RASSEGNA 06/04/2014 L’INCONTENIBILE VANITÀ DEI RETTORI MINISTRI VIESTI: ATENEI E SUD INSIEME SU UNA ZATTERA S.PRIMO: UNIVERSITÀ DEL SUD, L'AUTOCRITICA NON GUASTA M.C.CARROZZA:SUD E UNIVERSITÀ, BISOGNA OSARE DI PIÙ D'ALESSANDRO LA QUESTIONE MERIDIONALE RIPARTE DALL'UNIVERSITÀ ABILITAZIONI: L’UNIVERSITÀ NEL CAOS ABILITAZIONI: ARCHEOLOGIA DA LUSTRASCARPE – LINCEI CONTRO UN INDICE PER LA LIBERTÀ DI RICERCA E DI CURA NEL MONDO LIBERTÀ DI RICERCA, ITALIA TRA GLI ULTIMI AL 35° POSTO SU 42. BOSCHI: «I PROFESSORI BLOCCANO LE RIFORME» L’ITALIA ARCAICA E ILLETTERATA CHE TEME POTERE DEI PROFESSORI PROF PENSIONATI MA NON MOLLANO BONUS RICERCA, ECCO LE REGOLE DIMMI COME STUDI E TI DIRÒ CHI SEI IL RETTORE FRATI E L'INCARICO AL FIGLIO «PROCEDURE REGOLARI» UNICA: IL RETTORE: «IO RESTO QUI» GLI STUDENTI NON CAMBIANO: UN ALTRO TRIONFO PER UNICA 2.0 NUORO: MANAGER DEL TURISMO, IL MASTER CHE SFORNA DISOCCUPATI SARDEGNA: SEMPRE MENO STUDENTI: NON SERVONO ALTRE SCUOLE BELARDINELLI: IL PD E LA SFIDA ALLA SINISTRA INTRANSIGENTE IL TAFFERUGLIO DELLA TESTIMONE ========================================================= 6 MILIONI DI EURO SBORSATI DAGLI 85MILA ASPIRANTI MEDICI SPECIALITÀ: CONCORSO NAZIONALE (TELEMATICO)PER MEDICI (DISOCCUPATI) SPECIALITA: LA ZONA GRIGIA DEGLI ASPIRANTI MEDICI IN ARRIVO MAXI-TAGLI PER LA SANITÀ LORENZIN: NON TOCCARE LA SPESA SANITARIA ALTOLÀ DALLE REGIONI PER I CITTADINI IL DIRITTO DI CURARSI IN UN PAESE UE AOUCA: RINUNCIA A EX CRIES PER ODONTOIATRIA MEDICI: «MORIRÒ POVERO SENZA BENI AL SOLE: CONTA LA DIGNITÀ» MEDICI: LE CASE DELLA SALUTE? «UN FLOP» VAI AL PRONTO SOCCORSO PER NULLA? MULTA! (IN SPAGNA) RIABILITATI I TOPI: NON CAUSARONO LA PESTE CORRERE «PUÒ ACCORCIARE L'ESISTENZA» I DRONI CHIMICI CHE BOMBARDANO SOLO I TUMORI INTERVENTI ESTETICI, 3 SU 10 LASCIANO DANNI ASL1: LA STATISTICA CHE AIUTA A PREVENIRE I TUMORI AUTISMO NEGLI USA NE SOFFRE UN NEONATO SU 68 LA SCOPERTA DEL GENE CHE PUÒ SVELARCI I SEGRETI DELLA SLA POLSI E POLLICI FUORI USO PRIMA DIAGNOSI DI WHATSAPPITE VITTORIA DI OBAMA: OLTRE 7 MILIONI ALLA RIFORMA SANITARIA CHIP 'TATUATO' CHE CONTROLLA LA SALUTE UNA MAPPA DEI CIRCUITI NEURONALI CHE CONTROLLANO I COMPORTAMENTI ECCO PERCHÉ ESSERE CATTIVI PUÒ AIUTARCI A VIVERE MEGLIO MALTRATTARE HA UN EFFETTO POSITIVO SULLE PERSONE LA DIAGNOSI LA FA LO SMARTPHONE QUANDO SI MANGIAVA PEGGIO CAPIAMO I NUMERI PRIMA DEL LINGUAGGIO SUPER MEMORIA L’INSOSTENIBILE PREZZO DEI FARMACI AUMENTANO IN EUROPA LE MALATTIE DA PUNTURA DI INSETTI ========================================================= ____________________________________________________________ Corriere della Sera 02 Apr. ’14 L’INCONTENIBILE VANITÀ DEI RETTORI MINISTRI Il bello dei rettori entrati (saliti? discesi?) in politica è quella loro arietta non già, come si potrebbe presumere, da primi della classe (antiquata, antiquatissima, per carità!), ma da qualcosa di mezzo tra Candide e la Vispa Teresa. Comune peraltro anche ad altri personaggi di simile parabola, come ad esempio il sindaco di Roma, Ignazio Marino. L’arietta di chi dice: guardate bene che io con i politici — sottinteso: quei lazzaroni, quei farabutti — non ho niente a che spartire. Guardate che sono allibito quanto voi e anzi ve ne racconto io una nuova. Guardate che io mi occupo non dei pasticci che ho ereditato e che non sono miei, ma di scrutare nuovi orizzonti e, soprattutto, di farvi vedere un nuovo stile. Direttamente impersonato, non a caso, da me medesimo. Se i rettori finiranno all’Inferno, dove è assai probabile che finiscano, sarà per la loro incommensurabile, incontenibile, vanità. L’ultimo caso è quello di Stefania Giannini, terzo rettore consecutivo, dopo Carrozza e Profumo, ad assidersi sul trono del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Trono in quanto da lì si governa all’incirca un milione di dipendenti e si spende, per il funzionamento, più di ogni altro ministero. Né il Rettore Primo, Francesco Profumo, né il Rettore Secondo, Maria Chiara Carrozza, hanno lasciato esaltante o incancellabile memoria di sé medesimi. Profumo, un ingegnere, sembrava uomo con i piedi per terra. Anche se a insospettire avrebbe dovuto essere il fatto che il governo Monti in cui militava era quello che vantava il più alto tasso di rettori nella storia non già d’Italia, ma di tutti i tempi e di tutti i paesi. Comunque sia, di Profumo si ricorda solo la graziosa idea del campionato nazionale dei primi della classe, teso a individuare e incoronare il Super Primissimo di Tutte le Classi. Una cosa tra Dickens e De Amicis, quanto mai adatta al terzo millennio. Della Carrozza viceversa, un bioingegnere di cui si celebravano le virtù scientifiche e la propensione all’eccellenza, non si ricorda nulla, dato che se non proprio nulla, certo assai poco deve avere fatto. Ammaestrato da questi precedenti, il Rettore Terzo, la Giannini, di natura sua una glottologa, appare fermamente intenzionata a lasciare duratura traccia di sé. Ha dunque sdegnosamente smentito che i precari della scuola siano mezzo milione e, ispirandosi al nominalismo e sfidando l’aritmetica, ne ha determinato la consistenza in «poco meno di centosettantamila». Salvo aggiungere che «ci sono anche 460 mila in graduatorie d’istituto, 10 mila abilitati con Tfa, 70 mila abilitati con Pas, 55 mila diplomati magistrali, e 40 mila idonei dei vecchi concorsi». Un po’ criptico, ma non male. Non contenta della performance numerica, la Giannini si è poi cimentata in un paio di occasioni con il pensiero vero e proprio, come quando, parlando degli esami di accesso alle scuole di specializzazione «mi piacerebbe — ha osservato — che mirassero a misurare principalmente le competenze e l’attitudine relative alla specializzazione futura». Perché, vien fatto di chiedere, che cos’altro dovrebbero misurare? E, soprattutto, contestando la sua collega Madia che aveva parlato di prepensionamenti per far spazio ai giovani, ha vibratamente e insieme pensosamente asserito «non amo il collegamento tra chi va a casa e chi entra. Un sistema sano non manda a casa gli anziani per far entrare i giovani. È necessaria un’alternanza costante». Precetto, quest’ultimo, di cui far tesoro (come di quello sulla necessità della maglia di lana e altri similari). Ma che forse non è di grande aiuto nelle presenti circostanze, quando di ingresso di giovani son vent’anni che non si parla. Il manto che avvolge l’avvento in politica dei rettori (come per altro, ma simile verso degli alti dirigenti della Banca d’Italia) è la competenza, la probità, la dedizione all’interesse nazionale e non di parte. La sostanza è una sottile, ma tenace idea corporativa. L’idea, antica, che la democrazia è debole, soprattutto in Italia, e che le sue piaghe devono essere medicate da mani delicate ed esperte, non lasciate in balia dei tristi amori dell’elettorato. Solo i corpi organizzati — l’accademia, l’alta burocrazia, gli istituti finanziari — possono garantire e proteggere l’interesse comune. In cambio, naturalmente, del riconoscimento di una sorta di patronato perenne, di un diritto inalienabile. Il risultato, la realtà che abbiamo sotto gli occhi, è la pasta collosa e burbanzosa che avvolge la dimensione pubblica e maschera la sua sostanziale paralisi. Meglio, molto meglio, la politica. ____________________________________________________________ Il Mattino 02 Apr. ’14 VIESTI: ATENEI E SUD INSIEME SU UNA ZATTERA Gianfranco Viesti Nel 2013 in tutte le Università del Mezzogiorno si sono potuti bandire 2599 posti per il dottorato di ricerca. Quanti sono 2599 posti? Pochissimi. Nel 2007 erano stati 4471 (una cifra certamente non esaltante): si sono quindi ridotti, con una tendenza implacabile, del 42% in sei anni. Anche nell'intero Paese c'è stata una forte riduzione; ma solo (si fa per dire) del 22%. Questo dato rappresenta la risposta chiara che è stata fornita da parte delle classi dirigenti italiane, alla domanda di opportunità di formazione e di lavoro espressa dai giovani del Mezzogiorno: andatevene all'estero (o al Nord) oppure arrangiatevi con qualche lavoretto. I mille e mille numeri contenuti nelle oltre 600 pagine del Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca realizzato dall'ANVUR (l'Agenzia nazionale di valutazione) sono tutti coerenti fra loro e ci consegnano un semplice messaggio: se il sistema universitario italiano se la passa malissimo, quello del Mezzogiorno sta letteralmente scomparendo. Sta scomparendo per un insieme di decisioni i cui effetti continueranno a manifestarsi e a sommarsi nei prossimi anni. La contrazione del numero dei nuovi dottori di ricerca, così come di quella di tutte le altre variabili che riguardano l'Università del Sud (dalle possibilità finanziarie, alle dimensioni del corpo docente e del personale amministrativo al numero di nuovi immatricolati), con le attuali regole, non potranno che proseguire nel futuro. Continuando così, le università deperiranno sempre più, e finiranno con il chiudere. Molto bene ha fatto il Presidente della Conferenza dei Rettori, Stefano Paleari, in una recente intervista al Mattino, a ricordare come lo scenario sia molto grave in tutto il paese; e come quindi vi sia una grande questione universitaria nazionale. E come non serva dividersi, ma disegnare regole diverse per l'intero sistema. Ma come lo stesso Paleari, con misura e saggezza riconosce, la «questione meridionale» dell'università è assai più drammatica. Negli ultimi anni sono state infatti messe in atto una serie di scelte che hanno mirato chiaramente a penalizzare il sistema universitario del Sud, ripartendo i tagli in maniera fortemente asimmetrica, sulla base di una serie di indicatori costruiti ad hoc e tutti, assolutamente tutti, assai discutibili. L'aspetto che più rileva e che più preoccupa è che questa strategia è stata attuata e proseguita da ministri di idee politiche assai diverse fra loro: avviata con ardore distruttivo dalla ministra di centrodestra Maria Stella Gelmini, l'opera è stata proseguita dal ministro tecnico Francesco Profumo e poi dalla ministra di centrosinistra Maria Chiara Carrozza. Nella sua lunga lettera, recentemente ospitata sulle colonne di questo giornale, la senatrice Carrozza infatti non ha potuto smentire un fatto: cioè che i criteri del decreto che lei ha varato nel 2013 (modificati rispetto all'anno precedente), hanno ridotto ai minimi termini le possibilità di assunzione nelle Università in particolare del Sud, premiando a dismisura poche sedi (fra cui quella di cui lei stessa era Rettore fino a un anno fa). E' in azione una forte alleanza trasversale, sostenuta a gran voce da tanti organi di stampa; rispetto alla quale le rappresentanze politiche meridionali, di tutti gli schieramenti, sono state per usare un eufemismo assai timide. Un'alleanza che ha disegno preciso: creare un sistema universitario con un limitato numero di sedi di eccellenza, verso le quali far convergere risorse finanziarie ed umane; mascherando questo evidente disegno con la retorica del «premio al merito» e la costante demonizzazione del Mezzogiorno cialtrone e sprecone. A questo disegno bisogna opporne un altro, con le parole di Paleari: «Il Paese cresce se si difende la qualità diffusa», in tutti i suoi territori. Il tempo però stringe, le decisioni sono state già prese e vanno cambiate, ma nell'agenda politica del Paese il tema è scomparso. Purtroppo, non è proprio il caso di essere ottimisti. Ma, per quanto le forze siano scarse e gli avversari assai potenti, è una battaglia che le residue classi dirigenti del Mezzogiorno dovrebbero combattere, alleandosi con i tanti, che nel resto del Paese, condividono questi obiettivi. E con i cittadini: nelle prossime settimane, quando verranno a chiederci i voti, proviamo a chiedere noi a loro specie a quelli che oggi governano che cosa intendono fare per far stare a testa alta, anche così, il Mezzogiorno in Europa. Una postilla: ma non saranno troppi i laureati nel Mezzogiorno? L'Europa si è data come obiettivo quello di avere il 40% della popolazione fra 30-34 anni con una laurea entro il 2020. C'è un assoluto consenso: per restare competitivi nell'economia contemporanea serve una elevata quota di lavoratori ad alta qualifica. Il Governatore Ignazio Visco, che ha un'antica passione per il tema, non fa che ripeterlo di continuo. Il 40% dei laureati vale assai più del famoso 60% del debito pubblico. I paesi europei ci credono. Nella regione di Madrid siamo già ad una percentuale del 49%, 45% a Varsavia, 42% a Budapest: obiettivo già raggiunto. Come si sa la Turchia è molto più indietro rispetto all'Unione Europea: non a caso, la quota di laureati nella regione di Istanbul è infatti solo al 22%. E noi? Presto detto: il NordOvest è al 22%; il Mezzogiorno continentale al 18% le Isole al 16%. ____________________________________________________________ Il Mattino 03 Apr. ’14 S.PRIMO: UNIVERSITÀ DEL SUD, L'AUTOCRITICA NON GUASTA Salvatore Primo Il Mattino ha avviato con le riflessioni I di Pino Aprile, Giorgio Israel e Gianfranco Viesti un dibattito fondamentale sull'università italiana di oggi. Il tema è quello delle differenze di trattamento tra atenei meridionali e settentrionali, resi più evidenti e «blindati», nelle disparità attuali di risorse assegnate ed impiegabili, da un famigerato decreto dell' allora ministro Carrozza, che ha fatto discutere molto chi nelle università opera (si può vederne documentazione sul sito Roars) e che, sia notato en passant, ha molto favorito, nel futuro reclutamento dei docenti, quella di cui la suddetta è stata Rettrice, la Scuola Sant'Arma di Pisa. 'è molto di vero: l'affermazione di un modello di ricerca applicata, che deprime quella umanistica e le scienze di base, premia chi di suo è molto capace nel fundraising (in soldoni, è il caso di dire: chi sa procurarsi denari nel rapporto col mondo delle imprese, notoriamente più aperto alla cooperazione con 1' accademia nel Nord, dove del resto è più radicato), la promozione in generale delle applicazioni tecnologiche, a scapito della speculazione filosofica. Sono certo lontani i tempi in cui i lombardi Beccaria (di cui ricorre quest'anno il duecentocinquantesimo anniversario del- la pubblicazione di «Dei delitti e delle pene») e Verri trovavano alimento e sponda per le loro battaglie sull'umanizzazione del carcere e contro la tortura nell'illuminismo napoletano dei Filangieri e dei Pagano. Altro che cooperazione: nell'università italiana è aperta una feroce concorrenza tra virtuose perché forti e deboli lasciate ulteriormente franare. Tutto giusto e sacrosanto, ma attenzione al vittimismo e alle professioni pelose di verginità. Il nodo, come osserva opportunamente Israel (intellettuale stimabilissimo, che da tempo si dedica alle problematiche di macropolitica universitaria, fuori dal suo campo disciplinare specifico di matematico), è quello dell'autonomia universitaria, bene che occorre salvaguardare da attacchi esterni e da valutazioni non lasciate del tutto ai «pari», come accade col «modello Anvur», l'Agenzia nazionale della valutazione dei risultati, incongruamente governativa e con i risultati in più di un caso discutibili (anche Il Mattino se ne è fatto eco) dei procedimenti di abilitazione nazionale alla base dei concorsi per coprire le cattedre che sono oggi in atto. Non gioverà però alle università meridionali tacere ulteriormente sull'uso talora «alle vongole», familistico e clientelare, che dell'insopprimibile autonomia essa ha troppo spesso fatto, né sui suoi ritardi di internazionalizzazione, o sui corporativismi al ribasso diffusi all'interno del loro ceto docente. Se si vuole la verità, insomma, bisogna dipingere un quadro più complesso e completo, che metta in luce le eccellenze (che pure vi sono) e però non taccia sulle ombre, altrettanto pesanti, facendo un po' di sana autocritica. Israel parla di autonomia come responsabilità, il che scritto da lui non è contestabile. Ma possiamo essere del tutto sicuri che le università meridionali l'abbiano sempre praticata al meglio? Chi scrive è un vecchio professore ormai sconfortato di fronte a colleghi che sovente proteggono il proprio particulare, ad allievi della generazione twitter che giocano al ribasso, non esigendo una formazione di qualità che pure pagano con le loro tasse e cercando invece esami e lauree facili, a famiglie disorientate e a volte complici dell'andazzo. A proposito di allievi: negli ultimi sei mesi mi è stato chiesto di scrivere almeno una quindicina di lettere di presentazione da parte dei migliori fra i miei laureati e laureandi per continuare gli studi all'estero. Vorrà pure segnalare qualcosa questo fenomeno, o ci accontentiamo di lamentarci e, come gli struzzi, di continuare a mettere la testa sotto la sabbia? ____________________________________________________________ Il Mattino 04 Apr. ’14 M.C.CARROZZA:SUD E UNIVERSITÀ, BISOGNA OSARE DI PIÙ Maria Chiara Carrozza * Nel libro «Prediche Inutili», Luigi Einaudi, secondo presidente della Repubblica, amava ripetere che bisogna «conoscere per deliberare», ovvero conoscere la realtà nella quale un amministratore pubblico opera e prende decisioni per la collettività attraverso studi non viziati da tendenziosità o schemi preconcetti. Per questo sono contenta del dibattito che si è generato sul Sud e sulle sue università se può portare nuova conoscenza e nuove analisi, utili per prendere decisioni migliori in futuro. E se partiamo dai dati che abbiamo appare evidente la disparità fra le Università settentrionali e quelle meridionali. Questa differenza è chiara a molti livelli, come si può ben vedere dal rapporto nazionale Anvur uscito il mese scorso: gli studenti delle Università del Mezzogiorno hanno infatti un maggiore tasso di abbandono e di inattività nel primo anno di studio, impiegano in media più tempo (+20%, circa un anno) per il conseguimento di un titolo triennale e in generale sono un numero significativamente inferiore quelli che si laureano nei tempi previsti (Nord 43%, Sud 23%). Inoltre i fuoricorso costituiscono il 47% del totale contro i 35% dei colleghi del Nord. Anche la qualità della ricerca, stando ai risultati della VQR già presentata nel mese di luglio 2013, è comunque influenzata in modo statisticamente significativo dalla collocazione geografica dell'Ateneo: è amaro vedere come quelli del mezzogiorno mostrino una performance inferiore a quelli del nord. Ovviamente la politica dei tagli non ha fatto che peggiorare la situazione. Il rapporto Anvur impietosamente evidenzia come da12009 al 2014 i governi in carica hanno tagliato quasi un miliardo di euro dai fondi di finanziamento ordinario (Ffo). Per questo permettetemi di sottolineare come, in netta contrapposizione rispetto ai governi precedenti, il governo Letta abbia invertito il trend: con 170 mln di euro in più previsti ne12014 abbiamo infatti tolto la retromarcia. Sono consapevole che occorrerebbe almeno ritornare ai livelli di finanziamenti pretagli, per riportare la spesa del sistema universitario nella media europea. Sono anche convinta che una delle ragioni del declino sia legata al combinato disposto dei tagli al fondo di funzionamento ordinario e al blocco parziale del turn over, fenomeno che ha sensibilmente ridotto le capacità assunzionali delle università Mi rendo anche conto che queste il contesto territoriale e la crisi economica hanno accresciuto il problema per molte università del Sud di reperire fonti alternative di finanziamento centrale: sempre analizzando i dati Anvur, emerge che gli Atenei meridionali sono stati penalizzati dalla loro minore capacità di attrarre fondi oltre a quelli ordinari: ogni 100 euro che gli Atenei settentrionali riescono a incamerare per studente immatricolato, quelli del Sud riescono ad attrarne soltanto 68,2. C'è da aggiungere che le minori entrate delle Università meridionali sono dovute anche ad un livello di tassazione più basso (quasi 40% in meno) rispetto a quello vigente nelle regioni del Nord. La contribuzione studentesca è dunque uno dei parametri più penalizzanti per le università meridionali ed introduce delle disuguaglianze di base. Non possiamo accettare che avere studenti più bisognosi e più poveri sia penalizzante. Per un sistema pubblico che vuole favorire la mobilità sociale, l'obiettivo dovrebbe essere proprio l'opposto. Questo forte divario incide profondamente sulle risorse complessivamente a disposizione degli Atenei. Quindi tutto si può ridurre alla mancanza di risorse pubbliche? Non proprio. Secondo dati Miur, il flusso di finanziamenti infrastrutturali (compresi Piano per il Sud, Pon 2007-2013, Poli di eccellenza) destinati agli Atenei meridionali non è stato poi così scarso: si parla infatti di 1.827.628.591 euro per il periodo 2007-2013. Ma se abbiamo la somma complessiva dei fondi investiti, è difficile reperire informazioni chiare su come sono stati spesi e che beneficio hanno portato in termini di servizi agli studenti e di risultati di ricerca. Mancano quindi elementi di trasparenza che consentano di valutare le politiche di gestione dei progetti e dei finanziamenti. Il quadro che ne consegue è molto allarmante e apre molti dubbi sulla capacità effettiva di pianificare una programmazione efficace, aggravata dalla situazione economica e finanziaria di molte Università. Sempre secondo dati Miur erano 9 su 26 gli Atenei meridionali che avevano sforato il tetto di spesa dell'80% riservato all'assunzione del personale e che hanno lasciato, di conseguenza, pochissimi fondi per la didattica e la ricerca. Questo è dimostrabile consultando nuovamente l'ultimo rapporto Anvur che illustra come le spese degli Atenei del Mezzogiorno per il personale in rapporto alle entrate siano più alte di due punti rispetto alla media nazionale. Inoltre 11 Università del Mezzogiorno su 26 sono risultate indebitate e, conseguentemente, le loro capacità assunzionali sono state ridotte. Proprio perché non teneva conto dei parametri sociali e socio economici territoriali, ero convinta anche io che la ripartizione dei punti organico (corrispondenti alla capacità assunzionale) non fosse equa, avendo ereditato questo sistema (come viene ben spiegato sul sito Roars), e presi infatti l'impegno con tutti i rettori del Sud, nell'incontro del 28 Novembre 2013 al Miur, di cambiare i parametri per gli anni successivi anche mediante l'introduzione del costo standard. Mi auguro che questo lavoro venga proseguito. La situazione è difficile ma, come ho già detto, puntare il dito e colpevolizzare «i ministri cattivi» attua la politica del capro espiatorio (è colpa di qualcuno che complotta...), facile da fare e che soddisfa tutti, ma che alla fine si rivela inconcludente. Serve ragionare, proporre soluzioni e agire per cambiare. Per realizzare questo obiettivo, si deve pensare ad una nuova allocazione di risorse più equa ma si deve anche procedere ad un rinnovamento delle politiche e delle metodologie di gestione, valorizzando una nuova classe dirigente cresciuta con una formazione internazionale, e pronta a portare nuove pratiche ed approcci innovativi: per salvare il Sud non possiamo fare sconti, ma pretendere piani strategici chiari e trasparenti da attuare. Questo significa adottare politiche basate su evidenza scientifica e riscontrabili con dati oggettivi. Il Sud non deve aver paura di essere ambizioso, deve osare, pensare ad un rilancio basato sul capitale umano e sulle condizioni ambientali, climatiche e culturali favorevoli. Attrarre studenti, ricercatori e professori non solo da tutta Italia, ma anche dall'estero; guardare lontano non solo nella politica accademica, ma anche nelle scelte coraggiose. Vorrei specialmente estendere l'invito ad essere ambiziosi ai Rettori degli Atenei meridionali. Come pensano di attrarre studenti dall'estero? Come vogliono reclutare i docenti migliori? Come intendono specializzare i propri atenei rispetto à contesto regionale e nazionale? Su quali servizi agli studenti intendono puntare per migliorare l'attrazione? Nell'ambito della terza missione come vedono la funzione dell'università rispetto al territorio? Alle Università spetta presentare un progetto. Un progetto convincente per la formazione e la ricerca, che veda gli studenti al centro della propria missione. Compito della politica, almeno di quella progressista, è stimolare il dialogo con le istituzioni universitarie, per definire parametri e obiettivi di sviluppo, e conseguentemente trovare insieme le risorse, rimuovendo le disuguaglianze che si sono create anche per colpa delle politiche di austerity, che hanno aumentato il dualismo Nord-Sud, soprattutto attraverso una distribuzione della spesa pubblica e dell'onere fiscale non uniforme su scala nazionale (ma penalizzante per il Mezzogiorno, come ricorda l'articolo di Davanzati su MicroMega). Dopo la fase della critica deve quindi seguire la fase della progettualità e della condivisione. In questa direzione vorrei mettere qualcosa sul piatto della discussione, illustrando una serie di misure alle quali stavo lavorando come Ministro e che ritengo ancora attuali per rilanciare e rendere più equo tutto il sistema accademico, non solo quello meridionale. Prerequisito fondamentale per dar vita ad un sistema universitario capace di attrarre risorse, competenze e investimenti resta comunque la trasparenza dei bilanci. Questo principio dovrebbe coinvolgere tutti i livelli, dal Miur ai singoli Atenei. Perché le Università non pubblicano dati più precisi sull'utilizzo dei fondi? Premiare le realtà che meglio spendono queste risorse ed incoraggiare coloro che invece non hanno ancora fatto abbastanza deve essere il punto di partenza per promuovere l'educazione e valorizzare le eccellenze di questo Paese, anche attraverso il rientro parziale o totale di chi, emigrato, vuole tornare a dare un contributo al suo territorio. E' pensabile rinegoziare con il governo maggiori risorse con un patto preciso volto al miglioramento di tutti gli indicatori di prestazioni, assicurando maggiore trasparenza e rendicontazione sull'efficacia delle politiche di gestione. Il Sud deve raccontare una storia nuova, che rimetta al centro la bellezza e la peculiarità di un territorio che è nel cuore di molti, non solo dei «nativi meridionali». Se riusciamo a creare un ambiente favorevole, equo, stimolante, non solo torneranno i tanti che hanno trovato lavoro all'estero, ma potremmo assistere a una nuova generazione di giovani, di ogni luogo e regione, pronti a giocarsi il proprio futuro al Sud. Come diceva Seneca, «non è perché le cose sono difficili che non osiamo, ma è perché non osiamo che sono difficili». *Ex ministro dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca ____________________________________________________________ Il Mattino 04 Apr. ’14 D'ALESSANDRO LA QUESTIONE MERIDIONALE RIPARTE DALL'UNIVERSITÀ Questione Sud e università Lucio D'Alessandro L'intervento di Lucio d'Alessandro anticipa i temi della quarta edizione della Scuola di Alti Studi Politici del Suor Orsola Benincasa. La lectio inauguralis prevista per oggi alle 15 nella Biblioteca Pagliara è affidata al governatore Stefano Caldoro. Lucio D'Alessandro Proprio in questi giorni all'Istituto Italiano di r Cultura di Londra si sta concludendo un ambizioso programma di lectures dal significativo titolo «The invention of Italy». Il corso ha visto la partecipazione d'importanti storici inglesi e italiani. Su uno dei blog della London School of Economics si può, invece, leggere che l'Italia in questi ultimi vent'anni ha operato per la sistematica autodistruzione di quella che fu la settima potenza industriale del mondo. Anche l'alta cultura, dunque, sembra voler tornare a riflettere sulle ragioni profonde dello stare insieme. Si può capire allora come ci sia effettivamente il rischio che l'Italia possa tornare ad essere una semplice «espressione geografica» come l'aveva definita il principe Metternich nel 1847. Ma se è vero che l'Italia fu un'«invenzione», è forse oggi più che mai necessario continuare a tenerla unita ed è per questo che la Scuola di Alti Studi Politici del Suor Orsola Benincasa, giunta alla quarta edizione, è dedicata quest'anno al Mezzogiorno. Un tema che rischia di diventare scottante se si guarda all'acceso dibattito di questi ultimi tempi e alla totale assenza dall'agenda politica della «questione meridionale». La Scuola non intende entrare a gamba tesa nel dibattito, si propone piuttosto di riprendere, in modo pacato e approfondito, il tema dell'irrisolto dualismo economico italiano alla luce degli studi più aggiornati nei settori storico, economico, giuridico, sociologico e, soprattutto, delle politiche pubbliche necessarie a tenere il Mezzogiorno e l'Italia tutta saldamente agganciati all'Europa. Il corso punterà su tre aspetti fondamentali: quello della politica; quello dell'analisi dei fattori e dei flussi economici presenti nelle regioni meridionali che più del resto del Paese hanno subito i devastanti effetti della crisi; quello dell'identificazione delle potenzialità reali del territorio con uno sguardo strategico rivolto al futuro. La passione politica si è andata via via spegnando sostituita dallo sconforto per le sorti di un Paese che, negli ultimi vent' anni, sembra aver imboccato la strada di un irrimediabile declino. Eppure se l'Italia è stata "inventata", è stata sicuramente la più grande invenzione della storia europea. E, per di più, è stata un'invenzione dei meridionali: dei ventimila siciliani che si affiancarono ai mille bergamaschi di Garibaldi per risalire la penisola, degli hegeliani napoletani che fornirono i contenuti di quell'idea di Stato moderno che in Italia non si era ancora saldamente affermata. Il rilancio dell'economia del Sud può ripartire da ciò che c'è sul territorio, dalle eccellenze meridionali, dalla parte sana del tessuto industriale e dall'agricoltura, nella consapevolezza che, in tempo di crisi, nessuno è disposto a regalare nulla e dobbiamo farcela da soli. Sarebbe, dunque, auspicabile mettere al bando polemiche inutili, spesso pretestuose, e rimboccarsi le maniche per ricostruire l'Italia partendo dal Sud come si fece centocinquant' anni fa partendo dal Nord. Per questo, e vengo al terzo punto, dobbiamo approfittare di tutte le possibilità che il territorio ci offre con una visione politica costruttiva e uno sguardo strategico. Se tutto ciò lo facciamo partendo dalle università meridionali -.che sono sì in forte difficoltà, ma che si stanno profondamente rinnovando penso che sia importante perché, insieme ai più qualificati centri di ricerca, possono costituire il luogo non solo dell'elaborazione di nuove strategie, ma anche del «fare» per usare una parola oggi molto in voga. E, in questo senso, la Regione Campania sta dando una mano a tutto il sistema universitario regionale. Così anche il titolo del corso, «Direzione Mezzogiorno. Politica, economia, società», non è soltanto l'indicazione di un percorso ma anche un appello alla classe dirigente che ha la responsabilità di costruire un futuro per questo territorio. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 06 Apr. ’14 FERRARI: QUELL’ITALIA ARCAICA E ILLETTERATA CHE TEME IL POTERE DEI PROFESSORI di GIAN ARTURO FERRARI È un errore confondere i professori con i professoroni, il vero bersaglio degli strali del ministro Boschi e così più precisamente denominati da Stefano Fassina. I professori, universitari s’intende, sono sterminate e anonime legioni figlie del tentativo (malriuscito) di democratizzare l’università italiana e di quello parallelo (e peggio finito) di modernizzarla. Sparsi per la penisola secondo una bislacca geografia accademica, ispirata al criterio «l’università nel mio cortile», dediti a discipline spesso incomprensibili fin dalla loro denominazione, inseriti in una miriade — alla lettera — di corsi di laurea che non hanno riscontro in alcun Paese civile, i professori soffrono acutamente di un drastico ridimensionamento del proprio ruolo e del proprio prestigio sociale, simile a quello che nel dopoguerra colpì gli insegnanti di liceo. I professoroni invece sono a tutti gli effetti gli eredi dei cattedratici di una volta. Individui, innanzitutto, con fisionomie ben marcate, non di rado circondate da aloni leggendari, se non mitologici, e da fiorenti aneddotiche. E insieme carichi di riconoscimenti, fama, allori, onusti di gloria. Ma a questi tratti ereditari i professoroni odierni hanno aggiunto le invidiate luci della ribalta. Cioè il contatto diretto con il pubblico ben al di fuori dalle aule universitarie. La dimestichezza con i media, con tutti i media. La frequentazione e la consuetudine (cosa diversa dall’appartenenza a un partito, che c’è sempre stata) con il mondo della politica. Un pericoloso scivolo, che inclina dal sacerdozio del sapere alla star televisiva. Tutto questo rende incompatibili e contrastanti le logiche dei professori con quelle dei professoroni. Lo si è visto molto bene nel recentissimo caso dei concorsi di archeologia, quando un gruppo di accademici (professoroni) ha fatto notare che, stando all’esito dei suddetti e recenti concorsi, l’Italia si verrebbe a trovare con più archeologi (professori) di tutti gli altri Paesi europei messi insieme. Dove si vede benissimo in trasparenza il contrasto tra il brulicare, il trafficare e il ronzare di sperdute sedi per piazzare, sistemare, aiutare i propri virgulti e il fastidio irritato dei competenti, sorretti innanzitutto da un elementare buonsenso (che va loro riconosciuto), ma anche imbarazzati dal dover spiegare alla comunità internazionale, cui appartengono, in che razza di Paese vivono. In una ragnatela di sentimenti così delicati e complessi l’invettiva del ministro Boschi sembra un po’ facile, un po’ tirata via. E un po’ antiquata. Sembra fare appello a un’Italia illetterata e arcaica, ossequiente di fronte al sapere titolato, ma in realtà diffidente e sospettosa se non ostile, convinta com’è che alla fine i detentori del sapere medesimo lo useranno contro di lei, per intrappolarla, per danneggiarla. Vi sono in Italia due archetipi del come la gente comune vede gli uomini di cultura — non proprio professoroni, ma quasi — e si trovano entrambi in quella sorta di carta costituzionale della nostra cultura che sono I promessi sposi . E rispondono al nome di Azzeccagarbugli e di Don Ferrante. Il dottor Azzeccagarbugli («una cima d’uomo» secondo Agnese) rappresenta la cultura giuridica nel suo insieme, dominante nel nostro Paese e, come ben si vede, tuttora al centro della polemica. Sono giuristi infatti i professoroni evocati dal ministro. Del resto il gruppo dirigente democristiano è stato fatto per decenni da giuristi. Che rimanevano contemporaneamente professori, anche se non sempre professoroni. Al punto che Aldo Moro, l’uomo politico più importante del Paese, quando venne rapito si recava a discutere tesi di laurea. (Una cosa fuori d’Italia del tutto impensabile.) La sostanza giuridica della cultura italiana non ha certo contribuito alla sua popolarità, dato che, come Azzeccagarbugli luminosamente dimostra, l’essenza del giure consiste nel piegare la legge a tutto svantaggio della gente comune. Don Ferrante rappresenta invece l’archetipo di un sapere tanto vasto e paludato quanto sconnesso dalla realtà. E per questo pericoloso se non letale. Egli infatti, dopo aver dedotto che, non essendo né sostanza né accidente, la peste che infuriava per Milano non esisteva, prese la peste e morì. In cuor suo, ammesso che i ministri abbiano un cuore, il ministro Boschi pensa probabilmente che i professoroni siano dei Don Ferrante. Esseri astratti e togati che non vedono e non vogliono vedere la realtà. Passatisti. Conservatori. Ma sa bene che simili argomenti non hanno grande efficacia sulla pubblica opinione. Meglio allora sollecitare quel riflesso antico, ridestare la diffidenza contadina, prospettare la possibilità che i professoroni difendano i loro interessi e non i nostri. Forse i professoroni sono solo Azzeccagarbugli. ____________________________________________________________ Repubblica 04 Apr. ’14 ABILITAZIONI: L’UNIVERSITÀ NEL CAOS Il Tar del Lazio piccona le graduatorie dei test nazionali di abilitazione Così i giudici sventano un’altra parentopoli Eadessoil mondo della ricerca chiede al ministero: difendiamo il merito GIOVANNI VALENTINI Aspiranti prof pioggia di sentenze contro i baroni ROMA. Fioccano le sospensioni e gli annullamenti del Tribunale amministrativo del Lazio, competente per gli atti dell’amministrazione statale su tutto il territorio nazionale, dopo la pioggia di ricorsi contro l’esito dell’Abilitazione scientifica (non didattica) per i professori universitari. In diversi i casi, i giudici del Tar hanno stabilito anche che le commissioni esaminatrici devono essere interamente ricostituite per emettere un nuovo verdetto entro 60 giorni. Un terremoto insomma - per l’Università italiana, già minata dalle sue croniche carenze e disfunzioni. All’origine della vertenza c’è la controversa introduzione ex postdei parametri di “sottosettorialità” che hanno ribaltato le graduatorie originarie, compilate secondo i criteri oggettivi e meritocratici previsti dalla riforma ministeriale. Con questo sistema, molti aspiranti che in base alle loro pubblicazioni vantavano titoli scientifici specialistici, studiosi già noti e apprezzati nelle rispettive discipline, sono stati scavalcati da concorrenti con un curriculum più generico e meno qualificato. E spesso, a favore di figli o allievi dei potenti “baroni” universitari. Ma ora le ordinanze del Tar, come in una reazione a catena, stanno praticamente azzerando la situazione in vari campi accademici. Il Tribunale amministrativo del Lazio ha accolto, per esempio, il ricorso di Greta Tellarini che aveva presentato domanda per l’abilitazione alle funzioni di professore universitario di prima fascia nel settore del Diritto commerciale della navigazione: la sua preparazione era stata sommariamente liquidata da uno dei componenti come «accettabile », in senso spregiativo e in modo difforme dalle direttive ministeriali. E perciò è stata disposta la costituzione di una nuova commissione esaminatrice. Lo stesso Tar ha dato ragione a Marco Gentile che aspirava a diventare professore di seconda fascia per Storia medievale: in questo caso, secondo la magistratura amministrativa, i giudizi individuali di non idoneità «non sembrano raggiungere un adeguato grado di sintesi nel giudizio finale complessivo». Analogamente è stato accolto il ricorso di Tessa Canella, per Scienze del libro e del documento e Scienze storico- religiose. Il Tar ha riconosciuto un «sufficiente fumus bo-ni iuris in ordine alla incongruità del giudizio della Commissione rispetto a quello positivo reso dall’esperto nominato dalla medesima commissione». Nello stesso settore, è stato annullato il giudizio negativo su Francesco Mores: qui il fumus attiene «allo specifico profilo di conoscenza dell’esperto chiamato a esprimere il parere pro veritate nei confronti del candidato e della congruenza delle sue pubblicazioni ». Ancora più paradossale il caso di Stefano Benussi che aveva presentato domanda per diventare professore di seconda fascia per la Chirurgia cardio-toracovascolare. Il verdetto della Commissione è stato ritenuto incongruo «rispetto al numero delle pubblicazioni del candidato», considerando anche il fatto che il giudizio individuale dei singoli commissari era risultato positivo a maggioranza dei 3/5. Particolarmente significativo il documento di protesta inviato al ministro dagli archeologi dell’Accademia dei Lincei, tra cui Ermanno Arslan, Salvatore Settis e Fausto Zevi. Oltre a contestare «la scelta della Commissione di abilitare un numero spropositato di candidati» (69 su 160 nella prima fascia e 241 su 553 nella seconda), si critica nel merito anche la qualità accademica dei nuovi professori: «Sono stati resi idonei candidati, la mediocrità o addirittura l’irrilevanza della cui produzione – si legge nel testo - è visibile ictu oculi a chiunque». In polemica poi con Andrea Ferretti, primario di Ortopedia all’ospedale Sant’Andrea di Roma, econ Repubblicache neaveva raccolto le dichiarazioni, il professor Paolo Cherubino ha inviato una lettera al presidente del Collegio dei professori di prima fascia di Ortopedia e Traumatologia, Sandro Giannini, e a tutti i membri, contestando le critiche alla procedura di abilitazione. Ma Ferretti ha subito replicato, ribadendo le sue valutazioni e le sue riserve sui «criteri settoriali aggiuntivi» che hanno trovato riscontro ora nelle pronunce del Tar. Sulla stessa linea, in una lunga lettera inviata a Repubblicae intitolata L’Università svilita, interviene un altro autorevole cattedratico come Davide Messinetti, già professore ordinario di Diritto civile all’Università di Firenze. A suo giudizio, i risultati di questa prima tornata della procedura per l’abilitazione nazionale «appaiono in quasi tutti i settori scientifici e disciplinari a dir poco sconcertanti». E per quanto riguarda il Diritto privato, lui stesso li definisce anche «vergognosi», riferendo un’opinione pressoché unanime dei suo colleghi. «Auspico – conclude Messinetti - che il nuovo ministro della Università voglia prendere iniziative concrete e urgenti contro questa orrenda visione, annullando in autotutela gli atti del concorso e rimuovere l’operatività di questa commissione che si è resa responsabile di tanto scempio». ____________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 03 Apr. ’14 ABILITAZIONI: ARCHEOLOGIA DA LUSTRASCARPE – LINCEI CONTRO di Tomaso Montanari E IL IINISTRO? L'Accademia dei Lincei contro la commissione che ha dato le idoneità: favoriti i candidati che hanno firmato pubblicazioni con i giudici Certo la veneranda Accademia dei Lincei non si può dipingere come un covo di intemperanti giovinotti inclini al ribellismo. Tanto più colpisce il durissimo documento con cui quasi tutti gli archeologi che ne fanno parte attaccano l'abilitazione nazionale della loro materia. Ermanno Arslan, Luigi Beschi, Nicola Bonacasa, Edda Bresciani, Giovannagelo Camporeale, Filippo Coarelli, Antonio Giuliano, Eugenio La Rocca, Vincenzo La Rosa, Salvatore Settis, Mario Torelli e Fausto Zevi si rivolgono alla ministra per l'Università, Stefania Giannini, per esprimere tutto il loro sconcerto per l'operato della commissione che ha distribuito le idoneità agli archeologi italiani. "Sono stati resi idonei candidati si legge la mediocrità o addirittura l'irrilevanza della cui produzione è visibile a chiunque", in base a "un criterio meramente quantitativo, per cui vale 'uno' sia una prefazione di una pagina sia un lavoro enormemente più impegnativo". E ancora: "Ci si è voluti mostrare generosi a spese della scienza, una scelta palesemente fatta con l'obiettivo di compiacere singoli professori e cordate vecchie e nuove, e finanche intere regioni (una sola scorsa Il ministro Giannini LaPresse della lista degli abilitati permette di dire a quali regioni ci si riferisce: (la Sicilia, ndr), per la prima fascia. E "IL SEMPLICE confronto delle esclusioni con le inclusioni fornisce un quadro del tutto evidente delle scelte 'di scuola', che hanno privilegiato alcuni candidati, non sempre di evidente alta qualità, e danneggiato altri". I lincei non esitano a giudicare i commissari stessi: "Quando, come qui è il caso, una commissione non contenga né studiosi di primo piano e con vasta esperienza internazionale né competenze essenziali (per esempio, di storia dell'arte greca e romana), i commissari possono facilmente cedere alla tentazione di condizionare il futuro della disciplina limitando le scelte di prima fascia ai candidati a essi affini per ambito di studi (anche ristrettissimo) o per appartenenze e colleganze che nulla hanno a che fare con la scienza. Scelte come queste risulteranno incomprensibili in the profession a livello dell'opinione pubblica internazionale". Nella tempesta che sta, meritatamente, investendo tutto il carrozzone delle abilitazioni, la lettera dei nostri più illustri archeologi rappresenta un episodio di inedita durezza, anche perché si conclude chiedendo alla ministra "di voler sospendere l'operatività di queste abilitazioni e tornare sull'intera materia delle abilitazioni e dei concorsi con un nuovo provvedimento legislativo, che ripristini il criterio assolutamente prevalente della qualità (e non della quantità) della ricerca". In effetti, a prendere in mano i giudizi di archeologia c'è da trasalire. Di fronte a lampanti conflitti di interesse, come nel caso di pubblicazioni firmate sia da un commissario che da un candidato, come hanno deciso di comportarsi i callidi commissari? Di astenersi? Di non valutarlo? No, manco per sogno, hanno previsto di allegare al giudizio "una dichiarazione da cui si evinca chiaramente la parte di contributo pertinente al candidato". Basterebbe questo per chiedere di invalidare tutto il concorso. Ma non è finita. Un commissario, il professor Alessandro Guidi, ha inserito tra i propri titoli un intervento (peraltro scritto a quattro mani con una collega) sull'archeologia dei nettascarpe, quei ferri otto-novecenteschi talvolta murati vicino ai portoni dei palazzi. Una curiosità da settimana enigmistica, decisamente improbabile nel curriculum di uno specialista in preistoria, e la cui unica rilevanza accademica è forse da cercare nella prossimità semantica che unisce nettascarpe e leccapiedi. UN ALTRO commissario, Francesco Tomasello, dichiara di non votare per l'idoneità di una candidata, per il suo "scarso coinvolgimento in attività universitarie". Ma la candidata in questione (Maria Luisa Catoni, cui è stata negata l'idoneità) presiede una commissione per il finanziamento di ricerche nell'influentissimo European Research Council, è Senior Fellow e Membro del Consiglio Scientifico dell'Italian A cademy della Columbia University, dirige un programma di dottorato della sua università, è stata Fellow del Wissenschaftskolleg di Berlino, Senior Project Associate al J. P. Getty Center Institute di Los Angeles: e dunque, viene da chiedersi, a quale mai tipo di attività universitarie pensava il commissario? A questo punto resta solo da vedere se la ministra accoglierà l'invito dei Lincei, o se invece lascerà ai Tar il facile compito di ridurre questi giudizi a carta buona per nettarsi giustappunto le scarpe. ____________________________________________________________ Le Scienze 04 Apr. ’14 UN INDICE PER LA LIBERTÀ DI RICERCA E DI CURA NEL MONDO Presentato oggi alla Camera dei Deputati il primo Indice che misura a livello mondiale il grado di libertà di ricercatori e pazienti in quattro aree fondamentali: aborto, riproduzione assistita, staminali embrionali e scelte di fine vita. Promosso e finanziato dall'Associazione Luca Coscioni, ha permesso di stilare una classifica che vede l'Italia molto indietro, appena al 35° posto su 42 paesi considerati. La presentazione è avvenuta nell'ambito del terzo incontro del Congresso mondiale per la libertà della ricerca scientifica in corso a Roma fino al 6 aprile di Giovanni Spataro L'Italia se la passa male in termini di libertà di ricerca e di cura. È una questione già nota da tempo, spesso denunciata da pazienti e da scienziati, e che ora trova conferma nell'Indice globale di libertà e autodeterminazione presentato stamattina alla Camera dei Deputati, nell'ambito del terzo incontro del Congresso mondiale per la libertà della ricerca scientifica, che si tiene a Roma da oggi al 6 aprile. Elaborato sotto la guida di Andrea Boggio, docente di diritto alla Bryant University, nel New England, l'indice è il risultato di uno studio interamente finanziato dall'Associazione Luca Coscioni senza alcun contributo pubblico, che ha consentito di stilare una classifica di 42 paesi in base al grado di libertà che garantiscono a ricercatori e pazienti. Al primo posto c'è il Belgio, seguito da Paesi Bassi e Stati Uniti. Per trovare l'Italia bisogna scendere parecchio, fino al 35° posto, con lo stesso punteggio di Brasile e Colombia. Le ultime tre posizioni vanno rispettivamente a Marocco, Egitto e Filippine. In generale, scrive Boggio, il quadro che emerge è quello di un mondo a diverse velocità, in cui i paesi più sviluppati dal punto di vista economico e istituzionale garantiscono livelli di libertà più elevati. Ma come dimostra, per esempio, la posizione dell'Italia rispetto a Grecia (al 6° posto) e Francia (al 17°), anche in un gruppo di paesi con livelli paragonabili di tradizioni e di sviluppo possono emergere differenze rilevanti. La metodologia con cui è stato elaborato l'indice si ispira al rapporto sulla libertà di stampa pubblicato ogni anno dalla Freedom House. In base alla lezione del filosofo statunitense Gerald MacCallum, nello studio la libertà è stata definita come una relazione tra tre elementi: un agente, condizioni di intralcio, azioni o trasformazioni degli agenti. In questa relazione a tre, la libertà è determinata dalle condizioni che vincolano l'azione degli agenti. Il ruolo di agente è rivestito da ricercatori e pazienti; le possibilità di fare ricerca, migliorare il benessere dei pazienti e richiedere trattamenti prendono il posto delle azioni; il quadro normativo fornisce le condizioni entro cui ricercatori e pazienti possono agire per i rispettivi obiettivi. I punteggi dell'indice rispecchiano lo spettro della libertà così definita nei vari paesi. Nello specifico, l'indice si è concentrato su quattro aree che chiamano in causa la libertà di ricerca medica e di trattamento: tecnologie di procreazione assistita; ricerca con cellule staminali embrionali umane – quindi che hanno come oggetto embrioni e pre-embrioni; scelte di fine vita; aborto e contraccezione. Per ciascuno di questi ambiti è stata stilata una classifica, sempre in base alla metodologia descritta in precedenza, che può non rispecchiare la classifica finale. Per esempio, nel caso delle tecnologie di procreazione assistita, il primato di libertà è della Nuova Zelanda, e l'Italia si colloca al numero 36. Ultimo il Marocco, penultima l'europea Austria. Il risultato migliore per il nostro paese è nell'ambito delle scelte di fine vita (dove sono primi con pari punteggio Belgio e Paesi Bassi): siamo al 27° posto. Non è un risultato lusinghiero, anche alla luce di casi di recenti, come quelli di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby. Ma sempre meglio che per quanto riguarda l'aborto, dove ci classifichiamo al 45° posto, in compagnia della Germania e della Guyana, mentre il primato spetta a Norvegia, Stati Uniti e Svezia. Il risultato peggiore l'Italia lo ottiene nella ricerca con embrioni e staminali embrionali. Il punteggio è ovviamente zero, vista la legislazione vigente, e ci classifichiamo all'ultimo posto, in compagnia tra gli altri di Germania, Egitto e Filippine. A dimostrazione che la negazione della libertà può essere trasversale dal punto di vista sia geografico sia di contesto culturale. In questo ambito, i primi posti di Singapore e India fotografano il cambiamento in atto nello scenario globale della ricerca scientifica, un fenomeno ancora poco affrontato dai decisori politici di paesi come il nostro, che pur essendo ancora tra i più avanzati in termini di produzione scientifica, potrebbe non conservare per sempre questo vantaggio. L'indice si propone quindi come strumento di scelta politica, e non è un caso che sia presentato nell'ambito di un incontro dedicato al divario tra scienza e politica, all'insegna della constatazione che "il metodo scientifico è uno strumento fondamentale per la vita del metodo democratico". ____________________________________________________________ Il Manifesto 05 Apr. ’14 LIBERTÀ DI RICERCA, ITALIA TRA GLI ULTIMI AL 35° POSTO SU 42. ASSOCIAZIONE COSCIONI • Lo studio di Andrea Boggio, Bryant University, presentato al Terzo Congresso mondiale Napolitano: «Tra scienza e politica occorre maggiore dialogo» Eleonora Martini ROMA A guardare il mappamondo con i Paesi colorati a seconda del grado di libertà di ricerca scientifica, il brivido alla schiena è inevitabile. La nuance arancione acceso accomuna l'Italia solo alla Colombia e al Brasile, mentre il grado più tenue della Turchia, per esempio, attesta che il Paese islamico che molti vorrebbero fuori dall'Europa ci lascia un passo indietro nella classifica generale stilata in base alla mappatura completa di 42 Paesi e parziale di più di 100. Sotto i] 35" posto, posizione a cui è ormai relegato il Paese che ha dato i natali a Galileo Galilei e Leonardo Da Vinci, ci sono solo la Croazia, l'Iran, la Tunisia, il Cile, il Marocco, l'Egitto e le Filippine. In cima alla classifica invece ci sono il Belgio, l'Olanda e gli Usa, ma anche la Grecia si assesta al sesto posto, molto prima della Francia (16°) o della Germania (28°). E quanto risulta da uno studio condotto dal giurista e scienziato sociale Andrea Boggio della Bryant University presentato ieri a Roma, nella sala dei Gruppi parlamentari di Montecitorio, durante la prima giornata di lavoro del terzo Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica organizzato dall'Associazione radicale Luca Coscioni che ha anche finanziato il lancio del «Global index on freedom of research and sei!: determination». Sono quattro le aree tematiche strategiche studiate per misurare gli «spazi di libertà nel campo della scienza biomedica e dell'autodeterminazione relativa alla salute»: ricerca con embrioni e cellule staminali, riproduzione assistita, aborto e contraccezione, scelte di fine vita. In progetto però c'è anche il prossimo monitoraggio della libertà di trattamento nell'uso terapeutico dei narcotici e nella terapia del dolore. Non è quindi strettamente necessario essere uno scienziato per intuire che è già tanto se, nell'indice, l'Italia ha totalizzato 83 punti, poco più della metà rispetto ai 163 del Belgio e solo ad una manciata di spiccioli rispetto all'Iran (66 punti) o alla Tunisia (56). Per «scongiurare le trappole teoriche», ha spiegato il professor Boggio, lo studio «fa riferimento a un'idea di libertà descrittiva e misurabile», con una metodologia «perfezionata a lungo e in molti anni» che prende in esame la legislazione del Paese e «l'ambiente nel quale ricercatori, professionisti del settore sanitario e pazienti fanno ricerca, forniscono assistenza e richiedono trattamenti». «L'Italia ha una legislazione avanzata solo sull'aborto — precisa il ricercatore — mentre ci sono Paesi meno sviluppati economicamente che hanno già affrontato certi dibattiti in modo più costruttivo». Se guardiamo all'Europa, aggiunge Boggio, «di fronte ad una comunanza culturale in materia economica e di altre politiche sociali (pensiamo al rigetto della pena di morte), ricerca biomedica e autodeterminazione sembra creare divisioni che forse riflettono più certe manipolazioni politiche e culturali a livello nazionale che non profonde divisioni culturali». Il proibizionismo e i divieti hanno «soltanto generato viaggi della speranza dei pazienti all'estero, come accade per il suicidio assistito in Svizzera». Per «colmare il divario tra scienza e politica», tema a cui è dedicato questo terzo Congresso mondiale che oggi si sposterà nelle sala della Protomoteca del Campidoglio, si potrebbe introdurre uno «science advisor per il presidente del Consiglio, figura che esiste in molti Paesi», ha suggerito Roberto Bertollini, direttore dell'ufficio europeo dell'Oms. Ma è evidente che il clima antiscientifico che si respira in Italia è anche frutto di una cultura del «sospetto» e di una «raffigurazione stessa dei ricercatori negativa nella percezione comune», secondo l'ex ministro degli Esteri, Emma Bonino, che era tra i relatori di ieri insieme a personalità del calibro di David Nutt, ex consulente del governo britannico sulle droghe, o Ana Virginia Calzada, già presidente costituzionale della Suprema Corte di giustizia del Costa Rica. «L'interazione fra mondo della ricerca e politica dovrebbe essere migliorata — ha proseguito Bonino — perché il metodo scientifico è l'unico argine agli ideologismi e alle illusioni come quelle che abbiamo visto nel caso Stamina». E un monito arriva anche da Giorgio Napolitano con un messaggio inviato all'Associazione Coscioni: «La complessità del tema — scrive il capo dello Stato — non deve costituire un freno allo sviluppo di ogni utile approfondimento e riflessione da parte dell'intera comunità e in particolare del Parlamento ma piuttosto indurre i vari protagonisti a ricercare e definire soluzioni appropriate e condivise nell'ambito di una corretta applicazione del metodo scientifico». Napolitano è convinto »che dall'impegno, dalla passione e dalla capacita di dialogo su temi cruciali per il benessere di tutti, possa derivare il superamento di contrapposizioni ritenute finora invalicabili». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 05 Apr. ’14 BOSCHI: «I PROFESSORI BLOCCANO LE RIFORME» Il ministro Maria Elena Boschi all'attacco ROMA Rischia di generare un conflitto quasi generazionale il dibattito sulle riforme che da giorni accende la politica e che vede il premier Matteo Renzi fermo sulla necessità di tempi certi e rapidi. A dargli manforte ieri è stato il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi che, soffermandosi sulla necessità di una svolta istituzionale non più rinviabile, lancia un attacco frontale ai «professori» che per tre decadi «hanno bloccato» il processo di riforme. Con un professore, in particolare, nel mirino: Stefano Rodotà. Rodotà è infatti in prima fila tra gli oppositori alla riforma del Senato e, con Gustavo Zagrebersky, è tra i firmatari del manifesto «Verso la svolta autoritaria», promosso da Libertà e Giustizia e duro con l'impianto della riforma proposta da Renzi. Ed è proprio a Rodotà che ieri si è rivolta Boschi. «Io temo che in questi trent'anni le continue prese di posizione dei professori abbiano bloccato un processo di riforma oggi non più rinviabile», è l'affondo del ministro, che sottolinea, al pari della legittimità di posizioni diverse, anche l'esistenza di diversi costituzionalisti schierati a favore del ddl presentato il 31 marzo. ____________________________________________________________ Il Giornale 04 Apr. ’14 PROF PENSIONATI MA NON MOLLANO UNIVERSITÀ La riforma inceppata Quei professori in pensione che non mollano la cattedra Tra Bicocca e Statale sono decine gli ultrasettantenni al lavoro Qualcuno ancora pagato per insegnare, altri impegnati gratis Hanno provato a mandarli in pensione, ma loro non mollano il posto facilmente. Sono i professori universitari, spesso indicati come i «baroni» degli atenei che dovevano lasciare il posto di lavoro in seguito alle riforme universitarie degli ultimi anni. Dovevano. Perché hanno trovato le formule per non andarci e adesso, dalla Bicocca alla Statale, ci sono decine di inamovibili. Dal 2005, nell'ambito delle riforme universitarie targate Moratti e Gelmini, più di un provvedimento ha tentato di mandare in quiescenza i professori al raggiungimento del settantesimo anno di età. Veniva in sostanza eliminatala figura del professore fuori ruolo, quello cioè che rimaneva in servizio ancora un biennio dopo aver raggiunto l'età pensionabile. Sembrava l'occasione per un ricambio generazionale. Sembrava: una serie di ricorsi al Tar e al Consiglio di stato hanno portato la questione all'attenzione della Corte costituzionale. E i giudici hanno stabilito che non era rispettoso della Carta mandare a coltivare le rose i docenti. Forse anche perché uno dei ricorrenti aveva fatto notare nel documento presentato al tribunale che anche per i magistrati esiste la figura del fuori ruolo. Così sono usciti dalla porta e prontamente rientrati dalla finestra con nuove formule: chi continua a insegnare accontentandosi della pensione, chi invece ha un contratto retribuito e chi è rimasto per seguire i progetti di cui era responsabile. Di anno in anno, di tribunale in tribunale, hanno vinto: in sostanza sono ancora lì. Ad esempio l'università Bicocca ha inventato quest'inverno la figura del professore senior: in sostanza non si ricevono emolumenti, ma per due anni si mantiene l'indirizzo di posta universitario e la possibilità di collaborare a progetti nel quale il professore o ricercatore fosse coinvolto. È appena nata, ma ci sono già tre professori e un ricercatore in servizio. E per quest'anno ci sono già altre due richieste per diventare senior. Ma esistono anche i contatti di docenza, in p arte gratuiti e in parte pagati: «I professori in pensione che hanno incarichi di docenza a contratto gratuito sono dodici specifica l'ufficio stampa della Bicocca e quelli che hanno un incarico retribuito sono undici». E all'università Statale la situazione non è migliore: «Nell' anno accademico 2013-2014 sono rimasti a insegnare, dando all'atto del pensionamento la loro disponibilità al dipartimento di afferenza 44 docenti in pensione spiegano all'università in Statale abbiamo escluso la possibilità di restare fuori ruolo, ossia venendo pagati, tranne che per docenti che siano all'atto del pensionamento titolari di progetti internazionali di particolare rilievo». ____________________________________________________________ Repubblica 31 Mar. ’14 DIMMI COME STUDI E TI DIRÒ CHI SEI: L'IDENTIKIT DEGLI UNIVERSITARI, DALL'ONNIVORO AL MINIMALISTA L'Aie ha "mappato" gli studenti delineando cinque profili, su un campione di oltre duemila giovani tra i 18 e i 30 anni. Da chi usa tutto, manuali, ebook, web, appunti ai refrattari alle nuove tecnologie di MANUEL MASSIMO Università, l'identikit dello studente: dall'onnivoro al minimalista Università, l'identikit dello studente: dall'onnivoro Dimmi come studi e ti dirò chi sei: l'identikit degli universitari, dall'onnivoro al minimalista Dimmi come studi e ti dirò chi sei. In base agli strumenti tecnologici utilizzati per prendere appunti a lezione, approfondire gli argomenti e preparare gli esami l'Aie (Associazione Italiana Editori) ha "mappato" gli universitari delineando cinque profili rappresentativi del variegato microcosmo di studenti con un'età compresa tra i 18 e i 30 anni. L'indagine - condotta in collaborazione con Cun (Consiglio Universitario Nazionale), Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) e presentata oggi a Roma - ha scandagliato preferenze e abitudini di un campione rappresentativo di oltre duemila studenti universitari (nell'ambito del concorso e-book, all'interno del Maggio dei Libri) restituendo una fotografia precisa di come i giovani studiano oggi negli atenei. Tra carta e digitale. Negli ultimi anni la tecnologia si è diffusa in modo massiccio e capillare anche nelle aule universitarie ma "carta" e "digitale" continuano a convivere: c'è chi integra le due modalità di fruizione dei contenuti, chi ne predilige decisamente una rispetto all'altra e anche chi, invece, utilizza di volta in volta il supporto che ritiene più adatto per le sue ricerche su una determinata materia. La ricerca completa - disponibile dal 31 marzo sulle principali piattaforme online nell'ebook di Marina Micheli "Stili di studio degli universitari italiani tra carta e digitale" - costituisce un vademecum utile agli editori per orientare le loro scelte strategico-editoriali ma anche a chi ha responsabilità politiche in materia, in primis il Miur (Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca). I cinque identikit. In base alle modalità prevalenti di fruizione dei contenuti gli studenti sono stati classificati in cinque categorie. La più rappresentativa è costituita dagli "onnivori" (il 37 per cento del campione, ndr) che usano tutto: manuali cartacei, ebook, fonti web, appunti e libri scelti autonomamente; con il 18,5 per cento seguono i "tradizionalisti", refrattari alle nuove tecnologie, che prediligono strumenti di studio cartacei; al terzo posto i "pragmatici" (18,4 per cento) che studiano lo stretto necessario per l'esame senza fare distinzioni tra carta e digitale; con il 13,4 per cento i "minimalisti" cercano di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo e per studiare si affidano più agli appunti e agli schemini riepilogativi che non ai libri; infine, con il 13 per cento, gli "esploratori" sono per lo più lettori forti e approfondiscono le materie di studio sia sulla carta che su supporti digitali. Università, l'identikit dello studente: dall'onnivoro al minimalista Navigazione per la galleria fotografica1 di 7 Il campione intervistato. I giovani protagonisti dell'indagine hanno in media 23 anni, circa la metà frequenta un corso di laurea triennale e per il 57,4 per cento sono femmine. Possono essere considerati "lettori forti" - visto che leggono in media circa un libro al mese - e il 54 per cento ha letto almeno un ebook nell'anno precedente. In media sono abbastanza tecnologici: hanno praticamente tutti un computer, il 64 per cento possiede uno smartphone e il 28,6 per cento un tablet. Il social network più gettonato è Facebook (89 per cento), seguito da Google+ (48 per cento) e da Twitter (45 per cento). La distinzione forte che emerge dall'indagine non risiede dunque nella dicotomia "cartaceo vs. digitale" quanto piuttosto tra chi studia per apprendere e chi studia per passare gli esami. "Il futuro è nei libri che leggi". Lo slogan di Matteo Zocchi (vincitore dell'edizione 2013, ndr) è stato scelto per la campagna di comunicazione degli editori per valorizzare i libri universitari che l'Aie lancerà a partire dal 23 aprile 2014, con la nuova edizione del concorso in tutte le università italiane, accompagnato dall'hashtag #compracultura. Come emerge dall'indagine, accanto ai contenuti digitali continuano (e continueranno) a convivere quelli su supporto cartaceo e la fruizione dei libri "tradizionali" è molto diversificata in base alla tipologia di studente: gli onnivori prediligono quelli presi in prestito dalle biblioteche; i minimalisti tendono ad utilizzarli di meno (ma ad acquistarli nuovi); i pragmatici puntano sull'usato e sullo scambio; gli esploratori ne studiano, ne possiedono e ne conservano più degli altri; infine i tradizionalisti, che studiano soltanto sui libri di carta, lo "zoccolo duro" che sfoglia le pagine, prende note a margine e sottolinea le righe con evidenziatori colorati. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Apr. ’14 IL RETTORE FRATI E L'INCARICO AL FIGLIO «PROCEDURE REGOLARI» Doppio interrogatorio in Procura per il Magnifico Rettore della Sapienza, Luigi Frati, e suo figlio Giacomo. Sono stati ascoltati dal pm Alberto Pioletti sul presunto abuso d'ufficio che ha portato Frati jr alla direzione di una struttura interna al reparto di cardiochirurgia del policlinico Umberto I, nel 2011. L'Unità programmatica di tecnologie cellulari applicate alle malattie cardiovascolari, dove il figlio del direttore del reparto è entrato direttamente nel ruolo di primario, sarebbe stato creata ad hoc, secondo l'ipotesi d'accusa, solo in funzione dell'assegnazione di questo incarico. Il confronto di Frati, padre e figlio, con il pubblico ministero rientra nelle facoltà concesse agli indagati alla conclusione delle indagini, avvenuta a dicembre. Assistito dall'avvocato Alessandro Diddi, il Rettore ha spiegato la scelta di creare il nuovo reparto e i motivi in base ai quali è stato assegnato al figlio. Una procedura, è la tesi difensiva, motivata da esigenze gestionali e avvenuta a norma di legge: «Non è la nomina di Giacomo Frati, ma le procedure seguite ad essere sotto esame. La necessità di creare il reparto, il concorso per il ruolo di primario, la nomina. Tutti i passaggi che hanno portato all'incarico sono già stati oggetto di ricorsi al Tar e in ognuno di questi il tribunale amministrativo ci ha dato ragione», spiega il legale. Oltre a padre e figlio gli indagati sono l'allora commissario straordinario dell'Umberto I, Antonio Capparelli, e l'ex direttore sanitario, Francesco Vaia, che avrebbero materialmente commesso l'abuso dispensando Frati jr. dalle guardie notturne all'Unità operativa di cardiochirurgia e attribuendogli la direzione dell'unità «di fatto scrive il pm nella conclusione indagini voluta dal rettore Luigi Frati per favorire il figlio Giacomo». La delibera, continua il documento della Procura «veniva adottata in carenza di qualsiasi parere o preventiva approvazione della Regione e pertanto in violazione di norme di legge o regolamento». Rischia il processo anche Floriana Rosata, che «in qualità di dirigente dell'area risorse umane della Regione ometteva di adottare i prescritti provvedimenti in relazione alla delibera, non verificandone la legittimità». E accusata di omissione in atti d'ufficio. Il ruolo assegnato a Frati jr., ricercatore a 28 anni, professore associato a 31, titolare di cattedra a 36, ordinario di medicina nella facoltà diretta dal padre, è al centro anche di un esposto del sindacato Fials alla Corte dei Conti per i supposti sprechi legato al moltiplicarsi delle strutture. Nell'ospedale universitario hanno trovato posto anche la moglie del Rettore, Luciana Rita Angeletti, laureata in lettere e docente di storia della medicina, e la figlia Paola, laureata in legge e docente di medicina legale, Valutate le controdeduzioni della difesa anche una voluminosa memoria il pm deciderà se chiedere l'archiviazione o il processo. Fulvio Fiano ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 05 Apr. ’14 BONUS RICERCA, ECCO LE REGOLE Pronto il decreto attuativo ma va ancora sciolto il nodo coperture da 600 milioni Carmine Fotina ROMA Norme urgenti per dare una pronta risposta alle imprese. Norme per le quali serve immediata certezza di copertura finanziaria. Sono entrambi concetti con i quali il ministero dello Sviluppo economico chiede a Palazzo Chigi di ridefinire rapidamente la fonte delle risorse per il credito d'imposta per gli investimenti in ricerca. La misura è contenuta nel decreto Destinazione Italia, con la previsione di 600 milioni per il 2014-2016, insieme ai "bonus" per le Pmi digitali, 150 milioni, per i quali però la copertura sembra essere più solida (si veda l'articolo in basso). Dal ministero dell'Economia e da Palazzo Chigi fanno capire che sul dossier c'è massima attenzione. Il punto di partenza è il decreto attuativo di 14 articoli appena definito dallo Sviluppo e sul quale il dicastero di Padoan dovrà fornire il concerto. La platea interessata Il credito d'imposta sarà riconosciuto, fino a un importo massimo annuale di 2,5 milioni per beneficiario, nella misura del 50% degli incrementi annuali di spesa in R&S e a condizione che siano sostenuti investimenti per almeno 50mila euro nell'anno di riferimento. Il beneficio può essere concesso a tutte le imprese con fatturato inferiore a 500 milioni, fatta eccezione per le "imprese in difficoltà" e per quelle destinatarie di aiuti dichiarati illegali o illegittimi dalla Commissione Ue. L'articolo 3 elenca le attività e i costi ammissibili divedendoli in tre categorie: costi per il personale (dipendente o collaboratore se svolge l'attività intra muros); quote di ammortamento delle spese di acquisizione o utilizzazione di strumenti e attrezzature (con costo unitario di almeno 2mila euro); costi della ricerca svolta in collaborazione con università e organismi di ricerca, inclusi brevetti acquisiti o ottenuti in licenza. Le attività ammesse includono lavori sperimentali o teorici; ricerca pianificata o acquisizione di conoscenze per mettere a punto nuovi prodotti, processi o servizi o permettere un miglioramento. Le agevolazioni possono essere concesse anche a consorzi e reti di imprese, con ripartizione proporzionale alla partecipazione ai costi. Istanze e fruizione Le domande dovranno essere presentate esclusivamente per via telematica attraverso un'apposita piattaforma informatica che sarà disponibile sul sito www.mise.gov.it. Sarà una circolare del direttore generale incentivi del Mise a definire il modello di istanza e le modalità di presentazione. Sarà invece un decreto direttoriale a individuare i termini per la presentazione delle domande, sempre a condizione che siano individuate le risorse. Il meccanismo appare piuttosto complesso. Il ministero effettua una verifica ex ante dei requisiti e determina l'importo prenotato in favore di ciascuna impresa, con riparto proporzionale nel caso in cui si sfori il plafond. La fase 2 consiste nella verifica ex post: entro 30 giorni dalla chiusura del periodo d'imposta o dall'approvazione del bilancio le imprese inviano la rendicontazione dei costi, sulla base della quale il ministero potrà confermare l'importo del credito d'imposta prenotato, con la possibilità di abbassare dal 50 al 40% la misura dell'aiuto se l'importo incrementale è inferiore di oltre il 20% a quanto indicato nella domanda. Il credito d'imposta, cumulabile anche con aiuti de minimis nei limiti delle intensità di aiuto per progetti di ricerca, dovrà essere indicato nella dichiarazione dei redditi del periodo d'imposta di riferimento e sarà utilizzabile esclusivamente in compensazione presentando attraverso il canale telematico il modello F24. Il decreto regola anche i casi di revoca e i controlli, che il ministero può effettuare a campione anche con il supporto della Guardia di finanza. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 03 Apr. ’14 UNICA: IL RETTORE: «IO RESTO QUI» Dimissioni per far posto al figlio? Secca smentita UNIVERSITÀ. Iniziate le grandi manovre per la successione a Melis Le grandi manovre sono cominciate in sordina. Ignorata la tregua prevista almeno fino a Pasqua, hanno avviato contatti, fatto partire le prime telefonate, concordato quelle che si chiamano riunioni ristrette (quattro amici al bar). I papabili alla carica di magnifico rettore dell'università di Cagliari si sono messi in moto con grande anticipo per via di una ghiotta indiscrezione: Giovanni Melis lascia. Il suo mandato scade a maggio 2015 ma farà le valigie molto prima per una serie di validissime ragioni: consentire che il figlio possa prender cattedra e in contemporanea fuggire col governatore Pigliaru che lo reclamerebbe alla presidenza di un grosso ente regionale. L'importante, da un certo punto di vista, è che comunque se ne vada, e presto. Questo sperano i successori in pectore. Che fino a ieri erano tutti lì, felici e contenti accanto al feretro del caro estinto (accademicamente parlando), formalmente partecipi, addirittura scossi, amichevolmente contriti. Peccato che il caro estinto la pensasse diversamente . Melis non ha la minima intenzione di andarsene. A confermarlo è l'interessato, nel suo immenso studio da Magnifico. «Starò al mio posto fino all'ultimo giorno». E la cattedra di famiglia ad Economia? «Mio figlio può aspettare». E le proposte di Pigliaru? «Non lo sento da tempo». E se le proponessero un ente regionale a sei zeri? «La carne è debole, vedremo». La legge Gelmini, quella contro cui Melis salì sui tetti insieme agli studenti vieta che all'interno dell'ateneo possano esserci parenti stretti, figuriamoci padre e figlio. Eppure quella legge tanto contestata ha consentito proprio a Melis di stare in carica oltre i limiti dell'età pensionabile. Cagliaritano, 68 anni, il rettore è abituato a fare il presidente: Opera universitaria, preside di facoltà, Credito industriale sardo. A sentire quelli che non lo amano ha spesso lasciato gli incarichi prima della scadenza. Lui nega facendosi accompagnare da un sorriso enigmatico: non si capisce se voglia manifestare disprezzo verso gli avversari o, più banalmente, soddisfazione per quelli che friggono d'invidia. Chiudendosi la porta alle spalle, senza trascinarsi dietro grandi affetti o squadre di devoti, lascerà in ogni caso un'università sana: in coda alle classifiche nazionali ma con i conti a posto. Proprio quella dei conti è tuttavia la critica più feroce che gli rivolgono: «In fondo, resta un ragioniere con una prospettiva che non va oltra i libri contabili». Di sicuro Melis, che gestisce un bilancio di oltre duecento milioni di euro, ha iscritti in calo (circa trentamila) ma un regime di tassazione tra i più bassi in Italia: da un minimo di duecento euro a un massimo di 2.600. Compresi seimila esonerati. Il suo predecessore invece «abbuonava le tasse a troppi studenti e si rifaceva spolpando quelli ricchi. Il che non è giusto». Chiamato in causa come Robin Hood dell'università, Pasquale Mistretta - rettore che ha governato per 18 anni e sei mandati - fa spallucce e non risponde. E senza fare esplicito riferimento al caratteraccio attribuito al suo successore, svela l'elisir di lunga vita accademica: «Avevo l'abitudine di sorridere e salutare tutti, dal primo all'ultimo». Il nuovo che avanza verso la poltrona di Giovanni Melis è composto da docenti di tutto rispetto. Il toto-previsioni non azzarda nomi per il momento ma quelli che si fanno sottovoce sono arcinoti: Maria Del Zompo (Medicina), Giaime Cao (Ingegneria), Paolo Fadda (Ingegneria), Giorgio Massacci (Ingegneria). C'è poi un quinto candidato, come dire?, coperto: si saprà di chi si tratta solo quando comincerà davvero la campagna elettorale. Tenuto conto dei tagli di bilancio, del lustro appannato e tutto il resto, quanto conta davvero uno scranno da Magnifico? Mistretta, che se ne intende, dice che «il potere, in senso vero, non è granché ma il ruolo sicuramente gratificante: un rettore conta più d'un assessore o dello stesso presidente di Regione». Giorgio Pisano ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 Apr. ’14 GLI STUDENTI NON CAMBIANO: UN ALTRO TRIONFO PER UNICA 2.0 UNIVERSITÀ. I vincitori: «È stato premiato il lavoro svolto». Spoglio a rilento «Abbiamo rivinto, è la conferma della strada giusta che abbiamo seguito fino a oggi e proseguiremo nel solco tracciato». Sono le prime parole pronunciate al telefono da Tarrab Mohammad Alì, rappresentante di “Unica 2.0”, lista orientata a sinistra che ha rivinto le elezioni universitarie. Si votava per i rappresentanti degli studenti, dei dottorandi e degli specializzandi nel Senato accademico e nel Consiglio di amministrazione dell'Ateneo, nel Comitato sportivo universitario, nei Consigli di facoltà e in quelli di corso di studio. I VINCITORI I dati ieri a tarda sera erano ancora provvisori, ma per Tarrab Mohammad Alì bastavano e avanzavano: «Confermati due candidati su due nel Consiglio di amministrazione, tre candidati su quattro nel Senato accademico e due consiglieri nel Comitato sportivo universitario su due. Siamo molto soddisfatti, venivano da un grande successo e sentivamo la responsabilità che ci era stata data». Premiato il lavoro svolto in questi anni, insomma: «Ma anche l'idea di un'associazione che si rinnova e che propone sempre volti nuovi, ma con lo stesso nome dietro». LE ALTRE LISTE Fabrizio Mattu, leader di “Ajò”, è soddisfatto: «Mi congratulo con i colleghi di Unica 2.0, ma sono molto contento del risultato della mia lista. Alla Cittadella abbiamo staccato Unica 2.0 di settanta voti, ci siamo confermati in Medicina e Chirurgia, dove abbiamo preso più preferenze di due anni fa. Abbiamo ottenuto un seggio nel Senato accademico, confermando il precedente risultato. Quando mi sono messo in gioco nel Cda serviva una candidatura che spingesse la lista a espandersi non solo in Cittadella, ma in tutto l'Ateneo. Come leader ci ho messo la faccia per il bene del gruppo, e alla fine posso dire che la sfida è stata vinta». Alessandro Loi rappresenta la lista “Scida”: «Abbiamo ottenuto un ottimo risultato in Scienze Politiche, siamo in attesa dei dati ufficiali, speriamo di avere il primo rappresentante dell'indipendentismo eletto». «Siamo contenti di esserci messi in gioco», dice Giovanni Vargiu di “Progetto studenti”, «e di aver partecipato a questa campagna elettorale dicendo la nostra. Un grazie immenso a chi ci ha sostenuto e a chi si è fidato di noi». L'AFFLUENZA Lo spoglio è andato avanti lentamente, è durato fino a tarda notte. Più di trentamila le persone che avevano diritto a esprimere la loro preferenza. Alla fine hanno votato il 16,5% degli studenti, il 16% degli specializzandi e l'8,3% dei dottorandi. Numeri molto bassi. Piercarlo Cicero ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 Apr. ’14 SARDEGNA: SEMPRE MENO STUDENTI: NON SERVONO ALTRE SCUOLE Classifica impietosa per le città sarde e si impone un muovo modello Classifica impietosa: Olbia al quarantesimo posto. Cagliari al numero 68, Nuoro all'81 e Sassari all'84. Oristano non pervenuto. In testa, stile Bayern, c'è sempre Trento. In fondo, posizione 86, c'è Messina. È la graduatoria dei capoluoghi sul fronte qualità dell'edilizia scolastica, tirate le somme delle indagini. Non proprio un successone per le case dell'istruzione dell'infanzia, primaria e secondaria di primo grado in Sardegna. Cosa significa? Che sul fronte di stabili, certificazioni, manutenzione, servizi, sistemi ecocompatibili, lotta all'inquinamento, monitoraggi, siamo ben lontani dal minimo garantito. Voce per voce ci sono eccezioni, ma il quadro non è confortante. Se poi si scorre la graduatoria del rischio ambientale (cioè qualsiasi inquinamento immaginabile), si scopre che, su 86 Comuni analizzati, Cagliari è al decimo posto, Sassari al sedicesimo, Olbia al cinquantasettesimo. Viceversa nella classifica delle buone pratiche Cagliari piomba in fondo (68), preceduta da Olbia (56) e seguita da Sassari (78). Se la cava Nuoro, posizione 26. In cima chi ha investito di più in servizi di scuolabus, percorsi pedonali, biblioteche, attività educative, sicurezza urbana e interna, mense, raccolta differenziata dei rifiuti, energia rinnovabile. Insomma, il ciclo virtuoso integrato: chimera nazionale, è bene precisarlo. E più ancora nell'Isola, che pure può vantare un patrimonio edilizio recente. Per capire bene la questione, tutto questo va collegato a un altro dato: la popolazione in età scolare dell'Isola (dai 3 ai 18 anni) è il 14 per cento (233.514) dei residenti. Cala costantemente (-42,3 % nella fascia 14-18 anni dal 1991 al 2008). Gli iscritti sono poco più di 218.000, con una flessione del 13,3 % fra il 2001 e il 2009. In altre parole: gli studenti di ogni ordine e grado sono e saranno sempre meno. Il dossier dell'Ance prevede nel 2024 un decremento fra il 9,9 e il 16 %. Deduzione: non servono nuove scuole, serve sistemare (e talvolta demolire) quelle esistenti. Maurizio De Pascale, presidente dell'Ance Sardegna, risponde così: «Le Ferrovie italiane prima dell'alta velocità erano un disastro, poco frequentate. Oggi sono società con un bel margine». Forse non abbiamo bisogno di nuovi edifici, «ma che sia una necessità avere una scuola vivibile secondo i canoni più moderni è indiscutibile. Una scuola che insegni, ovvio, ma inserita nel suo quartiere. Per ragazzi che vogliono imparare lingue, fare sport, persino una festa della prima comunione». Ancora: la dispersione scolastica, prossima al 37 %. Altro nesso con l'edilizia? «Non c'è un rapporto», dice Giuseppe Fara, già referente scientifico della Provincia di Cagliari e di due osservatori (politiche sociali e scuole): «Mi sono occupato di cattiva edilizia scolastica. È un fattore, ma ce ne sono molti altri. La dispersione è il prodotto naturale di un percorso deludente». Ci sarà una ragione «se i nostri bambini in seconda elementare sono in cima alle graduatore nazionali e i ragazzi, verso la maturità, sono i meno bravi d'Italia». Niente rapporto di causa ed effetto, ma una bella scuola «è attrattiva». Fara pensa «all'Agrario di Cagliari, ottimo istituto, ben tenuto, ma soprattutto con un'organizzazione che funziona». Anche Rosamaria Maggio, del Centro di iniziativa democratica degli insegnanti, mette in guardia dagli appelli eclatanti: «Discutiamo di questi interventi. Il vero problema è che la scuola italiana è autoritaria», qualcosa di simile alle accuse lanciate a febbraio dal preside del Dettori: l'edilizia scolastica perpetua la «didattica frontale», progettata da «da ingegneri senza competenza didattica», disse Marcello Garbati. «Bisogna attrarre i ragazzi con un nuovo tipo di scuola», sintetizza la Maggio: «Didattica che coinvolga, spazi aperti. Un edificio accogliente è meglio, ma il problema principale è il basso livello di competenze». In questo senso un muro può essere utile. R. C. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 31 Mar. ’14 MANAGER DEL TURISMO, IL MASTER CHE SFORNA GIOVANI DISOCCUPATI A un anno esatto dal conseguimento del titolo accademico nessuno dei venticinque studenti è riuscito a trovare lavoro di Gianluca Corsi NUORO L’anno scorso, durante la solenne cerimonia per la consegna dei “diplomi” nelle sale dello spazio per le arti Tribu, sembrava che per i 25 nuovi manager nuoresi del turismo dovesse aprirsi un futuro radioso e ricco di soddisfazioni professionali. Peccato che, a oggi, praticamente nessuno dei giovani laureati che hanno frequentato in città il master Must, per Manager dello sviluppo turistico territoriale e la gestione delle imprese turistiche, stia effettivamente lavorando. A farlo presente, con una comprensibile punta di amarezza, sono gli stessi neo professionisti del turismo; settore che, peraltro, viene da tutti considerato, almeno a parole, il vero traino dell’economia sarda. Evidentemente non è così, visto che, neppure dalla Regione Sardegna, che pure ha collaborato alla realizzazione del master attraverso l’assessorato regionale del Lavoro, sono mai arrivate risposte alle richieste di maggior valorizzazione pervenute da parte degli studenti. «A febbraio – spiega Antonello Ladu, trentaduenne reduce da uno stage altamente formativo in una grande struttura tuiristica in Brasile, e da tre mesi di perfezionamento dell’inglese negli Stati Uniti – abbiamo inviato una mail agli assessorati del Lavoro e del Turismo in cui, sia ben chiaro, non chiedevamo alcuna corsia preferenziale o trattamento di favore, ma sollecitavamo la possibilità che la nostra figura, per la cui formazione la Regione si è impegnata tanto, anche da un punto di vista finanziario, fosse quanto meno fatta conoscere agli enti e alle imprese turistiche dell’isola». Ma dagli assessorati, forse impegnati nella fase di “transizione” elettorale, non è mai giunto alcun segnale. Solo qualche risposta vaga di incoraggiamento dai docenti e niente più. Eppure il Must, che vantava la presenza di docenti dell’Università cattolica del Sacro Cuore (sede di Piacenza) e le cui lezioni si svolgevano nelle moderne aule dell’Ailun, era stato presentato come una grande opportunità di formazione, alla quale tanti giovani brillanti avevano dato credito. «Bastava che la Regione facesse come per il Master&Back – continua Ladu – favorendo una forma di percorso di rientro o, per lo meno, di “incontro” tra domanda e offerta, magari attraverso una sorta di banca dati alla quale le imprese avrebbero potuto attingere. Invece abbiamo il sospetto che la nostra figura professionale e la nostra esperienza formativa, avvalorata da stage impegnativi anche all’estero, non siano neanche conosciute dagli addetti ai lavori». «È troppo – si domandano i manager del turismo, rimasti molto uniti anche dopo il master – chiedere che la Regione Sardegna, anche quando impegna tanti fondi per organizzare corsi di specializzazione di un certo livello, si premuri che questi siano minimamente finalizzati ad uno sbocco professionale?». Anche perché la collaborazione tra l’ateneo di Piacenza e la Regione annovera già anche un’altra scuola di specializzazione nel campo dell’amministrazione del territorio. E non sarebbe piacevole illudere altri giovani sardi di belle speranze. FORMAZIONE, IL TRADIMENTO DELLE ASPETTATIVE Era stato presentato in pompa magna il 28 febbraio 2012, il Master universitario di I livello per manager dello sviluppo turistico territoriale e della gestione di imprese turistiche attivato dall’assessorato regionale alla Formazione e dall’Università cattolica del Sacro Cuore. Due le esperienze in Sardegna, una a Cagliari, l’altra a Nuoro, nella sede dell’Ailun. Un’esperienza formativa che ha fatto sognare tanti giovani (soltanto a Nuoro ci furono 78 domande di ammissione), ma che a conti fatti ha tradito ogni aspettativa. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 05 Apr. ’14 BELARDINELLI: IL PD E LA SFIDA ALLA SINISTRA INTRANSIGENTE di GIOVANNI BELARDELLI Più o meno da che esiste, la sinistra italiana ha visto il prevalere delle sue correnti più estreme, che si chiamassero intransigenti, massimaliste o in altro modo ancora. Ciò è avvenuto per la forza di queste ultime, certo, ma anche per l’incapacità o il timore dei «riformisti» a scontrarsi davvero con i «rivoluzionari». Nell’Italia repubblicana questa incapacità doveva manifestarsi anche all’interno del maggior partito della sinistra, il Pci, che se da un lato ereditava l’insediamento sociale (cooperative, sindacati, camere del lavoro) e molte delle Politiche del vecchio riformismo socialista, dall’altro non riuscì mai a considerare la parola stessa riformismo altro che come un termine negativo. La decisa risposta di Renzi (sul Corriere di lunedì scorso) all’appello di Rodotà, Zagrebelsky e altri intellettuali contro una presunta «svolta autoritaria», nonché il duro articolo che il direttore di Europa , Stefano Menichini, ha dedicato ai firmatari di quel testo, indicano che forse l’antico timore dei riformisti a individuare negli intransigenti il proprio avversario ha fatto il suo tempo. È abbastanza evidente, infatti, che le prese di posizione degli ayatollah della Carta (così li ha definiti il costituzionalista Francesco Clementi), come – prima ancora – quelle di «girotondi», «popolo viola», intellettuali «indignati», pronti a gridare al pericolo autoritario ad ogni ipotesi di riforma della Costituzione, rappresentano da qualche anno la nuova forma assunta da quel vecchio male della sinistra italiana cui si faceva riferimento. Un male consistente nell’incapacità delle correnti riformiste d’uscire dall’angolo in cui vengono costrette dalle correnti più radicali. Ma adesso – ecco la novità – il nuovo gruppo dirigente del Pd sembra consapevole della necessità di separare i propri destini da quelli di «una sinistra intellettuale e politica – ha scritto Menichini – ormai portatrice (…) d’intolleranza, alterigia e presunzione». Al di là del piglio decisionista e degli atteggiamenti forse un po’ troppo da smargiasso del presidente Renzi, la sua sfida riformista si lega alla sua provenienza culturale e politica, del tutto diversa rispetto a chi ha alle spalle la tradizione comunista. A Renzi risulta del tutto estraneo, infatti, quel mito dell’unità della sinistra che caratterizzava la vecchia tradizione socialista e poi quella comunista in virtù dell’imprinting marxista. Per il marxismo, essendo una la classe di riferimento (il proletariato), uno doveva essere il partito della sinistra. Tutte cose che Renzi avrà tutt’al più studiato in qualche esame universitario di storia. È probabile, in ogni caso, che lo scontro con le posizioni della sinistra intellettuale più radicale egli lo abbia espressamente cercato. Si pensi solo al fatto d’invitare l’arcinemico Berlusconi al Nazareno; un invito che una parte del suo stesso partito ha vissuto alla stregua di una provocazione. Ma, appunto, qui sta anche uno dei due grandi rischi di fronte ai quali si trova ora la battaglia riformista del presidente del Consiglio. Il guanto di sfida lanciato a una sinistra intellettuale intransigente, infatti, è anche un guanto di sfida lanciato a una parte, forse maggioritaria, del suo partito. Di un partito che, non a caso, resta fedele al ricordo e al mito di Enrico Berlinguer, un leader di grande carisma ma che certamente non fu per nulla riformista. Nonostante le nostalgiche rievocazioni a cui abbiamo assistito ancora di recente tendano a farlo dimenticare, Berlinguer spinse anzi gli iscritti e gli elettori del suo partito verso una «deriva identitaria e solipsistica» – come scrisse dieci anni fa Piero Fassino in un suo libro – basata sulla rivendicazione della «diversità» comunista. Il secondo rischio che minaccia la sfida riformista di Renzi è sotto gli occhi di tutti. Ha a che fare con la possibilità che le riforme da lui annunciate, a cominciare dal monocameralismo e dalla riforma del titolo V della Costituzione, non riescano ad andare in porto. E, com’è evidente, un riformismo senza riforme non è cosa possibile. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 Apr. ’14 IL TAFFERUGLIO DELLA TESTIMONE Massimo Ledda Nelle aule di giustizia, specie in quelle penali, solitamente si trattano argomenti per nulla divertenti. A volte capita però di assistere a gag involontarie quanto esilaranti, che valgono più di un mini bignami antropologico. Ogni Tribunale ha la sua aneddotica. A Nuoro, ad esempio, ancora si ricorda un episodio accaduto una trentina di anni fa ed entrato ormai nella leggenda. Si celebrava il processo per una rissa da Far West scoppiata a Marreri durante una festa. Alla sbarra orunesi e dorgalesi, protagonisti della gazzarra in cui erano rimaste ferite decine di persone. Tra loro anche una donna, colpita con una coltellata all'addome. Chiamata sul banco dei testimoni, come da tradizione, non aveva alcuna voglia di parlare. Franceschino Pittalis, allora presidente della Corte d'Assise, la riprese più volte, minacciando di spedirla in camera di riflessione. Sino a quando, spazientito, le chiese: «Allora signora, almeno si ricorda di essere rimasta ferita nel tafferuglio?». La testimone lo guardò perplessa, poi si fece coraggio e rispose imbarazzata: «No signor presidente, un poco più su» . Qualche secondo di silenzio, poi risate incontenibili. E udienza sospesa. ========================================================= ____________________________________________________________ Avvenire 04 Apr. ’14 UNIVERSITÀ. TEST MEDICINA, SEI MILIONI DI EURO SBORSATI DAGLI 85MILA ASPIRANTI CAMICI BIANCHI Roma. Quattro milioni di euro: questa è la cifra che complessivamente sborseranno i 69mila aspiranti medici e odontoiatri che il prossimo 8 aprile sosterranno il test d'ingresso nelle università pubbliche. A questa somma si aggiungono circa altri due milioni versati dai candidati, circa 15mila, che hanno partecipato alle prove di atenei privati come Campus BioMedico, Università Cattolica e del San Raffaele. Lo rivela un'analisi svolta dal portale specializzato Skuola.net, che ha analizzato i costi d'iscrizione richiesti dagli atenei pubblici e privati per i corsi di Medicina. Sebbene la graduatoria finale sia nazionale, il prezzo per partecipare è diverso. La forbice è compresa dai 10 euro di Milano Bicocca ai 100 euro di Torino, Napoli, Vercelli, Salerno. ____________________________________________________________ Repubblica 04 Apr. ’14 SPECIALITÀ: A OTTOBRE IL CONCORSO NAZIONALE (TELEMATICO) PER DIVENTARE MEDICI (DISOCCUPATI) IL concorso nazionale per l’accesso alle Scuole di specializzazione in Medicina resta nazionale, ma sarà telematico. Lo ha detto il capo di gabinetto del ministero dell’Istruzione (e dell’Università) ai giovani medici e agli aspiranti specializzandi, tornati lo scorso 2 aprile in piazza. È confermato che si tratterà di una prova per titoli e quiz e che si svolgerà a metà ottobre. La novità della declinazione telematica è dovuta, ha detto il capo di gabinetto, Alessandro Fusacchia, dalla necessità di mantenere il concorso “a elevata qualità a fronte di un numero di partecipanti imponente”. Al contempo, dalla necessità di avviare rapidamente i prescelti alle cinquanta scuole di specializzazione. A fronte della paura diffusa di tornare – dopo solo un anno – ai concorsi locali così poco credibili, il ministro Stefania Giannini ha assicurato che il decreto Carrozza non sarà stravolto. C’è, però, la volontà di dare più peso nel test alla parte specialistica dei quesiti rispetto a quella generale. Entro la prossima settimana sarà firmato un decreto ministeriale con i dettagli. Il capo di gabinetto ha detto agli specializzandi, poi, che il ministero vuole aumentare il numero delle borse a loro destinate. I futuri medici hanno trovato una sponda larga nelle parole del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che ha dichiarato (alludendo al governo Monti): “Quando nel passato si è deciso di tagliare le borse di specializzazione lo si è fatto per ragioni di bilancio, senza pianificare i fabbisogni di nuovi medici e il loro inserimento nel Servizio sanitario. Già quest’anno il Parlamento ha stanziato risorse per aumentare il numero dei contratti di specializzazione per il 2014, ma non abbiamo risolto il problema. Insieme al ministro Giannini abbiamo chiesto al ministro dell’Economia di reperire nuove risorse per finanziare i contratti in modo strutturale già dal 2015”. L’intervento dovrà essere attuato subito dopo l’approvazione del Documento di economia e finanza (Def), nel corso di aprile quindi. Con il decreto Carrozza gli anni della formazione per tutte le specializzazioni – là dove non esiste il vincolo comunitario - sono scesi da cinque a quattro. E nel disegno di legge Lorenzin, ora al Senato, si prevede la possibilità di svolgere l’ultima parte della formazione specialistica in aziende del Servizio sanitario nazionale. Manca, da troppo tempo, un’accurata programmazione dei fabbisogni di specialisti, regione per regione. Oggi le cinquanta scuole di specializzazione sfornano 3.300 nuovi medici l’anno, a fronte degli ottomila pensionamenti di clinici anziani. In questa distanza – 4.700 posti di lavoro - c’è, appunto, la cattiva programmazione regionale e c’è la questione gigantesca del numero chiuso, sia per l’ingresso in facoltà che per l’accesso alla scuola di specialità, oggi un imbuto senza ragione. Si è calcolato che nel 2020 (approdo alla laurea di una matricola in Medicina che entra in facoltà oggi) in Italia ci saranno 8.000-9.500 nuovi laureati quando i contratti di formazione specialistica disponibili ora sono soltanto 3.300, cui bisogna aggiungere 900 borse per la formazione di Medicina generale. Per il 2020 si prevede il pensionamento di 58 mila medici specialisti. Senza interventi, si rischiano contemporaneamente 20-30 mila giovani medici disoccupati: non potranno lavorare (non essendo specialisti) né frequentare un corso per diventare specialisti (non essendoci posti a sufficienza). Il numero di contratti stanziati è sceso dai 5.000 nel 2012 agli attuali 3.300. Al prossimo concorso (nazionale e telematico) dovrebbero partecipare 12.500 medici, compresi gli esclusi degli scorsi anni. Numeri in crescita, quindi. Dopo la prova, 9.000 rimarranno fuori. E dovranno emigrare all’estero o attendere da disoccupati i concorsi 2015 e 2016. Ogni anno vengono formati 4-5.000 dottori che poi saranno impossibilitati a praticare. E mancheranno, quindi, 4-5.000 dottori ai pazienti. “Vi auguriamo una salute di ferro”, si leggeva sugli striscioni esposti a Montecitorio. La formazione medica, trasformata in queste stagioni in un’emergenza sociale, costa allo Stato 1,5 miliardi l’anno. Uno studente per l'intero corso di laurea di sei 6 anni spende 8.150 euro in media, per specializzarsi altri 10.000 euro. Il costo dello Stato per i sei anni di laurea di un singolo arriva a 24.800 euro. Specializzare un solo medico impegna 128.000 euro per un costo totale superiore ai 150.000 euro se si tiene conto dell'intero iter formativo di undici anni. Spendiamo molto per formare giovani clinici, e ci viene riconosciuto nel mondo che li formiamo bene. Tuttavia, assistiamo a una loro fuga crescente verso la Francia (dove la programmazione del fabbisogno sanitario è precisa), la Germania, la Svezia, il Regno Unito, l’Australia. E’ un’emorragia economica, culturale. Le soluzioni, suggerite dagli stessi giovani medici, ci sono. Innanzitutto attingere alle risorse, spesso sprecate, del Fondo sociale europeo attraverso le Regioni. Fin qui solo la Regione Campania è stata capace di recuperare 10 milioni. Poi, basterebbe destinare 75 milioni (il 4%) del fondo Garanzia giovani (fino a 1,7 miliardi di euro) per finanziare altre tremila borse. E siamo a 6.300. Con le eventuali borse regionali ci si avvicina al fabbisogno di ottomila. Con l’idea in testa della solidarietà generazionale, i giovani medici organizzati si sono spinti oltre: chiedono un contributo agli Ordini e ai medici con pensioni superiori ai 4.800 euro. “Più dottori, meno senatori”, si leggeva l’altro giorno al sit-in di Montecitorio. ____________________________________________________________ Il Manifesto 03 Apr. ’14 SPECIALITA?: LA ZONA GRIGIA DEGLI ASPIRANTI MEDICI TAGLI Laureati senza lavoro Ro. Cic. Stretti alla balaustra che separa piazza Montecitorio dallo speaker corner dove si affollano le proteste contro i governi, o le richieste di interlocuzione con questo o quel ministro, ieri 400 laureandi e neolaureati aspiranti specializzandi i medicina hanno manifestato per chiedere l'aumento dei fondi della formazione postlaurea. Davanti a loro vedono un futuro di precarietà, ma ancora più vicina è la prospettiva di non riuscire ad entrare in una scuola di specilizzazione dopo sei anni di studio. Questa mobilitazione spontanea è nata in rete con la petizione online #inedicisenzafuturo che ha raccolto oltre 35 mila adesioni e ha denunciato l'«imbuto» in cui si trova la formazione di tutti i professionisti come avvocati, architetti, ingegneri. L'aumento degli iscritti all'università ha portato alla crescita dei laureati in medicina che oggi non trovano posto nelle scuole di abilitazione che nel frattempo sono state tagliate a causa della speding review sulla sanità. Nemmeno l'introduzione del numero chiuso è bastato per «sgonfiare' una domanda crescente di cure e di medici, tra i quali oggi cresce la disoccupazione e la precarietà. «Ospedali scoppiati, medici disoccupati» e «curatevi di chi vi cura» hanno urlato ieri in piazza gli studenti, tutti di età compresa tra i 23 e i 26 anni. Una buona parte di loro rischia di non trovare posto in una scuola di specializzazione prossimo 31 luglio quando uscirà un bando con il numero dei contratti disponibili. Al momento le risorse disponibili sono sufficienti per finanziare circa 3300 contratti di formazione, più 900 borse di medicina generale, a fronte di circa 10 mila medici aspirandi specializzandi che hanno terminato, o stanno per farlo, il lungo corso di studio in medicina di 6 anni. Alla ministra della Salute Beatrice Lorenzin i medici hanno chiesto 100 milioni di curo di fondi aggiuntivi per creare più posti e permettere l'accesso alla specializzazione ad almeno 9 mila candidati (6700 neolaureati a cui aggiungere quelli che non hanno superato il test negli anni scorsi). La ministra ha promesso al comitato promotore di trovare i fondi necessari nel Def che il governo dovrà presentare entro il 10 aprile. Sono diverse le ipotesi dal comitato promotore della manifestazione su dove reperirli, tra le quali c'è anche quella di usare «mezzo F-35». Tra slogan, striscioni e finte carte d'imbarco senza data di ritorno con le quali gli specializzandi hanno denunciato il rischio di partire senza ritorno verso paesi europei e non, è stato messo in scena il problema del lavoro della conoscenza in Italia. Ci vogliono 1,5 miliardi di euro per laureare e specializzare 10 mila medici, 150 mila euro a testa per 11 anni di studio (dati Anaao Giovani). Oggi questi soldi non servono allo Stato per trovare altrettanti posti negli ospedali, anche perché il governo Monti ha predisposto un piano di tagli da 30 miliardi di euro dal 2010 in poi. Gli aspiranti medici vedono il loro «capitale cognitivo» perdere valore, travolto dai tagli all'università e alla ricerca di Tremonti e Gelmini (1,1 miliardi di euro). Un sistema impazzito che li sta precipitando in una zona grigia dove anche il lavoro precario specializzato si alterna con la disoccupazione. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 05 Apr. ’14 IN ARRIVO MAXI-TAGLI PER LA SANITÀ Sforbiciata di un miliardo al Fondo nazionale già nel 2014 In totale 4 miliardi di risparmi lineari, subito stop a 4 ambasciate Roberto Turno In arrivo maxi-tagli per la sanità con risparmi di almeno 2-2,5 miliardi di euro già nel 2014, che si aggiungono a quelli realizzati negli anni scorsi al Servizio sanitario nazionale. Nel complesso il piano di spending review prevede 4 miliardi di risparmi lineari e, ieri, il consiglio dei ministri ha deciso la chiusura di quattro strutture, tra ambasciate e sedi consolari. Allo studio anche una stretta progressiva sugli stipendi dei dipendenti pubblici oltre i 70mila euro lordi, il tutto accompagnato da un giro di vite sugli organi costituzionali. Non bastavano i risparmi previsti da mister spending, Carlo Cottarelli: 300 milioni quest'anno, 800 milioni nel 2015 e 2,4 miliardi nel 2016. Ma senza contare la potatura delle spese per beni e servizi sanitari e non sanitari, che fin da quest'anno solo per la sanità potrebbero valere fino a 1 miliardo. E non bastavano neppure le indicazioni delle regioni, pronte ad aggiungere altri colpi d'accetta tra centrali d'acquisto e farmaci. I tecnici di via XX Settembre hanno in preparazione in queste ore un'altra sfoltitura alle spese di asl e ospedali: un taglio secco al Fondo sanitario nazionale di quest'anno che varrebbe almeno 1 miliardo, e poi forse ancora di più nel 2015. Tagli che si aggiungerebbero ai 25 miliardi già assestati di minori spese questi anni in maniera lineare al Ssn. Un totale di minori spese che solo per quest'anno potrebbe valere almeno intorno a 2-2,5 miliardi. Aveva già messo non a caso le mani avanti nei giorni scorsi, Beatrice Lorenzin: «Non sono d'accordo con Cottarelli, non sono in linea per lo meno sul metodo. La sanità non può sopportare altri tagli, men che meno lineari». Qualcosa evidentemente il ministro sapeva che si stava muovendo tra Economia e Ragioneria. E, forte del pressing che nella stessa direzione stanno imprimendo i governatori, ha subito fatto muro: le misure le decidiamo con le regioni nel «Patto» per la salute. Di più, aspetto cruciale: qualsiasi risparmio deve restare in casa del Ssn. Per investire, programmare, far ripartire la macchina delle cure pubbliche schiacciata dal peso della sostenibilità del sistema a bocce ferme. Invece il ministro – che ancora ieri da Bruxelles ha rilanciato la sua ricetta dicendosi sicura che il Def «non prevede tagli ma risparmi», quantificati ancora in 10 miliardi in tre anni – dovrà ricredersi e alzare nuove barricate prima del varo del Def. Quarantott'ore per cercare di ribaltare in extremis le soluzioni che – sebbene ancora non decise – si stanno profilando davanti alla necessità per il Governo di trovare le coperture per le maxi riforme messe in cantiere da Matteo Renzi. Il quale, naturalmente, dovrà dire la sua su eventuali nuovi tagli alla salute. Il taglio da 1 miliardo allo studio dei tecnici del Mef, farebbe scendere il Fondo sanitario (non ancora ripartito tra le regioni, che dovranno applicare i costi standard) a 112,452 miliardi tutto compreso, quello per il 2015 a 116,563, se non meno. Con un effetto scivolamento che potrebbe valere anche per il 2017 (sulla carta 122 miliardi). Insomma, un'altra batosta. Che avrebbe l'ulteriore effetto di far crescere le tensioni e di rincrudire i rapporti politici, sindacali e sociali. Insomma, un passo complicato. Anche perché tra le misure allo studio, ad esempio, c'è quella del taglio agli stipendi dei dirigenti (si veda pezzo accanto), che potrebbe toccare medici e dirigenti non medici. E perché per i governatori, oltre che per il ministro, c'è un vangelo da rispettare: qualsiasi risparmio va lasciato nel Servizio sanitario. Questa la parola d'ordine al tavolo del «Patto» per la salute che proprio ieri ha ripreso i lavori dopo una lunga fase di stallo nel trapasso da Enrico Letta a Renzi. O prendere o lasciare, è la minaccia: i risparmi restino nel Ssn, altrimenti il «Patto» salta, con tutte le conseguenze del caso. Soprattutto in un momento in cui la crisi sta mettendo in ginocchio le famiglie e l'abbandono o la rinuncia alle cure a pagamento, tra ticket o ricorso al privato per aggirare l'imbuto delle strutture pubbliche sempre più in affanno, riguarderebbero secondo tutte le ricerche fino a 9 milioni di italiani. Anche di questo si ragionerà al tavolo del Def e della spending review. E certo non sarà un aspetto secondario quando martedì 8 – proprio nel giorno del varo del Def – si svolgeranno gli «Stati generali della sanità» convocati da Lorenzin, dove dovrebbe intervenire anche Renzi. Non è un caso che ieri il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, abbia accennato al fatto che un taglio da 1 miliardo varrebbe per le industrie del farmaco 150 milioni, mettendo a rischio a 2-3mila posti di lavoro. E che alla stessa cifra abbia fatto riferimento, contestandola, il presidente della commissione sanità del Senato, Emilia Grazia De Biasi (Pd). Per non dire della bocciatura di giovedì dell'Ocse a Cottarelli: la spesa sanitaria in Italia è inferiore di un terzo a quella dei Paesi dell'area euro e il divario dal 2000 s'è triplicato. Conclusione: qualsiasi taglio non finalizzato all'abbattimento di inefficienze colpirebbe l'accesso ai servizi e la qualità dell'assistenza soprattutto per chi meno ha. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 06 Apr. ’14 LORENZIN: NON TOCCARE LA SPESA SANITARIA ALTOLÀ DALLE REGIONI Asl e ospedali. Anche i medici sul piede di guerra Roberto Turno ROMA Tagli da 2-2,5 miliardi alla sanità nati e tramontati nel giro di una sola giornata. Con i distinguo, le preoccupazioni e gli altolà di Beatrice Lorenzin. Lo stop delle regioni che minacciavano di fermare l'orologio del «Patto salute». La minoranza Pd (e non solo) insorta con Stefano Fassina. I medici sulle barricate anche contro il rischio di subire con i dirigenti pubblici altri prelievi in busta paga. Le reazioni (scontate e previste) contro misure socialmente dolorose e impopolari hanno imposto a palazzo Chigi in serata di virare dalla rotta di nuovi salassi lineari alla sanità allo studio del Mef. Nessun taglio lineare alla spesa sanitaria, è la rotta di Matteo Renzi. Anche se ora andranno trovate le alternative, e comunque una potatura alle spese di asl e ospedali ci sarà con la spending. Almeno un miliardo nel 2014, è l'ipotesi, stando almeno al "piano Cottarelli". Le anticipazioni di ieri del Sole 24-Ore sulle ipotesi del Mef di tagli da 2-2,5 miliardi alla spesa sanitaria anche riducendo almeno di 1 miliardo il Fondo per il 2014, hanno creato malumori e tensioni. «Io non sono in grado di rassicurare nessuno. Quello che posso dire è che a oggi nessuno mi ha proposto un taglio lineare», ha dichiarato nella mattinata di ieri Lorenzin. Tagli lineari «con l'accetta» che d'altra parte «non possono aiutare la riprogrammazione del sistema sanitario», ha aggiunto, ribadendo il suo refrain: qualsiasi risparmio deve restare dentro il Ssn. Ma la scelta «è tutta politica», ha aggiunto non a caso. E quanto alle anticipazioni sui nuovi tagli da 2-2,5 miliardi, del resto, «il fatto che si leggano queste cose sui giornali non è che non mi preoccupi». Il che, abbinato all'ammissione della ministra di «non essere in grado di rassicurare nessuno», rafforzava appunto la veridicità delle indiscrezioni. Anche perché al Mef ci sarebbe stato una sorta di "piano B": degli eventuali 2 miliardi di risparmi, la metà sarebbe restata in casa Ssn. Quasi un compromesso. Che però non poteva bastare a a nessuno. Il rappresentante dei governatori, Vasco Errani (si veda l'intervista a pag. 6), lo ripeteva a chiare lettere: i risparmi della spending in sanità non vanno indirizzati altrove, altrimenti il «Patto» salterebbe e «si aprirebbe un serio e concreto problema di gestibilità» della salute pubblica. Ma anche dalla maggioranza fin dalla mattina era partito il fuoco di sbarramento. «Speriamo che il Governo smentisca al più presto le indiscrezioni su ulteriori tagli alla sanità per "coprire" la riduzione dell'Irpef. Sarebbe una beffa e un danno. Quasi una partita di giro», metteva in guardia Stefano Fassina. Come, non a caso, ribadivano in un fuoco di fila pro-Lorenzin dal suo stesso partito, l'Ncd; dall'ex ministra De Girolamo a Raffaele Calabrò, capogruppo in commissione sanità alla Camera: «I tagli paventati dal Mef sono insostenibili e porterebbero al collasso il sistema. Spero che Renzi non voglia intestarsi questa battaglia». Infine il fronte sempre caldo dei medici. «I medici e i dirigenti sanitari non accetteranno senza reagire altre discriminazioni ai loro danni con un'aliquota fiscale più o meno mascherata», il muro alzato da Costantino Troise, segretario del primo sindacato di categoria, l'Anaao. Una dichiarazione di guerra, ma anche un allarme: «Il sistema sanitario non è in grado di sopportare ulteriori restrizioni e aggressioni». Poi la marcia indietro arrivata in serata da palazzo Chigi. Con cifre ancora tutte da decidere. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 04 Apr. ’14 PER I CITTADINI IL DIRITTO DI CURARSI IN UN PAESE UE Barbara Gobbi Rosanna Magnano La Schengen sanitaria in Italia scatta domani ma i cittadini poco ne sanno. Sulle nuove possibilità di curarsi all'estero offerte dalla direttiva 2011/24/Ue per la maggior parte degli italiani è ancora buio pesto. A fare chiarezza dovrebbe essere quel Punto di contatto nazionale che, promettono dal ministero della Salute, «sarà attivo con l'entrata in vigore del Dlgs 4 marzo 2014 n. 38». Quindi presumibilmente domani. Fuori tempo massimo, in ogni caso, perché i nuovi diritti garantiti ai cittadini siano immediatamente esigibili. L'indirizzo già c'è: www.salute.gov.it/cureUE ma «cliccando» continua a comparire la scritta «a breve online». Per ora i dettagli del nuovo sistema sono noti solo agli addetti ai lavori, tuttora impegnati in un tour de force formativo. A regime, il front office per i cittadini sarà disseminato negli sportelli informativi che le Regioni stanno allestendo nelle Asl. Ma è l'attivazione del Contact point nazionale, dove confluiranno anche i dati regionali, a rappresentare il vero pilastro della direttiva. Nel portale bilingue accessibile dal sito del ministero si troveranno le istruzioni per l'uso destinate sia ai pazienti italiani diretti all'estero sia ai cittadini europei che vogliono farsi curare in Italia. Inoltre, fanno sapere dalla Salute, sarà possibile scaricare un opuscolo con le informazioni pratiche sui diritti in materia di assistenza sanitaria transfrontaliera. Il punto di contatto nazionale sarà anche una bussola per orientare i pazienti nella scelta dello strumento più opportuno: la direttiva oppure quel regolamento 883/2004 che già consente di ricevere prestazioni di alta specialità in un altro Stato Ue, tra l'altro senza dover anticipare le spese, e che resta in vigore. Ai cittadini che arriveranno da oltrefrontiera il ministero mette a disposizione il portale Dovesalute.it, una mappa interattiva - ancora da completare - delle strutture d'eccellenza italiane. Perché la direttiva rappresenta anche, come ha spesso ricordato la ministra della Salute Beatrice Lorenzin, una grande occasione per sponsorizzare i nostri migliori ospedali. Fino ad oggi, l'appeal è stato più che modesto: il saldo della mobilità internazionale nel triennio 2009-11 è negativo e pari a -25 milioni di euro. L'obiettivo è di recuperare almeno in parte questo gap tra pazienti in entrata e in uscita ma la scommessa è tutta da giocare. I paletti in uscita proposti dalla direttiva sono stati recepiti integralmente dal governo Renzi. I pazienti italiani potranno accedere all'estero solo alle cure che rientrano nei nostri Livelli di assistenza (Lea) e in ogni caso dovranno anticipare le spese, ricevendo un rimborso (in linea con i tariffari regionali). Sempre che nel frattempo «per motivi imperanti di interesse generale», cioè essenzialmente per ragioni di bilancio, un decreto ministeriale concertato con le Regioni non sospenda il diritto al rimborso anche su un singolo territorio regionale. Quindi la provenienza del paziente condiziona il diritto a curarsi, senza contare che ogni regione può decidere di coprire con risorse proprie gli eventuali Lea aggiuntivi. Un altro limite alla libera circolazione dei cittadini è l'autorizzazione preventiva dell'Asl. Entro 60 giorni un decreto fisserà le fattispecie, ma nel frattempo fa fede il testo Ue: prima di partire bisognerà infatti chiedere il via libera per le cure che comportino il ricovero di almeno una notte, per quelle che richiedono l'utilizzo di un'infrastruttura sanitaria o di apparecchiature mediche altamente specializzate e costose, per tutti i casi che comportano un rischio particolare per il paziente o la popolazione o che sono erogate da un centro non del tutto affidabile. Restano esclusi in ogni caso dal campo della direttiva i servizi long term care, i trapianti, i programmi pubblici di vaccinazione e tutte le prestazioni fuori dall'ambito pubblico. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 03 Apr. ’14 AOUCA: L'ATENEO RINUNCIA ALLA EX CRIES COME SEDE DELLA FACOLTÀ DI ODONTOIATRIA Ex Cries, dente dolente MONSERRATO. Incerto il futuro di una struttura ormai praticamente ultimata Di dentisti manco l'ombra, il futuro della Clinica odontoiatrica dell'Azienda ospedaliero-universitario è sempre più incerto. A questo punto le speranze per l'entrata a regime dei locali ex Cries sono affidate alla Asl di Cagliari, ma ci sono da fare i conti con il cambio della guardia all'assessorato regionale alla Sanità. «La struttura è praticamente ultimata, se si finalizzassero gli accordi potrebbe nascere un poliambulatorio in grado di servire buona parte dell'Area vasta». Questa è la speranza di Marco Sacceddu, assessore comunale ai Lavori pubblici, che ha partecipato ieri al sopralluogo della commissione all'ex Cries. INCOMPIUTA Un milione e trecentomila euro di fondi Por sono stati spesi per realizzare un'imponente struttura a due piani che avrebbe dovuto ospitare i promessi dentisti in base agli accordi tra Comune e Ateneo, quando il rettore era Pasquale Mistretta. Nel frattempo è cambiata la guida dell'Università ed è venuto meno l'interesse dell'azienda ospedaliero-universitaria per la struttura, ma i lavori sono andati avanti e ora sono quasi conclusi. «L'edificio era nato come istituto scolastico, ma non lo è mai diventato. Dopo gli accordi con l'Università è stato recuperato col progetto per la clinica odontoiatrica ma il rettore non è più interessato», spiega Sacceddu, «si era avviato un discorso con l'assessore alla Sanità Simona De Francisci e speriamo che possa andare a buon fine anche con l'intervento del nuovo assessore Luigi Arru e la collaborazione con la Asl». I LAVORI Una parte dell'edificio è destinata a ospitare una scuola materna. «Lì c'è solo da completare il giardino. Sono stati spesi 290 mila euro per realizzare la struttura che ormai ha la forma definitiva». Tra i membri della commissione Lavori pubblici c'è anche Rita Mameli (Riformatori). «La struttura è in ottime condizioni ed è stata realizzata molto bene, ma c'è totale incertezza sul suo futuro», commenta al termine del sopralluogo, «ci sono gli ambulatori con la predisposizione per i macchinari per i dentisti e non sarà facile cambiare destinazione d'uso per una struttura così complessa e articolata». Non è dello stesso avviso il presidente della commissione Mario Argiolas: «Anche se l'edificio è nato con un fine ben preciso, si possono apportare modifiche. La Giunta presenterà le sue idee e anche la commissione Lavori pubblici di Monserrato farà la sua parte: l'unica certezza è che resterà un'opera di pubblica utilità. L'edificio si trova dietro il capolinea della metropolitana leggera e vicino a quello della linea M: posizione cruciale da sfruttare al meglio». Marcello Zasso ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 Apr. ’14 MEDICI: «MORIRÒ POVERO SENZA BENI AL SOLE: CONTA LA DIGNITÀ» - Medico di zone disagiate Augusto Ditel INVIATO GAIRO «Il mio conto è in rosso: morirò povero, ma non m'importa. Molti miei colleghi medici, quelli con 1500 pazienti, sono straricchi: barche, case, beni al sole, azioni. La sera, vado a letto sereno e al mattino mi rialzo di buonumore: quel che conta è la dignità». Documenti, dotto'? «Sono Guido Colombo, medico di famiglia. Autentico, non fasullo. Sono cagliaritano, precisamente di Monserrato. Ho sessant'anni e da 14 sono qui a Gairo. Prima esercitavo a Baunei». Tutto qui? «No. Giro come una trottola: Arzana, Lanusei, e poi Gairo, poi ancora Baunei. Ieri pomeriggio, ad esempio, mi hanno chiamato da Taquisara, una frazioncina: ho finito alle 18». Busta paga, prego. «Guadagno 90mila euro all'anno, una cifra ridicola». C'è chi sta peggio. «Sono in tanti a star molto meglio. Pensi che io, per cinque giorni alla settimana, mi alzo alle cinque e mezzo. Alle 7 sono in studio, alle 8,30 comincio la prima visita domiciliare». Ah, va a casa del malato? «Ma certo, lo ritengo un obbligo. Non voglio vedere vecchietti nel mio studio, vado io da loro». (Senza chiederglielo, il dottor Colombo-Stakhanov dà i numeri) «850 mutuati, 240 visite domiciliari ogni mese, duemila chilometri ogni trenta giorni . Controllo 700 glicemie all'anno, in una Regione come la nostra dove il diabete è molto più diffuso rispetto ad altre realtà». Allora esistono ancora i medici di una volta... «Non so se esistono, ma io sono fatto così. Ma non mi consideri un retrogrado o un nostalgico di un'epoca che non esiste più. Nel mio studio, i computer sempre accesi sono quattro, e quando si è trattato di mettersi al passo con i tempi, con l'utilizzo di software specifici per i medici, sono stato il primo ad attrezzarmi, nonostante l'Ogliastra non fosse all'avanguardia sul piano tecnologico». Cosa contesta, allora? «Il sistema, che consente al medico di città di avere 1500 pazienti e non vederli quasi mai, e costringe un medico di... zone disagiate a un superlavoro, pure malpagato. C'è da vergognarsene, e nessuno ne parla». Dia l'esempio. «Parto dai sindacati. I medici sardi sono migliaia, ognuno di loro paga 16 euro al mese, cioè 196 euro all'anno. Per 100mila medici fanno 20 milioni. Che fine fanno questi soldi?». Parla spesso di soldi... «Oggi un medico come me non può percepire solo 90mila euro all'anno, e andare in pensione con 1900 euro lordi al mese, dopo 40 anni di attività». Si stava meglio prima. «Nel 1973, quando un insegnante prendeva 75mila lire al mese, un medico arrivava anche a 800mila. Nel 1988, quando m'imbarcai sulle navi di linea come medico di bordo, in base alla legge dell'allora ministro Ariuccio Carta, prendevo 4 milioni e 400mila lire. Oggi queste proporzioni sono un'utopia». Come se ne esce? «Con una rivoluzione totale, che riporti equità ed eviti privilegi». Le Case della Salute possono risolvere qualcosa? «No. La soluzione potrebbe essere efficace ma è molto difficile, per non dire impossibile, farle decollare nei piccoli centri». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 Apr. ’14 MEDICI: LE CASE DELLA SALUTE? «UN FLOP» - Gli autonomi Snami: progetto sbagliato Se il dottor Barroccu, a nome del sindacato maggioritario della categoria, manifesta un certo ottimismo, non altrettanto si può dire per Domenico Salvago dello Snami, l'associazione sindacale che giorni fa ha lanciato la campagna Medico-Amico basata sulla prevenzione. «C'è un'altra verità - osserva il leader degli autnomi -: noi siamo un sindacato di centrodestra e la sinistra ci digerisce poco e male. Ma un elemento su tutti va ribadito: le Case della Salute sono state un autentico flop. Solo in Toscana ne funziona una, ma il servizio è assicurato solo da mezzanotte alle 8». «Nate come sede pubblica in cui dovrebbero ritrovarsi, in un unico spazio, i servizi territoriali che erogano prestazioni sanitarie - rincara la dose il presidente nazionale Angelo Testa - sono fallite clamorosamente anche in altri Paesi». Secondo lo Snami, la colpa non è assolutamente dei medici di famiglia, visto che «il progetto è sbagliato e non si tiene conto della carenza di risorse finanziarie. Le strutture di pronto soccorso inoltre vanno supportate meglio. Si cercano soluzioni - fa notare il dottor Salvago - per scongiurare il sovraffollamento, senza considerare che molto spesso il paziente si reca in ospedale, è disposto a fare tre-quattro ore di fila per essere sottoposto gratuitamente a una serie di controlli, compresa la Tac, che, in condizioni normali, si avrebbero in chissà quanto tempo». (a.di.) ____________________________________________________________ Corriere della Sera 02 Apr. ’14 VAI AL PRONTO SOCCORSO PER NULLA? IN SPAGNA SI VUOL FAR PAGARE UNA MULTA Multati come l’automobilista che passa con il semaforo rosso o supera i limiti di velocità in autostrada. Così Juan José Rodríquez Sendín, il presidente dell’Associazione nazionale dei medici spagnoli, ha lanciato la proposta di far pagare ai cittadini il ricorso inappropriato ai pronto soccorso. L’obiettivo è quello di ridurre il sovraffollamento nei reparti di emergenza, intasati da pazienti che, in realtà, potrebbero essere curati altrimenti. Tutto il mondo è Paese e anche da noi il problema è ben noto. Così, da tempo, le autorità sanitarie italiane, anticipando la soluzione proposta dagli spagnoli, hanno pensato di far pagare un ticket ai cosiddetti codici bianchi e, in alcune Regioni, anche ai codici verdi (i pazienti, in pronto soccorso, sono «stratificati» a seconda della gravità della loro situazione, dal bianco, per quella meno impegnativa, al rosso, per quella più grave, passando per il verde e il giallo). Al di là delle critiche di chi invoca il diritto alla salute per tutti i cittadini e di chi si chiede come un paziente possa stabilire la gravità della sua situazione, non sembra comunque che la soluzione-ticket abbia risolto il problema dell’abuso sanitario dei servizi di emergenza. Anzi. Basta fare un giro nei pronto soccorso di ospedali grandi e piccoli per rendersi conto che l’affollamento è una realtà e che le attese, per chi non è in pericolo di vita, sono infinite. Il sistema «punitivo», dunque, non funziona e allora resta da capire quali sono i motivi che spingono le persone a rivolgersi ai servizi di emergenza ed, eventualmente, trovare soluzioni alternative a multe o ticket per ridurre l’affollamento . Pensiamo a un bambino con febbre alta o a un anziano malato le cui condizioni peggiorano improvvisamente o anche a un adulto con un dolore fortissimo da qualche parte. A chi rivolgersi? E non pensiamo a sabati, domeniche e notti, ma anche durante il giorno. A chi? Al medico di base che non risponde nemmeno al telefono o sta visitando e non è certo disponibile per le urgenze. Alla guardia medica che entra in funzione solo in determinati orari? Rassegniamoci, meglio ticket e attese, ma almeno nei pronto soccorso ci assistono. Adriana Bazzi ____________________________________________________________ Il Secolo XIX 02 Apr. ’14 RIABILITATI I TOPI: NON CAUSARONO LA PESTE DOPO secoli, "giustizia" è fatta. Non furono i topi i principali responsabili dell'epidemia di peste che flagellò il mondo nel quattordicesimo secolo, tanto da meritare la definizione di "Morte Nera". Il colpevole numero uno della più grande epidemia della storia dell'umanità è stato infatti individuato nell'uomo. A "riabilitare" i roditori è stata una ricerca effettuata su alcune tombe medievali ritrovate a Londra, che ha portato a una conclusione che potrebbe portare a correggere almeno i libri di testo sull'argomento, non essendo ovviamente possibile intervenire su racconti e opere artistiche del passato: i topi, o meglio le pulci che li colonizzano, non sono abbastanza "bravi" nel diffondere il batterio, che quindi ha avuto un vettore più efficace. L'ipotesi è di un gruppo di archeologi e ricercatori dell'agenzia Public Health England. Lo studio, i cui dettagli verranno svelati in un documentario che andrà in onda domenica prossima, ha analizzato i resti, rinvenuti durante gli scavi per una nuova stazione della metropolitana a Charterhouse Square, nel nord della capitale, estraendo il Dna del batterio dai denti. Il confronto con il genoma di un virus di peste "moderno", che ha provocato 60 morti in Madagascar, ha mostrato che quello antico era quasi uguale, e non aveva una maggiore aggressività come invece ipotizzato in passato. «Questo ci fa pensare che la trasmissione attraverso le pulci dei topi semplicemente non fosse abbastanza "efficiente" da provocare l'altissimo numero di vittime ha spiegato Tim Brooks, uno degli autori, al Guardi an E molto più probabile che l'epidemia fosse del tipo "polmonare", propagata quindi dalle secrezioni dei malati». Con il nome di Morte Nera si definisce l'epidemia di peste che colpì tutto il mondo allora conosciuto intorno alla metà del 1300 partendo dall'Asia Centrale. Non ci sono ovviamente dati precisi sul numero di morti, ma secondo ricostruzioni e rapporti giunti fino ai giorni nostri si ritiene che possa aver ucciso più di un terzo della popolazione europea, con punte in città come Londra del 60% degli abitanti morti per la malattia. A contribuire ai contagi erano anche le condizioni di salute della popolazione dell'epoca. «Sui corpi che abbiamo analizzato spiegano Don Walker e Jelena Bekvalacs, due archeologi del Museo di Londra, c'erano segni evidenti di rachitismo, anemia e malnutrizione». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 05 Apr. ’14 CORRERE «PUÒ ACCORCIARE L'ESISTENZA» Correre regolarmente è ritenuto un toccasana per la salute e per mantenere il peso forma ma ora si scopre, al contrario, che la corsa può invece accorciare l'aspettativa di vita perché consuma il corpo, potrebbe deformare il cuore e che sarebbe bene non superare la dose di due ore e mezza o tre ore massimo alla settimana. Infine che il passo lento o moderato è consigliabile rispetto dell'andatura rapida dei grandi appassionati di jogging. A sostenerlo è Martin Matsumara, dell'Istituto di ricerca cardiovascolare al Lehigh Valley Health network di Allentown, Pennsylvania, che ha presentato una indagine condotta su 3.800 runners, uomini e donne in media di 46 anni di età all'ultimo congresso annuale dell'American College of Cardiology, svolto a Washington. Il 70% del campione correva 32 chilometri alla settimana. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 05 Apr. ’14 I DRONI CHIMICI CHE BOMBARDANO SOLO I TUMORI - La micro-chemio mirata Nanopalloncini carichi di farmaci anti-tumorali si “librano” nei vasi sanguigni seguendo la strada verso la massa tumorale e, in questa sede, attivati da un raggio laser scoppiano rilasciando il loro carico di medicine nel cuore del tumore. In questo modo la chemioterapia può essere efficace già a basse dosi e quindi può essere più soft, causando meno effetti collaterali. L'idea dei nanopalloncini (del diametro 1000 volte inferiore a quello di un capello) è stata sviluppata e testata con successo per ora su topolini da esperti della Università di Buffalo. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto da Jonathan Lovell, che ipotizza le prime sperimentazioni cliniche su pazienti di qui a cinque anni. Oggi i farmaci per la chemioterapia sono iniettati endovena nel paziente e quindi raggiungono anche altre sedi corporee oltre a dirigersi verso l'organo malato, disperdendosi nell'organismo e interferendo con i tessuti sani. Questo significa in primis che, affinché il farmaco risulti efficace bisogna iniettarne dosi consistenti; e poi che il farmaco procura non pochi effetti collaterali perché finisce anche in altri distretti corporei, come nel midollo osseo. L'idea di sviluppare dei vettori del farmaco nasce quindi dalla necessità di ridurre le dosi iniettate e limitare gli effetti collaterali, massimizzando l'efficacia del farmaco stesso. I nanopalloncini sono sferette microscopiche fatte di sostanze grasse biocompatibili che si possono iniettare nel circolo sanguigno con una puntura. I ricercatori li hanno caricati di chemioterapici e poi spediti nelle vene di topolini malati attraverso una iniezione. Qui i palloncini si lasciano trasportare fino alla sede del tumore e, sparandogli addosso un lampo di luce laser, si aprono scaricando il loro carico di principi antitumorali. Ma non è finita: spento il laser i palloncini si possono richiudere inglobando al loro interno molecole tumorali. Lo sperimentatore, o in futuro l'oncologo, potrà recuperare i palloncini con un prelievo e studiarne il contenuto (il bottino di molecole tumorali) per svolgere dettagliate indagini molecolari sul tumore trattato. I palloncini, quindi, funzionano potenzialmente come vettori del farmaco traghettando i chemioterapici direttamente nella sede del tumore. Il fatto che si aprano solo in risposta al raggio laser rende sicuro il viaggio del farmaco nell'organismo, evitando che le medicine vadano sui tessuti sbagliati. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 31 Mar. ’14 INTERVENTI ESTETICI, 3 SU 10 LASCIANO DANNI L'ALLARME. Il 30 per cento delle pazienti è dovuta tornare sotto i ferri Tre donne su dieci costrette a ritornare "sotto i ferri" per correggere un precedente intervento di chirurgia estetica eseguito male o che aveva lasciato dei danni. È il dato emerso l'anno scorso da una ricerca della divisione di Chirurgia plastica, Estetica e Ricostruttiva dell'istituto Neurotraumatologico Italiano. Su un campione di 400 persone, soprattutto donne, il 30 per cento è dovuto ritornare in una sala operatoria per "riparare" le labbra sproporzionate, liposuzioni che hanno lasciato "buchi" e "fossette", o per recuperare le protesi utilizzate per ingrandire il seno ma finite fino al decolleté. Sono solo alcuni degli esempi di interventi di chirurgia estetica malriusciti perché eseguiti da mani quantomeno poco esperte. I responsabili dell'Istituto neurotraumatologico italiano (Ini) hanno da tempo lanciato l'allarme: «Attenzione ai ciarlatani dell'estetica, ovvero a coloro che si spacciano per professionisti ma in realtà non lo sono», aveva spiegato Giulio Basoccu, chirurgo estetico e responsabile della divisione di Chirurgia plastica ed Estetica. Stilata anche una lista degli interventi maggiormente a rischio se effettuati da medici inesperti: «Gli interventi al seno, ad esempio, sono ad alto tasso di re-intervento», aveva evidenziato Basoccu. «Le cause? Complicanze vere ma anche l'insoddisfazione del paziente rispetto a un'operazione ben riuscita. Il problema delle protesi di seno che si spostano, per esempio, è uno dei più diffusi per il quale è richiesto un re-intervento». La liposuzione è un altro intervento che può portare i pazienti a doversi rioperare: se eseguita male, lascia irregolarità sulla superficie della pelle, quindi buchi e fossette. Gli interventi più richiesti dalle donne riguardano il seno e l'addome. Ma anche gli uomini ricorrono alla chirurgia: sono il 20-30% rispetto alle donne, ma per gli esperti sarebbero molto più pignoli. I più giovani, ragazzi e ragazze invece, chiedono interventi a naso, orecchie e labbra. Il settore poi è sempre in evoluzione. L'anno scorso è stata sperimentata una nuova tecnica per eliminare la cellulite: si tratta della «liposuzione chimica», che in sostanza può sostituire in alcuni casi quella chirurgica con l'infiltrazione di particolari soluzioni acquose in grado di determinare lo scioglimento delle cellule di grasso. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 04 Apr. ’14 ASL1: LA STATISTICA CHE AIUTA A PREVENIRE I TUMORI Asl, presentato un progetto elaborato con il Crs4 di Pula che incrocia dati ambientali e screening di Antonio Meloni SASSARI I dati sono già disponibili, bisogna convogliarli in un unico contenitore, incrociarli e analizzarli con l’obiettivo di elaborare una soluzione. Non sono che le fasi preliminari di un importante programma di screening promosso dall’Asl di Sassari in collaborazione con il Crs4 di Pula con l’intento di avviare una campagna di prevenzione mirata al contrasto delle malattie tumorali. Il progetto, che ha un budget di tre milioni di euro, provenienti dall’Unione europea, è stato illustrato ieri, nella sede di via Cattalochino, dal manager Marcello Giannico affiancato dai responsabili aziendali dei settori di riferimento: Alessandro Frulio (Affari generali), Antonio Genovesi (Prevenzione), Fiorenzo Delogu (Igiene pubblica) e Piergiorgio Annicchiarico (sistemi informativi). C’è da dire subito che l’azienda sanitaria sassarese è la prima in Italia a sperimentare questo sistema innovativo che mette insieme un gruppo multidisciplinare con un equipe internazionale di partner proveniente da diversi Paesi tra l’Europa e l’America del Sud. Il nucleo centrale del programma è un software messo a punto dagli specialisti del Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna, Crs4, con sede a Pula, sviluppato dall’Asl di Sassari per incrociare dati provenienti da diverse fonti come i registri tumorali, le rilevazioni ambientali, i dati sulla qualità della vita e le informazioni più specifiche avute direttamente dai pazienti. L’incrocio e la successiva elaborazione di questa preziosa messe di informazioni consentirà a un team multidisciplinare, coordinato da Alessandro Frulio, di individuare potenziali cause e incidenze delle più ricorrenti forme di tumore. «Questo _ ha spiegato Frulio _ ci permetterà non soltanto di valutare il rischio per la popolazione, ma soprattutto di prevenire la diffusione e tracciare scenari futuri sullo stato di salute dei cittadini in un’area molto vasta». Proprio sulla prevenzione, il direttore generale Marcello Giannico ha rimarcato il fatto che «non si investe mai abbastanza e l’Asl, invece, ha voluto predisporre questo programma per avviare una specie di controtendenza con la speranza che possa diventare presto un modello da imitare». Un finanziamento importante che l’azienda sassarese ha avuto dall’Unione europea nell’ambito del programma quadro per la ricerca e l’innovazione 2014-2020. Gli effetti potranno essere valutati nel breve e medio periodo, la durata del progetto è di cinque anni, ma fra un anno sarà già possibile avere i primi risultati che l’azienda presenterà durante un convegno che sarà preparato per l’occasione. Va rimarcato che in provincia di Sassari la statistica ricalca il trend nazionale, Fiorenzo Delogu ha evidenziato infatti che le forme più ricorrenti sono il tumore alla mammella per le donne e quello al colon retto per gli uomini, esito di una serie di concause tra cui fattori come la genetica, l’ambiente e lo stile di vita giocano un ruolo determinante. Grazie a questo programma l’Asl sarà in grado di offrire un servizio sanitario ancora più mirato e migliorare, nel contempo, le prestazioni e l’attività di prevenzione. La rilevazione delle informazioni riguarderà un territorio molto vasto che abbraccia buona parte della provincia di Sassari circa, 340 mila abitanti, e farà registrare anche una serie di ricadute positive sul piano economico: «Fare prevenzione è anche mettersi in prospettiva _ ha concluso infatti Marcello Giannico _ bisogna considerare non solo l’aspetto sanitario in senso stretto, ma anche il risparmio di quelli che sarebbero i costi legati all’assistenza e alla cura delle malattie». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 02 Apr. ’14 AUTISMO NEGLI USA NE SOFFRE UN NEONATO SU 68 Una solitudine che incomincia dalla nascita Claudio gioca da solo, Claudio non ti guarda negli occhi. Era così anche da piccolo: non sorrideva, non rispondeva alle coccole dei genitori che l'adoravano. All'asilo non socializzava con gli altri bimbi, a scuola la maestra lo definiva «un po' strano». Troppo per la sua età. Inevitabile la visita dal pediatra. E la diagnosi: Autismo, un disturbo di origine genetica che impedisce al bambino di avere normali rapporti con la gente, di comunicare, lo porta a estraniarsi, a compiere gesti ripetitivi, o azioni spericolate senza motivo. Proprio l'anno scorso gli studiosi hanno coniato la definizione “Disturbi dello spettro autistico”, per indicare i diversi tipi di questa patologia, sempre più diffusa a livello mondiale: gli Stati Uniti rilevano la prevalenza di 1 caso ogni 68 persone nate. Impossibile avere un dato preciso riferito all'Italia, perché nel nostro Paese non si esegue neppure la rilevazione epidemiologica. Un problema sottovalutato, nonostante il continuo aumento dei casi sia in termini assoluti che legati al miglioramento delle tecniche diagnostiche. «Numeri preoccupanti, perché si tratta di una patologia cronica, che si porta avanti per tutta la vita, anche se, grazie alle terapie, si ottengono sensibili miglioramenti». Parla Giuseppe Doneddu, direttore del Centro disturbi pervasivi dello sviluppo dell'ospedale Brotzu, di Cagliari. Considerata di ottimo livello, la struttura sinora ha seguito 1800 pazienti (dai 6 mesi ai 40 anni), è orientato all'assistenza e alla ricerca, con intense relazioni con l'università di Cagliari e i più qualificati centri in Italia e all'estero, come il Miami Children Hospital. E proprio grazie alle sinergie a livello internazionale si fanno continui passi avanti nel campo delle cure. Con quali risultati? «Dipende dal grado di gravità del disturbo. Il livello di miglioramento del paziente è legato alla possibile concomitanza di un ritardo mentale e all'intervento precoce. Ma anche i casi più gravi, con diagnosi e cure tempestive sono in grado di avviarsi a una integrazione che noi cerchiamo di rendere più completa possibile». I primi sintomi dell'Autismo si possono cogliere già intorno ai 2-3 anni del bambino, «ma oggi, grazie a pediatri preparati, noi vediamo casi anche di 6 mesi. Ai più piccoli manca il “sorriso sociale” quello che ti sparano in faccia quando li coccoli; sono ipomimici (non hanno espressioni facciali), non iniziano i vocalizzi (primi segni del linguaggio) e non mostrano attenzione. Quando crescono, non hanno contatto di sguardo: non guardano direttamente negli occhi, non ti fissano con continuità». Ai primi dubbi, rivolgersi subito al pediatra di fiducia, a centri specializzati di Neuropsichiatria infantile o all'ospedale Brotzu, Centro di riferimento per la Sardegna. In caso di diagnosi positiva, si procede con trattamenti di tipo comportamentale, ma anche farmacologico, soprattutto quando all'Autismo è associata un'altra patologia di tipo psichiatrico. La terapia comportamentale deve portare il bambino a comunicare e a stabilire relazioni sociali col mondo che lo circonda «con rieducazione del linguaggio, delle capacità di relazione e di tutte le funzioni che consentono di vivere ordinatamente in un contesto esistenziale ordinario». Da qui l'intervento di specialisti medici, psicologi, terapisti della riabilitazione, logopedisti ed educatori che si occupano dei piccoli pazienti, ma anche dei genitori. Metodi sperimentati scientificamente ed efficaci, che niente hanno a che vedere con terapie miracolistiche, «come certe diete che stregoni senza scrupoli propagandano a colpi da 500 euro a visita, con un giro d'affari facilmente immaginabile. E dopo, noi vediamo arrivare in reparto bambini in condizioni pietose. Uno aveva addirittura lo scorbuto: chissà che cosa gli avevano fatto mangiare». Al mondo dei pregiudizi appartiene anche la presunta origine dell'Autismo dai vaccini, cancellata da un'autorevole rivista scientifica (Lancet) e smentita, con un comunicato ufficiale emesso nei giorni scorsi, dall'Istituto superiore di Sanità. Lucio Salis ____________________________________________________________ Corriere della Sera 31 Mar. ’14 LA SCOPERTA DEL GENE CHE PUÒ SVELARCI I SEGRETI DELLA SLA È stato individuato un gene cruciale nell’insorgenza della Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, una tremenda malattia neurodegenerativa che costituisce uno dei peggiori spauracchi dei nostri tempi. È stato individuato da un consorzio di ricerca dove spiccano molti centri di ricerca italiani. È stato individuato con un poderoso sforzo investigativo che rappresenta anche una garanzia di affidabilità della scoperta stessa. È stato confrontato «a tappeto» il genoma di persone sane e persone geneticamente affette, un’impresa nemmeno lontanamente pensabile prima del 2000 e della decodificazione del genoma umano. Si resta increduli davanti a un tale ritrovamento, ma anche pieni di speranza per analoghe «spedizioni» a caccia di altri geni colpevoli di tremende malattie. Il gene si chiama Matrin3, localizzato sul cromosoma 5 e attivo in un ruolo piuttosto insolito. Codifica infatti una proteina adibita al trasporto dell’informazione genetica portata dall’Rna messaggero dal nucleo della cellula alle fabbriche intracellulari delle proteine, cioè i ribosomi. Quando Matrin3 è difettoso, questo trasporto non avviene più in modo corretto e si intralcia tutto il delicato equilibrio della produzione di proteine cellulari, con conseguente «intasamento» e avvelenamento della cellula. Appare ormai sempre più chiaro, infatti, che la Sla sia causata da un accumulo di proteine anomale nel neurone motorio, quello che regola il movimento, ma bisogna definire in che modo questo avviene per trovare bersagli adeguati per una terapia efficace. Occorre dire che questo è un gigantesco passo avanti, ma non è ancora la soluzione del problema. Esistono infatti almeno due forme della patologia, una genetica — ed è quella che è stata analizzata — e una sporadica. Per poter trattare la forma sporadica, di gran lunga più frequente, occorre trovare tutti i meccanismi implicati — e magari aggredirli — ma la scoperta aiuta a capire di che cosa si sta parlando. Vale la pena di osservare come l’approccio è stato di tipo molto avanzato, come abbiamo detto, ma di tipo nuovo e quasi inusitato è stato anche il meccanismo cellulare danneggiato in questo caso. Doppia novità quindi, e doppia soddisfazione. Comincia l’era dei meccanismi cellulari scoperti solo di recente e quasi sconosciuti anche solo cinque anni fa. Se è veramente così, il futuro si fa sempre più interessante e promettente. La ricerca, che comparirà sulla copertina della rivista Nature Neuroscience , è stata condotta dai ricercatori del consorzio Italsgen, coordinati da Adriano Chiò dell’ospedale Le Molinette e dell’Università di Torino e di Mario Sabatelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, in collaborazione con Bryan Traynor dell’Nih di Bethesda che ha eseguito le analisi genetiche. La ricerca è stata finanziata per la parte italiana da AriSLA - Fondazione Italiana di ricerca per la Sla nell’ambito del progetto Sardinials, dalla Fondazione Vialli e Mauro per la Ricerca e lo Sport Onlus, dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio, dal ministero della Salute e dalla Comunità europea nell’ambito del 7° Programma Quadro. Soldi spesi bene, insomma. Per oggi e per domani. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 02 Apr. ’14 POLSI E POLLICI FUORI USO PRIMA DIAGNOSI DI WHATSAPPITE di MARIO PAPPAGALLO Un forte dolore ad entrambi i polsi e i tendini dei pollici infiammati. Risveglio alquanto preoccupato la mattina di Natale per una dottoressa di 34 anni, alla 27esima settimana di gravidanza, di turno al Pronto soccorso la notte del 24 dicembre. I colleghi l’hanno sottoposta a ogni test possibile, tranne le radiografie data la gravidanza, e alla fine hanno concordato per una malattia di stretta attualità. Anche la medicina si deve adeguare ai tempi. «Cara collega, hai una WhatsAppitis ». Cura? Astenersi dallo smartphone fino alla guarigione. Il caso è descritto dall’autorevole rivista scientifica The Lancet . Un pesce d’Aprile? Il sospetto è forte, ma già nel 1990 era comparsa la Nintendinite in giovani instancabili videogame (Nintendo). Pollici fuori uso. Quella notte di Natale, senza troppe emergenze, la dottoressa ha trascorso 6 ore di fila a digitare forsennatamente sul suo smartphone risposte ai messaggi di auguri ricevuti con WhatsApp. Descrizione diagnostica: «Ha tenuto in mano un cellulare di 130 grammi per almeno 6 ore impegnata, senza pausa, in continui movimenti con entrambi i pollici per digitare e inviare le risposte... La mattina dopo si è svegliata con dolore lancinante ai polsi». Nessun trauma precedente nella storia clinica della paziente. Verdetto univoco e inedito: WhatsAppitis , WhatsAppite italianizzando. In pratica: tendinite bilaterale. Ne sentiremo parlare ancora, visto che il servizio di messaggistica istantanea dilaga e ha ormai mandato nel dimenticatoio email e quant’altro. La dottoressa, primo caso della nuova hi-tech malattia, non ha però rispettato la prescrizione: antinfiammatori e completa astinenza da smartphone fino a guarigione. A Capodanno, incorreggibile, è ricaduta in un vorticoso mulinar di pollici per scambi d’auguri via WhatsApp. Risultato: ricaduta. Conseguanza: smartphone sotto sequestro fino a «liberatoria» medica. Unico dubbio da caso pesce d’Aprile: le sei ore libere in medicina d’urgenza la vigilia di Natale. ____________________________________________________________ Repubblica 01 Apr. ’14 VITTORIA DI OBAMA: OLTRE 7 MILIONI DI ISCRITTI ALLA SUA RIFORMA SANITARIA WASHINGTON - Il presidente americano vince la sua scommessa più importante. La riforma sanitaria, l'Obamacare, ha raggiunto i 7 milioni di iscritti. Anzi ha superato questa soglia, quella fissata sei mesi fa, quando la legge entrò in vigore. Nessuno, dopo il disastroso avvio dell'Affordable Care Act, immaginava che il traguardo potesse essere raggiunto, soprattutto dopo gli ennesimi disservizi registrati nelle ultime ore. E invece Obama ce l'ha fatta. Trionfante, affiancato da un sorridente vice Joe Biden, il presidente è comparso nel giardino delle Rose della Casa Bianca per incassare gli applausi e spiegare perché la sua legge ha meritato la fiducia degli americani e perché nei prossimi anni l'adesione sarà ancora maggiore. Ha citato casi di lavoratori che non avevano mai avuto la possibilità di accedere a piani privati di copertura sanitaria e che ora lo possono fare, e gli hanno scritto a proposito dei propri casi: "Questa legge non è perfetta, ma è un progresso. Il sistema sanitario ora è migliore. Abbiamo garantito che tutti abbiano un'assistenza di base. Vuol dire riconoscere il lavoro e la dignità di tutti". "Nessuna famiglia dovrà più andare fallita perché qualcuno si è ammalato". E punta molto sull'universalità del progetto, "al di là della vostra posizione politica, o dei vostri sentimenti per me, o per questa legge, questa è una legge importante per l'economia, per tutto il Paese". Ora dunque sul destino dell'Obamacare "Il dibattito è finito", "nonostante - ha ricordato - si siano perse settimane per ciò che non ha funzionato". "La legge sta facendo quello che tutti si aspettano: sta funzionando, sta aiutando milioni di americani da costa a costa del Paese, evitando che gli Stati Uniti siano l'unico Pese avanzato a non avere un'assicurazione sanitaria di base". Beffeggiato per un sito governativo andato letteralmemte in tilt dopo mesi e mesi di preparazione e accusato di aver mentito agli americani assicurando loro che non sarebbero mai rimasti senza copertura sanitaria, Obama tira adesso un sospiro di sollievo. E con grande soddisfazione può dire al Paese che la promessa è stata mantenuta. Quella rivoluzionaria riforma sanitaria che fin dalla campagna elettorale del 2008 aveva sbandierato come priorità delle priorità della sua amministrazione, simbolo di una maggiore inclusione sociale, è finalmente realtà, nonostante sia stata violentemente osteggiata dal partito repubblicano. "Dalla mezzanotte di lunedì gli iscritti sono almeno 7.041 milioni", spiega il portavoce della Casa Bianca Carney, sottolineando come - con buona pace dei tantissimi detrattori dell'Obamacare - siano state superate le aspettative di tutti. E il dato non tiene conto di tutti i cittadini che si sono registrati nella giornata di ieri in ben 14 Stati Usa in cui erano ancora aperti i termini. Brucia ancora quando a febbraio gli analisti del Congresso dissero che, visti i problemi tecnici, al termine dei sei mesi dall'entrata in vigore della legge non si sarebbero raggiunti i 6 milioni di iscritti. E brucia ancora alla Casa Bianca il ricordo di quando Obama fu costretto ad apparire in Tv per chiedere scusa agli americani, con tutti gli osservatori che per settimane si chiesero se il presidente sapesse o meno di quei disservizi che avevano impedito a milioni di cittadini di ottenere una nuova assicurazione sanitaria. Qualcuno arrivò addirittura ad evocare l'impeachment. Ora la scommessa sembra vinta, con l'Obamacare che porterebbe passare definitivamente alla storia. ____________________________________________________________ Repubblica 21 Mar. ’14 CHIP 'TATUATO' CHE CONTROLLA LA SALUTE Prototipi già pronti, aiuteranno bimbi, sportivi e pazienti Si comincia solo ora a parlare di 'internet delle cose', espressione con cui si descrive il fatto che tutti gli oggetti, dall'auto al frigorifero, si stanno man mano collegando al web, che già fa capolino l''internet delle persone'. Entro al massimo dieci anni, afferma Leslie Saxon, capo della divisione di cardiologia della University of Southern California, i bambini potrebbero avere il loro primo tatuaggio dopo poche ore di vita, contenente un microchip in grado di monitorare tutti i parametri vitali, dall'elettrocardiogramma in tempo reale allo status nutrizionale. ''I dati potranno essere trasmessi direttamente allo smartphone dei genitori e dei pediatri - ha spiegato l'esperta durante una conferenza organizzata dall'Institute of Electrical and Electronic Engineers, la più grande associazione sull'innovazione al mondo - per monitorare la salute dei bimbi in tempo reale''. Negli ultimi anni sono stati presentati diversi prototipi di chip. L'università dell'Oregon ne ha messo a punto, ad esempio, uno in grado di monitorare i parametri vitali grande quanto un francobollo, ma ancora un po' troppo spesso per essere 'iniettato', mentre l'università di Tokyo ha risolto il problema dello spessore e ora sta affrontando quello dell'alimentazione. L'azienda statunitense MC10 ha già realizzato un chip inseribile in un cerotto, mentre anche in Italia è disponibile da pochi mesi un chip impiantabile, più piccolo di una pila ministilo, che monitora il cuore del paziente inviando i dati in tempo reale al medico, mentre l'Fda ha approvato da poco un chip ingeribile che monitora la corretta assunzione dei farmaci. I dispositivi serviranno anche a sportivi, militari e persone 'comuni'. ''Il 27% degli americani - nota l'esperta - indossa già qualche dispositivo che misura i dati corporei ed è connesso in rete, e la naturale evoluzione sarà impiantarli direttamente nel corpo. Si arriverà a una vera rivoluzione dell'interfaccia uomo-macchina: si pensi ad esempio a riuscire a fondere i propri sensori con quelli di un'automobile per un'esperienza di guida completamente nuova''. Il campo principale di applicazione, sottolinea Saxon, sarà comunque la salute. ''Con un uso estensivo si potranno risolvere enormi problemi di salute pubblica - afferma - ad esempio nel controllo delle epidemie o della malnutrizione''. ____________________________________________________________ Le Scienze 31 Mar. ’14 UNA MAPPA DEI CIRCUITI NEURONALI CHE CONTROLLANO I COMPORTAMENTI Realizzato il primo atlante dei circuiti neuronali che si attivano nel moscerino della frutta per realizzare alcuni comportamenti di base. Il risultato è stato ottenuto sfruttando insieme le tecniche dell'optogenetica, grazie a cui è possibile attivare e studiare i neuroni con la luce, e sofisticati modelli statstici (red) Un primo atlante dei circuiti neuronali che nel moscerino della frutta controllano specifici comportamenti, sia pure di livello molto basilare, è stato messo a punto da un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins University e del Janelia Farm Research Campus, ad Ashburn, in Virginia, che hanno sfruttato recenti tecniche genetiche, quelle della cosiddetta optogenetica, e sofisticati modelli statistici definiti per l'occasione. Da alcuni anni è possibile osservare l'attivazione di circuiti neuronali in un organismo grazie all'optogenetica, una tecnica che prevede la manipolazione del genoma con l'inserimento di un gene che esprime una proteina fosforescente. Quando un neurone di un organismo così trattato viene colpito con luce laser di una specifica lunghezza d'onda, si attiva ed è possibile studiare l'attivazione nel tempo grazie alla fosforescenza della proteina. Tuttavia, passare dall'osservazione di tutti i neuroni attivati durante un comportamento – inteso come successione di azioni elementari, per esempio girare a sinistra e poi a destra - alla definizione degli specifici circuiti che lo controllano si è dimostrato estremamente difficile perché in un comportamento sono attivati molteplici schemi motori, molti dei quali non sono direttamente collegati a esso. Joshua T. Vogelstein e colleghi – che firmano un articolo pubblicato su “Science” - hanno trattato con le tecniche di optigenetica un gruppo di moscerini della frutta, ottenendo 37.780 larve di cui hanno filmato con telecamere ad alta velocità ed alta risoluzione i comportamenti attuati in una complessa varietà di situazioni. L'uso delle larve di moscerino è stato dettato da due considerazioni: poiché sono abbastanza trasparenti, la telecamera è in grado di rilevare l'accensione dei neuroni, e il loro sistema nervoso è formato da 10.000 neuroni, molto di più rispetto al verme nematode C. elegans, su cui sono state effettuate finora gran parte di queste ricerche, ma comunque abbastanza ridotto da essere gestibile. Tutte le riprese sono state poi analizzate attraverso un programma che ha permesso di identificare 29 tipi di comportamento generale – come girare, evitare, fuggire – e di isolare nel sistema nervoso dei moscerini 1054 diversi circuiti neuronali che possono essere causalmente correlati agli schemi motori attivati nel corso di quei comportamenti. "Questo atlante di riferimento – scrivono gli autori - è un punto di partenza prezioso per comprendere come vengono selezionati e controllati i diversi comportamenti”, non solo nei moscerini, ma anche in organismi più complessi, dato che i metodi statistici elaborati sono applicabili anche a quantità di dati molto più imponenti, la cui elaborazione può incontrare una difficoltà solo nella potenza di calcolo disponibile. ____________________________________________________________ Repubblica 02 Apr. ’14 ECCO PERCHÉ ESSERE CATTIVI PUÒ AIUTARCI A VIVERE MEGLIO Astio, rancore disprezzo: sentimenti “eterni” che lo studio di un’università americana adesso prova a rivalutare NATALIE ANGIER NEW YORK L’ILIADE sarà pure un caposaldo della letteratura occidentale, ma la sua trama si basa su un impulso umano che siamo soliti considerare piuttosto meschino: l’astio, la cattiveria, il disprezzo. Achille nutre contro Agamennone un aspro rancore («Mi ha ingannato... Vada in malora…»), e pur di prolungare la sofferenza del re rinuncia a doni, tributi e persino a riprendersi la propria amante Briseide. Dopo essersi concentrati per decenni su dei pilastri della cattiva condotta quali l’aggressività, l’egoismo, il narcisismo e l’avidità, gli scienziati hanno adesso rivolto la propria attenzione al tema più sottile del dispetto, ovvero il desiderio di punire, umiliare o tormentare un’altra persona anche quando ciò non ci porta alcun ovvio vantaggio e potrebbe anzi avere un costo. Dal nuovo studio si deduce che al pari dei due tratti di una stessa V, vizio e virtù potrebbero essere inestricabilmente collegati tra loro. David K. Marcus, psicologo presso la Washington State University, ha presentato sulla rivista Psychological Asses-smenti risultati preliminari di nuova «scala di cattiveria» da lui messa a punto insieme ad alcuni colleghi. Marcus e la sua équipe hanno chiesto a 946 studenti e 297 adulti di assegnare a diciassette situazioni un voto sulla base del loro grado di condivisione rispetto a quanto in esse contenuto. L’elenco comprendeva affermazioni come: «Se il mio vicino si lamentasse dell’aspetto del mio giardino, sarei tentato di trascurarlo ancora di più solo per dargli fastidio », oppure «Sarei disposto a prendermi un pugno se in cambio una persona che non mi piace ne ricevesse due». Gli uomini si sono dimostrati di norma più dispettosi delle donne, e i giovani più dispettosi degli anziani; dallo studio è emerso inoltre che il dispetto si accompagna di solito a tratti quali l’insensibilità, il machiavellismo e una scarsa fiducia di sé, mentre di norma non si concilia con la gentilezza, la coscienziosità o la tendenza a provare sensi di colpa. Applicando la teoria del gioco per sondare il comportamento sociale degli esseri umani, il teorico dell’evoluzione Patrick Forber, della Tufts University, e Rory Smead della Northeastern Univeristy, hanno creato al computer un modello nel quale alcuni giocatori virtuali si sfidano a vicenda. In base alle regole da loro stabilite, il giocatore A decide in che modo spartire una somma di denaro con il giocatore B: fare a metà o tenere l’ottanta per cento per sé e dare a B il restante venti. Se B acconsente, entrambi ricevono la percentuale pattuita. Gli studiosi hanno lasciato che i giocatori si coalizzassero a piacere, e sono rimasti stupiti dai risultati: coloro che dimostravano maggiore flessibilità nel condividere il denaro non solo hanno dato prova di saper trattare con i tipi più dispettosi, ma la presenza di questi ultimi ha prodotto un effetto positivo, incrementando la percentuale degli scambi equi anche tra gli individui ben disposti. Gli esiti della ricerca riecheggiano quelli emersi da studi recenti, dai quali si evince che onestà e cooperazione richiedono una certa dose di quella che viene detta «punizione altruistica », ovvero la disponibilità di alcuni individui a punire chi viene meno alle regole anche quando la violazione in questione non li lede direttamente. Omar Tonsi Eldakar, dell’università Nova Southeastern, in Florida, ha studiato il nesso tra comportamento collaborativo e punizione egoistica. «Perché si dà sempre per scontato che a punire debbano essere i buoni? », si è domandato. Utilizzando dei modelli teorici di gioco, il dottor Eldakar ha dimostrato che quando dei giocatori egoisti decisi ad ottimizzare i propri profitti puniscono regolarmente gli altri giocatori o li escludono dal gruppo, gli scambi egoistici nel complesso diminuiscono sino a raggiungere un livello ragionevolmente stabile. «Gli egoisti finiscono per ridurre la criminalità nei territori da loro stessi abitati», spiega il dottor Eldakar. Agamennone ha bisogno del suo Achille. ( ©New York Times La Repubblica Traduzione Marzia Porta) MALTRATTARE HA UN EFFETTO POSITIVO SULLE PERSONE ALESSANDRA BADUEL «NON hai visto il programma? Però, così non va: come faccio a spiegarti? È troppo complicato». E anche l’intervista, finisce con una sgridata. Joe Bastianich, giudice di MasterChef noto per la sua cattiveria con i concorrenti, risponde sulle nuove ricerche che ne esaltano l’utilità mentre è negli Stati Uniti alle prove di MasterChef Usa. Bastianich, lei come la definisce, la cattiveria? « Frustrazione, il non avere abbastanza pazienza, una debolezza umana. Certo la gente a volte fa proprio incavolare, e uno reagisce. Diciamo che non è sempre un fatto positivo, ma scarica l’emozione del momento ». Le ricerche americane dicono che il lato positivo c’è. «Come giudice di Master-Chef, posso rispondere in un ruolo del tipo maestra e allievo, allenatore e giocatore: lì, certi comportamenti estremi aiutano le persone a essere se stesse. E poi, si sta insieme tre mesi, un giorno può volare uno schiaffo, un altro un bacio. È così che tiri fuori il meglio della gente. La cattiveria, lì, fa parte del rapporto fra due persone in una situazione estrema. Ma il programma lo conosci? Solo di fama? E allora, scusa, ma come faccio a spiegarti?». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 06 Apr. ’14 LA DIAGNOSI LA FA LO SMARTPHONE Sono partiti i test per gli esami del sangue e del fondo oculare Federico Mereta a La diagnosi? La fa lo smartphone. Dopo le numerose app dedicate alle medicina, si sta avvicinando il salto di qualità che favorisce l'impiego del telefonino in ambito medico, con la promessa di consentire un'elevata accuratezza nel riconoscimento delle cose che non vanno e di favorire un sostanziale taglio dei costi. Basti pensare al progetto in corso presso l'Istituto Massachussets Eye and Ear, aggregato all'Università di Harvard, che ha messo a punto un sistema in grado di catturare immagini di alta qualità del fondo della retina, la membrana nervosa che sta nella parte posteriore dell'occhio e consente la ricezione e la trasmissione al cervello degli stimoli visivi. Il sistema, descritto sul «Journal of Ophthalmology», prevede l'impiego di una particolare app chiamata Filmic Pro, capace di assicurare il controllo della messa a fuoco, dell'esposizione e dell'intensità della luce. Grazie a un complesso "gioco" tecnologico, sfruttando la sorgente di luce coassiale del telefono, gli studiosi d'Oltreoceano sono riusciti a creare una sorta di oftalmoscopio indiretto, capace di offrire una visione nitida del fondo oculare. A quel punto, scegliendo le migliori parti del filmato realizzato dallo smartphone, si sono ottenute valide immagini, potenzialmente inviabili all'oculista per la valutazione. I primi test hanno dato risultati soddisfacenti. Ma è sul fronte degli esami ematochimici che gli smartphone potrebbero rivelarsi un'arma efficacissima per chi deve tenere sotto controllo la propria salute, ad esempio per chi soffre di insufficienza renale o per i diabetici. Un semplice strumento, pesante più o meno un etto e mezzo e collegabile al cellulare, potrebbe sostituire il ricorso al laboratorio di analisi quando occorre misurare l'albumina nelle urine. Normalmente questa proteina non dovrebbe passare all'interno del liquido, perché trattenuta dal rene, e la sua presenza nell'urina è indicativa della sofferenza dell'organo. I ricercatori dell'Università della California hanno realizzato il dispositivo che viene riempito con poche gocce di urina con una microsiringa e poi trasmette sullo smartphone, attraverso una app, i valori del parametro. Il costo dello strumento non dovrebbe superare i 100 dollari. Ancor più mirato è il dispositivo realizzato dalla startup del Politecnico di Losanna Qloudlab, che permette di misurare i valori della coagulazione nelle persone in terapia con anticoagulanti. Grazie a un film "usa e getta" che rileva i valori e va applicato sullo schermo dello smartphone, con una semplice goccia di sangue si può tenere sotto controllo la situazione e inviare i risultati al medico. Basterà disporre della app creata ad hoc! ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 06 Apr. ’14 QUANDO SI MANGIAVA PEGGIO Oggi siamo in grado di produrre cibo per sette miliardi di persone. Ma ancora in troppi al mondo sono sotto alimentati Donald Sassoon Oggi sul nostro pianeta c'è cibo per tutti. Siamo in grado di sfamare sette miliardi di persone. Nel 1800, quando eravamo "solo" un miliardo, alcuni, come il reverendo Malthus, ritenendo che le bocche si moltiplicano molto più rapidamente del cibo, sostenevano che per sfamare tutti occorreva controllare le nascite per mezzo della moral restraint, insomma con meno sesso. Come mai siamo riusciti a produrre così tanto cibo? In primo luogo abbiamo fatto enormi progressi nei trasporti e nella comunicazione; poi è aumentata la nostra capacità di conservare gli alimenti (conserve, refrigerazione, ecc.). Il resto lo hanno fatto i fertilizzanti, i trattori, la fecondazione artificiale degli animali, insomma l'applicazione della scienza all'agricoltura, che hanno fatto aumentare il cibo in modo gigantesco. Eppure sul nostro pianeta ci sono oggi persone che non mangiano abbastanza. Siamo abituati a immagini televisive scioccanti di bambini affamati. Ma ci sono molti bambini che non muoiono di fame, ma che non sono in grado di ottenere un cibo abbastanza nutriente per potersi sviluppare. La sotto-alimentazione è uno dei temi più trascurati nello sviluppo globale. Ci sono oggi quasi 900 milioni di persone (una persona su otto) sottoalimentate. Oggi l'agricoltura produce il 17 per cento in più di calorie per persona di quanto accadesse trent'anni fa, mentre la popolazione è aumentata del 70 per cento. Questo è sufficiente per dare ad ogni essere umano ben 2.720 chilocalorie per persona al giorno, secondo le stime della FAO. Alcuni Paesi consumano ben più di 2.720 pro capite. L'americano medio ne consuma 3.770, con risultati ben visibili (ma gli europei non sono molto distanti). In una decina di stati africani la media è inferiore alle 2000 calorie al giorno. In Occidente sorge una nuova malattia, l'obesità, dovuta, almeno in parte, alle moltiplicazioni di snack che hanno portato ad una baldoria di mangiare non-stop. Ma nei Paesi sottosviluppati si fa la fame. Eppure non molto tempo fa anche nel nostro continente si mangiava male. Negli ultimi decenni del XIX secolo, nel cuore dell'Europa occidentale, in Francia, uno dei Paesi più ricchi del mondo, molte famiglie rurali vivevano nella miseria, con una dieta quotidiana che consisteva di zuppa, lardo e pane. La cucina contadina, a differenza dell'immagine romantica che molti hanno oggi (ricette antiche, cibo genuino, semplice e sano, un mondo che abbiamo perso, ecc. ), era una cucina povera, priva di valore nutritivo e di vitamine, poco igienica. All'inizio dell'Ottocento in alcuni villaggi vicini a Zurigo, oggi una delle regioni più ricche del mondo, il pasto contadino consisteva in una poltiglia di grano al quale veniva aggiunto un po' di latte. Un Paese con le caratteristiche della Svizzera del 1800 sarebbe oggi classificato dalle Nazioni Unite come un avente diritto ad aiuti internazionali. Nel 1870, notava il conte Stefano Jacini nella sua famosa Inchiesta agraria, nei comuni della provincia di Roma, «il vitto ordinario è quasi unicamente basato sul granturco. Questo cereale, ridotto in farina, viene impastato con acqua, e sotto forma di schiacciata, detta pizza, è cotto nel forno per fare il pane e servito in tutti i pasti quotidiani... l'alimentazione è sempre incompleta, sovente costituita da cibi malsani. Il grano e il granturco sono ordinariamente avariati, i legumi cattivi, il formaggio magro». Più a Sud, si stava peggio. La maggior parte dei contadini mangiavano pane fatto con farina di mais o di castagne. La pasta veniva consumata solo dai più benestanti. L'ufficiale sanitario di Capracotta, una piccola città del Molise, notava nel 1891 che i 5.000 abitanti vivevano in piccoli tuguri con le loro bestie. Trent'anni dopo, in Sicilia, la situazione era la stessa. La Commissione Parlamentare Faini rilevava che in una tipica casa contadina animali e esseri umani dormivano tutti insieme: i nonni, i figli, i nipoti, il mulo, l'asino, le galline e qualche maiale. Una sorta di porridge fatto, spesso con il granoturco, per riempire lo stomaco, era il pranzo abituale dei poveri contadini in gran parte dell'Europa. Di questo si nutrivano al mattino, di giorno e di sera, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Due giornalisti francesi, i fratelli Léon e Maurice Bonneff, raccontano la loro visita ad una casa operaia a Lille. Siamo nel 1908. Ci vivono una giovane famiglia. La donna ha 26 anni, ma ne dimostra cinquanta. Tossisce ininterrottamente. La stanza dove vive con il marito e i cinque figli è di quattro metri per due. Il marito parte per il lavoro alle cinque del mattino e torna alle sette di sera. Hanno la tubercolosi e non vivranno a lungo. Si stima che in quella zona la malnutrizione sia la causa diretta della tubercolosi nel 68 per cento dei 519 lavoratori interessati. La nobiltà, naturalmente, godeva di uno stile di vita completamente diverso. Questo era vero non soltanto a Londra, Parigi, Napoli e Berlino, ma anche per gli aristocratici «minori» in zone periferiche. Il geologo francese Barthélemy Faujas-Saint-Fond, in viaggio nella Scozia nel lontano 1784, ci ha lasciato un resoconto affascinante della vivande disponibili a casa del suo ospite «Monsieur Mac-Liane», nell'isola di Mull nel Nord-Ovest della Scozia. «Mac-Liane» era certamente il generale Allan MacLean che aveva preso parte alla difesa del Quebec dagli eserciti rivoluzionari americani. MacLean era tutt'altro che ricco, ma il cibo che era in grado di offrire al suo ospite francese era eccezionale. Forse stava cercando di impressionarlo, e ci riuscì. La colazione del mattino consisteva in manzo affumicato, aringhe salate, burro, latte e panna, porridge; poi, latte mescolato con tuorlo d'uovo, zucchero e rum (ovviamente una specie di zabaione), marmellata di uva, mirtilli, frutti locali, tè, caffè, vari tipi di pane, e poi rum della Giamaica. A cena c'era una grande ciotola di zuppa di manzo, montone e pollo con avena, cipolle, prezzemolo e piselli seguita da un sanguinaccio di maiale (probabilmente il famoso black pudding) con molto pepe e zenzero, "eccellenti" fette di manzo alla griglia, arrosto di montone di alta qualità, patate cotte nel sugo di carne, polli, cetrioli e un chutney di zenzero, Madeira, un pudding di farina di orzo, crema e uvetta greca. Finita la cena, servivano porto, sherry e madeira e un punch; poi formaggi e infine il tè. Faujas-Saint- Fond poi spiega che i 7.000 abitanti di Mull, principalmente pastori, andavano in giro senza scarpe e cappello (nel Nord della Scozia!), mangiavano avena e patate. E le donne (al contrario della figlia del generale) erano brutte per via «del clima e del cibo». Tale divario tra i ben nutriti e gli altri esiste ancora oggi. La scarsità di cibo è dovuta in parte alle catastrofi naturali e dalle guerre, ma soprattutto alla mancanza di infrastrutture agricole (strade, canali, irrigazione). Mancano gli investimenti in agricoltura che sono cinque volte più efficaci nel ridurre la povertà e la fame degli investimenti in qualsiasi altro settore. Poi c'è lo spreco di alimenti: secondo un rapporto FAO, un terzo di tutto il cibo prodotto non viene mai consumato. E così ci troviamo in questa situazione curiosa e terribile: un mondo diviso tra quelli che mangiano troppo poco e quelli, i cosiddetti fortunati, che mangiano una quantità eccessiva di cibo sbagliato. ____________________________________________________________ Repubblica 06 Apr. ’14 SUPER MEMORIA Ricorderemo tutto (anche se pioveva un lunedì qualsiasi di vent’anni fa) e senza computer L’UNIVERSITÀ DELLA CALIFORNIA STA STUDIANDO 55 PERSONE DOTATE DI UN POTERE PARTICOLARE PER CAPIRE SE È RIPRODUCIBILE ARNALDO D’AMICO ROMA L’UOMO FISSERÀ I RICORDI spontaneamente, senza fare più alcuna fatica. E la sua memoria sarà infinita, non avrà più limiti, potrà contenere tutte le informazioni che desidera. Attenzione: è il crollo di un dogma. Perché queste non sono le previsioni fantascientifiche accese da ricerche su un gene o un circuito nervoso: sono le caratteristiche di cinquantacinque esseri umani che vivono negli Stati Uniti. Uomini, donne e bambini scoperti da uno che di memoria se ne intende, finito sui giornali un decennio fa per aver messo a punto la pillola cancella-traumi. «Supermemoria autobiografica, così ho definito la loro capacità straordinaria — spiega James McGaugh, direttore del dipartimento di Neurobiologia dell’apprendimento e della memoria, università della California, Irvine — Scherzando invece li chiamo “google people” perché, dopo neanche un secondo dalla domanda, iniziano a sciorinare una lunga e complessa risposta. Non hanno limiti: ricordano qualunque cosa gli sia successa o abbiano letto o visto in tutta la loro vita, è una capacità mai osservata prima. Che è naturale e quindi riproducibile. Bisogna solo capire perché si manifesta questo fenomeno solo in alcuni e il meccanismo che si attiva nel loro cervello. Poi potremo metterlo in moto anche nei nostri». È così, quasi casualmente, che dalla capacità di qualche ricercatore di cogliere un fenomeno naturale, a volte sotto gli occhi di tutti, sono arrivati i grandi progressi della medicina. Fu la scoperta di contadini mungitori di vacche invulnerabili al vaiolo che fece nascere i vaccini. Dai misteriosi cerchi senza batteri intorno alle colonie di muffe arrivò la penicillina e poi gli antibiotici. Mentre altri farmaci che hanno cambiato il destino dell’umanità, come il cortisone, sono nati dall’incontro con malati i cui stranissimi sintomi portarono all’identificazione di nuove sostanze salvavita. McGaugh ripercorre la sua ricerca nello studio della professoressa Patrizia Campolongo, dipartimento Fisiologia e Farmacologia, Università Sapienza di Roma, che lo ha invitato a tenere una lettura magistrale affollatissima. I due collaborano da anni per studiare come certe molecole del sistema nervoso simili a quelle della marijuana, e per questo dette endocannabinoidi, influenzano la funzione della memoria. «Jill Price è stato il primo caso — racconta McGaugh che porta i suoi ottantatré anni come un bel sessantenne — mi scrisse nel 2006 per sapere se potevo fare qualcosa per il suo “fastidio”. Spesso si perdeva nei ricordi della sua vita, tutti lucidi e precisi e questo le creava qualche intralcio nel concentrarsi sulle incombenze quotidiane. Con la relativa documentazione sotto mano, come raccolte di quotidiani, registri meteorologici, calendari eccetera cominciai con domande tipo: che tempo faceva il 9 gennaio 1981? e nella prima settimana di marzo del 1993? in che ufficio si è recata il 6 febbraio 1984? cosa è successo una settimana dopo? e così via. E Jill, allora cinquantottenne, ricordava tutto perfettamente ». McGaugh continuò a studiare Jill per essere sicuro che non fosse solo un’abile illusionista. «Partecipammo a una puntata di 6-0 minutes, latrasmissionetvpiùpopolare negli Stati Uniti. Novanta milioni di americani videro il primo caso di persona con supermemoria. In pochi giorni arrivarono centinaia e centinaia di email da tutti gli Stati Uniti. Ma dopo i colloqui e i test, durati tre anni, i casi veri di supermemoria si ridussero a cinquantaquattro. La prima conseguenza dell’avere tanti soggetti come Jill è stato l’abbandono del termine di “ipertimesia” con cui avevo chiamato il fenomeno. Significa “ipermemoria” in greco, lingua usata per indicare una condizione patologica. Pochi di loro invece si lamentano della loro condizione, la maggior parte si rende conto di avere una facoltà che gli altri non hanno. Qualcuno l’ha tenuta nascosta quando se n’è accorto, per paura di essere considerato come un diverso ed emarginato». Dal confronto dei casi cominciano a emergere i primi tratti in comune. I ricordi si fissano spontaneamente e solo spontaneamente. Questi soggetti infatti faticano come tutti quando devono memorizzare, come nello studio e poi nel lavoro. Le emozioni hanno un ruolo meno importante. «Tutti ricordiamo dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre 2001, mentre assistevamo al crollo delle Torri Gemelle — spiega Mc-Gaugh — quelli con la supermemoria invece ricordano ogni giorno della propria vita anche se non è stato emozionante. E però se mostriamo loro una storia filmata fatta apposta per non suscitare la benché minima emozione e due giorni dopo chiediamo loro dei particolari, ricordano male e sbagliano come tutti gli altri». Altri caratteri in comune che guidano le ricerche sono l’assenza di una componente ereditaria. Il supermemore compare all’improvviso in una famiglia normodotata e può essere uno solo di una coppia di gemelli. Infine nei dodici sottoposti a risonanza magnetica funzionale, le strutture del cervello che formano il circuito della memoria rivelano un volume di poco superiore alla media. Da questo dipende la supermemoria? O è la gran quantità di ricordi che ne ha aumentato il volume? «Al momento stiamo indagando in tutte le direzioni — conclude McGaugh — indicate dalle quattro fasi della memoria. La supermemoria si realizza nella prima fase, quella in cui l’esperienza che si sta vivendo si codifica in un ricordo. Oppure nella seconda, del consolidamento, quella in cui l’emozione è determinante. O nell’immagazzinamento del ricordo o nella quarta, in cui si recupera il ricordo. Infine, potrebbe dipendere anche, in parte, da ognuna di queste fasi. Non lo sappiamo ancora. Abbiamo però una certezza, la supermemoria esiste. Non so dire quanto tempo ci vorrà ma riusciremo a riprodurla». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 06 Apr. ’14 CAPIAMO I NUMERI PRIMA DEL LINGUAGGIO Le magie del cervello a due giorni di vita Quantità, tempo e spazio sono innati e non derivati dall’esperienza Non capita tutti i giorni, anzi nemmeno tutte le settimane e nemmeno tutti i mesi, che una tesi filosofica fondamentale sia confermata sperimentalmente. Eppure questo è appena successo, grazie a un lavoro appena uscito sull’ultimo numero dei Proceedings of the National Academy of Sciences of the Usa (in breve PNAS) co-firmato da una delle piu’ note e autorevoli psicologhe cognitive: Elisabeth Spelke di Harvard. Insieme alle colleghe Véronque Izard, Coralle Sann e Atlette Streri del Laboratorio di Psicologia della Percezione del CNRS e dell’Università di Parigi Descartes, hanno confermato la tesi Kantiana che spazio, tempo e numero sono innati. La Spelke ha indagato per anni e riportato in numerose pubblicazioni le radici cognitive dell’aritmetica e della nostra percezione dello spazio. Me lo conferma in un’intervista in esclusiva. Mi dice, infatti: «Le mie collaboratrici ed io avevamo recentemente scoperto che i neonati sono sensibili ai numeri e che bimbi appena più grandi, a cinque mesi, notano la correlazione tra numeri crescenti o decrescenti e spazi, rispettivamente, più o meno grandi. Volevamo, quindi, meglio indagare l’origine di questa capacità. Ovviamente, nel mondo che ci circonda, numeri, lunghezze e durate vanno insieme. Serie più numerose di oggetti occupano maggior spazio e sequenze più numerose di suoni durano più a lungo. Ci siamo chieste se queste correlazioni sono apprese o invece innate. Ora lo abbiamo fatto studiando i neonati, che ancora non hanno potuto avere esperienze di queste correlazioni». Effettuare esperimenti di natura cognitiva su bimbi molto piccoli, in particolare su neonati a solo due o tre giorni dopo la nascita, sembrerebbe presentare formidabili difficoltà. Chiedo alla Spelke come hanno fatto. «Arlette Speri ha condotto questi esperimenti pionieristici a Parigi, in un reparto maternità, quando i bimbi sono svegli e attenti. Si pone loro di fronte un grande schermo e si fanno loro udire sequenze di suoni più o meno numerose, ciascuno di durata più o meno lunga, per uno o due minuti, prima che sullo schermo appaiano gruppi di oggetti più o meno numerosi, oppure linee di diverse lunghezze. La durata del loro sguardo viene rigorosamente misurata, mentre le serie di suoni continuano. Come noi, i neonati prestano maggior attenzione, cioè guardano più a lungo, eventi tra loro correlati, in questo caso, sequenze di suoni più numerosi, o che durano più a lungo, abbinate a un numero corrispondente di oggetti, oppure a linee più lunghe». Vale la pena, per rendere questi esperimenti a noi palpabili, precisare che i numeri delle ripetizioni di sequenze acustiche (tipo tu-tu-tu... oppure ra-ra-ra-ra..., oppure tuuuu-tuuuuuu... oppure raaaaa-raaaa- raaaa...) variano tra quattro e diciotto e sullo schermo appaiono, in corrispondenza, o senza corrispondenza, quattro triangolini gialli, oppure sei o dieci cerchietti rosa e così via. Faccio l’avvocato del diavolo e chiedo alla Spelke perché questi risultati mostrano che spazio, tempo e numeri sono innati. Risponde: «I suoni sono udibili, seppur distorti, già in utero, quindi in astratto è possibile che l’abbinamento tra suoni e durate sia stato appreso prima della nascita. Ma certo non l’abbinamento tra durate e stimoli visivi. Dormire, guardare il soffitto e guardare mamma, papà e parenti occupano totalmente i primi tre giorni di vita. Non vengono loro, ovviamente, dati giocattoli, né hanno alcuna esperienza di linee che si allungano o si accorciano né di figure geometriche colorate. Quindi ci sentiamo autorizzate a concludere che non possono aver anticipato, sulla base della loro precedente esperienza, l’abbinamento tra linee più lunghe, oggetti più numerosi e sequenze uditive di maggior durata. Assai più plausibilmente, la mente e il cervello di un essere umano sono pre- organizzati alla nascita per fare tali abbinamenti fondamentali». Le chiedo, infine, quali saranno i prossimi esperimenti del suo gruppo. «Vogliamo sapere se queste capacità, presenti alla nascita, aprono la strada al susseguente progresso di concetti e intuizioni in matematica. Stiamo studiando, nel mio dipartimento a Harvard, bimbi più grandi e adulti. Vedremo come questi primordi si innestano su ulteriori sviluppi cognitivi di tipo matematico». Riaffioreranno in alcuni di noi, penso, ricordi di filosofia del liceo. Gli empiristi inglesi amavano il motto: niente nell’intelletto se prima non è passato attraverso i sensi. Emanuele Kant obiettò: tranne l’intelletto stesso. Appunto, ora lo abbiamo constatato. Peccato che Liz Spelke non possa averlo come collega, in una cattedra di psicologia a Harvard. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 06 Apr. ’14 L’INSOSTENIBILE PREZZO DEI FARMACI di ROBERTO SATOLLI Sofosbuvir. Provate a sussurrare questo nome impronunciabile (ma perché li scelgono così?) a chi deve far tornare i conti della sanità e lo vedrete impallidire. Promette di risolvere il dramma dell’epatite C, di certo è una cura che dà molto meno disturbi delle attuali. Il prezzo però minaccia di aggirarsi sui 50 mila euro per trattamento. I ragionieri contano che se lo volessero tutti i portatori del virus C costerebbe alle Regioni 25 miliardi, più di tutti gli altri farmaci messi insieme. Ma anche un solo miliardo in più, dove lo andiamo a trovare oggi? Se per un nuovo farmaco si fissa un prezzo troppo basso, che ripaghi solo i costi di materie prime, produzione, commercio o poco più, si penalizza la ricerca di vera innovazione. Ma se si sta troppo alti non si rischia solo di far saltare il banco, ma anche un effetto collaterale sin qui trascurato: si inducono in tentazione i geni del marketing, per i quali violare le regole diventa così conveniente da sottrarli ad ogni controllo. A livello globale, pagare sanzioni di centinaia di milioni o miliardi di dollari o di euro per violazioni commerciali, e persino penali, può ormai essere messo preventivamente in bilancio, quando i margini sono così alti. È successo in Usa a Ely Lilly (1,4 miliardi di dollari nel 2009), Pfizer (2,3 nel 2009), Abbott (1,5 nel 2012), Merck (1,0 nel 2011), Gsk (3,0 nel 2012). In Italia il recente caso di Novartis e Roche multati per 180 milioni dall’Antitrust per l’ipotesi di accordo a favorire Lucentis, un farmaco per gli occhi, è solo l’ultimo piccolo esempio locale. L’unica consolazione è che non si potrà continuare così, perché prima che il caso sofosbuvir sia risolto, arriveranno altre dieci, e poi cento, nuove medicine «miliardarie». E tutti capiranno che bisogna cambiare sistema. Il primo passo obbligato credo sarà quello di rendere il processo di contrattazione del prezzo del tutto trasparente al pubblico, che in fin dei conti lo paga. A quel punto sarà forse più facile trovare un equilibrio che consenta di non buttare il bambino con l’acqua sporca. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 06 Apr. ’14 AUMENTANO IN EUROPA LE MALATTIE DA PUNTURA DI INSETTI Bisogna proteggersi dalle malattie trasmesse all’uomo da piccoli organismi («vettori») come le zanzare, le zecche, le cimici e le pulci: tra gli esempi più noti, la malaria, la leishmaniosi, la febbre gialla, la tripanosomiasi, la peste, la febbre dengue. È questo l’invito che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) rivolgerà a tutti domani, 7 aprile, in occasione della Giornata mondiale della salute (World health day), data in cui ricorre anche l’anniversario della fondazione della Oms stessa, nel 1948. «Piccoli morsi, grande minacce» è lo slogan che accompagna la Giornata. Punture di zanzare, pappataci e zecche hanno trasmesso più di 1,5 milioni di malattie agli europei tra il 1990 eil 2010, colpendo circa 77 mila cittadini del Continente all’anno. Secondo le stime dell’Oms, le malattie trasmesse da vettori costituiscono più del 17% di tutte le malattie infettive e ogni anno, nel mondo, colpiscono oltre un miliardo di persone, causando più di un milione di decessi. Malattie esotiche, come la chikungunya, sono ora entrate a far parte dell’elenco delle malattie delle regioni Oms appartenenti all’Europa.