto all'esenzione fiscale a un gruppo anti-vaccino perché la sua disinformazione stava mettendo a rischio i bambini. (Un intervento governativo come questo è tuttavia una china pericolosa, che richiede prudenza. Inoltre, la vaccinazione infantile è un esempio relativamente semplice. Gli OGM, le armi da fuoco e la maggior parte delle altre questioni sono più complesse.) Gli scienziati possono anche chiedere un dibattito ragionato in forum pubblici, come hanno fatto di recente in Gran Bretagna i ricercatori OGM. Quando i gruppi anti-OGM hanno minacciato di devastare i campi di grano GM, i ricercatori li hanno invitati a discutere la questione in pubblico, sfidandoli così sul piano dell'apertura mentale: “Avete descritto le colture geneticamente modificate come 'non adeguatamente testate'. Eppure, quando si fanno i test avete intenzione di distruggerli prima che siano state ottenute tutte le informazioni utili. Non capiamo in quale modo impedire l'acquisizione di conoscenze sia una posizione difendibile nell'età della ragione." Gli anti-OGM, che sostenevano di star solo cercando di "riprendersi la farina", hanno prima accettato e poi rifiutato l'incontro. La stampa britannica e molti nell'opinione pubblica ne hanno criticato l'atteggiamento, rifiutandone la chiusura mentale. Questa strategia deve andare avanti ed espandersi, sugli OGM e su qualsiasi altra questione emotiva relativa al rischio. I nostri valori devono sempre avere un posto in quei dibattiti. Ma quando questi valori inducono ad assumere una mentalità così chiusa e rigida da negare o snaturare le prove, rifiutando di riconoscere le conseguenze dannose che i nostri valori possono a volte produrre, è giusto che la società chieda conto a quegli attivisti che si spingono troppo in là, facendo correre alla comunità nel suo complesso un pericolo ancora maggiore. Dichiarazione di trasparenza: ho tenuto conferenze sulla psicologia della percezione del rischio, concentrandomi almeno in parte sulle questioni agricole, per la Bayer Crop Science e la European Crop Protection Association. Ho presentato lo stesso materiale, dietro compenso, all'EPA in Kansas, e alla Society of Toxicology and Food and Agriculture Organization (FAO) delle Nazioni Unite. Prima di diventare consulente, nel corso del mio lavoro alla Harvard School of Public Health ho illustrato presentazioni simili alla DuPont e alla Dow. (La versione originale di questo articolo è disponibile qui; una precedente versione è stata pubblicata sul sito di Scientific American. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)