RASSEGNA STAMPA 21/09/2014 L'UNIVERSITÀ È SENZA PROFESSORI UNA FOGA RIFORMATRICE NEI CONFRONTI DEL SISTEMA ACCADEMICO ABILITATI NEL 2008 ANCORA SENZA POSTO LENZI: BISOGNA ASSUMERE 14.000 DOCENTI E 9.000 RICERCATORI LA SFIDA CREATIVA DI STANFORD «BASTA LEZIONI-CONFERENZA» VOI NON SIETE SPECIALI» AI RAGAZZI SI INSEGNA COSÌ RANKING UNIVERSITÀ, MIGLIORANO GLI ATENEI ITALIANI UNIVERSITÀ. ARRIVA IL RANKING 2014 DI «QS» RICERCA: GOVERNO DELLA RICERCA AL DUNQUE BORSE DI STUDIO PER L'UNIVERSITÀ, MENO SOLDI DELL'ANNO SCORSO» PIGLIARU: RISORSE PER LE MATRICOLE» SAPIENZA: CANDIDATI, VOTI E FAVORI GLI INTRIGHI FINE DELL’ERA FRATI «CITTÀ BRUTTE E INVIVIBILI? C'È DA CAMBIARE LA SOCIETÀ» INFORMATICA REGIONALE: SEI MESI PER CHIUDERE LE IN-HOUSE (CATANIA) GLI IGNOBEL 2014 PREMIANO ANCHE ISTAT E TRE SCIENZIATI ITALIANI «PROFESSORA» E «SINDACA» LA GRAMMATICA DELLA PARITÀ ========================================================= CONVEGNO SU CERE, SCIENZA E GENIO il 23 A CAGLIARI R.PERRA:TAGLIARE LE ASL SARDE NON SERVE NURSIND: L'IPASVI SI PREOCCUPA DEL SUO LOGO, NON DELLA TRASPARENZA" LE BASI BIOLOGICHE DELL’OTTIMISMO COSÌ SI COLTIVERANNO LE PIANTE DI CANNABIS PER USO TERAPEUTICO PAGA IL MEDICO CHE NON DIMOSTRA LA SUA DILIGENZA CORRUZIONE IN SANITÀ. UN FENOMENO DA 6 MLD L'ANNO. MACCHIA (ISPE): FARMACI DI CUI SI FA USO ECCESSIVO, O LASCIATI INUTILIZZATI LA PAROLA «GUARIGIONE» NON È PIÙ UN TABÙ PER CHI HA AVUTO UN TUMORE DATI CLINICI ED ESAMI? LI TRASMETTERÀ AL MEDICO IL NOSTRO TELEFONINO IL CONTROLLO CONTINUO TRA GARANZIA DI SALUTE E RISCHIO IPOCONDRIA ========================================================= ____________________________________________________________ Italia Oggi 15 Set. ’14 L'UNIVERSITÀ È SENZA PROFESSORI Viaggio di IoLavoro negli atenei italiani. Senza un 'inversione di rotta lezioni a rischio Colpa dei continui tagli ai fondi Pagina a cura DI BENEDEFFA PACFLLI Luniversità è senza professori. Quello che può sembrare un paradosso, visto che la tenuta del sistema accademico si regge grazie a quell'equilibrio perfetto tra docenti e studenti, è in realtà ciò che sta accadendo negli atenei italiani, nessuno escluso: un corpo docente falcidiato tanto da mettere a rischio la tenuta dei corsi. Il motivo? L'effetto combinato della riduzione dei finanziamenti, dei blocchi del turnover e dei concorsi e dell'abbassamento dell'età di pensionamento. Risultato: dal 2006 c'è stato un crollo verticale del numero di professori in servizio che è arrivato a -30% per gli ordinari e -17% per gli associati. Le cifre sono state messe in fila dal Cun, il Consiglio universitario nazionale, semplicemente applicando agli organici strutturali le regole del turnover e le proiezioni sulle uscite di un sistema accademico che ancora oggi, a oltre quattro anni dall'entrata in vigore della riforma universitaria (legge 240/10) che ne ha cambiato le modalità di selezione, appare ancora semi bloccato in entrata. E senza un intervento immediato nel 2018 il numero dei professori ordinari scenderà del 50% (9.463 in valore assoluto) rispetto al 2008 e quello degli associati del 27%. Un vero allarme che però potrebbe offrire a qualcuno degli oltre 60 mila aspiranti, di salire in cattedra prima o poi. In molti confidano nel nuovo sistema di reclutamento contenuto in un passaggio della legge 90/14 che introdurrà procedure più snelle già dalla terza tornata di abilitazioni prevista per il 2015. Il punto dolente sono i fondi visto che una volta ottenuta l'idoneità nazionale (il primo step per salire in cattedra), la palla passerà ancora agli atenei che secondo le loro disponibilità economiche potranno chiamare gli idonei. Ma anche qui non andrà tutta liscio perché le assunzioni saranno vincolare al merito. In sostanza: chi è bravo verrà premiato con qualche fondo in più da investire per il reclutamento. Sí n da subito, visto che già dall'anno in corso l'Ffo, il Fondo del finanziamento ordinario, sarà assegnato per il 18% su base premiale, con assegnazioni quindi molto diverse tra i vari atenei. I numeri del sistema. Il personale docente di ruolo, che include professori ordinari, associati e ricercatori a tempo indeterminato, è cresciuto rapidamente a partire dalla riforma dei concorsi del 1998 (legge 210) fino al 2008, quando ha raggiunto il valore massimo dalla fine degli anni 80 (+28% rispetto al 1997). Da quella data in poi però per il mix combinato di una serie di provvedimenti che hanno limitato il turnover e ridotto i trasferimenti al sistema universitario, il corpo docente ha ricevuto una decisa falcidiata. Nel 2013, come rileva il rapporto Anvur sul sistema universitario, i docenti di ruolo risultavano pari a 53.459 (erano 62.573 nel 2008) di cui 13.883 ordinari, 15 830 associati e 23.476 ricercatori a tempo indeterminato (nel 2008 erano rispettivamente 18.929, 18. 255 e 25.569). Un calo che in alcune aree, come scienze della terra, scienze chimiche e fisiche ha superato il 40%. Se i docenti nelle classi di età avanzata manterranno la stessa propensione al pensionamento tra il 2014 e il 2018 si ritireranno oltre 9.000 docenti di ruolo: 4.440 ordinari, 2.550 associati, 2.270 ricercatori. Il che significa che avverrà un crollo del 50% tra i professori ordinari e del 27% tra gli assodati mentre il ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato a esaurimento per effetto della riforma Gelmini richiederà l'immissione di un numero elevato di ricercatori, per salvaguardare l'assolvimento del carico didattico, di ricerca e di governo degli atenei. Le domande. Non è un caso che di fronte a questo panorama il numero degli aspiranti sia cresciuto a dismisura. Ad attendere l'avvio dell'abilitazione c'è stato, infatti, un limbo accademico affollato di oltre 60 mila soggetti: gli associati che puntano a diventare ordinari, i ricercatori a tempo indeterminato a esaurimento che aspirano al ruolo e per i quali sono state stanziate risorse ad hoc, e poi gli assegnisti, i dottorandi e i contrattisti che ambiscono a una definizione più certa. Tutti fermi ai loro posti da anni, per norme inattuabili. Non è un caso che secondo la banche dati del Cineca le domande valide per 2012 (al netto dei ritiri) sono state 59.143, e per il 2013 invece sono arrivate oltre 13.000 domande. Moltissime le domande per il settore scientifico disciplinare di scienze matematiche e informatiche e scienze fisiche, mentre la maggior parte degli abilitati si trovano nell'area delle scienze mediche e in quella di Scienze dell'antichità, filologico-letterafie e storico-artistiche. ____________________________________________________________ Italia Oggi 15 Set. ’14 UNA FOGA RIFORMATRICE NEI CONFRONTI DEL SISTEMA ACCADEMICO «Neanche la controriforma cattolica con il Concilio di Trento ha vissuto la stessa foga riformatrice che ha investite l'università italiana negli ultimi 15 anni» E l'amaro sfogo di Marcello Garzaniti, professore ordinario di slavistica all'Università degli studi di Firenze che dopo anni di impegno e di passione dedicati alla ricerca e all'insegnamento, si ritrova a fare il ragioniere» con crediti da riconteggiare, corsi da riorganizzare ogni anno e più del doppio delle ore di insegnamento rispetto agli inizi. Il tutto con risorse ai lumicino che non possono essere spese se non per la metà per le missioni all'estero, cuore della ricerca e di quell'approfondimento che dovrebbe caratterizzare la sua professione. Domanda. Oltre un decennio di riforme che effetto hanno avuto in concreto sul vostro lavoro? Risposta. L'università italiana è stata travolta da tagli lineari a cui solo alcune aree stanno sopravvivendo. Scompaiono materie che da `sempre hanno composto l'universo del sapere italiano, mentre <,a costo zero» cambia continuamente la struttura dell'università e l'organizzazione degli studi. D. Che cosa significa? R. Che per esempio uno studente che si iscrive al primo anno avrà un piano di studi diverso rispetto a uno dell'anno precedente, con un corso che l'anno successivo forse non esisterà più. E per noi professori è fondamentale ricordarsi come funzionava il vecchio ordinamento, aver presente il nuovo e pensare a quello che verrà. Nel frattempo le facoltà sono scomparse, ci sono dipartimenti e scuole, ma per evitare la chiusura di interi corsi è aumentato il monte ore di ogni docente e si ricorre ai contratti. Ora, pro esempio, sono costretto a insegnare più del doppio delle ore e a tenere corsi su materie diverse anche da quelle per le quali ho sostenuto il concorso. E lo devo fare altrimenti chiudiamo. D. Nessuna prospettiva quindi per questi nuovi abilitati? IL Pochissime, a mio parere. Le poche chiamate saranno per lo più destinate a vecchi ricercatori a tempo indeterminato che dovevano essere fatte molto tempo fa. E con l'associazione potranno fare più ore: la finalità è sempre il risparmio. D. Quindi lei consiglierebbe a un giovane di fare il professore? R Mi confronto da sempre con ottimi studenti e fino a una dozzina di anni fa incoraggiavo i migliori a conseguire il dottorato (anche senza borsa). Ma da tempo ho rinunciato, che futuro posso prospettargli? Gli ultimi hanno affrontato anni di precariato a poche migliaia di euro l'anno. Li dovrei spingere a questi sacrifici per ottenere, se va bene, un posto di ricercatore a tempo determinato? ____________________________________________________________ Italia Oggi 15 Set. ’14 ABILITATI NEL 2008 ANCORA SENZA POSTO La macchina dei concorsi non si fermi. Ma sono molti i docenti in attesa della cattedra La macchina dei concorsi si è avviata. E gli atenei in ordine sparso hanno iniziato a effettuare le prime procedure di chiamata degli abilitati alla sessione del 2012. A osservare lo stato dell'arte si potrebbe pensare che il peggio è alle spalle visto che in quasi tutti gli atenei il reclutamento è partito. Ma la realtà dei fatti è più amara. Innanzitutto perché i risultati della prima tornata di abilitazioni scientifiche nazionali hanno determinato contingenti di idonei difficilmente assorbibili dalle università nella attuale condizione finanziaria e normativa. Non è un caso, quindi, che la maggior parte degli atenei, salvo rare eccezioni, ha attinto a quel la riserva di risorse derivanti dal piano straordinario per associati. A gravare ancora di più sulla situazione c'è un altro elemento: a causa dei blocco delle assunzioni negli anni passati una parte degli idonei negli ultimi concorsi da professore banditi nel 2008, e avviati nel 2010 con commissioni sorteggiate, devono ancora prendere servizio. Perciò accanto all'esercito dei nuovi idonei, ci sono ancora quei «vecchi» abilitati con le regole pregresse in attesa da anni. Così sta accadendo all'università di Bari dove, ha spiegato il rettore Antonio Felice Uricchio, «l'esiguità delle risorse purtroppo ci ha posto di fronte a scelte dolorose, basti pensare che non abbiamo ancora chiamato i vincitori dei concorsi del 2008». In ogni caso da ottobre a Bari si partirà con il nuovo reclutamento dopo aver appena approvato i criteri di ripartizione delle risorse destinate per questo capitolo. Ma dall'università di Milano a quella di Camerino, passando per l'ateneo di Roma Tor Vergata, lo scenario non cambia poi di molto: saranno chiamati prevalentemente ricercatori a tempo indeterminato che hanno ottenuto l'idoneità da associato, con risorse del piano straordinario é per lo più già interni agli atenei in modo da gravare meno sul bilancio. Con qualche eccezione. All'università di Cagliari, ha precisato il rettore Giovanni Melis, «il modello applicato sarà aperto agli esterni, ben oltre il limite minimo ministeriale, per attivare una positiva concorrenza fra gli aspiranti, premiare la qualità e dare nuova linfa agli organici per la didattica, la ricerca e la sanità». Farà il pieno l'università di Bologna che ha fatto sapere come «all'esito di tutte le procedure bandite faremo complessivamente 47 nuovi posti da ordinario e 388 da associato. I posti sono stati individuati tenendo conto principalmente delle maggiori carenze dei dipartimenti sulla didattica, a seguito della ondata di pensionamenti». Una volta conclusa questa prima tranche che cosa accadrà? Già dal prossimo anno si cambia, perché la farraginosità delle prime due tornate ha imposto un ripensamento dell'intera procedura: tempi contingentati e regole complicate hanno richiesto diverse proroghe e prodotto, alla fine, un numero particolarmente rilevante di ricorsi. I lavori delle commissioni si sono prolungati a scapito di quei meritevoli che aspettavano da tempo di poter fare il loro ingresso nella docenza universitaria. Di qui la necessità di una modifica, quella contenuta in un passaggio della legge 114/14 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 18 agosto 2014, n. 190). Si è quindi pensato a un nuovo sistema che renda più snella la selezione e responsabilizza gli atenei: la porta di accesso quindi partirà dal 2015 con una procedura cosiddetta a sportello con la possibilità per i candidati di presentare le domande due volte l'anno La durata dell'abilitazione sarà di sei anni e non più di quattro. Serviranno 10 e non più 12 pubblicazioni minime per poter partecipare. La domanda potrà essere presentata in qualunque momento dal candidato. Una volta superata l'abilitazione nazionale non ci saranno più i concorsi locali, ma le università potranno scegliere liberamente chi chiamare a patto che il candidato si dimostri di qualità per pubblicazioni e produttività. In caso contrario all'ateneo dopo un controllo ex post verranno sottratti i soldi stanziati per assumere quel docente che nei fatti si è mostrato non meritevole. Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproduc ____________________________________________________________ Italia Oggi 15 Set. ’14 LENZI: BISOGNA ASSUMERE 14.000 DOCENTI E 9.000 RICERCATORI Bisogna assumere almeno 14.000 docenti e 9.000 ricercatori a tempo determinato entro il 2016. Altrimenti rischiamo il collasso" Solo così per Andrea Lenzi presidente del Con si mette in sicurezza il sistema contenendo quell'emorragia del personale docente causata anche da tagli strutturali agli atenei pari a oltre 1 miliardo di euro dal 2008. Domanda. Un corpo do ente al collasso con quali conseguenze? Risposta. La grave diminuzione numerica in corso, mai registrata in precedenza di queste dimensioni, renderà impossibile la corre.ta geAienn del sistema universitari( si tenie la chiusura di corsi di studio rilevanti che potrebbero perdere i requisiti per continuare a esistere. Ovviamente il pensionamento dei docenti pesa enormemente. Se mancano i professori chi fa lezione? D. Le nuove regole sull'abilitazione che partiranno nel 2015 potranno sanare la questione? R. Il decreto ha ripreso larga parte delle nostre proposte, ma da solo non è sufficiente per rimettere in asse il sistema. D. Che cosa serve ancora? IL Secondo noi serve un intervento immediato in diverse mosse: la prima anticiperebbe al 2015 la possibilità di dedicare alle assunzioni il 100% delle risorse liberate dal turnover, la seconda chiede di cancellare il sistema dì punti organico, cioè l'unità di costo annuale per docente che regola le assunzioni in favore di un vincolo più generale di budget e di costo reale, le altre due passano invece dall'attuazione rapida della seconda tranche del piano straordinario per gli associati da affiancare ad uno per i ricercatori a tempo determinato. D. Proprio per i giovani ricercatori la situazione è più fosca del passato, aggravata dagli interventi normal ivi volti a esaurire la fascia dei ricercatori a tempo indeterminato, che fare? IL I ricercatori di tipo A sono praticamente a progetto, destinati a ricoprire un ruolo per un tempo limitato da 3 a massimo 5 anni senza che gli atenei quindi siano incentivati a programmare. Noi proponiamo di fare per il futuro solo contratti di ricercatori di tipo B, chiamando questi già Professore Junior. Per quelli a tempo indeterminato a esaurimento si deve trovare una soluzione transitoria che li valorizzi. D. Di quali numeri si avrebbe bisogno? R. E indispensabile reclutare nel triennio 2014-2016 almeno 9.000 ricercatori a tempo determinato, in modo da formare il bacino da cui ottenere i futuri professori associati, evitando di esporre il sistema a una ulteriore contrari e alla perdita di generazioni di giro ani studiosi. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 21 Set.. ’14 LA SFIDA CREATIVA DI STANFORD «BASTA LEZIONI-CONFERENZA» Il presidente Hennessy: più corsi orientati all’esperienza «L’Università fisica continuerà a esistere. Il “campus” non diventerà virtuale. Ma l’insegnamento fatto di lezioni nelle quali il professore parla come un conferenziere è finito. Quelle cose gli studenti le assorbiranno, sempre più, dalle “lecture” disponibili su Internet. Quel tempo va dedicato all’interazione personale tra studenti e docenti: è questa la parte vitale del processo di apprendimento. È quello che cerchiamo di fare a Stanford: siamo nel cuore della rivoluzione tecnologica, moltiplichiamo i corsi orientati all’esperienza nei quali gli studenti sono stimolati a trovare soluzioni e devono affrontare sfide creative».  John Hennessy, da 14 anni presidente di Stanford, l’Università dalla quale sono passati quasi tutti i geni americani delle tecnologie digitali, è una figura unica nella California dell’«information technology». Marc Andreessen, il fondatore di Netscape oggi protagonista del «venture capital» con la sua Andreessen Horowitz, l’ha definito «il padrino della Silicon Valley». Con qualche ragione visto che Hennessy, un «computer scientist» che per decenni ha insegnato e fatto nascere aziende, allevando studenti promettenti come Larry Page e Sergey Brin, lo ritrovi ovunque. Nell’accademia, nei dibattiti culturali, ma anche nell’industria: Hennessy è consigliere d’amministrazione di Google, di Cisco Systems ed è presidente di Atheros Communications, una società che ha cofondato. È, quindi, anche un uomo molto ricco e invidiato. Ma chi ha provato ad accusarlo di conflitto d’interessi non è arrivato a nulla. In questa rara intervista spiega ai lettori del Corriere come cambia l’insegnamento e il rapportoUniversità-impresa in tempi di rapido sviluppo tecnologico.  Sono passati poco più di 15 anni da quando aiutaste due ragazzi con un algoritmo molto innovativo a mettere in piedi Google, eppure sembra già un secolo. Com’è cambiato, da allora, il rapporto di Stanford col mondo produttivo?  «Nei meccanismi siamo sempre più simili alle imprese: loro, tutte ma soprattutto quelle dell’hi-tech, devono mantenere il motore dell’innovazione sempre acceso, devono sviluppare soluzioni e prodotti nuovi, creare nuove opportunità di business. Per noi la sfida è quella di continuare ad essere una fonte di innovazione e creatività. Dunque le due cose vanno di pari passo. Ovviamente un’Università ha un orizzonte temporale più lungo, è meno focalizzata sui prodotti, c’è più spazio per la curiosità. Ma lo spirito è lo stesso: innovare, aprire le porte a nuove scoperte, inventare. Siamo uguali anche nel reclutamento: abbiamo bisogno del meglio del meglio. Loro come manager e scienziati, noi come studenti e docenti».  Stasera lei riceverà a cena Matteo Renzi, leader di un Paese che ha disperatamente bisogno di creare nuovi posti di lavoro e che è indietro soprattutto nella tecnologia. Quali elementi d’ispirazione troverà a Stanford e nella Silicon Valley?  «Il funzionamento del nostro ecosistema, il ruolo degli incubatori, il modo in cui le scoperte vengono trasformate in nuove imprese e in posti di lavoro. Del resto Renzi ci conosce già: è stato qui anche in passato, e Stanford ha un “campus” anche a Firenze, sulle rive dell’Arno. Un rapporto costruito negli anni grazie anche all’impegno di Ronald Spogli fin da quando era ambasciatore Usa in Italia. Ronald ha studiato qui e ha tuttora un ruolo importante a Stanford».  Lei è accademico e imprenditore al tempo stesso. Ce ne sono molti negli Usa, dove il rapportoUniversità-industria è stato sempre incoraggiato. In Italia abbiamo cominciato da poco. Ma la sua esperienza è unica per intensità a durata. Cosa le ha insegnato?  «La prima cosa che ho imparato è a percepire il vantaggio di chi è il primo a muoversi in una certa area. Essere in testa al plotone che entra in un nuovo campo, capire per primi le implicazioni di una scoperta, di un oggetto appena inventato. L’altra cosa è il valore del tempo. È la cultura delle “start up”: se ti fermi vieni scavalcato, gli altri vanno avanti. Devi imparare a prendere decisioni complesse sotto la pressione del tempo. Questo è contrario alla cultura dell’accademia che è abituata a muoversi lentamente. A volte è utile, eviti le infatuazioni momentanee, ma ci sono anche molti svantaggi».  Sebastian Thrun, profeta dell’Università «online», cominciò proprio da voi: 160 mila studenti iscritti al primo, pionieristico, corso digitale di «computer science» tenuto a Stanford. Allora anche lei parlò di «tsunami» in arrivo. Le cose stanno cambiando, ma forse non in modo così radicale: anche Thrun sembra aver corretto la rotta.  «Come le dicevo, sparirà la lezione-conferenza ma non il “campus”, il rapporto personale col docente resta essenziale. La vera rivoluzione, un grosso “business”, la vedremo nel “professional higher education market”, la formazione continua di professionisti e manager che devono continuare a seguire corsi di aggiornamento mentre lavorano: loro lo faranno quasi solo online. Troppo indaffarati per frequentare aule universitarie».  C’è il timore che con l’automazione la macchina prenda il sopravvento sull’uomo mentre aziende come Facebook e Google stanno scoprendo con sorpresa che la sensibilità degli utenti per la privacy, la tutela dei dati personali, sta andando molto oltre quello che avevano immaginato. Sono temi anche etici. Stanford, motore culturale della Silicon Valley, come li affronta?  «Certo, si ragiona anche da noi sul punto di equilibrio tra innovazione ed etica. La realtà è che il mondo digitale è diventato talmente centrale nelle nostre vite che cose che un tempo non concepivamo nemmeno di poter rendere pubbliche, lo diventano all’improvviso e in modi che non avevamo nemmeno preso in considerazione. Le Università sono il luogo ideale di discussione tra tutori della riservatezza — governo, attivisti, associazioni di cittadini — e aziende che devono comunque creare un rapporto di fiducia e di protezione con l’utente. A certi quesiti la risposta la deve dare la società: cosa siamo disposti a sacrificare per difendere la privacy? Io credo che l’automazione sia ineluttabile, le cose che le macchine possono fare meglio dell’uomo crescono di continuo. Ma c’è uno spazio per graduare questa evoluzione. Di quante volte il robot deve essere più efficace e sicuro dell’uomo per sostituirlo in una funzione e poter essere accettato? Cinque volte? Dieci volte? Stabilire il criterio spetta a noi».  Un’ultima curiosità: che ci fanno sulle rive dell’Arno i futuri cervelli della Silicon Valley che frequentano il vostro campus fiorentino?  «Si immergono nella grande cultura italiana, fanno un bagno nel Rinascimento. E tornano più consapevoli, più capaci di analizzare le cose in profondità. Non fanno i turisti. Funziona, glielo assicuro».  Massimo Gaggi ____________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Set.. ’14 VOI NON SIETE SPECIALI» AI RAGAZZI SI INSEGNA COSÌ «Voi non siete speciali. Vi hanno viziati, coccolati, idolatrati. Ma diversamente da quanto suggeriscono il trofeo che avete vinto a calcio o la vostra splendida pagella, non lo siete. Anche se ci fosse un diplomato su un milione, sareste comunque settemila sulla terra: se tutti siete speciali, non lo è nessuno». Il discorso del professore d’inglese David McCullough ai diplomati del suo liceo di Boston finì su YouTube appena concluso, il 7 giugno 2012. La sera stessa era stato visualizzato 2 milioni di volte e condiviso su centinaia di migliaia di bacheche Facebook. E in pochi mesi è diventato un libro, uscito ora anche in Italia: Ragazzi, non siete speciali! E altre verità che non sappiamo più dire ai nostri figli (Garzanti, 252 pagg., € 15, traduzione di Roberto Merlini). «Ricevetti tonnellate di email, la gente mi fermava per strada, le tv mi invitavano. La mia era una critica da insegnante: negli ultimi anni i miei allievi, spronati da genitori che per la loro formazione investono molto, hanno sempre più difficoltà a valutare i propri talenti, pensano che un master darà loro lavoro e diventano narcisisti, incapaci di gestire l’insuccesso. Ma nessuno si è offeso. Anzi, ho capito che il messaggio ‘’non siete speciali’’ generava in tutti un certo sollievo».  Già, sollievo. Perché «per i ragazzi di oggi essere speciali è una condanna», spiega lo scrittore Francesco Pacifico. «Non c’è scelta: i loro padri l’avevano, tra un percorso sicuro ma poco eccitante e carriere ambiziose ma più precarie. Loro no: anche per fare l’insegnante oggi servono dieci anni di tribolazioni. Così ci si butta, finanziati da genitori ansiosi, su ambizioni spesso fuori misura: regista, diplomatico, fisico nucleare». Al tema Pacifico ha dedicato un romanzo, Class – vite infelici di romani mantenuti a New York (Mondadori, 189 pagg., € 19). Che inizia così: «La realizzazione personale di un giovane borghese non vale il denaro che costa». E racconta le storie (infelici, appunto) di un giovane regista e della moglie, le cui carriere creative sono finanziate da famiglie non miliardarie fino a tardissima età.  «Credendo di aiutarli, i genitori li caricano di aspettative. E ritardano domande fondamentali: ‘’ho talento o no? Quello per cui sto studiando mi piace o no?’’». Non a caso, il manuale Ragazzi, non siete speciali! è dedicato «agli adolescenti, ma soprattutto a mamma e papà. È da loro che nascono moltissime delle ambizioni sbagliate dei ragazzi, e delle loro frustrazioni», spiega McCullough.  E se il docente americano descrive genitori «ossessionati dai voti, pronti a telefonare a casa dell’insegnante per fargli cancellare un’insufficienza per timore che macchi il curriculum del ragazzo», i colleghi italiani raccontano di «mamme che fanno i compiti al posto dei figli, e se chiedo loro perché mi rispondono: era stanco. Se do un sei, mi chiedono perché non sette, in fondo il ragazzo è portato. E così via». A parlare è Isabella Milani, professoressa di italiano in una scuola media e autrice di un fortunato blog per insegnanti (http://bit.ly/milani_scuola). «Ma il momento peggiore è la scelta delle superiori: noi insegnanti diamo consigli, ma in pochi ci ascoltano. Preferiscono mandarli al liceo, a costo che sputino sangue, e protestare anche lì se i voti non sono buoni, piuttosto che scegliere un buon istituto tecnico o professionale dove potrebbero fare, e stare, meglio».  Un errore e che molti pagano con la dispersione o l’abbandono scolastico. «Il 74% delle richieste di consulenza arrivate tra il 2010 e il 2012 sono di studenti liceali che vogliono cambiare percorso», commenta Francesco Dell’Oro, per anni responsabile del Servizio orientamento scolastico al Comune di Milano e autore di vari saggi sul tema. «Molto spesso non hanno scelto loro di andare al classico o allo scientifico. Ma i genitori, che hanno una fede incrollabile nell’iter liceo – università ‘’concreta’’ come Economia o Ingegneria – laurea a pieni voti, come carta vincente per trovare lavoro. E sbagliano». Mostra i risultati 2013 dell’indagine Excelsior di Unioncamere, secondo cui le capacità più richieste per un neolaureato sono «lavorare in gruppo» e «attitudini comunicative»: «capacità che un ragazzo sviluppa se studia con piacere e curiosità, non con l’acqua alla gola in un corso scelto ‘’perché dà lavoro’’. Magari uno sarebbe un buon chef, e invece passa anni di fatica a studiare da medico».  O, come i velleitari protagonisti del romanzo di Pacifico, anni di scuole di cinema per poi scoprirsi senza talento. Anche questo è un rischio. «Ma almeno sta seguendo la sua strada», chiosa McCullough. «L’importante è che si trovi un piano B, un’attività con cui mantenere il sogno e che non gli dispiaccia. Se no non diventa adulto». Figlio di uno storico affermato (il premio Pulitzer David McCullough Sr.), da giovane aveva i mezzi economici e il desiderio di fare lo scrittore. Tre romanzi impubblicati – «e impubblicabili, lo ammetto» – più tardi ripiega, senza voglia, sull’insegnamento. «Un lavoro ordinario. Che però mi piacque moltissimo. E non solo: mi ha poi consentito di scrivere un libro, proprio sull’insegnamento. Realizzando, alla fine, il mio sogno da ragazzo».  ____________________________________________________________ Repubblica 17 Set.. ’14 RANKING UNIVERSITÀ, MIGLIORANO GLI ATENEI ITALIANI Quello pubblicato da Qs, il primo (per anzianità di servizio) ranking universitario internazionale, ci offre la migliore classifica italiana da quando il network inglese per l'alta educazione esiste, cioè dal 2004. Qs "stagione 2014-2015" ci dice che i nostri atenei migliorano - seguendo i parametri offerti dal media - e migliorano da sei stagioni a questa parte. Certo, e questo è il punto di partenza, restiamo lontani da quelli americani (undici nei primi venti, è interessante notare come Qs ritenga il Mit di Boston con 100 punti superiore ad Harvard, premiata da tutti gli altri ranking). Restiamo lontani dagli inglesi (Cambridge è seconda, Oxford quinta e superata dall'Imperial college), dagli svizzeri e dai canadesi. Restiamo ancora lontani dai punteggi assegnati alle università dell'Asia orientale, alle "ecoles supérieures" francesi, agli atenei tedeschi e nordeuropei. Però, cresciamo. E che questa crescita duri da sei stagioni - sei stagioni in cui l'università italiana è stata pesantemente definanziata - rende il risultato significativo. Molti rappresentanti delle élite universitarie italiane considerano i ranking mondiali affermati (sono cinque, e Qs è sicuramente un riferimento) inutili, arbitrari, "pro domo anglo-saxons". Per i docenti e i rettori che li leggono, cercando di trarne ispirazione per migliorarsi e per risultare più attraenti per il vasto popolo dei 18-24 enni del mondo, le notizie e le conclusioni sono queste. L'Alma Mater di Bologna resta per il settimo anno consecutivo la prima università italiana. Il suo 182° posto con uno score di 55,8 punti (su cento), lo stesso dell'Università di Stoccolma, è il miglior risultato italiano quest'anno ed è il secondo di sempre per un'italiana (solo nel 2009 Bologna fece meglio, 174ª). L'Alma Mater, unica del Paese tra le top 200, ha migliorato sei posizioni rispetto all'anno scorso e dodici rispetto a due anni fa. "La qualità dei suoi laureati", si legge, "i suoi docenti riconosciuti internazionalmente e il livello della sua ricerca le danno un vantaggio competitivo, specialmente sul mercato del lavoro".  Il punto è proprio quello segnalato dalla performance di Bologna Alma Mater: il miglioramento. Il concetto è applicabile alle migliori università italiane (sono ventisei secondo gli inglesi). Se si considerano le top 500 nel mondo, l'Italia riesce a portare dentro 15 università. L'anno scorso erano sedici, una in più. Sono scivolate fuori classifica Milano Bicocca e Genova, è entrata Siena (con i suoi vertici, entusiasti del risultato, che segnalano come sia la prima università nazionale nell'indice per citazioni). Ma rispetto all'anno scorso tredici atenei italiani hanno migliorato score e posizione e soltanto due (la Sapienza del declinante Frati, comunque seconda, e la Statale di Milano, comunque quarta) hanno perso posizioni.  È un avanzamento di massa, che fa pensare a un miglioramento del sistema, viste le proporzioni. Pavia ha scalato 40 posizioni, Firenze 42, la Federico II di Napoli 52. L'Università Cattolica del Sacro Cuore, "la più grande privata in Europa con 41 mila studenti", addirittura 74. A questo giro, dieci atenei (sui 19 entrati in sei anni nella top 500) prendono il loro miglior risultato decennale. Ed è interessante che questo accada sul medio periodo: dal 2009 a oggi nelle 500 migliori sono entrate sei università italiane in più. Va ricordato poi che altri undici atenei, in questo 2014, si trovano tra i primi 800 e che dell'intero Sud c'è solo la Federico II tra le prime 500, Catania e Bari tra le prime 800.  Le contestazioni ai ranking possono emergere con una qualche ragione. Colpisce la brutta classifica di un ateneo italiano, Cà Foscari, sempre tra i primi tre nelle classifiche nazionali e ministeriali. Colpisce come la Bocconi, la migliore delle italiane in Europa secondo il Financial Times, sia fuori dalla classifica Qs. Vediamo, allora, quali sono i criteri con i quali da dieci anni i londinesi di Qs scelgono i migliori e lo fanno, secondo statuto, per consentire agli studenti nel mondo di orientarsi nella maniera più oggettiva possibile. Il World University Rankings analizza 3.000 università e alla fine ne compara 863. Sono quattro le grandi aree di valutazione offerte a studenti e ricercatori: ricerca, insegnamento, possibilità di lavoro, profilo internazionale. Queste quattro aree sono valutate usando sei indicatori: la reputazione accademica (pesa il 40%), la reputazione dei suoi dirigenti (10%), la proporzione tra studenti e docenti (20%), le citazioni di ogni facoltà (20%), il profilo internazionale dei suoi studenti (5%) e il profilo internazionale del management (5%). Si può contestare, ma è tutto molto chiaro e comprensibile. L'indicatore dove si sono visti i miglioramenti più significativi per gli atenei d'Italia è la "reputazione accademica". E così è cresciuto l'indicatore che misura l'impatto della ricerca prodotta nei cinque anni precedenti: 19 università sulle 26 totali sono cresciute rispetto al 2013. Molti atenei hanno perso posizioni per la reputazione presso i recruiters internazionali e per il rapporto numerico tra studenti e docenti: l'effetto dei tagli, la recessione. Negli indicatori più legati alla internazionalizzazione l'Italia è poco competitiva, in un sistema mondiale dominato nella formazione e nella ricerca dall'inglese. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 16 Set.. ’14 UNIVERSITÀ. ARRIVA IL RANKING 2014 DI «QS» Bologna unica italiana nella top 200 mondiale Marzio Bartoloni Migliora di poco la "reputazione" delle università italiane per le loro performance scientifiche, ma peggiora tra manager e recruiter internazionali che si occupano di scegliere le risorse umane su cui puntare. Tanto che tra i top 200 atenei mondiali ce n'è solo uno in cui sventola il tricolore: l'università di Bologna. Che sale al 182esimo posto (l'anno scorso era il 188esimo), lontanissima dalle università americane e inglesi che continuano a dominare le classifiche con diverse eccezioni: crescono infatti le presenze di tedeschi, olandesi e belgi, giapponesi, canadesi, australiani e da pochi anni anche cinesi. L'ultimo ranking internazionale delle accademie è di «QS», l'agenzia Quacquarelli Symonds che dal 2004 stila ogni anno una classifica delle prime 800 università valutandone poco più di 3mila. Una classifica questa che viene pubblicata oggi (www.TopUniversities.com) e che attribuisce - rispetto ad altre - molto peso al fattore reputazionale. La top ten degli atenei vede al gradino più alto il Mit di Boston che si conferma il migliore, superando per il terzo anno consecutivo Cambridge - al secondo posto insieme all'Imperial college di Londra -, Harvard (quarta) e Oxford (quinta). Tra le top 200 sono rappresentati in tutto 31 Paesi: gli Usa fanno il pieno con 51 università, seguiti da Inghilterra (29), Germania (13), Paesi Bassi (11), Canada (10), Giappone (10), Australia (8) e Cina (anche qui 8, di cui 6 a Hong Kong). L'Italia tra le prime 200 università ne conta, come detto, una sola. Dietro a esempio a Francia (4) e Spagna (3). Sui nostri modesti risultati – oltre al poco appeal tra i recruiter – pesa secondo «Qs» anche il rapporto, troppo alto, tra numero di studenti e docenti e la bassa presenza di iscritti e professori stranieri, segno di una bassa attrattività e del fatto che «l'Italia - spiega una nota dell'agenzia - non è competitiva, in un sistema mondiale dominato dall'inglese, lingua franca della formazione e della ricerca». Sono comunque 26 in tutto gli atenei italiani nella classifica complessiva. Dopo Bologna che si conferma anche quest'anno prima tra le italiane, ci sono tra le altre La Sapienza di Roma (scesa dal 196 al 202esimo posto), il Politecnico di Milano (229esimo), l'Università di Milano (238), Pisa (245) , Padova (262) e Roma Tor Vergata (305).  Questo per quanto riguarda la classifica generale. Se si vanno a spulciare i quattro ranking specifici per settore si scoprono alcuni buoni risultati per i nostri atenei: per ingegneria e tecnologie il Politecnico di Milano si piazza al 31esimo posto e quello di Torino al 58esimo. Bene anche la Bocconi alla 25esima posizione mondiale nel settore scienze sociali e management (anche Bologna è tra i 100, esattamente 99esima). In medicina e scienze della vita Milano è all'86esimo posto, mentre Bologna si piazza 98esima. Per le scienze naturali La Sapienza guadagna la 57esima posizione, mentre Pisa è 77esima. Infine in arte e scienze umane La Sapienza compare di nuovo al 76° posto.  Ma quanto sono valide queste classifiche? Le elaborazioni di «Qs» si fondano fondamentalmente su quattro criteri: la reputazione basata sull'opinione di accademici in tutto il mondo, il giudizio tra le aziende, le citazioni delle pubblicazioni e l'utilizzo dell'«H-Index» sulla prolificità e l'impatto delle pubblicazioni accademiche. Questo tipo di classifiche, così come i parametri utilizzati per stilarle, sono spesso suscettibili di critiche, perché giudicate a volte influenzabili o addirittura manipolabili. Ciò non toglie che siano molto seguite. Tanto che anche la Ue, vista la popolarità dei ranking, ha deciso recentemente di costruire il suo con un sistema («U Multirank») che punta a spostare però l'attenzione dalle classifiche ai dati. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 21 Set.. ’14 RICERCA: GOVERNO DELLA RICERCA AL DUNQUE La qualità scientifica della governance è (e rimane) decisiva Carlo Rizzuto Nell'ambito del semestre di presidenza italiana, si apre mercoledì a Trieste un convegno sulla sostenibilità e la governance del sistema europeo di infrastrutture di ricerca. L'appuntamento segue il Consiglio informale dei ministri della Ricerca europei del 22 luglio a Milano nel quale l'Italia ha ricevuto molti complimenti per il documento proposto per una discussione definita tra le più efficaci e interessanti degli ultimi anni. Alla conclusione il commissario Ue ha annunciato la costituzione di Ceric-Eric, Consorzio europeo di infrastrutture di ricerca con sede a Trieste presso il Centro di ricerca di Elettra-Sincrotrone, riconosciuto come centro europeo. Le conclusioni del convegno saranno proposte al nuovo commissario, il portoghese Carlos Moedas, e al Parlamento Ue. Sarà presentata anche la nuova roadmap del Forum strategico per le infrastrutture Ue di cui Elettra è stato promotore. Per una coincidenza interessante, il giorno prima del convegno si riunisce l'assemblea dei soci di Elettra per decidere sui cinque membri del nuovo consiglio di amministrazione. La nomina di un consigliere è di competenza della Regione Friuli Venezia-Giulia, mentre gli altri quattro sono, o dovrebbero essere, di competenza del ministero della Ricerca e di enti di ricerca che lo rappresentano (Cnr e Area di ricerca di Trieste). La forma societaria di Elettra era stata scelta per evitare la dualità tra la componente scientifica e quella amministrativa del management, che frena gli enti pubblici di ricerca italiani mentre è assente nelle istituzioni simili degli altri Paesi europei. Il successo di una infrastruttura di ricerca è sempre strettamente legata alla centralità e qualità scientifica della governance. In Elettra, come nell'Iit di Genova o nella Fondazione Bruno Kessler di Trento, il direttore scientifico ha il totale controllo della gestione, come avviene anche nelle società industriali in cui strategia e gestione sono strettamente collegate nel presidente o amministratore delegato. Questo schema di "governance" ha permesso, qui e in altri Paesi, come nel Max Planck o nei laboratori Usa, di raggiungere il vertice mondiale. Il cda, qui costituito in maggioranza da manager scientifici qualificati che contribuivano con competenza, con il loro "capitale relazionale" e con deleghe opportune, ha permesso di avere successo e raggiungere una sostenibilità anche nel contesto internazionale. La costituzione di Ceric-Eric è un ulteriore riconoscimento della bontà della gestione e dei risultati anche industriali. Il numero di industrie nazionali coinvolte nei progetti innovativi è stato di oltre 400, e anche la valutazione Anvur la pone ai vertici in Italia, assieme all'Iit. Elettra è riuscita nell'ultimo triennio a quadruplicare la dotazione che riceve dallo Stato acquisendo progetti competitivi internazionali e contributi sia in denaro che in natura (personale e strumenti) dagli sponsor scientifici e industriali nazionali e internazionali, con un bilancio in attivo a differenza di molte partecipate pubbliche. Ma torniamo alla nomina del nuovo cda. Forse il bilancio attivo ha esercitato un certo fascino: mentre il ministero e il Cnr hanno indicato due manager scientifici, l'altro ente del ministero, l'Area di Trieste, ha scoperto di non essere ente di ricerca ma solo ente locale e indica due membri in accordo con la politica locale e, come la Regione, fuori del contesto scientifico. Caso unico in Europa, un ente di ricerca internazionale avrebbe una maggioranza del management non qualificata scientificamente. Sarà interessante vedere se il principio, valido a livello europeo, di affidare l'intera responsabilità al manager scientifico indicato dal ministero verrà rispettato, oppure se si dovrà trasformare l'istituzione in una Fondazione, sottraendola alle eccessive mire politiche locali. Carlo Rizzuto è presidente Ceric-Eric,  già presidente di Elettra Sincrotrone Trieste ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Set.. ’14 BORSE DI STUDIO PER L'UNIVERSITÀ, MENO SOLDI DELL'ANNO SCORSO» In tanti speravano di trovare i loro nomi al di sopra della linea di demarcazione che separa gli studenti che riceveranno la borsa di studio da quelli che, pur avendone diritto per requisiti di reddito e merito, non avranno alcun aiuto per mancanza di fondi. Ma la graduatoria provvisoria dell'Ersu, pubblicata la settimana scorsa, ha deluso le aspettative degli studenti: «Nonostante le rassicurazioni sentite all'inizio dell'anno - denuncia l'associazione Unica 2.0 - si ripresenta il problema degli idonei non beneficiari. Se la situazione dovesse rimanere tale, i fondi sarebbero inferiori a quelli stanzianti l'anno scorso». Inoltre, gli universitari puntano il dito contro una nuova norma inserita nel bando dell'ente per il diritto allo studio, «che non riconosce ad alcuni studenti dei crediti maturati in diversi corsi di laurea, riconosciuti invece dall'ateneo». «Riteniamo che l'Ersu sia ampiamente sotto finanziato - spiega Federica Atzeni, coordinatrice di Unica 2.0 - ma non per questo si possa arrogare il diritto di selezionare con criteri di dubbia validità, chi tra gli studenti idonei sia più beneficiario rispetto agli altri». Condivide Francesco Pitirra, rappresentante degli studenti nel Cda dell'Ersu: «Dopo tutte le promesse sentite in campagna elettorale ci saremmo aspettati una maggiore sensibilità nei confronti delle politiche sul diritto allo studio». (v. n.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 18 Set.. ’14 PIGLIARU: RISORSE PER LE MATRICOLE» La Giunta regionale si impegna a cercare le risorse per aumentare le borse di studio per le matricole, che costituiscono l'anello più debole per il rischio di abbandono. Lo ha annunciato il governatore Francesco Pigliaru incontrando, assieme all'assessore dell'Istruzione Claudia Firino e al presidente dell'Ersu di Cagliari Antonio Funedda, i rappresentanti degli studenti di UniCa 2.0 reduci da un presidio davanti al palazzo della Regione. Pigliaru ha anche assicurato che quando si predisporrà il bilancio 2015, l'intera filiera dell'istruzione, dalle scuole per l'infanzia all'Università, sarà valorizzata al meglio. «Stiamo facendo il possibile per trovare una soluzione in tempi brevissimi. Vorremmo che l'Università non perdesse neanche una potenziale matricola». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Set.. ’14 CANDIDATI, VOTI E FAVORI GLI INTRIGHI ALLA SAPIENZA PER LA FINE DELL’ERA FRATI Si sceglie il nuovo rettore. «Tutti e sei sono legati a lui» SEGUE DALLA PRIMA Dicono abbia «risvegliato un mammut». Ma anche «devastato l’immagine dell’ateneo», coi mammut succede. Parlare di cambio d’era non è eccessivo: vent’anni da preside di Medicina, dieci da pro-rettore vicario e da rettore, moglie e due figli piazzati dentro l’università, polemiche, inchieste, una vasta corte di vassalli tra ordinari, associati e ricercatori, ovvero un popolo di 3.872 elettori, molti dei quali gli devono qualcosa. Per dire: nonostante la mission di dimagrire, Frati divise Medicina in tre, moltiplicandone le poltrone. «Nessuno dei sei candidati può sostenere di non essere un uomo suo, io sono leale e lo dico», sorride Tiziana Catarci, una dei sei, che uomo non è ma fa paura a un sacco di uomini — bella, intelligente e aggressiva. La chiamano la Zarina. «Non lo sapevo ma non mi dispiace, Caterina la Grande ha trasformato la Russia». La Zarina domina (per ora) sull’informatica e ha in mano InfoSapienza, cervello milionario e vero centro di potere dell’universitàanche nell’allocazione delle risorse («i dati sono neutrali, poi la politica li… orienta»). È lei una delle due carte che Frati prova a giocare perché il cambio d’era si trasformi in una transizione da lui stesso governata, magari assurgendo a presidente della Fondazione che, adesso, incassa gli introiti degli affitti dell’ateneo ma domani — chissà — potrebbe gestire direttamente il patrimonio immobiliare di lasciti e donazioni, diventando tutt’altra torta.  L’altra carta è Eugenio Gaudio, preside di Medicina: cosentino. Il dettaglio non è irrilevante, i calabresi alla Sapienza sono molti, non solo tra i professori, ma anche tra tecnici e studenti (che pure votano, sebbene con un meccanismo ponderato). Il Quotidiano della Calabria gli fa garbata propaganda («Un medico calabrese tra i sei candidati»). Lui si schermisce: «Veramente vorrei una Sapienza più europea. Poi, se riesco a portare i calabresi in Europa…». S’inalbera sul fratismo: «Non ne parlo! Voglio parlarle del Paese!», dice, alzando i decibel. Immagina un’università aperta ai quattrini privati: «Basta ideologismi». Non per ragioni ideologiche Frati aveva un tempo affidato al dipartimento di Carlo Gaudio, fratello di Eugenio, il proprio figliolo cardiochirurgo, Giacomo, che se pure fosse il nuovo Valdoni si porta addosso lo stigma dell’aiutino. Per non far preferenze, nel dipartimento di Eugenio si può trovare poi anche la figliola di Luigi il Magnifico, Paola, a Medicina legale. Gaudio ha a sua volta il figlio che fa dottorato di ricerca a Ingegneria (ma sono decine i rampolli di professori con dottorato in ateneo). Ovvio che con tanti intrecci familiari Frati abbia a cuore il destino del fido amico. Nonostante ciò si narra che lo punzecchi di tanto in tanto: «Eugenio caro, mica vorrai diventare rettore al primo colpo? Persino io ho dovuto fare il prorettore di Guarini, prima».  Nei corridoi si fanno calcoli frenetici. Catarci porta di suo tra i 350 e i 550 voti, Gaudio ne ha un pacchetto di 1.200 (Medicina da sola conta un terzo dell’università). Bella somma, ma si sussurra che i due non si sopportino, al ballottaggio del quarto scrutinio si tratta, e tutto può succedere. La Zarina storce la bocca: «Gaudio e io? Rapporti istituzionali. Sua prorettrice, io? Corro per vincere». Sa di cosa parla. Frati potrebbe assegnarle la guida del tandem. Chiedergli conferma è difficile, il rettore non risponde a quattro telefonate. Ha rischiato l’arresto per difendere dai poliziotti un romeno che volantinava all’università. Gesto generoso, non fosse che i volantini, anonimi, diffamavano uno dei sei candidati alla sua successione. «Su questo non le dirò una parola, si getta fango sulla Sapienza», tronca il diffamato, Giancarlo Ruocco, ex capodipartimento di Fisica e prorettore, 500 o 600 voti di dote. L’accusano di avere avallato tutte le scelte di Frati. «Ha fatto un buon lavoro. Ritengo mi abbia chiamato per le mie competenze, non per politica, io gli ero contro». Ma Frati include, no? «Devo riconoscergli grande apertura mentale». La sua avventura con l’Istituto italiano di tecnologia, 20 milioni di finanziamento per cinque anni di ricerche biomediche, può aver aumentato la stima del rettore ma certamente gli avrà procurato molte invidie, riflesse nel volantino. «Si presenta la cosa come uno scambio, e non è vero. Due volte gli ho scritto lettere di dimissioni da prorettore e lui ha sempre cambiato rotta».  Con 500 o 600 voti di partenza, la sorpresa può essere Andrea Lenzi, endocrinologo, da otto anni presidente del Consiglio universitario nazionale: «Ho lavorato con cinque ministri. Se nessuno ha ritenuto di investire su ricerca e innovazione, la colpa non è solo degli altri che son cattivi. È anche di chi non dà un’immagine adeguata della Sapienza. Frati è stato il mio preside. Poi, quando è stato eletto rettore, mi sono dimesso da cinque cariche. Non volevo essere ancillare». Lenzi è più politico, il Cun dà peso. Ha una figlia ricercatrice di Storia all’università dei Legionari di Cristo, ha subìto duri attacchi: forse sopra le righe rispetto all’incarico della ragazza. «L’ho scritto pure sul profilo Wikipedia, di mia figlia».  Qui Luigi il Magnifico ha mutato anime e cattedre. Roberto Nicolai, candidato delle facoltà umanistiche, parla di «questione etica». La caccia al parente è sacrosanta ma a tratti parossistica (la Catarci ha il marito in facoltà, ma si sono conosciuti lì da ragazzi). Quasi tutti i candidati declamano sulle sorti del Paese e sussurrano sulle magagne dei rivali. «Io mi sono dimessa da prorettrice. Qualcuno fa il prorettore di lotta e di governo», dice la Zarina alludendo a Ruocco. Lei, presidente di InfoSapienza, siede per delega di Frati anche nel consiglio d’amministrazione di Cineca, consorzio che fornisce servizi all’università e ne valuta le ricerche. Inopportuno? «Certamente no!». «Se divento rettore questa cosa finisce», tuona invece Renato Masiani, 350 o 400 voti possibili, ingegnere e preside di Architettura. InfoSapienza era cosa sua. «Poi Frati decise diversamente, e arrivò Tiziana». Fatto fuori? Replica gelida: «Renato era tutti i lunedì alle riunioni del governo dell’ateneo. Magari era distratto. Vuole la verità? Sono la prima candidata rettrice in settecento anni di Sapienza: e do fastidio». In effetti colleghi (e colleghe) non le risparmiano nessuno dei luoghi comuni su una donna di potere che ostenta il tacco dodici. Ma è la Sapienza di Frati, miseria e nobiltà: in bilico tra la bolla papale da cui nacque e una pagina web di Dagospia.  Goffredo Buccini ____________________________________________________________ Repubblica 15 Set.. ’14 INFORMATICA REGIONALE CATANIA: “SEI MESI PER CHIUDERE LE IN-HOUSE” SONO UNA CINQUANTINA FATTURANO 800 MILIONI L’ANNO SENZA GARA E SONO UNO SPRECO. UNA DECINA DI SOFTWARE PER IL BOLLO AUTO, 16 FASCICOLI SANITARI. CONFINDUSTRIA DIGITALE PROPONE UNA PRIVATIZZAZIONE SELETTIVA E TORNARE AL MERCATO Stefano Carli Lo leggo dopo Roma L e Regioni sono in rivolta contro i tagli alla sanità chiesti dal governo. Dicono che è la rottura di un patto con i cittadini sul welfare della salute. Ma ai cittadini, e alla loro salute, quanto interessa che ben 16 Regioni su venti abbiano una propria piattaforma software per il Fascicolo sanitario elettronico? Ognuna ovviamente bene pagata alla rispettiva softwarehouse pubblica che si è aggiudicata l’incarico senza gara e quindi a prezzi fuori controllo? Quando il bollo auto non era una tassa regionale (per legge dal 1998, di fatto da meno di dieci anni) c’era un unico soggetto che si occupava di riscuoterne gli importi. Da quando ci sono le Regioni di soggetti ce ne sono 20. Poi anche le Regioni si sono accorte che con l’informatica era meglio (non tutte per fortuna) e hanno pensato di affidarsi a software, server e piattaforme di pagamento. Una? Ma certo che no: oggi ce ne sono 10 di software, prodotti da altrettante società regionali. Ed è grazie alla proverbiale inefficienza delle Regioni che non sono di più. E poi ci sono decine e decine di software e sistemi It che si duplicano tra di loro dalle Alpi a Lampedusa. E per di più non comunicano nemmeno tra di loro, come nel caso delle anagrafi. Costo di tutto questo? Stima il centro studi Netics guidato da Paolo Colli Franzone sugli 800 milioni l’anno. «Di cui 720 in capo alle 14 maggiori società, mentre ce ne sono un’altra quarantina che si dividono una torta restante sugli 80 milioni. Queste 14 maggiori avevano a fine 2013 4.754 addetti. Erano 4.093 nel 2010». Dentro c’è di tutto. Dal Csi, il consorzio piemontese che riunisce le esigenze di Regione e di molti comuni, tra i quali Torino, con 140 milioni di fatturato e 1.163 addetti, alla emiliana Lepida, che ha solo 50 addetti, fattura 18 milioni ma ha realizzato una delle più estese reti ottiche regionali che però non gestisce direttamente ma la ha affidata ai privati con una gara pubblica. La più efficiente, nell’opinione generale, è Lombardia Informatica, 473 addetti e 188 milioni di fatturato, almeno dal punto di vista dell’efficacia dei suoi prodotti, che, pare, funzionano. Ma tutte, dalle migliori alle peggio gestite sono uno spreco a prescindere. Le duplicazioni di prodotto, le duplicazioni di personale, la dispersione di risorse che rappresentano non possono eludere la questione centrale: quanto avrebbero reso quegli 800 milioni l’anno se anziché finire nelle casse di queste società cosiddette “in-house” avessero alimentato un mercato vero? Con quasi un miliardo di risorse in più quante start up locali o piccole imprese private sarebbero potute crescere? Il nodo centrale non è nemmeno il risparmio: ovvio che senza sprecare i fondi in decine e decine di progetti uguali si sarebbe speso meno (e con le gare ancora meno), ma si sarebbe potuto investire tutto ciò che si risparmiava in ulteriori prodotti e iniziative. Si sarebbe potuto fare molto di più. E anche dal punto di vista occupazionale le società “in-house” sono state una sciagura. «Ai quasi 5 mila addetti diretti - continua Colli Franzone - ne vanno aggiunti altri 3 mila circa di body rental ma questa non è occupazione di qualità. Le grandi softwarehouse pubbliche fanno gare solo per le forniture di servizi di basso livello, quasi pura forza lavoro, e le fanno al massimo ribasso. Alimentano sì i mercati locali delle piccole società di It ma non creano sviluppo perché la loro domanda è di bassissima qualità, pagano pochissimo e a 400 giorni. Di aziende fallite in questi anni perché lavoravano con le “in-house” ce ne sono tantissime». Come si esce da questa situazione? Una road map possibile per arrivare di qui a sei mesi a una soluzione c’è. Ne è convinto Elio Catania, presidente di Confindustria Digitale. «L’obiettivo è di tornare al mercato ma senza svuotare il settore pubblico di competenze e capacità di indicare obiettivi e progetti - spiega - procedendo a una privatizzazione selettiva. Che è d’altra parte quello che sta avvenendo anche nel settore privato, dove le grandi aziende industriali, le banche, si tengono in casa le competenze necessarie a definire esigenze e strategie e a disegnare progetti ma mettono fuori l’operatività: la gestione dei centri di calcolo, lo sviluppo delle applicazioni, il cloud. E poiché nella gestione di servizi It le competenze “alte”, quelle progettuali e strategiche sono all’incirca il 20% del totale, si può immaginare che di tutti gli addetti delle società “in-house” le Regioni trattengano tale quota, 7-800 unità e il resto venga privatizzato. E’ una soluzione vantaggiosa sia per il settore pubblico, che si libera di costi impropri e inefficienti, sia per il privato che amplia il suo mercato: oggi le società “in-house” valgono la metà dell’intera spesa Ict delle Pa locali». E il ridisegno del mercato passa anche dalla cancellazione dell’autonomia delle Regioni negli acquisti. Per questo è già all’opera un tavolo comune tra Confindustria Digitale e Consip per ridisegnare le logiche dell’eprocurement e risolvere il problema delle società “in-house” pubbliche. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 20 Set.. ’14 «CITTÀ BRUTTE E INVIVIBILI? C'È DA CAMBIARE LA SOCIETÀ» La lezione critica di Jospeh Rykwert alla Summer School di Cagliari Le città moderne sono brutte, tutte uguali, invivibili? Non è (solo) colpa degli architetti. «Le città sono la metafora della società. Se volete che siano migliori, cambiate la società». Non è un'auto-assoluzione, ma un potente appello al senso di comunità, al sentirsi parte di un interesse collettivo sotteso al visibile e all'invisibile del vivere urbano. Joseph Rykwert, architetto, storico e filosofo, ha 88 anni. Nato a Varsavia, formatosi nel Regno Unito, ha lavorato e insegnato fra l'Europa e gli Stati Uniti. Appassionato studioso (e traduttore) di Leon Battista Alberti, ha trasportato nel suo lavoro lo spirito dell'umanesimo. Sin dagli anni Sessanta con i suoi saggi (“L'idea di città”, “La casa di Adamo in Paradiso”, “La seduzione del luogo”, pubblicati in Italia dal 1979) ha ammonito che l'architettura è ben più che metri cubi razionalmente organizzati e/o esteticamente suggestivi. E che la storia dei luoghi interagisce con gli interessi delle comunità che li abitano. Nell'aula magna della Facoltà di Ingegneria e Architettura, a Cagliari, Rykwert parla agli allievi e ai docenti della Terza scuola estiva internazionale di Architettura, promossa dagli atenei di Cagliari e Sassari: dieci giorni di conferenze, confronto e lavoro comune. Tema: “Il territorio dei luoghi / Paesaggi Culturali”. Racconta, Rykwert, nella sua lectio magistralis, la sua storia del rapporto tra l'edilizia e il potere, «che noi oggi identifichiamo con il danaro, ma che esiste ben prima di esso». Oggi «non c'è più un potere così da forte da rendere un dio l'architetto», come accadde a Imhotep, che costruì a Saqqara la piramide a gradoni e poi entrò nel pantheon egizio come fondatore della scienza medica. Segno che il costruire bene, per i vivi o per i morti, era già allora legato al benessere. Oggi non ci sono i faraoni. E neanche il Re Sole, che pur nel suo dispotismo costruisce a Versailles una reggia aperta, «un luogo per il pubblico». Oggi, argomenta Rykwert, l'edilizia è al servizio del potere politico ed economico nel cancellare - secondo la lezione thatcheriana - l'interesse della società a favore di quello privato. «Oggi le grandi società internazionali consumano il territorio innalzando di gran fretta edifici colossali di pessima qualità, che crollano prima che qualcuno li abiti. O immensi centri commerciali che restano vuoti», tuona, per quanto può farlo, questo anziano signore gentile. Scorrono, sul duplice schermo alle sue spalle, immagini della Cina capital-comunista. Ma anche quelle di Londra e del London Eye, simbolo del turismo di massa, «questo consumatore di energia». Centotrentacinque metri d'altezza e molte tonnellate di cemento in fondo al Tamigi, la ruota panoramica sorge davanti alla County Hall eduardiana, che era sede del Greater London Council, il parlamento metropolitano: abolito da Margaret Thatcher perché si opponeva alle sue politiche liberiste. Il Palazzo Municipale, privatizzato, ospita un hotel e un acquario. Rykwert parla a voce bassa, in italiano. Non è trascinante come Francesco Venezia, che ha aperto la Scuola estiva. Né ha il fascino travolgente di Alberto Campo Baeza, che la chiuse l'anno scorso fra gli applausi. Ma agli studenti che la notte prima non hanno dormito per concludere i progetti avviati nei laboratori; ai futuri architetti che hanno esplorato ipotesi per recuperare il legame di Cagliari con il suo porto o le saline del Molentargius, il maestro Rykwert ha consegnato una lezione cruciale. Nell'era delle archistar, che innalzano in aree sottratte alla normale pianificazione urbanistica monumenti al potere finanziario avulsi dal contesto (che si chiamino ironicamente Gherkin o pomposamente Shard) in questa era di apparente potenza, gli architetti sono sempre più deboli. Ridotti spesso al ruolo di professional designer, decoratori di volumi. Visione nera, se non fosse che Rykwert crede nella politica dal basso. Nella resistenza organizzata. E nel dovere civile degli architetti di coinvolgere le comunità. Per costruire - come scrive ne “La seduzione dei luoghi” - ambienti «che la gente possa abitare e di cui possa appropriarsi senza farsi violenza». Daniela Pinna ____________________________________________________________ Le Scienze 19 Set.. ’14 GLI IGNOBEL 2014 PREMIANO ANCHE ISTAT E TRE SCIENZIATI ITALIANI (Rick Friedman/Corbis) L'ormai classica manifestazione che premia gli studi più improbabili con una parodia dei Nobel ha visto fra i "laureati IgNobel" anche il nostro Istituto nazionale di statistica per la sua solerte inclusione dei proventi del malaffare nel calcolo del PIL e tre ricercatori italiani per uno studio sulla sofferenza delle persone che osservano un brutto quadro (r Anche un importante ente italiano è riuscito a conquistare quest'anno uno dei “prestigiosi” premi IgNobel, il premio istituito dalla rivista “Annals of Improbable Research”, che viene attribuito alle ricerche più improbabili, che prima fanno ridere e poi pensare.  A vincerlo è stato l'ISTAT, l'Istituto nazionale di statistica, a cui è stato attribuito l'IgNobel 2014 per l'economia “per aver preso orgogliosamente l’iniziativa di adempiere al mandato dell’Unione Europea di aumentare l'entità ufficiale della propria economia nazionale includendo i proventi da prostituzione, vendita illegale di droghe, contrabbando oltre che di tutte le altre operazioni finanziarie illecite tra partecipanti volontari“. (Cambia il Sistema europeo dei conti nazionali e regionali - Sec2010, ISTAT, 2014.) Ma ci sono anche altri italiani tra i premiati di quest'anno: Marina de Tommaso, Michele Sardaro e Paolo Livrea hanno ottenuto l'IgNobel per l'arte per uno studio sul modo valutare la differenza nella sofferenza patita da persone che stanno guardando un brutto quadro, quando sono colpite alla mano da un fastidioso raggio laser, e quelle che stanno osservando un bel dipinto. (Aesthetic value of paintings affects pain thresholds di Marina de Tommaso, Michele Sardaro e Paolo Livrea, “Consciousness and Cognition”, Vol. 17, n. 4, 2008, pp. 1152-1162. ) Ed ecco gli altri premi IgNobel 2014: Il premio per la fisica è andato a Kiyoshi Mabuchi, Kensei Tanaka, Daichi Uchijima e Rina Sakai per aver misurato l'attrito tra una scarpa e una buccia di banana, e tra una buccia di banana e il pavimento. ( Frictional Coefficient under Banana Skin, Kiyoshi Mabuchi, Kensei Tanaka, Daichi Uchijima and Rina Sakai, “Tribology Online” Vol. 7, n. 3, 2012, pp. 147-151) Il premio per le neuroscienze è andato a Jiangang Liu, Jun Li, Lu Feng, Li Ling, Tian Jie e Kang Lee, per aver cercato di capire che cosa succede nel cervello delle persone che vedono il volto di Gesù in un pezzo di pane tostato. (Seeing Jesus in Toast: Neural and Behavioral Correlates of Face Pareidolia, Jiangang Liu, Jun Li, Lu Feng, Ling Li, Jie Tian, Kang Lee, “Cortex”, Vol. 53, aprile 2014, Pages 60–77.) Il premio per la psicologia è andato al britannico Peter K. Jonason e alle statunitensi Amy Jones, e Minna Lyons, per aver raccolto prove del fatto che le persone che abitualmente si alzano tardi al mattino hanno, in media, maggiore stima di sé e sono più manipolatrici e più psicopatiche rispetto alle persone che abitualmente si alzano presto. (Creatures of the Night: Chronotypes and the Dark Triad Traits, Peter K. Jonason, Amy Jones, Minna Lyons, “Personality and Individual Differences”, Vol. 55, n. 5, 2013, pp. 538-541.) Il premio per la salute pubblica è stato attribuito al gruppo internazionale di ricercatori composto da Jaroslav Flegr, Jan Havlícek e Jitka Hanušová-Lindova, e di David Hanauer, Naren Ramakrishnan, Lisa Seyfried, che hanno realizzatio ben tre studi sui possibili rischi per la salute mentale legati al possesso di un gatto. (Changes in personality profile of young women with latent toxoplasmosis, Jaroslav Flegr e Jan Havlicek, “Folia Parasitologica”, Vol. 46, 1999, pp. 22-28. Decreased level of psychobiological factor novelty seeking and lower intelligence in men latently infected with the protozoan parasite Toxoplasma gondii Dopamine, a missing link between schizophrenia and toxoplasmosis?, Jaroslav Flegr, Marek Preiss, J. Klose, Jan Havlek, Martina Vitáková e Petr Kodym, “Biological Psychology”, vol. 63, 2003, pp. 253–268. Describing the Relationship between Cat Bites and Human Depression Using Data from an Electronic Health Record, David Hanauer, Naren Ramakrishnan, Lisa Seyfried, “PLoS ONE”, Vol. 8, n. 8, 2013, e70585.) Il premio per la biologia è andato a un folto gruppo di ricercatori boemi, tedeschi e dello Zambia per uno studio in cui hanno dimostrato che quando fanno i loro bisogni, i cani preferiscono mettersi in modo da allineare l'asse del proprio corpo con le linee del campo magnetico terrestre in direzione nord-sud. (Dogs are sensitive to small variations of the Earth's magnetic field, Vlastimil Hart, Petra Nováková, Erich Pascal Malkemper, Sabine Begall, Vladimír Hanzal, Miloš Ježek, Tomáš Kušta, Veronika Nemcová, Jana Adámková, K. Benediktová, Jaroslav Cervený e Hynek Burda, “Frontiers in Zoology”, Vol. 10, 27 dicembre, 2013.) Ian Humphreys, Sonal Saraiya, Walter Belenky e James Dworkin sono invece stati insigniti del premio per la medicina grazie al loro studio sulla cura dei casi di imponente epistassi con l'inserimento nella cavità nasale di striscioline di carne di maiale stagionata. (Nasal Packing With Strips of Cured Pork as Treatment for Uncontrollable Epistaxis in a Patient with Glanzmann Thrombasthenia, Ian Humphreys, Sonal Saraiya, Walter Belenky e James Dworkin, “Annals of Otology, Rhinology and Laryngology”, Vol. 120, n. 11, novembre 2011, pp. 732-36.)  Il premio per le scienze nutrizionali è andato a Raquel Rubio, Anna Jofré, Belén Martín, Teresa Aymerich, e Margherita Garriga, per uno studio che ha mostrato come sia possibile ottenere salsicce probiotiche ricorrendo a batteri isolati nelle feci infantili. (Characterization of Lactic Acid Bacteria Isolated from Infant Faeces as Potential Probiotic Starter Cultures for Fermented Sausages, Raquel Rubio, Anna Jofré, Belén Martín, Teresa Aymerich, Margarita Garriga, “Food Microbiology”, vol. 38, 2014, pp. 303-311.) Infine il premio per le scienze delle regioni artiche lo hanno meritato Eigil Reimers e Sindre Eftestøl, per uno studio in cui hanno testato le reazioni delle renne alla vista di esseri umani travestiti da orsi polari. (Response Behaviors of Svalbard Reindeer towards Humans and Humans Disguised as Polar Bears on Edgeøya, Eigil Reimers e Sindre Eftestøl, “Arctic, Antarctic, and Alpine Research”, Vol. 44, n. 4, 2012, pp. 483-9. ) ____________________________________________________________ Corriere della Sera 16 Set.. ’14 «PROFESSORA» E «SINDACA» LA GRAMMATICA DELLA PARITÀ Nuove regole degli atenei di Trieste e Udine per un uso non discriminatorio dell’italiano Non chiamate professoressa Patrizia Romito, docente dell’Università di Trieste, esperta in tema di violenza sulle donne e delegata del Comitato universitario Pari opportunità. Lei chiede di essere definita «professora», anzi senza virgolette: professora. Da almeno un anno, Trieste è un’avanguardia della battaglia per le differenze linguistiche di genere e adesso l’ateneo ha stilato una «Dichiarazione d’intenti per la condivisione di buone pratiche non discriminatorie della lingua italiana»: hanno aderito l’Università di Udine e la Scuola superiore di studi avanzati di Trieste. Ma anche il Comune, grazie all’assessora e vicesindaca Fabiana Martini, che ci tiene alla declinazione femminile delle sue cariche. La premessa è questa: se è possibile utilizzare forme linguistiche non sessiste senza violare la grammatica e la sintassi, usiamole.  Il proposito, tra i tanti, è quello di sensibilizzare alla cultura di genere attraverso un’attenzione particolare al linguaggio. «Attenzione» è la parola chiave, perché vorrebbe invitare a sradicare antichi cliché ed eredità lessicali o sintattiche provenienti da una storia culturale tutta coniugata al maschile. Per esempio, un uso linguistico che non preveda la presenza femminile è in tutta evidenza censurabile: il caso più frequente è l’espressione «Gentili Signori» in apertura di una conferenza che escludendo a priori un’interlocuzione femminile non si può liquidare soltanto come una forma di maleducazione. Ne discendono dunque, nel documento dell’ateneo triestino, alcune «linee guida» con la richiesta che vengano adottate sistematicamente nei documenti ufficiali interni. L’iniziativa è toccata a Sergia Adamo, ricercatrice di Italianistica, filosofa del linguaggio e traduttrice: è stata proprio la traduzione dall’inglese di teoriche del femminismo e studiose di genere come Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak a spingerla a interrogarsi su alcune soluzioni linguistiche italiane.  Si parte dalle cosiddette «dissimmetrie grammaticali» che adottano, appunto, il maschile in forma «inclusiva»: «buongiorno ragazzi» invece di «buongiorno ragazzi e ragazze». Ma la questione si fa più delicata nelle concordanze verbali, dove di solito viene data la prevalenza al maschile, come nei casi: «Studenti e studentesse sono stati premiati per le loro tesi di laurea». Niente esclude, secondo le regole grammaticali, di concordare il verbo al femminile, anche se le abitudini sono dure a morire. Dunque: «Sono state premiate ». E portando questo principio alle sue estreme conseguenze, si potrebbe arrivare a composizioni sintattiche tipo: «Giorgio e Adele sono venute a trovarmi», del resto già adottato nella saggistica femminista, gay e lesbica. Per ovviare alle ambiguità, c’è chi sostiene autorevolmente l’opportunità, nella redazione di testi ufficiali, di sostituire la desinenza con un asterisco. Per cui nel migliore dei documenti possibili si avrebbe, per esempio: «Studentesse e studenti sono invitat* a presentarsi...». Il dibattito è aperto (un convegno sull’asterisco si è tenuto a Zurigo) e l’uso della formula onnicomprensiva «professor*» è già praticato, con il vantaggio di riconoscere anche altre possibilità di genere, oltre al maschile e al femminile.  Altra questione dibattuta (ma ormai neanche tanto) è quella che riguarda i titoli o i ruoli istituzionali. Qualche mese fa fu nominata una donna, Maria Rosaria Maiorino, a capo della Questura di Palermo e fu sdoganata la «questora». È stata l’Accademia della Crusca ad auspicare l’uso del genere grammaticale femminile nei casi di qualifiche pubbliche o professionali. Dunque: «la ministra», «la deputata», «la sindaca», «l’assessora», «la presidente», «la chirurga», «l’avvocata», «la giudice», «l’architetta» non si discutono più e farebbero bene ad adottarle anche i giornali. Preferibile abolire il suffisso «-essa», che certe sensibilità avvertono lievemente offensivo, come vuole la professora Romito. Irrispettoso tout court è l’articolo che accompagna il cognome: consigliabile dunque per il galateo linguistico è dire «Boldrini» e non «la Boldrini». Il motto è: «evitare dissimmetrie», suggerisce Adamo, la quale però, benché combatta in prima linea, preferisce ancora dirsi «professoressa» e parlare di «poetesse» e non di «poete». Certo, anche in ambiti prestigiosi, resistono le donne legate al buon vecchio uso del maschile come status . E se è vero che la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini chiede di essere chiamata «sindaco», anche la rettrice (o la rettora?) dell’Università Milano-Bicocca si dissocia e preferisce firmare come «il rettore Cristina Messa». A loro parziale consolazione, c’è il fatto che ogni dichiarazione d’intenti dovrà vedersela con la pratica.  ========================================================= ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 16 Set.. ’14 CONVEGNO SU CERE, SCIENZA E GENIO il 23 A CAGLIARI http://pacs.unica.it/cere/ RETTORATO. L’evento in ricordo del celebre maestro Susini  Un congresso sulle cere anatomiche  Un congresso per celebrare i 200 anni dalla morte del celebre ceroplasta fiorentino Clemente Susini, autore - insieme all’anatomista Francesco Antonio Boi - delle cere anatomiche realizzate tra il 1803 e il 1805 nel museo di La Specola in Firenze. L’evento si terrà il 23 settembre, in Rettorato. Al convegno - organizzato dal Museo delle cere anatomiche di Cagliari e patrocinato dall’Università e dalla Società Italiana di Anatomia - saranno presenti il rettore di Cagliari Giovanni Melis e i suoi omologhi di Firenze e Sassari. Tra i relatori, hanno assicurato la loro presenza, Eleanor Crook (www.eleanorcrook.com) e Martin Kemp famoso per i suoi studi su anatomia e arte (www.martinkemp.com). Durante i lavori sarà anche presentato il libro “Le cere vive” pubblicato per iniziativa del noto chirurgo Ugo Pastorino, appassionato di ceroplastica e Direttore della divisione di Chirurgia Toracica dell’Istituto Tumori di Milano. L’inizio dei lavori è previsto le per 9,30. CONVEGNO. Martedì 23 settembre nell’aula magna dell’Ateneo cagliaritano CERE, SCIENZA E GENIO Omaggio a Susini a 200 anni dalla sua morte  Tra arte e scienza, le fedeli riproduzioni anatomiche datate 1803-1805 e modellate nella cera dalle mani di Clemente Susini hanno vagato a lungo prima di essere accolte nella sala pentagonale della Cittadella dei musei a Cagliari. I pezzi, appartenenti a una delle collezioni più belle al mondo, dal 1991 sono in esposizione permanente negli spazi di piazza Arsenale a testimonianza sì del grande lavoro del ceroplasta fiorentino, ma anche del cammino scientifico della medicina e della chirurgia. Martedì 23 settembre nell’aula magna dell’Ateneo cagliaritano (via Università, 40), dalle 9 alle 18, si terrà un convegno in onore di Clemente Susini: nel secondo centenario della sua morte verranno omaggiate le opere realizzate insieme all’anatomista Francesco Antonio Boi nel Museo di La Specola a Firenze. A voler riunire intorno a un tavolo i presidenti di società scientifiche ed esperti è Alessandro Riva, da 23 anni curatore della collezione e che nel ’91 con il beneplacito del Rettore pro tempore Duilio Casula, aprì al pubblico l’esposizione. Oltre all’intervento del Magnifico Rettore dell’Università di Cagliari Giovanni Melis e quello dei Rettori di Firenze e di Sassari, hanno assicurato la loro presenza Eleanor Crook (Royal College of Art, Londra), Marina Wallace (University of the Arts, Londra), Martin Kemp, studioso di anatomia e arte, Pinuccio Sciola. Verrà anche presentato il libro: “Le cere vive” del chirurgo Ugo Pastorino. Il convegno sarà l’occasione per rendere noti e commentare i risultati dei recenti studi, condotti nell’ambito del Museo, che hanno dimostrato che le cere cagliaritane sono rimaste praticamente sconosciute al di fuori della Sardegna fino al secondo dopoguerra. Mentre tutte le altre collezioni realizzate a La Specola erano note fino ai primi anni Cinquanta del XX secolo, secondo la ricerca, Susini era ignoto al di fuori della Sardegna, come risulta dall’articolo sulle Cere di La Specola - apparso sulla terza pagina del Corriere della Sera del 18 gennaio 1939 - in cui il medico-scrittore Corrado Tumiati sfida il lettore a trovare «notizie su Clemente Susini, pittore e scultore, in tutte le enciclopedie del mondo». Solo in seguito alla pubblicazione del saggio su Clemente Susini, Francesco Antonio Boi e le Cere di La Specola, opera postuma di Luigi Castaldi, già professore di Anatomia a Cagliari e pubblicata nel 1947, il ceroplasta venne finalmente riconosciuto come grande artista e vero autore delle cere fiorentine. Ma come arrivò a Cagliari la collezione? Fu Carlo Felice di Savoia, viceré di Sardegna, che dopo aver accordato a Francesco Antonio Boi il permesso di approfondire i suoi studi nel Gabinetto anatomico di Firenze, nel 1805 acquistò per il suo Museo di Antichità e Storia naturale tutte le riproduzioni, fatte da Susini, delle dissezioni cadaveriche eseguite dal professore. Nel 1858 furono trasferite nel palazzo universitario, nascoste durante la seconda guerra mondiale, catalogate per la prima volta nel 1968. Il workshop del 23 settembre ha anche un altro scopo. Alessandro Riva lo spiega sottolineando come la sua età (76 anni) e la mancanza di altri addetti museali mettano a rischio la sorte delle cere e vorrebbe che fossero finalmente concesse all’Università di Cagliari risorse finanziarie e di personale analoghe a quelle accordate a musei di simile rilievo. Grazia Pili ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 18 Set.. ’14 R.PERRA:TAGLIARE LE ASL SARDE NON SERVE Riduzione dei costi con migliori prestazioni. E poi: riorganizzazione del sistema dell'emergenza, unito a un più articolato funzionamento dei Distretti sociosanitari. Per Raimondo Perra, socialista, presidente della Sesta commissione, la riforma della Sanità va chiusa subito: «Entro settembre la commissione potrà esitare la proposta di legge grazie, in particolar modo, al senso di responsabilità e disponibilità al dialogo mostrate dalla minoranza». Quanto costa la Sanità sarda? «Lo stanziamento finale del 2014 ammonta a 2 miliardi 850 milioni, con un disavanzo annunciato dall'assessore di 200 milioni. La perdita netta del 2012 era di 372 milioni mentre quella del 2013 di 379». Troppi ospedali o troppe spese pazze? «Troppe spese per non avere un'adeguata assistenza. Gli ospedali non sono troppi: semmai vanno riorganizzati». Che riforma sarà? «Sarà una riforma con profondi interventi legati alla nuova normativa nazionale. Sia riguardante la rete ospedaliera che la nuova organizzazione territoriale della degenza». C'è chi sostiene che alla fine non cambierà nulla. Solo pessimismo? «Non sono d'accordo. C'è una forte motivazione che nasce dalla spinta dataci dagli elettori sardi, stanchi di sentire solo proclami da chi ha governato prima di noi». Non trova che i partiti vorranno continuare a controllare il sistema? «Credo che i partiti siano necessari in una società democratica, ma devono limitarsi a dare indicazioni e fare programmazione attraverso le istituzioni». La centrale unica di acquisto non era nei piani del centrodestra? «Vero. Ma non sono riusciti a realizzarla. Io la considero un'ottima cosa: solo così si può razionalizzare la spesa». Il 118 regionale risolverà i problemi dell'emergenza? «È senza dubbio necessaria una centralizzazione del servizio: l'assenza sta creando molti problemi». Sarà possibile una drastica riduzione delle Asl? «Al momento non è in discussione la riduzione delle Asl. Quando si porrà la questione, valuteremo con il massimo coinvolgimento di tutti i soggetti in campo. Ma non sono convinto che la riduzione delle Asl possa consentire al sistema un risparmio. Ricordo che quando le Usl erano 21 la spesa era nettamente inferiore delle 8 Asl». Come mai questo tema non è ancora argomento della riforma? «È un argomento che merita una discussione politica approfondita con valutazioni non solo di tipo economico». Non è che ci sono incomprensioni in maggioranza? «No. In tutte le maggioranze composite, così come in tutti i partiti, si affrontano dibattiti su singoli argomenti proprio perché ciascuno intravede strade diverse da percorrere per raggiungere un obiettivo. L'importante che poi si giunga a sintesi». Si dice però che vogliate fare in fretta con la riforma per procedere al commissariamento delle Asl. «La fretta non è mia, tanto meno della maggioranza. È dei sardi, stanchi di attendere i tempi della politica». Il centrodestra storce il naso solo per questo? «Fanno l'opposizione, perché il loro programma è stato bocciato dall'elettorato. Noi abbiamo il dovere di dare risposte». L'operazione San Raffaele porterà vantaggi al sistema salute? «Credo di sì. Avrà ricadute sulla qualità della sanità sarda. La politica con questo accordo ha dato una risposta a una importante proposta di investimento nel settore della sanità e della ricerca scientifica. Altro aspetto non secondario è la creazione di 1.300 posti di lavoro a regime». Per il resto, come giudica l'operato della Giunta in tema di Sanità? «Positivamente, ma si è solo all'inizio del percorso». E quello dell'assessore? «Non ho elementi che possano darmi motivo di esprimere un giudizio negativo sul suo operato». Si diceva fosse a rischio. «Comaraggi estivi». Quali obiettivi vanno centrati nell'immediato? «Questa prima proposta di riforma serve a tamponare il disavanzo della spesa per poi passare a una fase di riorganizzazione del sistema». Ed entro la legislatura? «La razionalizzazione della rete ospedaliera, la riqualificazione dell'assistenza territoriale attraverso le case della salute. E poi: gli ospedali di comunità, per garantire adeguati livelli di cura per tutte quelle persone che non hanno necessità di ricovero in ospedali per acuti, ma che hanno comunque bisogno di un'assistenza non fruibile a domicilio. Infine, il Piano sanitario». ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 20 Set.. ’14 INFERMIERI. BOTTEGA (NURSIND): "L'IPASVI SI PREOCCUPA DEL SUO LOGO, MA NON APPLICA LEGGE SULLA TRASPARENZA" Il sindacato delle professioni infermieristiche attacca: "Invece di applicare la legge sulla trasparenza e l’anticorruzione la Federazione Ipsvi ci chiede conto dell’abuso perpetrato nell’utilizzo del logo Ipasvi da proteggere come un’icona sacra”. 20 SET - “Invece di applicare la legge sulla trasparenza e l’anticorruzione la Federazione Ipsvi ci chiede conto dell’abuso perpetrato nell’utilizzo del logo Ipasvi da proteggere come un’icona sacra”. E’ quanto dichiara Andrea Bottega, segretario nazionale Nursind. “Chiediamo solo l’applicazione di una normativa – sottolinea Bottega - che viene applicata da tutti gli ordini professionali a cominciare dagli ordini dei medici e loro si preoccupano dell’utilizzo del logo invece di dare conto agli iscritti e ai cittadini dell’azione trasparente della pubblica amministrazione che presiedono. L’impressione è che non abbiano ben compreso il fatto che sono amministratori pubblici e devono sottostare, loro malgrado, alle leggi della Repubblica”. La senatrice-presidente Annalisa Silvestro, afferma il segretario del Nursind, “chiamata a delicati compiti, quali l’elezione di giudici della Corte Costituzionale, non trova il tempo di applicare la normativa sulla corruzione alla Federazione che presiede e di dare indicazione ai cento collegi provinciali, ma ha il tempo scriverci perché nella copertina di 'Illuminiamo l’Ipasvi: Libro bianco sul collegio degli infermieri' abbiamo messo il logo dell’Ipasvi. Ci ha chiesto spiegazioni entro, e non oltre, i classici sette giorni”. Bottega rileva poi che “nel rispondere e nel rendere pubblico il carteggio affinché tutti abbiano i necessari elementi di conoscenza (sul sito Ipasvi non verrà, ovviamente, pubblicato nulla come di prassi) per questi comportamenti che tendono solo a silenziare chi si oppone al ventennio di potere dell’attuale gruppo dirigente Ipsvi. Attendiamo le azioni legali minacciate per portare, anche in sede giudiziaria, la nostra battaglia. Sarà interessante leggere le motivazioni che daranno ai giudici sui motivi della loro opposizione all’applicazione della legge sul contrasto alla corruzione e sulla trasparenza. Sono rimasti - conclude - gli unici enti pubblici in Italia”. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 21 Set.. ’14 LE BASI BIOLOGICHE DELL’OTTIMISMO di CLAUDIO MENCACCI* Tempi bui, complessi, per alcuni di guerra, durano da oltre sei anni e ci appare lontano quel «Yes we can» di obamiana memoria. Ottimisti, pessimisti, questione di genetica, di interazione con ambiente (epigenetica) o casualità? Certo è che vi sono luoghi nella corteccia cerebrale, aree cerebrali (corteccia cingolata anteriore, amigdala) che decrittano e registrano l’ottimismo, che aiutano a guardare i cambiamenti come opportunità, non concentrandosi sulle difficoltà e sui problemi. Etnologicamente l’ottimismo ci ha orientato e facilitato nello sviluppo. Il cervello umano tende a non focalizzarsi sul peggio. I lobi frontali, deputati a prevedere il futuro, negli ottimisti selezionano solo i dati positivi e tendono a ignorare quelli negativi, mettendo in luce prevalentemente un futuro migliore da come sarà realmente. I pessimisti invece, i cui lobi frontali processano in maniera diversa le informazioni che raccolgono, pur avendo uno sguardo più realistico, razionale e oggettivo della realtà, faticano di più  a superare le difficoltà  e a mettere in atto  dei cambiamenti. Il cervello genera speranza e soffre quando non vi riesce,  o quando sviluppa depressione. La disoccupazione, il crescere della povertà mettono a dura prova i circuiti dell’ottimismo che devono fare un lavoro supplementare soprattutto in alcune fasi: adolescenza e vecchiaia, ingresso e uscita dalla vita. I pessimisti hanno inoltre rischi più elevati di depressione, nonché rischi cerebro cardiovascolari e metabolici. Il «think positive» fa bene anche alla salute oltre che all’economia. Le persone affette da depressione e ansia hanno un assetto cognitivo che le spinge a ritenere gli eventi futuri negativi, e tendono a giudicare la possibilità di eventi futuri positivi come meno probabili. In questo caso siamo  di fronte a vere e proprie alterazioni della cognitività, come quelle di cogliere dal volto solo i segnali negativi e non gli altri perché il cervello «non li vede». Alla psichiatria, disciplina attenta alla complessità della persona, il compito di ridurre lo stigma nei confronti delle patologie psichiche e di combattere il binomio «depressione-pessimismo» epidemia di questi tempi, richiamando investimenti nella ricerca e mettendo in luce l’importanza della salute mentale anche come volano per ridare slancio e fiducia all’economia dell’intera nazione.  *direttore Dipartimento Neuroscienze Ospedale Fate benefratelli-Oftalmico, Milano  ____________________________________________________________ Corriere della Sera 21 Set.. ’14 COSÌ SI COLTIVERANNO LE PIANTE DI CANNABIS PER USO TERAPEUTICO DAL NOSTRO INVIATO «Non può esserci nulla di amatoriale nel produrre derivati dalla canapa, non solo per un quadro legislativo, che comunque è un riferimento ineludibile, ma anche perché dietro c’è tutta una professionalità per realizzare qualcosa che alla fine possa essere di aiuto nella salute di certe patologie invece di essere un’incognita se gestita malamente».  A spiegarlo è stato il professor Marcello Donatelli, direttore del Centro di ricerca per le colture industriali (CRA—CIN il più grande ente italiano di ricerca in agricoltura, controllato dal Ministero delle Politiche Agricole) durante l’ “open day” sulla cannabis terapeutica, organizzato di recente dalla sede distaccata di Rovigo del CRA—CIN. «Non sfruttare le capacità interne al Paese per sopperire alla richiesta di cannabis a livello medicale sarebbe autolesionismo», ha proseguito il direttore, sottolineando con orgoglio il ruolo di eccellenza di tutto l’ente. L’istituto di Rovigo, in particolare, non è solo l’unico in Italia in grado di produrre cannabis a uso medico in ambiente indoor, ma uno dei più quotati a livello internazionale nel campo della ricerca sulla canapa.  Fondato nel 1912 dall’agronomo Ottavio Munerati come “Regia Stazione sperimentale di bieticoltura”, l’istituto produce diverse varietà di cannabis medica a differenti contenuti di cannabinoidi (THC, CBD, CBG, THCV e CBDV), a fini di ricerca scientifica. Nel 2002 il direttore, Gianpaolo Grassi, ha voluto che la sede si specializzasse nella canapa.  E adesso sarà proprio l’istituto di Rovigo a supportare e “istruire” gli specialisti dello Stabilimento chimico-militare farmaceutico di Firenze, nella coltivazione delle piante utilizzate per i medicinali a base di cannabis, oggetto dell’accordo di collaborazione siglato giovedì scorso tra ministeri della Salute e della Difesa per l’avvio della produzione nazionale di cannabis medicinale allo Stabilimento fiorentino.  «Il CRA collaborerà con lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze (SCFM) — ha confermato il ministero delle Politiche Agricole — fornendo il supporto logistico tecnico e operativo che si renderà necessario. Il criterio concordato di valutazione del luogo, oltre la professionalità e capacità operativa specifica, è stato quello della sicurezza, che lo SCFM può garantire». Sui circa 60 ettari di terreno coltivati a Rovigo, ondeggiano distese di piante provenienti da diverse parti del mondo, dalla Siberia alla Cina, dal Nepal fino al Sudafrica. Vengono studiate per migliorarne la varietà, soprattutto ad uso tessile.  Appena varcato il cancello di ingresso del Centro, su un rettangolo di 3 mila metri quadrati recintato e controllato da telecamere di sicurezza svettano le piante del Progetto Europeo “Multi Hemp” che punta alla selezione di genotipi a basso contenuto di THC (tetraidrocannabinolo, la sostanza psicoattiva della canapa) per la produzione di fibra di qualità. Sì, perché la vocazione e la missione originaria dell’Istituto di Rovigo sono gelosamente custodite. «Siamo una Stazione di ricerca in agricoltura — ha ribadito all’”open day” il professor Donatelli —. Coltiviamo materiale vegetale adatto anche alla trasformazione in medicinali, ma non facciamo medicinali. La produzione di sostanze che hanno un contenuto psicotropo ha problemi di sicurezza molto particolari. Quindi un minimo di produzione a livello sperimentale può sicuramente essere gestita qui, poi però ci devono pensare istituzioni più attrezzate dal punto di vista della sicurezza, come lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze».  Ai piani superiori dell’edificio del Centro ci sono i laboratori, dove vengono selezionate le varietà e analizzato il contenuto dei principi attivi. Alcune stanze ospitano le “scorte” di cannabis: quelle con molto THC (tetraidrocannabinolo, la sostanza psicoattiva), molto cannabidiolo o cannabigerolo, che sono i cugini minori del THC perché non psicotropi. Ma anche quelli senza THC, utili come placebo in determinati studi clinici (randomizzati, in cieco o in doppio cieco). L’intero complesso è sotto vigilanza e con allarmi. All’interno ci sono regole severe da rispettare sui controlli e la sicurezza. Il materiale che può contenere sostanze stupefacenti viene tenuto in frigoriferi o in stanze con chiusura blindata, sotto protezione.  Il cuore della produzione per uso farmaceutico è la “serra controllata”, all’interno di un capannone blindato. In un’atmosfera da fantascienza, sotto la luce giallognola delle lampade a 600 Watt che forniscono 25 mila lux, le piantine selezionate all’origine vengono “allevate” in ambiente quasi sterile. «Qui non ci sono insetti, nè possibilità di contaminazioni pericolose — dice Grassi — e non usiamo prodotti chimici per trattare le piante. Per arrivare ad avere anche la produzione di un vegetale che poi possa essere trasformato o destinato a farmaco bisogna seguire procedure specifiche e ottenere un materiale che sia caratterizzato da livelli elevati di salubrità e di assenza di contaminazione. La pianta deve produrre il massimo e il prodotto deve essere uniforme in qualunque stagione e con qualsiasi temperatura. Una delle caratteristiche ricercate dal prodotto farmaceutico è proprio la costanza e la standardizzazione del principio attivo». Questo per dare la massima garanzia al paziente e al medico, sia sull’origine che sull’efficacia del farmaco.  Ma quanta sostanza si può ottenere? «In questa serra alleviamo mediamente 150 piante. Ogni pianta produce una quantità di fiori, che è la parte più ricca e di interesse, per circa 30 grammi, per cui diciamo circa 4,5 chili di materiale per ciclo. Con un lavoro intensivo, possiamo arrivare anche a quattro cicli l’anno».  Il percorso di produzione della canapa per uso medico, oltre ad essere normato dalla legge (la 309 del 1990), deve seguire altre regole ben precise. «La canapa medica — precisa Grassi — deve essere fatta esclusivamente con cloni, cioè materiali riprodotti geneticamente, non sono ammessi i semi. Le varietà devono essere registrate, ben definite, depositate presso Centri adatti a questo scopo che sono in Italia o in Europa ».  La produzione deve rispettare dall’inizio alla fine i canoni della “Good agricultural practice”, cioè tutta una serie di fasi ben definite e scritte. E bisogna porre molta attenzione a tutti i passaggi di lavorazione. «L’essicazione ad esempio — esemplifica il direttore dell’istituto di Rovigo —. Sembra una banalità, ma se viene eseguita male può causare la crescita di muffe. Dunque va fatta a bassa temperatura, con un’apparecchiatura particolare e al buio. Anche la conservazione è fondamentale per la stabilità dei principi attivi. La sterilità dovrebbe essere garantita con i raggi gamma, come accade oggi in altri laboratori all’estero. Occorre infatti considerare che queste sostanze potrebbero essere assunte da categorie di malati con un sistema immunitario indebolito».  A Firenze si dovrà tenere conto di tutto questo. La produzione della materia prima e la sua trasformazione in medicinale in Italia consentirà di abbattere i costi dei farmaci a base di cannabis. E darà così maggiori possibilità di accedere alle cure ai malati che ne hanno bisogno.  Ruggiero Corcella ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 15 Set.. ’14 PAGA IL MEDICO CHE NON DIMOSTRA LA SUA DILIGENZA Antonino Porracciolo È onere del medico dimostrare di aver diligentemente adempiuto la propria prestazione. Il paziente che chiede il risarcimento del danno deve invece provare l'esistenza del contratto e il nesso di causalità tra la condotta del sanitario e la patologia. Lo sostiene il tribunale di Palermo (giudice Ciardo) in una sentenza del 19 giugno 2014. La controversia scaturisce dalla domanda di condanna alla rifusione dei danni che due genitori avevano proposto nei confronti di una struttura sanitaria per le patologie sofferte dal loro figlio. In base alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, il giudice rileva che i medici avevano omesso di «trasferire con urgenza la paziente all'interno della stessa struttura ospedaliera» perché fosse immediatamente sottoposta a taglio cesareo. Così la donna era stata costretta a raggiungere un secondo nosocomio (peraltro con mezzo proprio), dove poi le era stato praticato il cesareo. Il tribunale osserva quindi che il neonato presentava già una patologia di origine genetica: ciò aveva «determinato nel bambino forti ripercussioni sul suo sviluppo neuromotorio e psichico», su cui nessuna efficienza causale, però, avevano avuto i ritardi riscontrati dal consulente. Tuttavia, quei ritardi avevano peggiorato la già precaria situazione clinica del nascituro, aumentando «la condizione di ipossia cerebrale, all'origine di talune patologie di cui risulta oggi affetto il piccolo». Il pregiudizio alla salute del bambino dovuto ai ritardi dei sanitari è così quantificato nel 25 per cento. La sentenza si sofferma poi sulla giurisprudenza della Cassazione in materia di responsabilità della struttura ospedaliera e del suo personale sanitario dipendente. Il giudice ricorda che la Corte di legittimità considera la relazione paziente-struttura in termini autonomi rispetto al rapporto paziente-medico, ritenendo che la prima dia luogo a un contratto atipico a prestazioni corrispettive («da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria»), al quale si applicano le ordinarie regole sull'inadempimento fissate dall'articolo 1218 del Codice civile. Poiché si tratta di un'obbligazione di tipo professionale, la diligenza richiesta non è quella del buon padre di famiglia, ma quella del buon professionista, e cioè – prosegue il tribunale – «la diligenza normalmente adeguata in relazione al tipo di attività e alle relative modalità di esecuzione». Inoltre, l'onere probatorio segue le regole della materia contrattuale. Il danneggiato deve dunque provare, oltre la conclusione del contratto, l'aggravarsi della patologica (o l'insorgere di nuove malattie), nonché il nesso di causalità tra l'azione (o l'omissione) del sanitario e tale evento dannoso, «restando a carico del debitore – conclude il tribunale – l'onere di provare l'esatto adempimento, cioè di aver tenuto un comportamento diligente». Il tribunale afferma quindi che la condotta omissiva rilevata dal consulente tecnico d'ufficio viola gli obblighi che gravavano sulla struttura sanitaria e sul suo personale medico «e si pone all'origine del danno alla salute» sofferto dal bambino. In base a queste considerazioni, il giudice condanna dunque l'azienda ospedaliera a pagare 275mila euro a titolo di risarcimento dei danni patiti dal piccolo e dai suoi genitori. ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 18 Set.. ’14 CORRUZIONE IN SANITÀ. UN FENOMENO DA 6 MLD L'ANNO. MACCHIA (ISPE): “Necessarie leggi speciali” Questa la convinzione espressa dal presidente dell’Ispe nel corso di un summit sulla corruzione in sanità. Macchia oltre e presentare un Libro bianco sul fenomeno ha illustrato tre proposte: “Daspo” a vita da ogni rapporto con la sanità per il corrotto; sequestrare il valore dell’atto corruttivo e istituire un fondo di tutela per chi denuncia e, infine, la presenza di agenti della GdF che simulino un tentativo di corruzione per verificare la reazione di un funzionario.  18 SET - Corruzione e frode in sanità, una torta di malaffare che assorbe il 5,59% delle risorse, con un intervallo che varia tra il 3,29 e il 10%. Il che tradotto in termini monetari significa circa 6 miliardi di euro l'anno sottratti alle cure per i malati, rendendo di fatto il Ssn inaccessibile ad una quota sempre più alta di persone e famiglie. Questo dato è contenuto nel libro bianco elaborato dell’Ispe e presentato nel corso di un Summit internazionale dal titolo “Corruzione e sprechi in Sanità”.   “Il dato del 5% - ha spiegato Francesco Macchia che di Ispe è il presidente - è il primo che viene elaborato in sanità, quindi è un numero che deve essere analizzato bene e approfondito. Comunque tradotto in termini monetari significa 6 miliardi circa di risorse sottratte alla cura dei pazienti. Se andiamo a sommare il dato a sprechi e inefficienze si arriva a 23 miliardi. Ora il punto è che non sappiamo quanto di questi 6 miliardi possono essere recuperati immediatamente”. Come possono essere recuperati questi soldi? Per Macchia è possibile farlo attraverso un’azione complessa e di lungo periodo. "Noi abbiamo individuato delle linee di intervento. La prima è quella del contrasto e controllo e abbiamo creato un sistema di analisi basato su un’intelligenza artificiale per la sanità, in modo da individuare gli eventuali sprechi e inefficienze. Il secondo punto è quello di una normativa adeguata. La legge 190/12 è senz’altro una buona legge ma quello che manca in questo momento sono delle leggi speciali per la sanità che permettano di fare un’opera di moralizzazione nel settore”.   Per il presidente dell'Ispe un’opera di moralizzazione può essere compiuta attraverso tre proposte o linee di intervento. "La prima - ha spiegato -l’abbiamo chiamatamozione Robin Hood, ovvero sequestrare al corrotto il valore dell’atto corruttivo e farlo andare in un fondo di tutela a favaore di chi denuncia. Chi denuncia infatti, è teoricamente tutelato dalla legge 190 ma il rischio che questa tutela sia solo teorica c’è, tant’è vero che in Italia non denuncia nessuno. La seconda linea di intervento elaborata è quella dell’agente provocatore. Si tratta di agenti della Guardia di Finanza che vanno a stimolare una corruzione simulata di un funzionario pubblico per verificarne la reazione. Questo non ha un effetto penale, né un effetto immediato a livello civile, quindi non impatta sulla sua carriera. È però un alert che viene inserito nel Cv del funzionario. Terza ed ultima proposta è il Daspo, ovvero esclusione a vita da ogni rapporto con la sanità pubblica e privata per il funzionario corrotto”.   Macchia riconosce che si tratta di  "leggi speciali", e spiega: "Basterebbe applicarle per un periodo limitato, magari dieci anni, per far si che ci sia una rinascita civica. Si prenda coscienza dell’importanza dei comportamenti corretti e si inneschi un comportamento virtuoso sul quale lavorare. In questo momento siamo in pieno circolo vizioso e quindi la difficoltà è capire da dove cominciare”.   Nicoletta Parisi, in veste di Commissario Autorità Nazionale Anticorruzione ha poi spiegato che “gli sprechi sono cugini della corruzione e della non trasparenza nel senso che se io sono un dirigente di un’azienda sanitaria e avvaloro la tecnica dello spreco è perché ho un interesse mio privato. E quindi mi colloco in un’area che è quella della corruzione. Perché la corruzione identifica ogni comportamento che utilizza un bene pubblico per un fine privato. E quindi se come dirigente di un’azienda sanitaria consento lo spreco significa che io li ho un interesse privato”.   Parisi ha poi bocciato la logica dei tagli lineari, “perché obbligano ogni amministrazione che sia virtuosa o meno a tagliare il 10% di risorse. Allora – ha spiegato – nelle realtà virtuose il taglio si sente mentre in quelle non virtuose il taglio non si sente perché tanto lo spreco c’è comunque, mentre pregiudica il servizio pubblico della realtà virtuosa che deve abbassare il livello qualitativo della prestazione. E a questo punto rischia di andare in passivo con tutto ciò che ne consegue”. Infine, Parisi ha rimarcato il suo “no" anche ai ticket, "perché in questo modo si scarica sull’utente il costo dello spreco. Si continua a sprecare perché tanto, per compensare, posso aumentare il ticket”.   Quantificare l'odioso fenomeno della corruzione in ambito sanitario è molto difficile. Negli ultimi anni, la Corte dei conti ha più volte sottolineato come in sanità "si intrecciano con sorprendente facilità veri e propri episodi di malaffare con aspetti di cattiva gestione, talvolta favoriti dalla carenza dei sistemi di controllo”.   Il report dal titolo “Corruzione e sprechi in Sanità” stilato da Transparency International ha fotografato la situazione con dati molto precisi: in Italia il sistema sanitario nazionale è affetto da corruzione. Una malattia cronica che può essere debellata con un piano terapeutico animato da personale medico, amministrativo e politico, non ricorrendo alla sola repressione. Per questo motivo, Transparency ha individuato una serie di indicatori in grado di allarmare chi si occupa della gestione del Sistema sanitario, sintomi che non possono essere trascurati se si vuole perseguire la salute dei cittadini e la qualità dei servizi erogati. Lo studio elenca delle soluzioni per combattere efficacemente il fenomeno. Appunto nell’ambito del progetto europeo “Unhealthy Health System – Corruzione e sprechi in sanità”, finanziato dalla Commissione Europea DG Home Affairs, sono state rilevate da Transparency alcune delle maggiori criticità: debolezza del quadro normativo, difficoltà dei controlli, asimmetria informativa, relazioni pubblico-privato, ingerenza politica, inadeguatezza delle tutele per i whistleblower, scarsi poteri di indagine e sanzionatori, basso livello di trasparenza.   Se poi si prende a riferimento il Global Corruption Barometer del 2013, nella percezione dei cittadini, la sanità (in particolare i servizi che seguono le gare e gli appalti) è un settore corrotto. Il 40 per cento degli Italiani intervistati - contro il 30 per cento della media UE - ritiene che la corruzione sia diffusa tra coloro che lavorano nel settore della salute pubblica. Secondo questa indagine, il 4 per cento degli italiani intervistati ha riferito di aver pagato, nel corso del 2012, una tangente per accedere al servizio sanitario: è una percentuale più alta del Belgio, della Germania, della Spagna e del Regno Unito, che si attestano, invece, tra l’1 e il 3 per cento. Tuttavia in Francia, Spagna e Regno Unito vi è un maggior numero di cittadini rispetto all’Italia che percepisce un peggioramento della corruzione, mentre il 61 per cento dei cittadini italiani crede che la gente comune possa fare la differenza nella lotta alla corruzione. Il summit si è concluso con alcune indicazioni di comportamento per i responsabili anticorruzione del settore sanitario: l’applicazione dei patti di Integrità, l’implementazione di sistemi efficaci ed accessibili per la tracciabilità delle spese, l’organizzazione di momenti di formazione e comunicazione interna, l’adozione di misure in grado di valorizzare i talenti e premiare comportamenti improntati all’etica e all’integrità, la costituzione da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione di un vero e proprio network dei responsabili anticorruzione, l’introduzione di maggiori tutele e di sistemi per incentivare i whistleblower, infine, la pubblicazione delle informazioni e dei dati creati o gestiti dagli enti in formato “open”. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Set.. ’14 FARMACI DI CUI SI FA USO ECCESSIVO, O AL CONTRARIO LASCIATI INUTILIZZATI NELL’ARMADIETTO ANCHE SE IL DOTTORE LI HA PRESCRITTI; medicine non assunte nel modo giusto perché possano dare benefici — abusandone, o viceversa, in dosi insufficienti — o, ancora, terapie interrotte non appena si sta un po’ meglio, anche se la malattia è cronica e va tenuta sotto controllo. Tutti errori che si pagano, non solo in termini di salute, ma anche in termini di soldi “buttati via”, in un modo o nell’altro.  In Europa i costi della non aderenza alle terapie farmacologiche, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, si aggirano intorno ai 125 miliardi di euro l’anno. E se le condizioni di salute peggiorano, bisogna fare ricorso nel migliore dei casi ad altre medicine, ma aumentano anche gli accessi al pronto soccorso, i ricoveri, le morti premature.  Ma questa è solo una delle due facce della «appropriatezza delle cure farmacologiche»: l’altra è la prescrizione adeguata, ed è compito dei medici. Nel suoi due aspetti l’appropriatezza delle cure è, specie in un periodo di scarse risorse e in cui aumentano popolazione anziana e malattie croniche, una sfida per tutti i Servizi sanitari, compreso il nostro.  Ma quali farmaci “sprechiamo”? Ce lo dice il “Rapporto OsMed 2013”, elaborato dall’Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali, istituito presso l’Aifa-Agenzia italiana del farmaco. Il Rapporto, per esempio, segnala ancora una volta l’annosa questione degli antibiotici: l’anno scorso il loro consumo è cresciuto del 3,5% rispetto al 2012. Se ne assumono di più, indicano i dati OsMed, in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. L’impiego non appropriato di antibiotici supera il 20% in tutte le condizioni cliniche, ma si arriva al 49,3% per la laringotracheite e al 36,3% per la cistite non complicata. E a poco sono serviti finora i moniti degli esperti, che ripetono, come fa una volta di più il direttore dell’Aifa, Luca Pani: «L’uso inappropriato degli antibiotici non rappresenta solo un problema di costi a carico del Servizio sanitario, ma soprattutto un problema di salute pubblica, poiché favorisce l’insorgenza di resistenze batteriche con una progressiva perdita di efficacia di questi farmaci».  Dall’analisi dei dati delle Aziende sanitarie locali, poi, emergono bassi livelli di aderenza alle prescrizioni principalmente per i medicinali utilizzati nei disturbi ostruttivi delle vie respiratorie, per gli antidepressivi e i farmaci per la prevenzione del rischio cardiovascolare. In quest’ultimo caso, secondo il Rapporto OsMed, pur essendo circa 16 milioni gli italiani che soffrono di ipertensione (uno dei più importanti fattori di rischio per malattie cardiovascolari, ictus e insufficienza renale), ad assumere antipertensivi sono in meno di 8 milioni, sebbene abbiano ricevuto la diagnosi e quindi la prescrizione.  A causare una minore aderenza alle terapie ci si mettono anche, stando almeno ad alcuni studi, i costi dei ticket. «L’aumento dei ticket sui medicinali in fascia A (a carico del Servizio sanitario), soprattutto in alcune Regioni con piani di rientro, è un “ostacolo” nell’accesso alle cure segnalato sempre più dai cittadini — sottolinea Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva, che ha promosso la campagna “I due volti della sanità: sprechi e buone pratiche” — . Per esempio, il Rapporto OsMed rileva i bassi livelli di aderenza ai farmaci di chi soffre di bpco, la broncopneumopatia cronica ostruttiva. Perché? Forse perché, pur essendo una malattia cronica, non è ancora riconosciuta come tale dalla nostra Sanità, per cui il malato non ha diritto all’esenzione e deve pagare i ticket, per molti troppo onerosi. E così si rinuncia ai farmaci prescritti».  C’è poi, come si è detto, il fattore “inappropriatezza delle prescrizioni”. Per esempio, in base agli indicatori di appropriatezza utilizzati nel Rapporto, per il 46,5% dei pazienti che assumono inibitori di pompa per il trattamento dell’ulcera e dell’esofagite (a carico del Servizio sanitario) non ci sono i requisiti di rimborsabilità fissati dalle note Aifa, ovvero si tratta di «consumi altamente inappropriati». La stessa Associazione italiana gastroenterologi ed endoscopisti ospedalieri (Aigo) pensa che siano troppi, per citare un caso, i 20 milioni di euro spesi in un anno nel solo Lazio per farmaci contro il bruciore di stomaco e il reflusso gastrico. «Spesso si prescrivono gli “inibitori di pompa” come “copertura” quando il paziente deve assumere antinfiammatori o antibiotici: lo fanno anche otorini, dentisti, ortopedici — dice il presidente di Aigo, Antonio Balzano — . In molti casi potrebbe bastare un semplice sciroppo. Per migliorare l’appropriatezza delle prescrizioni abbiamo avviato uno specifico studio, prendendo come riferimento proprio il caso del Lazio».  E i medici di famiglia? «Tutto sta nel rapporto di fiducia tra il medico - che non è un semplice “prescrittore” - e l’assistito — sottolinea Fiorenzo Corti della Federazione italiana medici di medicina generale — . Se ogni specialista prescrive farmaci, per esempio per il glaucoma, l’artrosi e la bronchite, spetta poi al medico di famiglia fare la sintesi, perché conosce le condizioni cliniche generali del paziente e può verificare anche se i farmaci interagiscono tra loro».  Strumenti per assicurare l’appropriatezza d’impiego dei farmaci, ma anche per contenere la spesa farmaceutica, già esistono: dalle “Note Aifa”, al “Documento programmatico per la valutazione dell’uso dei farmaci nelle cure primarie” predisposto dall’Agenzia insieme ai medici di famiglia; dai registri di monitoraggio, ai piani terapeutici. Alcune Regioni hanno redatto anche proprie linee d’indirizzo per l’uso di specifici farmaci, altre hanno avviato report mensili della spesa farmaceutica. «Le linee guida vanno applicate — ricorda Corti —. In alcune Regioni, nell’ambito della “medicina di iniziativa”, imedici di famiglia in collaborazione con le Asl hanno attivato meccanismi di controllo sull’appropriatezza delle terapie, coinvolgendo i pazienti. Ma servono interventi più strutturati anche in altre realtà del Paese».  Nel consumo e nella spesa per farmaci pesano anche le differenze tra Regioni, che «non sempre sono spiegabili alla luce delle evidenze epidemiologiche» segnala il Rapporto OsMed. «A spendere meno in assistenza farmaceutica territoriale sono proprio le Regioni che garantiscono anche gli altri livelli essenziali di assistenza — commenta Giovanni Bissoni, presidente uscente di Agenas —. Ridurre le inefficienze in quelle meno “virtuose”, quindi, non significa tagliare la spesa sanitaria, ma ridistribuire i risparmi in altri servizi per i cittadini, come indica anche il nuovo Patto per la Salute 2014-2016, approvato in Conferenza Stato-Regioni nel luglio scorso».  «Gli sprechi — incalza Aceti — andrebbero individuati anche nella burocrazia, in inutili doppioni di centri decisionali, come le Commissioni territoriali per i prontuari farmaceutici».  Ci sono poi sprechi più “banali”, dai quali si può recuperare non poco. Secondo le stime di Assosalute, Associazione nazionale dei produttori dei farmaci di automedicazione, ogni anno si distruggono circa 12 milioni di confezioni di farmaci da banco, per un valore di circa 30 milioni di euro. Le cause? Diverse, e riguardano anche gli altri medicinali. «Per esempio, — spiega il presidente Gaetano Colabucci — si riscontra un difetto del packaging, per cui le scatole non vengono messe in commercio; altri farmaci sono ritirati dal mercato perché prossimi alla scadenza. Ma soprattutto, fino a pochi mesi fa, migliaia di confezioni integre venivano ritirate per aggiornare i foglietti illustrativi». Solo nel 2013 sono state circa 5 mila le variazioni dei “bugiardini”. Da giugno, però, la specifica delle modifiche approvate viene consegnata in farmacia al momento dell’acquisto del medicinale. Fino all’esaurimento delle scorte delle “vecchie” confezioni. Che così non finiscono buttate vie.  ____________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Set.. ’14 PERCHÉ NON SIAMO «ADERENTI» ALLE TERAPIE C’è chi riduce le dosi, chi sospende la cura. Ma anche chi non ce la fa a pagare il ticket Aiutare i pazienti ad assumere correttamente il farmaco prescritto, nei tempi e nei modi indicati dal medico. È l’obiettivo del primo studio pilota avviato in Italia nell’ambito della Medicine Use Review (MUR), promosso da Federazione degli ordini dei farmacisti (Fofi) e dalla Medway school of pharmacy dell’Università del Kent, in collaborazione con i medici di famiglia e le Asl in 15 Regioni. Il progetto si focalizza sull’asma, il cui trattamento si basa su farmaci per via inalatoria che richiedono l’impiego non semplice di dispositivi. Studi scientifici hanno dimostrato che, con la revisione dell’uso dei medicinali grazie al supporto del farmacista, dopo soli sei mesi il numero dei pazienti in grado di usare correttamente i dispositivi è passato dal 24 al 93% e sono migliorate le loro condizioni di salute. «Il primo spreco che il farmacista può contribuire a eliminare è proprio la mancata aderenza alla terapia — spiega il presidente di Fofi, Andrea Mandelli — . Favorire il suo successo significa anche ridurre costi economici, sociali, per l’aggravamento della malattia e i ricoveri».  Nella prima fase della ricerca, è emerso che su 900 pazienti circa la metà non aderiva alla terapia: dimenticavano di assumere il farmaco , o modificavano arbitrariamente il dosaggio prescritto. Oltre a spiegare al paziente come assumere il medicinale, i farmacisti hanno inviato circa mille segnalazioni ai medici di famiglia.  «Laddove la distribuzione dei farmaci previsti dai piani terapeutici avviene nella farmacia sotto casa, piuttosto che in quella dell’Asl o dell’ospedale, — sottolinea Annarosa Racca, presidente di Federfarma — non solo si evitano disagi a pazienti a volte non autosufficienti, con più patologie e diversi piani terapeutici da seguire, ma si ottengono anche risparmi. L’accesso del farmacista al piano terapeutico, tramite la piattaforma informatica, infatti, permette di erogare man mano le confezioni di cui il paziente necessita, evitando prechi di medicinali inutilizzati se il farmaco viene cambiato».  Si stima che ogni anno svariati milioni di medicinali ancora non scaduti finiscano nella spazzatura. Da uno studio è emerso che in una città con una popolazione di 300 mila abitanti vengono smaltiti sotto forma di rifiuti circa 320 mila chili di medicinali in un anno: più di un chilo per cittadino. Considerando che per lo smaltimento si spende mediamente 1,5 euro al chilo, si tratta di circa 480 mila euro all’anno. «Se si presume che ogni cittadino butti in media circa un chilo di farmaci non utilizzati l’anno — fa notare Marco Malinverno, direttore del Banco farmaceutico — si arriva a 60 milioni di chili di rifiuti, con un costo per il solo smaltimento intorno ai 90 milioni di euro. Un enorme spreco di farmaci che potrebbero essere donati a persone non in grado di acquistarli o di pagare i ticket».  A Roma, grazie a un’iniziativa pilota che si sta estendendo in altre città, promossa dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus in collaborazione con i farmacisti, in sole 43 farmacie sono state recuperate in un anno 27 mila confezioni di medicinali non scaduti, integre e correttamente conservate, donate poi a chi ne aveva bisogno. Valore delle confezioni: 300 mila euro. «Se solo si estendesse il progetto a tutte le 800 farmacie della Capitale — dice Malinverno — in un anno si potrebbero reperire medicine per un valore di 5,5 milioni. Solo a Roma».  Mira proprio a sensibilizzare i cittadini sull’«uso consapevole e senza sprechi dei farmaci», anche per ridurre il loro impatto ambientale, la campagna «Green Health, fai la differenza», promossa da Apmar-Associazione persone con malattie reumatiche, col finanziamento della “Fondazione con il Sud” e il coinvolgimento dell’Agenzia italiana del farmaco. Spiega Antonella Celano, presidente di Apmar: «Tra le varie iniziative stiamo preparando un opuscolo su come usare e smaltire correttamente i farmaci».  Notevoli risparmi per il Servizio sanitario, poi, sarebbero possibili col passaggio alla ricetta digitale. In Veneto, poco meno di 5 milioni di abitanti e 40 milioni di prescrizioni farmaceutiche all’anno, da settembre agli assistiti viene consegnato dal medico di famiglia solo un promemoria col quale possono ritirare il medicinale prescritto in farmacia, cui arriva la prescrizione al computer. «Abbiamo calcolato che il sistema sanitario regionale risparmierà oltre 3,2 milioni di euro l’anno con la dematerializzazione delle ricette» dice Claudio Saccavini, direttore tecnico di Arsenàl.IT, consorzio per la sanità digitale di tutte le Ulss e aziende ospedaliere del Veneto. La ricetta digitale è resa possibile grazie al collegamento telematico tra medici, azienda sociosanitaria di riferimento, farmacie, Regione e Ministero dell’Economia.  ____________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Set.. ’14 LA PAROLA «GUARIGIONE» NON È PIÙ UN TABÙ PER CHI HA AVUTO UN TUMORE Non più solo «lungosopravviventi o survivors », ma anche guariti. È ormai tempo che questa parola venga utilizzata, che il concetto sia sdoganato, perché i numeri e le statistiche lo dicono: guarire dal cancro è possibile.  Lo sostengono gli esperti internazionali che si sono riuniti di recente a Siracusa per la quinta Conferenza europea sui pazienti oncologici lungosopravviventi e cronici, che hanno steso un documento (Carta di Siracusa ) in cui sono riassunti i dati a disposizione, che indicano quando, per determinate forme di tumore, si è autorizzati a pronunciare la parola “guarigione”.  «È fondamentale, con tutte le cautele necessarie, che il termine entri a far parte del mondo oncologico — dice Paolo Tralongo, direttore dell’Oncologia dell’Ospedale Umberto I di Siracusa, fra gli organizzatori del convegno —. Oggi troppo spesso familiari e medici sono riluttanti ad usare la parola guarigione, con conseguenze negative sia per gli ex malati che finiscono per sentirsi sempre inutilmente preoccupati, sia per il Servizio sanitario, che spreca invano denaro per visite e controlli che potrebbero non essere più necessari».  La premessa è una soltanto: il via libera si ha nel momento in cui l’aspettativa di vita dell’ex paziente (ovvero il suo rischio di morte) diventa uguale a quella del resto della popolazione del suo stesso sesso ed età. Ovviamente, tutto dipende dal tipo di neoplasia, dallo stadio al momento della diagnosi e dal successo delle terapie.  «Importanti studi condotti su numeri molto grandi di persone — spiega Tralongo — hanno dimostrato che le persone curate efficacemente per un tumore al colon o alla cervice uterina possono essere definite guarite dopo otto anni di controlli in cui non si è avuta alcuna ripresa della malattia. Si sale, per ora, a 10 anni per chi ha avuto un carcinoma della tiroide o dei testicoli, il cui tasso di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi oggi è già superiore al 90 per cento. E anche per il cancro al seno sappiamo che ben l’80 per cento delle donne operate per un nodulo di piccole dimensione non ha alcuna ricaduta nei successivi 15 anni: per precauzione, quindi, teniamo la soglia della guarigione a 20 anni, anche in virtù dei molti tipi diversi di carcinoma mammario e consapevoli del fatto che per alcune forme le recidive si presentano a tanti anni di distanza. Un discorso simile può essere fatto per gli uomini con un tumore alla prostata, tenendo presente che viene diagnosticato in un’età più avanzata rispetto a quello al seno».  Sentirsi guariti è un passo determinante per il reinserimento sociale, lavorativo, per il benessere psicologico e la sfera più intima e sentimentale, per un ritorno pieno alla quotidiana normalità (basti pensare alle tabelle di rischio per stipulare un’assicurazione, che valutano la pratica in base al rischio di morte della persona, o a tutti quei lavori che necessitano un certificano di piena salute).  Certo, purtroppo, ci sono tumori da cui ancora oggi non si guarisce e gli esperti non vogliono in alcun modo accelerare in modo «sbrigativo» il momento in cui i pazienti abbandonano l’iter di controlli. Fermo restando che anche gli ex malati dovranno sempre partecipare, come tutti gli altri, agli screening per la diagnosi precoce con la mammografia per il cancro al seno, il test del sangue occulto delle feci per quello del colon e il Pap o Hpv test per quello dell’utero.  «La comunicazione va fatta con gradualità nel rapporto fra medico e paziente — precisa Gabriella Pravettoni, docente di Psicologia all’Università degli Studi di Milano e direttore della Psiconcologia all’Istituto Europeo di Oncologia —, senza dare false speranze da un lato né, dall’altro, far sentire le persone malate, e a rischio, all’infinito. Bisogna far capire, quando è il caso, che la guarigione è un concetto realistico e sostenere gli ex pazienti e i loro familiari nel passaggio fra i controlli sempre meno frequenti e il ritorno alla normalità. Ad esempio, può rivelarsi molto utile coinvolgerli in un nuovo progetto di vita sano, con educazione a stili di vita corretti (nutrizione, attività fisica, astensione da fumo e alcol), che li incentivi a un pensiero positivo, oltre ad essere concretamente valido per tutelare la salute».  Vera Martinella ____________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Set.. ’14 Ospedali e ticket, ecco i risparmi per la sanità Tre miliardi in meno con acquisti centralizzati Previsto il passaggio alla Consip e stretta sulle esenzioni: 7 su 10 non pagano ROMA — Alla fine i famosi 3 miliardi di euro di risparmi che il governo vuole tirare fuori dalla sanità dovrebbero arrivare con una ricetta che prescrive due medicine. La prima è il rafforzamento anche in questo settore della Consip, la società che si occupa degli acquisti della pubblica amministrazione e che, lavorando sui grandi numeri, mediamente garantisce prezzi più vantaggiosi. La seconda è la riforma dei ticket, che dovrebbe mettere un freno alla crescita delle prestazioni gratuite, con la possibile eliminazione delle esenzioni per patologia per le fasce più ricche della popolazione.  Il potenziamento della Consip è un progetto che viene da lontano. Già oggi la società controllata dal ministero dell’Economia presidia una piccola parte della spesa nel settore sanitario, 15 miliardi su una torta che ne vale 110. L’obiettivo è raddoppiare quella fetta per arrivare a 30 miliardi. Ci sono ancora un paio di numeri da tenere a mente per seguire il ragionamento. Dicono le rilevazioni dell’Istat e del ministero dell’Economia che, quando entra in campo la Consip, si risparmia in media il 20% rispetto al sistema fai da te, in cui ogni amministrazione va avanti per conto proprio. Quanto fa il 20% di quei 15 miliardi aggiuntivi? Proprio 3 miliardi. Non è un caso che il numero sia esattamente uguale ai risparmi messi in conto dal governo. Ma il percorso non è semplice. Oggi passa attraverso la Consip sia un pezzo di spesa sanitaria in senso stretto, medicine e apparecchiature per un totale di 9 miliardi, sia una parte della spesa generica comune al resto della pubblica amministrazione, come la cancelleria o i computer che arrivano a 6 miliardi. Per raddoppiare quella fetta non basta potenziare i meccanismi esistenti come il cosiddetto sistema dinamico d’acquisto, con la Consip che accredita la aziende fornitrici e poi le inserisce in un elenco dal quale gli enti pescano per organizzarsi la propria gara. No, per raggiungere quel numero magico è necessario allargare l’intervento della Consip ad altri settori in cui le Regioni spesso non riescono a procedere con il sistema delle gare. Si tratta dei servizi di pulizia, delle mense, della gestione dei rifiuti ospedalieri e del cosiddetto «lavanolo», il noleggio di divise e biancheria con lavaggio e disinfezione che pesa tantissimo sui bilanci delle asl. È difficile che il nuovo meccanismo produca tutti i suoi effetti già l’anno prossimo, portando per intero la sua dote di 3 miliardi sull’altare della spending review. Per questo bisognerà prendere anche l’altra medicina, decisamente più amara, e cioè la riforma dei ticket.  Non è una sorpresa perché la riscrittura delle regole è prevista proprio dal Patto per la salute, quell’accordo fra Stato e Regioni che i governatori hanno invocato in questi giorni per contrastare il pericolo dei tagli. Dice il patto che entro la fine di novembre una commissione tecnica dovrà presentare la sua proposta. Ma l’impostazione di fondo è ormai nota da tempo. Oggi il 70% delle ricette mediche per esami, visite e altre prestazioni è esente dal ticket, la tassa aggiuntiva che i cittadini pagano per tenere in piedi la sanità pubblica. Una valanga di prestazioni gratuite che tocca il picco nelle Regioni del Mezzogiorno, con l’86% in Campania e l’84% in Calabria. Nella metà dei casi l’esenzione è legata al basso reddito del paziente, nell’altra metà al tipo di malattia. Ma quando scattano i controlli spesso vengono fuori le magagne. Le verifiche fatte l’anno scorso dalla Guardia di finanza dicono che una volta su due c’era qualcosa che non andava. Il numero delle esenzioni continua a crescere del 4% l’anno. È vero che con la crisi siamo diventati più poveri e molti sono scesi sotto la soglia dell’esenzione minima, oltre ai 9 milioni che ritardano o rinunciano alle cure perché non possono più pagare. Ma è anche vero che, così com’è, il sistema,in parte ancora basato sull’autocertificazione dei redditi, non regge più. Per questo nella riforma del ticket potrebbe essere cancellata l’esenzione per patologia a chi ha un reddito alto. Ma c’è anche un’altra ipotesi allo studio, basata sulle franchigie a carico dei pazienti. In ogni caso sarà utilizzato in maniera più estesa l’Isee, l’indicatore della situazione economica equivalente che pesa l’intero patrimonio della famiglia.  Consip e ticket, dunque. Due medicine che dovrebbero far scendere la spesa e aumentare le entrare di un settore che da solo copre il 15% di tutta le uscite dello Stato al netto degli interessi sul debito. Una voce esplosa all’inizio degli anni Duemila, quando cresceva ad un ritmo da Pil cinese, il 7% l’anno. E che in realtà dal 2011 è scesa un po’, uno zero virgola che però, come certifica la Cote dei conti nell’ultimo rapporto sulla finanza pubblica, «ha dato un contributo importante per il mantenimento dell’indebitamento entro il 3%». L’inversione di tendenza è stata possibile soprattutto per gli interventi sul personale, con il blocco del turn over e degli stipendi di medici e infermieri come per tutti i dipendenti pubblici. Mentre, almeno per il momento, non sono arrivati grandi risultati dal meccanismo dei costi standard, che nella distribuzione dei fondi nazionali dovrebbe sostituire i parametri di tre Regioni al pericoloso meccanismo della spesa storica, che disincentivava ogni forma di risparmio. In realtà il sistema è ancora misto, a pesare parecchio è il semplice numero degli abitanti per Regione. Ma attenzione: i costi standard riguardano l’hardware della spesa sanitaria, il costo di una giornata di ricovero o di operazione di angioplastica. Non sono i prezzi standard per il software, medicinali e dispositivi. Di questo si occupa la nuova autorità anti corruzione che qualche giorno fa ha pubblicato i risultati di un sondaggio ereditato dalla vecchia Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, che divide in tre classi alcuni farmaci, a seconda di quanto è variabile il loro prezzo. Un lavoro che sarà utile proprio per il potenziamento della Consip e per tagliare le spese. Tenendo a mente un’ultima cosa, però: secondo lo scenario di lungo periodo disegnato pochi mesi fa dalla Ragioneria generale dello Stato, in futuro la spesa sanitaria riprenderà a crescere: se oggi è al 7% del Pil, il prodotto interno lordo, nel 2060 dovrebbe arrivare all’8,3%. A spanne sono 20 miliardi in più. La popolazione invecchia. E almeno per questo non c’è medicina che tenga.  Lorenzo Salvia ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Set.. ’14 DATI CLINICI ED ESAMI? LI TRASMETTERÀ AL MEDICO IL NOSTRO TELEFONINO I dottori Usa: migliorerà la sanità pubblica Ma davvero uno smartphone si prenderà cura di noi? E nel caso, è uno scenario da incubo oppure un sogno, una promessa di salute migliore, diagnosi sempre più tempestive, terapie perfettamente mirate? Il cuore (e il logo) di quella che potrebbe essere una vera rivoluzione arriva insieme al sistema operativo di Apple iOs 8, che da ieri è scaricabile gratuitamente e porta con sé la app per la gestione dal telefonino di dati e dispositivi relativi a casa e salute. Ma se la domotica — il controllo intelligente delle abitazioni —, fa ancora poco parte del nostro quotidiano, il cosiddetto «kit salute» risponde a una tendenza già in atto.  Solo negli ultimi 6 mesi la consultazione di applicazioni legate a sport e benessere è cresciuta del 62%. E in Italia il 35% dei 15-24enni si rivolge allo smartphone per misurare i chilometri percorsi in bici o le calorie della sua dieta. Consapevole della delicatezza del tema «rispetto della privacy», il 63% dei dirigenti degli ospedali americani è convinto che i dati provenienti da dispositivi mobili personali aiutino a gestire più efficacemente la salute della popolazione. Apple ha creato una piattaforma in cui tutte le informazioni su alimentazione, attività fisica, qualità del sonno ed esami clinici sono aggregate e analizzate. Approccio che consentirà a medici e strutture di ricevere dati in tempo reale e avvisare il paziente dell’insorgere di un problema.  Questo è il punto di arrivo, con sperimentazioni come quella della Stanford University per monitorare il livello di zucchero nel sangue dei bimbi diabetici. Serviranno altri dispositivi legati ad applicazioni in grado di dialogare con Salute, che però fornisce uno standard comune. Al momento le informazioni vanno inserite manualmente o importate dalle app di braccialetti come Fitbit o Nike FuelBand. Dall’anno prossimo contribuirà anche Apple Watch, in grado di monitorare il battito cardiaco e seguire i movimenti del corpo con l’accelerometro. La sfida è portare sensori più sofisticati su dispositivi a portata di utente medio.  Gli Usa sono molto reattivi alla novità perché il sistema operativo di Apple in patria tiene testa ad Android con quasi la metà del mercato (a differenza del resto del mondo, dove la bilancia pende a favore del rivale sviluppato da Google). Dall’Italia guardano con interesse in questa direzione la startup Pazienti.org, al lavoro sull’analisi dei parametri biochimici, ed Empatica, nata in seno al Politecnico di Milano, che collabora con la Medical School di Harvard e i laboratori del Mit di Boston all’analisi di dati sofisticati, come la conduttanza cutanea (la grandezza che indica in quale misura una sostanza, o in questo caso la pelle, si lasci attraversare da una corrente elettrica continua), e allo sviluppo di algoritmi per studiare le manifestazioni fisiche di chi è affetto da autismo, epilessia e altre patologie.  All’inseguimento di Android, iOs 8 non punta solo sulla salute ma garantisce una gestione più fluida dello smartphone. Si possono usare tastiere diverse da quella ufficiale o ritoccare le foto con filtri esterni alla fotocamera. Facendo scorrere il polpastrello sullo schermo è possibile vedere gli avvisi in tempo reale dell’applicazione di un giornale, ad esempio, o di quella di eBay sulle aste che si seguono. Mamma e papà possono controllare gli acquisti dei figli prima che siano completati. Poi, quando i Mac saranno passati all’aggiornamento Yosemite, ci si potrà muovere tra telefonino e computer mentre si sta digitando la stessa email o godere dell’archiviazione dei file nel nuovo iCloud Drive. Intanto, per evitare saccheggi come quello che ha messo a nudo le star di Hollywood, Apple ha messo alla sua nuvola la doppia autenticazione.  Martina Pennisi ____________________________________________________________ Corriere della Sera 18 Set.. ’14 IL CONTROLLO CONTINUO TRA GARANZIA DI SALUTE E RISCHIO IPOCONDRIA di LUIGI RIPAMONTI L’autocontrollo di molti parametri biologici attraverso dispositivi elettronici «portabili» è destinato a segnare una discontinuità epocale nella gestione dalla salute. Impossibile negare il valore della tranquillità che potrebbe garantire una sorveglianza continua del proprio cuore se si soffre di qualche cardiopatia, o anche solo se si è un po’ avanti con gli anni, soprattutto se il proprio medico viene avvertito automaticamente da «alert» sulla nostra situazione. Lo stesso si può dire di un monitoraggio facile e accurato della glicemia per un diabetico, con benefici anche per la collettività, che potrà risparmiare sulle spese per le complicanze di questa patologia. E gli esempi potrebbero proseguire. Ci sono però da soppesare anche alcuni rischi. Il primo è legato alla sorte della comunicazione con il medico. Secondo quanto riferito di recente dall’Health Experience Research Group all’Università di Oxford, molti preferiscono non svelare al curante l’uso di «app» per la salute perché temono possa non approvare. E questo silenzio renderebbe ancor più critica l’eventuale errata interpretazione di parametri fisici o biologici da parte di utenti-pazienti, non attrezzati culturalmente. La discriminante decisiva quindi è il se e il quanto questi dispositivi miglioreranno il rapporto con il medico, oppure lo devasteranno, aprendo la strada a un’autonomia che andrebbe a braccetto con un potenziale autolesionismo. Tanto più se si considerano anche le possibili ricadute psicologiche su soggetti inclini a disturbi d’ansia o a comportamenti ossessivo-compulsivi. In costoro la tendenza a tenere tutto «sotto controllo» si troverebbe di fronte a una tavola imbandita di tentazioni. A questo si aggiunga che i nuovi «nevrotici» potrebbero essere gli utenti ideali e attesi di informazioni e servizi che i giganti della Rete forse stanno già realizzando ad hoc, e che le scontate profilazioni sul web consentiranno di predisporre su misura (nel senso letterale del termine). Potrebbe non essere facile difendersi da una deriva di questo genere. Altro fronte, scontato ma da non dimenticare, è quello che attiene ai rischi legati all’accesso ai dati di terze parti interessate, come le assicurazioni. Ovviamente i «big dei dati» ci assicurano già che non succederà. Infine, se vogliamo metterla sul semiserio, che dire di quei poveri grandi manager superpagati del futuro prossimo, che nel contratto si vedranno costretti a mettere la crocetta su «accetto» a condizioni che prevedono un controllo severo, totale e irrevocabile della loro salute, pena la decadenza dello stipendio multimilionario (l’azienda del caso, con quel che spende avrà pur diritto si sapere se si mantengono in perfetta efficienza o no). Che vitaccia: «Stasera prendiamo una birra insieme? No, non posso il mio smartwatch non vuole».