RASSEGNA STAMPA 13/04/2014 ITALIA SEMPRE ULTIMA IN EUROPA PER NUMERO DI LAUREATI UNIVERSITÀ POCHI APPRENDISTI IL 41% DEI GIOVANI VUOLE LAVORARE OLTRE CONFINE FIRINO: «L'ISOLA VIVRÀ DI CULTURA» MISTRETTA: I PECCATI DEI CAGLIARITANI UNISS: IL TAR BOCCIA LA CASTELLACCIO BASTA CINA E ROMANIA IL MADE IN ITALY STA RITORNANDO A CASA IL GRAFENE SALVERÀ LA LEGGE DI MOORE LE REGOLE DELL’AMORE DENTRO GLI ALGORITMI GENEROSITÀ AL TESTOTERONE SE CROLLA INTERNET UN ATOMO E UN FOTONE, E LA PORTA LOGICA È FATTA ========================================================= I FUTURI MEDICI ALLE PRESE CON CHOMSKY E VOLI LOW COST UNICA:IL TEST È BOCCIATO SENZA APPELLO UNISS: TEST DI MEDICINA, STUDENTI SOTTO STRESS IL MINISTRO: «SE NON FUNZIONA CAMBIAMO» IL DIRITTO NEGATO ALLO STUDIO PENSIONATI AI TEST DI MEDICINA PER SCIPPARE POSTO AGLI STUDENT IL 24 PER CENTO AMMETTE: HO COPIATO IL PESO DEL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE SULL'ESITO DELLE TERAPIE MEDICI IN SCIENZA E SAGGEZZA FASCICOLO SANITARIO ELETTRONICO ENTRO GIUGNO 2015 PIÙ TEMPO PER IL VERO DIALOGO PAZIENTE-MEDICO SANITÀ ADDIO RICETTE, SARANNO ONLINE BUONI CONSIGLI E SERVIZI ARRIVANO SU SMARTPHONE E TABLET SOLO UN TERZO DEI NOSTRI DOTTORI UTILIZZA GIÀ LA RICETTA ONLINE IL MONDO HA BISOGNO DI OLTRE SETTE MILIONI DI OPERATORI SANITARI SANITÀ, DISAVANZO ASL A 1,6 MILIARDI NEL 2013 LA TRINCEA DI MEDICI E MANAGER DELLE ASL SARDEGNA: SANITÀ, BUFERA SUI CONCORSI SARDEGNA: LOCCI (FI): «POCHI 5 GIORNI PER IL DG» MEDICINA E INFORMAZIONE CONTRO I TABÙ DELLA MALATTIA LE «PROTO-PAROLE» CONDIVISE DAI NEONATI DI TUTTO IL MONDO TROPPO SALE NON SOLO «GONFIA», VI FA INGRASSARE SIGARETTE ELETTRONICHE: DALLA SCIENZA UNA PRIMA CONDANNA USA: LASCIA LA MINISTRA DELLA SANITÀ DOPO I GUAI DELLA RIFORMA VERONESI: SU ETEROLOGA GIUDICI PIÙ AVANTI DEI POLITICI VERONESI AI MEDIA: «PARLATE DI CANCRO COLPISCE UNO SU TRE» ALFA1-ANTITRIPSINA: BASTA UN SEMPLICE TEST DEL SANGUE ========================================================= ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Apr. ’14 ITALIA SEMPRE ULTIMA IN EUROPA PER NUMERO DI LAUREATI di Eugenio Bruno C'è una doppia cattiva notizia che arriva da Bruxelles sul fronte dell'Istruzione. Da un lato, l'Italia con il suo 22,4% del 2013 è ancora ultima per numero di laureati. Dall'altro, con il suo 17% è quinta per abbandoni scolastici peggio di noi fanno solo Spagna, Malta, Portogallo e Romania. A confermarlo sono i dati diffusi oggi da Eurostat. Ma lo stesso allarme è contenuto nel Def approvato martedì dal Governo. Maglia nera in Europa Eurostat sottolinea che nel nostro Paese si laureavano e si laureano ancora pochi studenti. A fronte di una media europea del 36,8% la quota di popolazione tra i 30 e i 34 anni in possesso di un diploma di alta formazione arriva appena al 22,4 per cento. Una performance che ci vale l'ultima piazza nell'Ue a 28. Meglio di noi hanno fatto anche Romania (22,8%), Croazia (25,9%) e Malta (26%) che ci precedono in classifica. Il trend ascendente messo in atto negli ultimi anni (nel 2002 eravamo al 13,1% e nel 2007 al 18,6%) non è bastato neanche ad avvicinarci ai primi della classe. Vale a dire Irlanda (52,6%), Lussemburgo (52,5%) e Lituania (51,3%). Fin qui i dati resi noti da Bruxelles. Ma lo stesso allarme si trova nel Documento di economia e finanza varato martedì. Nel provare a risalire alle cause del fenomeno il Def evidenzia altri due aspetti che ci differenziano dal resto del Vecchio Continente. Il primo è che se consideriamo l'intera popolazione in età lavorativa (15-64 anni) è vero facciamo ancora fatica a metterci al passo nella percentuale di popolazione con diploma o laurea ma se ci limitiamo alla classe 20-24 anni il gap lo abbiamo già riempito. La seconda avvertenza riguarda l'età media degli immatricolati all'università che da noi è la più bassa in assoluto. Per arrivare alla conclusione che le vere ragioni del ritardo italiano sono, da un lato, la quota ancora troppo bassa di adulti che scelgono di laurearsi e, dall'altro, l'emorragia di studenti che diventano "dottori" . A nove anni dall'immatricolazione solo il 55% degli allievi consegue infatti il titolo universitario. Ancora troppi abbandoni Come se non bastasse restiamo indietro anche sul numero degli abbandoni scolastici. Il 17% del 2013, a fronte di una media dell'11,9% per l'Ue a 27, ci è valsa la quinta piazza. Stano messi peggio di noi solo Spagna (23,5%, record negativo), Malta (20,9%), Portogallo (19,2%) e Romania (17,3%). I Paesi virtuosi con il minor numero di ragazzi che hanno precocemente smesso di studiare, i cosiddetti early leavers, sono Croazia (3,7%), Slovenia (3,9%) e Repubblica ceca (5,4%). Anc he su questo tema giunge in aiuto il Def. Nell'analizzare le perfomances delle singole Regioni il Documento di economia e finanza fa presente che l'unica in grado di raggiungere il traguardo europeo attualmente è il Veneto con il suo 10, 3 per cento. Mentre il Sud e le Isole si assestano su valori più che doppi. Con il 25,8% della Sicilia, il 24,7% della Sardegna e il 22,2% della Campania. Con l'aggravante che in sei Regioni il tasso di abbandoni rispetto al 2012 è addirittura salito: Molise (+5,4%), Basilicata (+1,6%), Sicilia (+1,%), Campania (+0,3%), Puglia (+0,2%) e Lombardia (+0,1%). Gli investimenti in R&S  Nell'illustrare a che punto si trova il nostro Paese alla vigilia del semestre europeo il Def si sofferma anche sulla spesa in ricerca e sviluppo. A fronte di un obiettivo per il 2020 che era fissato originariamente al 3% e che è stato rivisto al ribasso dall'Italia all'1,53% gli ultimi dati disponibili (quelli del 2012) ci danno all'1,27 per cento. Con un lievissimo aumento (+0,1%) rispetto al 2011. A tenere è stata soprattutto la spesa delle istituzioni pubbliche laddove è diminuita quella delle imprese che avevano "tirato la carretta" negli anni precedenti. Ma a preoccupare di più è un altro dato: gli investimenti in R&S in termini reali sono diminuiti dell'1,5 per cento. Risultato: stando ai dati provvisori per il 2012 restiamo al diciottesimo posto in Europa con un gap dello 0,8% rispetto alla media dell'Ue a 27. Confermando così la poco invidiabile posizione che già occupavamo 12 mesi prima. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Apr. ’14 UNIVERSITÀ POCHI APPRENDISTI Regole complesse nelle regioni e difficoltà di placement negli atenei Claudio Tucci ROMA Nato una decina di anni fa con le migliori intenzioni di integrare mondo della formazione terziaria e impresa, l'apprendistato in università stenta ancora a decollare. Con numeri che parlano chiaro: nel 2012 a fronte di 504mila contratti di apprendistato "professionalizzante" (quello di secondo livello, utile "a imparare un mestiere") appena 234 hanno riguardato l'apprendistato per l'alta formazione e la ricerca (di cui 142 solo in Lombardia). Performance che segnano forti distanze rispetto a Paesi nostri competitor, come la Francia che su 420mila giovani occupati ogni anno con contratti di apprendistato, oltre il 10% (vale a dire più di 42mila unità) frequentano studi a livello terziario. Il confronto è praticamente impari con la Germania che con il suo "sistema duale" occupa, anche se prevalentemente nel ciclo secondario, quasi 1,7 milioni di ragazzi che vengono ospitati dalle aziende tedesche (70% nel settore dell'industria e commercio; il restante 30% nelle imprese artigiane). E anche in Inghilterra è in corso un dibattito su una nuova proposta di riforma dell'apprendistato (la «Richard Review») che fa perno sulla necessità di porre più saldamente nelle mani dei datori di lavoro la gestione del contratto (l'imprenditore cioè scommette sull'apprendista e il finanziamento pubblico è «on results», legato al raggiungimento degli obiettivi previsti dal contratto). E in Italia? L'apprendistato di alta formazione è stata una scommessa della legge Biagi del 2003. E per farlo decollare l'allora governo ha finanziato con 11,5 milioni di euro un progetto pilota con le regioni per coinvolgere circa mille apprendisti. Ma l'impegno si è concentrato essenzialmente sull'attivazione di master (oggi il 90% dei contratti di apprendistato di terzo livello è finalizzato al conseguimento del titolo di master, mentre è bassissimo l'utilizzo nell'università). Nel 2008, poi, il Dl 112, ha ricompreso il dottorato di ricerca tra i titoli conseguibili con l'apprendistato e previsto, nei casi di inerzia regionale, che l'attivazione dell'alto apprendistato potesse essere rimessa ad apposite convenzioni stipulate tra imprese e atenei (o altre istituzioni formative). E con il decreto Carrozza si è voluto rilanciare ancora l'apprendistato in università, con un riconoscimento di un massimo di 60 crediti. Ma i nodi che hanno frenato (e frenano tuttora) l'apprendistato di terzo livello sono essenzialmente rimasti tutti in piedi. E queste esperienze sono rimaste sperimentazioni (e non realtà strutturate e organiche). Lo strumento non è ancora abbastanza conveniente per le aziende. C'è una iper regolamentazione regionale e il placement universitario è piuttosto "fiacco". Tant'è che in Crui, la conferenza dei rettori italiani, c'è un gruppo di lavoro per capire come far decollare apprendistato (e tirocini formativi). «Servono ulteriori elementi di supporto – spiega il professore di diritto del lavoro della Luiss, Roberto Pessi – e il compito di modellare i profili formativi va affidato a imprese e atenei». La Luiss, con il dipartimento di Impresa e management, spiega Pessi, «sta mettendo in piedi un progetto di apprendistato per i dottorati industriali. E per la laurea magistrale stiamo facendo un censimento delle aziende disponibili a cui proporremmo un percorso di apprendistato che non penalizza la presenza del ragazzo nell'impresa, anche attraverso l'e-learning». C'è poi il progetto «Fixo» di Italialavoro che prevede contributi pari a 6mila euro per ogni apprendista assunto a tempo pieno (che scendono a 4mila per gli apprendisti part-time). Ma oltre alle difficoltà (da superare) ci sono best practice. Dal 2007 a oggi Assolombarda ha contribuito a realizzare 311 assunzioni con apprendistato per conseguire un master, coinvolgendo 50 aziende. A ciò si aggiungono tre apprendistati per il corso di laurea, e uno per il dottorato di ricerca. L'ultimo a decollare, con una Pmi e l'università Cattolica di Milano, è un innovativo progetto di ricerca, strutturato in modo molto flessibile, dal titolo «Nuovi modelli di pubblicità dei prodotti finanziari». Anche l'ateneo di Bergamo, assieme alla scuola di alta formazione Adapt, è sugli scudi per l'apprendistato di alta formazione e ricerca. «Con una fatica incredibile – evidenzia il professor Michele Tiraboschi – perché il quadro regolatorio dei dottorati di ricerca complica non poco la vita essendo pensato per la carriera puramente accademica e non per percorsi aziendali». In tutto, dal 2009 a oggi, aggiunge Tiraboschi, «abbiamo realizzato 18 apprendistati di alta formazione in dottorato e una trentina di apprendistati di ricerca fuori dal dottorato». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Apr. ’14 IL 41% DEI GIOVANI VUOLE LAVORARE OLTRE CONFINE Come è ovvio, visto l’alto tasso di disoccupazione che li perseguita, i giovani italiani sono molto sfiduciati. Meno scontato è che la percentuale dei pessimisti sia così alta: l’84,6% di chi ha tra i 18 e i 35 anni ritiene scarse o molto scarse le sue prospettive lavorative. Ancora più grave è che quell’altissima percentuale riguardi i giovani più istruiti, quelli cioè che hanno almeno una laurea triennale. È la conclusione a cui arriva la business school Istud dopo aver intervistato 3.289 giovani, oltre che italiani, anche brasiliani, indiani e cinesi (tra i Bric) e polacchi, tedeschi, inglesi e statunitensi (tra i Gwic: Great western industrial countries). Gli italiani tra l’altro non reggono il confronto della demoralizzazione, poiché gli sfiduciati Bric sono solo uno su quattro e quelli Gwic il 43,6%. La conseguenza è prevedibile: il 41,6% dei nostri giovani vorrebbe andare a lavorare all’estero «per fuggire da un presente scoraggiante», contro il 27,9% di tutti gli altri che emigrerebbero solo «per cercare un futuro migliore».  Per gli stranieri, viceversa, l’Italia può essere una buona destinazione di lavoro? Dal punto di vista retributivo assolutamente no secondo i Gwic, accettabilmente invece per i Bric. Tanto più che i Gwic considerano le imprese italiane «disorganizzate, caotiche e non meritocratiche», a differenza dei Bric che ci guardano con simpatia immaginando le nostre aziende «efficienti, creative e non stressanti». Gli stranieri, però, conoscono poche aziende italiane, salvo Fiat (23%) e Ferrari (17%), oltre, soprattutto, i marchi della moda.  Un altro elemento di scoraggiamento per gli italiani riguarda la possibilità di proseguire gli studi: solo l’11,3% vorrebbe fare un master, contro il 35% degli stranieri. L’Isfol ha appena certificato che un dottore di ricerca italiano guadagna in media 20 mila euro netti l’anno, mentre se va all’estero ne incassa 29 mila. Dell’argomento si discuterà martedì mattina all’Assolombarda.  Enzo Riboni ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 Apr. ’14 FIRINO: «L'ISOLA VIVRÀ DI CULTURA» La Sardegna deve diventare una terra che in Cultura investe uno e guadagna quattro. Come accade in Francia. Come si fa? Mettendo a sistema tutto il patrimonio culturale, lavorando sulla “professionalizzazione” degli operatori e procedendo in sinergia con l'assessorato al Turismo. «Se avrò realizzato questo obiettivo durante il mio mandato sarò soddisfatta», assicura il neo assessore regionale alla Cultura Claudia Firino. Project manager del Cnr, 35 anni, ieri è stata ospite dell'Unione in diretta e ha dialogato a lungo con gli ascoltatori. MUSEO NATURALE «Siamo un museo a cielo aperto, dobbiamo valorizzare il nostro patrimonio archeologico e museale. E lo facciamo mettendo a sistema». Mettere a sistema è una delle locuzioni che l'assessore usa più spesso. «L'inaugurazione della mostra dei Giganti di Mont'e Prama mi ha suggerito molte idee e mi ha anche aperto gli occhi. Bisogna fare rete. Per esempio, se uno va in un museo a Cagliari deve poter trovare le informazioni su tutti gli altri musei, anche quelli degli enti locali». Sui festival e i grandi eventi il discorso è lo stesso: fare sistema e programmare. «Le leggi di settore sono buone, ma sono in parte inapplicate. I regolamenti e alcune delibere attuative sono deficitarie, ma a mancare è principalmente l'attuazione delle leggi. Quello che giustamente chiedono gli operatori culturali è certezza, su criteri e su tempi di erogazione dei contributi. La mia intenzione è di creare più stabilità e, dove è possibile, immaginare una programmazione pluriennale». L'ISTRUZIONE Ma l'agenda politica imposta da Francesco Pigliaru già in campagna elettorale mette in testa l'istruzione, a cominciare dall'edilizia scolastica, per la quale sono stati già stanziati i primi 30 milioni di euro. «L'istruzione è un tema su cui il presidente punta tanto. La delibera sull'edilizia scolastica coinvolge molti assessorati proprio per mettere insieme sia risorse che strutture tecniche. Abbiamo messo in campo risorse importanti, un piano da 100 milioni, di cui 30 appena stanziati. Ora siamo al lavoro con gli enti locali per capire quali sono le priorità, avviare una fase di ricognizione e poi aprire i cantieri». Ma politiche per la scuola significano soprattutto lotta alla dispersione scolastica, una vera piaga della Sardegna. Insieme al numero sempre troppo basso di diplomati e laureati. «La nostra idea è di riprendere alcune buone pratiche già sperimentate nella Giunta Soru. Innanzitutto, avviare progetti che durino più di un anno e non partano a ridosso dell'inizio delle lezioni, intervenendo nei territori a più alto tasso di dispersione scolastica, che quasi sempre coincide con le zone di maggiore disagio sociale. Abbiamo bisogno di tenere le scuole aperte anche nel pomeriggio, magari sfruttando il personale precario, in modo da realizzare progetti che coinvolgano i ragazzi». SPAZI DA MIGLIORARE Gli spazi museali in Sardegna vanno rivisti, perché manca una reale gestione professionale del patrimonio culturale. «Un problema tutto italiano, non solo sardo. I nostri piccoli musei non fanno rete, i Comuni in alcuni casi non riescono nemmeno a tenerli aperti o si affidano comunque a un custode. Mancano le figure professionali necessarie, che curino anche marketing e comunicazione». Quando si parla di musei in Sardegna, non si può non fare riferimento al Betile, il grande progetto di Zaha Hadid sul lungomare di Cagliari sfumato negli ultimi anni. Un progetto forse non del tutto cestinato. «Mi piaceva molto come idea - rivela Firino -: è stata un'occasione persa perché nel momento in cui fu pensato c'erano anche i fondi disponibili. Una parte di quei fondi sono ancora vincolati su quel progetto e magari un Betile leggermente ridimensionato, per farlo rientrare nei costi, potrebbe essere un'idea valida». LE DOMANDE Gli ascoltatori de L'Unione in diretta partecipano con molte domande: uno chiede se non sia uno spreco dividere la mostra dei Giganti tra Cabras e Cagliari, ma l'assessore non è d'accordo. «Non vedo un problema nella divisione attuale. Le statue appartengono al territorio di Cabras e quindi è più che giusto che se ne rivendichi la presenza. Ovviamente Cagliari garantisce una visibilità e una presenza di fruitori maggiore, ma questa soluzione non mi dispiace». ATENEI DA PRESERVARE Una dualità che va difesa anche tra le Università sarde, che qualcuno vorrebbe unificare per creare un unico Ateneo di livello nazionale. «Non sono d'accordo, forse l'unificazione avrebbe più senso in una regione non insulare. Avere due poli importanti come Cagliari e Sassari, che riescano a specializzarsi in campi diversi, lavorando in sinergia e senza creare doppioni, è una ricchezza per l'Isola». FORZA CAGLIARI E DINAMO Tifosissima della Dinamo e del Cagliari - «da tanto tempo e sinceramente, ma non perché me lo impone il mio ruolo istituzionale» -, assicura grande impegno sullo sport. «È un settore un po' sacrificato, me lo confermano anche dagli uffici della Regione. Non può essere così, anche perché è uno strumento di riscatto importante». LIMBA Arrivano anche domande sulla Lingua sarda e sulle politiche di valorizzazione che saranno portate avanti. «In questi anni è stato avviato un lavoro importante. Sono stati erogati molti finanziamenti, ora abbiamo bisogno di fare una ricognizione di ciò che è stato fatto e continuare con un progetto di valorizzazione soprattutto nelle scuole. Mi piacerebbe lavorare in un'ottica pluriennale per poter programmare interventi nel lungo periodo e poi valutarne gli effetti. Di certo c'è che la Lingua, dopo anni di ostracismo, è tornata ad essere un elemento forte della nostra identità». Intanto ci si prepara per Sa Die de sa Sardigna. «Abbiamo avuto poco tempo per programmare interventi diversi, perché torni ad essere sentita bisogna portarla nelle scuole». E a proposito di identità sarda, a chi consegnerebbe il Sardus Pater, il premio che la Regione assegna ai sardi illustri, l'assessore? Un momento di esitazione, per poi pescare nella sua anima più di sinistra: «Io lo darei ai disoccupati sardi». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Apr. ’14 MISTRETTA: I PECCATI DEI CAGLIARITANI Pasquale Mistretta dà la pagella a sindaco, rettore e partiti - L'urbanista ha guidato per diciott'anni l'università: sei mandati, poi la pensione «Ho fatto il rettore sopra le righe, altrimenti non avrei potuto amministrare un bel nulla. Nella nostra piccola città hanno sempre saputo che non mettevo soldi in tasca: la consapevolezza ha reso possibile l'impresa». L'urbanista Pasquale Mistretta ha guidato per diciott'anni la più grande azienda culturale sarda. In pensione dal 2009 coltiva la lettura, rigorosamente saggistica, da Giuliano Ferrara a Giuliano Amato con incursioni nell'interpretazione dei vangeli. Scrive al ritmo di Simenon: tre libri in altrettanti anni. Incarna un potere subacqueo e discreto, abituato a mediare o punire in base alle necessità, comunque votato a influenzare le decisioni che contano. Da ingegnere ha messo la firma sui piani regolatori di mezza Sardegna. Da politico è stato candidato sindaco: «Mi dispiace non aver avuto una vera responsabilità di governo. Per il resto, rifarei tutto». L'accusano di essere la cerniera tra centrosinistra e centrodestra.  «Ho sempre avuto un'ideologia di sinistra, realisticamente pronto a votare le proposte utili degli avversari politici».  Dicevano con perfidia: “Con il centrodestra sarebbe stato eletto sindaco”.  «Ho avuto più voti dei partiti che mi sostenevano, mi è mancata la forza di saltare l'onda berlusconiana. Nel 2001 le periferie urbane considerate di sinistra votarono Berlusconi». Quale voto dà al sindaco Massimo Zedda?  «Nessuno sullo sviluppo della città: non mi pare che ci siano state grandi novità, l'esodo da Cagliari continua. Un voto molto alto per i dettagli: pavimentazione di viale Regina Margherita, passeggiata del Poetto. Sul sociale, se non ci fosse la Caritas sarebbe un disastro». Emilio Floris?  «Bene i primi anni, poi non so perché ha attraversato una fase di stanca. Comunque è una persona perbene». I suoi ex colleghi universitari guidano la Regione.  «Spero che facciano bene, senza indugiare in seminari di eccessivo approfondimento. Mi auguro che il loro non sia un dialogo ad excludendum ». Tuvixeddu?  «Una pagina vergognosa che riguarda l'incoerenza dei cagliaritani e di coloro che lo sono diventati. Qualcuno dimentica che è il risultato di un baratto tra l'amministrazione comunale e Coimpresa pagato in metri cubi dopo l'esproprio comunale. Una cosa è fare i disinvolti con bandiere rosse gialle e blu, altra è mettere mano al portafogli per pagare il debito».  La strada mai completata?  «Un aborto, com'è scandaloso il Sant'Elia perché nessuno ha il coraggio di prendere una decisione che possa essere criticata o diventi oggetto di inchieste giudiziarie. Una soluzione potrebbe essere invitare al tavolo anche i magistrati per dire cosa si può fare e cosa no. E questo non significa nascondere eventuali reati, ma fare gli interessi della collettività». Cagliari è morta?  «No, però purtroppo ha i cagliaritani, un coacervo di culture, razze e presunzioni diverse, difficilmente riconducibili a un progetto strategico, a un futuro di sviluppo. Prendiamo le compagnie aeree low cost: mica noi abbiamo fatto nulla, ci hanno dato le rotte decise da altri ed è finita lì. E le navi da crociera: cosa offriamo più degli altri?» I commercianti?  «Si lamentano anche se devono pagare un euro di tassa turistica».  Incapaci?  «No, hanno dimensioni troppo piccole per avere guadagni per sé e indotti» A Cagliari i partiti sono finiti?  «Non hanno un vero recapito identitario e di leadership». Lei fa parte di una razza estinta: i socialisti.  «Un po' di noi sono ancora qui, il meglio di Pd e Forza Italia ha quella matrice. Cito Martelli: “Tutti sanno, nessuno ricorda. Io so poche cose, ma le ricordo benissimo”». Cosa pensa dell'inchiesta sui rimborsi dei consiglieri regionali?  «Il fatto che sia diffuso in tutta Italia non è una scusante ma un'interpretazione del modo con cui queste risorse potevano essere usate senza giustificazione. Mi scandalizza di più che ci stiamo scandalizzando, fa parte della nostra ipocrisia». Non fosse stato per il limite d'età avrebbe occupato il rettorato a vita.  «Quelli che mi contestavano dal quarto mandato oggi rimpiangono che non abbia fatto il settimo». A proposito: un giudizio sul suo successore?  «Non c'è un giudizio, siamo diversi. È anche molto più giovane, deve compiere settant'anni io ne ho ottantuno. Si tratta di intendersi su cosa valga la vecchiaia, molto secondo Seneca e Cicerone». Chi sarà il nuovo rettore?  «Un orientamento molto diffuso è per Maria Del Zompo. Ha già fatto la campagna elettorale, può fare affidamento su un entroterra diffuso». Quanto conta la massoneria?  «Non sono massone, se è questa la domanda».  Il peso delle logge a Cagliari?  «Contavano, ora più nulla». ppaolini@unionesarda.it ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 11 Apr. ’14 UNISS: IL TAR BOCCIA LA CASTELLACCIO I giudici del Tar Sardegna sono stati lapidari: Rossella Castellaccio dovrà lasciare il posto di ricercatrice in Demo-etno-antropologia all'Università di Sassari. Quando era stato pubblicato il bando del concorso che lei ha vinto, il padre Angelo Aldo Castellaccio (ordinario di Storia Medievale) era anche vicepreside della Facoltà di Lettere e Filosofia. Una situazione che, per i magistrati amministrativi, ha fatto scattare l'incompatibilità. BATTAGLIA LEGALE Dopo un precedente ricorso vinto dalla ricercatrice nel dicembre scorso, ora il Tar ha ribaltato il verdetto, annullando il decreto firmato dal Rettore il 17 maggio 2013 che aveva approvato gli atti del concorso. Accolta dunque la tesi della seconda classificata, Martina Giuffè - rappresentata dagli avvocati Giuseppe e Giulia Andreozzi - che aveva contestato la partecipazione al bando della vincitrice per la sua parentela con l'ex vicepreside sia quando è stato pubblicato il bando sia quando la facoltà di Lettere ha effettuato la chiamata per 4 ricercatori a tempo determinato: uno, proprio quello contestato. «Non possono partecipare al concorso» avevano chiarito i legali cagliaritani citando la norma «coloro che abbiano un grado di parentela o affinità fino al quarto grado con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata oppure col rettore, il direttore generale o un componente del Consiglio di amministrazione dell'Ateneo». In giudizio si erano poi associate anche le candidate Valeria Tupiano e Sofia Venuroli. LA DIFESA Rossella Castellaccio, assistita dagli avvocati Silvio Pinna e Umberto Congiatu, si era difesa spiegando ai giudici che, dal dicembre 2011, il padre lavorava al Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali della Facoltà e non a quello di Storia, Scienze dell'Uomo e della Formazione a cui era legato il posto vinto. Per i giudici, però, la parentela fa comunque scattare l'incompatibilità. «Si tratta di un evento» si legge nella sentenza del collegio presieduto da Caro Lucrezio Monticelli (a latere Giorgio Manca e Gianluca Rovelli), «che mette in pericolo sia l'imparzialità delle valutazioni riservate alla Commissione esaminatrice, sia l'imparzialità degli altri organi che intervengono nelle fasi del procedimento». Il concorso resta comunque valido e ora l'Università dovrà decretare la graduatoria e un nuovo vincitore. Francesco Pinna ____________________________________________________________ Repubblica 13 Apr. ’14 BASTA CINA E ROMANIA IL MADE IN ITALY STA RITORNANDO A CASA Dal 2009 a oggi rientrate un’ottantina di linee produttive puntando sull’automazione e risparmiando sui trasporti MAURIZIO RICCI LA DELOCALIZZAZIONE PUÒ NON CONVENIRE: E LE AZIENDE INIZIANO A RIENTRARE MAURIZIO RICCI AVOLTE ritornano. Dalla Cina, dal Bangladesh, dalla Romania, eccoli di nuovo sulla Riviera del Brenta, sull’Appennino tosco-emiliano, intorno a Firenze, come se il vento della globalizzazione fosse girato di colpo. Soprattutto dopo la crisi del 2008, un numero crescente di imprese italiane sta rinunciando alle strategie di delocalizzazione e rimpatriando intere linee produttive. SEGUE A PAGINA 21 Laura Boldrini IL FENOMENO è mondiale, dall’America all’Europa. Negli Stati Uniti, fa addirittura parlare di rinascita dell’industria manifatturiera nazionale. Forse, gli americani esagerano. I numeri, però, cominciano ad essere indicativi, dice Luciano Frattocchi, dell’università dell’Aquila. Insieme a colleghi di Catania, Udine, Bologna, Modena e Reggio, Frattocchi ha costruito un gruppo di ricerca — UniCLUB MoRe — che tiene il conto. Negli Usa, sono ormai 175 le decisioni di rimpatrio, totale e parziale, di produzione. Ma dopo gli Usa, la classifica mondiale dei ripensamenti vede le aziende italiane, con un’impennata a partire dal 2009. Sono 79 unità produttive, che coinvolgono una sessantina di aziende. Circa il doppio di quanto si registra in Germania, in Gran Bretagna o in Francia. In un momento di diffusa paralisi del sistema industriale italiano, le condizioni a cui questi rimpatri avvengono, le loro motivazioni, le scelte strategiche che sottintendono riescono a dire molto, già oggi, di come potrà essere la ripresa prossima ventura dell’economia italiana. Sulla Riviera del Brenta, non lontano da Verona, Gianni Ziliotto è sul punto di lanciare un progetto ambizioso per la B. Z. Moda. Produce scarpe da donna di fascia media (100-150 euro al paio) che esporta al 100%, soprattutto in Nord Europa. L’azienda è piccola — circa 11 milioni di euro il fatturato — ma Ziliotto pensa in grande. Rimpatriare il grosso della produzione dal Bangladesh e dalla Cina e puntare sui robot. «Si tratta di automatizzare 6-7 operazioni ripetitive, che oggi fanno solo gli extracomunitari » precisa. «Avremmo, invece, bisogno di periti e ingegneri ». É un investimento che si mangia, da solo, l’8-10% del fatturato e, per questo, Ziliotto si muove con i piedi di piombo. Ma è questa la strada maestra che sembrano indicare le ristrutturazioni che, nel mondo, America in testa, accompagnano il rimpatrio delle aziende. Il differenziale fra i salari cinesi e quelli occidentali non è più ampio come qualche anno fa e l’automazione consente di abbatterlo anche in patria. Insieme ai costi di trasporto è una delle motivazioni principali che spinge le imprese al “back-reshoring”, come lo chiamano Frattocchi e colleghi. «L’effetto netto sull’occupazione è che i posti di lavoro che si recuperano — conferma Frattocchi — non sono uguali, né per quantità, né per professionalità, a quelli che si erano persi originariamente con la delocalizzazione ». Del resto, i consulenti della McKinsey, la bibbia delle aziende, calcolano che, entro dieci anni, fra il 15 e il 25% dei posti di lavoro operai saranno occupati dai robot. Eppure, se questo è un asse del futuro vicino, non è l’unico. Ce lo spiega la stessa bibbia McKinsey: i robot sono dietro l’angolo, ma «le strategie manifatturiere costruite sul risparmio di costo del lavoro stanno diventando fuori moda». Le variabili in gioco sono di più e sono più complesse. Lo indica lo stesso fenomeno del back-reshoring italiano. A scappare erano state soprattutto le aziende del ciclo tessile-abbigliamento-calzature, colpiti al cuore dalla concorrenza dei salari cinesi o vietnamiti. Ma anche il grosso delle imprese italiane che tornano — quasi la metà — sono di quel settore. E meno del 14% motiva il cambio di strategia con i parametri di costo del lavoro. In media, nel mondo, quelli sono, invece, i fattori decisivi in quasi il 20% dei casi. Cosa spinge, allora, le aziende italiane dei jeans, delle borse e delle scarpe a ritentare l’avventura italiana? Piquadro, 60 milioni di euro di fatturato negli accessori e nella pelletteria, oggi realizza l’80% della sua produzione in Cina e il 20% in Italia. Recentemente, tuttavia, ha deciso di riportare in Italia i prodotti della gamma più alta. «Li abbiamo affidati, come sempre — spiega l’amministratore delegato, Marco Palmieri — a terzisti, ma stiamo pensando di aprire, in collaborazione con loro, una vera e propria fabbrica nostra, qui nella nostra zona tradizionale, l’Appennino tosco-emiliano». Il motivo si può riassumere nella qualità della produzione artigianale più sofisticata che, in Italia, raggiunge la massima espressione e che è impensabile di trovare in Cina. É la stessa molla che, l’anno scorso, ha convinto un’altra azienda di accessori, la Nannini di Pontassieve a riaffidare a fornitori italiani tutta la propria linea in pelle. La qualità, però, non è l’unico elemento su cui insiste Palmieri. «Noi — dice — vogliamo avvicinarci alle esigenze del cliente. Oggi, uno, sul nostro sito, si può costruire un prodotto tutto per sé, secondo il proprio particolarissimo gusto. E sempre più queste vendite tailor-made online si faranno in futuro. Ora, noi abbiamo sempre usato, per i nostri prodotti, pellami italiani. Cosa facciamo? Prendiamo il pellame, lo spediamo in Cina e poi, quando la borsa è pronta, la reimportiamo in Italia? Magari il cliente si stufa». Quelli della McKinsey ne parlano come di corsa all’“in-time delivery” ed è un altro dei motivi centrali del rimpatrio di molte aziende. Il 42% delle aziende censite da UniCLUB dichiara come decisivo per il rimpatrio l’effetto “made in”, made in Italy, nel caso. Una forma di “branding” nazionale, per dirla alla McKinsey, che schiude porte e spiana strade ed è una delle carte decisive della ripresa. Frattocchi racconta di un’azienda, ANDcamicie, che produce camicie in Cina e che è stata avvicinata da un imprenditore cinese che vorrebbe distribuire i prodotti AND in 40 diversi centri commerciali. Ad una condizione, però: che siano certificate come prodotte in Italia. A vendere camicie italiane made in China non ci pensa neanche. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 Apr. ’14 IL GRAFENE SALVERÀ LA LEGGE DI MOORE Siamo quasi ai limiti fisici dei transistor nei circuiti Ora iniziano ad arrivare le prime applicazioni grazie a nuovi materiali a«La quantità di transistor che è possibile stampare su un circuito integrato raddoppia ogni due anni». Nota come legge di Moore dal nome del dirigente Intel che la formulò, questa regola empirica predice lo sviluppo dell'elettronica da mezzo secolo in modo così affidabile che i produttori la sfruttano ancora per redigere la «roadmap internazionale della tecnologia dei semiconduttori». Ma non sarà valida all'infinito: prima o poi si raggiungerà un limite fisico che non permetterà di rimpicciolire ulteriormente i componenti elettronici stampati. Già da un decennio è diventato difficile proseguire su questa strada, dato che l'elevata concentrazione di transistor crea problemi di dissipazione del calore difficili da risolvere. Secondo Bob Colwell, esperto di nuove tecnologie presso il Darpa, la scala dei componenti non potrà scendere sotto i 7 nanometri, cosa che dovrebbe avvenire poco dopo il 2020. Per poter proseguire l'aumento delle prestazioni cui la legge di Moore ci ha abituato occorrerà perciò trovare modi alternativi rispetto all'aumento dei transistor per unità di superficie. Una delle possibilità che oggi vengono prese in considerazione è quella di avere chip tridimensionali: non più lastre, ma cubi, con strati di circuiti sovrapposti. Si tratta però di una soluzione che incontrerà comunque presto i suoi limiti tecnici. Occorrerà perciò fare il grande passo e abbandonare il silicio, il materiale su cui da sempre si basa la tecnologia dei circuiti integrati, per passare ad altri che permettano di creare circuiti più veloci a parità di numero di transistor. Uno di questi materiali è il germanio, con il quale è già stato realizzato un chip che ha raggiunto velocità record (798 GHz di frequenza), anche se solo in laboratorio e in condizioni particolari.  Ma quello che genera maggiori speranze è il grafene. Isolato per la prima volta nel 2004, il grafene è uno stato allotropico del carbonio, come la grafite. In effetti la sua struttura molecolare è la stessa di quest'ultima, ma con una differenza: un cristallo di grafene ha lo spessore di un solo atomo. Per questo ha caratteristiche molto particolari: nel grafene la mobilità degli elettroni è cento volte maggiore che nel silicio. Inoltre si tratta di un materiale più durevole dell'acciaio, con un'elevata conducibilità termica (il che minimizza i problemi di dissipazione del calore). In più, avendo spessore quasi nullo, è anche flessibile, e perciò adatto anche ai display pieghevoli e ai dispositivi indossabili che ci aspettiamo di produrre nel futuro. Per questo molti lo vedono come il successore ideale del silicio. Costruire processori basati sul grafene, tuttavia, è un'impresa non priva di difficoltà: richiede infatti di produrre in serie cristalli macroscopici, spessi un solo atomo ma lunghi e larghi diversi centimetri, cioè quanto uno dei "wafer" da cui si ricavano i chip. Maggiore l'area, maggiore la quantità di transistor che è possibile stampare. Finora si è cercato di partire da cristalli di grafene più piccoli per poi accorparli, ma questo generava difetti tali da deteriorare le proprietà elettriche e meccaniche del materiale. I procedimenti utilizzati per far crescere direttamente grandi cristalli, per esempio tramite la sublimazione di vapori chimici su una superficie di rame, sono invece difficilmente trasferibili su scala industriale. Le cose però stanno per cambiare: nei giorni scorsi Samsung, tra i maggiori produttori mondiali di chip, ha annunciato di avere sviluppato un procedimento per ottenere cristalli di grafene su larga scala. Il risultato ottenuto in collaborazione dal centro ricerche Samsung (Sait) e dalla scuola di scienza e tecnologia dei materiali dell'Università di Sungkyunkwan è stato orgogliosamente rivendicato: «Si tratta di uno dei passi avanti più significativi nella storia della ricerca sul grafene. Ci aspettiamo che questa scoperta acceleri la commercializzazione di questo materiale, che potrebbe dare inizio a una nuova era nella tecnologia elettronica di consumo». Il procedimento, descritto in un articolo pubblicato su «Science», permette di far crescere un singolo cristallo di grafene su un chip di silicio, frapponendo tra i due uno strato di germanio. Quest'ultimo è un materiale anisotropo, cioè la disposizione dei suoi atomi è diversa nelle due direzioni. Questo permette di usarlo per allineare con precisione dei "semi" di grafene sulla sua superficie, che vengono poi fatti crescere attraverso la sublimazione di vapori, finché si fondono in un unico cristallo. Sul grafene viene poi applicato uno strato protettivo d'oro, che consente di separarlo meccanicamente dallo strato di germanio senza danneggiarlo. Questo significa che vedremo presto chip al grafene nell'elettronica di consumo? Non ancora. Anche se le sue proprietà sono notevoli, perché inizi la produzione su larga scala è necessario che il procedimento diventi sufficientemente economico da renderlo conveniente rispetto ai vari concorrenti, come i nanotubi di carbonio, o altri materiali scoperti di recente. I primi utilizzi del grafene in elettronica saranno perciò quelli per cui sono sufficienti cristalli di minore qualità, come la dissipazione del calore e i supercondensatori. Tuttavia la probabilità di vedere processori al grafene in un futuro non lontano è considerevolmente aumentata. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 Apr. ’14 LE REGOLE DELL’AMORE DENTRO GLI ALGORITMI I siti di dating stanno cambiando il nostro modo di incontrarci? La risposta è sì. Ecco come veniamo selezionati a La ricerca del partner, attività da sempre considerata centrale in ogni società, ha subito un'evoluzione negli ultimi anni. Da una parte gli incontri sentimentali (o dating) rappresentano una voce sempre più rilevante dell'economia: secondo uno studio del Cebr (Centre for Economics and Business Research) per conto di Meetic Group, infatti, solo nel 2013 i single dei sette principali Paesi europei hanno speso per questa attività circa 14,1 miliardi di euro. Dall'altra la percentuale di incontri dal vivo scende sempre di più e quella online sale: il 35% delle coppie che si sono sposate negli Stati Uniti tra il 2005 e il 2012 si erano conosciute sul web.  Questa esplosione del dating online – in parte, forse, responsabile delle cifre di cui sopra – pone, però, un altro interrogativo: se cambia il mezzo attraverso il quale ci si incontra, cambia anche la psicologia e il comportamento delle persone? L'Association of Psychological Science ha recentemente dedicato all'argomento un corposo studio condotto da ricercatori di cinque università americane. Per capire l'influenza del dating online bisogna partire dalle differenze fondamentali con quello che la ricerca definisce il dating "offline", ovvero quello dal vivo. Una delle sopracitate differenze riguarda il passaggio delle informazioni. Mentre in un incontro in carne e ossa scopriamo quello che ci interessa del l'altra persona solo al momento dell'appuntamento, nel dating online decidiamo di incontrarci solo dopo aver acquisito quelle informazioni. All'obiezione che quest'ultime potrebbero essere false rispondono una serie di studi che circoscrivono il fenomeno a questioni di "numeri": ovvero, le donne barano fondamentalmente sul numero dei chili, gli uomini sui centimetri di altezza. Ma nessuna di queste mistificazioni risulta generalmente così sfrontata da provocare al ricevente un conato di vomito al momento dell'incontro. Un'altra rilevante differenza tra incontri dal vivo e online è la possibilità dei fruitori di questi ultimi di poter scegliere, grazie ai profili presenti sui siti, tra un numero impressionante di potenziali partner. Questo privilegio, una volta riservato solo a sultani e rockstar, si può oggi acquisire con una ventina di euro al mese iscrivendosi a un sito di incontri. Questa (teorica) orgia di possibilità di accoppiamento, però, comporta i suoi effetti collaterali: secondo la ricerca americana, infatti, gli utenti rischiano di valutare centinaia di potenziali partner in base a singole caratteristiche, altezza e peso, per esempio, come stessero scegliendo una lavatrice su eBay, il che può portare a fare scelte non proprio lungimiranti. Inoltre, questo overload di potenziali partner può provocare un rifiuto all'idea di impegnarsi con uno in particolare. Un'altra, apparentemente banale, differenza tra incontri dal vivo e dietro un rassicurante 15 pollici è quella che si può riassumere in 3D vs 2D. Ovvero: quando incontriamo qualcuno dal vivo, ci fanno notare i ricercatori Usa, viviamo un'esperienza tridimensionale dell'altra persona. Sullo schermo di un computer, invece, questa esperienza sarà a due dimensioni, limitando pesantemente la capacità di valutare la nostra compatibilità con quel potenziale partner. Nell'era dei film 3D e della realtà aumentata, quindi, flirtiamo sempre più in 2D. Lo studio dell'Association of Psychological Science sottolinea, inoltre, come i siti di dating online si dividano oggi in due grandi macro categorie: quella più tradizionale dove sono gli utenti a selezionare i profili ritenuti più interessanti e quella che delega questa attività, da millenni appannaggio esclusivo di esseri umani, a un sistema di algoritmi in perenne aggiornamento. Il problema che ne deriva, spiega la ricerca, è che gli utenti di questi siti dominati dagli algoritmi vengono praticamente deresponsabilizzati: sulla base delle risposte fornite a una serie di questionari più o meno complessi, sono gli algoritmi a scegliere "scientificamente" quali sono le persone con le quali ogni utente ha le migliori chance di avere una relazione felice. Questo esercito di cupidi digitali passa come un carrarmato su vecchie credenze come "gli opposti si attraggono". Gli algoritmi, infatti, fanno del loro meglio per tenere lontani individui con caratteri, interessi e preferenze radicalmente diverse. Le possibilità che queste persone si trovino bene insieme sono talmente basse – dice l'algoritmo – che non ci prendiamo la responsabilità di formare coppie che, potenzialmente, si odieranno tra sei mesi. Alla luce di questa rivoluzione nel modo in cui le persone scelgono i loro partner sentimentali è lecito aspettarsi che anche i rapporti uomo-donna vengano in qualche modo modificati. Un blogger, Jon Millward, ha realizzato un interessante esperimento di quattro mesi utilizzando dieci finti profili utenti su OkCupid, uno dei siti dating top al mondo. L'esperimento, condotto sia negli Usa sia nel Regno Unito, prevedeva cinque account maschili e cinque femminili praticamente cloni: le foto presentavano livelli di attrattività equivalenti tra i due sessi, gli username suonavano allo stesso modo, le presentazioni erano identiche, i livelli socioeconomici e culturali e le risposte fornite ai questionari del sito erano esattamente gli stessi. Le uniche differenze riguardavano le foto e il genere sessuale. Risultato: le donne hanno ricevuto venti volte più messaggi degli uomini. Almeno in questo senso, non sembra che il dating online sia molto diverso da quello offline. Possiamo quindi dire che queste piattaforme di incontri virtuali ci privino della naturalezza della conoscenza casuale del bel tempo andato? Non proprio. Come giustamente ricordato dallo studio, è qualche migliaio di anni che una terza parte interferisce più o meno pesantemente sulle nostre scelte sentimentali – basti pensare alle pressioni della famiglia, a quelle dei leader religiosi e ai matrimoni programmati tutt'ora presenti in molti Paesi –.  Insomma, qualcuno ha sempre voluto metter becco nelle nostre relazioni, e, proprio quando stavamo cominciando a essere liberi, sono arrivati gli algoritmi. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 Apr. ’14 GENEROSITÀ AL TESTOTERONE L'incontro della teoria dei giochi con le neuroscienze, nell'ultimo decennio, ha delineato i contorni di un promettente programma di ricerca nel campo della scienza economica. Può essere perciò istruttivo ripercorrere alcune tappe di questa fruttuosa contaminazione tra scienze formali, sociali e naturali.  Nel 2003, Alan Sanfey e il suo team pubblicano un articolo sulla rivista Science intitolato: «The neural basis of economic decision-making in the ultimatum game». L'ultimatum game è un caso tipico della teoria dei giochi, in cui due giocatori interagiscono allo scopo di dividersi una somma di denaro. Le regole sono le seguenti: 1) i soldi sono affidati a un solo giocatore; 2) questi formula l'offerta, proponendo come dividere la somma; 3) il secondo giocatore può accettare o rigettare la proposta; 4) se il secondo giocatore accetta, i soldi sono divisi secondo la proposta; 5) se questi rifiuta, entrambi i giocatori rimangono a mani vuote. Secondo i postulati dell'economia classica, è razionale ogni decisione che massimizza il profitto. Dunque, in teoria, qualsiasi offerta superiore a zero dovrebbe essere accettata. Se la somma da dividere ammonta a 10 euro, anche l'offerta di un solo euro dovrebbe ottenere una risposta positiva. Invece, le osservazioni empiriche mostrano che le offerte inique vengono in genere rifiutate. Sanfey fornisce una spiegazione per questi inattesi risultati, avvalendosi della risonanza magnetica funzionale. In presenza di offerte inique, si osserva infatti nel cervello un'intensa attività dell'insula bilaterale anteriore, notoriamente associata a stati emozionali negativi come l'angoscia o il dolore. Quando ci troviamo di fronte una persona egoista, rifiutiamo di collaborare anche se ci converrebbe, perché la nostra capacità di calcolo è sovrastata da forti sensazioni di disgusto, analoghe a quelle che proviamo in presenza di sostanze maleodoranti o particolarmente nauseabonde. Per farla breve, passata una certa soglia, la valutazione etica prevale sul calcolo economico. Resta però da spiegare il motivo per cui alcuni giocatori fanno offerte più generose di altri. Una risposta si trova nell'articolo Oxytocin Increases Generosity in Humans, pubblicato nel 2007 da Zak, Stanton e Ahmadi. Due fattori che spiegano le offerte generose sono la presa di prospettiva e l'empatia. Scambiandosi i ruoli, i giocatori acquisiscono una maggiore capacità di comprendere il partner di gioco e quindi di evitare il rifiuto. Ma l'aspetto più interessante è che si può accrescere artificialmente l'empatia e dunque la generosità, attraverso la manipolazione di un meccanismo fisiologico: il neuromodulatore ossitocina. Al fine di dimostrare l'effetto causale dell'ossitocina sulla generosità, ai partecipanti viene somministrata per via intranasale una dose di ossitocina o di placebo (soluzione salina). I risultati dell'esperimento sono sorprendenti. La media delle offerte nell'ultimatum game risulta più alta del 21% nel gruppo che ha inalato ossitocina, rispetto al gruppo esposto al placebo. Per quanto riguarda la media dell'offerta minima accettabile, la generosità risulta più alta dell'80% nei gruppi ossitocina rispetto ai gruppi placebo. I livelli di ossitocina possono essere aumentati anche in modo non farmacologico, attraverso il contatto tattile, l'interazione in un ambiente sicuro, o lo scambio di segnali di fiducia da parte delle persone che interagiscono. Sempre nel 2007, la conoscenza dei processi biologici che influenzano le decisioni economiche si amplia grazie ad una ricerca di Terence Burnham, dell'Università di Harvard (High-testosterone men reject low ultimatum game offers). Burnham chiede a un gruppo di 26 studenti di microeconomia di giocare l'ultimatum game, dopo aver prelevato un campione di saliva da ogni partecipante, al fine di rilevare il livello di testosterone e di metterlo a confronto con le decisioni di gioco. L'esperimento conferma che gli individui con il livello di testosterone più alto del 50% della media sono quelli più propensi a rigettare le offerte inique. Gli economisti spesso considerano irrazionali queste risposte. In realtà, esse hanno una loro razionalità intrinseca. I soldi esistono da qualche migliaio di anni, mentre l'uomo esiste da milioni di anni. Dunque, i soldi non possono essere la "vera" misura del valore di un uomo. Deve essere qualcos'altro. Il qualcos'altro di cui parliamo è lo "status sociale", un concetto che include l'autostima e il rispetto da parte di altri individui. Se viene offerto un modo alternativo ai soldi, per acquisire status sociale, può essere razionale seguire quella via. Rifiutare l'offerta iniqua è un esercizio di potere che innalza l'autostima e il rispetto. Nel 2008, infine, cinque ricercatori dell'Università di Cambridge (Crockett, Clark, Tabibnia, Lieberman e Robbins) pubblicano un interessante articolo su Science che individua un altro fattore coinvolto nel rifiuto delle offerte inique (Serotonin Modulates Behavioral Reactions to Unfairness). Seguendo una procedura a doppio cieco con controllo placebo, i ricercatori provocano in 20 volontari sani un esaurimento acuto del triptofano, ottenendo il concomitante abbassamento temporaneo dei livelli di serotonina. Quindi chiedono ai volontari di giocare all'ultimatum game. Le persone con il livello di serotonina artificialmente abbassato rifiutano le proposte inique più spesso dei giocatori con un livello normale. Non rifiutano però le proposte eque, né mostrano cambiamenti nell'umore, nell'equità dei giudizi, nei processi basilari di ricompensa o nell'inibizione delle risposte. I risultati sembrano dunque suggerire che la serotonina gioca un ruolo critico nella regolazione delle emozioni durante i processi di decisione economica. Poiché il livello di triptofano dipende dall'alimentazione, si potrebbe pensare che i ricercatori abbiano semplicemente trovato la conferma empirica di una nozione del senso comune. Non è un caso se vengono organizzati "pranzi d'affari" e se a organizzarli è di norma il soggetto che ha un'offerta economica da fare, sapendo che il partner è più malleabile a stomaco pieno che a stomaco vuoto. E questo vale anche per altri tipi di offerta, come vuole la consuetudine di far coincidere l'incontro galante con una "cena romantica". Tuttavia, questo esperimento ci insegna qualcosa di più preciso. Non basta un pasto qualsiasi per alterare il livello di triptofano, essendo l'amminoacido contenuto in misura diversa negli alimenti. Inoltre, il senso comune può dare anche indicazioni sconvenienti. Capita infatti che nei pranzi d'affari e nelle cene galanti vengano offerti alcolici, per la loro nota capacità di rendere malleabili o arrendevoli le persone. Ma questa offerta potrebbe rivelarsi un errore di gioco, proprio perché gli effetti dell'alcol sono noti a tutti. L'altro giocatore potrebbe irrigidirsi, sospettando le intenzioni. Difficilmente, però, la mossa di mettere in tavola agnello, sardine, formaggi e uova attiverebbe un analogo sospetto. ____________________________________________________________ Repubblica 13 Apr. ’14 SE CROLLA INTERNET La Rete ha ormai miliardi di utenti. Troppi: il rischio di blackout è concreto Per questo lo scienziato Dan Dennett lancia l’allarme e un piano per sopravvivere a un nuovo Medioevo Come dimostra il down di ieri di Instagram il sistema si sta avvicinando al livello di guardia e potrebbe sfuggire al controllo umano Si fermerebbero così tv e cellulari, bancomat e supermercati FEDERICO RAMPINI «Se esistesse una scala Richter da 1 a 10 per i terremoti su Internet, quello che abbiamo subìto pochi giorni fa sarebbe a quota 11». L’esperto di crittografia Bruce Schneier ha fatto questo bilancio drammatico sul New Yorker, a proposito del super-virus Heartbleed. 500.000 siti violati per due anni, inclusi colossi come Twitter, Yahoo, Amazon, Dropbox, Tumblr. Centinaia di milioni di password, carte di credito, accessi bancari potrebbero essere finiti in mano a hacker, ladri, truffatori. Il bilancio è ancora provvisorio. Questi disastri si susseguono sempre più spesso e con un’intensità crescente: è di pochi mesi fa il maxifurto di milioni di carte di credito dei clienti di Target, la catena di grandi magazzini. Tra le cause, spiccano due anomalie. Primo, nella Rete la sicurezza non è una priorità così stringente come lo è per esempio nel trasporto aereo (dove gli incidenti diminuiscono da anni anziché aumentare). Secondo punto, a conferma del primo: molti dispositivi di sicurezza (come il software di crittografia OpenSsl che è stato vittima del supervirus Heartbleed) sono frutto di lavoro volontario, semi-gratuito o scarsamente remunerato, nonostante gli immensi profitti incassati dai giganti dell’economia digitale. Ma questa sottovalutazione potrebbe portarci verso un cataclisma molto peggiore. È il Grande Blackout della Rete, evocato in una conferenza Ted da Dan Dennett, raccogliendo plausi e allarme nel mondo degli esperti. «Cerchiamo almeno di prepararci a sopravvivere per le prime 48 ore di caos e paralisi totale», è una delle esortazioni di Dennett. In quei primi due giorni forse ci giocheremmo tutto, l’umanità (almeno quella che abita nei paesi avanzati) rischierebbe di retrocedere in una sorta di Medioevo. «L’11 settembre 2001 sembrerebbe un episodio minore al confronto», rincara Dennett, ricordando che in effetti l’attacco alle Torri Gemelle avvenne in un’era quasi preistorica dal punto di vista della nostra dipendenza digitale. Dennett non è un apocalittico. Al contrario, a 72 anni il celebre scienziato e filosofo cognitivo è considerato uno dei più grandi esponenti di un pensiero laico, iper-razionale. Direttore del Center for Cognitive Studies alla Tufts University di Boston, Dennett è autore di numerosi saggi tradottiinitaliano(tragliultimi La reli-gione come fenomeno naturaleda Raffaello Cortina, Coscienzada Laterza).Aiciclidi conferenze Ted, affollati di esperti di informatica, lui viene presentato come “il filosofo preferito dagli studiosi dell’intelligenza artificiale” per le sue analisi sull’analogia tra il pensiero umano e il funzionamento della robotica. Quando lo intervisto, partiamo dallo scalpore che ha suscitato la sua profezia sul Grande Blackout. Questo pericolo è sempre apparso remoto, per via della struttura stessa di Internet: agli antipodi di un sistema centralizzato, la Rete è stata concepita fin dalle origini per essere policentrica, federata, non gerarchica, diffusa, flessibile, perciò stesso non esposta ad un collasso generale. «Verissimo – mi dice Dennett – e infatti tutti sono ammirati dalla robustezza, anzi dalla resilienza di Internet. E tuttavia il monito che ho lanciato non è un’idea mia, l’ho raccolta consultando molti esperti di tecnologia. Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano. Alcuni esperti calcolano che un Grande Blackout abbia probabilità remote, ma non nulle. Potrebbe accadere fra moltissimo tempo, o la settimana prossima ». Evento improbabile ma non impossibile, un po’ come il Big One nella versione estrema (con mezza California che sprofonda nel Pacifico). Ieri, intanto, si è registrato il down di Instagram, il social network di condivisione di fotografie, rimasto fermo per ore. Quello che preoccupa Dennett è la totale mancanza di preparativi. O perfino di immaginazione. «La gente non si rende conto che oggi tutto dipende dalla Rete, nessuna funzione vitale può continuare se si blocca Internet. Qui negli Stati Uniti si spegnerebbero tv e cellulari, si fermerebbero bancomat, supermercati, distributori di benzina. Ecco perché il maggiore pericolo sarebbe il panico, il folle panico delle prime 48 ore, quando la gente non sa che fare, non ha notizie, non ha istruzioni, non ha mai fatto un’esercitazione per prepararsi. Occorre un piano B per resistere le prime 48 ore, in attesa che si riattivi qualche funzione essenziale della società. Altrimenti si rischia la disperazione di massa, e dunque la disintegrazione di una civiltà». Il piano B, come “battello di salvataggio”. Dennett usa proprio quest’immagine, il vecchio canotto di salvataggio in dotazione obbligatoria sulle navi e i traghetti, con torce elettriche, acqua potabile e altri strumenti di soccorso. Ma il suo canotto di salvataggio dovrebbe includere «una seconda Rete, un Internet isolato e autonomo, pronto a mettersi in funzione, riservato esclusivamente agli scopi vitali, alle comunicazioni di emergenza ». Quando ci fu l’attacco dell’11 settembre, c’erano ancora delle tecnologie pre-digitali che ora stanno scomparendo. Molti telefonini a Manhattan si ammutolirono, ma le tv funzionavano, la radio pure. Oggi è tutto talmente interconnesso che il Grande Blackout sarebbe davvero totale. Proprio perché è uno dei massimi pensatori della razionalità, Dannett mi spiega di aver lanciato il suo appello «anche per dare un’alternativa ai Survivalist, quei movimenti apocalittico-religiosi che hanno una presa sull’opinione pubblica americana, ispirano filoni di cinema e tv, s’impadronirebbero del Grande Blackout digitale per immaginare un mondo post-civilizzato, uno scenario da Independence Day». Curiosamente, mentre nella Silicon Valley è obbligatorio fare esercitazioni regolari per le evacuazioni in caso di terremoto (la zona è sismica), non esiste nulla di simile per un cataclisma digitale. Presunzione? O avarizia? «Certo i costi del piano B sono elevati – riconosce Dennett – ma bisogna prendere sul serio questo pericolo, il buio elettronico non è abitabile per gli occidentali del 2014, abituati ad avere un intero universo d’informazione alla portata dei polpastrelli sul display dello smartphone. In uno scenario di caos generale, molti di noi hanno perso da tempo quei nuclei locali di sostegno che un tempo si chiamavano la parrocchia, il club, le associazioni di quartiere. Una parte delle spese per attrezzarci collettivamente dovrebbero sostenerle le banche, che sono tra le più vulnerabili». E la Casa Bianca, dopo gli avvertimenti dei cyber-attacchi contro i suoi siti? È possibile che Washington non abbia pensato di prepararsi all’ipotesi finale, la più estrema? «Ci pensano, c’è dell’interesse – risponde – ma c’è anche una reticenza, un gioco di veti. La destra repubblicana non vuole che sia un’amministrazione democratica ad aprire un cantiere di sicurezza di queste dimensioni, che potrebbe sfociare in nuovi poteri per il governo federale ». Di certo lui trova paradossale che «Internet ci abbia reso così dipendenti, al punto da poterci ricacciare verso l’età della pietra ». IL SAGGIO Strumenti per pensare di Daniel Dennett esce il 23 aprile da Raffaello Cortina. Dello stesso autore Laterza ha tradotto Coscienza ____________________________________________________________ Le Scienze 10 Apr. ’14 UN ATOMO E UN FOTONE, E LA PORTA LOGICA È FATTA Un atomo in una cavità ottica può influire in modo controllato sull'ingresso di fotoni nella cavità. Questo sistema è un analogo quantistico delle porte logiche su cui si basa il funzionamento dei computer attuali ed è stato costruito in due esperimenti indipendenti, che segnano un ulteriore passo in avanti verso i futuri computer quantistici, in cui atomi, molecole e segnali ottici ottici sostituiranno i circuiti elettronici (red) Grazie alle possibilità offerte dalle leggi della meccanica quantistica, i computer del futuro potrebbero funzionare sfruttando atomi e molecole, come elementi di base per le operazioni logiche che oggi sono appannaggio dei circuiti elettronici, e qubit, o bit quantistici, al posto dei bit, che garantiranno prestazioni impossibili da raggiungere per i computer attuali. I bit, o unità d'informazione binaria, possono infatti assumere due soli valori, 0 e 1, corrispondenti a un supporto fisico che può trovarsi in due soli stati. Un qubit, invece, può assumere, in linea di principio un numero virtualmente infinito di valori, poiché le leggi della meccanica quantistica permettono la sovrapposizione degli stati quantistici che prendono il posto di 0 e 1.   La strada per questi dispositivi eccezionali è ancora lunga, ma i passi in avanti non mancano. Ultimo in ordine di tempo è quello compiuto grazie a due studi pubblicati su “Nature” in cui si è dimostrata la possibilità di realizzare l'analogo quantistico di un interruttore ON/OFF, facendo interagire un singolo fotone, il quanto di radiazione elettromagnetica, con un singolo atomo, opportunamente preparato, contenuto all'interno di una cavità ottica, con caratteristiche leggermente diverse nei due apparati sperimentali. Nella teoria dell'informazione classica, l'interruttore commutabile tra due valori ON e OFF è uno degli elementi essenziali per realizzare una "porta logica", cioè un circuito in grado di restituire un segnale di uscita (o d output) voluto in risposta a uno o più segnali di entrata (o input). La porta logica è a sua volta uno dei componenti essenziali per l'elaborazione automatica dell'informazione. Nel primo studio, Andreas Reiserer del Max-Planck-Institut per l'ottica quantistica a Garching, e colleghi hanno usato una versione modificata di una cavità di Fabry-Perot. Quest'ultima è un dispositivo “tradizionale” della fisica quantistica sperimentale, ed è composto da una cavità ottica, costituita da due specchi altamente riflettenti tra i quali la radiazione elettromagnetica rimbalza più volte. Nella versione di Reiserer, uno dei due specchi è molto meno riflettente dell'altro, il che significa che riflette solo parte della radiazione, lasciando passare quella che non indirizza verso lo specchio che ha di fronte.  Nel secondo studio, T.G. Tiecke e colleghi dell'Università di Cambridge, nel Massachusetts, hanno usato una cosiddetta cavità a cristallo fotonico, simile alla cavità di Fabry-Perot, tranne per il fatto che si tratta di un volume di dimensioni microscopiche. Al di là delle differenze, il dato essenziale è che tutte le cavità ottiche in cui gli specchi sono separati da una distanza fissa, e quindi nella fattispecie anche quelle usate nei due studi, permettono l'accesso solo alla luce di alcune specifiche frequenze, chiamate "modi della cavità". Quando un impulso di luce costituito da un singolo fotone ha la stessa frequenza di un modo di cavità, cioè è risonante con la cavità, entra ed esce solo attraverso lo stesso specchio. In questo processo, l'impulso cambia la sua fase, un parametro che quantifica l'ampiezza locale di un'onda, di un valore fissato. Se all'interno di una cavità è collocato un atomo, avviene un fenomeno quantistico peculiare: in opportune condizioni, la presenza dell'atomo cambia i modi di risonanza della cavità, al punto da poter eventualmente impedire del tutto l'ingresso del fotone, che rimbalza indietro senza cambiare fase.  Poiché lo stato dell'atomo è controllabile dall'esterno, questo dispositivo consente di riflettere un fotone con fase diversa o fase identica rispetto a quella incidente, in base alle necessità dello sperimentatore. Questo rappresenta di fatto un interruttore “acceso”/“spento”, in senso classico, basato su un unico atomo. Ma non è tutto perché, anche in questo caso, intervengono le leggi della meccanica quantistica, e l'atomo può essere preparato in modo che sia in una combinazione di stati di "acceso" e di "spento", rispondendo in modo "intermedio" al fotone incidente. Queste caratteristiche fanno del dispositivo uno degli elementi di base di una “porta logica quantistica” per l'elaborazione dei qubit. ========================================================= ____________________________________________________________ Corriere della Sera 09 Apr. ’14 I FUTURI MEDICI ALLE PRESE CON CHOMSKY E VOLI LOW COST In 65 mila ai test per 10 mila posti negli atenei. Polemica sulle prove anticipate Biologia e chimica più difficili dello scorso anno, matematica abbordabile, cultura generale «da far tremare i polsi». E quesiti di logica che chiedevano di riflettere su valutazione della scuola, voli low cost, etica del turismo e integratori alimentari.  Com’è andata? «Devastata». «Sconvolto». Sarai dottore? «Penso di no». Sono alcuni dei commenti dei ragazzi all’uscita dalle sedi dove ieri mattina si è svolta la selezione per l’accesso ai corsi di laurea in Medicina e Odontoiatria. Primo dei test di primavera per i corsi di laurea a numero programmato degli atenei pubblici, il più atteso e più temuto ha visto quasi 65 mila aspiranti dottori contendersi 10 mila posti messi a bando dal ministero. Una prova di 100 minuti, identica per tutte le università italiane: 60 quesiti con cinque opzioni di risposta.  Fra le domande che hanno colpito gli studenti, una sull’ossidazione delle cellule e un’altra sui tempi della chemioterapia. E soprattutto — dice Arianna, quinta liceo dello scientifico Pasteur di Roma — quella «terribile» sul linguista Noam Chomsky. «L’ho saltata — spiega Emanuele, studente di uno scientifico di Napoli — ma chi è?». C’erano però anche quesiti sullo storico Eric J. Hobsbawm (tra l’altro proposto con un refuso: una «n» finale al posto di una «m»), e su Rita Levi Montalcini. E se a conti fatti il test è stato giudicato comunque fattibile «a patto di aver studiato», il 24% dei candidati — secondo un sondaggio del portale specializzato Skuola.net — ha ammesso di aver copiato: con lo smartphone (12%), chiedendo aiuto a un compagno (8%), o con foglietti preparati per l’occasione (4%).  Allarme — rientrato — a Bari, dove è stato segnalato che uno dei pacchi contenente le prove risultava «manomesso» e un plico mancava. È stata chiamata la polizia, l’irregolarità messa a verbale, ma dopo un po’ di agitazione il caso è stato spiegato: in un’altra sede era arrivato un pacco in più. Il ministero, interpellato, dopo aver verificato che tutto era regolare ha autorizzato a procedere.  Un fiume, gli studenti in fila dalle prime ore del mattino fuori dalle aule. A Napoli, il traffico è andato in tilt nel quartiere di Fuorigrotta, nelle varie sedi dove si è accalcata la folla dei 7.800 candidati.  Non sono mancate le polemiche: striscioni di protesta contro le facoltà a numero chiuso sono apparsi in varie sedi. Nella notte, blitz degli studenti di Link al ministero. E gli universitari dell’Udu hanno fatto volantinaggio illustrando la loro «guida al test sicuro». Contro la logica del test e l’anticipazione ad aprile, anche il Codacons, che ha definito la prova assurda e inammissibile, ma anche discriminatoria: «Distrae gli studenti dalla preparazione agli esami di maturità e favorisce chi lo scorso anno non è stato ammesso e che ora ha più tempo per prepararsi, rispetto ai maturandi».  Nel dibattito sui quiz si è inserito anche il presidente della facoltà di Medicina dell’università di Milano, Antonio Carrassi: «Il numero programmato va mantenuto, ma i quiz a risposta multipla vanno migliorati, perché non ci sono domande di valutazione psicoattitudinale, molto importanti per chi deve fare il medico», ha detto.  Scontenti molti ragazzi, per i quali l’anticipazione dei test d’accesso all’università toglie energie allo studio per l’esame di Stato. E i dati, in calo, sugli iscritti effettivi ai test di quest’anno lo provano: 64.187 per Medicina contro i 74.312 dello scorso anno (ma i partecipanti furono poi 69.073), con un calo del 14% a Napoli, dell’11% a Milano. «Una disaffezione — ha detto Bruno Zuccarelli, presidente dell’Ordine dei Medici di Napoli — che dimostra sfiducia dei giovani verso la professione medica».  Possibilità di cambiare nuovamente le date? «Solo se ci renderemo conto che i risultati non sono quelli attesi», ha detto il ministro, Stefania Giannini.  Oggi siederanno nelle aule 6.940 candidati per la prova di Veterinaria; domani toccherà agli 11.884 candidati per il test di Architettura.  Antonella De Gregorio ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Apr. ’14 UNICA: IL TEST È BOCCIATO SENZA APPELLO Rabbia degli studenti: «Quiz difficili e argomenti sconosciuti» MONSERRATO. Ressa alla cittadella per la sfida al muro del “numero chiuso” in Medicina Bocciato. Il giudizio degli studenti è chiaro: il test d'ingresso per le facoltà di Medicina e Odontotiatria non incontra i favori dei ragazzi che ieri mattina hanno preso d'assalto la cittadella universitaria di Monserrato. Si sono ritrovati in 1666 per sfidare il muro del “numero chiuso” e garantirsi uno dei 200 posti messi a concorso. La prova d'esame, preceduta da una marea di polemiche, si è svolta in contemporanea nazionale. L'inizio era fissato per le 11, ma a Monserrato la prova è iniziata con qualche minuto di ritardo. ASPIRANTI MEDICI Simone Pavoletti è arrivato da Ussassai di buon mattina. Si è presentato con le stampelle: «Non potevo mancare, ho studiato sui libri dei quiz. Spero vada bene». Nell'aula magna di Medicina ci sono 200 studenti. Altri 1400 sono distribuiti nelle altre aule della facoltà. Lo scorso anno si erano iscritti in 1800. La diminuzione di aspiranti camici bianchi e in linea con il dato nazionale. IL TEST Nei volti degli studenti si legge la preoccupazione di chi si gioca il futuro in cento minuti. I ragazzi per rispondere alle sessanta domande del test hanno a disposizione un'ora e quaranta minuti. I quiz sono a risposte multiple. «Il punteggio massimo è 90 - spiega Luigi Demelia, coordinatore del corso di laurea in Medicina - e la mancata risposta con comporta penalizzazioni. Questo accade però nel caso di errore». I posto a concorso sono circa 10 mila su tutto il territorio nazionale. Tra una decina di giorni saranno pubblicate le graduatorie. «Si sceglie in base alla posizione occupata», continua Demelia: «A Cagliari ci sono 205 posti. Quest'anno sono quasi tutti sardi. C'è un russo e un siciliano. Cinque posti sono riservati agli straniere, due dei quali ai cinesi. Ma quest'anno non si è presentato nessuno» LA PREPARAZIONE Marta Catalano batte tutti sul tempo. Esce dall'aula magna mezz'ora prima del termine previsto per la fine della prova. «L'ho trovato molto difficile - commenta - specialmente il blocco di domande di chimica. Io frequento l'ultimo anno del linguistico e alcuni argomenti presenti nel test a scuola non li abbiamo ancora studiati». La decisione ministeriale di anticipare il test ad aprile è stata criticata da quasi tutti i ragazzi arrivati a Monserrato. Mugugni anche tra i genitori. «Sono contraria al numero chiuso», commenta Maria Vittoria Atzeni mentra aspetta che la figlia concluda la prova: «Tutti devono poter studiare, poi come in tutte le cose c'è una selezione naturale». Sebastiano Pompitta di Nuoro non nasconde la sua delusione. «Ho un figlio che studia in Belgio - dice - e l'altro mio figlio se non passa la prova andrà sicuramente all'estero». CORSI A PAGAMENTO Tra gli aspiranti medici c'è anche chi, come Francesco Stocchino di Ilbono, ha preparato il test frequentando un corso. «Ho pagato quasi 700 euro - spiega - e mi è servito a poco. Nella prova di logica, per esempio, non c'era nemmeno un argomento simile a quelli che invece ho studiato durante il corso». Deluso anche Stefano Stocchino di Arzana. «Difficile, difficile», ripete due volte. Stesse parole e stessa delusione anche per Silvia Serreli di Monserrato: «C'erano argomenti che non conoscevo. Ma a quanto pare non sono la sola. Tanti altri hanno ragazzi sono rimasti spiazzati dalle domande». Giovanna Usai di Ulassai ci ha provato lo scorso anno, ma non è andata bene. «Insisto - dice - perché voglio studiare medicina». Damiano Peretti, studente cagliaritano che frequenta il Classico dai Salesiani, è tra i pochi che non si lamentano più di tanto: «Non ho trovato particolari difficoltà, era abbastanza impegnativo, ma spero di aver svolto la prova bene». Francesco Pintore ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 09 Apr. ’14 UNISS: TEST DI MEDICINA, STUDENTI SOTTO STRESS I maturandi: sbagliato anticipare, noi siamo penalizzati di Silvia Sanna SASSARI Cambiano espressione quando il cancello verde è alle spalle: ecco visi pallidi che si rianimano, il passo si fa svelto, il sorriso si allarga all’improvviso di fronte a un volto amico. Dopo 100 minuti in apnea si può ricominciare a respirare. Hanno l’aria stanca e insoddisfatta, quasi tutti dicono di avere fatto una “mezza schifezza” ma chissenefrega: è finita. L’ansia da test è già un ricordo quando, tra le 12.30 e le 13, lasciano il Palasport di piazzale Segni, per un’ora e mezza guscio ovattato di silenzio. Gli aspiranti medici e odontoiatri resteranno appesi sino al 22, quando si saprà chi ha superato l’esame di ammissione alle facoltà universitarie a numero chiuso. Sino ad allora, non avranno da annoiarsi: via i libri di biologia, ecco quelli di storia e latino. Perché l’altro traguardo, l’esame di maturità, li aspetta dietro l’angolo. Ragazzi stanchi. I più stanchi sono i più giovani. I ragazzi nati nel 1995: al palazzetto li hanno fatti entrare dalla prima porta, i diciannovenni occupano un’ala riservata del tempio biancoblù della Dinamo basket. Sono stressati ma anche incavolati. Quest’anno pensavano di potersi concentrare solo sul diploma. Invece no, perché il Ministero della Pubblica istruzione ha deciso di anticipare i test d’accesso alle facoltà a numero chiuso. Da settembre ad aprile, in un mese da sempre dedicato a interrogazioni e compiti in classe. Con i professori che, nella maggior parte dei casi, sono andati avanti come caterpillar. I racconti. È tra le prime a uscire. Niente trucco, coda di cavallo, sorridente «anche se è andata male». Fabiana Melis, studentessa al Liceo Classico di Lanusei, dice che se l’aspettava: «Ho avuto poco tempo per prepararmi al test, giusto qualche lezione privata di biologia e chimica. A scuola i professori sono andati avanti con il programma e con le verifiche. È stato complicato seguire tutto». Ma scoraggiarsi è proibito: «Quest’estate inizierò a studiare per Professioni sanitarie, l’esame è a settembre». Vuole diventare pediatra invece Giulia Angheleddu, studentessa al Liceo Classico di Nuoro: «Le domande erano tante (60) e difficili, soprattutto quelle di biologia. E io non ho studiato molto, sino a pochi giorni fa a scuola ho avuto interrogazioni in un sacco di materie. Anticipare i test non ha senso, è scorretto nei confronti di noi maturandi perché non abbiamo la possibilità di prepararci a dovere». Chissà, insinua Stefano Piras, ultimo anno al Liceo Scientifico Marconi di Sassari, che la «pensata del Ministero non abbia lo scopo di favorire i ragazzi che si sono diplomati un anno fa: sono arrivati freschi freschi a fare il test, noi invece semi disintegrati. I professori non ci sono venuti incontro, solo alcuni ci hanno aiutato organizzando lezioni di ripasso. Altri invece hanno fatto finta di niente. Questo test richiede preparazione, le domande erano quasi tutte difficili. Come è andata? Credo male». Neppure Antonio Pirisi, di Ittiri, studente al Liceo Classico Azuni di Sassari, fa salti di gioia. Lui non è tipo che si accontenta. Sotto il ciuffo ingelatinato si nasconde uno da media del 9: «In italiano, in storia ecc ecc». Dice che il test non è andato benissimo «anche se non era particolarmente difficile, le domande di cultura generale erano abbordabili». Chissà che punteggio otterrà, ma in ogni caso nessun dramma, perché «medicina non è la mia prima scelta. Vorrei fare Economia a Pavia o a Pisa – dice Antonio –. Per essere sicuro di superare questo test mi sarei dovuto impegnare di più, organizzandomi con la scuola. I miei professori non hanno considerato che alcuni di noi dovevano affrontare quest’esame: anzi, tra vacanze di Pasqua e gite primaverili, per non rimanere indietro con il programma ci hanno caricato ancora di più». Genitori preoccupati. Francesca è la mamma di Anatolia, studentessa al Liceo Classico di Olbia. È seduta sul marciapiede fuori dal Palazzetto, è in ansia per la sua bambina. «Sono stati mesi durissimi per lei, tra la scuola e lo studio in vista del test: la decisione di anticipare gli esami d’ammissione non ha senso, il Ministero non ha minimamente considerato gli impegni dei ragazzi». Due volte a settimana Anatolia ha fatto su e giù in pullman tra Olbia e Nuoro, per seguire un corso di preparazione: «Quattro ore di lezione, tornava a casa sfinita. E magari il giorno dopo aveva compito in classe o interrogazione. Ma non ha mai mollato: vuole iscriversi in Medicina, non ha dubbi». Anche Sandra, che studia ai Ragionieri di Oristano, «oggi è arrivata qui molto stanca», dice Monica, la madre. «Ha seguito il corso, è stato utilissimo perché facevano simulazioni del test. Ha studiato tanto, speriamo che tutta questa fatica venga premiata». Se lo augura anche Giuseppe, papà di Raffaella. Anche loro arrivano dall’Oristanese, e non è la prima volta: «Mia figlia ha fatto il test anche l’anno scorso, è andata bene ma non abbastanza per essere ammessa». E questa volta, con la dieta ferrea alle immatricolazioni, potrebbe essere ancora più dura. «Ed è un’ingiustizia, perché questi test non servono a nulla, non è dalla risposta a queste domande che si capisce se uno può essere o no un bravo medico», dice Francesca. Giuseppe annuisce: «Verità sacrosanta – dice – io ho le prove». Racconta infatti che lui il test l’ha fatto per curiosità e ha azzeccato 45 risposte su 60, «molte di più di un mio parente medico». Niente male per un ferroviere in pensione. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 09 Apr. ’14 IL MINISTRO: «SE NON FUNZIONA CAMBIAMO»   Medicina ha fatto ieri da apripista ai test d'ingresso ai corsi di laurea a numero programmato, per la prima volta in calendario ad aprile, in pieno anno scolastico e a due mesi dagli esami di Maturità. Un appuntamento sul quale il ministro Giannini sta riflettendo. «Si devono cambiare le cose quando non funzionano. Se ci renderemo conto che i risultati non sono quelli attesi allora ci muoveremo», ha detto a margine degli Stati generali della salute, aggiungendo, tuttavia, che l'anticipo ad aprile «dovrebbe servire a dare agli studenti più possibilità di programmazione, oltre ad allineare l'Italia all'Europa». Oltre 64.000 persone in tutta Italia hanno deciso di cimentarsi con la prova contendendosi i 10.551 posti a disposizione: 100 minuti per rispondere a 60 domande a scelta multipla (ciascuna con 5 opzioni di risposta) suddivise in tre sezioni: cultura generale, discipline di riferimento e logica. La ripartizione è stata modificata in favore del numero dei quesiti delle materie “disciplinari”. Solo quattro dunque le domande di cultura generale, spaziando da Chomsky al “secolo breve”. Ventitre i quesiti di logica e poi le domande di Matematica e Fisica (8), Chimica (10) e Biologia (15). Conclusi i test sono arrivate le prime denunce di irregolarità. Lo riferiscono Udu e Rete degli studenti che hanno predisposto App e mail ad hoc: «In particolare le prime segnalazioni riguardano la distribuzione dei posti all'interno delle aule; verificheremo e se saranno confermate presenteremo i ricorsi». Oggi si fa il bis con Veterinaria, domani toccherà ad Architettura.   ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 Apr. ’14 IL DIRITTO NEGATO ALLO STUDIO Bepi Anziani A Cagliari erano 1800, a Sassari 900. In 60.000 in tutto il paese per contendersi 10.000 posti nelle facoltà di medicina italiane attraverso dei test con i quali in poche ore si dovrebbe arrivare a capire se uno studente merita più di un altro di accedere a quel corso di studi. Una prassi che nel tempo ha contagiato altre facoltà e atenei che tentano, anche così, di tenere a posto i bilanci. Si grida allo scandalo solo nell'imminenza dei test e poi tutto si dimentica fino alla prossima volta ma è francamente difficile non vedere in questa faccenda delle università a numero chiuso una negazione del diritto allo studio. Fino agli anni Settanta il sistema era ben diverso. L'accesso a tutte le facoltà era consentito solo dai licei, mentre dalle scuole professionali si poteva accedere solo a studi universitari coerenti con le superiori. Per intenderci un geometra si poteva iscrivere a ingegneria ma non sarebbe mai potuto diventare un medico. Questo sistema è stato smantellato perché si consentisse a tutti di cambiare idea e scegliere più avanti nel tempo la propria strada nella vita. Questo però ha portato negli anni ad un sovraffollamento delle facoltà più richieste come appunto medicina e ingegneria. Le università non sono riuscite a reggere il ritmo delle iscrizioni per ovvi problemi relativi al numero di aule, di insegnanti, di strutture in genere e quindi si è reso necessario il ricorso al numero chiuso: il classico rimedio peggiore del male. Addirittura peggio di quarant'anni fa quando almeno la scelta degli indirizzi era comunque dello studente e della sua famiglia. Il sistema oggi in vigore invece da una parte permette che arrivino alla laurea un numero altissimo di studenti ma dall'altra rende questo traguardo spesso un pezzo di carta senza valore perché lo sbocco lavorativo è un'utopia. La laurea triennale serve poco, quella quinquennale pure. Bisogna fare tirocini, specializzarsi, dare ancora esami per l'iscrizione ai relativi ordini professionali. Insomma, si studia tanto e quando e se si arriva a trovare occupazione si è già, se va bene, ultratrentenni. E invece di ripensare la struttura del rapporto istruzione- lavoro- tempo in Italia si continuano a finanziare stage, tirocini, precariato. Per far finta che qualcosa si muove. Solo che, senza che ce ne accorgiamo, tutto si muove all'indietro. ____________________________________________________________ Libero 08 Apr. ’14 PENSIONATI AI TEST DI MEDICINA PER SCIPPARE I I POSTO AGLI STUDENT Alla Sapienza iscritto un 70enne ma over 60 si segnalano ovunque. Aprire agli anziani è un controsenso che va contro il principio del numero chiuso al test di medicina, chirurgia, odontoiatria e protesi dentaria dell'Università di Torino, ad esempio, c'è un candidato nato nell'ottobre de11950 il quale, se ammesso, comincerà la carriera accademica a 64 anni. Il secondo candidato più stagionato, classe 1960, si attesta al di sotto della soglia delle 60 primavere ma certo non sí può definire una brillante nuova promessa della medicina. Sfogliando l'elenco della Statale di Milano ci si imbatte in un candidato del 1956, mentre a Milano-Bicocca, su undici iscritti troviamo dieci ventenni che dovranno contendersi il posto con un cinquantacinquenne. A Perugia c'è un'aspirante matricola di 54 anni. Ma il record, come già l'anno scorso quando per l'ammissione ai test era iscritto un 70enne, si registra all'università "La Sapienza" di Roma, dove di nuovo c'è un quasi settantenne nato il 5 novembre del 1944, mentre il più giovane non ha ancora compiuto 17 anni. A un'altra università romana, "Tor Vergata", non si toccano quei vertici, ma nelle liste dei candidati spiccano uno del '57 e due del '59, altri potenziali studenti di medicina che potrebbero dare la tesi di laurea intorno ai 60 anni. Uniamo a questi dati il fatto che, quest'anno, il ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca ha abbassato in tutti i corsi a numero chiuso la quota di posti disponibili, dunque anche a medicina: 9.983 contro i 10.157 del 2013. Mettiamoci anche il calo di iscrizioni ai test d'ingresso, segnale che molti studenti, che magari l'hanno già tentato, rinunciano, come coloro che l'hanno sostenuto alla Sapienza, dove c'è un notevole calo, il 16%, rispetto allo scorso anno. E tiriamo le somme: meno posti a disposizione, meno studenti che tentano il superamento del °numero chiuso e, come se non bastasse, i più giovani, e dunque secondo la logica coloro che più dovrebbero essere agevolati (o comunque non ostacolati) tenuto conto anche del lungo percorso accademico, e anche i naturali candidati al ricambio generazionale in una professione in cui la freschezza mentale e fisica è importante, che devono competere non con loro coetanei, ma con cinquantenni, sessantenni e perfino settantenni che, se non vogliamo prenderci in giro, specialmente riguardo le ultime due categorie, la professione medica non l'eserciteranno mai, poiché probabilmente considerano quella universitaria un'avventura per non sprofondare nel tedio del tempo libero (che evidentemente hanno, per frequentare una facoltà impegnativa e che richiede la presenza obbligatoria ai corsi come medicina), certo non come preparazione a una futura camera professionale. Una situazione senz'altro assurda che va contro il principio stesso del numero chiuso stabilito per proporzionare l'offerta alla domanda, mentre invece adesso l'offerta vede tra i candidati elementi superflui - non vogliamo offendere nessuno, intendiamo superflui rispetto alla reale possibilità di diventare chirurghi o lavorare concretamente negli ospedali - che, per il meccanismo stesso del numero chiuso, diventano addirittura dannosi per chi vuole iscriversi alla facoltà di medicina a un'età normale, con prospettive realisti- che di fare il medico alla fine degli studi. Che senso ha il numero chiuso a queste condizioni? Allora meglio sarebbe toglierlo e consentire a tutti di iscriversi a medicina, lasciando che sia la selezione naturale a decidere chi vestirà il camice bianco, visto che in molte università italiane, tra burocrazia, eterni studenti parcheggiali che intasano le aule, sistemi informatici di due decenni fa, arrivare al traguardo della tesi è davvero una darwiniana lotta per la sopravvivenza. Oppure mantenere il numero chiuso ma, a seconda delle caratteristiche dei corsi di laurea e delle professioni a cui si rivolge, fissare uno sbarramento per età in modo che tutti i posti disponibili siano assegnati a chi potrà davvero profittarne. Non mettiamo in discussione la genuinità delle motivazioni e della passione di ____________________________________________________________ Roma 08 Apr. ’14 IL 24 PER CENTO AMMETTE: HO COPIATO LE CURIOSITÀ I quesiti di logica sono stati i più complicati. Tutti i commenti sui siti NAPOLI. Il 24% degli studenti impegnati nei test di medicina ha ammesso di aver copiato. Forse spinto anche dalla difficoltà di alcune domande di cultura generale, come quella su Chomsky giudicata la più difficile dal 55% di loro. Tra le materie, uno su tre ha trovato maggiore difficoltà nei quesiti di logica e 1 su 5 in quelli di cultura generale. Solo 1 su 6 è riuscito a rispondere a tutte le domande. A rivelare come sono andati i test d'ingresso di Medicina è un instant poli del portale specializzato Skuola.net, che ha intervistato oltre 1.100 studenti che hanno preso parte alle prove appena concluse. Studenti indubbiamente spiazzati dalla domanda sul linguista inglese Chomsky, giudicata la più difficile tra quelle di cultura generale per oltre il 50% dei votanti. Non trascurabile è anche il fatto che uno su cinque si sia invece arenato sulle condizioni per approvare una riforma costituzionale. Fa invece scalpore il dato sui furbetti. Uno studente su 4 ha ammesso di essere riuscito a copiare: chi con lo smartphone (12%), chi chiedendo aiuto ad un compagno vicino (8%) e chi infine con i foglietti già pronti per l'occasione (4%). Non deve essere stato comunque semplice, dato che oltre il 60% dei partecipanti ha giudicato la commissione d'esame inflessibile contro ogni tentativo di imbroglio e quasi il 30% l'ha ritenuta molto attenta e poco incline a concedere aiuti. Tornando alla difficoltà della prova, la classifica delle materie giudicate più complesse vede invece al primo posto la logica, con circa il 30% delle preferenze, seguita da cultura generale e chimica, appaiate con circa una preferenza su cinque, e infine Biologia, Matematica e Fisica. Solo 1 studente su 6 ha detto di essere riuscito a rispondere a tutti i quiz, ma 1 su 3 ha confessato di esserci andato molto vicino risolvendone la maggior parte e quasi il 40% circa la metà. «Ho trovato difficoltà nelle domande di logica perché erano tante e quelle di chimica erano poche. Diciamo che si poteva fare comunque la prova» ha detto Giuseppe Longo ma ha poi aggiunto: «Sarebbe stato più facile affrontare la prova a settembre dopo gli impegni per la maturità». Francesco Gentile invece era amareggiato per il opco tempo a disposizione: «E la quarta volta che provo il test in medicina, sono stato costretto ad iscrivermi a biologia. Mi rimangono pochi esami — commenta deluso- ma questa è l'ultima volta». ____________________________________________________________ Le Scienze 11 Apr. ’14 IL PESO DEL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE SULL'ESITO DELLE TERAPIE Un medico in grado di prestare attenzione alle emozioni dei propri pazienti, sostenendoli nella conoscenza della malattia e della terapia prescritta, ha effetti positivi sulla prognosi, almeno quanto alcune terapie farmacologiche considerate standard. Lo rivela l'analisi di diversi studi clinici, che documenta per la prima volta in modo rigoroso grazie all'analisi statistica di parametri come la pressione arteriosa o i livelli di glicemia, l'importanza della qualità del rapporto medico-paziente (red) Un trattamento clinico corretto è lo strumento più efficace per il successo di una terapia, ma non bisogna trascurare il rapporto tra medico e paziente. A stabilirlo non sono più il senso comune o l'esperienza sul campo, ma una nuova meta-analisi pubblicata su “PLOS ONE” da John Kelley e colleghi del Massachusetts General Hospital, che ha documentato per la prima volta in modo rigoroso che specifiche tecniche per migliorare la relazione umana possono davvero fare la differenza per la prognosi di una malattia. Finora la maggior parte degli studi sul rapporto medico-paziente è stata effettuata su dati clinici già registrati e senza la possibilità d'intervenire da parte degli sperimentatori. Questo tipo di ricerche non permette di verificare se le differenze osservate in un dato parametro siano in grado di produrre qualche cambiamento in termini di prognosi, e ha quindi una validità scientifica relativa. Altri studi invece hanno raccolto le valutazioni dei pazienti su quanto avessero compreso riguardo alle indicazioni dei medici o sul grado di soddisfazione per le cure ricevute, ma senza valutare se ci fossero miglioramenti dello stato di salute. Per arrivare a un alto grado di significatività statistica e quindi di rigore scientifico sull'influenza del rapporto tra medico e paziente nel percorso di cura, Kelley e colleghi hanno analizzato le banche dati della letteratura medica denominate Embase e Medline, alla ricerca di studi clinici più rigorosi dal punto di vista metodologico, cioè quelli randomizzati e controllati, in cui i pazienti coinvolti sono assegnati in modo casuale a un gruppo di trattamento, oppure al un gruppo di controllo. Il “trattamento” in questi casi non era una terapia in senso stretto, ma un insieme di specifici interventi per migliorare il rapporto tra medico e paziente, come per esempio training dedicati ai medici stessi per abituarli a mantenere il contatto visivo con i pazienti e a prestare attenzione alle loro emozioni, oppure su strategie motivazionali. Sono così stati selezionali 13 studi clinici effettuati in Europa, Stati Uniti e Australia, e pubblicati tra il 1997 e il 2012, su pazienti affetti da diverse malattie quali ipertensione, diabete od osteoartrosi. Da questi studi sono poi stati estratti e analizzati i risultati clinici in termini di calo ponderale, nel caso di soggetti sovrappeso, oppure di riduzione della pressione sanguigna, dei livelli glicemici o lipidici nel sangue, o ancora le risposte fornite dagli stessi pazienti a questionari grazie a cui valutare il grado di dolore associato alla malattia. Dall'analisi è emerso un effetto positivo della qualità del rapporto medico-paziente, di limitata entità ma comunque statisticamente significativo. “L'effetto trovato è piccolo, ma questa è la prima analisi dei risultati combinati di studi precedenti a mostrare che i fattori relazionali possono fare la differenza in termini di risoluzione clinica delle patologie”, ha spiegato Helen Riess, coautrice dello studio. Gli autori sottolineano che l'entità degli effetti osservati, per quanto limitata, è superiore a quella trovata in alcuni studi sull'effetto dell'aspirina nel ridurre l'incidenza dell'infarto del miocardio o sull'influenza delle statine sul rischio di eventi cardiovascolari. “I nostri risultati mostrano che gli effetti benefici di una buona relazione medico-paziente sulla prognosi sono dello stesso ordine di grandezza di molti trattamenti medici standard”, ha aggiunto John M. Kelley, coautore dell'articolo. “Molti di questi trattamenti medici, per quanto importanti, devono fare i conti con gli effetti indesiderati. Un buon rapporto medico-paziente invece non ha alcun tipo di controindicazione”.    ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Apr. ’14 MEDICI IN SCIENZA E SAGGEZZA di ADELFIO ELIO CARDINALE * Oggi la medicina è caratterizzata da uno sbilanciamento della componente tecnologica ed economico-finanziaria, rispetto a quella antropologica. Il rapporto medico-paziente, da tempo immemorabile, si basa su un legame prevalentemente umano, che non presenta solo fondamenta scientifiche, e sulla «religio medici», la religione medica del dovere, inerente sia alla sacralità dell’uomo che all’etica caritativa verso il soggetto debole. Tale complesso rapporto — con funzioni pedagogiche e di tutela — si sintetizza nella pietas : attenzione alle sofferenze del paziente, con una comprensione partecipe dei suoi patimenti, anche attraverso la pratica. Quest’alleanza plurimillenaria purtroppo si è rotta, per motivazioni ascrivibili  al medico, al malato, all’irrompere crescente della tecnologia e al moloch della produttività. Il tramonto del patto medico-malato porta anche alla «medicina difensiva», con danni al malato e alti costi per la comunità, valutati, da un’analisi Istat, in circa 13 miliardi di euro. È mia convinzione che nel curriculum formativo dei medici e professionisti della sanità vadano inserite le scienze umane o spirituali: etica, antropologia, sociologia, biodiritti, antiche radici che rappresentano il «respiro della mente» e permettono una formazione slegata dall’impiego delle macchine e la capacità di comprendere i valori spirituali e di «autoconoscersi».  Nel quadro della sostenibilità finanziaria, va indicato che al centro del sistema sanitario non ci debba essere solo il pareggio di bilancio, ma la produzione di salute per l’uomo. Il funzionamento delle aziende è il mezzo,  la tutela della salute il fine. Il simbolo dell’arte medica è il bastone di Esculapio con attorcigliato un serpente  a spire simmetriche che rappresentano conoscenza  e saggezza. Il significato è che per applicare la conoscenza c’è bisogno della saggezza. La professione medica deve curare il male e sconfiggere l’inverno dello spirito. È questa la medicina umana. *Vicepresidente del Consiglio Superiore di sanità  ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Apr. ’14 FASCICOLO SANITARIO ELETTRONICO PER TUTTI GLI ITALIANI ENTRO GIUGNO 2015 E GIÀ SI PENSA AL DIARIO DIGITALE Sarà un taccuino, sia pur virtuale, la chiave di volta della tanto annunciata rivoluzione digitale dellasanità? Con la pubblicazione delle Linee guida per la predisposizione dei progetti regionali, il 31 marzo scorso, per il Fascicolo sanitario elettronico (Fse) è partito il conto alla rovescia.  Le Regioni infatti dovranno aver predisposto entro il 30 giugno 2014 i loro Piani per realizzare, attraverso un sito Internet, l’archiviazione e la gestione informatica dei documenti sanitari dei cittadini. Una volta approvati i Piani, avranno tempo di realizzarli entro il 30 giugno 2015. Al di là dei dubbi sul rispetto della tempistica, nonostante le “sanzioni” previste per gli inadempienti (una perdita del 3% nel riparto del Fondo sanitario nazionale, ha spiegato Lidia di Minco, del ministero della Salute), nelle regioni dove il Fascicolo sanitario elettronico è in fase più avanzata (Emilia-Romagna, Lombardia, Trentino, Toscana, Veneto, Sardegna) si sta però già verificando un fatto nuovo e importante: il Fascicolo riesce a diffondersi più velocemente e su grandi numeri se contiene strumenti che consentano al cittadino la gestione diretta della propria salute e gli permettano di svolgere un ruolo attivo nel processo di cura. In altre parole, non basta creare il Fascicolo sanitario e riempirlo di tutte le informazioni certificate previste per legge (vedi grafico, ndr ). Occorre in qualche modo “invogliare” il cittadino a farne uso, offrendogli la possibilità di personalizzarlo.  A Bologna, ad esempio, anche grazie alla possibilità di prenotare esami e visite da casa senza recarsi al punto Cup (Centro unico di prenotazione), il Fse è stato attivato per il 45% dei residenti fra 36 e 45 anni. Ma il risultato più sbalorditivo lo ha ottenuto il Trentino dove, grazie al progetto del sito online “TreC - Cartella Clinica del Cittadino” (trec.trentinosalute.net)in cento giorni (da dicembre scorso a marzo), l’adesione al Fascicolo sanitario è schizzata al 93% quando è stata aggiunta una piattaforma di servizi “collaterale”. Si tratta del “Taccuino personale del cittadino”, una sezione del sito a lui riservata per offrire la possibilità di inserire dati ed informazioni personali, documenti sanitari, un diario degli eventi rilevanti e i promemoria per i controlli medici periodici. Alla piattaforma si sono iscritte oltre 28 mila persone, con oltre 250 mila referti visualizzati e circa 600 mila accessi alla home page.  I risultati sono stati presentati in un recente convegno, organizzato a Trento dalla Fondazione Bruno Kessler, ente di ricerca della Provincia autonoma di Trento che opera nel campo scientifico tecnologico e delle scienze umane e che ha realizzato il progetto TreC. Nei primi cento giorni dell’iniziativa, portata avanti in collaborazione con l’Azienda provinciale per i servizi sanitari, sono stati anche emesse 482 mila ricette elettroniche, con un coinvolgimento quasi totale dei medici di famiglia.  «Il problema che dobbiamo affrontare oggi è rendere il sistema efficiente e a misura del cittadino — racconta Giandomenico Nollo, responsabile del Progetto Innovazione e Ricerca Clinica in sanità della Fondazione —. Il nostro obiettivo è fare diventare la cartella digitale del cittadino non solo un oggetto a sua disposizione, ma un modello di cura e poi cominciare a costruire i piani diagnostico-terapeutici veri e propri: per il diabete, piuttosto che per la salute mentale o la frattura del femore. Tutto questo comporta un cambio di paradigma culturale rispetto al rapporto tra cittadino e sanità a cui eravamo abituati». «Abbiamo pensato a un sistema — spiega Diego Conforti, referente Area Innovazione e ricerca sanitaria del Dipartimento Salute e solidarietà sociale della Provincia Autonoma di Trento — che consentisse al cittadino di interagire con il Servizio sanitario nazionale, di condividere informazioni con i professionisti della salute e di essere accompagnato lungo il percorso della sua vita».  Il portale web può essere così utilizzato per avere il proprio “libretto sanitario elettronico”, che permette l’accesso alla documentazione clinica (referti, esami di laboratorio, lettere di dimissione). Ma anche per creare un “diario della salute”, inserendo dati sulle proprie condizioni per tenere traccia dell’evolvere di una patologia, o dell’attività fisica, o della dieta, o più semplicemente per avere una lista sempre aggiornata dei medicinali assunti. O ancora, come canale di comunicazione diretta con i propri medici e con tutte le strutture sanitarie. Attraverso Internet, inoltre, è possibile consultare le ricette farmaceutiche e specialistiche, pagare online (con carta di credito) una o più prestazioni sanitarie, gestire anche la cartella dei propri figli oppure dei genitori.  L’evoluzione della piattaforma prevede, ad esempio, la possibilità di interfacciarsi con strumenti di auto-misurazione domestici (bilance, glucometri, apparecchi per la misurazione della pressione) per consentire un monitoraggio remoto più efficace. «Lavoriamo su due fronti, — aggiunge Nollo — potenziando sempre di più le possibilità di TreC e inserendo strumenti nuovi anche attraverso progetti europei come i”-Locate”: il cittadino prenota la propria visita e con questo sistema dovrebbe avere tutto un percorso predisposto fino dentro l’ospedale, in modo che quando arriva dallo specialista non deve più passare dagli sportelli, pagare e così via. Assieme a Barcellona e Copenaghen stiamo progettando un sistema di cartella personale del cittadino per la cura del malato mentale bipolare, utilizzabile con il cellulare».  Molte Regioni già prevedono il “taccuino personale”, che rappresenta in realtà un’evoluzione del Fascicolo sanitario elettronico: quel Fascicolo sanitario di seconda generazione invocato da Fabrizio Ricci, dirigente di ricerca del Laboratorio virtuale di sanità elettronica dell’Istituto di tecnologie biomediche del Cnr di Roma e coordinatore del gruppo di studio sul Fse composto dagli esperti della Società Italiana di Telemedicina e sanità elettronica e dai ricercatori del Cnr. I risultati del loro lavoro sono contenuti nel libro “Verso il Fascicolo Sanitario Elettronico: elementi di riflessione” (R.A. Edizioni).  «Come società scientifica della telemedicina e della sanità elettronica italiana — dice Giancarmine Russo, segretario della SIT — non possiamo non essere che favorevoli ad un uso pervasivo dei nuovi strumenti di e-Health. Vorremmo solo che fossero pensati e utilizzati meglio. C’è però bisogno di una riflessione: l’opinione pubblica è veramente informata e consapevole? Occorre poi andare verso un fascicolo di nuova generazione che al posto di una collezione di pdf, come i referti online, consenta di usare i dati clinici degli assistiti per realizzare, tramite elaborazione, la rivoluzione culturale della system medicine e la personalizzazione della cura» .  ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Apr. ’14 PIÙ TEMPO PER IL VERO DIALOGO PAZIENTE-MEDICO Piattaforme semplici e mediatori per chi non ha confidenza con il web Secondo Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, lo strumento del Fascicolo sanitario elettronico è fondamentale. «Lo diciamo da sempre» sottolinea, «perché una delle battaglie del Tribunale del malato è proprio di fare sì che, per esempio, i cittadini possano essere attori dell’informazione sulla propria storia clinica. Mi riferisco al fatto che il Fse preveda anche la possibilità del “taccuino personale”. Quindi questa è un po’ la realizzazione di un principio che abbiamo sempre auspicato. È vero che il taccuino è facoltativo, ma pensiamo sia un grosso passo in avanti per portare il cittadino al centro del sistema sanitario». Aceti è convinto che la strada dell’e-Health sia un’occasione imperdibile per migliorare la gestione del bisogno di salute della popolazione, semplificando i percorsi (tortuosi e frammentati) imposti oggi ai cittadini e chiudendo forse una volta per tutte l’era del paziente che si presenta in ospedale o dal medico con la valigia piena di documenti sulla sua storia clinica.  Ma la rivoluzione digitale non rischia di tagliare fuori quella parte di popolazione con nessuna o scarsa dimestichezza con l’informatica?  «Sulle nuove tecnologie bisogna fare informazione e formazione, ovvio» puntualizza il rappresentante di Cittadinanzattiva. «Lo Stato dovrà investire e trovare piattaforme che siano accessibili a tutti, anche attraverso figure che sono più vicine al cittadino. Penso al farmacista, al medico di famiglia o anche alle stesse associazioni che potrebbero supportare nell’accompagnamento rispetto a questa innovazione tecnologica. Bisogna aiutare i cittadini a familiarizzare con gli strumenti informatici, attraverso un percorso. Una volta formati, potranno agire come effetto moltiplicatore nei confronti degli altri».  Che fine fa il rapporto medico-paziente?  «Il Fascicolo elettronico serve a recuperare il tempo che veniva impiegato per informare il professionista, permettendo di utilizzarlo invece per ciò che è veramente necessario, cioè capire quali sono le esigenze del paziente e definire un percorso terapeutico condiviso. Quindi la rivoluzione digitale non deve intaccare la necessità di comunicazione, ma rafforzarla sempre di più. Lo dico soprattutto per i malati cronici che hanno nella comunicazione un perno importante per l’aderenza alla terapia, la gestione e prevenzione delle complicanze. Guai, se il Fascicolo diventasse uno strumento per non vedere i pazienti: incentiveremmo un peggioramento del loro stato di salute, senza ottimizzare le risorse che diamo ai medici e che servono appunto a visitare tutti gli assistiti».  C’è ancora un timore diffuso sui rischi per la privacy. Il cittadino si può fidare dal punto di vita della protezione dei propri dati “sensibili”?  «Occorre bilanciare il diritto alla salute con quello alla privacy, migliorando la tecnologia a difesa della sicurezza e contestualmente dando la possibilità ai cittadini di decidere consapevolmente, cioè spiegando loro cosa comporti sia l’inserimento che il non inserimento dei dati. E alla fine lasciare a loro la possibilità di scegliere cosa oscurare e cosa non oscurare».  Siamo pronti per il salto nella sanità digitale?  «Secondo noi il Fascicolo sanitario elettronico è il banco di prova reale della capacità dei professionisti del Servizio sanitario nazionale di mettersi tutti a disposizione per un’integrazione reale, dimostrando la capacità di lavorare e comunicare insieme. E su questo c’è ancora tanta strada da fare, perché le Regioni che sono già a regime con il Fascicolo sono quelle che dal punto di vista dei servizi sanitari sono andate già molto oltre rispetto alle altre. Quindi il Fascicolo è un po’ la parte finale di un percorso avviato nell’organizzazione dei servizi. Bisognerà agire in modo che anche nelle altre Regioni si raggiunga una maturità dal punto di vista dei servizi. Una delle maggiori criticità strutturali del mondo della sanità italiana oggi è che i sistemi informatici anche all’interno di una stessa regione non dialogano tra loro. E se non si parlano i sistemi, non si parlano neppure i professionisti».  Quale ruolo intende giocare Cittadinanzattiva?  «Stiamo preparando una Raccomandazione civica sull’informatizzazione in sanità. Il 18 aprile, convocheremo un Tavolo nazionale con i maggiori esperti del settore. Chiederemo loro che cosa bisogna fare perché l’eHealth permei il Sistema sanitario, come fare sì che ciò accada nel migliore modo possibile e in un’ottica di maggiore rispetto del diritto alla salute. Faremo sicuramente un lavoro preparatorio, una fotografia di quello che c’è e di quello che manca. Analizzeremo i punti di forza, quelli di debolezza e anche i paradossi del sistema attuale. Poi ascolteremo, tireremo le fila e faremo le nostre raccomandazioni, che devono essere realizzabili e tenere conto dei suggerimenti di tutti». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 10 Apr. ’14 SANITÀ ADDIO RICETTE, SARANNO ONLINE Il peso della spesa sanitaria in rapporto al Prodotto interno lordo scenderà: dal 7% del 2014 al 6,8% nel 2018. Secondo le stime contenute nel Def, il Documento di economia e finanza, ciò avverrà perché la spesa per la sanità, pur aumentando a un tasso medio annuo del 2,1%, salirà meno del P il nominale, previsto al 3%. Tradotto in euro, si passerà dai 111,4 miliardi previsti per quest’anno ai 121,3 miliardi del 2018. Al contenimento della spesa concorreranno il blocco dei contratti, il taglio della farmaceutica e le misure di spending review. Per il 2014 è prevista «l’estensione a tutto il territorio nazionale delle attività di dematerializzazione delle ricette mediche cartacee, avviata già in alcune Regioni». Le ricette online consentiranno «il potenziamento dei controlli delle prescrizioni mediche » e conseguenti risparmi. Non ci saranno tagli lineari, assicura il ministro della sanità Beatrice Lorenzin. Servirà però, aggiunge, «un’operazione veramente chirurgica per stabilire interventi di recupero che non devono cadere sui servizi ai cittadini e non si devono tradurre in mero taglio di offerta dei servizi ospedalieri o meno offerta di farmaci», aggiunge il ministro, che entro maggio dovrà trovare l’accordo con le Regioni sul nuovo Patto per la salute, dal quale dovrebbero venire risparmi per circa un miliardo nel 2014: «O ci impegniamo a recuperare questi risparmi o non siamo credibili». Nel Documento ci sarà «una particolare attenzione agli elementi di spreco, nell’ambito del cosiddetto "Patto per la salute" con gli enti territoriali, e tramite l’assunzione di misure contro le spese che eccedono significativamente i costi standard». Contro le misure sono pronti a mobilitarsi la Federazione di Asl e ospedali (FiaSo) e i sindacati di medici e dirigenti (Anaao-Assomed) contrari al tetto di 239 mila euro per i direttori delle aziende sanitarie e al blocco.  Enr. Ma. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Apr. ’14 BUONI CONSIGLI E SERVIZI ARRIVANO SU SMARTPHONE E TABLET Mobile health:la nuova frontiera della sanità digitale passa attraverso smartphone e tablet. Nonostante la crisi economica, la crescita annua del mercato mondiale delle applicazioni sanitarie mobili è stimata a 17,5 milioni di euro entro il 2017. E sul piatto ricchissimo si stanno avventando un po’ tutti: compagnie aeree, ferroviarie, delle poste e delle telecomunicazioni, banche e assicurazioni.  «Una strategia di erogazione “mobile” dei servizi web è inevitabile e urgente» dice Luca Buccoliero, del Cermes Università Bocconi, che ha curato un’indagine sulle modalità di utilizzo e la soddisfazione rispetto ai servizi elettronici per la salute di 2.807 pazienti dell’azienda ospedaliera Niguarda di Milano.  Tra i “desiderata” dei pazienti: prenotare, pagare il ticket, scaricare e visualizzare i referti sul cellulare, effettuare l’accettazione via web ed essere orientati all’interno dell’ospedale attraverso le app dello smartphone.  E una app, gratuita, è per esempio quella progettata dalla Asl Milano Centro per i viaggiatori, in sinergia con i servizi offerti dal centro di profilassi internazionale. L’obiettivo è migliorare la percezione dei rischi legati al viaggio e aumentare la aderenza agli interventi di profilassi per la tutela della salute individuale e per la protezione della collettività dall’importazione di infezioni pericolose.  Per sensibilizzare gli studenti delle scuole superiori e i loro familiari ai temi della sana alimentazione, dei vantaggi di una vita attiva e della correlazione tra stili alimentari e consumo di risorse naturali, la Asl Milano 2 ha invece realizzato “Training and food game 4 all” un gioco a premi a squadre costruito su una piattaforma virtuale.  Ciascuna squadra, in quattro mesi, deve fare 20 steps e i lavori per ogni tappa sono valutati dai referenti. I progetti sono due dei dieci finalisti del concorso “e-health4all” per la migliore applicazione informatica sulla prevenzione ideato da Club Ti (Tecnologie dell’informazione, associazione di professionisti dell’ICT, Information and communication technology) Milano con il contributo delle associazioni Aica e Aused, e patrocinato da Expo 2015.  I progetti sono stati presentati venerdì scorso a Milano e per un anno saranno “testati” sul campo. Il vincitore sarà proclamato a primavera 2015 in un evento alla Fiera di Rho nel quadro di Expo 2015.  ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Apr. ’14 SOLO UN TERZO DEI NOSTRI DOTTORI UTILIZZA GIÀ LA RICETTA ONLINE Lo stato di salute della sanità online in generale sta migliorando. Secondo due indagini svolte nelle unità ospedaliere di cura intensiva di circa 1.800 ospedali di 28 paesi Ue (più Islanda e Norvegia) e tra oltre 9 mila medici generici d’Europa , l’utilizzo della sanità online ha iniziato a prendere piede: il 60% dei medici generici utilizzava gli strumenti di assistenza sanitaria online nel 2013, con un aumento del 50% rispetto al 2007.  I Paesi nei quali si registra la maggiore diffusione della sanità online sono la Danimarca (66%), l’Estonia (63%), la Svezia e la Finlandia (entrambe al 62%). I servizi di sanità online sono ancora utilizzati per lo più per la registrazione e la trasmissione tradizionale, anziché per scopi clinici, come le visite online (solo il 10% dei medici generici svolge visite online).  In fatto di digitalizzazione delle cartelle cliniche dei pazienti, i Paesi Bassi si piazzano primi con una percentuale di digitalizzazione dell’83,2%; in seconda posizione troviamo la Danimarca (80,6%) e in terza il Regno Unito (80,5%). Tuttavia, appena il 9% degli ospedali in Europa permette ai pazienti di accedere online alla propria cartella clinica e la maggior parte di essi dà solo un accesso parziale. Per l’Italia, i dati sono in linea con la media Ue. Di 13 aree prese in considerazione, solo quella sulla “cartella clinica condivisa da tutti i reparti” , ha mostrato una differenza significativa con la media europea (-27 % ). Su tutti gli altri parametri l’Italia è in linea con la media Ue e l’indagine mostra come rispetto al 2010 vi siano stati progressi su quasi tutti i 13 indicatori selezionati.  I medici generici fanno un uso limitato delle prescrizioni elettroniche e delle interazioni con i pazienti per e-mail (32% e 35% rispettivamente). I tre paesi in vetta alla classifica per le prescrizioni elettroniche sono l’Estonia (100%), la Croazia (99%) e la Svezia (97%), mentre per quanto riguarda l’uso dell’e-mail troviamo la Danimarca (100%), l’Estonia (70%) e l’Italia (62%). Alla domanda sul perché non utilizzino di più i servizi di sanità online, i medici generici hanno addotto come motivo la scarsa remunerazione (79%), le conoscenze informatiche insufficienti (72%), la mancanza di interoperabilità dei sistemi (73%) e la mancanza di un quadro normativo sulla riservatezza per le comunicazioni per e-mail tra medico e paziente (71%).  ____________________________________________________________ Repubblica 11 Apr. ’14 IL MONDO HA BISOGNO DI OLTRE SETTE MILIONI DI OPERATORI SANITARI Il mondo ha bisogno di 7,2 milioni di operatori sanitari. Nella settimana dedicata al personale sanitario (7-11 aprile), Amref lancia l'allarme,  invita a partecipare a una tavola rotonda, il 10 aprile a Milano, e spiega l'impotenza delle Ong di fronte alle politiche economiche restrittive anche nella sanità 09 aprile 2014 0 LinkedIn 0 Pinterest ROMA - La mancanza di personale sanitario, pesantissima in Africa, ma preoccupante anche nel resto del mondo, è naturalmente legata alle politiche di austerità che coinvolgono in questi anni tutti i settori pubblici, sanità compresa. Amref diffonde dati e s'impegna nel progettoPersonale sanitario per tutti e tutti per il personale sanitario, organizzando un incontro, domani 10 aprile, a Milano per tentare di gestire la crisi del personale sanitario e per far rispettare e diffondere il Codice di Condotta dell'Oms, l'Organizzazione mondiale della sanità. Un miliardo di malati non vedrà un medico. Sono medici, paramedici, infermieri, ostetriche e non solo. Il personale sanitario fa nascere persone, cura e assiste i malati. Ma 57 paesi poveri del mondo,  soprattutto in Africa, hanno una gravissima carenza di personale specializzato nel settore sanitario e Amref avverte che 1 miliardo di persone dei paesi poveri non verrà mai assistito da nessuno. E così, in Africa, 12.000 bambini affetti da malattie curabilissime (se gestite da persone competenti),  muoiono ogni giorno. Il ruolo delle Ong nei paesi poveri. In Africa, Asia, America Latina, il problema sostanziale è l'endemica crisi la pessima economica che naturalmente si ripercuote nell'inesistenza di un sia pur minimo sistema sanitario.  La mancanza di strutture e personale medico, in quei paesi, è spesso sopperita dall'attività di Ong che non solo portano in loco le apparecchiature necessarie, ma educano e formano persone affinché si crei in ciascun paese un'autonomia di gestione e cura delle malattie più frequenti, come la morte per parto nelle donne. Ma il progetto sostenuto da Amref, rivela che nei paesi sottosviluppati formare personale specializzato equivale a vederlo poi emigrare dai luoghi d'origine. La somma dei problemi porta quindi al risultato allarmante di una aspettativa di vita non superiore ai 56 anni, in quei paesi dell'Africa sub sahariana, dove morire per malattie infettive è regola quotidiana. Di austerità muore la sanità. Questo è il titolo con cui Amref diffonde l'allarme della carenza medica in tutto il mondo, ma quest'espressione è forse più adatta ai paesi dell'Unione Europea, anch'essi implicati in un'imbarazzante carenza di personale sanitario. La decrescita economica che investe ormai da anni il pianeta, ha condizionato negativamente tutti i settori delle spese pubbliche interne a ciascuna nazione e alla Ue tutta, incidendo soprattutto sul taglio di stipendi e di personale, che rappresenta il 40% dell'intera spesa della sanità. La Commissione Europea avverte che, se si continuerà con queste politiche, nel 2020 anche l'Europa soffrirà della perdita preoccupante di circa 20 milioni di specialisti nella tutela della salute. Il caso dell'Italia. Il nostro paese necessita della presenza annuale di 30.000 operatori sanitari. Negli ultimi 10 anni, si sono impiegati anche operatori stranieri, cresciuti di 15 volte nel settore, ma da 2 anni circa il personale medico estero è drasticamente calato della metà. Per contro, i già citati tagli costanti alla spesa pubblica e al settore sanitario, non garantiscono di certo l'interesse dei cittadini italiani verso una formazione medica. In questo modo, si tocca la deriva di una sanità già piuttosto discutibile in Italia: diminuzione di personale interno, volatilità di personale estero e logoramento dei lavoratori impiegati e stipendiati normalmente, che devono sopperire a necessità molto maggiori rispetto alle loro stesse possibilità (lo studio Amref informa che il 20% degli infermieri in Italia vorrebbe cambiare lavoro). Il Codice di Condotta dell'Oms. Questi alcuni dei temi che Amref affronterà con l'incontro a Milano, il 10 aprile alle 14.00 presso l'SDA della Bocconi. L'argomento fondamentale, poi, sarà quello di controllare e diffondere i parametri dettati dal Codice di Condotta dell'Oms (Organizzazione mondiale della sanità) per il reclutamento di personale sanitario internazionale, che mette in relazione sanità, immigrazione e aiuto allo sviluppo: investire nella formazione nazionale del personale, formare e tutelare gli addetti stranieri, sostenere lo sviluppo dei paesi più poveri. Il tutto, superando le avversità dell'austerità economica mondiale.  ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Apr. ’14 SANITÀ, DISAVANZO ASL A 1,6 MILIARDI NEL 2013 Roberto Turno ROMA. La sanità ha chiuso il 2013 in rosso per 1,63 mld prima delle manovre regionali di rientro. Con un deficit in calo di 400 mln sul 2012, risultato anche di un rallentamento della spesa dello 0,3% sull'anno prima. E non senza sorprese: la maggior parte del disavanzo (890 mln) è stato accumulato nelle 13 regioni non sottoposte a piano di rientro, mentre nelle 8 commissariate o comunque sotto tutela governativa il deficit è stato di 746 mln (-125 mln rispetto al 2012). E non senza novità: la Campania ha fatto segnare un attivo di 11,7 mln (-111 mln nel 2011 e -245 nel 2010), la Sicilia di 25 mln (contro -34 mln dell'anno prima) e l'Abruzzo di 340mila euro. In fondo alla classifica resta il Lazio col top del disavanzo a quota 609,8 mln. Regalano sorprese e conferme – ma anche importanti spunti di riflessione per l'attualità in vista delle imminenti scelte di politica economica del Governo in itinere con la nuova spending review governativa – le pagine che il Def 2014 (e i dati ancora in mano all'Economia) appena presentato dal ministero di Via XX Settembre dedica alla spesa sanitaria. L'impressione è che nelle regioni in piano di rientro la leva dei tagli, dolorosissima al punto da mettere a dura prova l'equità dell'assistenza, stia funzionando almeno a livello di bilanci. Il rosso in quelle regioni è sceso dai 4,1 mld del 2007 ai 746 mln di oggi, ovviamente lasciando ancora scoperto il rosso iniziale da recuperare. Cala però il deficit annuale, effetto anche delle maxialiquote fiscali e dei superticket a carico dei cittadini di quelle regioni. Mentre i livelli di assistenza (i Lea) sono sempre meno garantiti e la garanzia dei servizi continua spesso a latitare. Tutto questo mentre la previsione di spesa sanitaria pubblica per il 2014 è di 111,7 mld e viene data in crescita del 2%, poi ancora del 2,1% medio annuo dal 2015 al 2018: nel rapporto col pil, la spesa sanitaria nel 2018 viene stimata in calo al 6,8%. È anche con questi dati in mano che Governo e regioni si stanno misurando in vista dei prossimi tagli. Che, ormai è sicuro, toccheranno anche la sanità. La trattativa è in pieno corso e gli incontri, riservatissimi, sono costanti. L'ipotesi più gettonata è quella di un taglio tra 800 mln e 1 mld, con ogni probabilità al Fondo sanitario, incidendo già per il 2014 soprattutto sull'acquisto di beni e servizi e forse in parte la farmaceutica territoriale, in attesa della cura-Cottarelli e dei risparmi del «Patto per la salute». Una soluzione che secondo il Governo non leverà niente ai servizi, ma che le regioni contesteranno comunque. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Apr. ’14 LA TRINCEA DI MEDICI E MANAGER DELLE ASL Roberto Turno Matteo Renzi gli ha promesso una spuntatina allo stipendio: «Se il manager dell'asl non va in autoblu e invece di 300mila euro si ferma a 200mila, campa bene lo stesso». Ma loro, i manager, non ci stanno: abbiamo un tetto massimo per legge di 154mila euro lordi e in media ne guadagniamo 135mila (ma premi esclusi), ribattono. E attaccano: «Avranno solo yes man della politica, altroché manager proprio quando la sanità rischia di andare a rotoli». Ammesso che della politica non siano tutti figli, alzano (cautamente) la voce. Peccato che sui siti aziendali ben più del 30% di loro non pubblica il proprio stipendio. Come dovrebbero fare per legge: questione di trasparenza. La spending sta aprendo nuovi fronti per il Governo. Forse tutti previsti, forse controllabili vista la popolarità dell'argomento messo all'indice dal premier tra chi, i più, guadagna molto meno e subisce di più i colpi della crisi. Un fronte che, tra l'altro, tocca anche i medici e tutti i dirigenti sanitari. Che ieri – preoccupati di finire sotto la scure dei tagli ai dirigenti pubblici – hanno fatto sapere col primo sindacato di categoria, l'Anaao, di essere pronti a 3 giorni di sciopero per maggio. Due categorie, manager e medici, che storicamente non si amano: i primi depositari dei conti e di bilanci che non tornano; i secondi custodi della scienza e ormai dei posti-barella nei pronto soccorso anziché dei posti-letto in corsia. Ma quanto guadagnano i manager? Se è vero che la media è delle busta paga è intorno ai 135mila euro, è anche vero che di questa somma non fanno parte i premi di risultato (+20%), quando vengono concessi e sempreché risultato ci sia stato. Stipendi – lamentano – fermi da 10 anni, con meno tutele previdenziali e contratti a termine, non come la dirigenza pubblica. Fatto sta che i più fortunati arrivano a quasi 190mila euro lordi. Con minimi intorno ai 110mila euro al Sud, e al top nelle regioni con i conti in regola, ma anche nel Lazio adesso. Conoscere i loro stipendi è però come arrampicarsi sugli specchi. In nome della trasparenza dovrebbero per legge pubblicare la retribuzioni sui siti aziendali. Ma a luglio il 44% non lo faceva , a dicembre forse il 40%, oggi ancora almeno il 35% continua a fare scena muta. Trasparenza fallita a metà. Ora però dovranno fare i conti con un premier che va di corsa. E i "sindaci" scendono in campo. «La volontà di reclutare manager capaci si scontra con la difficoltà di poterli davvero attrarre nel Ssn», afferma Enzo Chilelli (Federsanità Anci). «Con i tagli delle retribuzioni alla guida della asl resteranno solo pensionati e yes man della politica, altro che manager», afferma Valerio Alberti (Fiaso). Che snocciola altri dati: al netto guadagniamo 5 volte (anziché 10 come si pensa di fare per il top management) lo stipendio minimo di un nostro dipendente. Di più: gestiamo aziende con un fatturato medio di 800 milioni mentre nel privato un manager di un'azienda con 100 milioni di fatturato ha uno stipendio da 222mila euro. E poi: un medico capo di dipartimento percepisce fino a 20mila euro più di noi. Un medico, appunto, vecchie rivalità... ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 08 Apr. ’14 SARDEGNA: SANITÀ, BUFERA SUI CONCORSI «I concorsi attivati, se le procedure sono legittime, non si toccano: in caso contrario siamo pronti ad andare dal magistrato». Bufera sulla sanità sarda. A sollevare la questione, domenica a Sassari durante gli stati generali del Partito dei Sardi, è stato l'assessore ai Lavori pubblici Paolo Maninchedda. Il punto di partenza è la recente circolare dell'assessore alla Sanità Luigi Arru, che invita i direttori sanitari ad attenersi all'ordinaria amministrazione. POSSIBILI VENDETTE «Qualcuno ha frainteso», ha detto Maninchedda, «e ha pensato di poter dare sfogo a vendette politiche. Pigliaru, del resto, alla prima riunione di Giunta non ha parlato di spoil system politico ma di spoil system delle competenze. Ed è una logica da applicare anche nelle Asl». Maninchedda non lo dice, ma secondo gli addetti ai lavori il messaggio è rivolto ad alcune parti del Pd: «Ho detto che le manovre di taluni per bloccare i concorsi legittimamente in corso nelle Asl sono una porcheria», ha specificato su Facebook Manichedda. «D'altra parte, sono evidentemente una grande porcheria i concorsi banditi in tutta fretta da qualche direttore generale, senza la firma dei direttori amministrativi e sanitari, come se i concorsi fossero una sua prerogativa personale. I concorsi non sono legati alle elezioni. Chi li vuole legare alle elezioni faccia pure e noi andremo in Procura: ci siamo già andati e non abbiamo paura di farlo». LE SELEZIONI I concorsi riguardano alcune centinaia di persone in tutta l'Isola e sono rivolti a operatori sociosanitari (Oss), infermieri, amministrativi e tecnici. Negli ultimi due anni i concorsi hanno portato all'assunzione nell'Asl 1 di Sassari di 41 Oss, nell'Asl 2 di Olbia di 90 Oss e 110 infermieri professionali. All'Asl 5 di Oristano di 10 operatori sociosanitari, alla Asl 3 di Nuoro di 20 operatori sociosanitari e 5 amministrativi: in questo caso l'Asl ha smentito le recenti polemiche su un presunto blocco o rallentamento delle procedure. All'Asl 7 di Carbonia scade il 10 aprile il bando per l'immissione in organico di 21 infermieri professionali. All'Asl 8 di Cagliari il 28 aprile quello per 83 Oss. Da segnalare anche il concorso, bandito nel 2011 per 55 posti da infermiere, per cui sono già pervenute oltre 4.500 richieste. Presto saranno attivate le procedure di preselezione considerato l'elevato numero di domande. Infine il bando del Brotzu per 36 operatori sociosanitari, andato a buon fine, e i due concorsi per 10 coadiutori amministrativi e 14 assistenti amministrativi: dopo l'accertamento di alcuni vizi formali nella procedura dei test, la commissione esaminatrice si è dimessa. A questi bandi si aggiungono i dirigenti di area medico-specialistica, che le singole Asl mettono a concorso sia per le posizioni a tempo determinato che per quelle titolari: più di 20 in tutta l'Isola, tra cui 10 primari da scegliere con selezioni interne. IL SINDACATO «Serve un nuovo piano sanitario regionale, che razionalizzi tutto il sistema prima che lo facciano a Roma», dice Davide Paderi, della Funzione pubblica Cisl. «Pigliaru non ne fa cenno nelle sue dichiarazioni programmatiche: va messo in piedi da subito un sistema di welfare e di sanità nel territorio così come hanno fatto altre Regioni che hanno riconvertito i posti letto senza tagli, creando case della salute». Lorenzo Piras ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 08 Apr. ’14 SARDEGNA: LOCCI (FI): «POCHI 5 GIORNI PER IL DG» Mentre nella maggioranza tiene banco la vicenda dei concorsi sollevata da Paolo Maninchedda, l'opposizione punta il dito sulla nomina del nuovo direttore generale della Sanità. E a destare perplessità sono, più che le procedure attuate, i tempi concessi agli interessati per presentare le richieste, giudicati dal consigliere regionale di Forza Italia Ignazio Locci troppo stringenti. «La Regione concede appena cinque giorni di tempo per esercitare la manifestazione di interesse per l'incarico di direttore generale della Direzione generale della Sanità (assessorato Igiene, Sanità, Assistenza sociale)», scrive in una nota Locci. «Dopo aver pubblicato il primo avviso il 3 aprile con scadenza all'8, gli uffici preposti hanno provveduto a una rettifica dello stesso, ieri, fissando una nuova scadenza per il 12 aprile». Ancora: «Sebbene quella dell'avviso pubblico sia una buona pratica amministrativa, non si comprende come si possa dare la massima diffusione a un avviso così importante in soli cinque giorni». Conclusione: «Ci auguriamo che non si tratti solo di una simulazione tattica ragionata a tavolino e speriamo, quindi, che il pacchetto non sia già stato preconfezionato nella solita logica della spartizione del potere». Replica dell'assessorato alla Sanità: «La pubblicazione dell'avviso è un passo corretto, tanto più che in passato mai si era seguito questo iter amministrativo, preferendo predisporre direttamente la delibera di nomina da sottoporre alla Giunta. Poi, in alcuni casi, all'atto dell'incarico sono stati riscontrati diversi problemi sui requisiti dei soggetti nominati». (lo. pi.) ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Apr. ’14 MEDICINA E INFORMAZIONE CONTRO I TABÙ DELLA MALATTIA di Andrea Biondi «Guardare simili cose in faccia richiede il coraggio di un domatore di leoni». Virginia Woolf non aveva avuto "paura" di scriverlo nel suo saggio Sulla malattia (prima stesura nel 1926 e seconda e definitiva nel 1930). Carlo Emilio Gadda parlava di male «immedicato» nella sua Cognizione del dolore. Due esempi – questi tratti dalla letteratura e citati dal rettore dello Iulm, Giovanni Puglisi – che testimoniano plasticamente come della malattia, e in particolare di quella malattia, sia fin troppo arduo parlare. Il rischio però è scadere nell'ignoranza e nei tabù, nemici mortali della conoscenza e della prevenzione. Su "Media e cancro" invece, in occasione dei 20 anni dell'Istituto Europeo di Oncologia, protagonisti del mondo scientifico e del mondo dell'informazione ieri a Milano hanno voluto confrontarsi in modo schietto, diretto, affrontando di petto un argomento che colpisce nel profondo tanta, anche troppa gente. A Umberto Veronesi – che dello Ieo è stato fondatore e ora ne è direttore scientifico, affiancato dai condirettori Pier Giuseppe Pelicci e Roberto Orecchia – basta mettere sul tavolo i numeri: «Oggi si ammala di tumore un italiano su tre; 50 anni fa si ammalava uno su 30. Questa è una malattia epidemica, stravolgente». Era il 1981 quando «un articolo in prima pagina sul New York Times cambiò la storia del cancro al seno. Parlava – aggiunge Veronesi – di un mio intervento mini-invasivo che senza quel pezzo sarebbe rimasto una pubblicazione dimenticata nel cassetto». E invece Veronesi, come i direttori delle testate che hanno partecipato al dibattito, guarda come a una grande conquista il fatto che siano lontani i tempi in cui il "male" non si poteva neanche nominare. Anche perché nonostante l'aumento dei casi di cancro «da 15 anni la mortalità è in costante calo e oggi curiamo il 60-65 per cento dei malati». Non solo: «Il 30% delle pazienti che operiamo allo Ieo hanno un tumore al seno occulto non ancora palpabile, scoperto grazie agli screening». Ecco che la giusta conoscenza diventa un fattore essenziale. Come decisiva diventa la capacità di saper parlare con coscienza, ma anche con cognizione scientifica, di argomenti che toccano le corde più profonde dell'animo umano. Del resto, se la scienza oncologica ha fatto progressi straordinari negli ultimi decenni, senza un cambio della cultura della malattia – ancora segnata dalla rimozione e dalla paura – molti degli sforzi rimarranno vani. «L'informazione deve avere una solida base scientifica e deve sfruttare come moltiplicatore le possibilità che la tecnologia offre attraverso il digitale», ha fatto presente il direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano. «Non è vero – ha poi aggiunto – che in questo Paese non si fa ricerca e innovazione. Quel che è vero è che non si incentiva fiscalmente chi lo fa. Non dimentichiamo che viviamo in un Paese in cui per metà la Sanità è commissariata. E anche qui bisogna cambiare in profondità». In questo quadro, se è vero che il ruolo dei media è essenziale per la conoscenza, è altrettanto vero che si tratta di un ruolo il cui peso è da far tremare i polsi. Mario Calabresi, direttore de La Stampa, cita il caso Stamina. «Lei vuole togliere le speranze ai malati?» si è sentito domandare dopo le sue critiche e i suoi dubbi su una vicenda approdata poi nelle aule di tribunale. Lo stesso Calabresi ricorda ai tempi di Repubblica l'intervista «in cui Silvio Berlusconi parlava del tumore che lo aveva colpito. Accettò di concedermela solo a patto che non usassimo la parola cancro in prima pagina». Il cancro «si vince se si acchiappa il suo fantasma» ha spiegato dal canto suo Ezio Mauro, direttore di Repubblica. C'è un tabù, ha aggiunto, «ma bisogna sconfiggerlo con uno sforzo di fiducia» confidando sempre nel ruolo dei giornali, che è quello «di trasformare i lettori in cittadini», con una coscienza critica e civile. Monica Maggioni, direttore di Rainews 24, ha concordato sul fatto che «oggi la scienza in Italia è poco amata forse perché è poco raccontata». Sarah Varetto, direttore di Sky Tg24, ha messo dal canto suo in evidenza la necessità di arrivare a parlare di argomenti come il cancro e la malattia, puntando «sulla rivoluzione dei linguaggi», oggi più che mai possibile. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Apr. ’14 LE «PROTO-PAROLE» CONDIVISE DAI NEONATI DI TUTTO IL MONDO Prendete la sequenza di suoni “bl”: quante parole che iniziano così vi vengono in mente? Blusa, blu, blando...Prendete ora “lb”: quante ne trovate? Nessuna in italiano, e anche in altre lingue sono o inesistenti o estremamente rare. Questo, e moltissimi altri esempi simili, rilevati dai linguisti, sembrerebbero corroborare l’ipotesi che a parlare non si impara soltanto per “esposizione” (cioè per aver sentito parlare e dire “quelle” parole), ma che esistono basi universali, biologiche, innate del linguaggio.  Una congettura interessante, ma non facile da verificare. Una prova a supporto dell’ipotesi “innatista” arriva ora da uno studio condotto da un team della Sissa, la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, appena pubblicato su Pnas . Spiega Marina Nespor, PhD in linguistica generale e teorica che, per la Sissa, ha seguito la parte più teorica della ricerca: «Abbiamo analizzato, in più di 70 neonati dai due ai cinque giorni di vita, le reazioni cerebrali a combinazioni di suoni molto frequenti all’inizio di parola e di sillaba in tantissime lingue (come “bla”) confrontando queste reazioni con quelle ad altre sequenze di suoni poco usuali (“lba”) e abbiamo visto che erano molto diverse».  Può chiarire meglio la questione delle combinazione di suoni? «La sequenza “bl” può trovarsi all’inizio di sillaba, invece la sequenza “lb” pur trovandosi all’interno di molte parole, pensiamo ad “alba”, non è mai parte della stessa sillaba. Una parola come alba non è pronunciata a-lba, si pronuncia al-ba. La sequenza “lb” è cioè “malformata” e rara solo se si presenta all’inizio di una sillaba» risponde l’esperta.  L’assenza di certe sequenze non dipenderà dal fatto che sono impronunciabili per il nostro sistema fonatorio? «No, — dice Nespor — tanto è vero che ho parlato di sequenze raramente presenti, non del tutto assenti, e quindi non impronunciabili, tanto è vero che “lb“ esiste a inizio parola in russo e in altre lingue. È sulla frequenza di certe combinazioni e sulla rarità di altre che bisogna interrogarsi, dato che tutte sono pronunciabili». Ma perché uno studio su neonati così piccoli? «Perché non fosse neppure possibile sospettare una qualche forma di apprendimento».  Ma non si dice che i bambini sentono già quando sono nell’utero della mamma? «Certamente, ma di un discorso, di una canzone, colgono solo la prosodia (l’intonazione, il ritmo, l’accento, la durata ndr ) non possono certo imparare nella pancia di mamma a distinguere “bl” da “lb”», chiarisce la professoressa.  Come è stato possibile verificare le reazioni di bambini così piccoli? «Abbiamo usato un metodo assolutamente non invasivo — risponde David Gomez, ricercatore della Sissa e primo autore del lavoro, che ha lavorato con la supervisione di Jacques Mehler —. I piccoli dovevano indossare, per quindici minuti, una “cuffia” che permetteva di rilevare il funzionamento del lobo temporale sinistro del cervello, deputato a comprensione del linguaggio parlato e alla scelta delle parole».  «Semplificando, — continua Gomez — le “cuffie” erano dotate di una tecnologia che permette di rilevare il consumo di ossigeno di una regione cerebrale e poiché un’area encefalica al lavoro consuma più ossigeno di una che non lavora, era facile capire come la zona oggetto di indagine, reagiva a un determinato stimolo. Le “risposte” del cervello dei piccolissimi sono risultate del tutto sovrapponibili alle preferenze che noi adulti abbiamo nei confronti di queste sequenze. Abbiamo così verificato l’esistenza di reazioni diverse di fronte a sequenze di suoni diffuse o, al contrario, assai rare. Anche se serviranno altri studi per confermarlo, sembra che i bambini vengano al mondo in grado distinguere parola da “non” parola, indipendentemente dalla lingua che poi impareranno».  Daniela Natali ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Apr. ’14 TROPPO SALE NON SOLO «GONFIA», VI FA INGRASSARE Il sale può favorire l’obesità? Sembrerebbe proprio di sì, stando a quanto dice una recente ricerca, pubblicata su Pediatrics , e condotta alla Georgia Regents University di Augusta (USA). I ricercatori hanno valutato, in 766 adolescenti, i consumi di sodio, la composizione corporea, il grasso sottocutaneo e viscerale, i livelli ematici di marcatori dell’obesità e dell’infiammazione.  Elevati apporti di sodio sono risultati associati con l’adiposità e con la presenza nel sangue di una citochina secreta dalle cellule immunitarie che contribuisce all’infiammazione cronica , indipendentemente dagli apporti calorici.  I ricercatori ipotizzano che l’associazione fra sodio e obesità, già osservata in altri studi, ma sinora attribuita solo al fatto che più si mangia ( e per questo si ingrassa), più sale si consuma ,possa invece essere dovuta proprio anche al sodio. Insomma, un eccesso di sale non solo può favorire la ritenzione idrica (come già sappiamo), ma potrebbe facilitare anche l’accumulo di grasso.  «Noi tutti consumiamo molto più sale di quanto ne serve — commenta Andrea Vania, professore di Pediatria e responsabile del Centro di dietologia e nutrizione pediatrica del Policlinico Umberto I di Roma — e questo favorisce, come dice lo studio, l’insorgere di obesità, con relativa componente infiammatoria, ma anche di ipertensione e processi aterosclerotici. Tutte le principali organizzazioni che si occupano di salute e alimentazione ribadiscono da tempo l’opportunità di non aggiungere sale ai cibi almeno nei primi due anni di vita, per non abituare i bambini a una dieta troppo salata (che è cosa diversa da sapida), dal momento che tale abitudine una volta acquisita è difficile da perdere».  Che cosa si può fare per bambini e adolescenti già abituati a consumare troppo sale? «È sempre possibile rieducare il palato a cibi meno salati, soprattutto se lo si fa gradualmente — sottolinea Cinzia Le Donne, nutrizionista del Centro di ricerca per gli alimenti e la nutrizione (CRA-NUT) —. Ricordiamo però che non basta ridurre il sale aggiunto, che dovrebbe essere comunque quello iodato, ma va limitato sia il consumo di cibi notoriamente salati (vedi tabella), sia quello di alimenti che, pur non essendolo, possono comunque contribuire in modo significativo ai consumi di sodio (come pane, brioches, cereali da colazione)».  «Come emerge dal progetto HELENA, uno studio europeo cui hanno partecipato anche adolescenti italiani, — conclude Le Donne — solo considerando il sodio già assunto con gli alimenti si raggiunge il limite che l’OMS consiglia di non superare: circa 2 grammi al giorno, pari a 5 grammi di sale».  C. F. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Apr. ’14 EFFETTI DELLE SIGARETTE ELETTRONICHE DALLA SCIENZA UNA PRIMA CONDANNA Delle sigarette elettroniche s’è detto di tutto. «Aiuteranno a liberarsi dalla schiavitù del fumo». «No, fanno male anche loro perché contengono sostanze chimiche che potrebbero predisporre al cancro». E ancora: «Non fanno né bene né male, ma perpetuano la gestualità del fumare che di per sé è un male».  A dirla tutta non c’era grande scienza a supporto di una o dell’altra di queste affermazioni. Ma qualcosa sta cambiando. La ricercatrice Stacy Park che lavora a Los Angeles in California ha presentato al meeting della Società Americana per la ricerca sul Cancro proprio in questi giorni a San Diego uno dei primi studi, forse il primo in senso assoluto, sugli effetti biologici delle sigarette elettroniche. Cosa hanno visto iricercatori di Los Angeles? Che i vapori delle sigarette elettroniche sono tossici sulle cellule dei bronchi e alterano l’espressione di certi geni; ma non basta, quello che forse ha colto di sorpresa gli stessiricercatori è che i danni sulle cellule bronchiali in coltura dei vapori delle sigarette elettroniche e del fumo di sigaretta sono molto simili. Per stabilirlo la dottoressa Park e i suoi colleghi hanno coltivato le cellule in laboratorio e poi le hanno esposte al vapore delle sigarette elettroniche o al fumo che si sprigiona dalla combustione del tabacco. Le alterazioni a carico dei geni delle cellule bronchiali indotte dai vapori delle sigarette elettroniche e dalla combustione del tabacco, oltre ad essere molto simili tra loro, ricordano anche quelle delle cellule dei fumatori a rischio di sviluppare un tumore.  Il prossimo passo sarà quello di analizzare il comportamento di queste cellule nel tempo e vedere se anche quelle esposte ai vapori delle sigarette elettroniche (come succede col fumo di sigaretta) diventeranno prima o poi cellule tumorali. È ancora presto per tirare conclusioni definitive sulla base di questi studi — per ora soltanto in vitro cioè su cellule coltivate in laboratorio — ma certo chi pensava che le sigarette elettroniche fossero innocue forse presto dovrà ricredersi.  Giuseppe Remuzzi  ____________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Apr. ’14 USA: LASCIA LA MINISTRA DELLA SANITÀ DOPO I GUAI DELLA RIFORMA WASHINGTON — Il ministro della Sanità Usa, Kathleen Sebelius, ha deciso di lasciare l’incarico in seguito alla riforma della legge sull’assistenza sanitaria ostacolata da ripetuti problemi e lentezze. Sebelius, che sarà sostituita da Sylvia Mathews Burwell, ora all’Ufficio del Budget, è una delle collaboratrici più «longeve» di Obama. Ma i problemi legati al debutto della riforma hanno danneggiato fortemente la Casa Bianca. E lei si è dimessa.  QUELLA STAFFETTA ALLA SANITÀ E LE ELEZIONI Via la ex governatrice del Colorado, donna di grandi capacità politiche ma troppo aristocratica e pasticciona per gestire una macchina complicatissima come quella della sanità pubblica americana. Dentro la 49enne Sylvia Mathews Burwell, la ex manager della fondazione filantropica di Bill e Melinda Gates che si è fatta le ossa per un anno ricoprendo il ruolo di direttore del bilancio federale alla Casa Bianca. Il presidente ieri ha fatto del suo meglio per concedere l’onore delle armi a Kathleen Sebelius nel giorno delle sue dimissioni. Obama è sceso per la cerimonia del passaggio delle consegne nel giardino delle rose. Ha tessuto le lodi della Sebelius, pur senza nascondere gli insuccessi, «le ferite e le ustioni che sia io che lei ci portiamo appresso. Ma l’abbiamo fatto per dare una sanità migliore agli americani, soprattutto ai più bisognosi». A ogni frase un lungo applauso ritmato da un Obama che obbligava tutti gli astanti a spellarsi le mani. Certo, i guai che hanno costellato l’applicazione di una riforma sanitaria sicuramente infelice sono molti e hanno molti responsabili. E la Sebelius, cinque anni fa chiamata al governo come scelta di ripiego dopo il ritiro di Tom Daschle per l’emergere di alcuni suoi peccati fiscali, ha fatto molto altro, oltre che gestire una riforma controversa: dalla lotta agli abusi di medici e ospedali che gonfiano i costi delle cure, all’introduzione di nuove medicinali e terapie che cambiano il modo di curare i pazienti. E tuttavia l’avvio disastroso di HealthCare.gov, la piattaforma digitale governativa che doveva far girare la riforma, è imputabile anche alla sua superficialità: Kathleen ci è cascata anche ieri quando ha interrotto a metà il discorso d’addio confessando candidamente di aver perso una pagina del suo intervento. Ora tocca a Sylvia, una che fa poca politica e lavora sodo. A lei la mission impossible di rimettere in carreggiata la macchina della riforma prima delle elezioni di mid term del prossimo novembre che il partito democratico sembra destinato a perdere soprattutto per effetto di questo flop. Sarà già molto se la Burwell riuscirà a far funzionare quello che è stato messo in piedi e a evitare nuovi scivoloni.  M. Ga. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 10 Apr. ’14 VERONESI: SU ETEROLOGA GIUDICI PIÙ AVANTI DEI POLITICI «È un grande momento per il Paese. Oggi, una volta di più, la magistratura ha dimostrato più libertà di pensiero del Parlamento». L’oncologo Umberto Veronesi, ex ministro della Sanità, direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia di Milano, nel 2005 fu tra i più convinti promotori e «volti simbolo» del referendum per l’abrogazione di alcuni dei paletti fissati dalla normativa. La fortissima campagna all’astensionismo, in seguito alla quale non fu raggiunto il quorum, fu per lui motivo di grande amarezza. I suoi «complimenti» alla Consulta sono quindi più che sentiti. «Al di là del contenuto specifico del pronunciamento — aggiunge lo scienziato — questo è un momento importante per il Paese, e soprattutto per le coppie che desiderano un figlio e che ora potranno realizzare il loro progetto genitoriale senza espatriare». Veronesi ritiene giusto che la parola ritorni ora al legislatore, «perché affronti questa tematica senza alcun approccio ideologico come invece, purtroppo, abbiamo visto spesso accadere su argomenti bioetici».  ____________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Apr. ’14 VERONESI AI MEDIA: «PARLATE DI CANCRO COLPISCE UNO SU TRE» La parola cancro deve essere utilizzata sui diversi mezzi di comunicazione senza ipocrisie, assurde scaramanzie, tentativi di esorcizzare un male che fa paura. Anche se, oggi, curabile. La prevenzione funziona, ma l’opinione pubblica deve essere informata (e formata) a sentirne parlare come se si trattasse dell’influenza stagionale. Senza allarmismi né panico indotto. Così non è. Sui media (in particolare italiani) si muore sempre di una lunga malattia o di un male incurabile, mai di un tumore, mentre si può morire di Aids (spesso prevale il gossip) quasi si trattasse di una medaglia al merito, o di un infarto, se non di un ictus. Eppure il cancro non è contagioso come la lebbra. Eppure il cancro non è uno stigma. È epidemia, ma non infettiva. «Cinquant’anni fa si ammalava di tumore un italiano su 30, oggi si ammala uno su 3 e in un futuro prossimo ne resterà colpito uno su 2». Umberto Veronesi è tranquillo mentre lo dichiara. Nessuna enfasi, nessun allarmismo. Lui e i suoi scienziati dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) hanno deciso di festeggiare i 20 anni di questa sfida scientifica (ormai adulta e affermata) all’università Iulm di Milano, confrontandosi con i direttori di giornali, di carta e online, e di tg. L’incontro «I media nella lotta al cancro: sette direttori a confronto» è stata l’occasione per proporre un patto, un’alleanza tra la scienza e il mondo dell’informazione. Veronesi è convinto: «Così si vince la battaglia contro il cancro». Messaggio rivolto a tutti i media. Sfida raccolta? Si vedrà.  Mario Pappagallo ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 Apr. ’14 ALFA1-ANTITRIPSINA: BASTA UN SEMPLICE TEST DEL SANGUE Ma la patologia è sottovalutata Il parere dei biologi Pierpaolo Coni e Gavino Faa Per rendersi conto di cosa significa il deficit di alfa1-antitripsina in Sardegna, è sufficiente leggere qualche dato. Attualmente sono una trentina le persone alle quali è stato diagnosticato questo disturbo genetico, «appena il 10-15% di quelle a rischio», spiega Pierpaolo Coni, biologo molecolare, da anni accanto a Gavino Faa nello studio di questo disturbo. Ciò significa che l'85-90% delle persone colpite da una mutazione di questo tipo non sa di averla e corre il rischio di ammalarsi di cirrosi epatica ed enfisema polmonare. Come accade per quasi tutte le malattie rare, i problemi maggiori sono legati soprattutto alle difficoltà di fare una diagnosi in tempi certi. «E dire che sarebbe sufficiente un semplice prelievo del sangue per eseguire il dosaggio dell'alfa1-antitripsina», afferma Coni. «Il test sarebbe di fondamentale importanza perché consentirebbe di indagare o escludere il carattere ereditario di questo deficit». E perché non si fa? I costi sono troppo elevati? «Più o meno si spendono 2 o 3 euro per fare il dosaggio, a questi vanno aggiunti 20 o 30 euro per eseguire il test molecolare del Dna quando il dosaggio evidenzia valori bassi», aggiunge. Per sapere se si è “colpiti” dalla mutazione M-Cagliari, quindi, è sufficiente spendere, nella peggiore delle ipotesi, 33 euro. Il tutto con un prelievo di sangue per il dosaggio e una goccia di sangue o di saliva per il test del Dna. «Non è un problema di costi», spiega ancora Coni, «se questi test non si effettuano, la ragione va ricercata nel fatto che la malattia è ancora poco conosciuta e, per certi aspetti, sottovalutata». Soprattutto se si pensa, per esempio, che tutte le persone che soffrono di asma dovrebbero fare il test ma nessuno, o quasi, lo fa. «Quando i pazienti asmatici fanno i controlli di routine, in automatico dovrebbe essere prescritto anche il dosaggio dell'alfa1-antitripsina», ribadisce Coni. «Si tratta, infatti, di soggetti affetti da un processo infiammatorio a livello polmonare che libera elastasi. Se sappiamo che l'organismo produce un'adeguata quantità di alfa1-antitripsina, siamo sicuri che l'elastasi non aggredisce i polmoni». La buona notizia, però, è che le terapie esistono. «A livello polmonare i pazienti vengono trattati con una flebo che compensa nell'organismo il deficit di alfa1-antitripsina, evitando l'enfisema mentre a livello epatico», conclude Coni, «un farmaco che stanno sperimentando ricercatori dell'università di Pittsburgh sarebbe in grado di favorire l'uscita della proteina dal fegato, evitando l'accumulo». ( ma.mad. )