RASSEGNA STAMPA 30/03/2014 ISRAEL: I BUROCRATI CHE AFFOSSANO L'UNIVERSITÀ I GIOVANI IN FUGA DALLE UNIVERSITÀ DEL SUD CSC: PIÙ ISTRUZIONE FA CRESCERE IL PIL LA FUGA DEI CERVELLI AZZOPPA L'INNOVAZIONE ETÀ MEDIA DOCENTI CRESCIUTA DI 7,8 ANNI in 30 ANNI IL BUSINESS DELLE LAUREE DA VENDERE SUL WEB GIANNINI: INVESTIAMO NELLA SCUOLA GIANNINI: PER LA SCUOLA IL MODELLO È TEDESCO UNICA: CONCORSI PER ORDINARI, ASSOCIATI E RICERCATORI ECONOMISTI DI TUTTO IL MONDO CONTRO IL CONCORSO IN ITALIA TAR E GIANNINI FERMANO ABILITAZIONI NAZIONALI UNISS: UNIVERSITA’ IN CARCERE UNA GANG CHIAMATA ACCADEMIA I PREMI ALLA RICERCA, UN BLUFF LA CIVILTÀ È LIBERA RICERCA CARRIERE BLOCCATE COSÌ AI GIOVANI NON È PERMESSO FARE ESPERIENZA RENDIMENTI INVALSI TOP SECRET APPELLO DEI RETTORI: «PIÙ FONDI PER SOSTENERE IL PROGETTO ERASMUS» L’UNIVERSITÀ, ITALIANA PROMOSSA ALL'ESAME DEI SOCIAL NETWORK STUDENTI AMERICANI A RISCHIO «DEFAULT» I PRIVATI, NUOVI PADRONI DELLA SCIENZA USA ANVUR: CIFRE DA CENERENTOLA PER L’ITALIA DELLA RICERCA È ARRIVATA AL 54,5% LA QUOTA DELLE AZIENDE SULLA SPESA IN RICERCA NIENTE ILLUSIONI, L’UNIVERSO NON È MATEMATICO BALLE E BUFALE DEGLI SCIENZIATI ATTRAVERSO I SECOLI DEI SECOLI IL MUSEO DEL BETILE, UN’ IDEA DA RILANCIARE IL SINIS DEI GIGANTI NASCONDE UN TESORO TUTTO DA SCOPRIRE ========================================================= PER I GIOVANI MEDICI SARDI LA SPECIALIZZAZIONE È A RISCHIO TEST DI MEDICINA: AL LICEO GLI STUDENTI VANNO IN TILT MEDICINA, LA SCORCIATOIA DI TIRANA ORA HA LA CERTIFICAZIONE DEL TAR ARRU: I MANAGER DELLE ASL DOVRANNO LIMITARSI A GESTIRE I CONTI ASL3: STOP DELLA REGIONE ALL’ATTO AZIENDALE, RISCHIO DI CAOS ALL’ASL AOUCA: LA METRO ORA COLLEGA SAN GOTTARDO E IL POLICLINICO RICETTE ELETTRONICHE, VALIDITÀ IN TUTTE LE REGIONI SANITÀ: TRASPORTI E CONSULENZE AL TOP TRA LE SPESE PER ACQUISTI SANITÀ: CENTRALI D'ACQUISTO E TAGLI «ESTESI IL MEDICO PAGA LA PERDITA DI SOPRAVVIVENZA CODICE DEI MEDICI: CINQUE MOSSE ANTI-CONTENZIOSO IL NASO PUÒ DISTINGUERE MILLE MILIARDI DI ODORI MALATI DA AMIANTO IL PICCO DEVE ANCORA ARRIVARE SERVE UNA LEGGE NAZIONALE PER LE PERSONE AUTISTICHE CUORE: GUIDE SEMPRE PIÙ PRECISE PER «BRUCIARE» ALLA SORGENTE LE ARITMIE PERICOLOSE CUORE: ARMI EFFICACI LIMITANO IL RISCHIO DI ICTUS NON SONO SOLO APP. LE TECNOLOGIE CHE SERVONO ALL'UMANITÀ SONO ALTRE NON È MAI TROPPO TARDI (SUL WEB) MALATTIE RARE. OPPURE ORFANE? VIRUS DI EBOLA VIETATO MANGIARE PIPISTRELLO CON I POLIFENOLI PIÙ LONGEVITÀ IN BUONA SALUTE IDENTIFICATI I NEURONI CHE CODIFICANO I RICORDI USA, NUOVE LINEE GUIDA: LA CANNABIS COMBATTE I SINTOMI DELLA SCLEROSI MULTIPLA ========================================================= ____________________________________________________________ Il Mattino 30 Mar. ’14 ISRAEL: I BUROCRATI CHE AFFOSSANO L'UNIVERSITÀ Giorgio Israel Ha scritto Pino Aprile sul Mattino che il meccanismo premiale delle università aiuta chi va bene ad andar meglio e chi va male ad andar peggio: «Criterio discutibile...». Troppo buono. Ricorda piuttosto il criterio inventato da un detenuto del Gulag, Naftali Frenkel, che ne divenne uno dei capi e organizzatori per il merito di aver reso efficiente il sistema: più si lavora e più si mangia. Così i più deboli erano rapidamente eliminati, producendo risparmi e i più forti divenivano più produttivi: un principio di massimizzazione del rendimento e minimizzazione dei costi. Il problema è ovviamente che cosa s'intende per «debole» e «forte» nel caso delle università. E qui va detto che se i criteri sono quelli proposti come «oggettivi» c'è da ridere, se non ci fosse da piangere. La valutazione della qualità della ricerca e del reclutamento secondo i criteri dell'Agenzia nazionale di valutazione sarebbe un criterio «oggettivo»? Sarebbe un criterio sensato la capacità di attrarre finanziamenti? Se questo è un criterio, si svegli chi è ancora tanto ingenuo da promuovere programmi di ricerca su tematiche umanistiche o di scienza di base, quelli che richiedono solo libri, carta e penna: sarà duramente bastonato come inefficiente rispetto ai furbacchioni che gettano nella pattumiera ciò che sa di obsoleta cultura e stabiliscono fruttuosi accordi con qualche locale impresa di piastrelle che vuole ottimizzare il funzionamento dei forni di cottura. Lungi da noi disprezzare le attività applicate ma è il caso di ricordare il «modello» di ristrutturazione dell'università che da più parti viene proposto senza infingimenti, ma che troppi non vogliono vedere per non soffrire. Sfoltire il sistema universitario chiudendo le sedi modeste secondo i criteri «oggettivi» della Vqr (Valutazione della qualità della ricerca); trasformare in verità incontestabile (attraverso una martellante campagna «culturale») l'idea che ricerca sia sinonimo di innovazione tecnologica, per cui si fa ricerca se si collabora attivamente con le imprese del territorio circostante, con l'effetto che la ricerca teorica può sopravvivere solo come nicchia la cui esistenza è giustificata dalla produttività dei settori «tecnologici»; ristrutturare tutto il sistema sul modello bocconiano, considerato come l'università ideale per il Paese. Quando si parte dal dato scontato del «gap» qualitativo tra università del nord e università del sud non si ricorda mai che tale «gap» risulta da parametri valutativi che si rifanno ai criteri sopradetti. Questo non vuol dire che le università del sud siano il regno della ricerca di base e della cultura umanistica, né che non ve ne siano di indecorose, come sono indecorose certe università del nord che esibiscono come perline corsi in inglese maccheronico. E però indubbio che la tradizione culturale e universitaria meridionale non è sottosviluppo, ed è altrettanto indubbio che essa ha sempre coltivato una particolare attenzione per le scienze umane, le discipline storico- filosofiche e un approccio teoretico alla scienza. Quando il matematico Luigi Cremona, uno dei fondatori delle università politecniche e ingegneristiche nell'Italia unitaria cercò i riferimenti culturali per un modello di insegnamento scientifico, gettò alle ortiche con disprezzo la manualistica «settentrionale» e imposta dall'occupante austriaco, trovando un riferimento di eccellenza nella tradizione matematica napoletana che purtroppo - scriveva - «conosciamo poco, tanto è separata da noi, più della Cina». Quando leggiamo gli esiti di certe statistiche basate su test standardizzati (concernenti sia la scuola che l'università) occorre chiedersi se questo «gap» esista davvero e comunque nei termini che si pretende. Il problema è il solito: l'uso di standard definiti secondo criteri che, nella migliore delle ipotesi, si rifanno a modelli culturali astratti, nella peggiore a modelli individuati come quelli ottimali da «nutrire». Il guaio è che l'intero sistema universitario è stato assoggettato a una gestione tecnocratica esogena che ha annullato ogni forma di autonomia. Quando era in discussione la riforma Gelmini vi furono grandi polemiche e dissensi ma si prometteva che la valutazione sarebbe stata ex post e che non sarebbe stata consentita una burocratizzazione centralista del sistema. Invece, tra modifiche varie e soprattutto mediante decine di decreti attuativi - memento per il presidente Renzi nella sua lotta contro la burocrazia - la riforma è diventata un mostro centralista che ruota attorno all'autorità ipertrofica e incontrollata dell'Anvur. Per questo, quando si dice che il problema del sistema universitario meridionale sono le classi dirigenti e che esso deve pensare a salvarsi da solo, si compie un doppio occultamento della verità. In primo luogo, si lascia credere che il nord si stia salvando, mentre questa salvezza è soltanto l'adesione supina al modello descritto in precedenza, che garantisce la soddisfazione di certi parametri e occulta un profondo declino culturale. In secondo luogo, non si dice che è l'intera università italiana a essere piombata in una crisi drammatica di cui non si vede la via d'uscita. Perché è stato ucciso l'unico fondamento che permette l'esistenza di una classe dirigente di qualità: l'autonomia universitaria. Per comprendere quanto sia importante questo fondamento occorre leggere il recente libro di Paolo Prodi, «Università dentro e fuori» (Il Mulino), uno dei pochi scritti che si cimenti su questi temi in termini culturali e non miseramente tecnici; e che ricorda come «il venir meno dell'autonomia universitaria costituisce un fattore di crisi della coscienza occidentale, dei principi fondamentali che sono alla base del moderno Stato di diritto e della stessa democrazia». Senza autonomia non esiste responsabilità, ma soltanto la terra bruciata di docenti-funzionari, passivi esecutori delle direttive di mostruosi apparati buro-tecnocratici degni di un paese totalitario. Senza responsabilità non è possibile alcuna autentica classe dirigente, ovvero capace di elaborare progetti, di difenderli culturalmente fino in fondo, confrontandosi in campo aperto, sottoponendo a valutazione (ex post) le sue scelte e pagando i prezzi di quelle sbagliate. Ma i criteri di qualità non li possono definire tecnostrutture esterne fuori controllo e istituzionalmente irresponsabili. Se si deve parlare di responsabilità, è il momento di mettere sotto i riflettori quelle dei centri politici, imprenditoriali e delle tecnostrutture che hanno governato il sistema dell'istruzione dietro le quinte riducendolo in questo stato. E se si vuole avviare un difficilissimo processo di rinascita di tutta l'università (tutta, nord, centro e sud assieme) occorre restituire all'università l'autonomia che - per dirla ancora con Prodi - ne ha fatto storicamente uno dei centri del costituzionalismo occidentale come sede del potere critico. ____________________________________________________________ L’Unità 24 Mar. ’14 I GIOVANI IN FUGA DALLE UNIVERSITÀ DEL SUD Pietro Greco I GIOVANI STANNO LASCIANDO IL SUD. E QUELLICHERESTANO,STANNOLASCIANDO GLI STUDI. La nuova divaricazione è drammatica, perché è sia tra il Mezzogiorno e il resto del Paese, sia tra il Mezzogiorno e l'alta formazione. La conferma viene dal Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013 reso pubblico nei giorni scorsi dall'Anvur, l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e la ricerca. La crisi dell'università riguarda l'Italia intera. Perché se il numero di laureati dal 2005 al 2011 è stabile intorno ai 300.000 l'anno, il calo delle immatricolazioni è netto. Dalle 338.000 raggiunte nell'anno accademico 2003/2004 si è scesi ad appena 270.000 nel 2012/2013, con una perdita secca del 20%. È un'autentica fuga dall'università. Un dato allarmante per l'intero Paese. Visto che, secondo l'Ocse, il numero dei laureati in Italia raggiunge appena il 20% della popolazione in età compresa contro i 25 e i 34 anni; contro il 40% della media Ocse; il 60% circa di Giappone, Canada e Russia; il 64% della Corea del Sud. Certo, la frase è abusata: ma come dirlo, altrimenti? Con queste disparità, l'Italia si sta giocando il proprio futuro e il proprio ruolo nel mondo. Basterebbero solo questi dati a imporre di portare il problema dell'università italiana in cima all'agenda politica del Paese. Ma l'allarme raggiunge un livello, se possibile, ancora più alto quando si analizza la distribuzione geografica della fuga. Le immatricolazioni, infatti, sono in calo del 10% al Nord, del 25% al Centro e arrivano addirittura al 30% nel Mezzogiorno. Sono dunque i giovani del Sud quelli che fuggono dalle università. Proprio i giovani di quelle regioni in cui la crisi economica morde di più e in cui la sola risorsa possibile su cui puntare è la cultura. Sono i giovani del Mezzogiorno che stanno rinunciando a considerare la formazione come un'opportunità. È stata la crisi economica che ha determinato una divaricazione di percezione: nell'anno 2005/2006, infatti, i giovani meridionali iscritti all'università aveva raggiunto quello dei giovani settentrionali (674mila contro 679mila). Nei sei anni accademici successivi, i giovani settentrionali iscritti sono leggermente aumentati (fino a 685mila), mentre il numero dei giovani meridionali è crollato a 613.000 (meno 9,2%). Questa fuga dei giovani meridionali dalle università modifica i termini dell'antica e mai risolta «questione meridionale». Che ora non è più solo economica e sociale. Ma è sempre più una questione, appunto, culturale. Che non è una dimensione eterea. Al contrario, è una dimensione che ha effetti concreti. Continuando ad analizzare i dati, infatti emerge, che tra i pochi giovani meridionali che si iscrivono all'università, uno su quattro (il 25,4% del Mezzogiorno continentale e il 25,0% delle Isole) sceglie un ateneo fuori dalla propria regione. Contro il 9,0% dei giovani del Centro, 1'8,8% dei giovani del Nord-Est e 1'8,0% dei giovani del Nord-Ovest. Una quota parte importante dei giovani meridionali che si iscrivono fuori regione, va a studiare nelle università del Centro e del Nord. Dunque a lasciare il Sud non sono solo i laureati (170.000 negli ultimi dieci anni, secondo un recente studio di Unioncamere) che non trovano lavoro dalle loro parti, ma anche gli studenti. Ci sono dunque due fughe dei giovani meridionali. Una dagli studi superiori. L'altra dalle università del Sud verso le università del Centro e del Nord. Entrambe stanno determinando l'erosione della classe dirigente futura. Ma l'emorragia dei giovani è tale che, si calcola, una regione come la Basilicata potrebbe subire un vero e proprio calo demografico, con una popolazione che potrebbe diminuire di 50.000 unità su 574mi1a (quasi il 10%) nei prossimi anni. Tutto questo il Sud non può permetterselo. Ma neanche l'Italia può permettersi un Mezzogiorno sempre più deprivato di giovani, di cultura e di classe dirigente. Come se ne esce? La domanda è della massima urgenza. E la risposta, in tutte le sue articolazioni, prevede un urgente intervento di natura politica. Prevede che la politica ponga la «nuova questione meridionale» in cima alla sua agenda. Certo, occorre muovere le leve economiche. Per far sì che emerga, nel Mezzogiorno e non solo nel Mezzogiorno, un nuovo sistema produttivo che chieda giovani altamente qualificati. Ma occorre anche modificare profondamente quella politica dell'università che da anni sta spostando risorse, finanziarie e umane, dalle università del Sud verso le università del Centro e soprattutto del Nord. Certo, molti atenei meridionali devono migliorare la qualità della didattica e della ricerca. Devono riformare se stessi, per espungere ogni forma di nepotismo e di cattiva organizzazione. Ma non è chiudendole o ridimensionandole, che si risolve il problema della qualità delle università nel Mezzogiorno. Al contrario: solo una politica di espansione, con più risorse finanziarie e umane, può aiutare l'intero sistema universitario e l'intero Paese a uscire dalla condizione di marginalità cognitiva (e, quindi, economica) in cui ci stiamo cacciando. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Mar. ’14 CSC: PIÙ ISTRUZIONE FA CRESCERE IL PIL Aumento fino a +15% in 10 anni - Paolazzi: investire sul capitale umano per reagire alla crisi Nicoletta Picchio BARI. Dal nostro inviato Un aumento del Pil fino al 15% in più in termini reali in 10 anni. Tradotto in cifre 234 miliardi, con un guadagno di 3.900 euro per abitante. Uno scenario che potrebbe diventare realtà se il grado di istruzione italiano salisse al livello dei paesi più avanzati. Bisogna investire sul fattore umano per reagire alla crisi. «Un ottimo investimento, la più importante politica industriale». Una ricetta per la crescita che arriva dal Centro studi di Confindustria. "People first, il capitale umano e il capitale sociale per l'Italia" è il titolo della ricerca, presentata ieri a Bari nella giornata di apertura del convegno biennale del Csc. «In Italia tanti e per molto tempo hanno pensato di vivere nel paese dei balocchi. La crisi è stata un brutto risveglio, ma ancora non sappiamo come uscirne». Per il Csc «ripartire dal capitale umano è la risposta». Da qui il titolo del convegno, "Il capitale sociale: la forza del paese". Una forza sulla quale però l'Italia deve spingere di più. Il check up del capitale umano e del capitale sociale indica che qui in Italia non godono di ottima salute nel confronto con gli altri paesi. Anzi tra le debolezze strutturali dell'Italia ci sono proprio «le carenze del capitale umano», che sono diventate ancora più evidenti di fronte alle sfide della globalizzazione. La crisi ha ridotto l'occupazione, «cruciale per l'acquisizione di competenze», ha demotivato le persone, diminuito l'investimento delle famiglie in istruzione. Un circolo vizioso, secondo Luca Paolazzi, direttore del Csc, che ha indicato sette lezioni che emergono dalla ricerca: la materia prima del capitale umano, la popolazione, invecchia ed è mal utilizzata; la scuola italiana non è immobile; l'università resiste ai cambiamenti e alle riforme; studiare conviene anche in Italia; per aumentare il capitale umano lavoro e migrazione sono altrettanto cruciale; i valori contano quanto i saperi; è molto importante la collaborazione tra mondo dell'istruzione e le imprese. In Italia ci sono molte differenze per aree ed età: tra i 15-24enni il tasso di occupazione è bassissimo: nel 2013 16,6% contro il 32,5% nella Ue a 27 (11,8% al Sud). Tra i 35-44enni nel Nord oltrepassa la media europea sia per gli uomini che per le donne (90,0% contro 85,2%; 73,8% contro 72,9%) ma è molto basso nel Sud (71,7 e 40,5). Gli italiani stanno diventando più istruiti, ma sempre meno degli altri paesi. E restano troppi gli abbandoni (siamo terzultimi in Europa). I Neet, cioè i giovani che non lavorano e non studiano, in Italia sono 2.250.000, pari al 24% degli italiani tra i 15 e i 29 anni. Un costo che si aggira sui 2 punti di Pil, che corrispondono a 32,6 miliardi. La laurea aumenta le possibilità di trovare lavoro, oltre che il reddito e la carriera. Il tasso di occupabilità dei laureati è il 40% superiore rispetto a quello dei diplomati. Solo che continua a studiare chi ha i genitori più istruiti. Inoltre l'Italia sta perdendo la competizione per i talenti: attrae poche persone altamente qualificate, solo lo 0,7% sul totale dei paesi Ocse contro l'1,4% della Spagna, il 3% della Francia, il 5% della Germania e il 6% del Regno Unito. Bisogna investire, quindi, in capitale umano. «Nell'economia della conoscenza - ha concluso Paolazzi - fallire in questo investimento significa andare indietro e non rimanere fermi». ____________________________________________________________ Repubblica 24 Mar. ’14 UNIVERSITÀ, L'ETÀ MEDIA DEI DOCENTI CRESCIUTA DI 7,8 ANNI NELL'ULTIMO TRENTENNIO NEGLI ultimi trent'anni l'età media di un professore ordinario di università italiana è cresciuta di 7,8 anni. Nel 1983 si prendeva la cattedra a 52,6, nel 2012 a 59,4. In Italia si diventa insegnanti in ateneo all'età in cui un'azienda privata prepensiona un manager. Solo questo dato, che è il secondo più alto nella storia anagrafica dell'insegnamento accademico (nel 2009 si toccò il primato di 59,7 anni), racconta la crisi dell'alta formazione italiana. Insegnanti vecchi, costretti a una carriera sottostimata per quarant'anni e riconosciuti nel loro ruolo di guide di studenti (un insegnanti ogni 90-110 studenti in Italia, come ricorda il lavoro del professor Paolo Rossi, "Il personale docente: stato giuridico, reclutamento, evoluzione", edito dal Mulino), quando sono ai sessanta. Spompati, spesso demotivati da una carriera mai compiuta, per molti versi e anche per loro precaria. Il ritmo del pensionamento degli ordinari è ormai stabile ed è stimato per il prossimo quinquennio in 900 docenti l'anno, con un'età media (al congedo) intorno ai settanta anni. L'abolizione del fuori ruolo e i limiti alla concessione del biennio aggiuntivo, riforme recenti, dovrebbero far scendere l'età media dell'addio alla cattedra. Se scendiamo di categoria, va anche peggio. Nel 1983 un professore associato (quindi di seconda fascia) diventava tale a 44,3 anni. Nel 2012 a 53,4, e questo dato è record. In trent'anni gli "associati" sono invecchiati di quasi dieci. Tra i ricercatori, la categoria universitaria più maltrattata in assoluto, si è passati da un'età media di 35,9 a una di 45,9. Dieci anni pieni, anche in questo caso è un primato storico. "L'età dei ricercatori è destinata a crescere per effetto della messa a esaurimento", spiega il professor Rossi. I ricercatori universitari trent'anni fa erano 11.988, hanno toccato l'apice nel 2008 (25.581, più del doppio) e conosciuto una lenta contrazione nelle ultime cinque stagioni: oggi sono poco più di 24mila. Il pensionamento dei ricercatori è stimato, per le prossime cinque stagioni, a quota 400 l'anno, un'età media di 65 anni. E nei prossimi tre anni, grazie alle nuove abilitazioni a docente e al piano straordinario per il reclutamento di professori associati, s'ipotizza un taglio della metà dei ricercatori universitari. Metà ricercatori, ecco, avanti con gli anni. Nelle università italiane ai tempi di Google la trasmissione del sapere accademico e la ricerca di nuovi saperi sono affidate alle mani e alle teste di insegnanti vicini alla terza età, frustrati da un'attesa di riconoscimento ventennale. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Mar. ’14 LA FUGA DEI CERVELLI AZZOPPA L'INNOVAZIONE Paolo Bricco La rimodulazione dei rapporti fra la politica e la rappresentanza, fra le tecnostrutture come la Banca d'Italia e i sindacati, sta avvenendo mentre il tessuto civile e industriale del Paese sperimenta una transizione complessa. Una transizione che passa attraverso l'innovazione materiale e immateriale. Qualunque ricetta si imporrà nel dibattito delle idee e nel confronto dei poteri – fra la ricerca di semplificazioni di matrice lib- lab rapide al limite dell'ipercineticità o la conferma di forme concertative riammodernate secondo criteri di efficienza più "tedeschi" – esiste un problema di reale capacità di assorbire intelligenza dall'estero, in grado di vivificare con l'innovazione immateriale il nostro sistema industriale. L'osmosi delle intelligenze è, infatti, unidirezionale. Cediamo cervelli. E va bene. Ma non riusciamo a importarli. E va male. Perché gli immigrati high skilled – ad elevate competenze, con una istruzione terziaria – potrebbero incrementare il tasso di efficienza e di creatività di una manifattura italiana che – se vuole conservare la propria consistente innovazione incrementale, aggiungendovi un pizzico di quella radicale – deve restare aggrappata il più possibile alle catene internazionali del valore. I dati, riportati nel volume "People first. Il capitale sociale e umano: la forza del Paese" e ottenuti dal Centro studi Confindustria elaborando studi della Fondazione Rodolfo Debenedetti, sono eloquenti. Gli immigrati high-skilled venuti in Italia dai primi trenta Stati Ocse sono 57.515, lo 0,1% della popolazione italiana. In Germania se ne contano dieci volte tanto: 566.185, lo 0,69% della popolazione. In Francia, quattro volte tanto: 240.867, lo 0,4 per cento. Il diaframma italiano funziona soltanto nella direzione opposta, in uscita: sono 395.229 i lavoratori high- skilled che hanno lasciato l'Italia per andare nei primi trenta Stati Ocse. Dunque, la "bilancia dei cervelli" è negativa per 337.714 casi. Uno squilibrio enorme. Alla nostra manifattura queste persone servono. Il problema è che, per la fisionomia del Paese, non riusciamo nemmeno ad attirarle quando stanno completando la loro formazione, prima dunque che entrino in una fabbrica o in ufficio studi, in una direzione commerciale o in centro di design. Prendiamo i dottorati. In Italia gli studenti stranieri dei Ph.D. sono 1.926: il 5% del totale. In Francia sono dodici volte tanto: 24.997, il 35 per cento. In un Paese come il Regno Unito, che gradualmente sta riscoprendo l'economia reale (si pensi alla rinascita dell'automotive industry), sono 40.139: il 42 per cento. La risibilità della quota italiana ha, fra le sue origini, la "bureau-crazy", come uno studente ha definito la burocrazia italiana – la stessa che fa impazzire gli imprenditori e i cittadini – in un'analisi della Fondazione Debenedetti riportata nel rapporto del Csc: due terzi degli studenti stranieri di dottorato ha riscontrato ritardi nel rilascio e nel rinnovo dei certificati di residenza. Alcuni li hanno ricevuti dopo che avevano terminato il dottorato. Il quadro - desolante - sul capitale umano di matrice straniera, che dovrebbe essere impiantato nel delicato corpo manifatturiero italiano, è completato dal cattivo utilizzo che facciamo degli immigrati che abbiamo già. Capita che qualcuno abbia una preparazione culturale e professionale superiore a quella richiesta dal suo lavoro: tecnicamente si chiama "sovraistruzione". Secondo una elaborazione del CsC, su dati dell'Istat, accade al 19,5% degli italiani. Per gli stranieri si sale al 41,2 per cento. Le matematiche ucraine che aiutano gli anziani. Gli informatici romeni che scaricano le cassette di frutta al mercato. Per incrementare il tasso innovativo di una manifattura in via di transizione, il nostro Paese non può fare a meno di utilizzare - al meglio - il talento di nessuno. ____________________________________________________________ Pagina99 25 Mar. ’14 IL BUSINESS DELLE LAUREE DA VENDERE SUL WEB Tesi i Sembra un affare per i giovani studiosi, ma invece conviene soprattutto a una multinazionale delle edizioni on line MARIA TERESA CARBONE Siete un giovane laureato e vi state spremendo le meningi per trovare un lavoro che preveda una sia pur minima retribuzione, quando ecco che una mattina, aprendo la vostra casella email, trovate un messaggio diretto proprio a voi, con tanto di nome e cognome, e proveniente da una sigla - Edizioni Accademiche Italiane - della quale con ogni probabilità non avete mai sentito neanche parlare - ma che si definisce «membro di un gruppo editoriale internazionale, che ha quasi 10 anni di esperienza nella pubblicazione di ricerche di alta qualità supportate da noti istituti in tutto il mondo». Siete sospettosi, ovviamente, ma la vostra situazione precaria vi impedisce di scartare a priori una qualsiasi offerta. E in questo caso la proposta sembra interessante, visto che l'editore in questione «sta pianificando di pubblicare libri proprio nel campo» dei vostri studi e, a farla breve, vi sta dicendo che sarebbe potenzialmente interessato a pubblicare la vostra tesi, individuata fra quelle depositate nell'archivio elettronico della vostra università. Aspettate, però, prima di dire di sì. Dietro questa proposta apparentemente vantaggiosa si nasconde una vera e propria industria su scala mondiale, già segnalata qua e là anche in Italia (per esempio nel blog Lanzaimer sotto il titolo Editoria predato- ria), e ora definitivamente - almeno si spera - smascherata in un'inchiesta condotta da un giornalista scientifico americano, Joseph Stromberg, e pubblicata da State all'interno di Future Tense, un progetto a cui collaborano, insieme alla testata giornalistica, anche la Arizona State University e la New America Foundation). Dopo avere ricevuto l'offerta di pubblicare la sua tesi da un fantomatico Lap, Lambert Academic Publishing, anch'esso - guarda caso - appartenente a un "top international publishing group", il giovane Stromberg ha infatti deciso di vederci più chiaro, sottoponendosi come cavia al suo stesso esperimento. Nel giro di pochi giorni ha appreso senza grande sorpresa che la sua tesi aveva passato il vaglio dell'editore e ha ricevuto il contratto: i diritti esclusivi del testo sarebbero passati alla società tedesca da cui dipende il gruppo Lambert (e anche le Edizioni Accademiche Italiane), la AV Akademikerverlag GmbH & Co. KG, di recente rinominata OmniScriptum. Sarebbero stati loro ad accollarsi le spese di pubblicazione, mentre all'autore del libro sarebbe andato il 12 per cento delle royalties, a patto però di incassare almeno 50 euro al mese per un anno. Stromberg ha firmato, ma nel frattempo non gli ci è voluto molto per scoprire che alla base di tutto c'è un gruppo editoriale gigantesco, Vdm, cui fanno riferimento oltre cento sigle che pubblicano in decine di lingue, dal francese al lettone, dal cinese al russo, e che non si limitano solo all'ambito "accademico" (in italiano, per esempio, la stessa società produce anche le "Edizioni di Sant'Antonio"). Fondato a Diisseldorf nel 2002 da Wolfgang Philipp Mueller, il gruppo svolge gran parte del suo lavoro nel paradiso fiscale di Mauritius, al largo del Madagascar, anche se ha ramificazioni in moltissimi paesi. Unica, però, la strategia, soprattutto per quanto riguarda le pubblicazioni "universitarie": convincere il maggior numero possibile di neolaureati. a pubblicare le loro tesi allettandoli con una distribuzione planetaria via Amazon, e "persuaderli" a pre acquistare un certo numero di copie del loro lavoro con messaggi - testimonia Stromberg - sempre meno gentili. In fondo, una prassi non molto diversa da quella utilizzata da tante case editrici di casa nostra, pronte a far fruttare l'aspirazione di molti giovani, e non solo giovani, studiosi, di esibire il maggior numero possibile di pubblicazioni. Quello che è differente, qui, è la scala su cui l'operazione è condotta: e con cinquantamila nuovi titoli al mese (tanti ne vanta Vdm), non è davvero una differenza da poco. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Mar. ’14 GIANNINI: INVESTIAMO NELLA SCUOLA La priorità è riconoscere il merito degli insegnanti. In sinergia con i dottorati: alta qualifica scientifica e curiosità intellettuale ingredienti di base per rinnovare il Paese Stefania Giannini Gentile Massarenti, La ringrazio per lo spazio che ha voluto concedermi sulle colonne del Domenicale e per le sollecitazioni che mi sottopone con le sue domande. Prima di rispondere nello specifico alla sua proposta, tuttavia, mi lasci fare qualche breve premessa di carattere generale sul tema, caro a lei quanto a me, della scuola italiana. È passato poco più di un mese dal mio insediamento alla guida del Miur, un ministero complesso ma ricco di risorse, umane e professionali, in tutti i suoi Dipartimenti. Un ministero che voglio trasformare da dicastero «dell'emergenza» a struttura che progetta e realizza strategie. Nel corso del mandato il mio impegno sarà massimo per mettere il Miur nelle condizioni di accelerare nel processo di ricostruzione culturale ed educativa dell'Italia. La scuola, che per decenni è stata considerata soltanto una fonte di spesa, oggi deve tornare a essere percepita come investimento nel capitale umano del Paese, un investimento che riguarda i ragazzi, le ragazze e i loro insegnanti. Non c'è dubbio che dopo le grandi riforme degli anni Sessanta, il Governo Renzi sia il primo Esecutivo che ha messo in cima alla lista delle sue priorità i temi della scuola e dell'educazione. Il primo aspetto che abbiamo affrontato con collegialità è stato quello del l'edilizia scolastica. Un'emergenza nazionale che non può più essere rinviata: siamo intervenuti senza emotività ma nella piena consapevolezza che dovesse essere una priorità. E siamo partiti dai muri e dai tetti. Perché, semplicemente, a scuola non ci si può far male, o compromettere la propria salute, o addirittura morire, come purtroppo è accaduto in passato. È inaccettabile. Nonostante i vincoli di bilancio il governo ha individuato subito risorse pari a 3,7 miliardi che consentiranno ai sindaci già dalla prossima estate di avviare i cantieri per poter avere dal prossimo anno scolastico scuole più belle ma soprattutto più sicure. Nelle prossime settimane predisporremo un Piano pluriennale che consentirà interventi in altre 10mila scuole su tutto il territorio nazionale. Ma non c'è soltanto il tema delle strutture al centro dell'azione del nostro Governo. Per realizzare un Paese più sicuro e più istruito c'è bisogno di una «visione» delle azioni future. Di recente in Parlamento ho presentato le linee guida del mio mandato. E penso di essere stata molto chiara affermando che la mia azione si concentrerà attorno a quattro «parole d'ordine»: semplificazione, programmazione, valutazione e verifica. Vorrei affrontare le nuove modalità di reclutamento dei docenti valutando insieme al Parlamento una modifica del loro status giuridico: si tratta per me di un tema non più rinviabile se veramente vogliamo innestare un processo valutativo che non sia soltanto retorica, ma un reale, concreto ed efficace strumento di miglioramento della performance didattica e formativa. Nei prossimi mesi inizieremo la discussione sul contratto degli insegnanti perché a mio avviso la loro retribuzione non può più essere pensata e quindi basata sugli scatti di anzianità, non possiamo più tollerare un meccanismo in cui l'unico modo per gli insegnanti di migliorare la loro condizione sia l'invecchiamento. È meglio premiare gli insegnanti che si assumono responsabilità e dimostrano capacità. E ora arrivo con una puntuale replica alla sua sollecitazione. È utile «risarcire» i dottorandi regalando loro la possibilità di entrare nella scuola per, la cito, «partecipare, insieme ai migliori docenti, a un grande esperimento per rinnovare insegnamenti e metodi»? Nel suo articolo di Domenica scorsa, lei accennava al fatto che «nell'aria aleggia un rinnovato spirito di riforma». È uno spirito di cui abbiamo davvero bisogno se vogliamo guardare oltre le emergenze che ogni giorno coinvolgono i settori di cui mi trovo alla guida. Da parte mia c'è la ferma intenzione di raccogliere la voglia di innovazione che esiste nel nostro Paese e di farne una delle linee guida della mia azione. Ebbene, la riforma dei dottorati è andata in porto, con un nuovo Regolamento nel 2013 dopo un vero percorso a ostacoli. Da anni ormai si parla della necessità di dare maggiore valore a questo tipo di percorso. Qualche giorno fa ho fatto pervenire ai rettori le nuove Linee guida per l'accreditamento di sedi e corsi di dottorato. Ho chiesto che le borse di studio coprano almeno il 75% dei posti disponibili e che il numero medio di borse sia pari a 6. Ciò che più mi preme è evitare un elevato e ingiustificato numero di dottorandi senza borsa. Questo sarà un requisito minimo affinché il corso venga definito sostenibile. A ciascun dottore, poi, che abbia la borsa o meno, va assicurato un budget per attività di ricerca per sostenere fra l'altro mobilità interna e internazionale. Abbiamo cancellato il vincolo che prevedeva che un dottore di ricerca non potesse svolgere attività retribuite, che non potesse lavorare. Andranno verificate eventuali incompatibilità, ma mi sembra doveroso aver preso questa decisione dopo un dibattito che si è prolungato per anni. Prevediamo anche dottorati in collaborazione con le imprese, i cosiddetti dottorati industriali. Abbiamo messo un paletto alle aziende perché deve essere soddisfatta, per l'attivazione di questi percorsi, almeno una delle seguenti condizioni. Innanzitutto la partecipazione, con esito positivo, a progetti di ricerca nazionali e internazionali, oppure aver conseguito risultati in termini di brevetti. Con regole definite, e adesso le abbiamo, possiamo pensare a come progettare il futuro e valorizzare questi percorsi. Il contributo all'innovazione della didattica da parte dei dottorandi è certamente uno spunto interessante. E allora penso ad esempio al tema dell'orientamento, cioè alla possibilità che i dottori di ricerca possano fare da «tutor» agli studenti delle scuole superiori per aiutarli nella scelta del percorso universitario più adeguato. Inoltre penso che i dottorandi potrebbero aprire le porte dei loro laboratori ai più giovani o spostarsi fisicamente in quelli scolastici per sessioni di didattica innovativa. La priorità è il migliore impiego dei nostri insegnanti, tenuto conto dell'enorme numero di precari che esistono nella scuola e che potrebbero essere inseriti e impiegati anche in attività di innovazione didattica. In altri termini non possiamo rischiare di relegare in un angolo tanti docenti che hanno competenze preziose e capacità e che non hanno ancora trovato la possibilità di esprimersi. Dobbiamo quindi lavorare affinché il dottorato sia sempre più spendibile non soltanto nel mondo accademico e scolastico ma anche nel settore privato. Il nostro sforzo è far capire alle imprese che i dottorandi sono fondamentali anche nel processo produttivo perché giovani e in possesso della moneta più preziosa nel mercato globale: l'alta qualifica scientifica e la curiosità intellettuale. Due caratteristiche essenziali per affrontare qualsiasi tipo di contesto. Quindi anche una aula scolastica. Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca ____________________________________________________________ Il Manifesto 28 Mar. ’14 GIANNINI: PER LA SCUOLA IL MODELLO È TEDESCO Scuola La ministra annuncia l'ennesima riforma: più istituti tecnici per portare gli studenti (tiare tirocinio nelle aziende con le norme del Jobs-Act ISTRUZIONE Giannini spiega al parlamento le linee che il suo dicastero seguirà fino al 2018 Roberto Clecareiti Il modello per la scuola scelto dal ministro dell'Istruzione Stefania Giannini è quello tedesco. Questo significa privilegiare- l'istruzione tecnica, portare gli studenti a fare tirocini o stage in azienda sin dal quarto anno di scuola come già previsto, usando magari le norme sui contratti a termine del Jobs Act che cancellano la causalità dei contratti e deregolamentano l'apprendistato. Per questo, il Miur aumenterà gli istituti tecnici superiori. Ai 63 attuali se ne aggiungeranno altri dedicati al turismo e ai beni culturali con classi in cui si parlerà solo in inglese o francese. Secondo i dati di AlmaDiploma, il 37,2% dei diplomati tecnici del 2012 lavorava già ad un anno dal titolo, mentre il tasso dì disoccupazione è il più alto tra i diplomati: il 34%. L'insistenza su questo indirizzo di studi si spiega nella cornice più generale della professionalizzazione dell'istruzione, un modello inseguito anche dai predecessori di Giannini: Gerinini, Profumo e Carrozza. I dati non sembrano confermare questo orientamento nelle politiche dell'istruzione, come del resto in quelle del lavoro: secondo il bilancio delle iscrizioni alle scuole superiori per l'anno 2014-2015 gli studenti che scelgono i tecnici sono il 30,8%, prima viene il liceo scientifico con 121.686 richieste, poi l'alberghiero con 48.867. Gli iscritti aì licei sono sempre .i più numerosi di tutti: il 50,1%. Fino a quando durerà il governo Renzi, il Miur andrà in contro-tendenza importando un modello che, come ha più volte denunciato il consorzio interuniversitario Almalaurea, mette impropriamente in competizione la formazione tecnica sul lavoro della conoscenza. Esponendo alcune delle linee programmatiche sulla scuola in commissione Istruzione al Senato, il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini ha annunciato ieri di rinunciare a «firmare un'altra riforma dell'istruzione»: «Resisterò alla tentazione di un'ipertrofia normativa». Era inevitabile, considerato che sono ancora in corso di attuazione i decreti della riforma Gelmini del 2008. Nel mantenimento di uno status qua che ha depresso e confuso l'intero mondo dell'istruzione, il ministro intende procedere con la programmazione delle risorse scarse esistenti e la semplificazione normativa. A partire da un testo unico in materia di normativa scolastica. Un'altra linea fondante del suo dicastero sarà la battaglia per il merito e contro le retribuzioni degli insegnanti basati sugli scatti di anzianità. Questa battaglia porterà ad uno scontro frontale con i sindacati. Il contratto di lavoro nel settore è bloccato dal 2009. La Corte dei conti ha calcolato i danni del blocco: è costato 3.348 euro in meno per i docenti, 6.380 ai dirigenti scolastici, 2.416 al personale Ata. Soldi che non verranno mai restituiti. Giannini ha menzionato l'esigenza di sbloccare la contrattazione, introducendo però la premialità attraverso valutazione e meritocrazia. In attesa che qualcosa si sblocchi, gli organici docenti restano fermi al 2011, anno in cui si è chiuso il piano triennale di tagli oltre 81 mila posti, mentre gli alunni sono aumentati di 87 mila, creando l'emergenza delle «classi pollaio». Contro questa situazione, la Flc-Cgil ha annunciato mobilitazioni. Si vuole inoltre completare l'anagrafe dell'edilizia scolastica, un processo iniziato nel 1996 e mai concluso. Senza questo strumento sarà infatti difficile spendere i 3,7 miliardi di euro promessi da Renzi. Giannini ha ribadito l'esigenza di rifinanziare l'istruzione tagliata di 9,5 miliardi di euro dai tagli lineari di Tremanti e Gelmini (8,4 alla scuola, 1,1 a università e ricerca). Su questo si giocherà una partita importante nel governo. Scelta Civica intende strappare un fondo e sostiene di volere andare fino in fondo. Per il momento, il ministro proverà a rifinanziare 11 fondo per il miglioramento dell'offerta formativa (Mof) ai livelli del 2011 (1,5 miliardi). Dichiarazioni di rito sulla necessità di «riassorbire» 178 mila supplenti precari «in un'ottica di lungo periodo». Non sono state fatte previsioni, né cifre. Forse entro la fine della legislatura, nel 2018, quando Giannini intende varare una forma unica di abilitazione all'insegnamento scolastico, unificando le differenti figure esistenti: Tfa ordinari e speciali, Pas, vecchie Ssis, idonei al «concorsone». Un esercito di 100 mila persone nel caos: non si sa se rientreranno in una graduatoria, o cosa accadrà quando verranno riaperte, o se verranno assunti. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Mar. ’14 UNICA: CONCORSI PER ORDINARI, ASSOCIATI E RICERCATORI Sono 190 i docenti dell'Università di Cagliari che hanno conseguito con successo l'abilitazione scientifica necessaria per partecipare ai concorsi per docenti di ordinario o associato negli Atenei italiani. Circa il 20 per cento del totale dei docenti in servizio. «Si tratta di un dato», sottolinea il Rettore Giovanni Melis, «che evidenzia la qualità della docenza e al tempo stesso della ricerca scientifica svolta nel nostro Ateneo». Per riconoscere questi importanti risultati, il Cda ha approvato la proposta di programmazione di 109 concorsi per professore associato, 39 per ordinario e 9 per ricercatori di tipo B. «L'obiettivo di questo provvedimento è potenziare gli organici per la didattica e la ricerca e riconoscere i meriti di tutti gli abilitati». In una situazione di difficoltà per il sistema universitario nazionale, l'Ateneo di Cagliari ha programmato un processo concorsuale che nel 2014 e in parte nel 2015 consentirà di dare risposta alle aspettative dei ricercatori che hanno conseguito l'abilitazione. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Mar. ’14 «Esclusi colleghi di valore» ECONOMISTI DI TUTTO IL MONDO CONTRO IL CONCORSO IN ITALIA Lettera di protesta al governo firmata da un Nobel La lettera che un ministro dell’Istruzione non vorrebbe mai ricevere è planata sulla scrivania di Stefania Giannini il 21 marzo scorso. Tredici righe ustionanti: sia per il contenuto che per le dodici firme in fondo al foglio. Nomi pesantissimi. Dal premio Nobel per l’Economia Douglass North al professore di storia economica alla London School of Economics, Stephen Broadberry. Da Jeffrey Williamson, già capo del dipartimento di Economia ad Harvard, ai docenti della Oxford University Jane Humphries e Kevin O’Rourke. Dodici autorità mondiali nelle discipline economiche, i quali manifestano al ministro Giannini, ma anche al premier Matteo Renzi, cui è stata recapitata la stessa lettera (spedita in copia anche al presidente dell’Anvur, l’Agenzia di valutazione del sistema universitario Stefano Fantoni e al direttore generale del ministero Daniele Livon), sconcerto per i risultati degli esami di abilitazione scientifica necessari per accedere all’insegnamento accademico di Storia economica. «Ci lascia perplessi» dicono senza mezzi termini, «la bocciatura di alcuni candidati con un eccellente curriculum». Il riferimento è a «tre colleghi di grande valore»: Mark Dincecco della University of Michigan, Alessandro Nuvolari della Sant’Anna di Pisa e Giovanni Vecchi dell’Università romana di Tor Vergata. «Costoro», scrivono i dodici luminari, «sono ben noti fuori dall’Italia per le loro pubblicazioni, gli interventi a conferenze e seminari, gli articoli per importanti riviste e la collaborazione a progetti di ricerca internazionali». A nessuno di questi, stigmatizzano, «è stato attribuito il titolo di professore di prima fascia e sarebbe un terribile peccato se ciò impedisse loro la completa realizzazione dei programmi di ricerca: la storia economica ne risulterebbe impoverita». Ma non è finita. Perché i dodici luminari sottolineano un secondo «aspetto inquietante» dell’esito delle selezioni. Cioè che mentre i tre «colleghi di grande valore», come sono definiti Dincecco, Nuvolari e Vecchi, venivano esclusi, a superare l’esame erano «candidati con un curriculum di ricerca assai limitato in termini di pubblicazioni internazionali». E questo, conclude la lettera, «non è la direzione verso cui la storia economica italiana deve andare se vuole garantirsi il posto che le spetta all’avanguardia della ricerca nel nostro campo». A Nicola Rossi, ex senatore democratico, animatore dell’Istituto Bruno Leoni e docente di Economia politica a Tor Vergata, cadono le braccia: «Con la globalizzazione le competenze e le responsabilità del nostro sistema universitario sono cambiate radicalmente. Certe cose che forse un tempo qualcuno poteva ritenere tollerabili, come una caratteristica tipicamente italiana, oggi sono da considerare del tutto inaccettabili». Dincecco, che voleva tornare in Italia, resterà quindi in America. Nuvolari continuerà forse a dirigere il dottorato di ricerca in storia economica alla sant’Anna di Pisa. Mentre Vecchi ha avuto un’offerta dalla Spagna. Su lavoce.info Pierangelo Toninelli, Gianni Toniolo e Vera Zamagni hanno fatto barba e capelli agli autori della bocciatura. Gli è bastato fare il conto delle citazioni dei lavori in articoli e pubblicazioni di ciascun candidato. Arrivando alla conclusione che fra i promossi c’è chi ha avuto in tutto anche soltanto 10 citazioni, mentre sono stati considerati «non idonei a ricoprire il ruolo di professore ordinario studiosi citati 280, 349 e 664 volte». Per Dincecco, Vecchi e Nuvolari si contano rispettivamente 211, 336 e 661 citazioni. Numeri superiori a quelli degli stessi membri della commissione esaminatrice. Come del resto anche per le pubblicazioni. La cosa si può facilmente verificare su Econlit, il sito dell’Associazione degli economisti americani che aggiorna scrupolosamente i curriculum internazionali di tutti i professori del settore. Affermano Toninelli, Toniolo e Zamagni che «i criptici verbali» della commissione «non consentono un’adeguata comprensione dei criteri adottati per promuovere o bocciare». Aggiungono però che «contrariamente a una prassi internazionale consolidata» la suddetta commissione «non ha preso in considerazione lavori a più mani». Escludendo in questo modo «dalla valutazione articoli pubblicati sulle migliori riviste internazionali». Come mai? Gli autori di questo commento puntano il dito sulla «qualità scientifica media della commissione», dove «tre dei commissari hanno meno di 30 citazioni ciascuno: una situazione che del resto li accomuna a molti colleghi». Tre su cinque. E «con una tale maggioranza», concludono, c’era il rischio «che prevalessero criteri valutativi fortemente divergenti dalle raccomandazioni dell’Anvur». Rischio o certezza? ____________________________________________________________ Repubblica 26 Mar. ’14 TAR E MINISTRO GIANNINI FERMANO ABILITAZIONI NAZIONALI: "NECESSARIA CHIAREZZA" ROMA - Le discutibili abilitazioni nazionali in questi giorni sono tornate sul tavolo del ministro Stefania Giannini. Le hanno comunicato che il Tribunale amministrativo del Lazio ha già concesso quattro sospensive sui ricorsi (tanti) fatti da candidati di tutta Italia. Un tribunale amministrativo che consente a quattro candidati di rifare la prova è un fatto, in attesa del Consiglio di Stato, che non si può minimizzare. Francesco Mores, il primo caso, ha visto fermare la decisione presa dalla commissione per le abilitazioni a professore di seconda fascia per il settore concorsuale 11a4: Scienze del libro e del documento e Scienze storico-religiose. Il curriculum di Mores, che aveva prodotto diverse pubblicazioni sulla storia del cristianesimo, deve essere rivalutato. Entro sessanta giorni. Lo hanno detto i giudici amministrativi della Terza sezione. E sarà un'altra commissione a rivalutare. Sempre la Terza sezione del Tar del Lazio ha bloccato la decisione di non abilitare Stefano Benussi nel settore chirurgia-cardio-toraco vascolare. La commissione, nonostante il parere positivo di tre commissari su cinque, aveva bocciato l'aspirante prof (di prima fascia, quindi ordinario). Il Tar ha ordinato la rivalutazione del giudizio. E così è accaduto per quel giudizio non gradito, "accettabile", dato dai valutatori sulla professoressa Greta Tellarini, Diritto commerciale della navigazione. Da riformulare. Infine, il Tar si è espresso sul tentativo di Marco Gentile di diventare docentedi seconda fascia di Storia medievale: è stato bocciato, ingiustamente. I quattro giudizi su citati sono tutti da rivedere, ha detto il Tar del Lazio. Tutti da nuove commissioni. La grande abilitazione scaccia-esami tarocchi, nelle intenzioni dell'ex ministro Gelmini e dei suoi suggeritori, è diventata nuovo cibo per avvocati. E materia per paralizzare l'arruolamento degli insegnanti nelle università italiane. Le intenzioni del ministro Giannini sul tema le ha rivelate lei stessa lo scorso 10 marzo, all'Università di Pavia. Ha detto: "La complessa vicenda delle abilitazioni scientifiche nazionali reclama chiarezza. La chiedono le università in attesa di reclutare, la chiedono i candidati, in attesa di entrare nei ruoli della docenza, forse la chiedono anche alcuni commissari, almeno quelli (la maggior parte spero) che non hanno scambiato il rilascio di una patente di guida con la messa in moto di una Ferrari. Posso indicare con precisione un metodo: non resta che restituire i diritti strappati nel presente. Sto pensando seriamente a una riapertura per l'accesso alla seconda tornata concorsuale. E poi, nel futuro, immagino un meccanismo semplice che dia garanzia di continuità. In altri termini, non mi sento di garantire un terzo concorsone abilitante". ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 Mar. ’14 UNISS: UNIVERSITA’ IN CARCERE Una sfida ritenuta impossibile che porta speranza nelle celle Studiare significa comprendere ed essere attenti anche alle piccole cose, significa essere curiosi, essere disposti al cambiamento di Giampaolo Cassitta Ci sono sfide quasi impossibili ed altre dove è difficile comprendere l’esito finale. Ma le sfide, proprio per la loro intrinseca natura, vanno vissute intensamente sino alla fine. Quando si cominciò, quasi timidamente, a far mettere “il naso” a professori dell’Università all’interno di un carcere sardo non si sapeva, davvero, quale sarebbe stato il percorso, quali i risultati e, soprattutto, chi avrebbe seguito questo cammino ritenuto da alcuni assolutamente “presuntuoso”. E invece, quando nel 2008 il primo detenuto ha conseguito la laurea triennale in “biblioteconomia” con una tesi sulla lettura dei detenuti nel carcere di Alghero, il Preside della facoltà, Attilio Mastino (che poi sarebbe diventato magnifico Rettore), ha stretto la mano a quel detenuto nell’aula esterna del carcere dove abbiamo festeggiato tutti operatori e docenti insieme. E si è capito che la sfida era stata vinta. Con molte difficoltà ma era stata vinta. Aveva vinto la parola, la forza dell’impegno, lo studio, il dovere di applicarsi. Avevamo restituito, noi operatori da una parte e docenti universitari dall’altra, un uomo diverso alla società. Non era e non è falsa retorica. Quei gesti di quel giorno hanno permesso ad altri studenti di iscriversi all’Università e oggi, il carcere di Alghero, completamente aperto, senza sbarre intermedie, con una biblioteca di circa 13.000 libri è una piccola comunità dove è possibile studiare prima alle scuole superiori e, dopo il diploma, si può continuare con gli studi universitari. Ma non basta. Le sfide vanno ripetute e rimodellate. Ed ecco che dovremmo, ancora insieme, poter costruire un cammino diverso, tortuoso e sicuramente più complicato, ma che potrà dare comunque ottimi risultati. I detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza sono presenti negli istituti penitenziari di Tempio e di Nuoro e molti di essi sono iscritti all’Università. Sono ergastolani, hanno un orizzonte con troppi ostacoli, la loro possibilità è provare a essere curiosi. Riprendersi quella dignità che si sono giocati commettendo reati atroci. L’università può essere un buon antidoto e può esserlo anche con le nuove tecniche. Se, infatti, i detenuti algheresi potranno recarsi in ateneo per sostenere gli esami, i detenuti sottoposti ad alta sicurezza non possono farlo. Ma potremmo (e sono già state allestite delle telecamere in prova) far assistere a delle lezioni universitarie o, addirittura, si potranno sostenere gli esami in videoconferenza. È una sfida importante, difficile, una di quelle sfide che la cultura deve effettuare per avvicinarsi agli altri. È una sfida unica, che ha permesso, per esempio, di allestire un corso di formazione all’interno del carcere Nuoro dove hanno partecipato degli avvocati, con un ergastolano detenuto nelle vesti di docente ottenendo ottimi risultati. Lo studio, il volersi confrontare con i libri, il voler intraprendere un passaggio fondamentale, descrive il primo vero passo per un reale riscatto. Il poter dire, un giorno, di essere riuscito a varcare la soglia della sapienza, di poter essere stato trattato da “studente” e quindi con le vittorie e le sconfitte che ogni studente si porta all’interno del suo zaino, rappresenterà un momento altissimo per il detenuto e per tutti noi della società esterna: studiare significa comprendere ed essere attenti anche alle piccole cose, significa essere curiosi, essere disposti al cambiamento. Ricordo, alla fine degli anni Ottanta, un seminario congiunto con dei detenuti dell’Asinara e degli studenti della facoltà di Magistero. L’incontro avvenne prima sull’isola e successivamente a Sassari, in facoltà. Ricordo ancora i volti di quei detenuti all’interno dell’aula magna, all’inizio quasi spauriti. Ma poi vinse la voglia di confronto e di poter esprimere i propri punti di vista e ci fu un dibattito serio, articolato, dotto, sulle costruzioni del proprio futuro partendo dal carcere. Un protocollo di intesa tra l’Università e il mondo carcerario sardo rappresenta un bell’investimento, rappresenta un ponte tra i silenzi di un carcere e quelli di una biblioteca. Il rumore sarà comunque lieve, ma sarà intriso di storie da raccontare. ____________________________________________________________ Pagina99 29 Mar. ’14 UNA GANG CHIAMATA ACCADEMIA Analisi Un esercito di precari pronti a tutto per inseguire il sogno di entrare nella élite universitaria. Proprio come gli spacciatori che puntano al ruolo di boss. Lo dice la ricerca di un aspirante accademico I pusher? Bamboccioni che vivono con la mamma. Pagati una miseria, sempre In attesa di profitti futuri. Come i precari dell'università NICOLÒ CAVALLI Gli spacciatori vivono ancora con la loro mamma. Titolava così uno studio pubblicato nel 2000 da Sudhir Venkatesh e Steven Levitt (autore, insieme a Stephen Dubner, di Freakonomics), in cui veniva raccontato come la distribuzione dei redditi nel mondo dello spaccio di droga fosse estremamente polarizzata verso i "boss", ricchissimi, mentre i loro scagnozzi guadagnano meno di un impiegato di MacDonald's: circa 3,3 dollari all'ora, ben al di sotto d'un salario di sopravvivenza. Ecco, insomma, perché gli spacciatori vivono ancora con le proprie madri. Ma la constatazione non si limita al fatto che questi spacciatori siano in definitiva bamboccioni. Pone anche una serie di problemi per la teoria economica tradizionale. Considerando la probabilità di essere uccisi o assaliti da gang rivali (il tasso di mortalità di questi lavoratori è sicuramente tra i più elevati) o dai membri della propria stessa banda, nonché del rischio sempre dietro l'angolo di finire in carcere, la decisione di intraprendere la carriera da spacciatore sembra davvero poco razionale. Eppure l'offerta di lavoro nel campo è tutt'altro che scarsa. La ragione è l'attesa di elevati ritorni futuri: non si può trascurare l'eventualità che in un lasso di tempo non troppo lungo si possa arrivare a essere uno dei boss. Una scommessa sul proprio successo nel campo. Con ogni probabilità non ce la faranno, ma hanno la voglia di «arricchirsi o morire provandoci». Paradossalmente, è proprio quest'abbondanza di manodopera a buon mercato che permette ai signori della droga di rimanere ricchissimi senza redistribuire il proprio benessere. Proprio come in un mercato dove il vincitore prende tutto. Ora, sembrerà strano, ma questa situazione ha qualcosa in comune con coloro che lavorano nelle università. In un recente articolo basato sulla distribuzione di redditi provenienti dal settore accademico in Germania, Stati Uniti e Inghilterra, Alexandre Alfonso (ricercatore al King's College di londra) ha mostrato come l'università sia caratterizzata da un nucleo fondante costituito sempre meno da accademici, e sempre più da outsider, precari pronti a rinunciare a salari decenti e sicurezza occupazionale in cambio della prospettiva del prestigio, della libertà, della sicurezza e mediamente di alti salari che una posizione di tenore comporta. Proprio come in una gang di spacciatori. Anche se, nei dipartimenti universitari, nessuno spara. O quasi. Ma chi sono gli outsider dell'accademia? Stiamo parlando di una massa crescente di dottorandi (+50% tra il 2000 e il 2009 nei paesi Ocse) che arrivano ogni anno nel mercato sperando di ottenere una posizione da docente, proprio come uno spacciatore sogna di diventare Pablo Escobar. Ma proprio perché gli outsider crescono così tanto, a loro vengono appaltati sempre più compiti, come l'insegnamento, in un contesto di crescita costante della pressione per pubblicare e fare ricerca. Publish or peristi, dal nome del software che analizza la produttività degli studiosi in base al numero delle pubblicazioni, all'importanza delle riviste che li pubblicano e il numero di citazioni ottenute. Il risultato però è che il nucleo dell'accademia, il centro, si restringe; mentre la periferia si espande - così il primo è sempre più dipendente da una periferia destinata a rimanere ai margini perché, di fatto, i giovani ricercatori finiscono per avere troppo poco tempo per la ricerca. In molti paesi, insomma, l'università si appoggia a un crescente "esercito industriale di riserva" di accademici che lavorano con contratti precari proprio a causa di questo sistema di incentivi. ____________________________________________________________ Italia Oggi 29 Mar. ’14 I PREMI ALLA RICERCA, UN BLUFF Il parlamento stoppa il decreto Carrozza che stanzia 121 milioni per i progetti degli enti Il ministro Giannini è pronta a rifare la valutazione DI ALESSANDRA RICCIARDI Una questione tecnica che ne nasconde, come spesso succede, una politica. Con il decreto legge sull'istruzione e l'università di settembre scorso, si è stabilito che per assegnare agli enti di ricerca il 7% del fondo ordinario sarebbe ktata fatta una valutazione in base a due criteri: il responso dell'Anvur sui prodotti attesi e la qualità di governante e ricerca degli enti; e i risultati di un'apposita gara tra progetti di ricerca da mettere in cantiere. Obiettivo: premiare il merito. Leggendo in questi giorni il decreto di assegnazione per il 2013 dei fondi, decreto messo a punto dall'ex ministro Maria Chiara Carrozza, e inviato alle commissioni istruzione di camera e senato per il prescritto parere, i parlamentari si sono resi conto che le cose non stanno proprio così. E che per distribuire ii 121 milioni di euro a disposizione non sono stati valutati nuovi progetti, ma i vecchi, quelli del 2011 e 2012. Una discrepanza che non è solo temporale, perché premiare la ricerca che l'ente ha intenzione di fare è cosa ben diversa rispetto all'assegnare fondi per quello che l'ente ha già fatto. Con risultati non troppo dissimili, hanno ragionato nelle commissioni parlamentari, da quanto si otterrebbe distribuendo i fondi a pioggia, in proporzione a quanto arrivato in cassa in passato. Dubbi sugli stanziamenti così assegnati che non sono stati fugati dalle interlocuzioni che le commissioni hanno avuto nei giorni scorsi con i vertici del dicastero di viale Trastevere: per assegnare i fondi subito si è preferito non perdere tempo con una nuova selezione, è stato il tono delle risposte. E davanti alla prospettiva di una sonora bocciatura del parlamento, il ministro dell'istruzione e università, Stefania Giannini, secondo quanto risulta a Italia-Oggi, sarebbe pronta a ritirare il decreto. Al Cnr il decreto assegna oltre 36 milioni di euro, secondo solo all'Istituto nazionale di fisica nucleare con 39 milioni; a seguire l'Asi, con 22,5 milioni, e 'Istituto di Astrofisica con 13 mln In fondo il Consorzio per l'area scientifica e tecnologica di ricerca di Trieste, noto come Science Park (1,3), che non è un ente e non è dunque soggetto alla valutazione Anvur. Se il ministro dovesse decidere di ritirare il decreto e rifare il bando, gli enti dovranno aspettare un bel po' prima di avere in cassa le risorse. E non è affatto escluso che alla fine si decida di cambiare la norma, con un nuovo sistema di valutazione. «Stando così le cose sarebbe meglio assegnare le risorse in base all'attività ordinaria», taglia corto Rosa Di Giorgi, senatrice pd, relatrice del parere sul decreto, «procedere in questo modo non ha senso». «C'è un errore di base», aggiunge Manuela Ghizzoni, vicepresidente pd della ,commissione istruzione della camera, «non dovrebbero essere utilizzati i fondi della gestione ordinaria per premiare la progettualità». Una storia non troppo dissimile da quella avvenuta nella scuola, dove l'ex ministro dell'istruzione, Mariastella Gelmini, pensò di utilizzare il 30% dei risparmi derivanti dai tagli alla scuola per premiare i docenti migliori. Anche quel progetto è poi naufragato davanti alle urgenze della gestione ordinaria che hanno fatto dirottare i fondi sul pagamento degli scatti di anzianità di tutti i docenti. Stefania Giannini ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Mar. ’14 LA CIVILTÀ È LIBERA RICERCA L'agire scientifico è lo strumento chiave per rafforzare libertà individuali, metodo democratico e crescita economica Marco Cappato Le istituzioni democratiche incontrano crescenti difficoltà nel governare i problemi del nostro tempo, non solo la crisi economica, finanziaria e sociale. A seconda dei diversi orientamenti politici, esistono diverse letture, per alcune delle quali si deve ormai parlare di vera e propria degenerazione dei sistemi democratici, con analisi specifiche sulle cause che la determinano: endogene da una parte (es.: violazione sistematica delle procedure democratiche e dello Stato di diritto) esogene dall'altra (es.: dinamiche economiche ed ecologiche). Senza pretendere di fornire la risposta al confronto sulla crisi della democrazia, la terza sessione del Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica – promossa dall'Associazione Luca Coscioni e dal Partito radicale – propone la seguente pista di riflessione ed azione: il metodo scientifico rappresenta uno strumento fondamentale per la vita del metodo democratico. Il consolidamento della scienza sperimentale è stato storicamente decisivo per l'affermazione di sistemi non autoritari di esercizio del potere, i quali hanno a loro volta consentito alla razionalità scientifica di diventare patrimonio sempre più diffuso. La scienza potrà continuare a svolgere questa funzione, a condizione che il mondo della ricerca e quello della politica si confrontino e si parlino, si facciano vicendevolmente forza dei rispettivi strumenti per promuovere la libertà. Nel 2004, quando fu fondato il Congresso mondiale, chiedevamo – con Luca Coscioni e 51 premi Nobel a suo sostegno – alle istituzioni politiche di difendere la ricerca dai fondamentalismi, in particolare di natura religiosa, che minacciano la società aperta. Il nome del Congresso era mutuato da quel «Congresso per la libertà della cultura» che nel dopoguerra vide grandi personalità impegnate ad contrastare i totalitarismi. Oggi, nel pieno di processi d'enorme impatto sulla stessa antropologia quali sono le rivoluzioni nel campo delle tecnologie digitali o genomiche, se si vuole impedire che il metodo democratico sia travolto da nemici esterni e da più insidiosi nemici interni – populismi, tecnocrazie e altre forme di potere che di democratico mantengono solo le apparenze – occorre rivolgersi anche alla scienza; occorre che quel dialogo con la politica sviluppi tutte le sue potenzialità. La Terza Sessione del Congresso mondiale è convocata a partire dall'obiettivo di colmare il divario tra scienza e politica, valorizzando il contributo che l'agire scientifico può fornire in positivo al rafforzamento delle libertà individuali e delle istituzioni democratiche. La scienza deve, innanzitutto, aiutare il processo decisionale a basarsi sui fatti. Senza lasciare spazio a verità assolute, contrastando ogni forma di manipolazione ideologica della realtà, come spesso accade sui temi più controversi (dalle cellule staminali alla sperimentazione animale). Le nuove frontiere della ricerca possono fornire conoscenze e strumenti in grado di aiutare il governo della polis in ogni campo, dalla medicina all'ambiente. La stessa affermazione del diritto e l'effettiva partecipazione democratica possono trarre nuova linfa dalle scoperte scientifiche: basti pensare al contributo offerto dalle neuroscienze o dalle nuove tecnologie di comunicazione. Nessuna tecnologia è, in sé, buona o cattiva, ma sarà il suo uso – da stabilire coinvolgendo democraticamente i cittadini – a determinare effetti positivi o negativi per ciascun individuo e per l'ecosistema del quale facciamo parte; è perciò fondamentale che i principi della libertà e responsabilità individuale siano fatti valere con la forza della legge. La scienza deve continuare a reggersi sul principio di fallibilità, senza inseguire il consenso popolare, ma aprendosi al confronto con un'opinione pubblica adeguatamente informata. Le istituzioni democratiche devono rispettare l'autonomia della scienza e investire su quegli strumenti in grado di potenziare la libera scelta riducendo i condizionamenti da parte di ogni forma di potere, politico e non. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 30 Mar. ’14 «CARRIERE BLOCCATE COSÌ AI GIOVANI NON È PERMESSO FARE ESPERIENZA» NAPOLI — Sette anni fa l’allora trentenne ricercatrice precaria Enza Colonna fu citata nel discorso di fine anno del presidente Napolitano come esempio della «forza morale che anima tante donne» del Sud. Oggi è una ricercatrice di fama internazionale, impegnata in un progetto sulle malattie genetiche. Come allora lavora presso il Cnr di Napoli, e come allora passa la gran parte della sua vita davanti a un computer in una stanza dell’Istituto di genetica e biofisica. La differenza è che adesso ha un contratto a tempo indeterminato, frutto di un lavoro che l’ha portata a sviluppare anche collaborazioni all’estero, soprattutto nel Regno Unito. La si può quindi annoverare tra quei giovani che il proprio percorso professionale sono riusciti a farlo, anche se tra le difficoltà. Nel suo campo non esiste un problema generazionale? «Diciamo che esiste ma non è il principale». In che termini esiste? «Come esiste dappertutto nel nostro Paese, almeno in ambito pubblico: chi raggiunge certe posizioni di rilievo tende a rimanerci aggrappato finché può e anche oltre, e si fatica quindi a creare il ricambio». Però sembra di capire che non ritiene sia questo il guaio peggiore. «Sì, perché gli anziani rappresentano una risorsa in competenze e esperienza, quindi non me la sentirei di sostenere l’urgenza di uno svecchiamento». Allora qual è la questione più sentita dalla sua generazione? «Quella delle opportunità. Anzi, delle difficoltà che si incontrano ad avere opportunità». Ma lei l’opportunità di un contratto non più da precaria l’ha avuta. «Vero, ma non è questo il punto. Sicuramente il mio contratto a tempo indeterminato mi dà una sicurezza economica che prima non avevo, ma quando parlo di opportunità non mi riferisco allo stipendio». Si riferisce agli investimenti? «Esatto. Perché nel mio lavoro sono gli investimenti, i fondi, che ci rendono autonomi, che ci danno l’opportunità di lavorare bene. La ricerca non si fa con lo stipendio, serve trovare il denaro, e in Italia è storia vecchia che lo Stato non ci pensa proprio a darne. Bisogna rivolgersi all’Europa, e qui non è raro che un trentenne o un quarantenne italiano si accorga di avere minore esperienza rispetto a un collega, che so, inglese, che magari ha dieci anni meno di lui». E questo non è un problema di competenza? «Assolutamente no. Ripeto: è un problema di esperienza. Perché all’estero si investe sui giovani, e qui no. All’estero si è sostenuti appena si inizia a lavorare, e quindi si possono nutrire importanti ambizioni scientifiche sin da subito, e qui invece si arriva a certi stadi della carriera soltanto da anziani. Nell’ambito della ricerca scientifica è questa la vera questione generazionale». Ma lei in tutto ciò i fondi per i suoi studi è riuscita a trovarli? «Con fatica e solo in parte. Sinceramente? La carta per stampare i documenti la compro a spese mie. E posso ancora dirmi fortunata perché lavorando al computer ho bisogno soltanto di quella. Pensate a chi fa esperimenti al banco e ha bisogno ogni giorno di materiale molto più costoso di una risma di fogli». Fulvio Bufi ____________________________________________________________ Italia Oggi 25 Mar. ’14 RENDIMENTI INVALSI TOP SECRET Neanche il 30% degli istituti pubblica i risultati dei test. I presidi: trasparenza docile Giannini: la valutazione anche per premiare i docenti DI ALESSANDRA RICCIARDI Neanche 3 scuole su 10 pubblicano on line i risultati dei propri ragazzi ai test Invalsi. Un dato che la dice lunga sulla possibilità di utilizzare in modo condiviso la valutazione esterna e nazionale, di cui oggi i test Invalsi sono il principale strumento, anche per la carriera dei docenti. Il dossier «merito e stipendi» è tornato di grande attualità a viale Trastevere. É giunta «l'ora di valorizzare chi lavora meglio, altrimenti quel poco che c'è non solo non serve a migliorare la qualità complessiva ma neppure a valorizzare le singole persone», ha detto il ministro dell'istruzione, Stefania Giannini. Che ha avuto modo di spiegare: «La valutazione è utile se viene considerata come strumento di governo con l'introduzione di operazioni premiali e di penalizzazione altrimenti è solo un esercizio stilistico». L'obiettivo è chiaro, il percorso da affrontare impervio. E non solo perché il mondo sindacale, prima di parlare di premi, pretende quantomeno l'adeguamento della busta paga di tutti gli insegnanti al costo della vita, ma per una diffidenza molto più diffusa, e variamente motivata, contro il sistema di valutazione. Tanto che ad oggi meno del 30% degli istituti pubblica i risultati dei propri studenti ai test Invalsi (come emerge dalla tabella pubblicata in pagina), con punte di eccellenza nella provincia di Trento. Una scarsa propensione alla pubblicità che Giorgio Rembado, presidente dell'Anp, l'associazione nazionale presidi, spiega con la scarsa diffusione della cultura della trasparenza. «É una difficoltà culturale, non si vogliono mettere in piazza le proprie debolezze», spiega Rembado, «non siamo nel mondo anglosassone, per cui le pagelle degli istituti sono tradizionalmente pubbliche». Predica prudenza, Rembado: «Sono convinto che a volte percorsi di riforma meno dirompenti dal punto di vista della comunicazione siano più efficaci sul piano dell'attuazione e dei contenuti». I test Invalsi nel recente passato sono stati spesso contrastati dalla scuola proprio per il timore che i risultati fossero utilizzati per premiare e punire i prof. Tralasciando, è l'accusa, una serie di fattori che incidono sul rendimento degli studenti, come il contesto, la famiglia, le risorse aggiuntive di cui un istituto dispone. Un lavoro molto complesso, quello che si fa a scuola, in cui il ruolo del singolo docente è sì decisivo ma non esclusivo. E proprio per questo, ha ricordato di recente una ricerca della Fondazione Agnelli diretta da Andrea Gavosto, è difficilmente valutabile dall'esterno. Anzi, evidenzia la ricerca, legare la valutazione esterna della scuola ai premi ai docenti potrebbe essere addirittura controproducente. Per i sindacati, che ricordano come lo stipendio dei docenti italiani è in media il più basso dei paesi traino dell'Unione europea, «differenziare i salari si può fare. Ma condividendo i processi e mettendo risorse aggiuntive. E avendo prima rinnovato il contratto di base», dicono all'unisono i responsabili di Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Snals e Gilda. Intanto, sulla Gazzetta Ufficiale di ieri è stata pubblicata la legge di conversione del decreto sugli incrementi stipendiali dei docenti e Ata. Proprio il ministro Giannini dovrà ora inviare all'Aran, l'agenzia governativa per la contrattazione nel pubblico impiego, la direttiva che consente di pagare gli scatti di stipendio per anzianità di servizio a tutti. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Mar. ’14 APPELLO DEI RETTORI: «PIÙ FONDI PER SOSTENERE IL PROGETTO ERASMUS» Seicento delegati provenienti da 36 Paesi Più contributi, e differenziati a seconda del Paese di destinazione, legati al costo della vita. E anche più opportunità. Un programma Erasmus trasformato. Lo hanno chiesto i rettori degli atenei milanesi. Più contributi per rilanciare il progetto. Borse di studio differenziate, legate al costo della vita nel Paese di destinazione. E più opportunità, con doppie partenze, sia durante la triennale, sia durante la specialistica. Trasformazione di Erasmus, il programma che fa muovere gli universitari degli atenei di tutta Europa da più di vent'anni. A partire dai finanziamenti, sarà il tema affrontato al raduno annuale dell'Erasmus Student Network, che quest'anno si svolge a Milano: quattro giorni di incontri e confronto, dal 3 aprile, con seicento delegati in arrivo da 36 Paesi. Sui fondi si sono confrontati anche ieri i rettori degli atenei milanesi, riuniti all'università Bicocca per la presentazione dell'evento. «Il contributo dell'Unione europea è bloccato sui duecentotrenta euro al mese per studente, nessun intervento dal Ministero, a integrare i fondi sono le università — ha spiegato il rettore della Bicocca, Cristina Messa —. Noi ci crediamo. Abbiamo investito un milione di euro per la mobilità internazionale. Adesso puntiamo ad avere la stessa quantità di studenti in uscita anche in entrata». Lo scorso anno dalla Bicocca sono partiti in 787 e ne sono arrivati 463. Stessi numeri in Statale: 872 «outgoing» contro 642 «incoming». E anche qui sostegno dell'ateneo al progetto, con borse di studio in base al reddito. Linea condivisa anche da Bocconi, Politecnico, Cattolica, Iulm. «E il programma di maggior successo dell'Unione europea — ha detto il rettore della Bocconi, Andrea Sironi («Anch'io fra i primissimi studenti Erasmus») —. Garantire un'esperienza internazionale a tutti gli universitari è il traguardo da raggiungere per ogni ateneo ed è quello che richiede il mercato del lavoro. Oggi Bocconi è al 35% degli studenti coinvolti, vorremmo arrivare almeno al cinquanta». ____________________________________________________________ La stampa 27 Mar. ’14 L’UNIVERSITÀ, ITALIANA PROMOSSA ALL'ESAME DEI SOCIAL NETWORK GIUSEPPE BOTTERO Informano, dialogano, si confrontano. E in qualche caso creano nuovi posti di lavoro. Le università italiane sono sempre più social, connesse alla Rete. Connesse e, di conseguenza, aperte ai loro studenti. In una parola: trasparenti. A fotografare per la prima volta la presenza sul Web dei nostri atenei è la ricerca #socialUniversity, condotta dal «Centro Nexa su Internet & Società» del Politecnico di Torino. La mappatura, che si è concentrata sulle buone pratiche e sugli aspetti ancora migliorabili, ha rilevato che 1'80% delle università ha almeno un account Facebook, il più diffuso dei social network, e il 76% cinguetta su Twitter, sfruttato soprattutto dai grandi atenei. A guidare la carica delle «social università» sorp i centri del Nord (è preseti* il 90% degli atenei), mentre nel Sud la presenza si ferma al 45%. Se per la maggior parte degli istituti l'anno della svolta digitale è stato il 2011, scorrendo il rapporto si scopre che i pionieri sono stati il Politecnico di Torino (su Facebook dal 2008) e l'Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo (su Twitter dal 2009). Un dettaglio importante è scoprire chi gestisce i canali: bene, dietro la maggior parte degli account ci sono le strutture che si occupano della comunicazione esterna degli atenei. Attenzione, spiegano i ricercatori, il fatto che il 7% dei canali Facebook e il 9% dei profili Twitter sia «appaltato» a uffici che seguono esclusivamente la comunicazione social, lascia intravvedere la possibile emersione di figure professionali ad hoc anche all'interno delle università. Ma cosa combinano le facoltà in Rete? Facebook viene usato soprattutto per interagire con gli studenti, Twitter funziona invece per la diffusione delle notizie. Quali sono gli atenei più trasparenti? La ricerca ha rilevato informazioni quantitative sul seguito dei canali social non limitandosi a considerare il dato assoluto, ma - attraverso un incrocio di statistiche - rapportandolo alla popolazione attesa sui social delle diverse università. A livello assoluto, le prime dieci università per numero di follower sono quasi tutte statali, a causa delle dimensioni, tuttavia nelle classifiche relative alla «popolazione attesa» primeggiano gli istituti privati di medie dimensioni, le università per stranieri e i centri di ricerca. Gli atenei più attivi su Twitter sono l'Università di Scienze gastronomiche, la Scuola superiore di Studi avanzati di Trieste e la Normale di Pisa. Su Facebook, a guidare il gruppo c'è l'Università tematica Pegaso. Se a livello di presenza ci siamo, per quanto riguarda l'interazione i nostri atenei sono rimandati a settembre. Su Facebook infatti il 43% dei canali non permette agli utenti di lasciare messaggi in bacheca. Su Twitter invece, l'analisi degli ultimi 200 tweet per ogni account al 27 ottobre 2013 ha evidenziato come, in media, il 2% siano messaggini di risposta, e come quasi la metà dei profili (il 44%) non ne abbia mai pubblicato nessuno. C'è un altro punto per cui l'Italia è indietro rispetto alle università internazionali: le facoltà' straniere in genere usano Twitter per divulgare i risultati della loro ricerca. Noi ancora non lo facciamo. Ma attenzione, non di soli Facebook e Twitter è fatto il Web: la ricerca di Nexa ha anche rilevato che YouTube è il terzo social network per popolarità tra gli atenei, con il 61% che possiede almeno un account, utilizzato per condividere principalmente estratti di conferenze, materiale promozionale e lezioni. Riguardo le videolezioni, il 19% è presente su iTunes U di Apple, che permette di distribuire materiale didattico gratuito. Ecco i dati della prima ricerca sugli atenei in Rete L'80% ha un account su Facebook, il 76% su Twitter ____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Mar. ’14 STUDENTI AMERICANI A RISCHIO «DEFAULT» Primavera, negli Usa è tempo di safari accademici per gli stu- denti delle ultime classi del liceo (e per le loro famiglie) a caccia dell’iscrizione in uno di quei college che, solo a pronunciarne il nome, provochi reazioni d’invidia in mezzo mondo. A cominciare dall’Italia. Certo, la selezione è durissima, ci sono università che ammettono solo il 5-6 per cento degli studenti che presentano l’application. Per orientarsi meglio, per avere qualche chance in più, ci si affida a un coach che per una parcella di 10 mila dollari ti aiuterà a selezionare le accademie giuste in base alle doti di tuo figlio. Spiegandogli anche come deve presentarsi, quali attività di volontariato e sportive è opportuno mettere in evidenza. Certo, bisogna presentarsi anche con voti eccellenti ai test federali di profitto scolastico, i cosiddetti Sat (o, in alternativa, gli esami fatti con la formula Act). Per addestrarsi a rispondere presto e bene ai questionari ci si può rivolgere ad appositi tutor. Che a New York vogliono 240 dollari l’ora in media (ma i migliori ne chiedono anche 400). Se tuo figlio viene accettato, il legittimo orgoglio paterno o materno va in frantumi non appena scopri che, nonostante l’economia che ristagna e l’assenza di inflazione, la retta da 50 mila dollari l’anno chiesta da molte università, e a suo tempo bollata come scandalosa della stampa, ormai è un affare, se la trovi: le università di rango adesso chiedono 65 mila dollari l’anno, ma anche quelle medie (e a volte mediocri) raramente scendono sotto i 45-50 mila (salvo quelle pubbliche che, però, spesso sono di livello molto inferiore e impongono vari vincoli). Fino a quando un mercato del lavoro molto ricettivo garantiva un impiego ben retribuito a quasi tutti i neolaureati, le famiglie che se lo potevano permettere pagavano senza fiatare. Chi non aveva genitori benestanti accumulava un debito scolastico di qualche decina di migliaia di dollari da ripagare, poi, con una parte del suo stipendio. Ma ora che anche le università (salvo quelle al top) fabbricano molti disoccupati, si moltiplica- no i casi di neolaureati destinati alla bancarotta (o, se preferite, default) stretti come sono tra un debito che supera facilmente i duecentomila dollari e la totale assenza del reddito necessario per rimborsarlo. Non che non valga più la pena di studiare nelle università Usa: molti atenei continuano a rappresentare l’eccellenza assoluta nel loro campo, ma il sistema nel suo complesso ha attraversato un’epoca di moltiplicazione dei costi mostruosa e incontrollata: dal 1985 ad oggi la spesa per laurearsi nelle università private è cresciuta di cinque volte, mentre nello stesso trentennio il costo complessivo della vita degli americani è cresciuto solo del 121%. Perfino la vituperata sanità Usa degli sprechi senza fine ha fatto meglio: più 286 per cento. L’unica, nell’America delle specializzazioni, è affidarsi ad altri siti specializzati come Payscale.com che, comparando costi scolastici, risultati accademici e sviluppo delle carriere, misurano il rapporto costi-benefici delle varie accademie. Comprese quelle che, ha calcolato un giornale di Chicago dividendo la retta annua per le ore effettive di insegnamento negli otto mesi dei corsi, finiscono per costare 173 dollari per ogni ora passata effettivamente in classe. Insomma, puntare all’eccellenza è sempre giusto. Ma bisogna sapere che, se andare ad Harvard o al Mit fa di certo sempre la differenza, da un’università molto costosa si può anche uscire impoveriti. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 30 Mar. ’14 I PRIVATI, NUOVI PADRONI DELLA SCIENZA da Washington ENNIO CARETTO Il «New York Times» ha aperto due settimane fa un acceso dibattito sui finanziamenti privati alla ricerca scientifica. All’avanguardia fino al 2009, quando investì 40 miliardi di dollari, lo Stato americano — a cui si devono l’avvento del computer e la mappatura del genoma, l’esplorazione dello spazio e la nascita di internet — rischia ora di essere scavalcato da Bill Gates, padre della Microsoft, e dai suoi «colleghi». Ansioso di non perdere il primato, Obama stanziò un anno fa cento milioni nella «Brain initiative», futuristica ricerca sui misteri del cervello. Ma Obama era già in ritardo. Dal 2000 esistono infatti in America vari «Brain science institutes», i più famosi dei quali finanziati da Paul Allen, co-fondatore della Microsoft, e da Fred Kavli, un magnate del settore immobiliare. Il dibattito riguarda la differenza tra le motivazioni e gli obiettivi della ricerca finanziata dallo Stato e le motivazioni e gli obiettivi della ricerca finanziata dai privati. Steven Edwards dell’«Associazione americana per il progresso della scienza» afferma che «in base al contratto sociale lo Stato persegue il bene comune e l’interesse del Paese, i privati alimentano passioni e interessi propri». Ciò non è sempre vero: Bill Gates ha investito dieci miliardi in attività filantropiche. Ma desta dubbi l’eccentricità di miliardari come Ray Dalio della «Bridgewater association», alla caccia del mitico polipo gigante, e di Larry Ellison (Oracle), che finanza studi su intelligenza artificiale e genetica. Da un sondaggio, i finanziamenti privati sono solo un terzo del totale. Obama tuttavia è deciso a monitorarne la crescita, forse memore degli eccessi a cui condusse un secolo fa la ricerca sulla genetica per la creazione di una razza superiore. ____________________________________________ L’Unione Sarda 25 Mar. ’14 RAPPORTO ANVUR: CIFRE DA CENERENTOLA PER L’ITALIA DELLA RICERCA, che investe appena lo 0,52% del Pil contro lo 0,2% della media dei Paesi Ocse: un divario che può essere colmato solo con un finanziamento da tre miliardi, pari a circa un terzo del finanziamento pubblico per la ricerca italiana. È il quadro che emerge dal Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca presentato oggi a Roma dall’Anvur, l’Agenzia incaricata di valutare università e ricerca. Fra le regioni il Piemonte investe quasi quanto il Regno Unito. Superano la media Ue anche Lazio, Liguria, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia e Lombardia. Sotto la media italiana Calabria, Molise, Valle d’Aosta, Sardegna e Basilicata. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Mar. ’14 È ARRIVATA AL 54,5% LA QUOTA DELLE AZIENDE SULLA SPESA IN RICERCA ROMA La distanza italiana dai tradizionali leader dell'innovazione è ancora lì, da colmare, eppure in piena crisi, dal 2008 al 2012, l'incidenza percentuale delle imprese sulle spese totali per ricerca e sviluppo è riuscita a fare un passo avanti, passando dal 53,6 al 54,5%. È l'ultima indagine Istat, diffusa alla fine del 2013, a mettere in rilievo le tendenze della R&S intra muros, svolta cioè da imprese ed enti pubblici con proprio personale e con proprie attrezzature. L'avanguardia delle imprese italiane, capaci di innovare anche in tempo di recessione, corrisponde in larga misura anche alla platea di esportatori stabili o non saltuari che, stando a rilevazioni di Banca d'Italia, hanno reagito meglio alla seconda fase della crisi (sia in termini di fatturato che di produttività). Il circolo virtuoso ricerca- internazionalizzazione ha raccolto in questi anni sia evidenze empiriche che documentazione statistica. Senza che questo, ovviamente, possa cancellare una serie di limiti strutturali tuttora esistenti nello scenario dell'innovazione: scarsa interazione tra pubblico e privato in termini di finanziamenti incrociati; divari di spesa tra Nord e Sud anche nell'ordine di cinque volte; politiche pubbliche inefficaci (si veda il programma "Industria 2015") o in perenne corso di attuazione e con esiguità di risorse (il credito d'imposta per gli investimenti). Per tornare ai numeri dell'Istat, nel 2011, quando la spesa per R&S intra muros è stata pari a 19,8 miliardi, l'unico settore a mostrare una crescita è stato quello delle imprese (+2,3%), a fronte del calo delle istituzioni pubbliche (-1,3%), del privato non profit (-6,8%) e della crescita zero delle università. Nel 2012, secondo le stime, la spesa delle imprese si è mantenuta pressoché stabile (-0,1%) per calare nel 2013 dello 0,7%, anno in cui, però, ha pesato soprattutto il decremento dei finanziamenti pubblici (-2,1%) che ha annullato l'effetto positivo delle spese stanziate l'anno precedente. A conti fatti, nell'ultimo anno utile per un confronto, la spesa per R&S risulta così composta: imprese (54,5%), università (28,6%), istituzioni pubbliche (13,8%), privati non profit (3,1%). Nel 2008, si era rispettivamente al 53,6%, 30,5%, 12,7% e 3,2%. Il confronto internazionale ci vede comunque ancora in posizioni poco confortanti. Siamo all'1,27% (ultimi dati Eurostat), lontani dall'obiettivo del 3% del Pil enunciato dalla strategia Ue 2020, ma anche dalla media Ue (2%) e da Paesi come Germania (2,9%), Francia (2,2%), Regno Unito (1,7%). In un recente report sul sistema industriale italiano, Banca d'Italia sottolineava il valore ancora troppo basso della quota privata in Italia, 0,7%. Riconoscendo però come l'utilizzo dei tradizionali indicatori finisca per sottostimare lo sforzo innovativo in un Paese come il nostro dove è dominante la presenza di piccole e medie imprese, che tipicamente innovano senza registrare ufficialmente spese in R&S: sulla base dei dati Cis (Community innovation survey), nel periodo iniziale della crisi il 53% delle imprese italiane ha introdotto qualche innovazione, percentuale che ci colloca tra i Paesi di testa, poco al di sotto della Svezia. È sempre Banca d'Italia a evidenziare come gli sforzi in termini di innovazione si traducano anche in una maggiore propensione all'internazionalizzazione, sia commerciale che produttiva. E sui mercati esteri le performance risultano in miglioramento. In 12 anni il fatturato estero delle imprese italiane è aumentato all'incirca del 40% e, nell'industria, in otto anni la quota di aziende internazionalizzate con almeno 20 addetti è passata dal 13,4% al 18,7 per cento. Si è formata in altre parole una roccaforte di imprese con lo sguardo oltreconfine, indici di produttività più elevati e maggiore dotazione di capitale umano. C.Fo. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 30 Mar. ’14 NIENTE ILLUSIONI, L’UNIVERSO NON È MATEMATICO Narrazione saggistica serrata e avvolgente, il recente libro del fisico del Mit Max Tegmark (Our Mathematical Universe ) è un ambizioso tour de force sulle più aggiornate conoscenze fisico-cosmologiche, dalle fluttuazioni quantistiche all’estensione spazio-temporale dell’universo osservabile. Insieme concreto e speculativo fino all’azzardo, Tegmark incrina il rigore teorico-sperimentale (Big Bang e Big Crunch, energia e materia oscura) con troppi cedimenti alla fisica fanta-new age (il multiverso e i mondi paralleli); ma fatta la tara a queste concessioni meta o patafisiche, il libro ha il merito indubbio di rilanciare con forza l’ipotesi, riassunta nel titolo, di un universo intrinsecamente fisico-matematico. Pur poggiandosi sulle più recenti teorie della coscienza, Tegmark vede infatti il cervello come una soglia più passiva che attiva, una mini-specola da cui osservare e scoprire — passo a passo — la rete immutabile di relazioni numeriche entro cui si organizzano stati e dinamiche della materia, dalle galassie più remote agli alberi di una foresta, dai moti dei pianeti al traffico urbano. Nella sua versione hard — come quella di certi matematici «formalisti» — questa visione si spinge a rendere la trama matematica (aritmetica, geometria, algebra e topologia) totalmente autonoma non solo rispetto al Soggetto (al cervello), ma anche alla materia stessa. Questo senso di onnipotenza — come mostra il matematico Steven Strogatz nel suo La gioia dei numeri — è dovuto sia alle proprietà della disciplina (la sua coerenza, che si traduce spesso in concisione e bellezza), sia soprattutto alla sua efficacia descrittivo-esplicativa, tutt’altro che «irragionevole», come vorrebbe l’adagio di Eugene Wigner: vedi i nessi tra le equazioni differenziali e le leggi del moto, tra il calcolo infinitesimale e i cambiamenti di stato (dalle epidemie all’«effetto» di una palla), tra la logica binaria (0 e 1) e la codifica di suoni e immagini su un tablet. Vertice di questa efficacia sono forse le onde sinusoidali, che troviamo nelle dune desertiche, nelle vibrazioni della voce umana e nelle «increspature» della materia da cui si è originato il cosmo che abitiamo. Eppure, ricorrendo a uno scienziato cognitivo come Stanislas Dehaene o alle riflessioni di un neurobiologo come Jean-Pierre Changeux (in un dialogo memorabile con il matematico Alain Connes), possiamo ribaltare la prospettiva, e vedere gli oggetti matematici (teoremi, proposizioni, assiomi) come «oggetti mentali stabili» prodotti dall’evoluzione, selezionati e aggregati via via proprio per la loro adeguatezza nell’aderire alle regolarità del mondo esterno, di cui il nostro cervello è incessantemente vorace per meglio adattarsi all’ambiente. Questa continuità tra biologia e cultura è ben riassunta dalla simmetria, proiettata in tempi preistorici dalla nostra morfologia bilaterale in schemi di orientamento e giudizio estetico (la scelta del partner) e poi eletta a pattern artistico (come in un quadro di Piero della Francesca o in una fuga di Bach) e a principio di teorie matematiche come quella dei «gruppi», oggi decisiva nel tentativo di armonizzare la dimensione «macro» della gravitazione con quella «micro» dei quanti. È una continuità che tocchiamo, ancora più concretamente, nel «senso dei numeri» di cui siamo tutti, più o meno, dotati: riscontrato anche in altri animali (le capacità di conteggio nei ratti e nei colombi) e nei bambini già tra 2 e 6 mesi, questa predisposizione ha prodotto, in vari periodi e regioni geografiche, sequenze sempre più complesse e astratte, dalle tacche sulle ossa neolitiche per conteggiare i successi di caccia ai recenti oggetti elastici della topologia (i nastri di Moebius usati per raddoppiare certe memorie informatiche), passando per le misurazioni astronomiche babilonesi o la trigonometria usata dagli agrimensori. Ed è proprio questa storicità uno degli argomenti contro il platonismo matematico: perché se è vero che la matematica non patisce i vincoli delle scienze sperimentali — che le sue teorie non smentiscono le precedenti ma le integrano, com’è successo per le geometrie non euclidee con le euclidee — il suo processo cumulativo è ugualmente sottoposto a spietati scarti di ipotesi e a congetture tormentate, come conferma la «possessione» patologica di tanti grandi matematici. E anche se Connes insiste nel distinguere l’immenso paesaggio matematico dai suoi esploratori (la Realtà matematica dagli strumenti che la decifrano), non bisogna dimenticare che quegli strumenti sono antropomorfici, vincolati alla categorie dell’immaginazione e della logica del cervello umano. Se così non fosse, l’adeguatezza descrittiva della matematica risulterebbe davvero «irragionevole». Inoltre, indagare proprio le basi neurofisiologiche del «senso dei numeri» dissolve un altro equivoco: quello sulla glacialità anaffettiva della disciplina. Se è infatti innegabile che l’attività matematica coinvolga soprattutto aree corticali (in particolare la corteccia parietale inferiore), una simile specializzazione, come per tutte le funzioni cerebrali, va collocata in un contesto più plastico e distribuito. Lo vediamo bene nella creazione-scoperta del matematico: da un lato (esemplare il caso «proustiano» di Poincaré, che vede emergere d’improvviso la soluzione d’un problema al rientro da un’escursione geologica, dopo averlo lasciato in stand-by ) anche le intuizioni matematiche seguono un processo di incubazione-ruminazione, per lo più inconscio, in cui l’illuminazione irrompe come risonanza di elementi preesistenti. Dall’altro, l’illuminazione stessa scatena un’intensa gratificazione del cervello «limbico» (affettivo-emotivo), tanto da essere paragonata da diversi matematici all’estasi mistica. Potente in quanto linguaggio universale e privo di ambiguità, la matematica non può però trascendere limiti e vincoli; quelli intrinseci al suo stesso linguaggio (ben descritti da Gödel) e quelli dei matematici che lo producono, così come la fisica, nelle misurazioni subatomiche, ha dovuto affrontare l’interferenza dell’osservatore. Non può cioè descrivere il mondo «dal punto di vista di Dio»: le sue complesse elaborazioni si adattano ma non coincidono con gli oggetti fisici: le traiettorie dei pianeti — ricorda Dehaene — non sono ellittiche, e la Terra non è perfettamente sferica. La realtà della materia conserva sempre un margine irriducibile di irregolarità, verso cui l’astrazione matematica è insieme approssimata e idealizzante, come un guanto elegante, ma — anche di poco — troppo stretto o troppo largo. In quanto attività umana, la matematica può solo mediare tra le estensioni di materia «là fuori» (entità, proprietà e relazioni di un mondo senza etichette) e le elaborazioni che avvengono «là dentro», nella coscienza e soprattutto nell’inconscio della nostra materia cerebrale. In questo senso, e solo in questo senso, è lo strumento privilegiato che ci permette di essere «la misura di tutte le cose». ____________________________________________________________ L’Unità 27 Mar. ’14 BALLE E BUFALE DEGLI SCIENZIATI ATTRAVERSO I SECOLI DEI SECOLI CLAUDIA FUSANI DOPO AVER RIPERCORSO CASI COME LA FALSA FUSIONE NUCLEARE A FREDDO, L'ERRATA DATAZIONE DELL'UNIVERSO E LE MANCATE VIRTÙ DEI SAPONI RADIOATTIVI, APPENA TORNA- SUL LUNGARNO Gambacorti è probabile che molti pensino: meglio diffidare degli scienziati, che per una che ne azzeccano chissà quante ce n'hanno vendute per buone, e buone non erano. Il visitatore non avvertito rischia infatti di uscire da Palazzo Blu con la spaventevole o rassicurante (dipende) sensazione che gli scienziati siano dei contaballe come i giornalisti, tanto per citare una categoria che eccelle nella specialità. Già dal titolo la mostra inaugurata il 21 marzo e aperta fino al 29 giugno - «Balle di Scienza. Storie di errori prima e dopo Galileo» - sembra inoculare dosi di scetticismo. Che peraltro non fa male, se si presta attenzione a non confondere la ricerca rigorosa, che considera l'errore un passaggio positivo, con la cialtroneria truffaldina che spesso s'annida vitale nei gangli e nelle neuroconnessioni della comunità scientifica, come del resto nell' intera società. Tra le celebrazioni pisane dei 450 anni dalla nascita di Galileo, che definì le caratteristiche base del metodo scientifico, la mostra ha però obiettivi totalmente diversi dall'ingenerare scetticismo: vuole dimostrare che è sbagliando che s'impara. Concetto empirico più elegantemente articolato nella frase di Richard Feynman usata come payoff: «La scienza è fatta di errori che è utile fare perché, a poco a poco, ci portano alla verità». Feynman, uno dei padri del calcolo quantistico, teneva così tanto all'umiltà e all'understament, sotto la cui ala protettrice gli errori scientifici si fanno ma non ti si ritorcono contro, da descrivere così se stesso: «Fisico premio Nobel, insegnante, narratore e suonatore di bongo». Uno così, se fa un errore lo perdoni subito. Il titolo della mostra è ispirato da un commento del più geniale scienziato italiano del secolo scorso, Enrico Fermi, vergato su un album di appunti, grafici ed equazioni dei «suoi» ragazzi di via Panisperna che stavano lavorando sui neutroni rallentati dall'acqua o dalla paraffina. Un commento a caratteri cubitali e davvero sintetico: «!Balle!». A dire il vero, sembra che responsabile delle misurazioni non convincenti fosse Bruno Pontecorvo, come Fermi tra i migliori scienziati sfornati dalla scuola fisica pisana degli anni Trenta, poi approdato con lui all'Istituto di fisica a Roma. Quella del futuro premio Nobel 1938 e le altre del suo acuto collega Ettore Majorana non erano affatto bocciature, ma espressioni di disappunto perché le condizioni in cui le misurazioni venivano fatte non garantivano risultati affidabili. L'originale di quell'album è ora esposto a Palazzo Blu ed, effettivamente, emoziona più ancora delle prime edizioni delle opere di Galileo, generosamente concesse ai curatori Franco Cervelli e Vincenzo Napolano. La mostra di Palazzo Blu - promossa dall'Università di Pisa, dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dalla Scuola Normale Superiore - racconta, con molta interazione tra visitatori e ambienti, le false credenze, i miti, le bufale, le scoperte casuali e gli errori che hanno ostacolato o accelerato il progresso della scienza. Tra le «balle» più clamorose degli ultimi decenni, Cervelli e Napolano hanno scelto di raccontare anche quelle dei canali artificiali di Marte, della fusione a freddo annunciata da Martin Fleischmann e Stanley Pons, dei neutrini più veloci della luce, la truffa dell'omeopatia di Jacques Benveniste. Ce ne sono anche di più antiche e dimenticate. Per esempio, su un grande touch screen si possono confrontare gli effetti dei punti di vista - dalla Terra, dal Sole, da Marte etc. - sull'osservazione del moto dei pianeti del sistema solare. E rendersi conto che, date le condizioni in cui operava, Tolomeo mise a punto un modello geocentrico praticamente perfetto. Sbagliava, ma non poteva che sbagliare. E dunque fu un grande scienziato quando ancora la nozione di scienza non esisteva. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 Mar. ’14 IL MUSEO DEL BETILE, UN’ IDEA DA RILANCIARE Il progetto dell’archistar Zaha Hadid è già pronto e approvato, sarebbe un fattore forte di sviluppo turistico di Luciano Marrocu Thierry Fabre mi chiede a un certo punto: «Beh, che se ne è fatto del vostro Betile». Superata la sorpresa per il fatto che il commissario generale del Museo del Mediterraneo di Marsiglia, il MuCem, sappia del progetto pensato da Renato Soru di un grande museo nel quartiere di Sant’Elia a Cagliari, confesso con qualche imbarazzo che il progetto non è andato avanti. «Sarebbe utile riprenderlo», aggiunge Fabre, «anche pensando alla candidatura di Cagliari a capitale europea della cultura». Modello francese. Tutto questo dopo una visita al Museo, una straordinaria struttura sospesa tra cielo e mare, dalle linee modernissime ma collegata al forte Saint-Jean iniziato nel XII secolo e destinato per secoli alla difesa del porto di Marsiglia. Il MuCem offre ai visitatori un percorso museale permanente che illustra, in modo fantasioso e innovativo, la civilizzazione del Mediterraneo e destina ampi spazi a mostre permanenti. Ciò che colpisce, comunque, è l’animazione che regna nel MuCem, la quantità di gente, turisti e moltissime le famiglie e le scolaresche. Al MuCem si proiettano film, si tengono conferenze, ci sono laboratori di musica e pittura. Un sogno nero-blu. Animate soprattutto le sale dedicate alla grande mostra temporanea curata dallo stesso Thierry Fabre che si intitola “Le noir e le bleu. Un rêve mediterranéen” (Il nero e il bleu. Un sogno mediterraneo). Sia l’idea di civilizzazione sia di Mediterraneaneo sono nate nell’età dei Lumi e solo più tardi ha preso forma l’ipotesi di una civilizzazione mediterranea. La mostra esplora questa ipotesi, interrogando il sogno mediterraneo e il suo specchio, da una riva all’altra, dalla luce, il bleu, all’ombra, il nero. Lo fa mostrandoli, il bleu e il nero, sin all’inizio del percorso. Il nero delle famose tavole di Francisco Goya dedicate ai Disastri della guerra e del più celebre dei suoi Capricci, quello che ammonisce come il sonno della ragione generi mostri. Veste di nero il demone che si impossessa dell’uomo quando concepisce, progetta e infine compie la distruzione. In opposizione il bleu, illustrato da un bellissimo Bleu di Joan Mirò del 1961. Confessa Mirò: «Il bleu è il colore dei miei sogni». Commenta una didascalia a fianco del quadro: « E in questa ostinazione a sognare che i processi di civilizzazione trovano il loro senso e la loro direzione». Nuovo paradigma. Una civilizzazione mediterranea? Il Mediterraneo è anche il luogo del “noi” e degli “altri.” La polarizzazione civilizzazione- barbarie è centrale nella storia del Mediterraneo. Il percorso della mostra fa di tutto per sganciare l’idea di civilizzazione da quel sentimento di unicità e di assoluto che si fa misura della superiorità degli uni sugli altri. Non più “la civilizzazione”, quindi, ma “le civilizzazioni”. La sponda Nord e quella Sud. L’Italia e l’Africa. Una sezione della mostra è dedicata a Napoleone in Egitto.E mentre non può mancare il famoso quadro di François Watteu che illustra la battaglia delle Piramidi, gli fa da contrappunto il diario di Al-Jabarti, notabile religioso della moschea di El-Azhar, che ci dice come l’occupazione francese abbia significato «corruzione del senso comune, oltre che generale devastazione». Seguono, a poca distanza, le immagini fotografiche di Omar el-Mochatar, il leader della resistenza araba all’occupazione italiana della Libia: Omar El-Mochtar incatenato nelle mani dei funzionari coloniali italiani il 12 settembre del 1931, Omar El- Mochtar impiccato poche settimane dopo. Ma la mostra ci parla anche dell’aspirazione a un sogno mediterraneo condiviso: Paul Valery che chiede all’Europa di non «ordinare il resto del mondo a dei fini europei». Calamita turistica. Al termine del percorso, Thierry Fabre mi dice come “Le noir e le bleu” sia stata la mostra d’apertura del MuCem, avvenuta nel 2013, l’anno in cui Marsiglia è stata capitale europea della cultura. «Nel programma con cui diversi anni prima Marsiglia presentava la sua candidatura era presente il progetto del MuCem, che poi sarebbe stato inaugurato proprio nel 2013». Faccio presente che la candidatura di Cagliari è per il 2019 e che difficilmente il Betile potrebbe essere pronto per il 2019. «Non importa», dice Thierry Fabre. «Intanto, la sola idea del museo arricchirebbe la candidatura di Cagliari. Ma il premio più grande sarebbe comunque la nascita del museo. Ve lo assicuro, sarebbe un buon affare per Cagliari». Un buon affare. Sarebbe un buon affare sia per Cagliari sia per la Sardegna, questo è certo. Tanto più che del Betile esiste già un progetto firmato da un architetto famoso, Zaha Hadid. Potrebbe significare per la città, oltre alla riconfigurazione di un’intera sezione del fronte mare, anche la riconquista, una volta per tutte, di Sant’Elia, un tempo borgo di pescatori in un sito di grande valore paesaggistico ma oggi tra i quartieri più degradati e condannato, sino ad oggi, a un destino di isolamento e di separazione. Mille e una storia. Quanto alla Sardegna avrebbe la grande istituzione museale che le manca, capace di mostrare le diverse espressioni di una civilizzazione tutta nostra ma anche tutta dentro la storia del Mediterraneo. Mille storie da raccontare, non solo quelle già scritte ma anche le tante che potrebbero per l’occasione essere ripensate e scritte in una forma nuova. Sarebbe tra l’altro, il Betile, un momento importante di autocoscienza, un modo per riconsiderare il senso del nostro dirci sardi. Non un puro contenitore di reperti, ma una casa dell’identità che sappia essere aperta e fantasiosa come la struttura architettonica del progetto di Hadid. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 Mar. ’14 IL SINIS DEI GIGANTI NASCONDE UN TESORO TUTTO DA SCOPRIRE di Enrico Carta Le rilevazioni eseguite nel sottosuolo con i georadar dall’università di Cagliari Blocchi di pietra enormi: i resti della città nuragica dove nacquero i Colossi? CABRAS Le meraviglie che gli occhi vedono sono una goccia nel mare di un mondo antico, non certo piccolo, che ancora resta sepolto sotto una vastissima distesa di terra. Il Sinis potrebbe essere un giacimento di tesori. No, togliamo il condizionale, perché lo scrigno sarà aperto e brillerà come oro al sole, non appena una pur piccola parte di quelle tonnellate di terra sparirà da quei dolci rilievi coltivati a grano che si affacciano da un lato sullo stagno di Cabras e dall’altro su un mare incantato. I dubbi, al momento, appartengono solo alla proverbiale prudenza scientifica che però si appresta a essere spazzata via, proprio come quella terra che gli scavi rimuoveranno dalla zona di Mont ’e Prama. La Soprintendenza e le università di Cagliari e Sassari si apprestano a dare vita a una nuova campagna di ricerche archeologiche, che però non sarà un salto nel buio. Le prossime indagini degli archeologi sono state infatti precedute da un lavoro scientifico effettuato dall’équipe del laboratorio di Geofisica ambientale del dipartimento della facoltà di Ingegneria civile, ambientale e di architettura dell’università di Cagliari. Guidati dal professor Gaetano Ranieri, i ricercatori hanno compiuto un esame del sottosuolo con un mezzo all’avanguardia che ha già dato i suoi frutti nelle campagne condotte a Santa Maria di Neapolis a Terralba. L’università di Cagliari è l’unica al mondo a possedere questa apparecchiatura modernissima, fatta di sedici georadar, posizionati a una distanza di dodici centimetri l’uno dall’altro che vengono trascinati da un’auto a una velocità mai superiore ai venti chilometri orari. Questa strumentazione permette di esaminare il sottosuolo da una profondità che va dai cinquanta ai centottanta centimetri. Grazie ad essa, poi, un esperto è in grado di rilevare le anomalie nel sottosuolo e per anomalie si intendono elementi che non sono componenti naturali del terreno. Nella zona di Mont ’e Prama, di queste anomalie ne sono state rilevate ben 56mila. Sono pietre di dimensioni superiori a quelle che si dovrebbero trovare in quell’ambiente. Hanno un diametro che supera i quindici centimetri e quindi devono per forza essere elementi non “naturali”. Tanto più che, sebbene ancora nessuno voglia lanciarsi in ipotesi prima di avere davanti agli occhi la meraviglia del Sinis, spesso queste pietre o questi massi sono posizionati in maniera geometrica. È un disegno che la natura non può aver fatto. È qualcosa di umano, talmente umano da essere risultato per decenni impensabile. Qualcosa di assolutamente straordinario, motivo per cui le coordinate esatte della prossima ricerca sono state secretate. Forse è un santuario, il più grande santuario dell’isola di epoca tardo nuragica. Ma forse è addirittura di più, ad esempio una metropoli, se si considerano le dimensioni delle città dell’epoca, perché non sarebbe solo il terreno vicino a quello dove sono state trovate nel 1974 le statue a finire sotto la lente di ingrandimento degli archeologi. Per questo motivo si sta preparando una sinergia che vedrà in campo le migliori forze della Soprintendenza e delle università di Cagliari e Sassari, con due finanziamenti differenti, uno da 700mila legato al Progetto Arcus del Ministero e uno da 200mila che finanzia il Progetto Archeologia Mont ’e Prama che impegnerà anche gli studenti della scuola di specializzazione di archeologia Nesiotikà dell’università di Oristano. E da Oristano, l’archeologo Raimondo Zucca per prima cosa garantisce sulla bontà delle ricerche già effettuate dall’équipe del professor Gaetano Ranieri. «Nel caso di Santa Maria di Neapolis nel territorio di Terralba sono state di una precisione incredibile», spiega, prima di soffermarsi sul caso Mont ’e Prama e di lasciarsi andare all’ottimismo. «Oltre all’esame scientifico del sottosuolo ci sono poi da fare altre valutazioni – prosegue Raimondo Zucca –. Penso che una necropoli non giustifichi statue di dimensioni pari a quelle già trovate. Siamo per lo meno di fronte a un grande santuario». Ma c’è dell’altro; c’è un cambio di fronte che ormai inizia a farsi strada sempre più prepotentemente anche negli ambienti scientifici e non è più relegato esclusivamente alla mitologia politica. «I giganti dimostrano che la Sardegna, nel Mediterraneo occidentale tra il nono e l’ottavo secolo avanti Cristo – afferma l’archeologo –, era una terra di uno straordinario livello culturale. E questo significa che i sardi avevano notevoli risorse e proponevano politiche di scambio a livello internazionale. Una sfilata di statue come quella di Mont ’e Prama è emblematica della presenza di un potere governativo molto solido e ricco». C’è un cambio di visione rispetto agli studi passati. «Non è enfasi riconoscere alla Sardegna un ruolo fondamentale nella storia del Mediterraneo di quel periodo storico – conclude Raimondo Zucca –. I sardi non sono sempre stati schiavi e dominati. I sardi trasportano le loro merci in Andalusia, nel Nord Africa dal Marocco alla Libia. Le vecchie tesi non reggono più e oggi si inizia a fare i conti con un crogiolo di culture in cui i colonizzatori fenici e le popolazioni autoctone per secoli hanno vissuto l’una accanto all’altra, convergendo in interessi e traffici economici. Erano comunità miste sino al momento in cui Cartagine non cambiò la storia di questi rapporti amichevoli». Il geofisico: «Un museo a cielo aperto» «Ogni notte ho un sogno», racconta il geofisico Gaetano Ranieri. È un bel sogno, fatto di decine e decine di archeologi che da tutto il mondo arrivano nel Sinis per cercare ciò che sino a poco tempo fa era impensabile trovare. «Aprire le ricerche nel sito di Mont’e Prama e farne una sorta di museo a cielo aperto sotto il controllo della Soprintendenza e delle università sarde sarebbe una grande opportunità economica per la nostra terra», prosegue il docente dell’ateneo cagliaritano. Sarebbe un grande parco archeologico in cui ricercatori e studiosi di tutto il mondo potrebbero lavorare per tantissimi anni di seguito. «Credo che farebbero la fila da tutti gli atenei più prestigiosi del mondo per essere in Sardegna – prosegue Gaetano Ranieri –. Attraverso gli esami del sottosuolo fatti con la nostra strumentazione sappiamo che in svariati siti isolani ci sono dei tesori archeologici inestimabili. È un discorso che vale per il Sinis come, ad esempio, per Nora». (e.c.) ========================================================= ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 Mar. ’14 PER I GIOVANI MEDICI SARDI LA SPECIALIZZAZIONE È A RISCHIO di Eugenia Tognotti La Regione deve intervenire con urgenza per evitare una possibile penalizzazione dovuta all’eliminazione del requisito della residenza Nubi all’orizzonte e non solo per i giovani medici sardi neoabilitati che aspettano, con comprensibile ansia, che sia definito il loro percorso di formazione e specializzazione. Complice la novità di quest’anno, cioè il concorso nazionale per le scuole di specializzazione e la drastica riduzione delle borse, si profila il rischio di una riduzione delle possibilità di accedere alle Scuole, a vantaggio di medici provenienti da altre realtà territoriali, che verrebbero così formati a spese della Regione Sardegna. In gioco non ci sono solo, com’è evidente, i destini personali dei singoli. Ma anche qualcosa chiamata programmazione sanitaria e il futuro assetto delle strutture e degli enti del servizio sanitario regionale. A cui naturalmente deve essere assicurata l’opera di professionisti adeguatamente formati e in grado di rispondere nel migliore dei modi alle domande di cura di quella che, nel mondo della sanità pubblica, viene generalmente chiamata “utenza”. Ora, per comprendere bene perché, qui e ora, i giovani medici si trovano davanti a quel rischio, occorre andare all’antefatto, come si fa nei romanzi. Fino al 2012, la Regione sarda, applicando quanto previsto dallo Statuto speciale per la Sardegna in materia d’istruzione, consentiva alle Università sarde di acquisire nei propri bilanci risorse finanziarie aggiuntive rispetto a quelle erogate dallo Stato, allo scopo di permettere l’accesso di un certo numero di laureati alla frequentazione delle scuole di specializzazione in area medica. Erano richiesti tre specifici requisiti: nati in Sardegna, figli di emigrati sardi, residenti da 6 anni nell’isola. Requisiti che non corrispondono, con tutta evidenza, alla difesa egoista e miope, di uno ius loci. Ma ad una precisa esigenza di incentivare il percorso di formazione dei giovani laureati locali e assicurare, quindi, anche per questa via, il diritto alla salute dei sardi. Sennonché quell’anno, il Miur, nel fissare con decreto il numero e la ripartizione dei contratti ministeriali di formazione specialistica medica, ha stabilito che per cinque discipline - Cardiochirurgia, Chirurgia toracica, Medicina Fisica e Riabilitazione, Nefrologia, Scienza dell’alimentazione - gli Atenei di Cagliari e Sassari diventassero sedi aggregate ad Università non sarde (Roma e Genova). Avendo anche determinato che eventuali posti aggiuntivi regionali dovessero essere destinati all’Ateneo sede amministrativa e che solo queste potessero richiederle, è successo che i due Atenei ‘continentali’ non hanno accettato l’attivazione di contratti aggiuntivi destinati alla Regione Sardegna, opponendo che erano restrittivi e inapplicabili riguardo ai requisiti di territorialità. La diretta conseguenza è stata la perdita del finanziamento di ben 15 contratti di specializzazione in quelle cinque discipline mediche. I passi della precedente Giunta per scongiurare vuoti nella risposta al fabbisogno formativo, hanno però complicato la situazione, data la riduzione del numero delle borse per quest’anno accademico e la novità del concorso nazionale per le scuole di specializzazione. La riscrittura delle norme (L.R 7/12 del 5 febbraio 2013), ha portato, infatti, ad eliminare il requisito della residenza di sei anni, stabilendo che per accedere a tutte le Scuole è sufficiente essere residenti nel territorio isolano alla data della stipulazione del contratto di formazione specialistica. In sostanza, un giovane proveniente da qualsiasi sede della formazione medica della Penisola, che ha partecipato e superato il concorso nazionale, potrebbe chiedere e ottenere la residenza pochi giorni prima del bando. Col bel risultato di andare incontro, a fronte di un importante investimento di fondi regionali, ad un vuoto sul mercato del lavoro di figure professionali necessarie al funzionamento del sistema sanitario. Il problema è serio e bene ha fatto il rettore dell’Università di Sassari a chiedere di modificare la L.R del 2013 e di portare a tre anni il requisito di residenza. Potrebbe essere uno dei primi impegni della nuova Giunta regionale. Se si comincia bene, cioè con il capitale umano, si è già a metà dell’opera. ____________________________________________________________ Repubblica 25 Mar. ’14 TEST DI MEDICINA: AL LICEO GLI STUDENTI VANNO IN TILT Sono quasi 90mila i liceali che affronteranno le selezioni. Molto prima dell'esame di Maturità. E protestano, mentre i prof avvertono: "Non funzionano, per la scuola non studiano più"di SALVO INTRAVAIA Test di Medicina alle porte e studenti delle superiori in tilt. Le prove di ammissione alle facoltà a numero programmato nazionale - Medicina, Odontoiatria, Veterinaria e Architettura - anticipati per la prima volta ad aprile, stanno mettendo in seria difficoltà quasi 90mila studenti dell'ultimo anno delle superiori italiane: quasi uno su cinque. Da diverse settimana, infatti, i ragazzi che aspirano al camice bianco o sognano una carriera da architetto alla Renzo Piano si stanno dannando l'anima per studiare quanto servirà loro per superare il maledetto test d'ingresso. Prova che quest'anno inizierà l'8 aprile con Medicina e Odontoiatria per proseguire il giorno successivo con veterinaria e il 10 aprile con Architettura. E' la prima volta che i test sono stati anticipati ad aprile. L'anno scorso erano previsti per il mese di luglio, immediatamente a ridosso della conclusione degli esami di maturità. Ma poi, sull'onda della protesta scoppiata per la questione del bonus-maturità, vennero posticipati a settembre. Quest'anno invece, abolito il bonus delle polemiche, si faranno ad aprile. E gli studenti stanno accusando il peso di una doppia preparazione. "E' da anni che insegno ai ragazzi del triennio e le cose dallo scorso anno sono peggiorate", spiega Rosa Soriano, docente di Lettere al liceo classico Vittorio Emanuele II di Lanciano, in provincia di Chieti. "L'anno scorso - continua la prof - i test furono fissati a luglio e i ragazzi per mesi si sono preparati alla maturità con la testa già proiettata al test di ammissione". "Ma quest'anno è ancora peggio. I miei colleghi si lamentano del fatto che diversi alunni, anche bravi, stanno accusando un calo del rendimento scolastico. Ma che senso ha fare i test ad aprile senza avere terminato i programmi dell'ultimo anno?", si chiede la docente. Parecchi studenti seguono faticosi, e costosi, corsi di preparazione pomeridiani che, avvicinandosi le date del test, si stanno intensificando. Così interrogazioni e compiti in classe possono attendere. "Prof, per ora non posso studiare per la scuola. Dopo l'8 aprile mi rimetterò a studiare per la maturità", dicono spesso agli insegnanti i ragazzi che chiedono loro una mano. E se l'ingresso ad Architettura non sarà proibitivo - un posto ogni due candidati - ma per le facoltà che prevedono il camice bianco - Medicina, Odontoiatria e Veterinaria - le cose cambiano. Sei candidati su sette al test dell'8 aprile - Medicina - saranno esclusi, nonostante tutti gli sforzi profusi in questi mesi. Per circa 69mila candidati sono previsti meno di 10mila posti infatti. E, dopo i test, i docenti dovranno gestire anche la delusione derivante dall'esclusione di quello che in tanti inseguono come un sogno. Ma non solo. "Molti ragazzi, avendo tolto tempo alla preparazione, probabilmente - conclude la Soriano - avranno anche un voto più basso alla maturità. Non riesco a comprendere il senso di tutto questo. Non si prendono decisioni così delicate senza avere ascoltato insegnanti e studenti", sbotta infastidita. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 25 Mar. ’14 MEDICINA, LA SCORCIATOIA DI TIRANA ORA HA LA CERTIFICAZIONE DEL TAR Come sanno i 69 mila studenti che l’8 aprile si «sfideranno» per gli 8 mila posti di matricola nelle facoltà di Medicina, si tratta di un percorso a numero chiuso. Ma, anche no. Perché il test di ammissione si può aggirare. Alcuni studenti già si erano ingegnati ma ora c’è la certificazione del Tar del Lazio che in una sentenza di poche settimane fa stila una serie di indicazioni che implicitamente riaprono il numero chiuso. Come? Basta iscriversi all’Università di Nostra Signora del Buon Consiglio di Tirana, pagare una sostanziosa retta, sostenere con profitto gli esami in italiano del primo anno e richiedere l’ammissione a una delle Università — da Milano, a Roma, Bologna e Bari — che dieci anni fa si erano impegnate a far sorgere un ateneo che nelle intenzioni originarie doveva aiutare a «europeizzare» l’Albania dopo i drammi dei Balcani negli anni 90 e che ora diventa una porta girevole per diventare medici quando il test di ammissione si è rivelato un muro invalicabile. I giudici del Tar hanno dato ragione a una studentessa che, dopo aver frequentato tre anni nella facoltà di Tirana, chiedeva di essere ammessa al quarto anno a Tor Vergata. L’ateneo aveva detto di no. Il Tar ammette che è ragionevole che a Tor Vergata vogliano «evitare da parte di alcuni studenti veri e propri aggiramenti dell’obbligo preselettivo mediante l’iscrizione al primo anno e al superamento di pochi e più semplici esami in altre Università straniere». Tuttavia, poiché «il piano di studi», la lingua e i professori sono coincidenti con quelli di Tor Vergata, la studentessa e chi fa come lei hanno diritto di tornare nell’ateneo che non li aveva accolti. Ora naturalmente dovrà decidere il Consiglio di Stato se le aperture del Tar ai «bocciati» del numero chiuso sono da confermare. Il Tribunale amministrativo del Lazio ha messo un solo limite agli studenti, che studino con profitto. E alla studentessa di Tor Vergata fa impliciti complimenti visto che nella sentenza i giudici apprezzano il suo «profitto brillantissimo» in Albania . Gianna Fregonara ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 Mar. ’14 I MANAGER DELLE ASL DOVRANNO LIMITARSI A GESTIRE I CONTI Nell’attesa dello spoil system, l’assessore Arru ha deciso: «Non dovete andare oltre l’ordinaria amministrazione» CAGLIARI Non è ancora tempo per lo spoil system, il cambio politico di dirigenti e manager negli enti, nelle Asl e nelle agenzie regionali, ma dalla giunta Pigliaru un messaggio è arrivato lo stesso chiaro, diretto, inequivocabile: «Nell’attesa, chi è in carica si deve limitare all’ordinaria amministrazione». La raccomandazione ancora più esplicita è questa: niente concorsi, assunzioni e tanto meno spese diverse da quelle correnti, perché i manager dovranno mantenere un profilo basso fino a nuovo ordine. Sanità. Il primo assessorato a mettere lo sbarramento nelle spese è stato quello alla sanità. Luigi Arru l’ha proprio detto e subito scritto in una circolare inviata agli otto manager delle Asl, dell’Azienda speciale del Brotzu e anche ai due delle Miste, Cagliari e Sassari, fra Regione e Università: «Tutti i direttori generali – ha confermato Arru – sanno da giorni che dovranno attenersi a regole ferree e non potranno andare oltre la normale gestione dei conti». Era inevitabile che fosse così in attesa del possibile ma non ancora scontato azzeramento dei vertici aziendali. La giunta ha ancora a disposizione quasi tutti i novanta giorni previsti dallo spoil system e dunque non ci saranno scelte affrettate e automatiche, come sostenuto più volte dal presidente Pigliaru, che vuole valutare caso per caso. Le Asl, come si sa, sono poi un caso da studiare persino con maggiore attenzione soprattutto dopo la delibera di febbraio, la salva-bilanci, della giunta Cappellacci. È la delibera da 115 milioni con cui il centrodestra voleva permettere nei fatti ai manager delle Asl di pareggiare i bilanci e quindi non rischiare il licenziamento in tronco per essere stati «cattivi amministratori», come prevedere la legge. Quello che sembrava uno scoglio insormontabile o comunque andava aggirato con una legge del Consiglio, come fece a suo tempo Cappellacci quando subentrò a Soru, sarebbe stato superato così: l’ultima tranche del superfinanziamento non sarebbe stato accreditato ancora alle tredici aziende sanitarie che avrebbero quindi lo stesso i conti in rosso. Certo, è un’escamotage (pare sostenuto da alcuni intralci burocratici nel trasferimento dei fondi) ma è servito a bucare il paracadute di febbraio, la salva-bilanci, e nel frattempo permesso all’assessore di firmare la circolare: «Mi raccomando, limitateci all’ordinaria amministrazione». Quando sarò il tempo dello spoil system la giunta dovrà affrontare anche un’altra cinquantina di casi che vanno dalla Sfirs alle Agenzie agricole, da Sardegna promozione alle Saremar. La burocrazia. Nella prima giunta operativa, Pigliaru e i dodici assessori hanno discusso anche su come affrontare le «evidenti disfunzioni della macchina Regione». Pare che sul tema ci sia stato un fitto confronto fra l’assessore agli affari generale e personale, Gianmario Demuro, e il resto della giunta. Oltre alla riorganizzazione, c’è da affrontare con urgenza anche la scadenza fra pochi mesi del mandato a diversi dirigenti facenti funzione. Fra gli assessori c’è chi ha sollecitato concorsi immediati per evitare il blocco della macchina amministrativa, ma c’è la spending review ed è una strettoia. La soluzione? È nelle mani di Gianmario Demuro. (ua) ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 29 Mar. ’14 ASL3: STOP DELLA REGIONE ALL’ATTO AZIENDALE, RISCHIO DI CAOS ALL’ASL Precise disposizioni del neo assessore regionale Luigi Arru Da concordare anche l’affidamento di incarichi professionali di Pier Luigi Piredda NUORO Stop all’atto aziendale dell’Asl 3. Il primo documento ufficiale del nuovo assessore regionale alla Sanità, il nuorese Luigi Arru, presidente dell’Ordine dei medici di Nuoro e aiuto nel reparto di Ematologia del’ospedale San Francesco, è stato quello di inviare un dettagliato elenco di disposizioni ai direttori generali dell’Asl e dell’Aou della Sardegna e, quindi, anche a quella in cui ha prestato la sua opera fino a qualche giorno fa e della quale conosce ogni più piccolo dettaglio. Le disposizioni sono contenute in un documento pubblicato, oltre che sul sito istituzionale della Regione, soltanto su quello dell’Azienda ospedaliero universitaria di Cagliari. La circolare dell’assessore è ricca di elementi che denotano la sua perfetta conoscenza della materia, delle criticità e dei problemi legati all’applicazioni dei vari atti aziendali. In particolare per gli affidamenti degli incarichi, materia particolarmente scottante. «In questa fase di transizione e di avvio di un nuovo processo di programmazione del Servizio sanitario regionale – ha scritto l’assessore nella nota – non possono essere adottati provvedimenti che rischiano di condizionare pesantemente la programmazione dei servizi e che incidano in maniera rilevante sui costi, con la conseguenza di aggravare i già consistenti disavanzi di sistema. ...sussiste quindi la necesità di emanare precise disposizioni sulle procedure da seguire per determinate categorie di atti, eccedente l’ordinaria amministrazione, per la cui adozione dovrà essere preventivamente acquisita l’autorizzazione dell’assessato». E dopo questa premessa, in cui viene precisato l’orientamento della Giunta regionale guidata da Francesco Pigliaru sul futuro della sanità sarda, l’assessore Arru ha elencato gli otto punti fondamentali ai quali i direttori di Asl e Aou devono attenersi in questa fase. Le aziende sanitarie dovranno chiedere preventivamente l’autorizzazione all’assessorato regionale per la stipula di contratti per lo svolgimento di attività specialistica e di assistenza ospedaliera. Autorizzazioni preventive della Regione anche per tutti gli atti di disposizione del patrimonio al di fuori dell’ordinaria amministrazione, per la contrazione di mutui e altre forme di indebitamento e per contratti superiori ai 500mila euro. Ma anche per il ricorso a lavoro temporaneo, convenzioni, consulenze e contratti di collaborazioni a progetto, che potranno essere fatti solo in casi eccezionali e per esigenze inderogabili, ma all’interno dei limiti di spesa previsti dalle norme. Poi, l’affondo decisivo sull’argomento forse più scottante e che tanto ha fatto e sta facendo discutere all’interno dell’Asl 3: gli affidamenti degli incarichi. «Dovrà essere fatta richiesta preventiva all’assessorato per l’istituzione o la soppressione di qualsiasi struttura o servizio – ha sottolineato l’assessore, confermando così la perfetta conoscenza della situazione soprattutto nell’Azienda nuorese, ma non solo –. E preventiva autorizzazione dovrà essere richiesta anche per l’attribuzione di qualsiasi incarico gestionale di dipartimento, struttura complessa o semplice o professionale». Che cosa succederà adesso nell’Asl nuorese, dove l’Atto aziendale con gli incarichi, la soppressione di strutture e altre decisioni prese dai vertici sono state appena applicate? ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 28 Mar. ’14 LA METRO ORA COLLEGA SAN GOTTARDO E IL POLICLINICO MONSERRATO. In corso verifiche sui due chilometri della metropolitana leggera Avanti e indietro, da San Gottardo al Policlinico, per molte ore, per quasi un giorno intero. Dall'altro eri (lo farà ancora per diverse settimana) il tram-collaudatore va e viene, lungo i binari della metropolitana leggera, a caccia di qualcosa che non va, che dev'essere immediatamente corretto prima dell'inaugurazione ufficiale, quando finalmente motrice e vagoni correranno carichi di studenti e pendolari per traghettarli dalla stazione di piazza Repubblica, a Cagliari, al Policlinico universitario di Monserrato. IL PERCORSO Un viaggio andata e ritorno atteso da tempo, annunciato come imminente e affidato - per la tratta San Gottardo-Policlinico - a una data ufficiale: giugno 2013. Poi rimasta indietro e già dimenticata. Mentre spunta un altro appuntamento con il taglio del nastro: giugno 2014. Un anno dopo la speranza svanita della scorsa estate. LE DATE In effetti, il direttore regionale dell'Arst, Carlo Poledrini, preferisce, per la partenza ufficiale, mantenersi vago. «Fine maggio primi di giugno, non dovrebbero esserci altri slittamenti», spiega non rinunciando al condizionale scaramantico. È invece certa la data di fine lavori: il 28 aprile. «Ora una società specializzata sta provvedendo al collaudo statico, i lavori principali sono in effetti ultimati da tempo e si sta procedendo con la messa a punto dei dettagli di natura impiantistica, delle verifiche elettriche». Subito dopo sarà il momento dell'esercizio provvisorio. «Significa - spiega Poledrini - che per un certo periodo, lungo la tratta dei due chilometri San Gottardo- Policlinico, circoleranno sì i tram ma senza le persone». Una sorta di ulteriore collaudo previsto dalla legge per garantire il massimo della sicurezza che anticipa il nulla osta con cui ministero dei Trasporti e organismi preposti ufficializzeranno l'apertura definitiva del nuovo tratto della metropolitana. Quando il tram inizierà a fischiare, allora anche la nuova stazione di San Gottardo aprirà i battenti. Tra la gioia di chi, già ora, viaggia tra Cagliari e Monserrato e che da quasi due anni deve fare i conti con un impianto finito e mai aperto. «Lo faremo - dice il direttore dell'Arst - insieme all'apertura dei binari». VERSO SETTIMO Tempi lunghi, anzi bui per quella fetta di ferrovia che dovrà invece unire San Gottardo a Settimo San Pietro. «Dipende dagli organismi superiori», dice Poledrini. «Ci sono problemi di natura tecnico-amministrativa, è la prima ferrovia col sistema tram-treno e le norme non aiutano, sono inadeguate. Ma si sta comunque cercando di accelerare i tempi». Andrea Piras ____________________________________________________________ Repubblica 27 Mar. ’14 RICETTE ELETTRONICHE, VALIDITÀ IN TUTTE LE REGIONI. RIMBORSABILI FARMACI PRESCRITTI IN ITALIA E ACQUISTATI NELLA UE A differenza di quelle cartacee, le prescrizioni elettroniche permettono di acquistare il medicinale in tutto il territorio nazionale. Novità anche dallo Schengen della salute per chi si sposta nei confini europeidi VALERIA PINI Lo leggo dopo ROMA -Addio alla ricetta rossa, su quei fogliettini che si consegnano al banco del farmacista. Entro fine anno la versione elettronica dovrebbe coprire gran parte delle prescrizioni. Fra le novità, c'è il fatto che avrà validità su tutto il territorio nazionale. Sarà possibile, come stabilito dalla legge 221/2012, per un cittadino andare in qualsiasi farmacia del paese per ritirare il farmaco, anche se questo è stato prescritto dal medico di un'altra regione. Lo stabilisce il decreto del presidente del Consiglio in materia, anticipato dal Quotidiano di Sanità. Ora saranno le Regioni a decidere come attuare il provvedimento. Il Dpcm spiega come deve avvenire proprio la compensazione tra Regioni del rimborso per la ricetta elettronica. La farmacia che avrà consegnato il medicinale prescritto a persone residenti altrove, dovrà chiedere il rimborso alla Asl di appartenenza del paziente. Per ora la diffusione delle ricette elettroniche è ancora limitata, ma entro la fine dell'anno il nuovo sistema dovrebbe coprire gran parte delle prescrizioni. Ricetta transfrontaliera. Novità in vista anche per gli italiani che si trovano in altri Paesi europei, per vacanza o per lavoro: sarà possibile per loro usufruire della ricetta transfrontaliera. In pratica potranno ottenere attraverso farmacie all'estero, farmaci prescritti in Italia. E' una delle rivoluzioni della cosiddetta 'Schengen della salute', la direttiva europea recepita con il decreto legislativo che entrerà in vigore il prossimo 5 aprile. L'Europa della salute. Oltre alla possibilità di ricevere prestazioni mediche negli altri paesi dell'Unione Europea, infatti, per i cittadini comunitari è previsto anche il mutuo riconoscimento delle ricette mediche. A differenza delle cure transfrontaliere non sarà necessaria autorizzazione, ma così come per le cure, anche per i farmaci, la prassi prevede che il cittadino italiano che si presenta in farmacia con la ricetta emessa in Italia (la validità resta di 60 giorni), paghi di sua tasca e poi ne chieda il rimborso alla propria Asl, una volta tornato a casa, ma non oltre i 60 dall'acquisto. A quel punto l'azienda sanitaria restituirà i soldi entro due mesi. Sarà possibile per tutti i cittadini Ue ottenere nelle farmacie italiane medicinali prescritti all'estero. Ognuno dei 27 Stati dell'Unione dovrà definire un proprio modello di ricetta "transfrontaliera", valida cioè in tutti gli altri Paesi dell'Ue. Sarà un problema burocratico non da poco. Toccherà alle farmacie dello Stato di arrivo riconoscerne la validità, tra 27 modelli differenti. Federfarma ha già fatto sapere che aprirà presto nel proprio sito web un'area dove saranno raccolti i 'fac-simile' di tutti i modelli autorizzati", una specie di database che possa "permettere alle farmacie un'agevole identificazione delle ricette provenienti da altri Stati". Alla prescrizione "transfrontaliera" si applicheranno comunque le norme nazionali riguardanti la sostituzione di una specialità con il farmaco dal minor prezzo. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 Mar. ’14 SANITÀ: TRASPORTI E CONSULENZE AL TOP TRA LE SPESE PER ACQUISTI Asl e ospedali. Nel 2012 per la prima volta superate le uscite per il personale Paolo Del Bufalo Roberto Turno ROMA Rallenta la crescita per l'acquisto dei «beni», dai farmaci alle convenzioni alle alte tecnologie. Ma sale, e anche vistosamente, la spesa per comprare i «servizi», sia sanitari che non sanitari: dai trasporti alle consulenze alla formazione. E aumentano del 400% le uscite per leasing e service. Mentre Matteo Renzi e Carlo Cottarelli si preparano a limare la spending review per l'intero corpaccione della Pa, puntando l'indice anche sugli acquisti da parte della burocrazia, ecco che dalla spesa di asl e ospedali per B&S arrivano conferme di un universo da tenere sotto osservazione, ma allo stesso tempo anche segnali che qualcosa, in questi anni, in fondo è stato quanto meno modificato negli atteggiamenti del Servizio sanitario nazionale. Qualcosa, ma certo non basterà. In fondo sono qualcosa più di un indizio gli ultimissimi dati appena sfornati dal ministero dell'Economia nella «Relazione generale sulla situazione economica del Paese 2012». Dati di un anno fa, ma i più freschi a disposizione visto che il rapporto consegnato alle Camere arriva con ben dodici mesi di ritardo rispetto al timing naturale. Dati, dunque, che costituiscono anche per la sanità pubblica previsti punti di riferimento. Senza scordare appunto che l'acquisto di beni e servizi da parte del Ssn continua a restare in cima all'agenda delle misure di contenimento dei costi che il Governo s'è dato. Misure su cui anche il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, s'è più volte espressa, a cominciare dalle prime note dolenti del sistema degli acquisti: la necessità di gare trasparenti e di centrali d'acquisto il più "uniche" possibile. Un tema, questo, che del resto dovrebbe entrare in qualche modo anche nell'ormai mitico «Patto per la salute» in discussione con i governatori. Il rapporto dell'Economia – anticipato dal settimanale «Il Sole-24 Ore Sanità» (www.24oresanita.com) – evidenzia intanto una novità in assoluto per la sanità pubblica: per la prima volta infatti, nel 2012, s'è registrato il sorpasso della spesa per l'acquisto di beni e servizi rispetto a quella del personale, tradizionalmente la "prima" delle voci di uscita del Ssn. La spesa per il personale dipendente – dopo i blocchi contrattuali e del turn over – era pari a 35,6 mld, in calo dell'1,4% sul 2011, mentre al contrario per B&S la spesa è stata di 36,1 mld con una crescita totale dell'1,7 per cento. Ma attenzione, perché a tenere alta l'asticella dei costi delle uscite per beni e servizi è stata la voce «servizi»: un aumento che ha fatto segnare +7,5% in un anno, dopo il decremento del 4,3% registrato tra il 2011 e il 2010. A incidere, segnala la relazione, sono state in particolare le spese per i trasporti sanitari, per le consulenze e la formazione del personale, per le collaborazioni, il lavoro interinale e «altre prestazioni di lavoro non sanitarie». Altra voce in salita, quella per manutenzioni e riparazioni, in aumento del 3,7% (+2,6% nel 2011) con la punta massima del +8,1% per l'acquisto dei materiali per le manutenzioni. Mentre addirittura quadruplica - dal +1% del 2011 al +4,1% del 2012 - l'incremento delle spese di leasing e service, e crescono invece più lentamente rispetto al 2011 (+2,1%) quelle per i servizi sanitari appaltati come lavanderia, pulizia, mensa, e riscaldamento. Uniche voci a calare tra i beni e servizi sono state le spese riferite a interessi passivi e oneri finanziari, in riduzione del 7,9% (+6,7% nel 2011). E diminuiscono, ma solo dello 0,9%, imposte e tasse: meno personale, meno Irap, è l'equazione "vincente". Altra sorpresa che emerge dalla relazione 2012 dell'Economia, sono i dati riferiti all'attività intramoenia dei medici pubblici. Spese a carico degli italiani, che nel 2012 hanno sborsato di tasca propria 1,2 mld. E che per la prima volta vedono un calo del 2,17% (24,6 mln in meno). Anche questo un segnale della crisi per gli italiani. E per i medici: che hanno "perso" 119 mln (-11,3%) dei loro guadagni extra. Mentre il Ssn ha realizzato 94,5 mln in più nel giro di dodici mesi. Più del doppio di un anno prima. A carico dei cittadini, vale ripeterlo. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Mar. ’14 SANITÀ, NELLA SPENDING DELLE REGIONI CENTRALI D'ACQUISTO E TAGLI «ESTESI» Controllo della spesa. Il 4 aprile riparte il tavolo con il governo sul Patto per la salute Roberto Turno ROMA Di cifre non ne fanno. Non è il momento, meglio andar cauti, anche perché il principio lo considerano sacro: tutti i risparmi devono restare nel Servizio sanitario nazionale per investire in «efficacia ed efficienza» delle cure. Ma, detto questo, sono pronti ad aggredire l'intera spesa (36,1 miliardi) per beni e servizi di asl e ospedali: farmaci, dispositivi medici, emoderivati e vaccini, protesi, ristorazione, servizi di pulizia e lavanderia, trasporto, vigilanza, smaltimento rifiuti. Anche le spese di manutenzione di immobili e impianti e i costi energetici. Eccola la spending review dei governatori per la sanità pubblica. Una cura di risparmi e di "buona spesa", che vede nelle centrali d'acquisto e nei processi sia di programmazione che di trasparenza e competizione nelle gare, il motore del cambiamento. Quanto meno annunciato. Ma non senza toccare alcuni punti nevralgici del sistema: come una indefinita «revisione del modello distributivo dei farmaci» o la spinta ai farmaci generici e a quelli biosimilari. È con queste premesse, e con l'impegno di darne sostanza nel «Patto per la salute» al tavolo col Governo che ripartirà il 4 aprile, che le regioni sono pronte a presentare le loro proposte a Carlo Cottarelli in vista della stretta che si profila sulla revisione della spesa pubblica. Una revisione che nel "piano Cottarelli" soltanto per beni e servizi varrebbe almeno 10,3 miliardi in tre anni, dei quali la spesa sanitaria costituisce senz'altro un boccone prelibato, anche se non cifrato a parte. Messe a punto dalla "commissione salute" delle regioni, le proposte saranno convalidate a ruota dai governatori. Dopo di che, da maggio in poi, una volta chiuso il «Patto», si dovrebbe partire con la stretta alle spese fuori ordinanza. E chissà, risparmiare davvero. Rafforzare la governance del sistema degli acquisti in ambito sanitario, è la parola d'ordine, per potenziare la pianificazione e l'aggregazione della domanda di beni e servizi. Con una serie di precisi paletti: centrali d'acquisto in tutte le regioni; obbligo di affrontare alcune categorie merceologiche (farmaci e affini, dispositivi medici ad alta standardizzazione come le siringhe, servizi di pulizia, lavanderia, ristorazione, vigilanza) a livello aggregato sia con centrali d'acquisto che con aggregazioni stabili di enti come le «aree vaste», per poi estendere ad altre categorie standardizzabili a livello centrale; prezzi di riferimento; processi strutturati di programmazione degli acquisti; formazione degli operatori; massima demateralizzazione dei processi d'acquisto. Sui farmaci, poi, si propongono quattro direttrici: acquisti online, gare che creino concorrenza tra principi attivi diversi ma con «sovrapponiblità terapeutica», immediato ingresso tra i generici dei principi attivi che scadono, aggiornando le regioni sulla scadenza dei brevetti, sviluppo nel mercato dei farmaci biosimilari. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Mar. ’14 IL MEDICO PAGA LA PERDITA DI SOPRAVVIVENZA Cassazione civile. Il risarcimento spetta anche se la malattia avrebbe comunque avuto esito infausto Patrizia Maciocchi Anche se la diagnosi non lascia scampo la perdita di chance di sopravvivenza del paziente va risarcita quando l'intervento del medico l'ha compromessa. La Cassazione, con la sentenza 7195 depositata ieri, chiarisce che la tutela patrimoniale del diritto a mantenere intatte le proprie chance di sopravvivenza è configurabile in maniera autonoma rispetto al diritto alla vita o all'integrità fisica. Un distinguo che era sfuggito ai giudici di merito che, sia in primo grado che in appello, avevano respinto il ricorso del marito di una signora morta di cancro a cinquanta anni. Alla donna era stato tolto un solo ovaio, con una scelta di chirurgia conservativa ingiustificata per l'età ma soprattutto per lo stadio molto avanzato della malattia che avrebbe suggerito un intervento radicale. Ma proprio la fase finale della patologia aveva indotto i giudici di prima e seconda istanza a negare il risarcimento in base a un calcolo statistico. La Corte d'appello si era basata su una sorta di distinzione tra chance risarcibili e non risarcibili, fondata su un criterio percentuale. Sarebbe risarcibile solo la perdita di occasioni favorevoli «con un grado di probabilità statisticamente consistente o quanto meno non irrilevante» quantificato nella misura del 50% in su. Per la verità la Corte d'appello aveva dato conto anche di un orientamento che farebbe scattare il risarcimento anche sotto quella soglia, bollandolo però come minoritario. Una scelta di campo che tagliava fuori il ricorrente perché, in base a statistiche epidemiologiche, la paziente in caso di un'operazione corretta avrebbe avuto il 41% di possibilità di superare i 5 anni dall'intervento. La Cassazione ribalta però il punto di vista dei giudici di merito, dando rilevanza al fattore tempo quale componente essenziale del bene della vita. Con la conseguente rilevanza di ogni fatto che ne determini la cessazione. Il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale nei confronti degli aventi diritto dovrà essere messo in relazione solo all'anticipazione della morte, a prescindere dai numeri. Questi ultimi entrano in gioco solo nella fase della quantificazione del danno: «le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto». La Cassazione rinvia alla Corte d'appello perché decida di nuovo nel rispetto del principio affermato ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 26 Mar. ’14 Professioni. Cambia la deontologia CODICE DEI MEDICI: CINQUE MOSSE ANTI-CONTENZIOSO Paolo Del Bufalo Barbara Gobbi Un focus speciale sugli errori per evitare i contenziosi medico-paziente. Un freno alle voglie di "uomo bionico" e regole sulla medicina informatizzata. La lotta al dolore come compito primario dei medici. Sono solo alcune delle novità in arrivo col nuovo Codice deontologico degli oltre 360mila dottori d'Italia che, ormai alla stesura finale, attende ora le ultime limature per dettare da metà maggio la deontologia medica. Ed ecco il nuovo Codice d'Ippocrate – anticipato dal settimanale «Il Sole 24 Sanità» (per il testo www.24oresanita.com) – che affronta – cercando di prevenirle - le conseguenze più "negative" della medicina. In particolare, con l'esplosione dei contenziosi medico-legali che valgono miliardi di spesa per la "medicina difensiva" a carico del Ssn, il testo si appunta su «prevenzione e gestione degli eventi avversi e sicurezza delle cure». Così il medico sarà «tenuto» a promuovere le più idonee condizioni di sicurezza, secondo 5 regole auree: adesione alle buone pratiche cliniche; attenzione al processo di informazione e di raccolta del consenso; comunicazione di un evento indesiderato e delle sue cause; sviluppo continuo di attività formative e valutative sulle procedure di sicurezza delle cure; rilevazione, segnalazione e valutazione di eventi- sentinella, siano errori, "quasi-errori" o eventi avversi. Nel sua parte più "filosofica" e avanzata, poi, pensa moderno il Codice nel tentativo di affrontare, oltreché le nuove frontiere della medicina, anche le richieste al medico di interventi per potenziare le capacità fisiologiche e psicofisiche: la medicina "potenziativa", o cybermedicina. «Precauzione» e «proporzionalità» sono le parole d'ordine, ma senza alterare identità e peculiarità genetiche dell'individuo. Ma soprattutto un'efficace informazione al paziente. Strettamente legata alla cybermedicina, ecco l'informatica: telemedicina, teleconsulenza, teleconsulto entreranno nel Codice etico dei medici, allargando al settore princìpi e cautele della cybermedicina, e in più il rispetto della multidisciplinarietà e della partecipazione dell'assistito. Nell'era di internet, insomma, fare da soli non ha più senso. Infine, la rilettura, e anche più, del «sedare dolorem» di Ippocrate. Il Codice ricorda ai medici il dovere di astenersi da trattamenti diagnostico-terapeutici «non proporzionati» e che, invece, il controllo efficace del dolore è sempre «un trattamento proporzionato». Niente accanimento quindi, ma anche mai più dolore. Anche perché il «cittadino» diventa «persona», perché il diritto alle cure è di tutti «anche di chi cittadino non è», come gli extracomunitari. ____________________________________________________________ Italia Oggi 27 Mar. ’14 IL NASO PUÒ DISTINGUERE MILLE MILIARDI DI ODORI Si pensava fosse in grado di riconoscerne soltanto 10 mila Il naso umano è in grado di distinguere mille miliardi di odori, e non soltanto 10 mila come si riteneva finora. A questa conclusione è giunto Andreas Keller, ricercatore al laboratorio di neurogenetica comportamentale dell'università Rockefeller di New York, che ha pubblicato un articolo sulla rivista Science. L'odorato è molto più sviluppato degli altri sensi: l'occhio sarebbe il naso umano è in grado di distinguere mille miliardi di odori, e non soltanto 10 mila come si riteneva finora. A questa conclusione è giunto Andreas Keller, ricercatore al laboratorio di neurogenetica comportamentale dell'università Rockefeller di New York, che ha pubblicato un articolo sulla rivista Science. L'odorato è molto più sviluppato degli altri sensi: l'occhio sarebbe i fra 2,3 e 7,5 milioni di colori e l'orecchio circa 340 mila tonalità diverse. L'esperimento di Keller si è basato sulla creazione di 260 soluzioni attraverso 128 molecole odoranti, mescolate in gruppi di 10, 20 o 30 composti. Quindi 28 persone, sottoponendosi a un test semplice, hanno riconosciuto le differenti sostanze. Per ognuna di esse bisognava sentire tre fiale da laboratorio: due contenevano la stessa composizione e la terza, invece, un'altra. Ciascuno doveva distinguere quelle che avevano lo stesso odore. Utilizzando questa «discriminazione di odori», come è stata definita, si è riusciti a estrapolare il numero teorico di coppie di miscugli che potevano essere create. Facendo un calcolo statistico i ricercatori hanno ritenuto che fossero almeno mille miliardi gli stimoli differenti riconosciuti da una persona dotata di una capacità olfattiva media. Secondo Jean-Pierre Royet, studioso di neuroscienze all'università di Lione, il lavoro condotto è ingegnoso ed elegante: esso indica un numero di odori molto più vicino alla realtà finora accettata, che si basava su calcoli fatti nel 1927. Ma c'è di più, poiché Keller ritiene che la cifra di mille miliardi sia in realtà prudente. Lo studioso è affascinato da questo argomento e spiega che l'olfatto umano è molto più semplice e primitivo rispetto alla vista e all'udito. L'approfondimento dei sistemi semplici rende possibile la scoperta dei principi di base. Il funzionamento del naso è da molto tempo oggetto di dibattito. Vi sono, dunque, molti punti fermi. L'essere umano ha a disposizione 350 recettori specifici legati all'odorato. Al punto che, sostengono gli esperti, il sistema visivo ha bisogno soltanto di tre geni per scoprire lo spettro dei colori. Invece i recettori olfattivi che si trovano nelle narici sono gli unici a essere in contatto con l'ambiente esterno. I recettori visivi sono protetti dalla cornea, quelli uditivi dal timpano. Ciò spiega il motivo per cui la sostituzione dei recettori olfattivi è molto frequente, in media una volta al mese. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 30 Mar. ’14 MALATI DA AMIANTO IL PICCO DEVE ANCORA ARRIVARE Un nemico che colpisce dopo molto tempo È un nemico subdolo, che colpisce a distanza di anni e continua a fare vittime anche oggi. Anzi: secondo studi scientifici ed epidemiologici il picco di malattie provocate dall’esposizione all’amianto si raggiungerà nei prossimi 15 anni. Da qui il monito a non abbassare la guardia venuto dagli esperti nel corso di una conferenza internazionale, svoltasi di recente a Roma su iniziativa dell’Osservatorio nazionale amianto, l’associazione onlus che raggruppa lavoratori ex esposti, familiari delle vittime,medici, ricercatori, avvocati, ingegneri. «Secondo le nostre stime — afferma l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio — i mesoteliomi con esito infausto sono circa 1.500 l’anno, i tumori polmonari almeno tremila e, se si aggiungono le altre patologie asbesto-correlate, siamo ben oltre i 5 mila morti per amianto ogni anno». Sebbene l’uso di questo minerale, dichiarato cancerogeno dalla comunità scientifica internazionale già negli anni Sessanta, sia stato vietato nel nostro Paese ormai ventidue anni fa da una legge dello Stato (n. 257 del 1992), la sua pericolosa eredità rimane tuttora, soprattutto a causa del lungo periodo di latenza delle malattie asbesto-correlate, in particolare del mesotelioma, uno dei tumori più aggressivi: passano perfino 40-45 anni tra l’inizio dell’esposizione all’amianto e il momento in cui si manifesta la malattia. Quelle fibre inalate tanti anni fa ora fanno ammalare soprattutto i lavoratori esposti; risale agli anni Ottanta, prima della sua messa al bando, il periodo di massima produzione di questo materiale molto utilizzato perché economico, versatile e resistente anche al fuoco; veniva impiegato non solo nelle fabbriche di cemento-amianto, nei cantieri navali e in diversi siti industriali, ma anche per costruire case, scuole, ospedali. «In diversi casi, in barba alla legge, si è continuato a usare l’amianto fino al 2004 attraverso deroghe tecniche — denuncia Paolo Pitotto, medico del lavoro e consulente della Procura della Repubblica di Milano —. E l’esposizione continua oggi, anche perché uno dei principali problemi da risolvere è la dismissione dei materiali con amianto». Il loro deterioramento, anche semplicemente dovuto alla vetustà, può essere causa di rilascio di fibre e può quindi nuocere alla salute (vedi articolo sotto ). «La mancata rimozione dell’amianto espone al pericolo le persone sia in ambito lavorativo sia negli ambienti di vita — sottolinea Pitotto — e continueranno ad aumentare le malattie asbesto-correlate». Le fibre di amianto inalate possono causare placche pleuriche e ispessimenti della pleura o malattie più gravi, anche se meno diffuse, come: asbestosi; mesotelioma pleurico, pericardico, peritoneale, della tunica vaginale o del testicolo; carcinoma polmonare. In quest’ultimo caso, spiega Luciano Mutti, direttore del laboratorio di oncologia clinica all’Asl 11 di Vercelli: «Il rischio è maggiore se le fibre di amianto interagiscono con un altro agente cancerogeno, il fumo di sigaretta. Secondo studi, inoltre, l’amianto fa aumentare il rischio di tumori gastrici, delle ovaie, di laringe e faringe». Secondo i dati aggiornati al 2008 del Registro nazionale dei mesoteliomi, che attua una sorveglianza epidemiologica su tutta la popolazione, i più a rischio rimangono i lavoratori, ma circa l’8-10% dei pazienti si è ammalato per motivi ambientali, vivendo vicino a siti contenenti amianto, o in quanto familiari dei lavoratori esposti, per esempio a causa di residui su indumenti. Maria Giovanna Faiella ____________________________________________________________ Corriere della Sera 30 Mar. ’14 SERVE UNA LEGGE NAZIONALE PER LE PERSONE AUTISTICHE Una legge nazionale che permetta finalmente una regolamentazione uniforme dei diritti delle persone con autismo, disturbo cronico dello sviluppo del sistema nervoso centrale, causa di una disabilità che coinvolge l’ambito sociale, comunicativo e comportamentale. In occasione della VII Giornata Mondiale della consapevolezza dell’autismo, il 2 aprile prossimo, è questa la richiesta pressante avanzata da quanti sono affetti da disturbi dello spettro autistico - e dai loro familiari - che ancora oggi incontrano difficoltà nell’ottenere una diagnosi tempestiva, nell’accedere a terapie mirate e che devono confrontarsi con un tessuto sociale poco adatto alle loro esigenze. Sono ormai 6 le proposte di legge depositate in Parlamento (4 al Senato e 2 alla Camera) che chiedono l’adozione delle Linee guida (21 del 2011) sul trattamento dei disturbi dello spettro autistico dell’Istituto Superiore di Sanità e delle Linee di indirizzo per la promozione e il miglioramento della qualità e dell’appropriatezza degli interventi assistenziali sull’autismo (approvate in Conferenza Stato – Regioni il 22 novembre 2012), con l’introduzione di Lea (Livelli essenziali di assistenza) anche per questi disturbi. In base agli ultimi dati della Federazione Nazionale delle Associazioni a Tutela delle Persone con Autismo e Sindrome di Asperger (Fantasia) solo cinque Regioni hanno deliberato il recepimento delle Linee di indirizzo: l’Emilia Romagna, la Lombardia, il Veneto, l’Umbria e la Puglia. «Ma anche in queste regioni l’esito non è soddisfacente — spiega Liana Baroni, presidente dell’Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici (Angsa) —. La Lombardia è stata l’unica a stanziare dei fondi, ma poi tutto si è bloccato» Insomma, c’è ancora molta strada davanti. «Sappiamo che il ministero della Salute sta incalzando le regioni inadempienti — dice Giovanni Marino, presidente della Federazione nazionale Fantasia — . Come associazioni stiamo lavorando affinché l’adozione delle Linee di indirizzo non sia un mero atto notarile, ma sia tradotta in termini di organizzazione dei servizi sanitari del territorio». Anche perché, come spiega Lucio Moderato, psicologo direttore dei Servizi diurni territoriali della Fondazione Sacra Famiglia e direttore scientifico della Fondazione Oltre il Labirinto: «La sfida del terzo millennio è fare in modo che l’autismo non produca una grande disabilità, in diverse aree di sviluppo. Perché non è tanto l’autismo che impedisce una vita di inclusione e normale, ma è la disabilità da esso prodotta ad impedirlo, disabilità che è funzione dell’educazione, dell’apprendimento e dell’abilitazione ». Ruggiero Corcella ____________________________________________________________ Corriere della Sera 30 Mar. ’14 CUORE: GUIDE SEMPRE PIÙ PRECISE PER «BRUCIARE» ALLA SORGENTE LE ARITMIE PERICOLOSE Entrare nel cuore, mirare dove il tessuto “impazzisce” provocando sbalzi del ritmo cardiaco e colpire con la punta di un catetere, scaldata a circa 48 gradi grazie alle radiofrequenze. Il paziente non sente nulla, ma tanto basta a risolvere molte aritmie: è l’ ablazione transcatetere , un metodo per guarire dalle alterazioni del battito già da anni utilizzato nella pratica clinica, e su cui si è fatto il punto durante l’ultimo congresso dell’Associazione Italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione (Aiac). Non sempre è necessario entrare nel cuore: per una parte delle aritmie che non rispondono a farmaci, si può ricorrere alla cardioversione elettrica, con la quale una scarica elettrica applicata sul torace provoca una contrazione simultanea delle fibre muscolari del cuore, per ristabilire un ritmo normale. In casi in cui questa procedura non è indicata, l’ablazione transcatetere può guarire e non solo curare: per aritmie semplici la probabilità di risolvere il problema una volta per tutte, con un intervento che dura 1-2 ore e richiede un paio di giorni di ricovero, è elevatissima. Diverso è il caso di situazioni complesse, come la fibrillazione atriale (si veda articolo a lato ) o le aritmie ventricolari, che sono spesso difficili da trattare. In queste ultime l’alterazione del ritmo si fa sentire nei ventricoli, è quasi sempre associata ad altri problemi cardiaci seri (come lo scompenso o l’infarto) ed è molto pericolosa: quando il battito accelera così tanto da diventare scoordinato e caotico si ha infatti la fibrillazione ventricolare , che provoca il decesso a meno di intervenire tempestivamente con un defibrillatore esterno o una scossa salvavita erogata da un defibrillatore impiantabile (si veda sotto ). «Nei pazienti più compromessi, come chi ha già avuto una tachicardia ventricolare o soffre di gravi cardiopatie ed è a rischio di morte improvvisa, l’ablazione è più difficile, ma può comunque essere una strada da tentare per rendere il cuore meno vulnerabile alla fibrillazione ventricolare — spiega Corrado Carbucicchio, responsabile dell’Unità di Terapia Intensiva Ventricolare dell’Istituto Cardiologico Monzino di Milano —. La procedura, in caso di aritmie ventricolari, è complessa anche perché spesso riguarda soggetti anziani, fragili per la presenza di altre malattie. Nei Centri con più esperienza i risultati sono comunque soddisfacenti e riusciamo a ridurre il pericolo di aritmie mortali con un miglioramento clinico in circa il 70% dei casi più critici». Questo è diventato possibile negli ultimi anni grazie a nuove tecnologie che consentono un “mappaggio” iper-preciso dell’interno del cuore, permettendo ai medici di trovare con maggior sicurezza i punti da cui partono i segnali di aritmia. Prima di agire, infatti, occorre avere una mappa elettro-anatomica delle cavità cardiache, per capire esattamente dove bisogna “bruciare” il tessuto: con il metodo convenzionale occorre indurre la tachicardia nel paziente per vedere dove origina, ora con le tecniche tridimensionali questo momento critico è minimizzato e soprattutto si riconoscono meglio le zone da trattare. «Mappe più precise hanno consentito di cambiare, dove necessario, anche l’approccio ablativo — dice Carbucicchio —. In passato quasi sempre dovevamo entrare con il catetere in una vena o un’arteria per poi raggiungere il cuore e operare da dentro, ora poco meno della metà dei casi può essere trattata dall’esterno, appoggiandoci sul cuore, perché sappiamo esattamente dove colpire: spesso il corto circuito aritmico nasce infatti anche da aree cardiache periferiche, non raggiungibili dalle cavità e assai più accessibili da fuori. Le ecografie intracardiache inoltre, che consentono di osservare da vicino i dettagli anatomici del cuore, aiutano a ricostruire una mappa estremamente precisa, aumentando la possibilità di valutare al meglio la situazione e quindi dare al paziente una risposta terapeutica ottimale, anche nei casi più complessi». «Pure l’imaging con la risonanza magnetica sta aiutando ad applicare l’ablazione meglio e in un maggior numero di pazienti, grazie alla possibilità di ricostruire un panorama del cuore reale, non virtuale, e nei minimi particolari — aggiunge Maurizio Lunati, direttore dell’unità di Elettrofisiologia presso il Dipartimento Cardiotoracovascolare dell’ospedale Niguarda, di Milano —. Oggi, inoltre, si può usare il cosiddetto criopallone per agire su zone più ampie: in passato se le aree da ablare erano grandi bisognava eseguire le lesioni punto per punto, aumentando i tempi di intervento e il rischio di complicanze. Ora abbiamo cateteri con un palloncino sulla punta che vengono sistemati sotto guida radiografica nella zona da trattare; quindi, un liquido refrigerante nel pallone abbassa moltissimo la temperatura di tutta l’area toccata dalla sfera, abbattendo l’attività elettrica e causando l’ablazione. Grazie a questa e a molte altre innovazioni tecnologiche è stato possibile, negli ultimi anni, ridurre i tempi di intervento da 5-6 ore ad appena 2 ore, con una diminuzione del 75% dell’esposizione ai raggi durante la procedura. Ciò ha consentito percentuali di successo che arrivano anche all’80%, a seconda dell’aritmia: il miglior farmaco antiaritmico non arriva neppure alla metà». In queste settimane, inoltre, al Centro Monzino sta partendo l’esperienza di ablazione sotto guida diretta della risonanza magnetica, per ridurre ulteriormente l’esposizione radiologica dei pazienti, perché l’imaging non si basa su radiazioni ionizzanti; inoltre, al Monzino e al San Raffaele di Milano, è disponibile la biopsia endomiocardica guidata dall’imaging con cui capire a fondo le cause e i meccanismi dell’aritmia così da intervenire con un’ appropriatezza sempre maggiore. «Queste innovazioni però danno una marcia in più soprattutto a chi è già esperto. La tecnologia che può realmente fare la differenza, in qualsiasi Centro, è il sensore di pressione — interviene Riccardo Cappato, direttore del Centro di Aritmologia Clinica ed Elettrofisiologia del Policlinico San Donato di Milano —. Applicato sulla punta degli elettrodi, informa l’operatore di quanto stia premendo sul tessuto e di conseguenza quanto calore stia rilasciando: associare la pressione, e quindi la quantità di energia erogata, all’esito dell’ablazione informa su come si deve agire per avere una procedura durevole e non troppo aggressiva; inoltre, se riusciremo a creare un database ampio in cui correlare tutto ciò alle conseguenze cliniche per i diversi tipi di pazienti, potremo finalmente far sì che le percentuali di successo senza ricadute, oggi elevate soprattutto nei pochi Centri di eccellenza, possano essere raggiunte anche da chi ha meno esperienza. Il sensore di pressione è uno strumento semplice, che dà però un immediato riscontro oggettivo di ciò che si sta facendo: senza, la capacità di “sentire” fin dove occorre spingere resta affidata solo alle mani e all’esperienza del medico». «Nonostante tutte le innovazioni, l’ablazione resta tuttora una tecnica raffinata, attraverso cui cerchiamo di interpretare che cosa non va, lavorando di fino per isolare le parti “instabili” del cuore. La speranza per il futuro? Riuscire a ricostruire i circuiti elettrici malmessi del cuore» conclude Carbucicchio. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 30 Mar. ’14 CUORE: ARMI EFFICACI LIMITANO IL RISCHIO DI ICTUS Ablazione e nuovi farmaci contro la temibile complicanza della fibrillazione Sono quasi un milione gli italiani che soffrono di fibrillazione atriale , l’aritmia più diffusa in assoluto: il rischio di ammalarsi nel corso della vita è del 25% a partire dai 40 anni e cresce con l’età. I battiti irregolari e accelerati dovuti alla fibrillazione rallentano il flusso di sangue nelle cavità cardiache, favorendo la formazione di coaguli. «Questi poi si frammentano ed escono nel flusso sanguigno, dove possono andare a occludere i vasi. Nel 50% dei casi finiscono nel cervello, dove possono provocare da piccole ischemie transitorie fino a ictus fatali» spiega Gianluca Botto, presidente Aiac. Si stima che circa 1 caso di ictus su 3 sia dovuto a fibrillazione atriale. Ogni anno sono circa 500 mila i ricoveri correlati alla malattia, per un costo pari a poco meno di tre miliardi di euro. È necessario quindi curare bene i pazienti, per risolvere l’aritmia e prevenirne le conseguenze: se ne è parlato nei giorni scorsi a Firenze al congresso «Conoscere e curare il cuore». «Oggi come farmaci antiaritmici si usano soprattutto dronedarone e propafenone — spiega Francesco Prati, presidente del congresso e cardiologo del San Giovanni Addolorata di Roma —. Per risolvere la fibrillazione è possibile ricorrere all’ablazione transcatetere, a cui non si dovrebbe però guardare come ”ultima spiaggia” dopo anni di convivenza con la malattia: se ci si sottopone alla procedura senza aspettare che il cuore sia troppo danneggiato la probabilità che l’aritmia non si ripresenti più è alta, a patto di affidarsi a mani esperte». «L’ablazione è l’unico metodo curativo e non palliativo, per questo ha sollevato molte aspettative — spiega Riccardo Cappato, direttore del Centro di Aritmologia Clinica del Policlinico San Donato di Milano —. In caso di fibrillazione atriale parossistica , la forma più semplice in cui le crisi aritmiche si spengono da sole, la guarigione completa dopo 1-2 procedure è possibile in circa il 60-75% dei pazienti: in questi casi l’aritmia parte spesso dalle vene polmonari e basta “isolarle” dall’atrio per risolvere quasi sempre il problema. Contro le fibrillazioni atriali permanenti o persistenti, invece, non abbiamo dati che dimostrino un’efficacia altrettanto certa: sono aritmie più complesse, che originano da un maggior numero di aree cardiache, la possibilità di un’ablazione con risultati stabili nel tempo perciò diminuisce e dipende molto dall’esperienza di chi opera, che deve calibrare attentamente il danno provocato al tessuto cardiaco. Detto questo, per molti pazienti l’ablazione cambia la vita, liberandoli dalla necessità dei farmaci e riducendo i fastidi: in alcuni casi è possibile che serva più di un intervento e i malati ne devono essere informati per non nutrire false speranze, ma le possibilità di guarigione sono buone». Fin quando non si è eliminata la fibrillazione atriale con un’ablazione, però, occorre seguire una terapia anticoagulante per evitare la formazione dei trombi che potrebbero provocare gli ictus. «I farmaci classici sono gli antagonisti della vitamina K (come dicumarolo e warfarin , ndr ), efficaci ma “difficili” da usare perché danno molte interazioni con altri medicinali e diversi cibi; inoltre la loro concentrazione in circolo non è stabile — spiega Botto —. Chi è in trattamento deve fare esami del sangue ogni 2-3 settimane, per “aggiustare” i dosaggi e controllare lo stato di coagulazione: un eccesso di effetto infatti può aumentare il rischio di emorragie. Tutti questi disagi possono essere superati con i nuovi anticoagulanti orali (apixaban , dabigatran e rivaroxaban , ndr ), in grado di ridurre molto il rischio di ictus e allo stesso tempo anche il pericolo di emorragie, “tagliate” di due terzi rispetto ai vecchi prodotti. Inoltre, questi farmaci danno pochissime interazioni con alimenti e altri medicinali, e restano nel sangue in concentrazioni stabili, liberando dall’obbligo di controlli regolari. Il neo è il costo, circa cento volte più alto; gli studi di economia sanitaria hanno mostrato che la spesa sarebbe ampiamente ripagata dai risparmi connessi alla riduzione di ictus, emorragie ed esami e sarebbe perciò da considerare in un’ottica di investimento». Per il momento, stando ai dati diffusi di recente dall’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri, i pazienti in cura con i nuovi medicinali sono il 6-8% di chi avrebbe l’indicazione a usarli. Secondo i cardiologi dell’Anmco non è colpa dei criteri di prescrivibilità adottati dalle Regioni, oggi omogenei: il problema è il “percorso a ostacoli” per la prescrizione, che prevede di compilare un piano terapeutico molto approfondito e scoraggia tanti perché richiede parecchio tempo, merce rara negli ospedali. «Va anche precisato che alcune cautele possono essere comprensibili, perché conosciamo meglio i vecchi prodotti e abbiamo invece meno indicazioni certe su come si debbano maneggiare i medicinali nuovi in situazioni cliniche comuni, ad esempio quando si deve controllare lo stato di coagulazione prima di una cardioversione elettrica. Dobbiamo perciò costruirci un po’ di esperienza; detto questo, pare evidente e inevitabile che questi farmaci soppianteranno gli altri, in futuro» conclude Prati. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Mar. ’14 NON SONO SOLO APP. LE TECNOLOGIE CHE SERVONO ALL'UMANITÀ SONO ALTRE L'innovazione che conta Luca De Biase aViek Wadhwa non la manda a dire: «I ragazzi in Silicon Valley si occupano di quello che credono sia interessante. Ma, spesso, perdono di vista quello che è importante. Passano un sacco di tempo e spendono un sacco di soldi degli investitori cercando di fare l'ennesima applicazione più o meno inutile. Eppure le loro tecnologie potrebbero risolvere i grandi problemi dell'umanità. E a quei problemi dovrebbero e potrebbero dedicare la vita». Wadhwa è vicepresidente per la ricerca e l'innovazione alla Singularity University, oltre che fellow all'Arthur & Toni Rembe Rock Center for Corporate Governance della Stanford University. Non la manda a dire neppure al fondatore dell'idea della "singularity", Ray Kurzweil, convinto che con la crescita esponenziale delle capacità di elaborazione dei computer, si avvicini il momento in cui l'elettronica diventerà tanto potente da trasformare l'umanità in una nuova specie: «Non mi interessa confondermi con le macchine. Non credo che sia importante occuparsi di questo. Mi interessa l'innovazione in medicina, energia, alimentazione: insomma, quello che conta per l'umanità». Wadhwa, incontrato al Global Entrepreneurship Congress di Mosca, ha un messaggio fondamentale: l'innovazione può davvero risolvere le questioni aperte più dolorose della popolazione umana sul pianeta. «Tutta questa vicenda dei sensori che tengono sotto controllo lo stato di salute delle persone sta generando una quantità di dati inimmaginabile. Big data e salute convergono. Finiremo col poter monitorare il rapporto tra stili di vita e salute in modo capillare ed efficace, tanto da prevenire le malattie invece che curarle. E riaprendo la strada per cure personalizzate, perché l'abbondanza di dati abbatterà i costi di produzione delle medicine su misura. Le farmaceutiche, paradossalmente, hanno bisogno di grandi quantità di malati per ripagare i costi dello sviluppo dei loro prodotti. La prevenzione è molto più intelligente. Ed è a portata di mano». Nell'alimentazione, il discorso è analogo. «Il monitoraggio delle colture conduce alla conoscenza necessaria all'agricoltura idroponica, che è destinata a migliorare molto. Sensori e dati aperti renderanno l'innovazione nel settore sempre più veloce. Le fattorie verticali in città sono una possibilità reale. E in un mondo che si riempie di aree urbane a scapito della campagna, sono una necessità reale». E i costi dell'acqua? «Il costo dell'energia per desalinizzare l'acqua marina è in discesa verticale. Arriveremo al momento in cui l'energia solare consentirà di ricavare tutta l'acqua che serve per le colture idroponiche direttamente dall'oceano a prezzi estremamente convenienti. Il percorso è accelerato dalle nanotecnologie». Per Wadhwa, questi scenari, del tutto realistici, sono l'opportunità di molti centri dell'innovazione sul pianeta. «L'Italia può fare passi da gigante in questi filoni di innovazione. I costi scendono, le conoscenze si moltiplicano, le opportunità si aprono. Mentre in Silicon Valley si occupano delle loro stupide app, gli italiani possono occuparsi delle questioni veramente importanti». E non solo gli italiani. Certo, a Wadhwa si potrebbe replicare che i big data che servono alla nuova medicina derivano in gran parte dall'uso di "stupide app" per monitorare la salute in chiave fai-da-te. E che i costi dei sensori stanno crollando al punto da poterli usare in agricoltura senza problemi perché i consumatori non cessano di acquistare gadget. E Wadhwa, di fronte all'obiezione, si dice d'accordo. In fondo, il suo pensiero è ecosistemico: ci vuole anche il lavoro innovativo svolto alla Silicon Valley. Non per niente la sua università si trova proprio là. E dalla valle trae il suo fascino. Ma il suo punto è un altro: l'innovazione non si fa solo a Silicon Valley. E non si fa solo sui temi preferiti a Silicon Valley. Ci sono altri spazi. Molto importanti. Anche per i poli innovativi italiani. Il messaggio è chiaro: e vale la pena di coglierlo. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Mar. ’14 NON È MAI TROPPO TARDI (SUL WEB) di Luca De Biase Gli italiani che non hanno mai usato internet sono quasi il 37%, secondo l'Annuario Scienza, tecnologia e società 2014 di Observa, e gli analfabeti funzionali sono il 47%, secondo l'ultima rilevazione disponibile, del 2009, pubblicata dallo United Nations Development Programme. Evidentemente alcuni usano internet anche se non hanno facilità con la lettura. Secondo Tullio De Mauro è uno dei pochi motivi di ottimismo: per quelle persone, internet è un motivo per riprendere l'abitudine alla lettura. L'analfabetismo funzionale e digitale impedisce alle persone di vivere appieno nella società contemporanea e di cogliere le opportunità che offre, afferma la Commissione Ue. Le iniziative che si occupano di combattere questa latente discriminazione culturale si moltiplicano. Un programma pionieristico, in Emilia Romagna, che si dimostra ogni anno più riuscito è «Pane e internet»: l'approccio è divertente e orientato a insegnare l'uso dei servizi disponibili in rete. Quasi 10mila persone hanno frequentato i corsi, quasi 5mila sono in lista d'attesa. Spesso sono anziani che in questo modo si mettono al passo con i nipoti e scoprono un mondo di possibilità. I corsi non hanno niente di complicato, sono realizzati con una modalità molto amichevole e per niente orientata alla tecnologia. Il programma può essere facilmente riprodotto in altre regioni. Di sicuro nello Stato – e alla Rai – si trovano persone altrettanto illuminate che da tempo pensano ad affrontare il tema. E se per ora non si è visto nulla non significa che non succederà in futuro. Intanto, i ragazzini sono più avanti. Per loro, alfabetizzazione non significa usare le tecnologie, ma sapere come funzionano per modificarle creativamente. I volontari di CoderDojo, per esempio, insegnano a programmare con un metodo superdivertente. Del resto, l'alfabetizzazione non si ferma alla capacità di lettura, ma arriva alla capacità di scrittura. Per passare all'azione. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 30 Mar. ’14 MALATTIE RARE. OPPURE ORFANE? costi eccessivi delle cure Lucio Luzzatto Quando a Robin S, un bambino australiano di 3 anni, fu fatta diagnosi di sindrome emolitico-uremica (SEU), il giovane medico dell'Ospedale di Brisbane disse ai genitori che si trattava di una "malattia rara". Questi, superando l'immediato sgomento, risposero: «Per noi non è rara per nulla, abbiamo già perso una bambina con la stessa malattia». Questo aneddoto vero illustra un dramma che non di rado si associa a quelle che sono da anni riconosciute ufficialmente come malattie rare (definite dal limite arbitrario di meno di un caso su 2mila persone). In primo luogo, la rarità è statistica: in quella famiglia per sfortuna la SEU aveva colpito entrambi i figli (100%). In secondo luogo, la maggioranza delle malattie rare hanno una base genetica, sono in tutto il mondo ed alcune sono potenzialmente mortali. In terzo luogo, non è raro che sulla propria malattia rara i pazienti e i familiari ne sappiano più di molti medici. Su queste malattie si è tenuto il 25 marzo nella settecentesca Villa Camozzi (Istituto Mario Negri) a Ranica (Bergamo) una riunione internazionale presieduta da Silvio Garattini, Richard Horton e Giuseppe Remuzzi. Da tempo i malati di malattie rare si sono sentiti trascurati: in molti casi non si conosce un trattamento efficace, ed anche la diagnosi è spesso tardiva; tanto che è stato coniato il sinonimo di malattie orfane. Negli Stati Uniti sin dal 1983, anche grazie all'attivismo di alcune organizzazioni di pazienti, fu promulgata una legge chiamata Orphan Drugs Act (ODA), intesa a scuotere l'inerzia dell'industria farmaceutica, che non vedeva convenienza ad investire in un farmaco che servisse solo a pazienti rari. Uno degli incentivi più attraenti introdotti dall'ODA è stata la concessione dell'esclusività per 10 anni, adottata poi anche in Europa. L'ODA è stato un successo: nel solo periodo 2010-2013 sono stati approvati 85 farmaci orfani. In effetti, almeno per alcune (poche) malattie alcuni farmaci finalmente esistono: ma mentre all'inizio le industrie temevano che investimenti in questo settore fossero votati alla perdita, oggi i farmaci orfani sono, paradossalmente, tra i più dispendiosi del mondo. Un caso limite è l'eculizumab: un anticorpo monoclonale che blocca il complemento, un prodotto raccomandato per il trattamento di due malattie rare: l'emoglobinuria parossistica notturna (EPN), e da poco anche la SEU, quella di cui soffriva il bambino di Brisbane, che ha chiesto di venire a curarsi a Bergamo perché in Australia non riesce ad ottenere il farmaco. Un motivo c'è: il trattamento con eculizumab, che deve essere continuativo con una infusione ogni due settimane, costa circa € 330.000 l'anno. Secondo i dati del sito Orphanet le malattie rare sono 6.858; anche se 80% dei malati rientra nelle 400 meno rare tra le rare. Una questione che non sempre risulta nelle comunicazioni al pubblico è che queste malattie hanno sì affinità negli aspetti epidemiologici, legislativi e di salute pubblica, ma dal punto di vista scientifico e clinico sono quanto mai disparate. In altre parole, non esiste uno specialista in malattie rare ma sono il neurologo, il nefrologo, l'ematologo, e via dicendo, che devono conoscere, oltre alle malattie più comuni dei rispettivi settori, anche le più rare. Perciò la riunione di Bergamo non pretendeva di affrontare le malattie rare in genere, bensì il problema specifico (e difficile) di come evitare che terapie nuove siano economicamente proibitive; e di come rendere accessibili a tutti le terapie già oggi disponibili. Da questo punto di vista è stato notevole essere riusciti a riunire esperti di settore (malattie metaboliche, renali, del sangue) con economisti, farmaco-economisti, funzionari europei, e il presidente di Orphanet, Ségolène Aymé. La discussione è stata accesa, perché ad alcuni sembra che le cose vadano abbastanza bene. Ad altri sembra invece che stiamo testimoniando una contrapposizione tra industria farmaceutica privata che continuamente deve convincere i suoi azionisti ed investitori che sta realizzando il massimo del profitto, ed un sistema sanitario pubblico che deve pagare il conto. Per la prima i malati di malattie rare sono un mercato; per il secondo sono cittadini che hanno avuto un po' di sfortuna in più, ed ai quali a maggior ragione dobbiamo un servizio efficace. La discussione è stata ben gestita dai moderatori, particolarmente da Richard Horton, direttore della prestigiosa rivista The Lancet. È emerso quanto sia necessario conciliare quella contrapposizione, o disinnescare i rischi dello scontro frontale muovendosi con immaginazione. Ad esempio, la gestione delle sperimentazioni cliniche dovrebbe spostarsi sul settore accademico-sanitario; inventare o produrre nuove molecole non solo migliorerebbe il destino dei pazienti ma potrebbe, attraverso la concorrenza, far diminuire i prezzi dei farmaci. Infine, molte della malattie rare su base genetica sono in linea di principio passibili di terapia genica (di cui si è parlato altre volte nel Domenicale): e quando questa ha successo il Paziente è finalmente progredito dalla somministrazione a vita di un farmaco ad una soluzione una tantum definitiva. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 26 Mar. ’14 VIRUS DI EBOLA VIETATO MANGIARE PIPISTRELLO CONAKRY — Sarà anche una leccornia locale, ma da ieri in Guinea è «vietato mangiare pipistrello». Le autorità del piccolo Paese dell’Africa occidentale hanno bandito la vendita e il consumo della carne dell’animale allo scopo di contrastare le occasioni conviviali che potrebbero accelerare l’avanzata del virus di Ebola che finora ha ucciso 62 persone. E’ stato il ministro della Sanità a emanare il decreto anti pipistrello durante un giro nella regione delle foreste del Sud considerate l’epicentro dell’epidemia. Secondo le ricette della cucina locale la carne dell’alato mammifero viene fatta bollire in una sorta di zuppa piccante a base di peperoncino venduta nei locali dove la gente si ritrova a bere alcol. Un altro modo per cucinare il pipistrello è arrostirlo sul fuoco. Ebola si trasmette per contatto. Non ci sono cure o vaccini per il morbo che uccide dal 30 al 90% delle persone colpite. Medici Senza Frontiere ha allestito zone di quarantena nel Sud del Paese per cercare di arginare l’espandersi del virus che provoca mortali febbri emorragiche. Casi sospetti si registrano in Paesi vicini, come Liberia e Sierra Leone. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 Mar. ’14 CON I POLIFENOLI PIÙ LONGEVITÀ IN BUONA SALUTE Giovanni Scapagnini Il raggiunto stato di benessere e le scoperte della scienza e della medicina hanno via via aggiunto anni all'aspettativa media di vita delle persone. E questa è una notizia positiva. Il problema è che esse invecchiano male: vivono più a lungo, ma sono più malate. E si tratta di patologie cronico-degenerative, dall'Alzheimer al cancro, dai problemi cardiovascolari al diabete, solo per fare alcuni esempi. Oggi sappiamo che un elemento comune a tutte queste patologie è una disregolazione dei processi infiammatori. Il conclamarsi di una malattia è solo l'ultimo anello di una catena iniziata molto prima (spesso anni) e molto internamente, a livello cellulare dove a un certo punto si è innescata una infiammazione silente (cioè non percepita e non percepibile) che la nostra biochimica, per vari motivi, non è riuscita a circoscrivere e controllare. Perché in effetti questa infiammazione si può sorvegliare e contenere. In modo efficace e facile. La letteratura medica oggi è concorde sul fatto che ciò che mangiamo ha una relazione diretta con la nostra salute. Purtroppo a livello generale c'è ancora poca conoscenza in merito all'alimentazione sana e tutto è ridotto a un discorso (spesso fuorviante) di calorie, quando invece sarebbe meglio conoscere come si comporta nel nostro organismo ciò che ingeriamo. È quanto ho fatto con gli abitanti dell'Isola di Okinawa, a sud del Giappone, dove si registra il maggior tasso di longevità al mondo e, per di più, senza le malattie della senescenza. La loro alimentazione apporta un altissimo tasso di omega-3 (pesce e alghe), una bassissima quantità di carboidrati ad alto indice glicemico (pasta, pane e riso) e una notevole quantità di polifenoli (sostanze presenti nei vegetali e nel tè verde, che consumano in abbondanza). È possibile che queste sostanze siano in grado di interferire sulla qualità dell'invecchiamento? Si tratta di una domanda che presuppone un radicale cambio di prospettiva sulla tavola: gli alimenti non vanno più visti come fonte di energia o di materia, ma come fonte di "segnali". Sarebbero (anzi: sono) sostanze in grado di "dialogare" con i ricettori delle nostre cellule, cambiando – di conseguenza – l'espressione dei nostri geni direttamente collegati con la sopravvivenza delle cellule stesse, con la sopravvivenza dei tessuti e, di conseguenza, con il benessere dell'intero organismo. Si accennava, sopra, alla disregolazione dei processi infiammatori. Questa alterata capacità di controllare l'infiammazione è spesso legata a un rapporto sbilanciato tra acidi grassi polinsaturi. Uno squilibrio che si può compensare con l'apporto abituale nell'alimentazione di omega-3 (che è proprio l'acido grasso carente, alla base dello scompenso). Altre sostanze potentissime nel "dialogo" cellulare sono i polifenoli, presenti in frutta e verdura: la ricerca scientifica sta validando conclusioni davvero avvincenti sulla loro azione. Essendo sostanze antibatteriche, come primo impatto sono modulatori della qualità della nostra flora batterica. E questo è un parametro importante, perché è sempre più alla base di alcuni tipi di patologie, come l'obesità o alcune malattie di tipo metabolico. Ma la loro azione è anche molto più profonda: sanno agire sui meccanismi di trascrizione, cioè quelli alla base dell'espressione dei geni. Toccare questi meccanismi significa cambiare il destino della cellula, in termini di sopravvivenza, di gestione dell'infiammazione, di metabolismo e additittura, di proliferazione. Sono degli "allenatori" della qualità della vita delle nostre cellule. A livello cardiovascolare, per fare un esempio, sappiamo che la delfinidina (un sottogruppo di polifenoli, presente nei frutti di bosco e, in concentrazioni elevatissime, nel maqui) è un potente inibitore dell'ossidazione dell'Ldl e un efficace antiaggregante della trombina (quindi, riduce il rischio della formazione di trombi). Interessante, in tal senso, uno studio americano, pubblicato pochi mesi fa sulla rivista Circulation, che ha dimostrato come tre semplici porzioni a settimana di frutti di bosco riducano il rischio di infarto del 32 per cento. In Giappone, invece, hanno accertato che le delfinidine proteggono dai danni di sovraesposizione alla luce, che è uno dei problemi dell'invecchiamento della parte neurale della retina. Risultati interessanti sono attesi anche da una ricerca in corso in Italia presso il consorzio inter-universitario Sannio Tech: si tratta del primo lavoro clinico – in doppio cieco, randomizzato e controllato verso placebo – sviluppato con il maqui. Si sta lavorando sull'azione antiossidante e antinfiammatoria, avendo a disposizione moltissimi biomarcatori di stress ossidativo. I primi dati, anche se molto interessanti, al momento indicano solo un trend, perché lo studio è tuttora in atto. Ma una conclusione si può già delineare: la nutrizione è sicuramente il pilastro della gestione della salute nel prossimo futuro e lo fa attraverso la modulazione dell'infiammazione silente nelle cellule. Professore associato di Biochimica clinica Dipartimento di Medicina Università del Molise ____________________________________________________________ Repubblica 29 Mar. ’14 IDENTIFICATI I NEURONI CHE CODIFICANO I RICORDI I ricercatori hanno esaminato i dopaminergici, una sottoclasse che risponde a un messaggero di segnalazione cellulare noto come cAMP (adenosina monofosfato ciclico), vitale per molti processi biologici WASHINGTON - Un nuovo studio dello Scripps Research Institute ha individuato il gruppo ristretto di neuroni coinvolti nella formazione della memoria. "Abbiamo scoperto che mentre sono tantissimi i neuroni che rispondono agli stimoli sensoriali", ha spiegato Seth Tomchik, biologo che ha condotto la ricerca, "solo una determinata sottoclasse di neuroni si occupa effettivamente delle codifiche della memoria". I ricercatori hanno esaminato una tipologia di neuroni chiamati neuroni dopaminergici. L'indagine ha scoperto che i neuroni che codificano i ricordi rispondono a un messaggero di segnalazione cellulare noto come cAMP (adenosina monofosfato ciclico), vitale per molti processi biologici. La cAMP è coinvolta in numerose patologie della mente, come il disturbo bipolare e la schizofrenia, e la sua disregolazione potrebbe essere alla base di alcuni sintomi cognitivi del morbo di Alzheimer e della neurofibromatosi di tipo 1. La sottoclasse di neuroni è apparsa particolarmente sensibile ad elevate quantità di cAMP in una specifica regione del cervello, un lobo con una area nota come corpo fungiforme. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista 'Current Biology'. ____________________________________________________________ Repubblica 24 Mar. ’14 USA, NUOVE LINEE GUIDA: LA CANNABIS COMBATTE I SINTOMI DELLA SCLEROSI MULTIPLA E' la conclusione di una ricerca adottata dall'American Academy of Neurology. Dalla spasticità ai dolori alle vie urinarie, la cannabis interviene con successo come terapia alternativa. Anche se per gli specialisti le prove sono ancora insufficienti a dimostrarlo Lo leggo dopo ROMA - Dagli Stati Uniti arriva un nuovo importante attestato delle proprietà curative della cannabis. Si parla di sclerosi multipla e le nuove linee guida dell'American Academy of Neurology segnalano come la cannabis terapeutica (per via orale, in pillole o spray) sia in grado di attenuare i sintomi della grave patologia secondo gli stessi malati, anche in presenza di una esiguità di prove a favore delle terapie complementari o alternative (Cam) per questi pazienti. Le linee guida sono state pubblicate sulla rivista Neurology. I sintomi che la cannabis terapeutica può aiutare a combattere vanno dalla spasticità ai dolori alle vie urinarie. "A utilizzare le diverse terapie complementari è il 33-80% delle persone con sclerosi multipla, soprattutto donne e con livelli d'istruzione più elevati - afferma Vijayshree Yadav, autore della ricerca e componente dell'American Academy of Neurology - ma i pazienti dovrebbero comunicare ai loro medici se e quali terapie alternative stanno assumendo o pensano di seguire". Gli specialisti dal canto loro affermano "che non ci sono prove sufficienti per dimostrare che fumare marijuana è utile nel trattamento dei sintomi della malattia neurodegenerativa demielinizzante". Le terapie non convenzionali utilizzate in aggiunta o in sostituzione delle cure mediche tradizionali includono oltre la cannabis medica anche il ginkgo biloba, la magnetoterapia, una dieta a base di acidi grassi omega-3 e la riflessologia.