RASSEGNA STAMPA 09/06/2014 ABILITAZIONE NAZIONALE. GIANNINI: "ENTRO GIUGNO NUOVE REGOLE" PERCHÉ È DIFFICILE ELIMINARE IL NEPOTISMO ALL'UNIVERSITÀ COSÌ IL CARBONE SARDO SCALDERÀ PER VENT’ANNI LE NOSTRE BOLLETTE IL SENSO DELLA RICERCA È L'INTERCONNESSIONE UNISS: TASSE D’ATENEO INVARIATE con sconti per i più bravi UNICA: IL BASTIONE INGOIATO DALLA STORIA NUORO: UNIVERSITÀ PARALIZZATA DAI DIPENDENTI SENZA STIPENDIO BONCINELLI: TESTA TONDA, GIOCHIAMO A DUBITARE È UN CAGLIARITANO IL MIGLIORE DI YALE QUIRRA, IL SUPERPERITO DEL GUP: «NESSUN DISASTRO AMBIENTALE» DIECI BUONI MOTIVI PER DIRE SÌ AGLI OGM LA PARABOLA DEL DENTISTA ALLA RICERCA DELL’INFINITO I QUANTI CI CAMBIANO ========================================================= L’ASSESSORE ARRU ATTACCA: «NO AL TAGLIO DELLE ASL» FI: PICCOLI PRESIDI DI PROVINCIA NON SIANO SACRIFICATI A FAVORE DELLA SANITÀ DI CAGLIARI E SASSARI SAN RAFFAELE: IL GRAN GIORNO DELLO SCEICCO SAN RAFFAELE: LE TANTE DOMANDE SENZA RISPOSTA SAN RAFFAELE: IL QATAR E LA SANITÀ SARDA ALLARME PERSONALE SANITARIO. NEL MONDO NE MANCANO 7,2 MLN. CORTE DEI CONTI. SPESA SANITARIA RIDOTTA. «DECIDE IL MALATO» «NO, IL RESPIRATORE NON SI STACCA» VI RACCONTO LE MIE EUTANASIE STAMINA: CIARLATANI IRREDIMIBILI LO STATO SI MUOVA STAMINA: UN SENATO IN DIALOGO COI SAPERI BIOSCANNER, IL TUMORE È SCOPERTO LEGGERE IL PENSIERO? E’ POSSIBILE DIGIUNARE PER RESISTERE MEGLIO ALLA CHEMIOTERAPIA NUOVO CODICE DEONTOLOGICO: AGLI STUDENTI NON PIACE POLICLINICO, IL FLASH MOB DEI LAUREATI MEDICI, LA SPECIALIZZAZIONE È DIVENTATA UN MIRAGGIO GIOVANI MEDICI:VOGLIAMO FORMAZIONE, LAVORO, MERITO E TRASPARENZA” EMPATIA METTITI NEI MIEI PANNI AUTISMO ED ESPOSIZIONE PRENATALE A ORMONI STEROIDEI CANNABIS TERAPEUTICA, IN ITALIA È ANCORA UN DIRITTO NEGATO LA CANNABIS RIDUCE LA FERTILITÀ MASCHILE" BRADICARDICI: IL SEGRETO DI COPPI: LO SFORZO RIMODELLA IL CUORE TUMORE DELLA PROSTATA: DIAGNOSTICANO ANCHE I CANI IRREGOLARE QUASI IL 5% DEI 2,8 MILIONI DI INVALIDI ALLARME ONU, UN MILIARDO DI PERSONE SENZA SERVIZI IGIENICI BETA-TALASSEMIA, I SUCCESSI DI CAO E DI GALANELLO ALLARME DEL PROF. GUIDO CRISPONI: SE TERAPIA CHELANTE È USATA MALE ========================================================= ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 3 Giu. ’14 ABILITAZIONE SCIENTIFICA NAZIONALE. GIANNINI (MIUR): "ENTRO GIUGNO NUOVE REGOLE" Per il Miur l'attuale sistema ha penalizzato i meritevoli. Il Ministro sta quindi lavorando con le forze della maggioranza per introdurre procedure più snelle già dalla terza tornata dell’Abilitazione, prevista per la fine di quest’anno. Necessaria, intanto, la prorogata della seconda tornata. 03 GIU - Entro giugno le nuove regole per l’Abilitazione scientifica nazionale (Asn), la ‘porta’ di accesso alla docenza universitaria. Il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini, sta infatti lavorando con le forze della maggioranza per introdurre "procedure più snelle" già dalla terza tornata dell’Abilitazione, prevista per la fine di quest’anno. A darne notizia è una nota del ministero. Il sistema dei concorsi universitari è stato modificato a partire dalla legge 240 del 2010, la Riforma dell’Università, che ha introdotto l’Abilitazione nazionale come titolo necessario per l’accesso all’insegnamento negli atenei. "La nuova procedura - spiega il Miur - è stata sperimentata per la prima volta nel 2012. Le prime due tornate hanno evidenziato i limiti dell’Abilitazione: tempi contingentati e regole complicate che hanno richiesto diverse proroghe e prodotto, alla fine, un numero particolarmente rilevante di ricorsi. I lavori si sono prolungati a scapito di quei meritevoli che aspettavano da tempo di poter fare il loro ingresso nella docenza universitaria. Per questo si cambia". Abilitazione a ‘sportello’ (le commissioni sono in seduta ‘permanente’ e si aprono periodicamente le domande da parte dei candidati), allungamento della validità della stessa, revisione dei parametri di valutazione e della composizione delle commissioni, maggiore differenziazione nelle modalità di valutazione tra settori bibliometrici e non bibliometrici: sono alcuni degli aspetti su cui il Ministro sta lavorando, tenendo conto delle riflessioni emerse nel corso dei lavori delle competenti Commissioni parlamentari e su cui aprirà presto il confronto nel Governo e nella maggioranza, con l’obiettivo di un intervento in tempi molto stretti, "entro la metà di giugno". "Lo stesso intervento - conclude la nota del ministero - consentirà, a tutela dei 16.000 candidati della seconda tornata dell’Asn, una proroga dei lavori delle attuali 184 commissioni. Senza la proroga andrebbero sostituiti tutti i commissari con conseguenti ulteriori ritardi nella conclusione dei lavori e il rischio di perdere quanto fatto sino ad ora. Garanzia della conclusione dei lavori della seconda tornata dell’ASN, quindi, ma al contempo apertura della fase di cambiamento necessaria per consentire alle università di poter assumere nuove leve nei prossimi anni attraverso procedure meno complesse e più rapide". ____________________________________________________________ TST 4 Giu. ’14 PERCHÉ È DIFFICILE ELIMINARE IL NEPOTISMO ALL'UNIVERSITÀ Istruzione e ricerca sono fondamentali per la crescita. Non stupisce quindi che anche di università si sia parlato al Festiva) dell'Economia di Trento. Temi scottanti: il reclutamento e la valutazione dei docenti. Le continue proroghe e revisioni della, legislazione sull'università italiana hanno reso impossibile ogni valutazione del sistema. E cosi l'unico dato immutato, purtroppo, resta l'importanza della rete di conoscenze al fine di assunzioni e promozioni. Oltre ad avere vita breve, poi, le leggi non definiscono con chiarezza nemmeno le mansioni di un accademico, per non parlare di aspetti come quello remunerativo e valutativo. Inoltre, i cambiamenti senza fine hanno effetti disastrosi sulla pianificazione di una carriera. E a questa incertezza, «alla percezione che ogni occasione sia l'ultima», sarebbero da attribuire, secondo il capo di partimento al ministero dell'Istruzione Marco Mancini, la massa dei 3125 ricorsi sulle 53 mila valutazioni della prima tornata dell'abilitazione nazionale. Una crisi, che fortunatamente, non ha distrutto l'università: in Italia continua a funzionare, sebbene con profondissime differenze tra atenei. La qualità media si mantiene negli anni, come se il sistema fosse dotato di una sorta di «resilienza al cambiamento», ma un cambio di passo è necessario e, se nella redazione dei regolamenti è difficile prescindere dalla cultura accademica dei singoli Paesi, sono comunque utili i confronti con i partner europei. Un esempio citato al Festiva l: per contrastare la piaga dei favoritismi, diffusi in un sistema in cui il 93% dei ricercatori restava nell'ateneo d'origine, la Spagna ha creato un sistema di reclutamento tramite abilitazione nazionale, affidato al giudizio di commissioni di sette membri estratti a sorte. Manuel Bagues, economista dell'Università Aalto di Helsinki, suggerisce quindi di valutare la situazione con sguardo meno ideologico: «Per far vincere la meritocrazia bisogna guardare i dati e su questi costruire le strategie, perché identificare il migliore sistema di valutazione è un problema di tipo empirico e come tale va affrontato». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Giu. ’14 COSÌ IL CARBONE SARDO SCALDERÀ PER VENT’ANNI LE NOSTRE BOLLETTE La Carbosulcis è in perdita già dal 1955. Mentre in Francia la riconversione di Lens ha portato al «Louvre 2» In Aria fritta , formidabile e provocatorio saggio del 1955, Ernesto Rossi fotografava così la situazione economica delle miniere di carbone in Sardegna: «Rapportando le perdite al numero dei dipendenti si può dire che la Carbosarda avrebbe conseguito i medesimi risultati finanziari se avesse potuto tener chiuse, senza spesa, le miniere, e avesse pagato 40 mila lire al mese a ognuno dei suoi dipendenti, purché tutti rimanessero a casa, a coltivare i loro orticelli». Aggiungeva, il fondatore del Mondo , che da quando Benito Mussolini nel 1933 si era messo in testa di infilare il Paese nell’avventura del carbone sardo, erano stati fatti investimenti per circa 100 miliardi di lire. Ovvero, oltre un miliardo e mezzo di euro attuali. All’epoca della pubblicazione di Aria fritta i dipendenti del polo carbonifero sardo erano circa 11 mila e le 40 mila lire al mese di allora equivalgono a circa 700 euro di oggi. Nel 2012 di quei lavoratori ne erano rimasti meno di un ventesimo. Per l’esattezza 444, di cui 280 minatori. E siccome la Carbosulcis, ha chiuso il bilancio con una perdita di 42,2 milioni di euro si potrebbe arrivare alla conclusione che la società erede della Carbosarda interamente controllata dalla Regione Sardegna avrebbe conseguito il medesimo risultato versando direttamente a ogni dipendente 7.300 euro al mese per tredici mensilità senza far lavorare nessuno. Dieci volte quanto era stato calcolato sessant’anni fa da Ernesto Rossi. Una somma, per giunta, ben superiore allo stipendio medio di ogni lavoratore: costato all’azienda nel 2012, oneri previdenziali e tfr compreso, 4.116 euro al mese per tredici. Sia ben chiaro: non si può non essere estremamente sensibili al destino di quelle 444 famiglie. Tanto più considerando le condizioni economiche in cui versa oggi la Sardegna, nel colpevole disinteresse generale della nostra classe dirigente. Ma proprio per questo non ci si può voltare dall’altra parte. Che cos’è la Carbosulcis? Davvero una società per azioni, come dice il suo statuto? Qualche dubbio a leggere il bilancio potrebbe venire, scoprendo per esempio una voce assolutamente singolare nello stato patrimoniale. Ossia, un accantonamento di 145 milioni 603.586 euro per, testuale, «copertura perdite future». Certificazione che il destino inesorabile dei conti è il rosso fisso. E anziché prendere atto che il carbone sardo è un salasso da sempre insostenibile e studiare una soluzione seria per rilanciare lo sviluppo vero di quell’area, che si è pensato di fare? Nell’ultima legge targata governo Letta, la cosiddetta «Destinazione Italia» approvata tre mesi fa, è comparso un articolo che prevede 60 milioni l’anno di incentivi per la realizzazione di impianti a carbone pulito da alimentare con il fossile estratto nel Sulcis. Un progetto che assicurano tecnologicamente avanzatissimo. Peccato che costerà agli italiani, nei prossimi 20 anni, un miliardo e duecento milioni. Cifra caricata sulle bollette della luce. Fra perdite e sussidi il costo del polo carbonifero sardo, con i suoi 444 dipendenti, si avvia dunque a toccare quota cento milioni l’anno. E senza particolari garanzie per il futuro, con buona pace dei politici regionali e nazionali. Ai quali ci permettiamo di suggerire un viaggio a Lens, il Sulcis francese a pochi chilometri dal confine con il Belgio, per avere un’idea di che cosa sia in grado di fare, con cifre molto inferiori, un’amministrazione capace e lungimirante. Invece di ostinarsi a far sopravvivere le miniere con massicce iniezioni di denaro pubblico, lì è stato costruito in pochi anni un grande museo: il Louvre 2. Costato 150 milioni, ha aperto nel 2012. Nel primo anno ha avuto quasi un milione di visitatori. Così la città è rinata: non più carbone, ma tesori d’arte e storia e tanto turismo. Alberghi, bar, ristoranti, bed & breakfast... E senza neppure avere le meraviglie della nostra Sardegna. Ma ci pensate? ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Giu. ’14 IL SENSO DELLA RICERCA È L'INTERCONNESSIONE La simbiosi diventa metafora di strategia di crescita, contagiando ricercatori, studenti, imprese e cittadini Francesca Cerati a Come si fa a comprendere il senso della ricerca, la sua importanza e le possibili ripercussioni sulle imprese e la società? Partendo da una bella storia di una scoperta scientifica, che ha come protagonista un piccolo organello che vive nella cellula: il mitocondrio. Snobbato fino poco tempo fa, è tornato fortemente alla ribalta soprattutto da cinque anni, diventando uno dei più importanti argomenti di ricerca biomedica. E oggi capire la sua funzione e soprattutto i meccanismi di regolazione che i mitocondri hanno sul nostro organismo è più che mai strategico, da un punto di vista biologico, medico ma anche di trasferimento tecnologico. Lo sanno bene all'Università di Padova, dove su 210 grant ottenuti dall'Italia, tre sono proprio andati a questo ateneo, promosso coordinatore del progetto Mitocondrio. Un riconoscimento che ha già dato i suoi frutti: 10 i gruppi di ricerca, 80 pubblicazioni all'anno e l'avvio di collaborazioni con le imprese (si veda l'articolo nella pagina successiva). Ma perché c'è uno straordinario interesse verso questo organello? «Perché si è scoperto che oltre alle malattie mitocondriali di origine genetica, sono molte altre le malattie associate alla disfunzione del mitocondrio, da quelle neurodegenerative fino al cancro - racconta Rosario Rizzuto, a capo del dipartimento di Scienze biomediche sperimentali dell'Università di Padova - Ma ha anche uno stretto legame con l'invecchiamento, la modulazione dell'apoptosi, meccanismo centrale per l'equilibrio dell'organismo e con l'informazione delle cellule nervose e la contrazione dei muscoli, cuore compreso. Tutto questo certifica quanto il mitocondrio sia integrato nella rete dei segnali cellulari». Integrazione che risale a due miliardi di anni fa e che è frutto di un'affascinante storia evolutiva (si veda l'articolo sotto). «I mitocondri, per chi si occupa di evoluzione, sono delle superstar per varie ragioni. La principale delle quali è il fatto che questi organelli contenenti Dna batterico pullulano di mutazioni, e arrivano ad accumularle in maniera regolare. In questo modo diventano un metronomo, che usiamo per ricostruire l'albero della vita» racconta Telmo Pievani, professore associato al dipartimento di Biologia dell'Università di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche. Non solo. «Questi "invasori" - spiega il filosofo durante la round table organizzata da Nòva all'Università di Padova – che stavano in un posto dove non dovevano stare, sono nati per associazione, incorporati nella cellula che solo dopo questa "convivenza" diventa la cellula eucariotica». La conferma che l'evoluzione possa venire non soltanto per competizione, dove vince il più forte, ma che possa avvenire anche per una simbiosi, dove ci si mette insieme e ciascuno dei componenti perde una parte delle sue prerogative per dare origine a una struttura di maggiore complessità, è un insegnamento importante che la natura, nella suo volgere sempre alla sopravvivenza, ci consegna. Insomma non solo la cooperazione, ma anche un approccio aperto alla condivisione delle informazioni, in questo caso genetiche, ha sviluppato la crescita e la vita. Che è piena di connessioni in orizzontale. «Tutto il corpo umano è un condominio ecosolidale con ospiti che vivono in simbiosi con noi e che garantiscono il nostro benessere. Ecco perché oggi la simbiosi, la collaborazione è considerato un driver importante per l'evoluzione», conclude Pievani. Perché quindi non cogliere l'opportunità, come accadde due miliardi di anni fa, quando due piccoli mondi si sono fortuitamente incontrati dando origine alla vita come la conosciamo oggi. Ovvero un ingegnoso meccanismo di convivenze e collaborazioni che ha permesso agli esseri viventi di evolvere e crescere in una società multidisciplinare e solidale. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 5 Giu. ’14 QUIRRA, IL SUPERPERITO DEL GUP: «NESSUN DISASTRO AMBIENTALE» La relazione del professore Mario Mariani verrà discussa il 18 giugno in aula Non per il gusto di semplificare una materia più che ardimentosa, ma sono poche le parole necessarie a riassumere le settantanove pagine sottoscritte dal superperito Mario Mariani in merito ai veleni di Quirra: «Non siamo in presenza di un disastro ambientale». Lo scrive a pagina 18 della perizia depositata ieri mattina, il professore chiamato dal giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Lanusei, Nicola Clivio, ad accertare la presenza di sostanze chimiche, tossiche e radioattive e a giudicare l'operato dei ricercatori dell'Università di Siena e della Sgs che eseguirono un'indagine bio-chimica nell'area interna ed esterna al Poligono di Perdasdefogu. Esame superato per accademici e scienziati (almeno in base alle valutazioni del professore milanese) che insieme a militari e medici sono accusati dal procuratore della Repubblica Domenico Fiordalisi di aver preso parte al presunto disastro ambientale provocato dalle attività militari della base. IL TERRITORIO Sono serviti tredici mesi, 132 campioni e centinaia di test in laboratorio per stilare la cartella sanitaria delle zone in cui venivano fatti brillare gli ordigni, quelle intorno al perimetro di filo spinato e di alcuni campi campione del comune di Perdasdefogu. L'équipe di Mario Mariani è andata alla ricerca di metalli pesanti, uranio, torio e altri elementi tossici. Sia nei terreni sia nelle acque le quantità di metalli rientrano nella norma, fatta eccezione per l'arsenico i cui valori, però, «potrebbero essere dovuti al fondo naturale o ad altra causa antropica». TORIO E URANIO C'è un chiarimento di fondo nella stima di uranio e torio (i più pericolosi in base agli atti del pm): quella che doveva essere accertata non era la loro presenza nella forma naturale (entrambi sono disponibili su tutta la crosta terrestre), ma la loro forma artificiale, provocata cioè dall'attività dell'uomo, quella in grado di sprigionare radioattività. Il risultato di una serie infinita di calcoli è che siamo in «una condizione di totale sicurezza dal punto di vista radiologico». ALIMENTI SICURI Nella valutazione dei prodotti enogastronomici il perito si riferisce anche agli esami eseguiti dall'Arpas nel 2011 già inoltrati alla commissione della Difesa. Citando i tecnici della Regione, si ricorda che «si ritiene improbabile un rischio cancerogeno dovuto ad un consumo anche prolungato degli alimenti analizzati». Insomma, dalla superperizia pare che l'area dentro e fuori le mura della base militare sia passata indenne, o quasi, a decenni di sperimentazioni e guerre simulate. L'unica precauzione del professore riguarda il particolato, ovvero quell'insieme di nanoparticelle sprigionate dal calore delle esplosioni, che se inalate possono avere effetti nocivi. In questo senso arriva la raccomandazione di abbatterle con qualsiasi mezzo, anche con un semplice impianto di irrigazione. Va da se che la seconda parte del quesito posto dal gup, ovvero «potevano prevedere e usare precauzioni contro il disastro ambientale?» non trova spazio nella perizia che nega l'esistenza del disastro denunciato. Se la decisione sul rinvio a giudizio chiesto dal pm spettasse al perito, dunque, la lista degli indagati verrebbe già sfoltita parecchio. CERVELLI A CONFRONTO L'ultima parte della relazione è interamente dedicata al giudizio di accademici e scienziati che tra il 2002 e il 2011 hanno eseguito delle indagini biologiche e chimiche per valutare lo stato dei luoghi intorno al Poligono. Il lavoro consegnato al Ministero della Difesa dagli accademici dell'Università di Siena sotto la guida del professore Riccobono è stato valutato come «un compromesso ottimale per studiare una così vasta area, rispettando tutti i vincoli della convenzione». Diversa la situazione dei chimici della Sgs, la società che nel 2011 eseguì una nuova ricerca, stavolta per l'agenzia Nato-Namsa. Il procuratore li accusa di aver mentito sapendo di mentire. Il consulente del gup, invece, spiega che «la relazione di Sgs nel complesso soddisfa quanto richiesto dal contratto d'appalto» e che i dati che secondo l'accusa erano sospetti perché numericamente identici, sono il frutto di un calcolo scientificamente esatto. IL CASO SGS La società di certificazione ambientale con sede a Milano, ieri, è stata l'unica a muovere dei passi durante l'udienza gup che si è risolta con un rinvio al 18 giugno. Dall'inchiesta madre nata alla fine del 2011, infatti, il procuratore Fiordalisi isolò un filone tutto dedicato alla spa milanese. Nel registro degli indagati finirono sei ingegneri (tra loro anche Nobile e Fasciani, già accusati di falso ideologico in atto pubblico e ostacolo aggravato alla difesa da un disastro): l'ipotesi di reato era di turbativa d'asta, in riferimento al bando della Nato che poi la Sgs si aggiudicò portando a termine l'indagine biochimica del territorio (quella contestata da Fiordalisi). Nel marzo del 2013, lo stesso pm chiese l'archiviazione per quattro dei sei indagati e formulò per Nobile e Fasciani una nuova contestazione, identica a quella già ipotizzata nel fascicolo principale. Ieri i due procedimenti sono stati riuniti dal giudice Clivio su richiesta del difensore Giovanni Dallera. PASCOLI LIBERI La buona notizia del giorno è tutta per quattro pastori di Perdasdefogu che lo scorso anno vennero sorpresi a pascolare le loro greggi nelle aree che dovevano essere bonificate. Vennero denunciati per pascolo abusivo e intralcio alle operazioni di caratterizzazione. Ieri il gup li ha prosciolti. ____________________________________________________________ TST 4 Giu. ’14 DIECI BUONI MOTIVI PER DIRE SÌ AGLI OGM L'Imminente incontro dei ministri dell'Unione rischia di far saltare una politica sul biotech GiLBEILTO CORBETLINI UNIVERSITÀ LA SAPIENZA - ROMA singolare che l'Europa, dove è nata la scienza, ma soprattutto Mendel e generazioni di genetisti agrari che nel Novecento hanno salvato miliardi di vite stia per schiantarsi contro l'irrazionalismo politico anti-Ogm. L'accordo tra i ministri Ue previsto per la prossima settimana segnerà quasi di certo la fine della ricerca di una politica comune e ognuno deciderà come vuole sul proprio territorio. Non è un bel segnale per il futuro dell'Europa, che, se si disgrega su una questione così elementare, non ha più gli strumenti intellettuali per sopravvivere come entità politica. Eppure, ecco 10 fatti che sarebbe bastato riconoscere come veri per evitare di soccombere nell'economia agroalimentare globale. 1. Gli Ogm non sono meno naturali o più innaturali. I cibi derivano da piante o animali, cioè devono le loro caratteristiche commestibili e nutrizionali al Dna. Questi tratti sono il risultato di migliaia di anni di mutazioni casuali e incroci sessuali, su cui hanno lavorato la selezione naturale o quella artificiale. I geni non sono «cose pericolose» ma la base della vita e, poiché il codice genetico è universale, non è contro natura trasferire in condir zioni controllate geni tra organismi appartenenti a specie o regni tassonomici diversi. 2. Le tecnologie per fare Ogm sono più sicure. Il Dna è un sistema di memoria universale sempre meglio descritto dalla ricerca ed è lavorando nel rispetto della natura biochimica della vita che i ricercatori ottengono modificazioni o miglioramenti più controllati e sicuri di quelli che avvengono naturalmente o usando tecniche tradizionali. 3. Le tecnologie per fare Ogm sono più efficaci. L'ingegneria genetica ha messo sotto controllo quello che la natura fa senza alcun progetto, nel senso che usa metodi biologici esistenti o inventati per ottenere modificazioni genetiche d'interesse scientifico o commerciale, in modi più mirati e puliti. 4. Le procedure di controllo degli Ogm sono ~abili. La sicurezza di cibi e piante ingegnerizzati è garantita da controlli previsti a tutela della salute e dell'ambiente. Diversamente dai prodotti cosiddetti tradizionali e biologici, le modificazioni indotte nelle piante Ogm sono sottoposte a controlli caso per caso. Il sistema di regolamentazione europea è tra i più restrittivi. 5. II principio di precauzione blocca la ricerca. Sia per alimenti e piante ingegnerizzaci sia per cibi e piante ottenuti con metodi di coltivazione tradizionali, biologici o biotecnologici, non esiste un livello di sicurezza del 100%. Chiedere, come si fa sulla base del principio di precauzione, che si dimostri l'assenza di rischi prima di intraprendere un'innovazione tecnologica è irrazionale. Eventualmente il principio di precauzione andrebbe applicato all'agricoltura e ai cibi biologici'. 6. Non esistono prove che gli Ogm comportino rischi sanitari o ambientali. Gli Ogm e quindi quelli ottenuti con biotecnologie molecolari, insieme con i cibi irradiati, per ragioni igienico-sanitarie sono sottoposti in Europa a una valutazione tecnico-scientifica dall'Efsa (con sede a Parma). 7. Gli Ogm saranno le piante del futuro. Nel settore commerciale sono poche le piante geneticamente ingegnerizzate (mais, soia, cotone, colza, papaia, zucca, erba medica, barbabietola, pomodoro, pioppo, peperone e patata), ma molte sono in fase di sviluppo, mentre sono in arrivo riso e grano geneticamente migliorati. I principali tratti _modificati sono la resistenza a patogeni, parassiti ed erbicidi, utili per aumentare la sostenibilità delle produzioni, ma sono pronti tratti migliorati di tipo nutrizionale (come il golden rice con vitamina A e soia con omega-3) e altri per affrontare la resistenza alla siccità e migliorare gli effetti fertilizzanti. 8. Le biotecnologie possono valorizzare la biodiversità. Esiste una riserva mondiale di germoplasma (milioni di esemplari raccolti dalle stazioni sperimentali), che con le biotecnologie molecolari può essere esaminata per identificare e selezionare materiale genetico antico, con cui diversificare i miglioramenti, disponendo così di una maggiore variabilità genetica. 9. Gli agricoltori italiani sono ingannati e danneggiati. Non è costituzionale, in un Paese che riconosce la libertà d'impresa, vietare la coltivazione di piante che non presentano rischi per salute e ambiente. In ogni caso esistono metodi efficaci per assicurare la coesistenza tra coltivazioni tradizionali e Ogm. E' un controsenso che in Italia si importino prodotti, in particolare mangimi Ogm, perché sono di migliore qualità, per alimentare la filiera dei prodotti Dop e Igp, e allo stesso tempo si vieti la coltivazione di mais e soia Ogm che consentirebbe agli agricoltori di produrre gli stessi mangimi acquistati da Argentina e Brasile. 10. Gli Ogm sono preferiti perché migliori. I coltivatori nel mondo li scelgono sempre di più e l'unica motivo a preoccuparli sono le risposte del Mercato. Fino al 2013 la superficie coltivata con Ogm cresceva di oltre il 10% all'anno e si è arrivati a 180 milioni di ettari. E non è vero che i contadini indiani sono stati danneggiati dal cotone Ogm (il Bt): il problema che devono affrontare è la siccità, contro cui sia le varietà tradizionali sia quelle Ogm nulla possono. Ma il Bt assicura raccolti migliori. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 Giu. ’14 UNISS: TASSE D’ATENEO INVARIATE con sconti per i più bravi università» nessuna stangata di Andrea Massidda wSASSARI Almeno per il prossimo anno accademico la tanto temuta stangata delle tasse universitari non arriverà. Anzi, non solo si può considerare scongiurato l’aumento dei tributi di frequenza, ma addirittura per gli studenti più meritevoli sono in programma nuove premialità e i versamenti si potranno fare in tre rate. Ad annunciarlo è il rettore Attilio Mastino, che ribadisce come per ogni iscritto alle facoltà turritane l’importo da versare resterà in media di 500 euro (uno dei più bassi d’Italia) e che questa decisione è stata assunta dal consiglio d’amministrazione dell’ateneo nella speranza di raggiungere due obiettivi: non gravare esageratamente sulle famiglie degli iscritti proprio in un momento di profonda crisi economica, ma anche incoraggiare le immatricolazioni, in vistoso calo sin dal 2011. Le premialità. La nuova normativa non prevede pertanto alcun aggravio a carico degli studenti, ma al contrario diversi interventi migliorativi. «Ad esempio - chiarisce Mastino -, chi che nel corso dell’anno accademico maturerà almeno 40 crediti formativi su 60 avrà diritto a una riduzione di 50 euro sull’importo delle tasse». Si tratta di una misura premiale che si aggiunge a quelle che erano già a regime e che sono state confermate. Già ora, infatti, gli studenti che hanno conseguito il diploma di maturità con il massimo dei voti e che si iscrivono per la prima volta a corsi di laurea triennale o magistrale, per il primo anno sono esonerati dal pagamento della seconda e della terza rata di iscrizione. Non solo: gli studenti che conseguano il titolo finale con 110 e lode entro la sessione estiva dell'ultimo anno in corso, avranno diritto al rimborso della seconda e terza rata versata. Un altro piccolo ritocco in positivo riguarda l’importo dovuto per il rilascio della pergamena: da quest’anno il bollo da 16 euro è compreso nei 30 euro complessivi del contributo. «Per andare incontro alle famiglie - aggiunge il prorettore Laura manca - è stata riconfermata anche la ripartizione in tre rate della tassa dovuta». Ma come è stato possibile mantenere inalterate le quote d’iscrizione all’università? Mastino, a fine mandato, rivela il segreto con un certo orgoglio. «Abbiamo chiuso in attivo il bilancio 2013 - dice - e vorrei sottolineare che il Fondo di finanziamento ordinario è diminuito dagli 80 milioni del 2009 ai 68 del 2014. E nello stesso periodo il costo del personale è sceso da 80,5 a 68,9 milioni». Fuori corso. Ciò che emerge chiaramente da questi provvedimenti è che, dunque, l’impianto generale della contribuzione studentesca all’Università di Sassari mira ancora ad agevolare gli studenti meritevoli e quantomeno a scoraggiare i quelli inattivi e fuori corso. Una politica che pian piano sta dando i suoi frutti, se è vero che gli studenti “parcheggiati” sono passati dai 5.385 del 2011 (38,6 per cento) ai 4.815 (35,4 per cento), mentre i laureati tra il 2008 e il 2013 sono cresciuti di 220 unità, attestandosi a quota 2.083.Cresciuti, anche se di pochissimo, gli iscritti regolari attivi, cioè quelli che ottengono almeno 12 crediti all’anno (l’equivalente di un esame). Esenzioni. L’ateneo turritano ha inoltre deciso di estendere l’applicazione delle clausole di reciprocità previste dal programma Erasmus anche agli accordi bilaterali con le università e con gli istituti d’istruzione superiore dei Paesi del Nord- Africa e del Medio Oriente, assicurando l’esenzione da ogni tassa agli studenti della sponda Sud del Mediterraneo. Calo degli iscritti. Tutto perfetto? Non esattamente. Uno dei problemi che dovrà affrontare il successore di Attilio Mastino sarà quello del brusco calo delle immatricolazioni. Se non è allarme rosso, poco ci manca. Basti pensare che nel 2008 gli iscritti ai 51 corsi di laurea attivi erano 17.248, mentre il numero è sceso a quota 13.571. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 Giu. ’14 UNICA: IL BASTIONE INGOIATO DALLA STORIA La sede dell'Ateneo costruita nel Settecento sopra il Balice - Da barriera contro gli assalti nemici del XVI secolo a polo culturale Trovarlo non è facile. Nascosto alla vista dei passanti, il bastione del Balice sembra un fantasma ingoiato della storia, un luogo immaginario incastonato oltre piazza Yenne e via Manno. Chi volesse accertarne la reale esistenza deve necessariamente giungere in via Università e attraversare il palazzo dell'Ateneo. All'improvviso, lo avrà di fronte: alto, imponente, un tempo (XVI secolo) barriera contro le minacce e gli attacchi che arrivavano dal mare. Il Balice dovrebbe far parte (lo è talvolta, almeno nelle citazioni) dei percorsi turistici che comprendono le tappe classiche nel quartiere di Castello: i bastioni di Saint Remy e Santa Caterina, la chiesa della Speranza, l'antico Palazzo di città, la cattedrale, Palazzo Regio, la torre di San Pancrazio, la Cittadella dei musei, la basilica e il bastione di Santa Croce, il Ghetto, la torre dell'Elefante. Il Balice sta tra la torre dell'Elefante, il teatro civico e la Porta dei due leoni. XVI SECOLO Fu costruito all'inizio del Cinquecento quando (fra il 1552 e il 1571) fu prevista una nuova organizzazione difensiva della città, messa in opera dell'architetto cremonese Rocco Capellino: nel Castello venne realizzato il bastione di Sant'Antonio, con una parte della muraglia del Balice. Sebbene nel profilo della città svettino su tutto e tutti le torri di San Pancrazio e dell'Elefante, gli antichi bastioni conservano fascino urbanistico e importanza simbolica. IL RE Nel Settecento, per la riforma delle università sarde, il re Carlo Emanuele III immaginò un polo culturale (con al centro una nuova sede dell'Ateneo cagliaritano) e affidò la progettazione all'ingegnere militare Saverio Belgrano di Famolasco. Nell'area soprastante il bastione del Balice furono progettati il palazzo universitario, il seminario tridentino e un teatro. Il progetto originario rimase però monco: vennero realizzati solo i primi due edifici. La sede universitaria fu inaugurata nel 1770, il seminario fu concluso otto anni dopo e poi ceduto (nel 1955) all'Università. LE DEMOLIZIONI Persa l'antica funzione difensiva, nella metà dell'Ottocento le cinte bastionate, in linea con l'aria di rinnovamento che interessò buona parte delle grandi città europee, furono minacciate di distruzione. A Cagliari si cominciò con la demolizione (1856) della Porta Stampace, poi si proseguì nel quartiere di Marina. Più complicato intervenire nel Castello. Più che a demolire si pensò a trasformare: i bastioni diventarono belvedere. LA COMMISSIONE Del Balice e della stabilità del bastione si sono interessati di recente Comune e ambientalisti. Mentre la commissione Urbanistica ha dato il via libera alla approvazione definitiva della variante al Piano particolareggiato di sistemazione degli spazi verdi circostanti il quartiere Castello (delibera poi approvata dal Consiglio), gli ambientalisti hanno protestato. «La proposta progettuale», ha chiarito Andrea Scano, presidente della commissione Urbanistica, «porterà a una riqualificazione degli spazi di via Cammino Nuovo, attualmente adibiti ad area di sosta, in un parco pedonale attrezzato che favorirà nuove relazioni con lo spazio circostante ed in particolare il collegamento con il quartiere di Castello». Stretto il rapporto con l'Università, perché «al nuovo parco possa essere collegato anche il bastione del Balice, attualmente utilizzato come parcheggio per i dipendenti dell'ateneo, aprendolo alla collettività». Ad allarmare gli ambientalisti e molti residenti di Stampace e Castello (“a rischio la stabilità delle mura”) è il Sistema coordinato di parcheggi di scambio di via Cammino Nuovo, che consiste nella realizzazione di un ampio parcheggio interrato, articolato su tre livelli, con accesso dalla via Santa Margherita e che contribuirà alla pedonalizzazione del quartiere di Castello. Pietro Picciau ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 Giu. ’14 NUORO: UNIVERSITÀ PARALIZZATA DAI DIPENDENTI SENZA STIPENDIO - Quaranta lavoratori della cooperativa Ecotopia aspettano da otto mesi Hanno atteso, sperato, stretto i denti, magari mugugnato ma senza mai lasciare i posti di combattimento, nell'illusione che si iniziasse a intravedere qualche spiraglio. Ma, ora dopo otto mesi senza stipendio, per i 40 lavoratori di Ecotopia, cooperativa che garantisce diversi servizi all'Università di Nuoro, la misura è colma. Da settembre la coop non riceve i pagamenti delle fatture e perciò non può più pagare i dipendenti. Questi ultimi ieri mattina hanno restituito le chiavi del Consorzio universitario e da oggi incroceranno le braccia finché non otterranno risposte. BLOCCO TOTALE Si rischia la paralisi di tutte le attività. Gli operatori di Ecotopia si occupano della biblioteca accademica, delle segreterie dei corsi di laurea, del tutoraggio e del front-office. Oltre che delle fondamentali pulizie di uffici, aule e laboratori di ricerca della facoltà di Scienze ambientali e forestali: in via Salaris, a Sa Terra mala, a Carta Loi. Un bel guaio, in un periodo di esami, lauree e battute finali dei master. C'è il serio pericolo che lunedì studenti (il primo problema è quello igienico-sanitario) docenti e impiegati si trovino cancelli e portoni sbarrati. LA COOPERATIVA «La scelta di restituire le chiavi dei locali che ci erano state consegnate 20 anni fa», spiega la responsabile di Ecotopia Gina Loi, «non è certo arrivata con leggerezza. In tutti questi mesi siamo andati avanti cercando di fare il nostro dovere al meglio, ma ora non è proprio più possibile andare avanti. Questo è un tentativo estremo di uscire dall'impasse, ma se la situazione dovesse perdurare saremo costretti ad attivare le procedure di licenziamento. Ricordiamoci che stiamo parlando di circa 40 persone che non riescono più a pagare l'affitto, le bollette e che nonostante le difficoltà finora hanno continuato a lavorare senza stipendio per senso di responsabilità. Chiediamo al Consorzio solidarietà». Franca Guiso, portavoce dei lavoratori, aggiunge: «Siamo consapevoli dei disagi che creiamo, ma la disperazione è tanta, e ce ne prendiamo la responsabilità». IL CONSORZIO La delegazione, ieri, viene ricevuta da una dirigente, Luisa Mattu. «Comprendiamo tutte le ragioni e siamo vicini a questi operatori», dice, «ma confesso che confidavamo in una protesta più contenuta, un sit- in, ma non un fermo di questa portata. Mi prenderò questa fine settimana per riflettere sul da farsi. Purtroppo però temo saremo costretti ad attivare le procedure per la contestazione di interruzione di pubblico servizio. Con tutto ciò che ne consegue». Francesca Gungui ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 5 Giu. ’14 BONCINELLI: TESTA TONDA, GIOCHIAMO A DUBITARE Leggendo metropolitano Parla il genetista Coltiviamo dubbi solo perché il nostro cervello sa giocare , ovvero fare con gratuità cose che gli altri animali non fanno: porci domande, riflettere, creare. Se siamo quello che siamo è perché possiamo giocare, e perché abbiamo una bella testa tonda. Edoardo Boncinelli è un genetista, con un cuore che batte forte per i lirici greci e un grande ottimismo nella vita. Professore, noi siamo gli animali di una certa dimensione con la testa più tonda. Che cosa significa? «Apparentemente non molto. In realtà tantissimo perché noi siamo tutto cervello, con una cospicua corteccia, a differenza degli altri animali nei quali il cervello occupa solo una porzione del cranio. Questo significa che la nostra testa si limita quasi esclusivamente a contenere la grossa centrale di controllo delle nostre emozioni. Quando nasciamo è tondeggiante e grande come quella di un cucciolo di scimpanzè. Ma mentre il suo cervello è quasi completamente sviluppato, in noi non è nemmeno un quarto di quello che sarà solo dopo diversi anni di vita». È un vantaggio? «All'inizio è uno svantaggio perché non siamo buoni a nulla. Poi diventa un vantaggio perché il nostro cervello cresce e matura a occhi aperti, orecchi aperti, in contatto con il mondo. E quello che impariamo allora resta indelebile. Il cervello degli animali invece conosce solo ciò che gli comunica il suo patrimonio genetico». Il risultato di questa evoluzione ci dice che noi abbiamo alcune parti della corteccia libere da impegni biologici pressanti. Che cosa facciamo? «Fino a 60 anni fa si sapeva poco e si parlava di “lobi silenti”. In realtà svolgiamo tante attività: improvvisiamo, inventiamo, creiamo e giochiamo, tutte cose non necessarie ma che fanno la differenza tra noi e gli animali. In senso lato quasi tutto quello che fa il cervello dal punto di vista biologico è un gioco, è gratuito, non ci sono obblighi. Noi siamo quello che siamo perché possiamo giocare». Se nel nostro cervello c'è scritto tutto, dove nasce il dubbio? «Non è vero che ci sia scritto tutto e come minimo deve essere interpretato. Il dubbio nasce dal gioco. Gli animali hanno l'istinto che noi governiamo e teniamo sotto controllo. Solo noi possiamo porci domande, quindi coltivare il dubbio». E la coscienza? «Prima di tutto non sappiamo se l'abbiamo solo noi. Ma la coscienza è la capacità di riflettere, calcolando, ipotizzando: è l'anticamera della memoria». L'idea di Dio. Impossibile da dimostrare scientificamente. È un bisogno della nostra fragile libertà? «Parliamo di Dio perché siamo orfani dell'istinto. Dobbiamo avere un'altra istanza alla quale fare riferimento, una serie di principi che lo sostituiscano». Esperienza, conoscenza, emotività. Lasciano tracce sui geni? «Sui geni di sicuro no. Certamente sul nostro cervello. Noi siamo la nostra esperienza, la nostra emotività. Se così non fosse dovremmo dire che chi nasce in una famiglia “sbagliata”, avrà nella sua vita tutto sbagliato. E non è così». Uomo-donna. Le differenze genetiche sono nel nostro cervello? «Geneticamente no. Le teorie sulle differenze sono campate in aria. Siamo uguali, ci sono differenze ormonali che acquisiamo quando siamo ancora nella pancia della mamma. Ma nulla di più». Lei è un appassionato grecista. Ha scritto “I miei lirici greci. 365 giorni di poesie”. Ricorda quella di oggi? «Assolutamente no, ma è estate e sarà sicuramente un qualcosa che parla d'amore. Saranno versi di Saffo, la mia preferita». Lei ha scritto “Poema cosmogonico”. «È un poema lungo, cospicuo, ponderoso, circa 300 pagine. Come tutti i poemi crea un mondo dove si intrecciano filosofia, scienza, sentimenti di tutti i giorni. Ci sono 100 poesie, alcune serie, altre più dolci. Io mi sono divertito molto a scriverlo». Lei è un uomo di scienza. La formazione classica in che modo l'ha aiutata? «Certamente sono un uomo di scienza. Ma come posso rispondere? Di certo io sono contento così e non mi cambierei». Ci sono libri che rilegge? «Mi è molto faticoso rileggere ma se lo faccio rileggo classici, Manzoni, Dante e Shakespeare. Con il filosofo Giulio Giorello abbiamo scritto un libro dedicato a Shakespeare, per i 450 anni dalla nascita. Io ho parlato di Amleto e lui di Cleopatra». I versi più amati? «Impossibile rispondere. Mi piace molto “Essere o non essere”. È un capolavoro che parla di problemi che abbiamo tutti o che abbiamo avuto tutti». La scienza ci ha aiutato a diventare sempre più vecchi? «Io ho 73 anni e mi sento giovanissimo. Certo, essere vecchi significa essere esposti a malattie terribili come l'Alzheimer che cancella l'identità di una persona. È un mondo diverso. La mia scelta è stata scrivere e viaggiare. Mi piace questa stagione perché sono libero da impegni ai quali non potevo derogare». Che cosa le fa paura? «Non è una mia emozione. Io sono un ottimista e vedo andare sempre tutto per il meglio». La scienza in Italia. Come sta? «La fisica bene, grazie al Cern di Ginevra. La biologia un po' meno. Vedo molti giovani andare via e questo va bene, ma non tornare indietro e questo va un po' meno bene». Ottimista anche su questo? «Sono ottimista per il mondo, un po' meno per l'Italia». Caterina Pinna ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 3 Giu. ’14 È UN CAGLIARITANO IL MIGLIORE DI YALE Fabio Manca Conquistare Yale battendo la concorrenza di 28 mila studenti di tutto il mondo è difficile. Risultare tra i migliori tutti gli anni lo è di più. Laurearsi summa cum laude e onori in Biologia cellulare molecolare ed evolutiva in una università che ha sfornato capi di Stato, premi Nobel e manager di multinazionali è l'apoteosi. Enrico Ferro, ventiduenne cagliaritano, ci è riuscito il 19 maggio scorso al termine di un percorso ricco di soddisfazioni e riconoscimenti. L'ultimo lo ha ricevuto il giorno della cerimonia di laurea quando ha saputo di essere il vincitore del premio Alpheus Henry Snow, che viene assegnato allo studente dell'ultimo anno di corso che si è distinto per una combinazione di eccellenti risultati accademici, carattere e personalità «tali da risultare fonte di ispirazione per gli altri studenti, stimolando in loro la passione per il sapere». Del resto è così che nelle migliori università americane e del mondo motivano gli studenti. Mettendo a loro disposizione per 24 ore al giorno, 7 giorni su 7 - in cambio di rette non inferiori a 50 mila dollari - un esercito di mentori e tutor, alzando costantemente l'asticella degli obiettivi «e ricordandoti in ogni momento che non sei mai arrivato e devi sempre dimostrare il tuo valore», spiega. Non solo nello studio ma in tutti i campi. Perché per avere sempre il massimo dei voti (il peggiore che Enrico Ferro ha preso nella sua carriera a Yale è stato un A-, l'equivalente di un 10-) devi eccellere nel profitto, nello sport, nella musica, nel volontariato. E possibilmente, come nel suo caso, arricchire il curriculum con esperienze all'estero. Infatti mentre frequentava l'ateneo di New Haven, lo studente cagliaritano è stato a Lima, in Perù, per approfondire le influenze dell'alcol sulle cure per l'Hiv presentando poi i risultati a una conferenza internazionale dell'Aids society. Per le stesse ragioni è stato a Kuala Lumpur, in Malesia, mentre in Togo e in India ha sviluppato un programma di educazione sanitaria: «Riguardava l'importanza di lavarsi le mani o bollire l'acqua prima di berla, una cosa per noi scontata ma non per i paesi in via di sviluppo, con conseguenze gravissime sulla loro salute. Non a caso lavarsi le mani è considerata la più importante scoperta scientifica degli ultimi duecento anni». Yale gli ha insegnato ad avere una grande capacità critica e di analisi. «Ti insegnano che se non ce le hai non sei nessuno perché la conoscenza è già nei libri, è tutto già scritto. Tu devi aggiungere qualcosa, sei lì per questo», racconta. «Ti spronano a riconoscere i tuoi punti di forza, le tue debolezze, a sviluppare le tue capacità di leadership ma nel contempo a essere sempre umile, a rispettare nello stesso modo la segretaria e il grande statista». I suoi record accademici gli hanno fatto guadagnare un posto d'onore alla Phi Beta Kappa, un'associazione studentesca, la più antica in America, fondata nel 1776 con intenti prevalentemente culturali, dove si viene accolti solo se si raggiungono ragguardevoli risultati accademici. «Una delle cose che mi ha colpito del sistema americano è che ti educa a sviluppare un senso di riconoscenza verso la tua università. Loro investono su di te, ti danno tutto, contribuiscono in modo determinante ai tuoi successi ma fanno in modo che tu ti senta sempre uno di loro e condivida anche materialmente la tua fortuna. È per questo che del consiglio direttivo di Yale fanno parte personaggi come il segretario di Stato John Kerry o l'ex ambasciatore Usa in Italia David Thorne oltre a manager di grandi multinazionali e presidenti della Corte suprema. Gente che non solo partecipa alla gestione e allo sviluppo dell'università ma fa cospicue donazioni ogni anno». Enrico Ferro è sempre stato il migliore della classe. Ma è anche un bravo tennista, ha giocato a pallanuoto, ha buoni tempi nel nuoto, suona il pianoforte, la chitarra e il basso, parla perfettamente l'inglese e lo spagnolo, ha fatto esperienze di volontariato. Quattro anni fa, mentre collezionava nove e dieci in tutte le materie al liceo scientifico salesiano Don Bosco, ha avuto il tempo di superare 50 tra esami e test durissimi ed un colloquio. È per questo che ha vinto la concorrenza di 28 mila studenti da tutto il mondo ed è stato uno dei 12 europei e dei due italiani che sono stati ammessi a Yale. Nell'ultimo anno ha studiato, e molto, anche per essere ammesso alla scuola di Medicina, il passaggio successivo al baccalaureate , simile alla nostra laurea breve. Un percorso complesso ed estremamente competitivo. Soprattutto se, come lui, non si punta a una facoltà pubblica ma a una delle 15 scuole più esclusive degli Stati Uniti come Stanford, Northwestern, John Hopkins o Harvard in ciascuna delle quali vengono ammessi non più di cento studenti da tutto il mondo. Inutile dire che Ferro è stato scelto da tutte le università alle quali ha presentato domanda (il percorso è raccontato nell'articolo sotto) ma ha scelto Harvard dove dalla fine di agosto si trasferirà. In questi anni i suoi obiettivi sono cambiati. «Quando sono arrivato a Yale pensavo di studiare medicina per curare le persone, ora ho deciso di occuparmi di salute globale un campo dove ai fattori clinici bisogna unire conoscenze in campo economico e politico. Le racconto un aneddoto: sono stato alla conferenza mondiale sull'Aids. Lì è emerso che finalmente anche i pazienti meno malati possono ricevere il trattamento con farmaci antiretrovirali. Ma l'Organizzazione mondiale della sanità non ha i soldi per farlo. Occorre trovarli. Morale: per migliorare la salute globale non basta la conoscenza clinica, servono milioni di medicine in più, bisogna trasportarle in Africa o nei paesi musulmani che non le accettano. Sono problemi complessi da affrontare e risolvere. Ecco, questo è ciò che farò nella vita». «Ecco come sono stato ammesso ad Harvard» IL RACCONTO. Il neo dottore spiega il lungo percorso per entrare nel prestigioso ateneo «Il percorso per l'ammissione alla scuola di medicina ad Harvard e nelle altre università statunitensi è lungo e complesso e dura nove mesi. Ma in realtà l'acquisizione dei titoli e e delle esperienze necessarie per diventare competitivi nel processo di ammissione richiede non meno di tre anni di lavoro. Di solito sono i primi tre del college ma sono sempre di più gli studenti che spendono uno o più anni sabbatici per rafforzare il proprio curriculum in vista della competizione per entrare in una delle prestigiose università degli Usa. Per potersi immatricolare in una scuola di Medicina, gli studenti devono aver conseguito il baccalaureate e aver superato una serie di esami di Chimica organica, Fisica, Biologia e Inglese che costituiscono il percorso accademico di pre-medicina. Ognuno di questi corsi dura un anno ed è associato a un laboratorio di uguale durata. I voti ottenuti al college sono importanti per filtrare i candidati tra i settemila studenti che cercano di entrare nelle migliori università. Ma contano anche attività extracurricolari come ricerca in campo biomedico, volontariato e sport, visto che si ritiene che uno sport di squadra sia propedeutico alla preparazione di un lavoro d'equipe. Un ulteriore requisito accademico è il Medical college admission test, un esame di oltre tre ore diviso in tre sezioni. Quella di scienze fisiche include chimica organica e fisica con 52 quesiti da risolvere in 70 minuti. Idem per la sezione delle scienze biologiche, che comprende biologia e chimica organica. Nella sezione del ragionamento verbale ci sono 40 domande a cui rispondere in un'ora per le quali non bastano nozioni teoriche ma occorre essere in grado di integrare nel momento le proprie conoscenze con le informazioni contenute in alcune riviste che vengono consegnate. Agli studenti viene chiesto inoltre di individuare professori e mentori che li presentino. Ma questo è solo l'inizio. Ogni studente deve presentare una domanda “primaria” di 15 pagine a cui deve essere allegata una lettera in cui ci si racconta. Poi è richiesta una domanda secondaria che contiene altre lettere motivazionali. Dei 7000 studenti che completano questi passaggi, circa 500 vengono scelti da ogni università e vengono chiamati a sostenere un'intervista che dura un giorno. Circa 100 vengono ammessi in ogni ateneo. Considerate le scarse possibilità di ingresso, è opportuno presentare domanda in almeno 10-15 scuole». Enrico Ferro ____________________________________________________________ Corriere della Sera 2 Giu. ’14 LA PARABOLA DEL DENTISTA ALLA RICERCA DELL’INFINITO Ferris: sono ateo, ma affascinato dalla religiosità Odontoiatria e religione: un binomio poco esplorato in letteratura (e anche in generale, scommetteremmo), un accostamento bizzarro e dissacrante, perfetto per uno scrittore scalmanato come Joshua Ferris, che fin dal suo fulgido esordio — E poi siamo arrivati alla fine (Neri Pozza, 2006) — ha messo al centro della sua produzione un miscuglio esplosivo di umorismo, disperazione, genialità e monomanie. Narratore e protagonista incontenibile del suo terzo romanzo, Svegliamoci pure, ma a un’ora decente (Neri Pozza), è il dentista Paul O’Rourke, scapolo, stacanovista, in lotta perenne con tutto ciò che riguarda la modernità, scettico verso ogni forma di fede, ma sotto sotto alla ricerca di qualcosa di più grande e nobile a cui appartenere. L’Ebraismo, il Cattolicesimo e l’Amore, tentativi di adesione che ha fatto in passato ma che sono tutti falliti, hanno lasciato un cratere insoddisfatto nel suo cuore, che lui ha riempito con la dedizione alla pratica ambulatoriale. «Quando curavo una carie o un canale radicolare o estraevo un dente insanabile, mi capitava di pensare: questo si sarebbe potuto evitare. Ricadevo nella mia visione cinica della natura umana: non si lavano i denti, non usano il filo interdentale, non hanno cura di sé. (…) Ma se si lavavano i denti e usavano il filo interdentale e perdevano lo stesso un dente, allora dovevo dare la colpa a qualcos’altro, e com’era prevedibile puntavo il dito contro la natura crudele o un Dio indifferente». Guardando la vita attraverso gli occhi straordinariamente vivaci di Paul O’Rourke, non si nota troppa differenza fra il credere in un salvatore ultraterreno e il credere nell’odontoiatria: entrambi sono sistemi di dogmi e riti, ma una corretta igiene orale ha almeno il pregio inequivocabile di prevenire l’infarto. E tu, Ferris? Usi il filo interdentale con regolarità? «Ogni giorno, dal 1996. Ho delle gengive molto difficili e senza filo sarei già morto». Com’è nata l’idea di uno studio dentistico e come hai raccolto l’infinità di dettagli tecnici sparpagliati per il libro? «Mi piacciono gli strumenti luccicanti e le macchine da tortura degli studi dentistici. Volevo un personaggio che potesse tenerli in mano e giocarci, e volevo capire il loro funzionamento. Sono stato anche ispirato dal documentario Best Worst Movie (che racconta il destino degli attori di uno dei film considerati più brutti della storia, ndr ), dove compare un dentista adorabile. La ricerca, poi, è stata semplice. Ho guardato filmati di procedure odontoiatriche su YouTube e preso appunti ogni volta che andavo dal dentista». Mi sembra che tu abbia una predilezione per gli ambienti chiusi: l’ufficio di «E poi siamo arrivati alla fine», la casa di «Non conosco il tuo nome» e lo studio dentistico qui. «Quando scrivo “studio dentistico” oppure “cubicolo dell’ufficio”, quasi ogni lettore capisce immediatamente dove si trova. In luoghi così familiari posso far muovere qualunque cosa e il lettore riesce a figurarsela senza fatica. È un modo efficace per rappresentare l’inusuale o l’incredibile». Il libro è diviso in due parti. La prima è dominata dalla lunga invettiva del dottor Paul O’Rourke. Odia quasi tutto ciò che caratterizza la vita contemporanea, dai teatri di Broadway alla «nuova religione» del cibo a New York, dalla religione in generale alle passeggiate notturne, e poi la sensazione umida della crema idratante sulla pelle... «Odia veramente tutte queste cose? O piuttosto le desidera, ma non riesce a capire che, per ottenerle, dovrebbe lamentarsi di meno e dimostrare maggiore iniziativa? Paul doveva essere molto alienato perché io potessi raccontare con forza il suo risveglio religioso e renderlo qualcosa di più assoluto di una noiosa esperienza mistica». D’altra parte, Paul ama luoghi che la maggior parte degli adulti del suo ceto detestano, come i centri commerciali. «Questi spazi morti, questi terribili luoghi di mezzo dove non accade nulla e tutti appaiono disperati e persi sono un test efficace del proprio carattere. Se riesci a essere felice in quei purgatori, allora puoi esserlo ovunque». Il padre di Paul si è suicidato e lui sembra avere ereditato la sua tendenza alla depressione. Mi sembra che anche «Non conosco il tuo nome», il tuo romanzo precedente, potesse essere letto come una metafora sulla depressione, o più in generale sul disagio psichico. «No, il punto centrale per me è sempre il piacere. La lingua, l’umorismo, i personaggi, le immagini, la stranezza della storia... voglio che diano il maggior piacere possibile. Soltanto dopo il piacere mi preoccupo del tema, che è così importante per gli insegnanti e i club di lettura, ma di poco conto per me. Credo ci siano tante cose deprimenti che dobbiamo superare se vogliamo raggiungere una certa misura di soddisfazione, o di pace, e voglio mostrare come possiamo farlo». Paul bambino, dopo il suicidio del padre, non riesce a dormire, passa le notti a domandare alla madre se è sveglia anche lei. È un passaggio molto commovente del libro, che ricorda l’inizio della «Recherche». «Quella parte della storia è completamente autobiografica. Dopo il divorzio dei miei genitori non riuscivo a dormire e chiamavo ripetutamente mia madre durante la notte. Non era piacevole per nessuno». Descrivi sempre le figure femminili — anche nei libri precedenti — come più forti, più determinate e solide delle loro controparti maschili. Addirittura, a volte sembrano esistere proprio per contenere tutte le inadeguatezze e le ansie degli uomini. «Gli uomini forti sono più forti delle donne deboli, ma le donne forti sono molto più forti degli uomini forti. Ed è una fortuna per me che le donne forti abbiano un debole per le inadeguatezze degli uomini forti». Dopo l’invettiva di Paul comincia la seconda parte, che ruota attorno alla fede. Paul rievoca le sue due importanti storie d’amore, entrambe finite male, e viene fuori che si fondavano soprattutto sul bisogno di una famiglia, di un’appartenenza a qualcosa, proprio come accade per la religione. Eppure, la religione nel romanzo esclude molto più facilmente di quanto non includa. «Le Religioni con la R maiuscola sono state uno spettacolo di orrore, la causa di guerre, oppressione, pregiudizio e crudeltà. Coloro che non volevano convertirsi alle religioni predominanti venivano prima puniti sulla terra e poi condannati all’inferno. Tuttavia, a un livello più locale, quello di un uomo che si confronta con l’infinito, o di un gruppo di credenti riuniti in una funzione, a quel livello trovo la religione attraente, piena di mistero e di amore. Come ateo, ho una tensione verso questa sorta di comunione intima». Il sapore biblico che si ritrova spesso nel libro è anticipato dal titolo originale, «To Rise Again at a Decent Hour». «L’hai detto tu. Un sapore biblico». Nel romanzo compare anche una nuova religione, quella degli ulm, che professano la necessità del dubbio. Dio stesso ha raccomandato loro di dubitare della propria esistenza, così hanno fondato una religione basata, paradossalmente, sull’ateismo. Ciò che è molto interessante è come questo dogma non sia né più né meno coerente di quelli delle Reli gioni-con-la-R-maiuscola («Mio caro amico, fin dall’inizio dei tempi la gente ha creduto con tutto il cuore e tutta l’anima alle affermazioni più inverosimili»). «Gli ulm sono un’invenzione. Sono comparsi per confortare gli atei, il cui scetticismo ha privato del calore della comunità. L’ateismo è la meno compresa fra le religioni. Per esempio, io non sono un ateo praticante. Che cosa significa questo? Dobbiamo ampliare la definizione, «ateo», a significati più ampi, alle contraddizioni, alle sottigliezze. Camus scrisse che il segreto dell’universo era immaginare Dio senza l’immortalità dell’anima. Quando gli chiesero di spiegarsi meglio, disse: “Ho un senso del sacro e non credo in una vita futura, tutto qui”». Gli ulm sono descritti come «gli Ebrei degli Ebrei». E il romanzo si avventura spesso in riflessioni dettagliate e controverse sulla Shoah, sul modo che abbiamo di farci i conti, riflessioni spesso venate di ironia. «Ho inventato “gli Ebrei degli Ebrei” da non-ebreo, come qualcuno che vede una ricchezza nella tradizione ebraica e ammira diversi ebrei, sia osservanti che no. È la prospettiva di un outsider che guarda l’invidiabile comunità di chi condivide un pensiero». Non avevi paura di spingerti in quel territorio? «Certo che ne avevo. Ero spaventato a morte». Credi che oggi un profeta si manifesterebbe sul serio via Internet? «Molti profeti minori lo fanno già. Veicolano il loro messaggio con più efficacia di un tempo. Se penso che questo possa accadere su larga scala? Sono ancora stupito che sia successo altre volte su larga scala, perciò ne sarei sorpreso ancora. Sorpreso ma non sconvolto». Scrivi: «Un uomo è pieno di cose che semplicemente non si possono twittare». Includere Internet e la tecnologia in generale nella narrativa è una delle sfide più difficili. Tu riesci a farlo qui in modo molto naturale e consistente. «Rassegnazione. Se vogliamo parlare del mondo reale nei nostri libri, dobbiamo usare i termini del mondo reale. Altrimenti le nostre finzioni saranno soltanto posate sulla superficie delle cose, non diventeranno mai qualcosa di più di parabole e allegorie, e verranno presto dimenticate». Paul sostiene che al giorno d’oggi «i connessi diventano più connessi mentre i disconnessi diventano più disconnessi». «Internet, in quanto prodotto umano, è ovviamente pieno di persone tristi e miserevoli, che si sentono disconnesse nonostante l’inclusività della piattaforma. Per fortuna io sono fra i connessi. Ma non utilizzo i social media per sentirmi connesso. Uso la mia grande bocca e le mie braccia spalancate». Ci elenchi alcune cose che ti sono piaciute nell’ultimo anno, in libreria, al cinema, in televisione? «Mi è piaciuto un romanzo di Zachary Lazar intitolato I Pity the Poor Immigrant , sul gangster ebreo Meyer Lansky. Mi è piaciuta La grande bellezza . Mi è piaciuta House of Cards . Mi sono piaciuti l’album Lost in the Dream di The War on Drugs, quello di St. Vincent chiamato St. Vincent e Trouble Will Find Me di National». Come vivi la trasformazione rapida nel mondo dell’editoria? «L’umore è turbato negli Stati Uniti. Anche fra gli scrittori c’è la convinzione che i romanzi stiano seguendo il destino della poesia. Avremo presto un pubblico molto ristretto e specializzato, si dice. Scriveremo l’uno per l’altro. E se anche fosse vero? Bene così». ____________________________________________________________ TST 4 Giu. ’14 I QUANTI CI CAMBIANO Non è più solo teoria A Torino i maggiori esperti della disciplina Dai computer ai radar, le meraviglie possibili MARCO PIVATO Per eseguire la fattorizzazione di un numero di 100 cifre un computer classico ci metterebbe un tempo pari a quello della vita dell'Universo. A un computer quantistico basterebbero pochi minuti. È un esempio che fa capire la portata delle applicazioni della meccanica quantistica senza entrare nelle complesse maglie della fisica teorica. Se ai tempi dei suoi increduli pionieri - come Max Plank, Niels Bohr, Werner Heisenberg, Erwin Schródinger o Albert Einstein - la quantomeccanica si prestava solo a esperimenti mentali, per altro complicati anche per gli stessi padri, oggi ci dà la possibilità di affrontare esperimenti reali: se ne è parlato a Torino, al workshop internazionale «Quantum - -Advances in foundations of quantum mechanics and quantum information with atoms and photons», con 200 scienziati da tutto il mondo e organizzato in collaborazione con l'Inrim - l'Istituto nazionale di ricerca metrologica - e l'Università di Bari. Marco Genovese, responsabile del programma di ottica quantistica dell'Istituto torinese, insiste sull'epocale passaggio - per così dire - dalla teoria alla pratica della fisica che si occupa dei quanti: «Quello che fino a pochi anni fa era abbordabile solo dalla speculazione e dalla matematica oggi è visibile in tutte le opportunità tecnologiche che la fisica quantistica ci offre. Ciò è possibile perché siamo nell'era in cui non solo possiamo immaginare le particelle che compongono i mattoni dell'Universo, ma riusciamo anche a manipolarle». E non parliamo unicamente dei progetti come il Large Hadron Collider del Cern di Ginevra, che pure è stata una delle prime occasioni in cui la fisica teoria si è fatta sperimentale, ma anche di applicazioni spendibili nel settore commerciale e militare. Prendiamo il campo della crittografia, la tecnica che accresce la sicurezza di un messaggio o di un «file», codificando il contenuto in modo che possa essere letto solo da chi possiede la chiave corretta. Se, per esempio, si effettua un acquisto su un sito web, le informazioni della transazione (come indirizzo, numero di telefono e numero di carta di credito), sebbene crittografate, sono comunque intercettabili. Non più, però, se si sfruttano le peculiari leggi della fisica quantistica. È possibile perché, addentrandosi nella ragnatela delle particelle che permeano l'Universo, si utilizzano proprietà davvero esotiche. Succede anche con i sistemi radar di nuova generazione. «Sfruttando le onde radio, possiamo individuate oggetti fissi' e in movimento a lunghe distanze - dice Genovese - ma, se ci sono condizioni di eccessivo disturbo, il radar classico finisce per confondersi. Un problema che non si manifesta, invece, con il "quantum radar", che riesce ad andare oltre il rumore di fondo». Una super-prestazione non dissimile dalla «quantum illumination», la tecnica in grado di rilevare anche le presenze più rarefatte degli inquinanti atmosferici. Nuove realtà che si spalancano a un secolo dalle teorie che provocarono una «crisi di governo» nella comunità scientifica, abituata alle rassicuranti leggi della fisica classica. Chiusa l'era dei dubbi, come quelli di Einstein, che inizialmente considerò le bizzarrie della nuova fisica al pari di transitorie suggestioni dei colleghi più giovani, è ora di fare il punto su una complessa eredità: e infatti la meccanica quantistica, al di là delle applicazioni presenti e future, ci conduce verso la comprensione ultima del mondo, quello dell'infinitamente piccolo, e quello dell'infinitamente grande delle galassie più lontane, insieme con la natura del tempo e i primordi dell'Universo. Un grande abbraccio, in cui le domande fondamentali si uniscono ai fantascientifici servizi per la vita quotidiana del XXI secolo. ========================================================= ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 8 Giu. ’14 L’ASSESSORE ARRU ATTACCA: «NO AL TAGLIO DELLE ASL» Al convegno organizzato dal Pd anche il sottosegretario Vito De Filippo: «Molto positivo l’investimento sul San Raffaele, il governo farà la sua parte» CAGLIARI La sanità diventa centrale nelle politiche della giunta regionale e l’assessore Luigi Arru lo ha testimoniato ieri in un convegno organizzato dal Pd a Caglliari. Sanità da riformare sotto la spinta di due fatti nuovi: il cambio delle regole del patto di stabilità che impone di recuperare risorse anche dalla sanità e l’apertura del San Raffaele di Olbia. «Ho trovato una situazione sicuramente drammatica nella sanità sarda in cui il problema non sono solo i soldi ma anche la necessità di programmare e pensare un sistema», ha sostenuto Luigi Arru al convegno sul patto per la salute organizzato a Cagliari. Per l’assessore è indispensabile puntare a un «Laboratorio Sardegna» e far funzionare al meglio l’Agenzia sanitaria regionale per imprimere una svolta all’intero sistema. L’assessore Arru è invece dubbioso sull’efficacia del taglio delle Asl per quanto riguarda il risparmio nella spesa. «Su questo punto, (il ridimensionamento delle Asl, Ndr), non abbiamo risposte univoche e dobbiamo invece valutare cosa è davvero utile fare», ha spiegato l’assessore. «Abbiamo sicuramente bisogno di strumenti che misurino costantemente la qualità della nostra sanità. Non basta essere bravi tecnici: bisogna invece fare buona politica e garantire il diritto alla salute in un sistema pubblico che funzioni davvero e», ha concluso Arru, «abbiamo cinque anni e spazi di manovra sufficienti per raggiungere questi obiettivi». Al convegno di Cagliari, il sottosegretario al ministero della Salute, Vito De Filippo, spiega: «Rinunciare a un’occasione come quella del San Raffaele per paura dell’impatto con la realtà ospedaliera regionale sarebbe assurdo, bisogna invece mettere in campo tutti gli strumenti perché gli effetti siano solo positivi». A giudizio di De Filippo, un annuncio così importante, di un investimento tanto corposo in una fase in cui non si investe più in Italia è una cosa straordinaria, come dice Renzi», ribadisce l’esponente del governo. «Ovviamente, nel sistema della sanità gli investimenti hanno impatti e producono effetti importanti anche di riorganizzazione della rete sul territorio regionale, come questo investimento prevedibilmente potrà determinare», dice De Filippo secondo il quale «il lavoro che ora bisogna fare fra governo e Regione è trovare tutti gli elementi perché questo investimento produca effetti solo virtuosi e positivi». Al convegno organizzato dal Pd a Cagliari l’esponente del governo Renzi ha concluso: «Penso comunque», conclude il sottosegretario, «che noi non possiamo rinunciare a un’opportunità del genere, perché sarebbe doloso e controproducente per l’Italia non accoglierla, affiancarla e tutelarla con tutti gli strumenti possibili». Sull’argomento, senza entrare nel merito della questione, l’assessore alla Programmazione, Raffaele Paci, ha spiegato: «Si può essere d’accordo o meno e io mi auguro che si dica di sì al San Raffaele ma è importante il nostro metodo. Noi facciamo un cronoprogramma e diciamo all’imprenditore: ti daremo risposta definitiva attraverso determinate scadenze. Mi auguro che la risposta sia un sì per poter attrarre investimenti e dare un segnale che in Sardegna si può fare intrapresa». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 2 Giu. ’14 IL CONSIGLIERE DI FI CHIEDE CHE I PICCOLI PRESIDI DI PROVINCIA NON SIANO SACRIFICATI A FAVORE DELLA SANITÀ DI CAGLIARI E SASSARI Gli ospedali di periferia non si toccano. Il consigliere regionale di Forza Italia Ignazio Locci non ha dubbi: «Mi impegnerò per evitarne la chiusura e mi auguro che il presidente Pigliaru e l'assessore alla Sanità Arru si esprimano in difesa del diritto dei sardi ad avere una sanità di prossimità». Locci teme che «i professori della Giunta vogliano sacrificare piccoli ospedali di provincia come quelli di Carbonia, Iglesias, Muravera, Ozieri, Ittiri, Sorgono, Ghilarza, San Gavino, Isili, Alghero o Lanusei, a favore dei grandi di Cagliari e Sassari, peraltro raggiungibili in modo tutt'altro che agevole dai paesi di provincia, considerato lo stato di degrado delle infrastrutture stradali». E fa notare che quando si parla di sanità di periferia in Sardegna si fa spesso riferimento «a centri d'eccellenza che non possono soccombere sotto la spinta di gelidi calcoli ragionieristici». Per il momento - spiega l'esponente di Forza Italia - «non fa ben sperare la proposta di legge sulla riorganizzazione della sanità regionale avanzata dai due consiglieri del Partito dei Sardi Augusto Cherchi e Piermario Manca». Una proposta, secondo Locci, «che nel prevedere la diminuzione di aziende sanitarie, cancella di fatto i centri di direzione periferica». Ancora oggi comunque - conclude Locci - «non si capisce quali soluzioni abbia in cantiere la Giunta Pigliaru. Sappiamo solo che sono in ballo continui controlli ai conti del sistema sanitario, tra l'altro già in ordine, e ulteriori razionalizzazioni dei servizi. Risultato: meno posti letto e riduzione del personale negli ospedali». R. M. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 5 Giu. ’14 SAN RAFFAELE: IL GRAN GIORNO DELLO SCEICCO LA VISITA. L'esponente della famiglia reale del Qatar è a Cagliari da ieri pomeriggio San Raffaele: vertice con il presidente Pigliaru, poi a Olbia Lo Sceicco è pronto, Francesco Pigliaru pure. I due si vedranno alle dieci e mezzo di stamattina a Villa Devoto per discettare di economia, materia assai cara al prof che guida il governo della Sardegna. «Economia della conoscenza», precisano i manager della Qatar Foundation Endowment , atterrati ieri pomeriggio all'aeroporto di Elmas per preparare il vertice con il governatore in una suite di un albergo di Cagliari. Economia della conoscenza significa San Raffaele, ma abbraccia un discorso più articolato che mette al primo posto il polo destinato alla ricerca soprattutto nel campo delle malattie più diffuse in Sardegna come l'anemia mediterranea e il diabete. IL DIABETE Nell'isola la percentuale di soggetti diabetici è molto di al di sopra della norma (questo triste primato viene condiviso con la Finlandia, e non se ne conosce il motivo), e nel Qatar il diabete colpisce addirittura il 17 per cento della popolazione. Anche di questo aspetto, oggi, si parlerà con il Presidente della Regione, il quale conosce già - almeno per sommi capi - la portata dell'investimento. Un miliardo e duecento milioni spalmati in quindici anni, mille posti di lavoro, consegna prevista del nuovo San Raffaele il 1° marzo 2015 in sinergia con il “Bambin Gesù” di Roma. I QATARINI Il capo delegazione del Qatar è Sheik Faisal Bin Thani Al Thani , esponente di spicco della famiglia reale visto che ha sposato la sorella dell'Emiro, il Gran Capo. Lo accompagnano Tidu Maini, Sheika Moza Bint Nasser, Sultan Alflasi e Lucio Rispo , plenipotenziario italiano della Qfe e deus ex machina dell'operazione che segue personalmente da due anni. La Regione non precisa se all'incontro parteciperà anche l'assessore alla Sanità Luigi Arru o altri esponenti dell'esecutivo. Durante la visita (si presume che duri un'oretta) verrà illustrato il piano industriale che comunque Pigliaru conosce già. Nel pomeriggio, i quatarini raggiungeranno Olbia, dove debbono essere messi a punto i dettagli del summit con l'amministrazione comunale e il deputato del Pd Gian Piero Scanu . È molto probabile che lo Sceicco incontrerà il sindaco Gianni Giovannelli domani a metà mattinata; al termine della visita in muncipio, è previsto il sopralluogo nel cantiere abbandonato del San Raffaele, a quattro chilometri da Olbia, in direzione sud, subito dopo l'aeroporto Costa Smeralda. Il cognato dell'Emiro tiene molto a questo appuntamento: vuole rendersi conto di persona del sito e soprattutto dei lavori di ristrutturazione che dovranno partire immediatamente dopo la firma dell'accordo (prevista per il 24 giugno), visti i tempi ristrettissimi e l'ordine perentorio dell'Emiro di rispettare la data del 1° marzo del prossimo anno. I TEMPI Dalla fine di questo doppio vertice (Cagliari e Olbia), scatterà un'altra fase che andrà a concludersi pochissimi giorni prima della data fatidica del 24 giugno. La Commissione continuerà a lavorare, ma il vero nodo da sciogliere è rappresentato dalla seduta del Consiglio regionale che dovrà votare sull'accreditamento dei 260 posti letto. L'esito del voto non è scontato, nonostante gli sponsor politici dell'operazione vadano dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano , al premier Matteo Renzi , al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Delrio . Ieri e l'altro ieri, a cena, si sarebbero visti i contrari all'intervento qatarino che sicuramente daranno battaglia in aula. La Qatar Endowment confida molto in due elementi la cui favorevole azione bipartisan potrebbe rivelarsi determinante: l'ex governatore Ugo Cappellacci e il presidente della Fondazione Banco di Sardegna Antonello Cabras . ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 7 Giu. ’14 SAN RAFFAELE: LE TANTE DOMANDE SENZA RISPOSTA SULL’OPERAZIONE di MASSIMO DADEA Oggi che tutte le attenzioni sono rivolte al completamento del San Raffaele di Olbia, potrebbe essere utile allargare lo sguardo all'insieme dell'organizzazione sanitaria e allo stato di salute dei cittadini sardi. Questo non vuol dire che le questioni sollevate dall'apertura di un nuovo ospedale di alta specializzazione e ricerca non meritino risposte tempestive ed esaurienti. Anzi, bene farebbero il presidente e l'assessore regionale della Sanità a fugare con argomenti convincenti le molte perplessità suscitate da una operazione che rischia di avere riflessi importanti sulla sanità sarda. Ad esempio, il San Raffaele sarà una struttura pubblica - un Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico - oppure un presidio privato accreditato? La differenza non è di poco conto, visto che nel primo caso il costo sarebbe a carico dello Stato, nel secondo a carico della Regione. Come si inserisce all'interno dell'incerta programmazione sanitaria regionale e in particolare in una rete ospedaliera ancora da definire? Di quanti posti letto sarà dotato e quali saranno le discipline specialistiche che verranno accreditate, vista l'inevitabile ulteriore riduzione dei posti letto ospedalieri per acuti che si renderà necessaria per adeguare la rete ospedaliera sarda al nuovo parametro di 3,5 posti letto per mille abitanti? Quante risorse verranno sottratte al servizio sanitario regionale? Quali saranno i riflessi di un presidio ospedaliero con caratteristiche di alta specialità sugli ospedali di Sassari, di Nuoro, sull'Azienda ospedaliera Brotzu, sulle Aziende miste ospedaliero-universitarie? Quello che sconcerta è che ancora una volta sembra prevalere una concezione "ospedalocentrica": una distorsione strutturale della nostra organizzazione sanitaria che storicamente destina la grande parte delle risorse, del personale e delle energie, a favore delle strutture ospedaliere, a tutto discapito dei servizi territoriali deputati alla prevenzione. Una distorsione che paradossalmente finisce per penalizzare proprio gli ospedali che, oberati da una routine che dovrebbe trovare soddisfazione nei servizi territoriali, finisce per distoglierli da quella che è la loro funzione primaria: il luogo della diagnosi e della terapia più sofisticata e specialistica. Tutto questo diventa ancora più stridente alla luce della recente pubblicazione dell'aggiornamento della indagine epidemiologica SENTIERI: nel SIN di Porto Torres si registra un aumento preoccupante - in ambedue i sessi - della mortalità, della incidenza oncologica (nuovi casi/anno), e dei ricoveri ospedalieri, per le patologie respiratorie e in particolare per i tumori del polmone. Tutte patologie legate alle emissioni di raffineria e all'industria petrolchimica. Una indagine molto seria, ma parziale, perché ha riguardato il solo sito industriale di Porto Torres: l'unico in Sardegna inserito nelle rete AIRTUM dei Registri Tumori. Dati inquietanti che vanno ad aggiungersi a quelli già evidenziati dalla prima indagine SENTIERI: aumento della mortalità per patologie tumorali, specie a carico dell'apparato respiratorio, nelle aree industriali di Carbonia -Iglesias- San Gavino e in quella di Sarroch e in quella di Porto Torres. L'auspicio è che anche questa volta, abbagliati dalla operazione San Raffaele di Olbia, non si finisca per ignorare il grido di allarme che viene dalle indagini epidemiologiche, e si continui a mettere la testa sotto la sabbia come nel recente passato: i dati inquietanti e fastidiosi, quelli che necessitano di interventi che non danno eccessiva visibilità, vengono messi sotto il tappeto, alla stregua della immondizia da nascondere. Giova ricordare che così si comporta la cattiva massaia, ma anche gli amministratori irresponsabil ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 Giu. ’14 SAN RAFFAELE: IL QATAR E LA SANITÀ SARDA Antonio Barracca - Tra affari e sviluppo La storia di chi ha fatto della Sardegna un business è molto lunga, articolata e ripetitiva. A cominciare dalla fine dell'Ottocento, quando le miniere, che costituivano la ricchezza delle nazioni, consentirono a pochi sardi di uscire dall'arretratezza col lavoro in miniera, ma portarono ingenti profitti fuori dalla Sardegna lasciando solo macerie. Il piano di Rinascita ci ha portato industrie in gran parte inquinanti pagate dai soldi dei cittadini in cambio di posti di lavoro. Chiuse quando il profitto non era più remunerativo. La pastorizia e l'agroalimentare messe ai margini da imprese portate da fuori per coprire l'incapacità di costruire il nostro futuro, di fare delle scelte. Dieci anni fa il nuovo filone della sanità privata voleva sbarcare in Sardegna sponsorizzata dalla giunta di sinistra che vedeva nei continentali i portatori di una medicina moderna, innovativa. Poi la fondazione San Raffaele entrò in crisi e la struttura ospedaliera restò incompiuta. Ma in questi dieci anni la politica non ha detto una parola, nessuno studio è stato fatto sull'impatto che una nuova struttura privata avrebbe avuto sulla nostra sanità pubblica. Integrandosi o diventando un fattore di disturbo. Ora il fondo investimenti del Qatar vuole investire un miliardo nella sanità sarda per aprire 284 posti letto nel San Raffaele. Si investe per fare profitti. Infatti i 700 nuovi posti di lavoro promessi saranno pagati dalla regione Sardegna, da noi, con l'acquisto delle prestazioni sanitarie erogate dal San Raffaele. Abbiamo una rete ospedaliera con 600 posti letto per acuti in eccesso e una sovrabbondanza di medici. Un deficit di 450 milioni di euro ed interventi urgenti e profondi per ridurne i costi ed aumentarne la qualità. Perciò dovremmo esser noi a decidere quali reparti il Qatar può aprire per dare equilibrio alla sanità del nord Sardegna. Ma non sarà così perchè chi investe lo vuol fare in settori convenienti. Da questa competizione fra strutture sanitarie non avremmo vantaggi. Anzi. Il Qatar non baderà a spese per avere le migliori attrezzature. L'ospedale non avrà il Pronto Soccorso e quindi l'accesso sarà selettivo per dare solo prestazioni in tempi certi. Avrà un management non scelto dalla politica e personale medico selezionato per merito. E noi? Aspettiamo di sapere cosa ne pensano Sovranisti, Autonomisti ed Indipendentisti. Nelle loro mani è il futuro della sanità sarda. ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 5 Giu. ’14 ALLARME PERSONALE SANITARIO. NEL MONDO NE MANCANO 7,2 MLN. A RISCHIO ANCHE L’EUROPA Senza interventi, entro il 2020 in Europa ci sarà una carenza di circa 1 milione di operatori sanitari. Questa la stima della coalizione internazionale Health Workers for All, che ha lanciato oggi un appello ai Governi europei per chiedere un impegno concreto contro il fenomeno e suggerire 5 ambiti di intervento. 05 GIU - “Se l'austerity mette in crisi i sistemi sanitari, se il diritto alla salute e l'accesso alle cure sono in discussione anche in Europa, la società civile si mobilita per chiedere alle istituzioni europee e nazionali di salvare l’assistenza socio-sanitaria”. Con queste parole la coalizione europea Health Workers for All, rappresentata in Italia da AMREF, lancia oggi da Madrid un Appello alle istituzioni europee, per “riportare l'attenzione sulla crisi legata alla carenza di personale sanitario, che rappresenta una delle principali minacce per la salute globale, e per chiedere il sostegno e la promozione delle condizioni di lavoro e di vita del personale sanitario in tutto il mondo”. Pianificare e formare a lungo termine il personale sanitario, puntando all’autosufficienza; investire sul personale sanitario; rispettare i diritti degli operatori sanitari migranti; pensare e agire coerentemente a livello nazionale, regionale e globale; fare la propria parte nell’applicazione del Codice di condotta dell’OMS per il reclutamento internazionale del personale sanitario. Questa la ricetta di Health Workers for All contenute nell'appello per far fronte a una situazione già oggi preoccupante ma che rischia di aggravarsi, anche in Europa. “Il mondo – spiega la coalizione nell'appello - ha bisogno di oltre 7,2 milioni di operatori sanitari, e l’Europa è parte del problema: se le tendenze non saranno invertite, entro il 2020 nel Vecchio Continente ci sarà una carenza di circa 1 milione di operatori sanitari”. Facendo riferimento alla recente pubblicazione del"World Social Protection Report" dell’Organizzazione internazionale del lavoro, la coalizione sottolinea come “insieme alla disoccupazione persistente, ai salari più bassi e alla tassazione più pesante, le misure di austerità hanno contribuito ad aggravare povertà ed esclusione sociale che oggi colpiscono oltre 123 milioni di persone in Unione europea, il 24% della popolazione, la maggior parte dei quali bambini, donne, persone anziane e persone con disabilità”. Inoltre, “alcuni Paesi europei reclutano in giro per il mondo personale sanitario formato localmente: una pratica insostenibile che alimenta le diseguaglianze in salute e indebolisce i sistemi sanitari dentro e fuori l’Europa”, denuncia Health Workers for All. Con il sostegno di European Forum for Primary Care (www.euprimarycare.org), European Public Health Alliance (www.epha.org), Equinet: The Network on Equity in Health in Southern Africa (www.equinetafrica.org), Global Health Workforce Alliance (www.who.int/workforcealliance), Medicus Mundi International, (www.medicusmundi.org), l’appello ha l’obiettivo di raccogliere quante più adesioni possibile di rappresentanti delle parti interessate, delle associazioni, dei lavoratori, delle istituzioni coinvolte, che verranno presentate il prossimo autunno ai Parlamentari europei per chiedere la loro collaborazione verso un cambiamento di passo dell’Europa e dei Paesi membri nell’affrontare i problemi legati alla sostenibilità dei sistemi sociali e sanitari di tutto il pianeta. “L’Europa – sottolinea la coalizione - può essere parte della soluzione se implementa pratiche di assunzione del personale condivise a livello globale. Nel 2010 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito una roadmap per rafforzare gli opertori sanitari in una prospettiva di sostenibilità globale". Il 'Codice di condotta dell’OMS per il reclutamento internazionale del personale sanitario' affronta le cause strutturali della migrazione e del brain drain, compresa la formazione del personale sanitario, il trattenimento in servizio nei Paesi d’origine, le condizioni di lavoro, la remunerazione, i finanziamenti e i diritti. "Nonostante il Codice OMS, tuttavia - evidenzia Health Workers for All -, un vero consenso politico sulla gestione sostenibile del personale sanitario e delle sue migrazioni a livello regionale e globale rimane molto lontano. In molti Paesi si scontrano interessi potenti, ma spesso di corta visione; in altri, per di più, le misure di austerità comprimono la spesa sanitaria e limitano l’implementazione di specifiche iniziative politiche”. Per Health Workers for All, dunque, “l’Unione Europea e i suoi Stati membri devono prendere una posizione ferma in questo dibattito. Il personale sanitario è un elemento fondamentale di un modello di Stato sociale e di welfare che caratterizza l’identità europea e deve essere sostenuto a livello globale. Per questo chiediamo ai decisori politici in Europa e in Italia di dimostrare la propria capacità di leadership su questo tema, e di assicurare una coerenza delle politiche che determinano questo settore, per sostenere una presenza sostenibile di personale sanitario all’interno e fuori dall’Europa”. ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 4 Giu. ’14 CORTE DEI CONTI. SPESA SANITARIA RIDOTTA. "MA LAVORARE SU APPROPRIATEZZA, TICKET E COSTI STANDARD PER MIGLIORARE E TORNARE A INVESTIRE" I progressi degli ultimi anni nel contenimento dei costi per l’assistenza sanitaria non devono infatti far dimenticare le sfide in corso e quelle future. Le ricette per vincerle sono, secondo i giudici contabili, in particolare tre: appropriatezza, ticket e costi standard. Le osservazioni della Corte dei Conti nel “Rapporto 2014 sul coordinamento della finanza pubblica” presentato oggi. IL TESTO. 04 GIU - “L’esercizio che si è chiuso ha confermato i buoni risultati di un sistema di gestione basato sul confronto tra diversi livelli di governo Ma ha anche reso evidente il limite con cui il comparto dovrà fare i conti nell’immediato futuro: ritrovare al suo interno le risorse per rispondere alle necessità di adeguamento delle prestazioni e di garanzia della qualità delle cure. Elementi che hanno fatto finora e dovranno fare nel prossimo futuro del sistema sanitario un fattore strategico del nostro sistema, garantendo una qualità dell’offerta che pone il nostro paese, almeno in questo campo, tra i primi posti nelle classifiche mondiali”. Sono queste le conclusioni e allo stesso tempo e presupposti per migliorare espressi riguardo alla sanità dai giudici della Corte dei Conti nel Rapporto 2014 sul Coordinamento della Finanza Pubblica presentato oggi al Senato (leggi anche la relazione introduttiva del Presidente Raffaele Squitieri). Se infatti è vero che nel 2013 si confermano i progressi, già evidenziati negli ultimi esercizi, nel contenimento dei costi per l’assistenza sanitaria (la spesa complessiva ha continuato a ridursi, pur se a ritmi inferiori allo scorso biennio. La spesa è stata di circa 2 miliardi inferiore alle attese, confermando la sua stabilizzazione in termini di prodotto al 7 per cento) e che il processo di riassorbimento dei disavanzi nelle regioni in squilibrio strutturale prosegue, “pur presentando quest’anno alcune incertezze”, è anche vero che la scelta di non intaccare, almeno nel breve periodo, le risorse destinate alla sanità, ma di trovare all’interno del settore le risorse per affrontare i nuovi bisogni e le somme da destinare al finanziamento degli investimenti “non riduce l’impegno che si presenta per gli esercizi a venire” e che l’importanza e l’urgenza di accelerare gli interventi di riadeguamento delle strutture e di miglioramento dell’appropriatezza delle prestazioni rese ai cittadini “non può essere più, tuttavia, un alibi per un allungamento senza limiti del riassorbimento degli squilibri”. In che modo? Per i giudici contabili il riassorbimento degli squilibri richiede l’elaborazione di soluzioni organizzative e scelte gestionali, che non possono essere il portato solo della proposizione di un vincolo finanziario. L’appropriatezza è, secondo la Corte dei Conti, “una scelta obbligata”. E per i giudici contabili “un elemento cardine” di una strategia che punti a recuperare margini di manovra dal riassorbimento delle spese inappropriate è costituito dal processo di razionalizzazione delle reti ospedaliere. “Mantenere strutture ospedaliere di piccole dimensioni e conseguente frammentazione e duplicazione dell'offerta ospedaliera – si legge nel Rapporto -, comporta sia problemi sul campo della sicurezza, sia limiti alla qualità dell'assistenza erogabile. La chiusura dei piccoli ospedali (al di sotto dei 60 posti letto ancora non completamente definito) e il raggiungimento dello standard di 3,7 posti letto per mille abitanti, nel corso del triennio potrebbe determinare una riduzione di oltre 7000 posti letto. Ciò consentirebbe il recupero delle risorse necessarie per potenziare l’assistenza territoriale e domiciliare, fornendo in tal modo una risposta alla domanda posta dalla forte crescita di patologie croniche – degenerative dovute all’invecchiamento della popolazione”. In questo ambito, per la Corte dei Conti “concordare le condizioni necessarie per garantire livelli di assistenza ospedaliera omogenei nell’intero territorio nazionale, in termini sia di adeguatezza delle strutture, sia di risorse umane impiegate in rapporto al numero di pazienti serviti e al livello di complessità della struttura, rappresenta un passo importante verso il riassorbimento di inefficienze e inappropriatezze. Ciò richiederà una classificazione delle strutture ospedaliere secondo livelli gerarchici di complessità e bacini di utenza, standard minimi e massimi di strutture per singola disciplina, mirati ad offrire una buona qualità delle prestazioni attraverso una concentrazione in un numero limitato di presidi cui affluisce un numero elevato di pazienti, previsione di standard generali di qualità per l’autorizzazione e l’accreditamento e standard specifici per l’alta specialità”. Chiaro, secondo la Corte dei Conti, che la riorganizzazione della rete ospedaliera “dovrebbe accompagnarsi al potenziamento di strutture di degenza post acuta e di residenzialità, ad uno sviluppo dell'assistenza territoriale che agevoli la dimissione al fine di minimizzare la degenza non necessaria, favorendo contemporaneamente il reinserimento nell'ambiente di vita e il miglioramento della qualità dell'assistenza”. Al contrario, “il ritardo nella definizione di una adeguata offerta di servizi rappresenta – secondo la Corte dei Conti -, in un rilevate numero di realtà territoriali, il nodo più problematico. Non si tratta solo di livelli di assistenza insoddisfacenti, ma anche di alimentare fenomeni di utilizzo inappropriato”. In questo quadro, per la Corte dei Conti “andranno ridefiniti, poi, interventi in grado di incidere sugli accessi non appropriati ai pronto soccorsi e alle prestazioni basate su apparecchiature, di indagine diagnostiche e ai relativi percorsi diagnostico – terapeutici. Le risorse che verranno risparmiate attraverso l’applicazione di tali misure oggetto del Patto dovranno essere reinvestite ad invarianza del finanziamento annuale previsto”. Alcune possibilità sono offerte anche dalle compartecipazioni alla spesa, cioè i ticket, secondo i giudici contabili. Ma in che misura? “Sull’utilizzo del sistema di compartecipazione alla spesa come strumento per ottenere un uso più appropriato dei servizi sanitari sono state avanzate, da più parti, riserve. Certamente, sono le scelte del medico prescrittore a dover essere monitorate e controllate per ottenere un miglioramento nell’utilizzo delle risorse. Puntare sui medici di medicina generale per perseguire un miglioramento della appropriatezza rappresenta una scelta più efficiente rispetto all’affidarsi al paziente facendo leva sulla sua capacità di spesa”, premettono i giudici contabili. Che aggiungono: “Inoltre il solo riferimento ai risultati economici non può in ogni caso consentire di valutare in che misura lo sforzo richiesto attraverso un crescente ricorso a sistemi di compartecipazione si sia tradotto in una diminuzione delle prestazioni richieste a ragione della crisi economica, o in fenomeni di razionamento dell’offerta e della domanda, o ancora in un trasferimento verso acquisti privati della popolazione non esente che avrebbe dovuto corrispondere in alcuni casi importi superiori al prezzo delle prestazioni”. Comunque, per la Corte dei Conti va considerato che, “in una fase come quella attuale di revisione dei confini entro cui estendere le prestazioni pubbliche, contare su di un sistema di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie e di esenzione può essere un elemento determinante”. In particolare “prevedere una tariffa per alcune prestazioni, attraverso un riferimento determinante alla ‘condizione economica’ del nucleo familiare (garantendo tuttavia l’accessibilità delle prestazioni sanitarie, evitando che la quota di partecipazione richiesta costituisca un ostacolo alla fruizione o spinga gli assistiti anche per questioni di convenienza all’acquisto di prestazioni in regime privatistico) e procedere ad una attenta revisione delle ragioni di esenzione può rappresentare una soluzione utile, evitando di sovraccaricare il sistema fiscale e collegando parte del costo della fruizione all’effettivo accesso alle prestazioni”. Per limitare l’impatto di questi cambiamenti sui soggetti esenti per patologia o per invalidità, obbligati in virtù della loro condizione a usufruire con elevata frequenza alle prestazioni del SSN nelle diverse aree (farmaceutica, specialistica, day hospital, ecc.), nel rapporto si cita la possibilità di fissare un tetto massimo annuo di spesa da partecipazione, eventualmente articolato in funzione delle fasce di Reddito, al raggiungimento del quale le prestazioni sarebbero fornite gratuitamente. “Un passo fondamentale – sottolineano tuttavia i giudici contabili - è rappresentato dall’assunzione di un chiaro elemento di valutazione della condizione reddituale, con caratteristiche che riducano le differenze di trattamento a parità di condizioni di reddito La complessità nella gestione da parte del cittadino delle informazioni per valutare la situazione economica del nucleo familiare è alla base delle riserve avanzate sulla utilizzazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE). Pur recentemente aggiornato, esso presenta ancora elementi di criticità che ne rendono difficile l’utilizzo in ambito sanitario”. Per questo la possibilità di utilizzare, almeno in via transitoria, un indicatore più semplice, costruito su informazioni (composizione del nucleo familiare fiscale, redditi dichiarati a fini IRPEF) già presenti presso l’Amministrazione finanziaria consentirebbe, per la Corte dei Conti, di “mettere a disposizione dei medici prescrittori, nell’ambito del Sistema Tessera Sanitaria, l’informazione relativa all’appartenenza di ogni assistito ad una classe di “reddito equivalente”, cui potrebbero essere associati benefici in termini di partecipazione alla spesa sanitaria”. Su questa e su tutte le altre ipotesi di revisione dell’attuale sistema di compartecipazione “il nuovo Patto si dovrà pronunciare per far sì che le compartecipazioni possano contribuire a preservare un servizio sanitario di qualità, contemperando le esigenze di bilancio con la tutela degli accessi ai servizi”, osservano i giudici contabili. Secondo i quali un altro aspetto su cui il nuovo patto della salute dovrà dare risposte è come consentire ilriavvio degli investimenti in sanità. “I nuovi scenari della domanda e dell'assistenza, le nuove tecnologie, gli obiettivi di appropriatezza e di efficienza tecnica ed economica delle strutture sanitarie richiedono, oltre ad una attenta ridefinizione degli assetti organizzativi, anche investimenti per la riconversione delle strutture ospedaliere dismesse, per potenziare l’offerta strutturale e tecnologica a livello territoriale e distrettuale”, osservano infatti. Le risorse da destinare a interventi attraverso Accordi di programma, ma di cui deve essere individuata copertura finanziaria (e compatibilità con gli obiettivi di finanza pubblica) ammontano, secondo i giudici contabili, a circa 5,079 miliardi, cui vanno aggiunti 850 milioni pregressi non ancora ripartiti. “Risorse che – si legge nel rapporto - andranno individuate anche ricorrendo a misure di cofinanziamento per l’edilizia sanitaria, attraverso i Programmi Operativi Nazionali e con l’inserimento di tali interventi e delle relative risorse nell’ambito dei Programmi Operativi Regionali (POR) del Fondo Sviluppo e Coesione 2014- 2020. Vi è poi l’ipotesi – osservano i giudici contabili - di consentire, per il triennio 2014-2017, l’accesso ad una provvista finanziaria presso la Cassa Depositi e Prestiti, cui si dovrebbe far cenno nel nuovo Patto della salute. Tale soluzione, per garantire il rispetto dei vincoli di finanza pubblica, dovrebbe prevedere una copertura a carico delle Regioni. La sua praticabilità dovrà essere valutata in base ai margini ancora disponibili nei bilanci degli enti a fronte del forte impegno affrontato da alcune regioni con il ricorso ad anticipazioni per il pagamento dei debiti verso fornitori. Nel nuovo Patto sarà, altresì, previsto l’impegno per una revisione della normativa tecnica in materia di sicurezza, igiene e utilizzazione degli ambienti specifica per il settore, cui adeguare le strutture sanitarie esistenti”. Infine la Corte dei Conti richiama l’attenzione sui costi standard e l’armonizzazione contabile, definendoli “due passaggi interconnessi”. Secondo la Corte dei Conti, tuttavia, il primo anno di applicazione dei costi standard per il riparto “non ha cambiato in maniera sostanziale i risultati ottenuti con la procedura di definizione dei fabbisogni sanitari regionali vigente in passato. La popolazione pesata di ciascuna regione è rimasta l’elemento principale per la quantificazione dei fabbisogni sanitari regionali”. Secondo i giudici contabili “per rendere effettivo il percorso di applicazione dei costi standard e dei fabbisogni standard in sanità, sarà necessario operare una revisione dei criteri di pesatura della quota capitaria (attualmente basati sui consumi ospedalieri e di specialistica ambulatoriale per fascia di età della popolazione residente). Un eventuale passaggio a criteri basati anche sui consumi di altri ambiti assistenziali, nonché su indici di prevalenza delle malattie o indicatori socio-economici potrebbe produrre modifiche di maggior rilievo. Un passaggio per il quale è necessario disporre di adeguati flussi informativi (sull’assistenza domiciliare, sull’assistenza residenziale, sulla salute mentale e sulla dipendenza patologica e emergenza-urgenza) e di criteri di costruzione dei dati contabili affidabili e omogenei”. Dunque, sottolineano i giudici contabili, “una migliore metodologia di individuazione dei costi standard è, quindi, strettamente legata al processo di certificazione dei dati contabili nonché all’implementazione in ogni regione ed in ogni azienda sanitaria di sistemi di controllo di gestione e di contabilità analitica. Solo partendo da costi certi sarà possibile individuare costi standard attendibili”. plessità, le nuove sfide e ad interpretare e sostenere il cambiamento. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 Giu. ’14 VI RACCONTO LE MIE EUTANASIE Giorgio Pisano «Quante volte? Almeno un centinaio nell'arco della mia carriera». Può essere più preciso? «No. Per la semplice ragione che nessuno terrebbe il conto delle persone che ha aiutato a morire». Fino a quando l'ha fatto? «Finché ho potuto. Era questione di pietà». Giuseppe Maria Saba, Peppinello per gli amici, irrompe nel dibattito sull'eutanasia con una confessione che lascia sbalorditi: per lucidità e coraggio. Sassarese, 87 anni, in pensione dal 1999, dopo la laurea in Medicina ha vissuto tre anni in Inghilterra grazie a una borsa di studio del British Council. Al rientro in Italia, ha esordito da primario ospedaliero per diventare poi professore ordinario della cattedra di Anestesiologia e Rianimazione: prima all'università di Cagliari e successivamente a La Sapienza di Roma. Detto in altre parole, l'autorevolezza è indiscussa. Dal salotto iperpanoramico della sua casa cagliaritana parla con la lentezza di chi deve e vuole pesare ogni parola che finirà sul giornale. Perché ha deciso di parlare? «Perché non ne posso più del silenzio su cose che sappiamo tutti. Parlo dei Rianimatori, s'intende. Questa ipocrisia del dire e non dire va avanti da troppo tempo». Cattolico? «Laico, ma ho una grande ammirazione per giganti del pensiero come il cardinale Carlo Maria Martini». Crede nei miracoli? «Decisamente no. Perché mi fa questa domanda?» Perché un malato terminale potrebbe guarire all'improvviso. «Dove e quando? In oltre mezzo secolo di carriera a me non è mai capitato. Tutti quelli che avevano imboccato l'ultimo tratto di strada sono puntualmente morti. Bisogna fare però una precisazione». Facciamola. «Sbagliato parlare di anestesia letale. Io la chiamo dolce morte e l'ho favorita ogni volta che mi è stato possibile. Del resto, non è la prima volta che lo dico». In che senso? «Nel 1982, proprio in un'intervista a un settimanale, intervista poi ripresa anche da L'Unione Sarda, ho raccontato di aver dato una mano ad andarsene a mio padre e, più tardi, anche a mia sorella. Risultato, qualcuno ha detto che in fondo ero un assassino». E magari tra quei qualcuno c'erano pure suoi colleghi. «Possibile. Vede, la dolce morte è una pratica consolidata in tutti gli ospedali italiani ma per ragioni di conformismo e di riservatezza non se ne parla. Gli unici che alzano la voce su questo tema sono frange d'un estremismo cattolico tanto rigido quanto confuso». In che modo un malato terminale chiede aiuto? «Se non può parlare prova a dirlo con gli occhi. E tra i familiari c'è sempre qualcuno che conosce molto bene le volontà del paziente, sa cosa avrebbe voluto e sperato trovandosi in quelle condizioni. Non dimenticherò mai un amico carissimo inchiodato a letto senza speranza. Soffriva da cane e ogni giorno, quando passavo a visitarlo, mi implorava: fammi morire, per favore». Accontentato? «Proprio in quel caso, no. Se n'è andato prima che potessi dargli una mano». E se lei si trovasse nelle stesse condizioni? «Sono per l'auto-eutanasia. Ho un accordo preciso con mia moglie». Alcuni parlano di desistenza terapeutica anziché di eutanasia. «È un patetico gioco di parole per mettersi in pace la coscienza, essere rispettosi del Codice deontologico dei medici e con l'orientamento della Chiesa». Però è desistenza e non eutanasia. «Stiamo parlando della stessa cosa. Il termine desistenza, cioè smetto di ventilarti meccanicamente, significa che sto comunque staccandoti la spina. Qual è la differenza?» Il momento di intervenire. «Rispondo con un episodio. Avevo un amico ricoverato in Clinica medica: blocco renale e convulsioni. Il collega che lo seguiva mi ha chiesto: che facciamo? Ho risposto senza un attimo d'esitazione: io gli darei un Talofen». Cos'è il Talofen? «È un farmaco che, ad alto dosaggio, blocca la respirazione. Tecnicamente è un ganglioplegico». E il suo amico, che fine ha fatto? «Credo gliel'abbiano dato, il Talofen. Il giorno dopo era in obitorio». Davvero non ricorda quante volte ha praticato un'eutanasia? «Nel mio lavoro ho addormentato non meno di un milione e mezzo di persone. Non so quante siano quelle con cui sono andato più in là: so solo che l'ho fatto ogni volta che era necessario». E quand'era necessario? «Quando un malato te lo chiede e quando tu, nella veste di medico, ti rendi conto che ha ragione. Che senso ha prolungare un'agonia, assistere allo strazio di dolori insopportabili che non porteranno mai a una guarigione?» Ritiene d'essersi comportato in maniera moralmente corretta? «Non ho nulla da rimproverare a me stesso, e lo dico dall'alto della mia età. La verità è che la gente non sa cosa sia il dolore vero, almeno quello più atroce. La coscienza ti impone di non stare a guardare». Mai un ripensamento, magari d'essere stato frettoloso? «Prima di procedere, prima cioè di donare la dolce morte ad un uomo sofferente, ho pensato e ripensato se si trattava della soluzione giusta. Quando mi sono mosso l'ho sempre fatto di fronte a situazioni che non avevano altra via d'uscita». La prima volta? «Credo sia stato con mio padre ma non ne ho la certezza». L'ultima? «Se la memoria non mi tradisce, con un giovane che ho affidato a un neurochirurgo, sicuro che non sarebbe uscito vivo dalla sala operatoria. E così è stato». Neanche un caso di pentimento, sicuro? «Mai. Quella di aiutare un malato a morire non è una decisione che prendi a cuor leggero. Ricordo anzi di aver suggerito ad alcuni chirurghi, in piena febbre da bisturi negli anni '70, di non tormentare il paziente: lascialo andare in pace ...». Legge sul fine-vita: la proposta di legge dorme in Parlamento da 300 giorni. «Saremmo l'Italia se non fosse così? Ho un solo dubbio: mi domando come mai la polemica sull'eutanasia riesploda proprio adesso. Esiste da sempre ma solo ora riempie i giornali. Dev'esserci qualcosa sotto». E se le chiedessero un aiuto oggi? «Aiuto a morire? Me lo chiedono. Ma io ho chiuso bottega. C'è un momento per tutto e io non faccio eccezione». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 5 Giu. ’14 COLLEGHI DIVISI: «DECIDE IL MALATO» «NO, IL RESPIRATORE NON SI STACCA» I camici bianchi tra codice deontologico, Costituzione e il precedente di Welby Come ci si comporta in Italia di fronte ai problemi che pone la ventilazione meccanica per i malati di Sla? Tutti gli esperti interpellati sono d’accordo sul fatto che quando il paziente si avvia verso l’insufficienza respiratoria deve essere accompagnato e assistito nelle sue decisioni. Gli si deve prospettare la possibilità di ventilazione non invasiva (con una mascherina) e, quando questa sarà insufficiente, di ventilazione attraverso un tubicino inserito in trachea (tracheostomia) collegato a una macchina ventilatrice. Fino a qui tutti concordi sul fatto che deve essere rispettata la decisione del paziente di accettare o no questi trattamenti dopo essere stato adeguatamente informato. Nel caso non desideri l’assistenza respiratoria deve essere avviato a un percorso di terapie palliative. Se però un malato ha accettato la tracheostomia e poi ci ripensa? Qui le posizioni assumono sfumature differenti. «Secondo il nostro registro epidemiologico regionale il 15% dei pazienti sceglie la tracheostomia e gli altri le cure palliative» dice Adriano Chiò, neurologo del centro Sla di Torino. «Fra i primi a noi nessuno ha chiesto di staccare il respiratore, e noi non lo faremmo. Nel caso Welby la posizione del medico che lo ha fatto è stata archiviata perché ha commesso un reato ma nell’atto di permettere a un paziente di esercitare il proprio diritto alla salute. Quella sentenza però non ci mette al riparo dal rischio che un altro magistrato ci giudichi, in circostanze analoghe, colpevoli di omicidio di consenziente. Il problema è che manca un quadro normativo ben definito». «Non c’è bisogno di una legge specifica» è l’opinione di Amedeo Santosuosso professore di Diritto, Scienza e nuove tecnologie all’università di Pavia. «Esistono norme costituzionali che prevedono il rispetto della volontà del paziente. Il medico del caso Welby è stato assolto perché ha adempiuto a questo dovere. Cassazione e Corte Europea dei diritti dell’uomo confortano questa posizione». «Il paziente deve essere messo sempre in condizione di rifiutare una terapia, anche se questa è stata iniziata» aggiunge Enrico Marinelli, direttore dell’unità di medicina legale del policlinico Umberto I di Roma. «Ma se viene accompagnato adeguatamente, avvisandolo prima che la decisione di accettare una terapia sarà, di fatto, senza ritorno, il problema è molto raro, direi quasi più teorico che pratico». «Io tratto situazioni diverse perché ho pazienti acuti» interviene Marco Venturino, direttore del Servizio di anestesia e rianimazione dello Ieo, di Milano. «Però secondo me la norma giudirica non è davvero essenziale nella mia professione perché credo che il rapporto con il paziente la superi. Anche una normativa sul testamento biologico non sarebbe mai davvero esaustiva perché ogni caso è unico e va gestito con il paziente e con i suoi familiari». «La coscienza del medico è essenziale» chiosa Christian Lunetta, del Centro Clinico Nemo, di Milano. «Noi puntiamo molto sull’accompagnamento del malato, facciamo un lavoro a monte e il problema di staccare il respiratore a qualcuno che ha deciso di averlo, nei fatti, per noi non si pone, però siamo di fronte a una realtà in cui sarebbe auspicabile sapere quello che è fattibile e quello che non lo è perché affidare le decisioni alla coscienza del medico e al codice deontologico può comportare rischi». «Se c’è già una tracheostomia non conosco colleghi che “stacchino la spina” senza prima aver contattato magistratura e comitato etico dell’ospedale» commenta Ferdinando Raimondi, responsabile del dipartimento di anestesia dell’Istituto Humanitas, di Milano. «Con la legislazione attuale si tratta di una decisione, anche quando deontologicamente ammissibile, espone il medico a problemi importanti » « Se alla ventilazione meccanica si arriva in modo condiviso e cosciente il problema si pone raramente» rinforza Mario Melazzini, presidente di Arisla, «e il nostro codice deontologico, comunque ci dice di non sospendere un trattamento che è un sostegno vitale». «Io di tubi non ne ho mai tolti» racconta Jessica Mandrioli, responsabile del centro Sla di Modena, «ma un nostro paziente ha chiesto la sospensione del trattamento e ha “prenotato” l’eutanasia in Svizzera. Allora noi l’abbiamo ricoverato e abbiamo detto che se questa era la sua volontà avremmo staccato il respiratore noi, informando familiari e giudice. Ma quando è stato ricoverato ha cambiato idea perché ha capito che non era stato abbandonato. Se nessuno se ne fosse fatto carico sarebbe morto in Svizzera, dopo aver pagato 12mila euro e aver fatto un’intervista di “idoneità” via Skype. Noi dovremmo accettare che una persona metta fine alla propria vita con un questionario a video?» Luigi Ripamonti ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 Giu. ’14 STAMINA: CIARLATANI IRREDIMIBILI LO STATO SI MUOVA Ieri Andolina ha effettuato agli Spedali civili di Brescia un'infusione illegale deontologicamente abominevole. E le istituzioni stanno a guardare Elena Cattaneo*, Gilberto Corbellini** e Michele De Luca*** Ci si domanda come riescano i cittadini in questo paese a comprendere e accettare che ieri, a Brescia, un medico abbia potuto trasgredire almeno una decina di articoli del Codice di Deontologia Medica, su mandato di un magistrato e probabilmente reiterando un reato. Per quel reato (l'infusione di preparati privi di staminali terapeutiche, e tantomeno di neuroni) il medico è accusato dalla procura di Torino. Ma un magistrato di Pesaro l'ha nominato commissario "ad acta" degli Spedali Civili di Brescia per far infondere in un bambino i preparati della Fondazione Stamina. L'infusione è stata effettuata ieri da Andolina in un clima surreale e nell'assordante silenzio dell'Ordine nazionale dei medici. Non si può nemmeno capire perché i ministri della Giustizia e della Salute, oltre al Consiglio superiore della magistratura, non siano ancora intervenuti mettendo fine allo scempio dell'etica medica, quella che garantisce la dignità ai malati e alla professione medica, oltre che delle leggi e della Costituzione della Repubblica. Aspettiamo di capire anche come mai, chi ieri poteva, pensiamo, mettere sotto sequestro il laboratorio di Brescia per proteggere un bambino da un doloroso e inutile trattamento, non abbia agito. Non abbiamo più parole, se non per dire che troppe figure istituzionali sembrano non saper più identificare l'impegno, la responsabilità, la serietà, le competenze, le prove. Anzi, sembra che non siano pochi coloro che vorrebbero illudere il paese che si può vivere di finti miracoli. In politica, in medicina, in economia. In uno qualunque degli altri paesi del G7, Vannoni e Andolina sarebbero stati fermati, e messi nella condizione di non poter più abusare di malati gravi e dei loro parenti, da almeno due anni. In Italia tutto è troppo lento. I giudici, alcuni almeno, invece di applicare la legge nel senso di garantire la tutela della salute dei cittadini per evitare loro di essere abusati dai ciarlatani, li consegnano proprio nelle mani di costoro. Alcuni parlamentari, che hanno il vincolo assoluto di rispettare la Costituzione, concorrono nel consentire che dei medici possano far del male a bambini già gravemente provati. Addirittura accompagnano fisicamente nell'esecuzione dell'abuso, chi quell'abuso intende perpetrare, poi fingendo di non esserci stati, quando l'intento di acquisire visibilità personale fallisce. Parenti e genitori, presi nell'inganno che mai potranno ammettere, usano il diritto alla patria potestà per esporre bambini o persone indifese a trattamenti faticosi, pericolosi e inutili. E qualcuno minaccia pure, sui social network, chi mette la propria competenza e faccia, affinché dei bambini non vengano trattati come cavie. Da oltre due anni non temiamo di dire che il caso Stamina è una vicenda che dimostra l'inettitudine, l'incompetenza e un amorale o bieco protagonismo di una parte non secondaria della classe politica e di governo che in Italia si occupa di sanità pubblica. E non sono i ciarlatani a preoccuparci. Vogliamo quindi, una volta di più, chiarire perché la vicenda denuncia un impazzimento generale a cui è urgente porre rimedio, con interventi forti. I principi che ispirarono un'etica medica finalmente rispettosa dei diritti fondamentali della persona malata furono definiti e accolti esattamente 35 anni fa negli Stati Uniti. E sono parte integrante delle leggi sanitarie italiane. Stabiliscono che i pazienti devono essere informati correttamente, in forma veritiera, e messi in condizioni di decidere autonomamente se sottoporsi o meno a un trattamento, che i trattamenti medici devono ridurre il più possibile i rischi di danni e produrre i maggiori benefici, e che non vi devono essere discriminazioni o ingiustizie. Questo significa che i trattamenti per i quali non esistono prove scientifiche di sicurezza ed efficacia non sono etici. A fare da spartiacque furono il processo di Norimberga ai medici nazisti e la dichiarazione di Helsinski del 1964. Inoltre, nell'eventualità in cui i pazienti siano minori o incapaci di decidere c'è l'obbligo morale di tutelarli e agire nel loro miglior interesse. Nessuno di questi principi è rispettato nel caso Stamina. I pazienti e i parenti non possono dare un consenso valido, perché nessuno ha alcuna informazione sul contenuto dei preparati e sui rischi associati al trattamento. Le uniche informazioni disponibili dimostrano che in quei preparati c'è il solito intruglio da ciarlatani, le cui dichiarazioni valgono zero. Peraltro, i rischi di danni sono stati accertati, mentre non esiste alcuna pubblicazione che dimostri qualche beneficio. Il che prefigura addirittura una deviazione dal principio etico più antico per la medicina, presente già nel giuramento di Ippocrate: primum non nocere, prima di tutto non far male. I costi sostenuti dal servizio sanitario per praticare i trattamenti inefficaci di Stamina, sottraggono risorse per trattare o prevenire altre malattie con cure efficaci: e questa si chiama ingiustizia. Per quanto riguarda i piccoli malati, è chiaro che i genitori che chiedono per loro il trattamento non solo non ne hanno diritto - come ha esplicitamente detto anche la Corte europea dei diritti dell'uomo - ma non stanno agendo nel miglior interesse del minore. In questi casi, dei giudici che applicassero davvero la legge, dovrebbero piuttosto tutelare i bambini dalle sofferenze e possibili danni causati da un'affettività irrazionale. Cioè si dovrebbe considerare di sottrarre a quei genitori la patria potestà e assicurare a quei bambini i trattamenti per cui esistono prove e che non sono pericolosi. Nella vicenda Stamina è saltata completamente la dinamica di controllo equilibrato tra i poteri dello Stato. Ed è necessario che questi vengano riportati in equilibrio perché non è accettabile che in un Paese che vuole guidare il rinnovamento e il rilancio dell'Europa un docente di letteratura e un medico incompetente su malattie neurologiche e staminali, che non rispetta il codice etico professionale, tengano in scacco le istituzioni e possano far del male a bambini indifesi. Non mancano secondo noi al Parlamento, al Governo e al Csm gli strumenti per chiudere definitivamente la vicenda. E se quelli esistenti non bastano s'intervenga rapidamente, perché il caso Stamina è la punta di un iceberg contro il quale potrebbe schiantarsi in breve tempo e quindi affondare l'organizzazione etica e funzionale dell'intero sistema sanitario. *Università degli Studi di Milano ** Università La Sapienza di Roma ***Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 Giu. ’14 STAMINA: UN SENATO IN DIALOGO COI SAPERI Se la politica potesse avvalersi in maniera più sistematica di esperti riconosciuti non insorgerebbero casi come Stamina Carlo M. Croce* In Italia accadono continuamente fatti gravi sul piano dell'uso sociale delle scienze. Siamo un Paese in cui ciarlatani senza alcuna qualifica, che millantano di essere capaci di curare malattie ancora inguaribili, riescono, molto più facilmente che altrove, a convincere gruppi di malati, i loro familiari e i politici, a fare pressione perché si applichino tali "terapie" ai pazienti. Più tali soggetti strillano, ovvero più riescono a circuire piccolissimi gruppi di persone purtroppo disperate, più sono ascoltati dalle autorità politiche del Paese. Per la cosiddetta terapia Di Bella del cancro, pur non avendo i minimi requisiti di scientificità, fu stabilita dal ministero della Salute una commissione di esperti per valutare la sua efficacia. Nel caso più recente, una terapia basata su "cellule staminali" è stata proposta per il trattamento di svariate malattie incurabili dal "gruppo Stamina", anche questo costituito da ciarlatani con nessuna conoscenza di biologia di cellule staminali e delle malattie su cui dicevano di intervenire e con nessuna qualificazione scientifica. In questo caso, il ministro della Sanità Balduzzi ha persino reso possibile a tali strilloni di trattare pazienti incurabili con cosiddette "terapie", non descritte, quindi ignote, quindi non testate sperimentalmente, e tantomeno validate o approvate. Tutto questo ha evidenziato ancor di più la fragilità del rapporto tra politica e scienza in Italia. Nel mondo intero questi fatti sono stati visti con sbigottimento e incredulità, aumentando ancor più la mancanza di rispetto per l'Italia e le sue istituzioni scientifiche, per non parlare di quelle politiche. Il verificarsi di questi episodi è chiaramente dovuto alla mancanza di cultura e di educazione, non solo scientifica, del Paese. Se guardiamo ai giornali, per esempio, è evidente che pochissimi si avvalgono di giornalisti con una solida preparazione scientifica. Per non parlare poi della televisione. Quindi, notizie di scienza e medicina sono riportate solitamente da persone che non hanno familiarità con il tema e che o prestano ascolto anche a chi ha poco o nessuna qualifica, o tendono a presentare le questioni come se esistessero anche nella scienza contrapposizioni politico-ideologiche. A scuola le scienze non sono molto seguite e approfondite per cui la cultura scientifica degli italiani è notoriamente tra le più scarse del mondo. Questo non impedisce che alcuni italiani raggiungano le vette più alte della leadership scientifica, ma suggerisce che potrebbero essere molti di più se il Paese avesse una rigorosa politica della scienza, facilitando ed espandendo l'educazione scientifica e sostenendo di più o meglio la ricerca. È comunque evidente che la comprensione e l'apprezzamento della scienza da parte della maggioranza dell'opinione pubblica italiana sono praticamente inesistenti. Nel caso dello sviluppo dei farmaci vi sono procedure molto dettagliate che devono essere seguite prima che un farmaco possa essere approvato. Queste regole devono essere rispettate perché è necessario che i farmaci approvati non siano dannosi e siano efficaci. Nei casi Di Bella e Stamina si è fatto esattamente il contrario e la politica e l'inerzia, o ignoranza, di molti giornali sono state le cause principali di questa disfatta. Negli Stati Uniti la Food and Drug Ddministration (Fda) è incaricata di approvare o bloccare l'immissione in commercio dei nuovi farmaci. In Italia, l'Aifa svolge attività di regolazione del farmaco in collaborazione con l'Istituto superiore di sanità, che a sua volta ha una duplice funzione, quella del controllo della salute pubblica e quella di Istituto di ricerca, un po' come il National Institute of Health (Nih) americano. Negli Stati Uniti i vertici di queste istituzioni sono solitamente esperti di rilevanza internazionale, che hanno trascorso la loro vita a fare scienza e a valutare attività scientifiche. Sono nominati dal Presidente degli Usa. In Italia, l'ex solito ministro Balduzzi ha scelto di nominare presidente dell'Istituto superiore di sanità un signore con nessuna qualificazione scientifica, quando poteva scegliere tra vari candidati altamente qualificati. È naturale che poi scoppino i casi Stamina perché dentro alcune istituzioni governative ci sono persone che non hanno le capacità, forti delle loro competenze, di frenare derive che nulla hanno a che fare con la scienza e la medicina. Quale capacità avrebbe questo signore per giudicare che Stamina è una truffa e un pericolo per i cittadini? La cosa patetica è che qualunque individuo con un minimo di istruzione avrebbe avuto forti dubbi su un personaggio come il patron di Stamina, un individuo senza alcuna educazione scientifica che pratica una pseudoterapia mai pubblicata su riviste scientifiche. Negli Usa la maggior parte della ricerca fondamentale (di base) è sostenuta dal governo federale tramite varie agenzie come l'Nih. Sebbene questo tipo di ricerca sia ad alto rischio, perché non si è certi che possa produrre risultati di rilievo, la si ritiene essenziale per il benessere e il futuro del Paese. Infatti, la maggior parte dei traguardi scientifici più importanti sono stati raggiunti grazie alla ricerca di base. Tale ricerca, essendo ad alto rischio, non può essere sostenuta dall'industria, al contrario della ricerca applicata che è molto più vicina allo sviluppo dei prodotti ed è sostenuta prevalentemente dall'industria. In altre parole, i risultati della ricerca fondamentale sono poi sviluppati ulteriormente dalla ricerca applicata dell'industria. Sempre negli Usa, la ricerca di base pubblica e privata è sostenuta per lo più da fondi pubblici attraverso il finanziamento di progetti di ricerca. Questi finanziamenti costituiscono un prezioso investimento, in quanto agiscono da volano per tutta la scienza e l'industria del Paese e sono alla base della sua ricchezza economica e tecnologica. Negli Stati Uniti esiste un sistema di "Checks and Balances" che funziona abbastanza bene, almeno a livello nazionale. Per esempio, all'oscurantismo voluto da Bush sulla ricerca sulle cellule staminali si sono contrapposti Senato, Università, giornali influenti, industria farmaceutica e gran parte dell'opinione pubblica. A livello locale invece, anche negli Stati Uniti vi sono sacche di oscurantismo, per esempio, vi sono Stati nei quali si vorrebbe proibire l'insegnamento dell'Evoluzione o mettere sullo stesso piano l'insegnamento dell'Evoluzione e quello del Creazionismo. In sostanza, anche gli Stati Uniti hanno i loro problemi, ma le élite politiche, economiche e intellettuali agiscono per cercare di assicurare che le decisioni siano prese sulla base di una valutazione oggettiva dei fatti. Si è parlato in Italia di indirizzare la riforma del Senato verso la creazione di un "Senato delle Competenze", cioè per integrare la composizione del Senato con la presenza di cittadini legittimati a ricoprire l'incarico dall'essersi distinti in ambito internazionale per le conoscenze acquisite in un determinato campo. Ho qualche difficoltà nel capire in quale modo questo possa essere realizzato, ma non vi è dubbio che se nel parlamento italiano vi fossero state personalità di elevata cultura scientifica, episodi come i casi Di Bella e Stamina avrebbero avuto grosse difficoltà a manifestarsi. D'altro canto, se le nomine ai vertici delle istituzioni che dovrebbero svolgere un ruolo consultivo per i politici, nei casi che richiedano specifiche competenze scientifiche, sono fatte secondo criteri meramente politici e non meritocratici, è difficile immaginare che, come invece succede negli altri Paesi, da esse possa provenire un contributo valido alle decisioni che la politica si trova a prendere. L'idea che alcuni dei membri di un eventuale "Senato delle Competenze" possano essere una sorta di ulteriori "catalizzatori" in grado di accelerare e offrire un contribuito al dibattito politico, talvolta sterile e privo di quella razionalità scientifica e competenza tecnica invece necessari, che si prolungano per mesi tra Camera e Senato, potrebbe essere una via d'uscita a questa drammatica situazione di stallo dell'Italia. Ci sono senz'altro competenze politiche, giuridiche, economiche elevate in Parlamento, ma queste evidentemente non bastano per affrontare temi così complessi e ad alto rinnovamento come quelli imposti dai quotidiani avanzamenti tecnologici e biomedici. Ecco perché un'alleanza tra scienza e politica attuata attraverso il Senato sarebbe rivoluzionaria per l'Italia. Se riuscissero a far partorire al parlamento decisioni più oculate in minor tempo, probabilmente questo avrebbe un riflesso positivo anche nella scarsa stima che gli italiani attualmente hanno nei confronti dei loro rappresentanti politici e per il Paese. E, se si elevasse il livello della discussione tra i politici, inevitabilmente vi sarebbe anche una crescita del livello nel dibattito tra i cittadini, non più costretti a prendere esempio da confusionari urlatori televisivi, ma da persone abituate per studio a ragionare e ad applicarsi con metodo alle cose. *Distinguished University Professor Columbus, Ohio ____________________________________________________________ L’Unità 6 Giu. ’14 LEGGERE IL PENSIERO? E’ POSSIBILE È POSSIBILE LEGGERE NEI PENSIERI, VIOLANDO COSÌ L'ULTIMA FRONTIERA DELLA PRIVACY? Sì, secondo uno studio riportato sulla rivista scientifica Current Biology. Alcuni ricercatori della London University hanno sperimentato questa nuova opportunità attraverso un dispositivo di risonanza magnetica funzionale per immagini, detto fMRI. Si tratta del tipo usato per effettuare i comuni esami organici. Stavolta, però, gli scanner hanno rilevato tracce di memoria cosiddetta «fissa», con una particolarità: sono visibili e misurabili in rapporto all'attività cerebrale. Più di preciso, i dati subiscono modifiche direttamente collegate alla varietà dei ricordi cui si riferiscono. Il che sembrerebbe sminuire l'enfasi della notizia, ma non è così. La «trascrizione in immagini» del lavorio mentale prodotto dai ricordi mostra similitudini in soggetti differenti. Cioè: a ricordo di uguale natura corrisponde uguale traccia elettronica. I risultati si fondano sulle reazioni a brevi inserti filmati di sette minuti, ciascuno con sequenze tratta dalla quotidianità, che i partecipanti poi rievocavano ciascuno dal proprio punto di vista. Gli scanner scrutavano i loro cervelli in quei momenti, segnalando analogie reattive. Dunque, sono i primi passi per ricostruire la dinamica dei pensieri, fin qui ritenuti ben riposti all'interno della scatola cranica. Ma le intrusioni nella sfera privata costituiscono già molteplici aspetti dell'esistenza quotidiana. La deriva estrema della convivenza, che cancella la privacy nel nome dell'ordine pubblico, capovolge le attese di un XXI secolo nel quale si sarebbero dovute abolire completamente le zone oscure per l'umanità. Invece, il terrorismo ciclico seguito all'il settembre 2001 diviene implacabilmente la nuova misura della quotidianità globale. Anche in Italia vengono messi in funzione i body scanner, gli apparecchi di controllo individuale negli aeroporti. Precedentemente, in tutti gli scali le perquisizioni ai passeggeri erano assorte alla norma. Anche su tratte secondarie tocca sottoporsi alla minuziosa ispezione corporale da parte degli addetti. I viaggiatori devono perfino alzare le scarpe, per lasciar verificare che non abbiamo delle suole insolite, nelle quali potrebbero celare dell'esplosivo. Il body scanner ovvierà al rischio di biancheria intima pronta a deflagrare, come accaduto nei giorni di Natale del 2009. Esistono altri modi per penetrare nei recessi dell'individuo. Le telecamere impiegate nei grandi magazzini, negli ipermercati e nei megastore non servono unicamente ai fini della sicurezza. Registrano anche le preferenze dei consumatori, fornendo informazioni alle ditte produttrici. Specialmente in prossimità delle casse, dove catturano gli acquisti dell'ultimo momento: caramelle, rasoi, snack, posti nelle rastrelliere come prodotti definiti dal sociologo Gian Paolo Fabris di «consumo emozionale». E le telecamere raccolgono le immagini sui dischi rigidi, senza il rischio di nastri smagnetizzabili. Ulteriori incursioni nella privacy sul piano dell'economia avvengono, sempre nel circuito delle spese, mediante le tessere punti dei supermercati sotto casa, le varie card rilasciate dagli ingrossi di materiali elettronici e simili. Per non dire degli estratti conto bancari. L'elenco degli acquisti effettuati con carta di credito è una vera e propria mappa anche psicologica dell'intestatario. Su Internet, poi, il concetto di privacy risulta completamente inapplicabile. Ogni passaggio anche fulmineo su un sito lascia l'impronta del visitatore, sotto forma del suo account di posta elettronica. Per non dire del phishing. Il termine circola dagli anni 90, agli albori della rete, per indicare lo «spillaggio» dei dati sensibili. Con l'utilizzo di falsi messaggi via mail o perfino telefonate, si rubano numeri di conto corrente e carte di credito, codici fiscali e altro materiale da sfruttare per truffe. Phishing è una deformazione di fishing, che in inglese significa pescare. Il diritto alla privacy, quello autentico, dettato dal buonsenso e non dalla legislazione, viene svento-lato proprio per essere violato, specialmente con una tecnologia che non conosce più i tradizionali confini tra l'ipotesi e la fattibilità. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 Giu. ’14 BIOSCANNER, IL TUMORE È SCOPERTO Una macchina pratica poco diffusa in Italia Bioscanner uguale Clarbruno Vedruccio. Parole nuove? Tempo al tempo. Clarbruno Vedruccio è un ingegnere, pugliese, che ha lavorato nella Marina Militare, in qualità di fisico. Un giorno, costruendo un'apparecchiatura per scovare le mine anti-uomo, ha un'intuizione sconvolgente. Per questo non viene visto di buon occhio da alcuni medici. Lo considerano uno stregone. Cos'ha fatto Clarbruno? Ha inventato il bioscanner, un tubo lungo trenta centimetri, che permette di vedere i tumori, quando sono allo stato iniziale. O meglio, scopre un'infiammazione, che un domani, potrebbe sfociare in una neoplasia. Stana il male, in uno stato, se così si può dire, pre-incipiente. E quindi si agisce subito per neutralizzare una cellula “difettosa”. Un esame che si può fare completamente vestiti, senza liquidi di contrasto, stando in piedi. Durata, circa tre minuti. Esame quasi totalmente innocuo. Il Tripromb ( nome commerciale) ha una potenza inferiore di cento volte quella dei cellulari. La frequenza ha un assorbimento selettivo sui tessuti infiammati (e non vi è esposizione cronica), ma non su quelli sani. Non scatena alcun effetto collaterale, che poi potrebbe dar origine a delle cosucce poco simpatiche. Ad esempio, una tac lascia sul corpo una vagonata di raggi, che persistono per diversi mesi. La precisione diagnostica si aggira sul 70 per cento, ma se il “manovratore” è capace, l'attendibilità è prossima al cento per cento. Questo si legge nel sito. Uno strumento dall'ingombro minimo, e dal costo irrisorio, circa 50mila euro, se confrontato con i milioni che servono per acquistare una macchina per la risonanza magnetica, quella per la Pet e la Tac. Il bioscanner ha avuto il nulla osta dal Ministero della salute. Lo ha prodotto la Galileo Avionica, del gruppo Finmeccanica, un diamante tutto italiano. Attualmente, la produzione è ferma, per cavilli burocratici, che Vedruccio e consorte, Carla Ricci, stanno risolvendo. Clarbruno, inventando e brevettando il Tripromb, ha messo in pratica, le teorie di Hugo Fricke e Sterne Morse, che nella metà degli anni Venti, pubblicarono su Cancer research , un lavoro dove si diceva che i tessuti sani hanno una capacità elettrica bassa, quelli infiammati alta, quelli neoplasici, altissima. Individua qualsiasi tipo di tumore, solido, ad eccezione della leucemia, che, si sa, è il cancro del sangue. L'intuizione di Vedruccio è del 1992, nel 1998, realizza il bio-scanner, l'anno dopo lo brevetta. Dal duemila, inizia la collaborazione con Finmeccanica, e dunque , la produzione. In Italia, si sa come vanno le cose, non ha avuto una grandissima diffusione. Ma ce l'ha in tanti altri paesi: Regno Unito, Giappone, Brasile, Francia, Belgio. In Sardegna, ne esiste solamente uno, ed è presente in uno studio medico gallurese. Nel resto del paese, la sua diffusione è a macchia di leopardo. A Roma, è presente, nel Policlinico Umberto I. L'esame si può fare, tramite il sistema sanitario nazionale, dunque pagando il ticket. Ad usarlo è il professor Costantino Cerulli, urologo. «Io lo adopero per esaminare la prostata e la vescica, ha una buona attendibilità per valutare i casi di ipertrofia prostatica e una precisione assoluta, in un secondo tempo. Cioè, nel caso in cui esistano già delle formazioni neoplasiche, per cui non è necessario misurare il psa». Insomma una grande scoperta che merita di essere valorizzata al meglio. In fretta. Marcello Atzeni ____________________________________________________________ Le Scienze 7 Giu. ’14 DIGIUNARE PER RESISTERE MEGLIO ALLA CHEMIOTERAPIA La privazione temporanea di cibo fa calare il numero di cellule immunitarie del sangue come i globuli bianchi, che ritornano a livelli normali quando si ricomincia a mangiare. Un nuovo studio ha dimostrato che questo fenomeno, scoperto nei topi, consente ai malati di tumore di resistere meglio agli effetti collaterali della chemioterapia che colpiscono in particolare il sistema immunitario (red) Un periodo di digiuno può indurre un maggiore ricambio delle cellule staminali nel sangue, aiutando il sistema immunitario a resistere agli effetti negativi della chemioterapia e anche alla normale degenerazione dovuta all'invecchiamento. Lo afferma un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Cell - Stem Cell” da Valter Longo e colleghi della University of Southern California, che hanno verificato questo fenomeno su alcuni pazienti oncologici, dopo averlo scoperto in una sperimentazione sui topi. Il risultato potrebbe avere importanti ricadute per la salute e la qualità della vita di pazienti in chemioterapia, anziani e persone con deficit del sistema immunitario. La chemioterapia è, insieme alla radioterapia e alla chirurgia, il trattamento più utilizzato e più efficace contro il cancro. Può produrre tuttavia notevoli effetti collaterali, tra cui il depauperamento delle cellule del sistema immunitario: si calcola che circa un quinto dei decessi dei malati oncologici sia accelerato o addirittura causato dalla chemioterapia. Il sistema immunitario, inoltre, si degrada inevitabilmente con l'età, portando in alcuni casi a una condizione di immunodeficienza ed esponendo a un maggior rischio di sviluppare leucemie e altre neoplasie. In un precedente studio, Longo e colleghi avevano scoperto che privando temporaneamente del nutrimento alcuni topi di laboratorio, si riusciva ad aumentare la resistenza delle loro cellule staminali a determinati fattori di stress. in quest'ultimo lavoro hanno dimostrato che lo stesso digiuno ha effetti protettivi per le cellule immunitarie presenti nel sangue, come i globuli bianchi. "Il digiuno prolungato determina una notevole riduzione del numero di globuli bianchi, che tuttavia tende a recuperare i valori normali quando i roditori riprendono ad alimentarsi: si tratta probabilmente di un meccanismo sviluppato con l'evoluzione che permette di ridurre il consumo energetico nei periodi di mancanza di cibo", ha spiegato Longo. "Questo stesso fenomeno ha l'effetto di indurre le cellule staminali a porsi in una modalità in cui riescono non solo a generare altre cellule immunitarie, ma anche a invertire l'immunosoppressione causata dalla chemioterapia: il sistema immunitario dei topi ne risultato ringiovanito". La rilevanza è dovuta al fatto che la protezione contro la perdita di globuli bianchi si verifica anche negli esseri umani. Gli autori lo hanno verificato nell'ambito di uno studio clinico in pazienti che hanno digiunato per un singolo periodo di 72 ore prima della chemioterapia a base di platino. Inoltre, il digiuno sembra avere effetti positivi anche sulla riduzione dei livelli di IGF-1, una proteina con un ruolo chiave nella crescita nell'invecchiamento. Per questo, l'ipotesi degli autori è che il digiuno possa essere di beneficio non solo per i pazienti oncologici, ma anche per anziani e persone con deficit immunitari. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 4 Giu. ’14 POLICLINICO, IL FLASH MOB DEI LAUREATI Contro le scarse prospettive Il forte vento di ieri pomeriggio al Policlinico Universitario sembrava quasi un effetto speciale voluto da chi ha steso i camici bianchi sui fili: l'equilibrio precario era lo stesso che da un anno circa affligge gli animi dei laureati in Medicina, dal futuro incerto e dalla carriera irraggiungibile. Un'ottantina si sono dati appuntamento all'ingresso del Policlinico, ore 14 in punto, come i loro colleghi a Roma, per un flash-mob di protesta contro la dispersione universitaria post lauream: «Le scuole di specializzazione, indispensabili per poter esercitare, accolgono meno di 3.500 allievi», spiega l'amministratore Sigm (segretariato italiano giovani medici) Luca Serchisu, «ma a tentare il concorso ogni anno in Italia sono in circa 10 mila: è evidente che occorre una adeguata programmazione del fabbisogno di medici, specialisti e altri professionisti sanitari». Per i restanti laureati si aprono le porte, strettissime, per il corso in Medicina generale (20 posti in tutta l'Isola) oppure per le sostituzioni come guardia medica: «Ma anche in questo caso i giovani sono penalizzati, considerato che ai medici di ruolo sono state aumentate le ore di servizio notturno da 24 a 38 settimanali», aggiunge il segretario Diego Costaggiu. Ai piedi dei camici scossi dal vento, alcune valigie con pochi indumenti e tanti sogni: la prospettiva per i neolaureati sardi sembra essere quella dell'emigrazione forzata: per poter accedere ad alcune scuole di specializzazione come Oncologia e Nefrologia, per ricevere un compenso più elevato e per poter fare carriera «che qui ci viene negata». ____________________________________________________________ Repubblica 2 Giu. ’14 MEDICI, LA SPECIALIZZAZIONE È DIVENTATA UN MIRAGGIO AUMENTANO GLI ACCESSI ALLA FACOLTÀ (10.000 NEGLI ULTIMI ANNI, CONTRO I 7400 DEL 2007), MENTRE DIMINUISCONO I CONTRATTI PER SPECIALIZZARSI: DAI 4.500 DELLO SCORSO ANNO ACCADEMICO SI PASSERÀ AI 3.500 PREVISTI PER IL PROSSIMO ANNO Catia Barone Lo leggo dopo “I o speriamo che me la cavo'. Sarà così anche per gli studenti di medicina? Il titolo del libro scritto dal maestro elementare Marcello D'Orta negli anni Novanta sembra proprio calzare a pennello. Dopo anni di studio, lunghe giornate di corsi obbligatori e tirocini serali, il futuro dei neolaureati è ancora molto incerto. Sì perché il passo successivo è vincere il concorso di specializzazione. Nulla di più facile – si potrebbe pensare per ragazzi abituati allo studio e propensi a un lavoro che richiede una forte vocazione. Eppure, in Italia non è così. I posti sono troppo pochi e molti laureati cercano altrove. 'Il nostro sistema non si è ancora dotato di strumenti in grado di effettuare un'adeguata programmazione del fabbisogno di professionalità mediche. Lo dimostra il fatto che aumentano gli accessi a Medicina (10.000 negli ultimi anni, contro i 7400 del 2007), mentre diminuiscono i contratti di specializzazione (dai 4.500 dello scorso anno accademico si passerà ai 3.500 previsti per il prossimo anno)” - afferma Walter Mazzucco, presidente nazionale dell'Associazione italiana giovani medici (SIGM). Senza contare, poi, i 3000 accessi in più dovuti agli effetti della sanatoria parlamentare sul bonus maturità ed agli esiti dei ricorsi al TAR. Il contesto è problematico e non tiene conto dell'impatto crescente di malattie e disabilità legate al progressivo invecchiamento della popolazione. Nuovi bisogni che spingono i medici a chiedere una revisione delle tipologie di professionalità da formare. “Occorrono più medici generalisti e più profili specialistici utilizzabili nel sistema integrato delle cure tra ospedale e territorio – dice il presidente di SIGM – In Francia, ad esempio, quasi la metà dei contratti di formazione sono assegnati alle scuole di specializzazione di medicina generale, mentre il resto alle altre 30 tipologie (in Italia sono 53)”. Cosa fare dunque? Cercare altre strade, proprio come Marco Mazzotta che ha appena sostenuto il concorso per terminate il suo percorso in Francia: “La formazione specialistica italiana è un buon esempio di sfruttamento di manodopera a basso costo, spesso senza turni fissi, limiti di responsabilità, e poca formazione. Ma visto che il ministro Giannini vuole copiare l'esempio francese per l'accesso a Medicina, senza tra l’altro considerare le drammatiche conseguenze di questa decisione, perché non ne ricalca anche il modello post laurea? In Francia tutti i ragazzi che fanno il concorso sanno che avranno un posto di specializzazione o di medicina generale (sono 7904 per circa 8000 partecipanti). Considerando le fisiologiche rinunce, tutti avranno un posto”. Come mai? “Perché i francesi (e quasi tutti gli altri paesi europei) – dice Marco Mazzotta - hanno semplicemente programmato gli accessi a medicina e alle specialità. Peccato che in Italia la parola magica 'programmazione' non sia contemplata”. Un altro camice bianco in fuga è Roberto Pezzutto: “Dopo la laurea ho deciso di fare un esperienza all'estero ed ora mi trovo Inghilterra per un tirocinio di sei mesi grazie a una borsa di studio. Come mai ho scelto questo Paese? Perchè da sempre offre agli stranieri la possibilità di fare carriera. Pensi che qui ho incontrato un chirurgo italiano primario a 42 anni, anche lui scappato anni fa da Roma. I miei sei mesi scadono il 15 di giugno ma ho già ricevuto offerte di lavoro per continuare”. La crescente emorragia di giovani medici verso l’estero rappresenta un serio campanello d'allarme e i giovani medici promettono battaglia. Il SIGM ha già organizzato per domani a Roma una mobilitazione, nell'ambito della Campagna #svoltiAMOlaSANITÀ: “Serve un sistema di programmazione in linea con gli scenari di salute futuri – conclude il presidente Walter Mazzucco – ma occorrono anche più investimenti per la formazione post laurea e per lo sblocco del turnover nel nostro Servizio sanitario nazionale”. A sinistra, un confronto tra immatricolazioni in medicina, popolazione residente e contratti di specializzazione per macro aree geografiche, da cui risulta penalizzato il Mezzogiorno ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 6 Giu. ’14 IL NUOVO CODICE DEONTOLOGICO DEI MEDICI. AGLI STUDENTI IN MEDICINA NON PIACE: “E’ INADEGUATO E GIÀ VECCHIO” - Gentile direttore, questa lettera è frutto di riflessioni da parte di noi, un gruppo di studenti prossimi all’essere medici, che nel momento in cui, nella nostra città Torino, la Fnomceo nazionale approvava il Codice deontologico si è riunito spontaneamente più volte per leggerlo, comprenderlo e commentarlo. Questo gruppo da tempo riflette sul futuro della professione perché questo futuro lo percepiamo incerto, difficile e problematico. Non ci riferiamo solo al problema del precariato, della disoccupazione che pur ci preoccupa e non poco, ma anche alla difficoltà, ammesso di trovare lavoro, di essere in condizioni di svolgerlo bene, di vivere la professione secondo regole che la tutelino e la sviluppino. Caro direttore, caro On. Bianco, la prima sensazione che ci è giunta, leggendo i vari punti del Codice e gli articoli dei giornali che si sono susseguiti, è un senso di smarrimento per due motivi: il primo è perché ci troviamo, alla fine del percorso di studi, senza basi e senza competenze deontologiche (di deontologia in facoltà quasi non se ne parla); il, secondo perché la lettura degli articoli del Codice ci ha mostrato gravi spaccature e discrepanze tra gli ordini, politici entusiasti (QS 23 Maggio), sindacati tiepidi e ambigui (vedi Sole24ore- Sanità del 27 Maggio), medici critici (vedi dichiarazioni del Dr. Riccio, QS 29 Maggio, del Prof. Gianfrate, QS 31 Maggio, quelle del dott Polillo, QS 5 Giugno) e soprattutto le analisi precise e critiche del Prof. Cavicchi (QS 26 Maggio – 29 Maggio – 31 Maggio) culminate in quel “gesto deontologico” quale è la sua lettera aperta (QS 3 Giugno) così pregnante per le preoccupazioni che esprime e così leale nelle modalità con le quali le esprime. Insomma da una parte manca una unanimità che da quel che sappiamo non ha precedenti storici e dall’altra manca la profondità di una attenta valutazione del grado di pertinenza della deontologia nei confronti della realtà del medico. Molte dichiarazioni, soprattutto dei sindacati, ci sono sembrate di pura circostanza autorizzandoci a pensare due cose: che il Codice è stato letto in fretta o che nei medici che si sono pronunciati manchi una vera cultura deontologica per capire davvero cosa sia il Codice. Prima di procedere con la nostra umile osservazione e analisi, vorremo ringraziare il Prof Cavicchi perché, conducendoci passo per passo nello studio approfondito dei diversi contenuti, ci ha permesso di comprendere l’essenza del Codice. Egli, come un perito della sala settoria, isola e separa i vari blocchi: • la professione medica, la titolarità del medico, la presenza o meno dei criteri di pertinenza del Codice; • il malato e la relazione con lui; • i rapporti con le altre professioni; • l’epistemologia ossia “come fare ciò che si deve fare”. Il tutto senza dimenticarne l’interezza! Ma soprattutto ponendo il quesito giusto che a quel che pare il Codice ha dimenticato di porre: quale medico? Un quesito che ci ha sgomentato perché implica che noi che non siamo ancora medici siamo già, come direbbe il prof Cavicchi, nostro malgrado inadeguati sul nascere nei confronti di quello che ci aspetta fuori dall’università; cioè non siamo ancora medici ma non siamo il futuro e meno che mai la risposta a quel quesito. Per questo ci sentiamo in debito con il prof Cavicchi che ci ha fatto comprendere anche in modo spietato ma nello stesso tempo rigoroso il perché egli ritenga che “all’analisi , il nuovo Codice, risulta contraddittorio, regressivo e per questo non pertinente” (QS 31 maggio). Noi abbiamo capito che il nuovo Codice colpisce certo anche chi è già occupato, o chi ha già intrapreso la sua carriera professionale, perché la tutela deontologica che offre loro è insufficiente, ma colpisce soprattutto con le sue inadeguatezze il nuovo, cioè noi giovani e il nostro futuro. Lo chiediamo a tutta la Fnomceo: ma quale professione pensate di consegnarci? Quali problemi che avreste dovuto risolvere voi, che siete già nel mondo del lavoro, ci state scaricando addosso? E perché? Quale professione avremo se la professione è prima di tutto così poco compresa dalla deontologia e così impoverita nelle sue prospettive e nelle sue prerogative? Capirà, signor direttore, che il nostro riferimento va a quel principio di responsabilità che noi giovani abbiamo adottato in pieno ma che ci fa venire il sospetto che chi è più anziano non abbia capito, dal momento che con i suoi limiti progettuali sta ipotecando il futuro della nostra professione attraverso un mercato del lavoro incerto, una professione mal definita, una pratica medica ormai concepita prima di tutto come compatibile con i problemi della gestione e solo dopo con i bisogni dei malati. Analizzando il Codice abbiamo notato che la realtà che affronteremo un dì non avrà nulla a che vedere con la vecchia realtà descritta negli articoli del Codice, ci troveremo dunque, in una realtà in cui saremo obbligati a fronteggiare problematiche che il Codice non considera. Saremo obbligati, e questo senza che nessuno ci possa istruire, ad adeguarci al nuovo e alla sua complessità ma sempre restando dipendenti da vecchie modalità riduzioniste. Per il prof Cavicchi, l’aggiornamento del nuovo Codice (perché secondo lui è un restyling e non una riforma) non considera i cambiamenti importanti della medicina e della sanità, pertanto l’idea che traspare è di una professione medica regressiva. La titolarità del medico è presentata decontestualizzata e teorica; essa non riesce a soddisfare le nuove richieste e i mutamenti necessari che la società richiede a gran voce e non garantisce a noi, futuri medici, l’autonomia necessaria e la responsabilità per essere i medici del terzo millennio in grado di mediare tra principi, valori e realtà e i fini della medicina con i mezzi della sanità. Se non saremo in grado di mediare tra i fini medici e la realtà, come potremo noi essere e sentirci medici? Senza autonomia e quindi libertà, potremo noi continuare ad essere responsabili? Secondo Mario De Caro (filosofo della morale e docente presso la Facoltà di Roma Tre coinvolto proprio a Torino in una iniziativa organizzata dall’Ordine alla quale abbiamo partecipato) “noi siamo responsabili per le nostre azioni solo nella misura in cui le compiamo liberamente…”. Il prof Cavicchi insiste sul tema dell’autonomia e propone lo scambio con la responsabilità, ma il suo fine è in partica quello di cui parla De Caro la libertà quale condizione per la responsabilità. Questa problematica, a noi pare, non solo non è affrontata dal codice che si limita a delle dichiarazioni di principio, ma per certi versi laddove è affrontata è affrontata in modo sbagliato (art 6) cedendo ai condizionamenti dell’economicismo della gestione. Il che, noi che crediamo nel principio di responsabilità di Jonas, non vuol dire ignorare le ragioni della spesa e dell’economia, ma solo affrontare tali questioni in modo non subalterno e subordinato. L’autonomia si può usare anche per qualificare la spesa, rinunciare alla autonomia per ragioni di spesa è la morte della nostra professione. Attualmente pare che la nostre possibilità di scelta siano limitate a codici, linee guida, ed evidenze basate sulle prove di efficacia. Ovviamente sarebbe sciocco negare la loro importanza, ma la mancanza di autonomia comporta il venir meno della comprensione della complessità del reale e della nostra responsabilità, saremo dunque “automi irresponsabili convinti di essere liberi e responsabili…” Per quanto riguarda il concetto di malato o persona assistita, ha ragione il prof Cavicchi il malato ormai si presenta da noi in ospedale, in ambulatorio, come colui che è “esigente" non più passivo bensì emancipato, partecipe, attivo, informato, ed egli stesso “chiede e richiede un altro tipo di medico e di approccio clinico”. Sia il nuovo malato che l’economicismo condizionano tanto il concetto di autonomia del prof Cavicchi quanto quello di libertà responsabile del prof De Caro, il tutto ormai impregnato in un’atmosfera di contenzioso legale e medicina difensiva. Altra questione è quella della relazione . Può essere che l’unica vera relazione con il malato sia quella legale? Può essere che ancora non siamo in grado di ripensare la professione dentro dei comportamenti quindi delle deontologie ripensate a loro volta nella relazione? Possiamo dare alla relazione ancora la giusta importanza? E ancora a breve verrà richiesto, a noi giovani medici, di co-evolvere con le altre professioni senza il doversi barricare dietro a rigide competenze. Saremo in grado di farlo? Non ci resta che sperare nella sua attuabilità mentre si sta consumando un conflitto interminabile con gli infermieri al quale nessuno pare voglia porre rimedio. Concludiamo con la speranza che le nostre osservazioni possano essere accolte e capite ma soprattutto chiediamo scusa della lunghezza della lettera, ciò è dovuto al fatto che l’argomento è alquanto ricco ed elaborato e le idee e le menti che vi hanno partecipato sono state numerose. Ma prima di concludere vorremmo ricordare attraverso il “gesto deontologico” che il prof Cavicchi ha fatto con la sua lettera aperta, e che convintamente facciamo nostro un altro famoso “gesto deontologico” che nel 1972 ha fatto storia e il cui autore fu Giulio Maccacaro (stiamo preparando l’esame di “sanità pubblica”) quando ha scritto una lettera all’ordine dei medici di Milano con la quale denunciava un ordine professionale apertamente “regressivo” se non “repressivo” nei confronti dei medici che volevano rinnovarsi nelle idee, nella scienza e nella pratica. Noi ci rivolgiamo al presidente Bianco per chiedergli di prendere in mano la cosa, di adoperarsi perché nelle facoltà di medicina sia insegnata la deontologia e che la deontologia da insegnare sia all’altezza delle sfide che ci attendono, ma soprattutto chiediamo al presidente Bianco di difendere le future generazioni di medici impedendo prima di tutto che si scarichi su di loro i problemi che questo codice mostra di non saper governare. Eleonora Franzini Tibaldeo ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 3 Giu. ’14 GIOVANI MEDICI IN PIAZZA. “VOGLIAMO PIÙ FORMAZIONE, LAVORO, MERITO E TRASPARENZA” Le giovani generazioni della sanità (neolaureati, specializzandi e precari) unite oggi per far valere le proprie istanze in tutti gli ambiti che vanno dall’accesso alla formazione all’accesso al mondo del lavoro. Iniziative in tutta Italia e tre grandi appuntamenti davanti a Montecitorio, Ministero della Salute e Miur. 03 GIU - Programmazione, Formazione e Lavoro. Più Merito e Più Trasparenza. È questo che chiedono i giovani della sanità italiana, medici in primis, (neolaureati, specializzandi e precari), che oggi sono scesi in piazza per far valere le loro istanze e “per imprimere una svolta alla sanità Italiana e per garantire un futuro al SSN che ha bisogno come non mai delle energie e della passione dei propri giovani professionisti”. Saranno promosse iniziative in tutta Italia, ma il fulcro della protesta sarà Roma, con tre grandi appuntamenti: dimostrazione a Piazza Montecitorio in concomitanza con Flash-mob coordinati in tutta Italia, flash-mob davanti il MIUR per chiedere ed ottenere un concorso in tempi rapidi e con un regolamento certo e un incontro al ministero della Salute dove i delegati del Segretariato Giovani Medici sono stati invitati in occasione della presentazione della bozza del DPCM “salvaprecari”. Ecco, in particolare, il manifesto diffuso dai giovani medici per spiegare le ragioni della protesta: 1) Adeguata programmazione del fabbisogno di medici, di specialisti e di altri professionisti sanitari Al pari degli altri Paesi, nell’epoca dell’Europa della libera circolazione di pazienti e medici, l’Italia definisca con metodo rigoroso quanti e quali professionisti formare, in relazione al quadro epidemiologico ed all’organizzazione dei servizi socio-sanitari. Si ponga in equilibrio il sistema professionale, garantendo la giusta dotazione di professionalità: tanti accessi alla formazione quanti al mondo del lavoro. Nelle more del ripianamento della preoccupante forbice tra domanda ed offerta, ingenerata dall'adozione di non adeguate politiche di programmazione, si trovino soluzioni per impiegare la professionalità dei giovani della sanità in attività che siano di utili al sistema salute ed alla salute dei cittadini. 2) Accesso a Medicina e Chirurgia basato su numero programmato, criteri oggettivi, trasparenti e meritocratici In tema di accesso a Medicina nessuna decisione sia presa di fretta per un sistema che nelle risorse umane ha la sua principale ricchezza; venga istituito un tavolo di lavoro tecnico per valutare le criticità e le possibili soluzioni, a partire dal “blindare” dai ricorsi l’attuale test e, solo laddove ciò non sia possibile, ci si sforzi di trovare un sistema alternativo che faccia salva la adeguata programmazione dei fabbisogni di professionalità mediche. Perché in assenza di soluzioni si continueranno a verificare accessi in sovrannumero che abbasseranno gli standard formativi e daranno vita a nuove coorti di futuri precari. Nessuna barriera ideologica va posta ad un’ipotesi di riforma che voglia migliorare l’esistente, ma da alcuni punti non si può derogare: accesso programmato, valutazione basata su criteri oggettivi, trasparenti e meritocratici, qualità della formazione. Difatti, al di là del sistema di accesso, una società moderna deve potere e sapere orientare i giovani sulla base di un approccio vocazionale, a partire dalle scuole superiori, onde evitare un sovraffollamento "non consapevole" dei corsi di studio, a partire dall'ambito bio-sanitario. 3) Maggiori fondi per la formazione post laurea di area sanitaria ed indizione del Concorso di accesso in tempi rapidi e certi Risolvere l’emergenza per i fondi aggiuntivi per le scuole di specializzazione, valorizzare i corsisti di medicina generale e gli specializzandi non medici di area sanitaria. Il MIUR ha annunciato di aver individuato col MEF possibili fonti di risorse (dall’account Twitter MIUR Social)? Bene. Il Decreto Legge Irpef in approvazione al Senato (in aula a partire dal 3 giugno) è uno strumento normativo adeguato per incardinare le richieste dei giovani della sanità. Due gli emendamenti già presentati su proposta dell'Associazione Italiana Giovani Medici (SIGM) con un razionale chiaro: "No ai rischi per la salute: SI all'investimento nei giovani della Sanità!". Messaggio rafforzato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che invita i Governi a tassare i prodotti da tabacco e reinvestire le risorse nell’ambito socio- sanitario. Si chiede che il Governo li supporti ovvero, alla luce del tweet del MIUR che ha annunciato avere individuato possibili fonti di coperture, che presenti un emendamento governativo al DL Irpef per reperire le risorse necessarie a risolvere l'emergenza. Da troppo tempo gli aspiranti specializzandi sono in attesa del nuovo Regolamento di accesso. Basta promesse, servono certezze. 4) Nessuna deroga alla qualità della formazione post laurea di area sanitaria. I medici specializzandi non siano tappabuchi delle mancanze di organico né delle Università né del Servizio Sanitario Nazionale Si a reti integrate di formazione di qualità, costruite con strutture identificate in modo trasparente a mezzo di indicatori di performance. Sia la formazione il punto di partenza e di arrivo, superando le contrapposizioni in tema di competenze formative specialiste e generaliste. Non si sacrifichi la formazione dei professionisti della salute sull’altare della sostenibilità di assetti politico-sindacali non più attuali, ma si pongano le basi per cambiamenti di sistema. Si garantisca una formazione vocata al saper essere e saper fare, che sappia coniugare alle competenze tecniche i valori delle medical humanities, ponendo sempre al centro dell'assistenza la persona. 5) Sblocco del turn-over immediato e valorizzazione dei giovani professionisti della Salute nel nostro SSN I Giovani Medici (SIGM) intendono dare voce al disagio di migliaia di giovani camici bianchi nel giorno in cui saranno presentati i contenuti del nuovo testo del DPCM “salvaprecari” (il 3 giugno presso il Ministero della Salute). Se le risorse più preziose del sistema sanitario italiano sono le risorse umane è su di queste che bisogna investire. Si attui lo sblocco del turn over e si provveda alla stabilizzazione dei precari della Sanità. Si valorizzino i giovani, favorendone la maturazione professionale e la possibilità di accedere ai ruoli di responsabilità: si adottino modalità di selezione meritocratiche e si liberi la sanità dall'influenza della politica. Accountability, valutazione degli esiti e delle performance. Stop al criterio unico dell'anzianità per la progressione di carriera! Misuriamoci. I giovani professionisti della sanità non hanno paura di farlo. Ci si impegni tutti nella segnalazione di inappropriatezze e di sprechi per reperire le risorse da re-investire nel sistema salute, a partire dal nostro SSN pubblico, equo e solidale. Si proceda alla depenalizzazione dell'atto medico per superare la medicina difensiva e per eliminare il contenzioso e speculazioni in sanità. Credibilità e fiducia per un nuovo patto con i cittadini/pazienti nascono solo se c'è trasparenza. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 7 Giu. ’14 EMPATIA METTITI NEI MIEI PANNI L’intelligenza emotiva salverà il mondo. Come evitare il rischio di un nuovo conformismo «Puoi sempre sapere quando una nuova idea sta diventando popolare: è quando la gente inizia a criticarla». Roman Krznaric, guru del pensiero empatico, mette le mani avanti: il brusio che disturba la cerimonia di incoronazione dell’empatia a strumento che salverà il mondo non è che il prezzo da pagare per la raggiunta celebrità. L’empatia sta vivendo il suo periodo d’oro. In nessun’altra epoca storica se n’è parlato tanto. Viviamo nel mezzo di una «smania empatica», per usare l’espressione di Steven Pinker, docente ad Harvard. La nuova intelligenza, quella più adatta a comprendere il nostro tempo e il nostro mondo, è quella empatica. Solo i manager e i politici empatici hanno successo, non si può esistere senza essere empatici, lo chiediamo ai vicini di casa, ai colleghi di lavoro, ai compagni di palestra. Se possiamo insegnare ai nostri figli a gestire le emozioni mettendosi nei panni dell’altro, ridurremo il bullismo. Se possiamo coltivare l’intelligenza emotiva fra i medici, avremo un’assistenza sanitaria migliore e più compassionevole. In Ruanda, scrive Krznaric nel suo ultimo libro dal timido titolo «Empatia: un manuale per la rivoluzione», una fiction vista dal 90 per cento della popolazione è infarcita di messaggi empatici nello sforzo di prevenire il ritorno della violenza etnica fra Tutsi e Hutu. La frequenza delle ricerche su Google per la parola empatia è più che raddoppiata negli ultimi dieci anni. A puntellare la straordinaria ascesa i bestseller — dal più datato al più recente — di Daniel Goleman, «L’Intelligenza emotiva», del 1995, e di Jeremy Rifkin, «La civiltà empatica», del 2010. «Perché un quoziente intellettivo altissimo non mette al riparo da grandi fallimenti?», si chiedeva il primo. «Perché a governare settori decisivi della nostra vita non provvede l’intelligenza astratta dei soliti test, ma una complessa miscela fatta di autocontrollo, perseveranza, empatia, attenzione agli altri» è la risposta. Se, come scrive Hans Magnus Enzensberger, il Novecento è stato il secolo del trionfo del quoziente intellettivo e dell’ossessione di misurare l’intelligenza con rigore scientifico, oggi il QI è messo in ombra dall’EQ, Emotional Intelligence Quotient. Dopo l’onda del riflusso che ha seguito i movimenti giovanili degli Anni Sessanta e Settanta, spingendo ad un generale ripiegamento nella sfera privata, «con una di quelle svolte di cui non è facile rintracciare la radice, il motore delle emozioni collettive ha ripreso a girare — scrive il filosofo Roberto Esposito —. È bastato che una scintilla scoccasse in una metropoli perché lo stesso fuoco si accendesse in quella vicina» e poi in un’altra ancora, in una corrente inarrestabile di emotività collettiva. I Millennials — i nati fra gli Anni Ottanta e i primi Anni Duemila — castigati dalla crisi economica, sono stati costretti a ripensare le categorie del successo, sempre meno legato al possesso e sempre più in tensione verso qualcosa d’altro, di nuovo. La sfida è inventare modelli di relazione, lavori che possano fare la differenza nella propria vita e in quella degli altri. L’economia sociale e solidale è la sola che non sta conoscendo la crisi. «C’è stato un tempo in cui prendersi cura del prossimo era da sfigati: in cui lo stile di un giovane occidentale domandava il più gelido e ironico distacco. Ma forse questo tempo è finito. L’ethos dei trentenni di oggi è fatto di empatia e — per dirla con papa Francesco — di nessuna paura verso la tenerezza: un umore collettivo chiamato New Sincerity », ha scritto Giorgio Fontana su La Lettura . Anche la crisi finanziaria del 2008 ci ha messo del suo, rimescolando i valori e aprendo un’epoca che dà maggiori importanza alla cooperazione e alla responsabilità sociale e ambientale. Cosi l’etologo Frans de Wall può scrivere nel suo libro «L’età dell’empatia. Lezioni dalla natura per una società più solidale»: «L’avidità ha fatto il suo tempo. Ora è il momento dell’empatia». E il presidente americano Obama può ripetere nei suoi discorsi: «Dobbiamo parlare di più della nostra mancanza di empatia. È solo quando sei mosso da qualcosa di più grande di te stesso che realizzi il tuo vero potenziale». Ma qualcosa scricchiola, l’euforia ha fatto dimenticare il lato oscuro dell’empatia, la sua fragilità. «L’empaticamente corretto è il nuovo politicamente corretto» scrive provocatorio The Atlantic . Al conformismo linguistico — spesso ipocrita e finto buonista — dettato dalla volontà di tutelare tutti senza offendere nessuno si sta affiancando un conformismo delle emozioni, guscio di protezione delle sensibilità individuali? «Tutti coloro che non sanno subito dare agli altri l’impressione della comprensione, condividendo valori ed emozioni, vengono scartati», scrive Paul-Henri Moinet, in un acido articolo su Le Nouvel Economiste . Il rischio è trasformare l’empatia nella coperta di Linus di una società che ha continuo bisogno di conforto fisico e intellettuale, annullando la fatica di doverci spiegare e magari anche confrontare in modo duro per poterci conoscere. «L’intelligenza empatica sviluppata solo in una direzione e ingenuamente identificata con lo strumento per raggiungere l’armonia fra gli uomini è un approccio destinato a fallire — dice Andrea Pinotti, docente di Estetica alla Statale di Milano, autore di “Empatia. Storia di un’idea da Platone al post umano” (Laterza) —. L’empatia ha un ruolo se riesce ad abbracciare anche la dimensione dei conflitti, in un rapporto dialettico in cui le diversità si confrontano, assumendosi dei rischi». «La tesi più avanzata, che emerge dagli studi sui circuiti neuronali, sostiene che l’empatia è un’esperienza molto complessa, non riconducibile solo a una risposta emotiva automatica», spiega Laura Boella, docente di Filosofia morale, autrice di «Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia» (Raffaello Cortina). La risposta emotiva è come un fuoco di paglia. Possiamo essere colpiti dal dolore di una persona accanto a noi, ma perché il disagio diventi preoccupazione per l’altro «è necessario l’intervento delle capacità cognitive, che non significa il freddo calcolo della ragione, ma la messa in prospettiva, l’immaginare la vita altrui. Insomma, bisogna lavorarci un po’ su, mettendosi in gioco». L’idea di un’empatia «facile» è romantica e naif. La paura d’amare, di stringere amicizie profonde sono spie della difficoltà di uscire dai nostri confini, allargare l’esperienza e accogliere la gioia e il dolore altrui, tutte caratteristiche dell’intelligenza emotiva. Come scrive ancora Enzensberger «continuiamo a vivere nel timore di essere stupidi». Solo i test di valutazione sono cambiati. @danicorr ____________________________________________________________ Le Scienze 3 Giu. ’14 AUTISMO ED ESPOSIZIONE PRENATALE A ORMONI STEROIDEI Una delle cause dell'autismo potrebbe essere l'esposizione del feto a livelli eccessivi di ormoni steroidei durante lo sviluppo del sistema nervoso centrale, questo eccesso porterebbe a una estrema "mascolinizzazione" del cervello. I risultati della ricerca che conferma questa correlazione sono tuttavia preliminari(red) Un'elevata concentrazione di ormoni steroidei nel liquido amniotico potrebbe contribuire allo sviluppo di disturbi dello spettro autistico. A questa conclusione è giunto un ampio studio effettuato da ricercatori dell'Università di Cambridge e pubblicato sulla rivista “Molecular Psychiatry”, nel quale gli scienziati hanno analizzato circa 20.000 campioni di liquido amniotico delle madri di altrettanti giovani danesi nati fra il 1993 e il 1999, confrontandone i risultati con l'elenco di quanti negli anni successivi hanno ricevuto una diagnosi per uno dei disturbi dello spettro autistico. Questi risultati, avverte peraltro Simon Baron-Cohen, primo firmatario dell'articolo, sono solo preliminari, non escludono altre concause e richiedono la verifica del fatto che gli aumenti dei livelli di ormoni osservati siano specifici per l'autismo e non condivisi da altre condizioni dello sviluppo neurologico fetale. Quindi, “dal punto di vista clinico, i risultati non dicono nulla sul potenziale uso di questi dati come un test prenatale per valutare il rischio di autismo di singoli soggetti”. Il fatto che l'autismo colpisca i maschi più delle femmine ha suggerito l'idea che i livelli degli ormoni steroidei possano influire sullo sviluppo precoce del cervello nel feto, tanto da rappresentare un importante fattore di rischio biologico per l'emergere dell'autismo. Questa ipotesi è stata sviluppata nel decennio scorso proprio da Baron- Cohen che ha formulato la teoria del "cervello maschile estremo", secondo cui i disturbi autistici sarebbero legati ad anomalie nello sviluppo dei circuiti cerebrali dovuto a una iper-mascolinizzazione del cervello. I primi tentativi di verificare la teoria misurando i livelli di testosterone a livello fetale e del liquido amniotico avevano dato però risultati controversi, anche per il numero ridotto disoggetti valutati negli studi. Nella nuova ricerca Baron-Cohen e colleghi hanno coinvolto il progetto Danish Historic Birth Cohort (HBC), che dalla fine degli anni settanta ha raccolto e conservato presso il Statens Serum Institute a Copenaghen i campioni di amniocentesi, sangue e siero materno relativo a oltre 100.000 neonati. Fra i soggetti nati tra il 1993 e il 1999 dei quali erano disponibili i campioni ne sono stati identificati 129 che negli anni successivi alla nascita hanno ricevuto una diagnosi per una forma di autismo sulla base dei criteri dell'ICD-10 (International Classification of Diseases, decima revisione) dell'Organizzazione mondiale della Sanità. Nei campioni che riguardavano questi 129 soggetti i ricercatori hanno misurato non solo i livelli di testosterone, ma anche quelli di altri quattro ormoni steroidei (progesterone, 17?-idrossi-progesterone, androstenedione e cortisolo). In questo modo, Baron-Cohen e colleghi hanno scoperto che nel liquido amniotico delle madri i cui figli maschi sono stati poi diagnosticati come affetti da qualche forma di disturbo dello spettro autistico, i livelli di tutti questi ormoni erano più elevati rispetto a quelli osservati nei soggetti usati come controllo. Nello studio non è stata testata un'eventuale origine di questo eccesso di attività steroidea durante lo sviluppo fetale, quindi, scrivono gli autori, “saranno necessarie ulteriori ricerche per capire come possono contribuire a questi livelli elevati le diverse fonti di queste sostanze”. ____________________________________________________________ Repubblica 6 Giu. ’14 CANNABIS TERAPEUTICA, IN ITALIA È ANCORA UN DIRITTO NEGATO Nel dossier presentato da Luigi Manconi le difficoltà dei pazienti a reperire farmaci a base di cannabis. Nel 2013 solo 60 persone hanno ottenuto l'autorizzazione ad importare questi farmaci. Pronto un disegno di legge per semplificare e agevolare i meccanismi per la produzione, importazione, prescrizione e dispensazione di farmaci a base di cannabis di IRMA D'ARIA Lo leggo dopo (ansa)ROMA - Nonostante il ricorso terapeutico alla cannabis sia legittimo in Italia dal 2007, sono ancora pochissimi i pazienti che vi accedono. Colpa di una procedura lenta e macchinosa che prevede una lunga sequenza di passaggi: medico curante, azienda sanitaria, Ministero della salute, mercato estero, importazione, farmacia ospedaliera. Iter che, di fatto, impedisce di ricorrere al farmaco tempestivamente. Accade così che i tempi della richiesta superino abitualmente i trenta giorni previsti e che, in alcuni casi, si dilatino fino a richiedere un intero anno di attesa. Il tema è stato al centro del convegno "La cannabis fa bene, la cannabis fa male. Una proposta di legge per l'accesso ai medicinali cannabinoidi" che si è tenuto al Senato presso la sala convegni di Palazzo Santa Maria in Aquiro, promosso dalle associazioni "Luca Coscioni" e "A Buon Diritto". Nel corso del convegno il senatore Luigi Manconi ha presentato un dossier sul tema. Al convegno sono intervenuti, tra gli altri, Lucia Borsellino (assessore Salute regione Sicilia), Elena Gentile (assessore Salute regione Puglia), Luigi Marroni (assessore Salute regione Toscana) e il sottosegretario di Stato alla Difesa, Domenico Rossi. L'accesso limitato. Anche se la recente sentenza della Corte di Cassazione che dà il via libera alla riduzione delle pene per gli spacciatori di droghe leggere viene vista come un'apertura, resta ancora lunga la strada da percorrere perché anche la disinformazione di medici e farmacisti e i costi elevati della cannabis rendono difficile l'accesso a questa terapia. I dati del Ministero della salute, del resto, parlano chiaro: nel 2013 sono state rilasciate 213 autorizzazioni all'importazione di medicinali a base di cannabis dall'Olanda. Dal momento che ogni paziente è tenuto ad importare il farmaco per un dosaggio non superiore alle necessità di tre mesi di terapia, deve inoltrare la richiesta di importazione per quattro volte in un anno. Il dato di 213 autorizzazioni va diviso, dunque, per quattro, e da questo si deduce che nel 2013 meno di 60 persone sono riuscite a ottenere il farmaco. "Tutto ciò è assai grave" dice il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Straordinaria Diritti Umani, nell'introduzione al dossier sulla cannabis presentato oggi pomeriggio. "La mancata disponibilità di farmaci che, da decenni, la letteratura scientifica internazionale ha valutato efficaci, impedisce di operare per alleviare dolori intollerabili, resistenti alle tradizionali terapie; e più in generale per migliorare la qualità della vita e della salute dei pazienti". Le storie dei pazienti. Sono davvero così pochi i pazienti che vorrebbero accedere a questa terapia? La risposta a questa domanda sta nelle storie di malati molto diversi tra loro per patologie, per età e per vicende personali, ma che condividono tutti le traversie quotidiane per accedere a una cura che possa attenuare il dolore e che restituisca loro una qualità di vita migliore nonostante la malattia. "Le storie di questi cittadini hanno dei tratti classici: sono tutti pazienti affetti da malattie croniche e resistenti alle terapie analgesiche tradizionali; la maggior parte di loro scopre la cannabis attraverso canali non medici, cioè amici o internet e si rifornisce al mercato nero" raccontano Antonella Soldo e Francesco Gentiloni nel dossier. Alcuni dei protagonisti di queste testimonianze hanno anche effettuato dei tentativi di auto-coltivazione, sempre finiti male (talvolta con l'arresto). Tutte queste storie sono state raccolte per testimonianza diretta e segnalate alla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti umani del Senato, alle associazioni "Luca Coscioni" e "A Buon Diritto". La disomogeneità regionale. Un altro problema è la differenza tra le regioni. Attualmente quelle che hanno introdotto dei provvedimenti che riguardano l'erogazione di medicinali a base di cannabis sono nove: Puglia, Toscana, Veneto, Liguria, Marche, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Sicilia, Umbria. Le normative regionali convergono tutte nel disciplinare l'erogazione dei medicinali a carico dei propri Servizi sanitari regionali (SSR), ma sotto altri aspetti presentano una grande disomogeneità: in alcuni casi si limitano semplicemente a recepire quanto già stabilito dalla normativa nazionale, in altri sono previste delle specifiche competenze regionali circa l'informazione al personale medico, in altri casi sono stanziati degli appositi capitoli di spesa nei bilanci regionali per garantire le disposizioni dei testi, in altri casi ancora vengono introdotti degli articoli che impegnano le regioni su iniziative quali l'avvio di progetti pilota per la coltivazione a scopi terapeutici. Semplificare l'accesso. Ecco perché il disegno di legge sulla cannabis terapeutica promosso da Luigi Manconi che mira a semplificare e agevolare i meccanismi per la produzione, importazione, prescrizione e dispensazione di farmaci a base di cannabis. Tra le altre cose, il disegno di legge legittima espressamente la coltivazione di queste piante per farne uso personale, in relazione ad esigenze terapeutiche proprie, dei propri congiunti o conviventi. Inoltre, promuove, attraverso il Ministero della salute, una specifica attività di informazione rivolta agli operatori sanitari, con l'obiettivo di far conoscere l'impiego appropriato dei medicinali contenenti i princìpi attivi della pianta cannabis. "Gli ostacoli attualmente frapposti all'utilizzo di questi farmaci limitano la possibilità di intervenire su patologie come il glaucoma e sui sintomi di malattie neurologiche come la sclerosi multipla, o su effetti avversi come nausea e vomito di trattamenti particolarmente invasivi come la chemioterapia" sottolinea Manconi. Il problema della produzione. Nessuna azienda farmaceutica italiana ha chiesto la licenza per produrre questi farmaci. Ma, secondo le associazioni "Luca Coscioni" e "A Buon Diritto", una prima soluzione c'è, è a portata di mano e consentirebbe di ridurre i tempi e i costi a carico del Sistema sanitario regionale, in un regime di assoluta sicurezza. "Si incarichi, attraverso un protocollo tra Ministero della difesa e Ministero della salute, lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze che già prepara diverse tipologie di materiali sanitari, farmaci e presidi chirurgici di produrre medicinali cannabinoidi per i pazienti italiani" propongono le associazioni. ____________________________________________________________ Repubblica 7 Giu. ’14 LA CANNABIS RIDUCE LA FERTILITÀ MASCHILE" Studio inglese: "Attenti giovani, la cannabis riduce la fertilità maschile" L'allarme dell'Università di Sheffield: assumere hashish o marijuana sotto i trent'anni raddoppia il rischio di abbassare la qualità dello sperma e, di conseguenza, ridurre significativamente la possibilità di avere un figlio Lo leggo dopo (ansa)LONDRA - La cannabis riduce la fertilità maschile. A lanciare l'allarme è l'università inglese di Sheffield, che, come riporta l'Independent, ha condotto "il più grande studio sulla qualità dello sperma". In sintesi, secondo la tesi finale della ricerca, assumere cannabis sotto i trent'anni raddoppia il rischio di produrre sperma anormale e, di conseguenza, ridurre in maniera significativa la fertilità degli uomini. Per gli studiosi britannici, al contrario, assumere alcol e fumare sigarette non sembra invece avere effetti negativi sullo sperma e sugli spermatozoi. LA CLASSIFICA DELLA DROGA IN EUROPA Il professor Allan Pacey dell'Università di Sheffield ha precisato che non è stato trovato il legame definitivo tra cannabis e degenerazione spermatica. Tuttavia, questi effetti negativi sarebbero evidenti soprattutto nei giovani al di sotto dei trent'anni e, secondo la ricerca britannica pubblicata sulla rivista scientifica Journal Human Reproduction, sarebbero da additare proprio al consumo di cannabis: "Nei giovani - ha precisato il professor Pacey - il consumo è maggiore rispetto agli over 30 e questo provoca conseguenze negative anche sulla qualità dello sperma". Lo studio ha coinvolto 318 uomini che hanno donato campioni del loro sperma e, allo stesso tempo, fornito indicazioni sul loro stile di vita, tra cui dettagli sul consumo di alcol, droghe e sigarette. A differenza di altre ricerche precedenti, lo studio della Sheffield University non ha collegato l'abbassamento della fertilità maschile all'obesità o a indumenti intimi troppo stretti. "Secondo noi la qualità dello sperma si riduce solo a causa di pochi elementi, e tra questi c'è la cannabis. Dunque, se state pensando di fare un figlio, è meglio rinunciare ad hashish e marijuana". ____________________________________________________________ Repubblica 4 Giu. ’14 BRADICARDICI, SCOPERTO IL SEGRETO DI COPPI: LO SFORZO INTENSO 'RIMODELLA' IL CUORE Una ricerca condotta dalle università di Manchester e Statale di Milano smentisce le vecchie teorie sulla causa del battito rallentato e punta tutto sulle modifiche indotte dall'allenamento sotto sforzo alla cosiddetta corrente del pacemaker. Ecco perché si verifica soprattutto tra ciclisti ed atleti di sport di resistenza di IRMA D'ARIA Lo leggo dopo Il cuore d'atleta, ovvero il rallentamento del ritmo cardiaco che più tipicamente si verifica negli sportivi, non è dovuto ad un aumento dell'attività del sistema nervoso parasimpatico come si è creduto fino ad oggi, ma alla modificazione della cosiddetta corrente "funny", nota anche come corrente del "pacemaker". Lo sostiene uno studio internazionale appena pubblicato su Nature Communications e condotto dall'Università di Manchester e il Dipartimento di Bioscienze della Statale di Milano. I disturbi cardiaci degli sportivi - Chi pratica attività sportiva intensa, in particolare gli atleti, anche se hanno condizioni di salute eccellenti, con l'avanzare dell'età possono essere soggetti a disturbi cardiaci, come le aritmie, derivanti proprio dalla straordinaria performance del loro muscolo più prezioso: il cuore. "L'esercizio fisico prolungato riduce la frequenza cardiaca, cioè provoca bradicardia" spiega Dario Di Francesco del Dipartimento di Bioscienze della Statale di Milano. "Questo adattamento è normalmente benefico in quanto associato a una maggiore efficienza contrattile del cuore e permette al sistema cardiovascolare di fornire migliori prestazioni durante l'attività fisica". Ma gli atleti che praticano sport intensi per lunghi periodi di tempo, a lungo andare possono essere soggetti a disturbi cardiaci come le aritmie. Mentre un cuore normale batte a 60 battiti/minuto, il cuore di atleti che praticano intensamente esercizi aerobici (di resistenza) può scendere fino a 30 battiti/minuto, e anche a valori più bassi durante il sonno. In effetti è noto che la probabilità di aver bisogno di un impianto di pacemaker aumenta negli atleti anziani. Questione di corrente. L'insorgenza della bradicardia negli atleti è stata da sempre attribuita ad un aumento dell'attività del nervo vago del sistema nervoso parasimpatico che controlla il ritmo cardiaco insieme al sistema simpatico: il primo lo rallenta e il secondo lo accelera. Il rallentamento della frequenza cardiaca era quindi finora stato attribuito a un maggiore tono vagale. Ma ora questo studio ha radicalmente modificato questa interpretazione ed ha concluso che la bradicardia indotta dall'allenamento intensivo negli atleti è dovuta a un vero e proprio rimodellamento del cuore. Secondo i ricercatori, responsabile del rallentamento del ritmo cardiaco è una modificazione della corrente "funny", nota anche come corrente del "pacemaker". "Questa corrente è ormai ampiamente riconosciuta come il fattore che controlla la generazione del ritmo cardiaco e la regolazione della sua frequenza" spiega Di Francesco che nel suo Laboratorio all'Università Statale di Milano conduce studi in merito già dal 1979. Studiando roditori allenati e sedentari i ricercatori hanno dimostrato che l'allenamento induce un vero e proprio "rimodellamento" del cuore, associato ad alterata espressione di molti canali ionici cardiaci, tra cui i componenti molecolari dei canali 'funny', nelle cellule del nodo seno atriale. Le modifiche indotte dall'allenamento sull'espressione della proteina canale sono tali da giustificare la bradicardia del "cuore d'atleta". Questo studio fornisce la base molecolare per capire come mai gli atleti anziani che si sono costantemente dedicati a discipline sportive aerobiche o di resistenza sono più propensi a sviluppare disturbi del ritmo cardiaco. Se i risultati dimostrati nei roditori fossero confermati nell'uomo, avrebbero implicazioni importanti per la salute cardiovascolare degli atleti, in particolare per quelli anziani. Cuori d'atleta famosi - Sono numerosi i casi di atleti famosi affetti da bradicardia, specialmente tra i ciclisti. Tra i più noti, c'è senz'altro Fausto Coppi: si dice che il suo cuore battesse meno di 40 volte al minuto. Del marciatore Alex Schwazer esiste un dato che parla addirittura solo 28 battiti, un livello raggiunto anche dallo spagnolo Miguel Indurain, vincitore di grandi corse a tappe, campione del mondo a cronometro e medaglia d'oro olimpica; e poi Lance Armstrong (32 battiti/minuto), Marco Pantani (32-33) e Vincenzo Nibali. "Non è un caso che il cuore d'atleta sia più frequente tra i ciclisti professionisti - spiega Antonio La Torre, preparatore atletico e docente presso il Dipartimento di scienze biomediche per la salute dell'Università di Milano - perché sono atleti che fanno all'incirca 1500 ore di allenamento all'anno e sottopongono il cuore a grossi sforzi in modo continuativo". Anche i maratoneti e gli sportivi che praticano discipline di endurance sono più soggetti a bradicardia. Allenare il cuore - Per chi non fa sport a livello agonistico, l'attività fisica svolta con costanza è fondamentale per mantenere il cuore in buona salute. "L'allenamento costante fa sì che il cuore, giorno dopo giorno, impari a fare economia e diventi più bravo perché è in grado di pompare più sangue a ogni contrazione" spiega La Torre. Inoltre, il movimento ci fa dimagrire e anche questo è un aiuto per il muscolo cardiaco che così deve irrorare un corpo che pesa meno. ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 6 Giu. ’14 TUMORE DELLA PROSTATA. DA OGGI LO DIAGNOSTICANO ANCHE I CANI ADDESTRATI Se ne è parlato al 21° Congresso Nazionale Auro, che si chiude oggi a Roma. Annusando le urine possono rilevare con una precisione del 97% la presenza della neoplasia, che in Italia colpisce ogni anno oltre 25.000 uomini. Gli esperti: "Si sono ottenuti risultati superiori alle aspettative. Grandi capacità olfattive al servizio della scienza". 06 GIU - Scoprire il tumore facendo annusare a cani addestrati le urine dell’uomo. Se la letteratura scientifica aveva già evidenziato la possibilità di affidarsi agli animali per l’individuazione delle neoplasie, oggi si registra un passo avanti importante per l’utilizzo di questa pratica nella rilevazione del cancro della prostata. L’annuncio viene dal 21° Congresso Nazionale dell’Associazione urologi italiani (Auro), che si chiude oggi a Roma dopo tre giorni di dibattito tra oltre 500 specialisti. “L’urina dei malati ha un odore particolare, che cani specificatamente addestrati sono in grado di percepire e riconoscere – ha spiegato Gianluigi Taverna, Responsabile del Centro di Patologia Prostatica presso l’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano) – per questo nel 2012 abbiamo attivato uno studio di ricerca in collaborazione con il Centro Militare Veterinario di Grosseto (Cemivet), patrocinato dallo Stato Maggiore della Difesa. Nella prima fase, che si è conclusa pochi mesi fa, abbiamo coinvolto 902 persone, suddivise tra sane e affette da cancro della prostata di diversa aggressività. Zoe e Liu, due pastori tedeschi altamente addestrati, hanno annusato pochi millilitri delle loro urine e i risultati sono stati superiori alle aspettative: hanno evidenziato una sensibilità superiore al 98% e una specificità superiore al 96%, dati attualmente inimmaginabili se confrontati alle procedure diagnostiche in uso”. Le straordinarie capacità dei cani possono quindi “scendere in campo” al servizio della scienza. “L’aiuto di questi animali può essere fondamentale - ha aggiunto il Colonnello Lorenzo Tidu, Centro militare veterinario dell’Esercito - basti sottolineare che possiedono circa 200 milioni di cellule olfattive rispetto alle 50 degli esseri umani. I cani, precedentemente ammaestrati a riconoscere i campioni di urine dei pazienti affetti da tumore prostatico, hanno dimostrato una spiccata capacità di selezionare i campioni positivi, con un margine di errore trascurabile”. Una ricerca di grande rilevanza, anche al di là dell’Oceano. “Abbiamo presentato questi risultati al 109° Meeting annuale dell’American Urological Association (Aua), che si è svolto a Maggio negli Stati Uniti – ha sottolineato Taverna – e gli americani hanno presentato questa scoperta come una ‘reale opportunità clinica’ al servizio di noi specialisti”. “Negli ospedali è presumibile che non vedremo i cani come ci capita negli aeroporti – ha aggiunto Pierpaolo Graziotti, Presidente Auro e Responsabile dell’Unità Operativa di Urologia dell’Istituto Humanitas –, ma resta la 'magia’ che animali opportunamente addestrati siano più affidabili di qualsiasi attuale test diagnostico nell’identificare un paziente con neoplasia prostatica”. Il secondo step della ricerca è già in corso. “Dalla conclusione della prima fase è emerso in modo chiaro che i presupposti intuiti 20 anni orsono sono stati confermati – ha concluso Taverna –. Per tale ragione è attualmente in corso la seconda parte dello studio che si concluderà entro un anno”. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Giu. ’14 IRREGOLARE QUASI IL 5% DEI 2,8 MILIONI DI INVALIDI Roberto Turno ROMA Il piatto è ricco per chi vuole colpire sprechi ruberie e certamente Carlo Cottarelli, il commissario per la spending review, non si lascerà sfuggire l'occasione. Perché magari non saranno tutti falsi invalidi – quei ciechi che ci vedono da un miglio o gli zoppi che corrono sprint o maratone che la Guardia di Finanza non raramente riesce a stanare – ma insomma, che tra gli invalidi d'Italia i conti non tornino, questo è sicuro. Ce lo dicono una volta di più i numeri dell'Inps, che, appena chiamato in Parlamento a dar conto del fenomeno dei titolari di benefici economici di invalidità civile e di disabilità, ha reso note cifre da capogiro. Sono infatti 2,78 milioni gli italiani con pensioni di invalidità o di indennità varie. Sono soprattutto al Sud, oltre il 50% del totale. Napoli e Roma sono le province a più alta densità di invalidi, la Campania è la prima Regione per frequenza di casi. Ma non solo. Le verifiche straordinarie hanno portato negli ultimi anni a ben 67.225 revoche e a 41.862 ricostituzioni delle indennità. Come dire che quasi il 5% delle situazioni di invalidità esistenti, e i relativi benefici economici, nel giro pochi anni sono state pressoché cancellate. Con una minore spesa a carico della finanza pubblica di 352,7 milioni dal 2010 al 2013, benché oltre 100 milioni siano stati spesi per gli accertamenti medici. In pratica, un terzo dei risparmi per spese mediche di accertamento eseguite da personale esterno. A rivelare alla Camera gli ultimi numeri Inps disponibili del "pianeta invalidità" è stata Franca Biondelli (Pd), sottosegretaria al Lavoro, in risposta a un'interrogazione della capogruppo del Pd in commissione, Donata Lenzi, proprio nell'imminenza dell'avvio, a fine settimana dei Ddl che dovrebbero occuparsi dell'assistenza dei disabili gravi rimasti senza alcun sostegno familiare. Una ragione in più per far chiarezza su un fenomeno che, laddove ci sono furbizie, finisce per togliere risorse, e dunque assistenza, a chi davvero ha bisogno. «Adesso lavoreremo a fondo anche predisponendo valide e rigorose procedure di accertamento» promette Lenzi. Intanto le tabelle predisposte ad hoc dall'Inps, relative a gennaio 2013, raccontano di un fenomeno avvolto nell'ombra. I titolari di prestazioni economiche di invalidità sono stati suddivisi in 857.641 beneficiari di pensione e in 1 milione e 924mila intestatari di indennità, per un totale di 2,781 milioni di casi. In Lombardia (351mila) se ne contavano di più in assoluto ma meno in percentuale rispetto alla popolazione. A seguire Campania (328mila) e Lazio (282mila), con la prima che però ne contava di più (il 6% circa) rispetto ai residenti. La provincia di Napoli sarebbe la regina delle invalidità tra pensioni e indennità: 184.957, circa il 7% dei residenti. Dalle 854mila verifiche straordinarie compiute dall'Inps dal 2009, sarebbero emerse 67.225 revoche per mancata conferma dei requisiti sanitari o assenza di visita medico-legale. Ma anche 41.862 ricostituzioni delle rendite e delle situazioni. Con un boom di 24mila casi totali in Campania e 16mila in Sicilia. Da revisioni e azzeramenti tout court delle rendite si stima, secondo l'Inps, un risparmio di spesa calcolato in 352,7 milioni in quattro anni, dal 2010 al 2013. Ma anche 103 di costi sostenuti dall'Inps per aver fatto ricorso a personale non dipendente tra medici convenzionati, medici rappresentanti di categoria operatori sociali. Altro dato riguarda le patologie verificate e le revoche disposte. Spiccano le revoche nei casi di tumore (il 32% delle verifiche disposte), seguite da quelle per disturbi psichici e del sistema nervoso. Segno, si dubita, di una stretta disposta nei confronti di quanti magari hanno eseguito i primi cicli di chemioterapia o altro. Una stretta che si teme stia avvenendo anche nei confronti dei chi ha contratto l'Hiv. Come dire che i falsi invalidi vanno cercati altrove. ____________________________________________________________ Repubblica 4 Giu. ’14 ALLARME ONU, UN MILIARDO DI PERSONE SENZA SERVIZI IGIENICI Mancanza di infrastrutture, di fondi e abitudini sbagliate sono le cause principali della diffusione della 'defecazione all'aperto'. Un argomento poco noto, ma che costa la vita a un bambino ogni ogni minuto minuto. Colera, epatite, tifo, ma anche violenze fisiche e abbandono scolastico sono le conseguenze di questa prassi che le Nazioni Unite hanno messo tra gli obiettivi del millennio di CHIARA NARDINOCCHI ROMA - Un miliardo di persone nel mondo non ha accesso ai servizi igienici. Una prassi, che favorisce l’insorgere di malattie come colera, epatite e diarrea cronica che costano la vita a circa duemila persone al giorno, un bambino ogni minuto. A lanciare l'allarme è un report delle Nazioni Unite che analizza il fenomeno della "defecazione all’aperto" a livello mondiale. Nonostante i miglioramenti degli ultimi 25 anni che hanno portato alla quasi totale "igienizzazione" di Paesi come Bangladesh e Vietnam, ci sono molti Stati dove il fenomeno è ancora diffuso. Il primato dell’India. Prima fra tutti è la democrazia più grande del mondo, dove ancora 600 milioni di persone non hanno accesso ai servizi igienici. I motivi, così come le conseguenze, sono molti. Primo fra tutti la povertà e la mancanza di infrastrutture come reti fognarie e bagni nelle abitazioni. In secondo luogo c’è un problema culturale. Il governo indiano ha disposto ingenti finanziamenti per combattere il problema, ma poco è stato fatto a livello culturale. L’abitudine della defecazione all’aperto ha reso del tutto inutili gli sforzi governativi, e , in alcuni casi, servizi igienici costruiti per tamponare la piaga sono stati trasformati in magazzini o stanze. A peggiorare la situazione è il complesso sistema burocratico. "Il governo indiano – afferma Rolf Luyendijk dell’Unicef - ha fornito importi enormi, miliardi di dollari, per creare servizi igienico - sanitari per i più poveri. Queste somme sono state erogate dal governo centrale alle province, ma ogni provincia ha i suoi meccanismi di attuazione. E secondo i dati, quei miliardi di dollari non hanno raggiunto i più poveri”. Malattie, inquinamento e violenze. La mancanza di latrine, fogne e servizi igienici compromette fortemente non solo la salute, ma anche la dignità delle persone. Colera, diarrea cronica, epatite A, tifo e schistosomiasi sono le malattie più diffuse e causano la morte di molte persone, soprattutto bambini sotto i cinque anni. Altra conseguenza è l’inquinamento del terreno e delle acque che diventano serbatoi di germi. Ma oltre alla salute, le conseguenze sono la violenza e l’abbandono scolastico. Spesso, chi non ha i servizi igienici in casa, preferisce allontanarsi di notte per evitare sguardi indiscreti, divenendo facile vittima di violenze sessuali e pestaggi. Inoltre, il report sottolinea come un gran numero di ragazze, arrivate alla pubertà, decidono di abbandonare gli studi per evitare la vergogna di dover andare in bagno all’aperto, soprattutto durane il ciclo mestruale. Dimezzati in vent’anni, ma c’è ancora molto da fare. Rispetto al 1990, il numero delle persone senza accesso ai servizi igienici è più che dimezzato: si è passati da 2,3 a 1 miliardo di persone. Ma, se in alcune zone del mondo il trand è negativo, in altre, come in Nigeria, sta aumentando. Inoltre la disparità tra ricchi e poveri e tra città e campagna, rischia di peggiorare. I fondi stanziati per le zone rurali, per esempio, finiscono spesso per essere destinati ai più agiati, rendendo i poveri ancora più poveri. Millennium goal. Quello della lotta alla defecazione all’aperto e per l’accesso alle acque pulite è uno dei ‘Millenium Goal’, otto obiettivi che tutti i 191 membri dell'Onu si sono impegnati a raggiungere entro il 2015. "Quando non riusciamo a garantire la parità di accesso a fonti d'acqua migliorate e servizi igienico-sanitari – dice Sanjay Wijesekera, Capo di acqua e servizi igienici dell’Unicef – noi falliamo soprattutto nei riguardi dei bambini più poveri e più vulnerabili e delle loro famiglie”. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 Giu. ’14 L'ALLARME DEL PROF. GUIDO CRISPONI SE LA TERAPIA CHELANTE È USATA MALE Kill or cure”, sembra il titolo di un film di Tarantino. È invece un sofferto allarme, diffuso da autorevoli esponenti delle università sarde, preoccupati dall'uso improprio della cosiddetta terapia chelante, quella - per intenderci - che ha allungato la vita a migliaia di talassemici. La stessa oggi proposta sul Web come rimedio “risolutivo” per patologie cardiovascolari, autismo, malattie degenerative e perfino come trattamento antiaging, antiossidanti e antiradicali liberi. Il tutto - secondo gli studiosi - con rischi gravissimi, anche mortali. La denuncia, presentata come ennesima speculazione sulle paure dei malati, arriva da una ricerca pubblicata su una delle riviste di Chimica più prestigiose: Coordination chemistry rewiew . Autori: Guido Crisponi, titolare della cattedra di Chimica presso il Dipartimento di Scienze chimiche e geologiche dell'università di Cagliari, con la professoressa Valeria M. Nurchi e le ricercatrici Joanna I. Lachowicz e Miriam Crespo Alonso, unitamente alla professoressa Maria Antonietta Zoroddu e al ricercatore Massimiliano Peana del Dipartimento di Chimica e Farmacia dell'Università di Sassari. L'équipe di Crisponi si occupa da più di 30 anni delle terapie chelanti, impiegate per ridurre gli effetti tossici dei metalli nell'organismo umano. Il caso più conosciuto, in Sardegna, è quello dei talassemici, che a causa delle ripetute trasfusioni di sangue accumulano una grande quantità di ferro. «Nel lavoro “Kill or cure”, usi impropri della terapia chelante - spiega Crisponi - abbiamo voluto mettere in evidenza come, malgrado il numero estremamente limitato di indicazioni approvate per l'uso di agenti chelanti, la pubblicità per numerosissime diverse applicazioni sia facilmente reperibile sul Web. I termini terapia chelante e chelazione sono sempre più usati da personaggi, che non saprei come definire, che fanno i loro interessi approfittando di persone con tragici problemi di salute». L'articolo traccia un excursus storico sullo sviluppo della “falsa terapia chelante”, con abbondanti riferimenti alla letteratura scientifica. Già negli anni Cinquanta, negli Usa, si pensava che questi trattamenti potessero essere utili nella cura delle patologie cardiovascolari, «teorie che non hanno trovato conferme negli studi seri fatti successivamente: in pratica, i benefici sono simili a quelli ottenibili col placebo. Questo non ha impedito che si sviluppasse un grande mercato». La carta vincente dell'operazione è l'impiego del sale sodico EDTA (acido etilendiamminotetracetico), «presentato come una sostanza naturale non tossica, mentre è un prodotto di sintesi: viene spacciato come approvato dalla FDA (Food and droug administration ) degli Usa, ma non è vero. La FDA lo ammette solo in due casi: ipercalcemia e avvelenamenti da digitale che provocano ipercalcemia». Ma terapie chelanti improprie vengono pubblicizzate anche per l'autismo, sfruttando il dolore dei genitori dei piccoli pazienti e persino per la sclerosi multipla, «nonostante gli studi sul rapporto fra accumulo di metalli e malattie degenerative siano in una fase molto iniziale. Benché questi trattamenti non abbiano alcuna base scientifica, sono proposti al pubblico in maniera così allettante che diventano difficili da contrastare». Non a caso, la FDA ha diffidato certe associazioni di medici che operano sul Web dal violare la legge, ricordando che tutti farmaci chelanti approvati hanno bisogno di una prescrizione. «Perché l'uso non approvato della terapia - precisa Crisponi - si è spesso concluso con danni al paziente, fino alla morte: un rischio inaccettabile in assenza di benefici documentati». Sono ben 11 i casi di morte rilevati dal professore, sulla base della documentazione della FDA. «Per questo, come ricercatori con anni di esperienza su questi argomenti, abbiamo l'obbligo morale e la responsabilità di avvisare i colleghi della comunità scientifica su questi fatti, fornendo loro informazioni dettagliate e precise sui possibili effetti tossici della terapia chelante». Lucio Salis ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 7 Giu. ’14 BETA-TALASSEMIA, I SUCCESSI DI CAO E DI GALANELLO - La ricerca al Microcitemico In Sardegna, la terapia chelante richiama il successo nel trattamento della beta-talassemia. È stata impiegata nell'Ospedale Microcitemico di Cagliari prima sotto la guida del professor Antonio Cao, poi sotto quella del suo allievo Renzo Galanello, per “ripulire” il sangue dei pazienti dall'eccesso di ferro accumulato durante le periodiche trasfusione cui dovevano sottoporsi. L'organismo umano non possiede infatti un meccanismo in grado di eliminare naturalmente il surplus di metallo, che produce radicali liberi, con effetti dannosi. Il primo chelante utilizzato, negli anni Settanta, è stato il Desferal: i talassemici cinquantenni di oggi sono la dimostrazione vivente di quanto abbia avuto successo. Anche se creava qualche problema, legato al fastidio di portare un infusore, abbastanza ingombrante per gli adolescenti. Ma soprattutto a una serie di importanti effetti collaterali, che sono stati nel tempo ridimensionati dai progressi della ricerca. Dopo il Derferal, sono state messe a punto anche altre molecole. Il professor Guido Crisponi, ordinario di Chimica presso il Dipartimento di scienze Chimiche e geologiche dell'Università di Cagliari, si occupa della materia da svariate decine di anni. E spiega che «ci sono una serie di problemi da superare per avere chelanti ideali. Perché provocano sempre effetti collaterali, legati al fatto che non eliminano solo il ferro in eccesso, ma anche lo zinco e il rame, che sono essenziali». Talassemia a parte, la terapia chelante viene impiegata nella cura di una vasta gamma di intossicazioni. Si va da quelle occasionali (il bambino che beve un prodotto chimico da una bottiglia incustodita; il tentato suicidio) ad altre legate a situazioni di inquinamento ambientale. «Per ogni tipo di metallo ci vuole il chelante adatto, ma purtroppo la ricerca in questo campo non è molto diffusa, perché i soggetti interessati sono pochi. Il ferro fa eccezione perché c'è dietro un mercato». Ma ci possono essere anche intossicazioni da altri metalli, come l'alluminio (molto simile al ferro): in tempi relativamente recenti si è scoperto che l'encefalopatia da dialisi era causata da fluidi utilizzati nell'operazione, che contenevano alluminio. Negli Stati Uniti si sono invece rilevate nei bambini intossicazioni da piombo, sono a quando, per verniciare le case, sono state utilizzate vernici ricche di quel metallo. Ed è stato trovato un collegamento fra il deficit comportamentale dei piccoli e la quantità di piombo che avevano nel sangue. Attraverso un intenso uso della terapia chelante si è riusciti a ridurre il tasso di piombo, ma il danno neurologico è rimasto. ( l. s. )