RASSEGNA 28/09/2014 SPENDING, 1 MILIARDO DAL MIUR: «COLPITE» UNIVERSITÀ E RICERCA NUOVI TAGLI PER 900 MILIONI ALL'ISTRUZIONE UNIVERSITÀ, L'INUTILE SINDROME DA «RANKITISMO» ERASMUS, L'ALLARME DI BRUXELLES «I SOLDI PER IL 2014 SONO GIÀ FINITI» COSTI STANDARD AL VIA NEGLI ATENEI MATURITÀ SENZA PROF ESTERNI, FINE DI UN’ERA QUEL PASTICCIO DELLA MATURITÀ CROLLO DEI DIPLOMI E FUGA DALLE UNIVERSITÀ DELL’ISOLA «QUINDICI MILIONI PER GLI STUDENTI» ESTETICA E FILOSOFIA “FUSE” NELLE CERE DI SUSINI LA PAGELLA INGLESE CHE BOCCIA L'ITALIA: SCUOLA INEFFICIENTE SAPIENZA: ORO AI BARONI, DISAGI AGLI STUDENTI PRIVACY:SONO FUORI LEGGE DUE SITI SU TRE MERIDIANA: HOSTESS E STEWARD VOGLIONO RESTARE CASSINTEGRATI VIVERE PER FINTA I BUGIARDI DI INTERNET UN MODELLO A PIRAMIDE CHE TAGLIA TUTTI I PONTI COL SENSO COMUNE TRIVELLE, TUTTI CONTRO IL GOVERNO LA SARDEGNA RINUNCIA AL SUO METANO LA FASCIA DI OZONO RECUPERA SI PUÒ SALVARE ANCHE IL CLIMA? SULLE STRADE DI MARIA LAI PRIVACY:SONO FUORI LEGGE DUE SITI SU TRE ========================================================= ASL, PARTE LA RIVOLUZIONE IN REGIONE POLICLINICO, NEONATI REGISTRATI ALL'ANAGRAFE DI MONSERRATO MONSERRATO RIVENDICA I BIMBI NATI AL POLICLINICO L'APPELLO DELLA ASL AI DOTTORI PRECARI MEDICI SENZA DIRITTI: «VIVIAMO NEL PRECARIATO» SARDEGNAIT, SCADUTI I CONTRATTI MEDICI A SCUOLA DI ETERNA GIOVINEZZA POLICLINICO, SCONTRO SUL BUCO MILIONARIO (ROMA) TROPPI TEST GENETICI CREANO ANSIE INUTILI ETEROLOGA: IN SARDEGNA COSTERÀ 400 EURO DEVE AUMENTARE L’ADESIONE ALL’OFFERTA DEGLI ESAMI DI SCREENING DONNE POCO ATTENTE A DIFENDERSI DAI TUMORI DEVE AUMENTARE L’ADESIONE ALL’OFFERTA DEGLI ESAMI DI SCREENING MISSION POSSIBLE: CURARE LA MORTALITÀ UROLOGIA. DISFUNZIONE ERETTILE E IPERTROFIA PROSTATICA, GLI UOMINI LE SOTTOVALUTANO CARENZA FARMACI: ALCUNI NON PIÙ DISPONIBILI, ALTRI RICOMPARSI CON PREZZI AUMENTATI FINO AL 1630%" ========================================================= Il Sole24Ore 26 Set.. ’14 SPENDING, 1 MILIARDO DAL MIUR: «COLPITE» UNIVERSITÀ E RICERCA Marzio Bartoloni Claudio Tucci ROMA Il miliardo che serve nel 2015 ad assumere gli oltre 148mila docenti precari sarà finanziato anche dallo stesso ministero dell'Istruzione. Con una partita di giro tra tagli di spesa e nuove risorse che potrebbero arrivare in legge di Stabilità. La spending review dovrebbe colpire pesantemente pure i settori università e ricerca dove la sforbiciata potrebbe aggirarsi sui 400 milioni. Il Miur ha consegnato comunque al ministero dell'Economia non solo una lista di tagli, ma anche un pacchetto di misure da inserire in legge di Stabilità sia per le università - c'è da scongiurare il taglio sempre rinviato da 170 milioni ereditato da Tremonti - che per attuare la «Buona Scuola» a partire dal piano di maxi-stabilizzazione di docenti precari, a ulteriori risorse ad hoc per potenziare wi-fi, laboratori e l'alternanza scuola-lavoro. Sul fronte spending review la scure, per più di un terzo dell'intera fetta di risparmi, dovrebbe colpire come detto le dotazioni relative all'università e alla ricerca. L'idea è quella di spalmare i tagli su più voci per non entrare sui costi vivi puntando sulla razionalizzazione dei consumi intermedi e l'efficientamento. Nel mirino dovrebbero finire comunque sia il fondo (Foe) che ogni anno finanzia con 1,6 miliardi i 12 enti di ricerca pubblici - dal Consiglio nazionale delle ricerche all'Agenzia spaziale fino all'Istituto di fisica nucleare -, sia il fondo delle università (il Ffo) che quest'anno vale in tutto 7 miliardi. Il taglio agli enti di ricerca dovrebbe fare da battistrada anche a un loro riordino e accorpamento (si ipotizza di dimezzarli). La scure riguarderà anche altre voci: dalle giacenze sui fondi destinate ai bandi di ricerca (come il Far) ai finanziamenti previste nel decreto del Fare del Governo Letta destinate alle assunzioni, alle chiamate dirette di ricercatori e alla mobilità degli studenti. Per il settore scuola si profila invece una riduzione della pianta organica degli Ata, il personale tecnico-amministrativo degli istituti (cioè bidelli, applicati di segretaria, assistenti tecnici dei laboratori). Si ipotizza uno "stop" alle assunzioni per coprire il turn- over. Una misura che porterebbe risparmi modesti, circa 30-35 milioni. Ma potrebbe avere ripercussioni negative sulle scuole (apertura e funzionamento dei laboratori). Per attenuare questo taglio il Miur ha chiesto però 20 milioni per la digitalizzazione degli istituti. Si profila poi una riduzione delle supplenze brevissime (quelle di pochi giorni) e si accelera sul restyling delle commissioni degli esami di maturità. Che scatterà già da giugno 2015. La proposta (che dovrà essere contenuta in una norma di legge) è di cancellare i membri esterni, e avere così commissioni composte solo dal presidente e da tutti e sei commissari interni. Anche l'apparato ministeriale subirà un taglio: verrà ridotta la pianta organica, con un dimezzamento delle facoltà assunzionali. _________________________________________________________ Il Manifesto 27 set. ’14 NUOVI TAGLI PER 900 MILIONI ALL'ISTRUZIONE SPENDING REVIEW • Allarme tra studenti e sindacati Pronti 900 milioni di tagli, scuola e ricerca nel panico E’ allarme tra gli studenti e i sindacati per la gigantesca partita di giro che con la prossima legge di stabilità si abbatterà su scuola, università e istituti di ricerca. I soldi serviranno a finanziare la prima tranche di assunzioni dei 148 mila precari nel settembre 2015. Anche i docenti sul piede di guerra Con il fucile della spending review puntato dietro la schiena, il governo sta preparando una gigantesca partita di giro ai danni della scuola, dell'università e degli enti di ricerca. Nella prossima legge di stabilità ci potrebbero essere 900 milioni di euro in tagli complessivi per finanziare la prima tranche dei fondi necessari per assumere 148 mila precari dalle graduatorie ad esaurimento a settembre 2015. Ne serviranno, a regime, altri 2,7 miliardi, ma al momento l'esecutivo non sembra avere alcuna idea su dove, come e quando prenderli. Ma i tagli ci sono davvero? Le «indiscrezioni» pubblicate ieri da Il Sole 24 ore sostengono che i tagli verranno ripartiti in questa maniera: 400 milioni dalle università e dal fondo Foe che finanzia gli enti di ricerca. Dovrebbe essere colpito anche il fondo Far che il governo Letta aveva destinato all'assunzione dei ricercatori. Proprio quelli che ieri il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini ha detto di volere assumere nei prossimi tempi. Senza specificare né il come, né il quando. Gli altri 500 milioni di euro, a partire dalla riduzione della pianta organica del personale amministrativo Ata, dalle supplenze di pochi giorni e dal taglio dei commissari esterni agli esami di maturità. Risparmi risibili, si dice pari a 30-35 milioni di euro. Tutto il resto è da trovare. Ai danni di chi già lavora nella scuola, nell'università e negli enti di ricerca. «Sono tagli pesantissimi — afferma allarmato Mimmo Pantaleo (Flc-Cgil) - Nel piano scuola non ci sono certezze di risorse ma adesso si scopre che addirittura si vogliono fare altri tagli alla scuola pubblica. Università, ricerca e Afam rischiano il collasso finanziario. Il piano scuola rischia di trasformarsi in un'araba fenice. Servono fatti concreti a partire dal rinnovo del contratto nazionale». Come un orologio il Pd smentisce i tagli «La politica dei tagli non riguarda il progetto - afferma Francesca Puglisi, responsabile Pd Scuola -Rispetto ai "si dice", il Governo ha investito grandi risorse in un piano straordinario per l'edilizia scolastica e lavora avendo come stella polare le politiche a favore delle nuove generazioni». Una smentita che non smentisce nulla. E l'aria torna a surriscaldarsi. «Il governo vuole fare la riforma a costo zero - sostiene Marcello Pacifico (Anief-Confedir) - l'idea è attuare una partita di giro, accelerando la digitalizzazione, riducendo il personale non docente, in particolare nelle segreterie, e fare "cassa" eliminando i commissari esterni alla maturità». «Il governo smentisca» rincara afferma Francesco Scrima, segretario generale Cisl Scuola. «Da anni l'università - spiega Glianluca Scuccimarra dell'Udu - è considerata solo come un bacino da cui tagliare e prendere soldi». Contro i tagli Udu e Rete degli studenti e Uds scenderanno in piazza venerdì 10 ottobre. «patto» pagato dai docenti Ma non di soli tagli vive il miraggio della «riforma» Renzi. Non potendo perdere la faccia imponendoli in forma lineare, sullo stile Gelmini-Tremonti, il governo-che-tiene-tanto-alla scuola sceglie di rapinare le risorse direttamente dalle tasche dei docenti. Il sottosegretario all'Istruzione Toccafondi ieri ha gettato la maschera del «patto educativo». Rispondendo ad un'interpellanza parlamentare del Movimento 5 Stelle, ieri Toccafondi ha confermato che non ci saranno risorse aggiuntive per la scuola. E che quindi i tagli da 8,4 miliardi di euro non verranno nemmeno in parte recuperati. Saranno dunque i docenti a finanziare gli annunci di Renzi rinunciando ad una parte del loro stipendio. I 5 Stelle accusano: «Gli scatti di competenza sono una finzione perchè il sistema di Renzi prevede che il 66% dei docenti sia meritevole e il 34% immeritevole. Questo meccanismo è un taglio. La spesa per l'istruzione continua a calare anche con Renzi». ro.ci. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 Set.. ’14 UNIVERSITÀ, L'INUTILE SINDROME DA «RANKITISMO» Dario Braga Ultima in ordine di tempo è apparsa la graduatoria delle università del mondo stilata da QS (Quacquarelli Symonds). I risultati non si discostano molto da quelli pubblicati in agosto dall'Arwu (ranking di Shanghai). Alcune università italiane - più o meno sempre le stesse - si piazzano intorno alla 200° posto. Invariabilmente, la pubblicazione di questi ranking genera intense fibrillazioni nel mondo accademico. C'è chi vede il posizionamento delle nostre università come una misura esterna della fragilità del nostro sistema universitario e c'è chi invece ne vede una misura della nostra "peculiarità". C'è chi trova consolazione nel "nonostante tutto" (poche risorse, molti studenti, pochi docenti eccetera) e chi si esercita nel "fuoco amico" preoccupandosi più di distanziarsi dagli altri in fondo alla fila che di guadagnare posizioni verso la testa. C'è chi si trincera dietro al "nondum matura est..." e chi, non a torto, rifiuta il dato perché a-scientifico. È stato anche coniato un termine ad hoc - "rankitismo" - per raccogliere la fenomenologia delle reazioni alla pubblicazione di queste classifiche. Certo è che i "ranking" costituiscono un tema giornalistico appetitoso. Proviamo un approccio laterale. Intanto cos'è che non va? I ranking sono il risultato di parametrazioni che coprono cose estremamente diverse, "medie improprie". Questo vale anche per le componenti "reputazionali". Non esiste una "università tipo". Se l'università ha una caratteristica - che è nel nome - è proprio la diversità. La diversità è il paradigma del mondo universitario, sia che si guardi alla ricerca sia che si guardi all'insegnamento. Abbiamo università con 80mila studenti e altre con 800. Abbiamo università con la facoltà di medicina e altre senza; università con le ingegnerie e poi abbiamo i politecnici. All'interno di queste diversità, coesistono corsi di base con centinaia di studenti e corsi specialistici con poche unità, convivono ricerche che richiedono gruppi numerosi e numerosi milioni di euro e ricerche che richiedono principalmente il tempo per farle. C'è chi insegna fermandosi davanti al letto di un paziente e chi per insegnare deve portare gli studenti in uno scavo archeologico o sulla bocca di un vulcano. E tutto questo è diversamente mescolato da università a università. I ranking delle università comprimono la diversità in una tabella di excel. Perché l'analisi comparativa abbia senso occorre che avvenga tra situazioni comparabili. E sicuramente il nostro sistema universitario non è facilmente comparabile con altri. Quale altro sistema ha lo scibile organizzato (e quindi i reclutamenti, le carriere eccetera) in 370 settori scientifico-disciplinari? Quale altro sistema affronta con la stessa impostazione giuridico- normativa l'assegnazione di una borsa di studio di dottorato di ricerca o il reclutamento di un segretario d'ufficio o di un bibliotecario? Quale altro Paese consente che gli studenti si iscrivano per un corso di studio senza sapere se ci saranno posti a sedere a sufficienza in aula o spazio di laboratorio per tutti? E quale sistema consente che uno studente possa sostenere in maniera del tutto regolare l'esame di un corso frequentato 18 mesi prima e magari con un altro docente? Potrei proseguire. Chi conosce bene le università del mondo sa che non c'è nulla di simile in quelle che ci precedono nelle classifiche. Quindi a che servono le classifiche? Intanto, diciamo a cosa non dovrebbero servire. Non dovrebbero essere utilizzate per scegliere "dove mandare i propri figli a studiare". Scrivo questo come professore di un'università che si trova sempre nella fascia alta delle università italiane, quando non è la prima. Lo scrivo cosciente che nella mia università - come in tutte le università - la "media" contiene mediocrità ed eccellenze distribuite diversamente nelle aree e nei corsi di studio. Occorre, quindi, un'analisi molto più raffinata, molto più "risolta", corso per corso, per scegliere dove andare a studiare. Che fare quindi? Forse gli unici veri utenti dei "ranking" dovrebbero essere il Parlamento e il Governo. Lì ci si dovrebbe chiedere come mai le università "migliori" (notate l'uso delle virgolette) si trovano in Paesi dove i sistemi universitari funzionano in altro modo, con meno lacci e lacciuoli, e tante risorse in più, con meccanismi di selezione del personale meno cervellotici, con rapporti tra studenti e percorsi formativi di altro genere eccetera, con ben altri livelli di mobilità interuniversitaria e università-imprese. Questa sarebbe materia della quale discutere a livello politico e a livello di Conferenza dei rettori. Potrebbe/dovrebbe portare ad atti conseguenti interessanti. Se non ammoderniamo il nostro sistema formativo, il resto serve a poco. Prorettore alla ricerca dell'Università degli studi di Bologna _________________________________________________________ Il Messaggero 25 set. ’14 ERASMUS, L'ALLARME DI BRUXELLES «I SOLDI PER IL 2014 SONO GIÀ FINITI» UE A CORTO DI RISORSE PER LA RICERCA E LE POLITICE DI COESIONE, «USATO GIÀ 80% DELLE DISPOSIZIONI BRUXELLES A corto di fondi per il 2014, con un ammontare di fatture non pagate che potrebbe arrivare a 26 miliardi alla fine dell'anno, la Commissione europea rischia di dover tagliare importanti iniziative come Erasmus o i programmi a sostegno della ricerca. Complessivamente l'80% delle somme disponibili «sono già state usate e importanti programmi e azioni stanno rapidamente esaurendo» i fondi, ha spiegato ieri il commissario al Bilancio, il polacco Jacek Dominik. Per quest'anno rimangono «solo 175 milioni disponibili da trasferire per coprire i pagamenti laddove è necessario». La Commissione ha già bloccato 36 milioni di euro per il programma di ricerca Horizon 2020. Per Erasmus, che permette agli studenti di recarsi a studiare in università di altri paesi, Dominik prevede «interruzioni nei pagamenti delle borse per i beneficiari». Ma è soprattutto la politica di coesione che potrebbe rimanere vittima del prosciugamento del bilancio comunitario. A subire danni non saranno solo imprese o associazioni: secondo una fonte comunitaria, l'Italia alla fine dell'anno potrebbe non vedersi rimborsare alcuni miliardi di fatture che Bruxelles non è nelle condizioni di pagare. I TAGLI Il problema è antico e peggiora di anno in anno. Alle prese con l'austerità interna, gli Stati membri chiedono all'Unione europea grandi piani di investimenti, salvo poi tagliare il bilancio comunitario e non voler mettere mano al portafoglio in caso di emergenza. Regno Unito e Germania da tempo si battono per limitare le spese comunitarie. «La Francia ha un problema di deficit che non vuole aggravare dando soldi all'Ue», dice la fonte. Alla fine del 2013 era di 26 miliardi l'ammontare delle fatture non pagate che sono state trasferite al bilancio 2014, di cui 23 miliardi solo per la politica di coesione. In sostanza, per i fondi regionali, «metà degli stanziamenti previsti per il 2014 era già stato impegnato il 1° gennaio per pagare le fatture dell'anno precedente». Entro il 2015 si devono chiudere i progetti della programmazione 2007-2013 e così il numero di fatture in arrivo dalle capitali nazionali è in costante aumento. «Nei prossimi mesi dovremo pagare ferrovie o autostrade completate», spiega la fonte, sottolineando che «a rimetterci sono i paesi più in ritardo nello spendere i fondi Ue, come l'Italia che presenta le richieste di rimborso più tardi degli altri». Le stime su quante fatture non saranno' pagate alla fine dell'anno non sono ancora state completate, anche perché il grosso è atteso nei prossimi tre mesi. Ma, secondo la fonte, la cifra «si aggirerà attorno a quella dello scorso anno: 26 miliardi». Per mettere una toppa, la Commissione ha chiesto 4,7 miliardi in più per il 2014. Paradossalmente il costo per gli Stati membri sarebbe minimo - 100 milioni da dividere per 28 membri - grazie a 4,6 miliardi di multe incassate nel corso dell'anno. Ma i governi frenano, anche in vista del negoziato sul bilancio 2015: la Commissione ha chiesto di spendere 142 miliardi, ma i governi nazionali vogliono imporre tagli per 2 miliardi, di cui 1,3 miliardi nelle politiche per la crescita e l'occupazione. David Carretta _________________________________________________________ Il Sole24Ore 23 set. ’14 COSTI STANDARD AL VIA NEGLI ATENEI Alle battute finali il decreto di Istruzione ed Economia che attua la riforma Gelmini sui fondi Quest'anno i parametri al debutto dovrebbero distribuire 982 milioni Gianni Trovati MILANO. Nella loro prima applicazione distribuiranno fra gli atenei statali 982 milioni di euro. Ma nel giro dei prossimi quattro anni, ipotizzando che i fondi complessivi non subiscano modifiche, il loro valore si impennerà fino a 5 miliardi di euro. Sono i costi standard dell'università, che stanno per debuttare in attuazione di uno dei capitoli più importanti della «riforma Gelmini» del 2009. Il debutto dei parametri standard è previsto per quest'anno (si veda anche Il Sole 24 Ore del io settembre) e la preparazione del provvedimento è alle battute finali: la forma è quella di un decreto interministeriale Istruzione-Università, con il parere dell'Agenzia nazionale di valutazione (Anvur), e il calendario è corto perché i costi standard devono incidere sulla geografia del fondo di finanziamento ordinario 2014, ovviamente attesissimo dalle università a settembre inoltrato. Il principio è semplice e consiste nel superamento dei fondi distribuiti in base alla spesa storica nel tentativo di tagliare gli sprechi, ma la sua applicazione è più complessa. L'obiettivo è di trovare il "prezzo giusto" di ogni ateneo sulla base di quattro indicatori principali: il numero di docenti (misurati secondo il sistema dei «punti organico», che pesa 1 gli ordinari, o,7 gli associati e o,5 i ricercatori) a seconda delle diverse aree di studio, secondo un meccanismo analogo a quello dell'accreditamento dei corsi di laurea; il quadro dei servizi didattici e amministrativi; i costi di funzionamento; la presenza di collaboratori, esperti linguistici e così via. Queste grandezze, come chiede il decreto attuativo della riforma (articolo 8 del Dlgs 49/2012) andranno rapportati agli studenti regolari (cioè con l'esclusione dei fuori corso), per trovare il costo standard per studente. Questo sistema dovrebbe guidare nel 2014 l'attribuzione del 20% della quota base del Fondo di finanziamento ordinario, cioè i 4,91 miliardi a cui si aggiungono gli 1,22 distribuiti in base agli indicatori di qualità e le risorse (quasi 900 milioni) destinati agli altri interventi, dalla perequazione al piano straordinario di reclutamento degli associati, dagli accordi di programma ai finanziamenti per le «Istituzioni speciali» come la Normale di Pisa o la Sissa di Trieste. Il peso degli "standard" sulle assegnazioni del fondo-base, però, dovrebbe raddoppiare il prossimo anno, guadagnare un altro 20% nel 2016 e arrivare a coprire ih00% dal 2018. Difficile, per ora, stabilire chi ci perde e chi ci guadagna al cambio di rotta nella struttura dei fondi universitari che il ministro dell'Istruzione Stefania Giannini sta provando a portare al traguardo. Il confine principale dovrebbe separare gli atenei più giovani da quelli più "anziani", che in molti casi hanno accumulato negli anni della spesa storica costi extra difficili da riportare nel mondo degli "standard". Più sfumata, invece, dovrebbe essere la separazione Nord/Sud, anche perché si prevedono meccanismi di perequazione per riconoscere "bonus" nelle regioni con reddito pro-capite più basso. gianni.trovati@ilsole24ore.com ____________________________________________________________ Corriere della Sera 27 Set.. ’14 MATURITÀ SENZA PROF ESTERNI, FINE DI UN’ERA Piano per risparmiare un miliardo. Tagli anche agli atenei, la protesta dei rettori di Leonard Berberi Niente più membri esterni a partire dalla prossima Maturità: solo il presidente della commissione arriverà da un altro istituto. È una delle 42 voci del piano di spending review da un miliardo su Istruzione e ricerca. Prevista la riduzione di oltre 8 mila unità tra il personale tecnico-amministrativo: l’obiettivo è assumere 148 mila docenti precari. «Infuriati» i rettori per i 570 milioni di tagli che rischiano leuniversità. Un miliardo di risparmi sull’istruzione. La protesta dei rettori Una spending review sull’Istruzione da quarantadue voci e un miliardo di euro, di cui 400 milioni di sacrifici chiesti all’Università e alla ricerca. Una riduzione di oltre ottomila unità tra il personale tecnico- amministrativo degli istituti. E nuove commissioni alla Maturità. Il tutto con l’obiettivo di fornire al governo un’indicazione su dove si può tagliare. E di contribuire, nel 2015, all’assunzione di oltre 148 mila docenti precari. Sono questi alcuni dei punti principali del documento che il dicastero dell’Istruzione ha consegnato a quello dell’Economia nell’ambito del processo di risparmio. Un lungo elenco di «razionalizzazioni», «azzeramenti» e richieste. Una delle novità più rilevanti è che dalla prossima Maturità dalle commissioni spariranno i membri esterni. Al loro posto subentrano gli insegnanti interni. Soltanto il presidente della commissione arriverà da un altro istituto. Una decisione che porterà a risparmiare alcune decine di milioni di euro se è vero che nel 2013 la sessione è costata circa 163 milioni. Ogni commissario esterno comporta un costo di 900 euro (escluse le spese di trasferta), quello interno di 400. Oltre ai tagli possibili il Miur ha inviato alcune misure da inserire in legge di Stabilità che se da un lato puntano a mettere in atto il piano del governo sull’istruzione (la «Buona Scuola»), dall’altro cercano di allontanare la scure da 170 milioni sui finanziamenti agli atenei prevista dall’ex ministro Giulio Tremonti, rimandata con la Finanziaria 2014, ma che potrebbe essere attuata nel 2015. Se le cose non dovessero andare bene, infatti, al settore accademico potrebbe essere chiesto quindi di contribuire con 570 milioni: 400 nell’ambito della spending review più i 170 previsti dall’ex capo dell’Economia. Cifre provvisorie che provocano la reazione di Stefano Paleari, il presidente della Conferenza dei rettori. Il professore si dice «infuriato per gli ulteriori sacrifici solo perché vogliono risolvere un problema di precari nella scuola». Per questo chiede di «smettere di parlare di “spending review”: quella vera serve a trasferire le risorse dove sono più produttive. Qui si tratta di tagli e basta». E ancora: «È dal 2008 che riduciamo i costi — lamenta il docente —. Se le riduzioni resteranno allora le conseguenze politiche potrebbero essere imprevedibili. Intanto non ci chiedano più di competere con gli atenei stranieri: come facciamo senza soldi e con meno ricercatori?». Dal ministero dell’Istruzione provano a rassicurare. «La coperta è corta, bisogna intervenire su tutti i settori, anche sul personale che fa capo direttamente al Miur», ragionano. Ma precisano anche che oltre ai risparmi hanno chiesto al governo un miliardo di euro per dare il via alla «Buona Scuola», altri 130 milioni per la digitalizzazione, la rete Wi-Fi e i laboratori, 170 milioni per coprire i tagli stabiliti da Tremonti «e ulteriori finanziamenti per le borse di studio». Ricordano, poi, «che le cose possono cambiare fino all’ultimo minuto». Insomma: non è detta l’ultima parola. Non ancora. Leonard Berberi lberberi@corriere.it _________________________________________________________ Il Corriere della Sera 26 set. ’14 QUEL PASTICCIO DELLA MATURITÀ La ministra Stefania Giannini vuole cambiare l'esame di Maturità: «Deve perdere quell'aspetto da giudizio divino che, tra l'altro, lo ha fatto diventare costoso» Giudizio divino? Di che maturità sta parlando la ministra? Facendo due rapidi calcoli, Stefania Giannini ha sostenuto la maturità voluta dal suo predecessore Fiorentino Sullo, che a me, allora, sembrava un gioco da ragazzi: due prove scritte e due materie per il colloquio (di cui una a scelta del candidato). Punteggio finale espresso in sessantesimi. La commissione era completamente esterna tranne che per la presenza di un membro interno. Dico gioco da ragazzi perché la mia maturità era stata invece quella voluta dal ministro Guido Gonella, che aveva ripristinato la formula di Giovanni Gentile: quattro prove scritte e orale su tutte le materie dell'intero corso di studi (nel caso mio i tre anni di liceo). Non era uno scherzo e la storia che per molti è stato l'esame più duro sostenuto nel corso degli anni (molto più duro di qualsiasi esame universitario) è profondamente vera. Però allora si poteva sognare un futuro diverso e, pur di prendere l'ascensore sociale (una buona media assicurava il "presalario" all'Università), non si badava alla fatica. Ancora oggi devo dire grazie a quella maturità. Avendo a che fare con l'insegnamento, mi sono sempre tenuto aggiornato sugli esami di maturità. Nel 1994 il ministro Francesco D'Onofrio, per ridurre i costi, pone dei limiti territoriali nella scelta di presidente e commissari (con il rischio di un aumento di raccomandazioni "territoriali"). Poi nel 1997 arriva il ministro Luigi Berlinguer (le ferite che hanno inferto lui e la Moratti all'intero sistema scolastico, specie all'Università, sono ancora aperte) e trasforma la maturità in Esame di Stato, con la votazione macchinosa espressa in centesimi e tre prove scritte. Nel 2001 la ministra Letizia Moratti cambia ancora: la commissione è costituita da membri interni, solo il presidente è esterno. Cinque anni dopo Giuseppe Fioroni torna ai membri esterni e interni e modifica anche il punteggio: il credito scolastico passa da 20 a 25 punti, il colloquio scende da 35 a 30. Volete che Maria Stella Gelmini non abbia toccato la Maturità? Per accedervi è necessario riportare un voto almeno pari al sei in tutte le discipline. Nel frattempo abbiamo assistito alla "licealizzazione" della cosiddetta Laurea Breve o Triennale. Corsi ed esami più facili perché, guarda caso, i ragazzi e le ragazze arrivano sempre meno preparati. Semplifico molto, me ne rendo conto. Ma a furia di togliere ostacoli, facilitare i percorsi di apprendimento, allontanare lo spettro dei "giudizi divini", succede che la Maturità (o Esame di Stato come si chiama ora) non discrimini più niente. A scapito degli studenti meno abbienti. Chi può va all'estero, impara bene le lingue, frequenta un master. Chi non può ringrazia la ministra Giannini. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 Set.. ’14 CROLLO DEI DIPLOMI E FUGA DALLE UNIVERSITÀ DELL’ISOLA In dieci anni un calo dei diplomati di quasi il 30 per cento E sempre più ragazzi preferiscono gli atenei della penisola di MARIANO PORCU* Più istruzione uguale più conoscenza; più conoscenza uguale più sviluppo. Seguendo questo "mantra" il governo nazionale ha appena varato il suo "Piano scuola" e l'istruzione è forse il tema su cui si è speso di più in campagna elettorale il presidente Pigliaru, connotando così il suo programma in maniera nettamente differente da ciò che aveva fatto (o non fatto) il governo di centro-destra che l'ha preceduto. Negli ultimi 10 anni il numero dei diplomati residenti in Sardegna è diminuito facendo registrare, nel 2012/13, un calo di quasi il 30% rispetto all'anno scolastico 2002/03. Questa dinamica è del tutto differente da quella che si registra per l'Italia nel suo complesso, per la quale si osserva un numero pressoché costante di neo-diplomati, con lievi oscillazioni da un anno all'altro. Il dato nazionale riflette, verosimilmente, l'apporto che le giovani generazioni di immigrati danno alla popolazione scolastica nazionale. La Sardegna non si avvantaggia di questo apporto. Considerando, poi, l'andamento negli anni del tasso di passaggio scuola- università, si rileva per l'isola un trend decrescente in linea con quello nazionale (attualmente, circa 6 diplomati ogni 10 si immatricolano all’università). Quindi, cala il numero dei giovani sardi che conseguono ogni anno un diploma e anche quello di coloro che, in un prossimo futuro, avranno un livello di istruzione universitaria. Ma c'è anche un altro aspetto che dovrebbe attirare la nostra attenzione. È, sì, calato il numero di coloro che si immatricolano all'università, ma sempre molti diplomati sardi decidono di iscriversi in un ateneo della penisola. Sono quelli che possiamo definire come "immatricolati-movers". Il loro numero è diminuito ma seguendo un trend non così marcato come quello di coloro che decidono di frequentare i corsi delle università sarde. Tralasciando le tecnicalità che sottendono questa spiegazione, possiamo banalmente dire che siamo di fronte ad un fenomeno stranoto ai demografi che studiano i movimenti migratori: la migrazione è un fenomeno altamente selettivo e tende ad interessare gli individui più intraprendenti o, come in questo caso, i più dotati di risorse (vale a dire i diplomati che provengono da famiglie che sono in grado di supportare i progetti "migratori" dei loro figli verso la penisola). Ma è un bene o un male che tanti diplomati decidano di "emigrare"? Dipende dai punti di vista. Dal punto di vista degli individui dovremmo ritenere che sia un bene: viaggiare, confrontarsi con altre realtà, allargare i propri orizzonti aumenta il capitale umano e, in molti casi, moltiplica le opportunità tra le quali scegliere la strada verso il proprio futuro. Consideriamo però anche altri punti vista; iniziando da quello dei territori. Da tempi piuttosto lontani la Sardegna è terra di emigrazione, ma viste le sfide che ci attendono (vedi alla voce "sviluppo") i diplomati che frequentano l'università al di fuori dell'isola portano via qualche pezzo del nostro futuro: loro vorranno sì, in molti casi, rientrare ma, purtroppo, la loro terra non avrà granché da offrire e, perciò, spenderanno il loro ingente capitale di istruzione (diploma + laurea) altrove. Altro punto di vista: quello delle università sarde. I due atenei si trovano ad operare, rispetto al pubblico degli studenti che hanno la possibilità di "emigrare", in un quasi-mercato: "vendono" un prodotto (la loro offerta formativa) che perde di competitività poiché non è facile impiegarlo per trovare un lavoro nell'isola. Nonostante ciò, ricevono finanziamenti anche sulla base della loro attrattività. Recenti ricerche hanno mostrato che le variabili "strutturali" del territorio in cui ha sede un ateneo (una serie di indicatori riferiti a variabili economiche come il tasso di disoccupazione, il livello dei servizi, il reddito) influiscono sull'attrattività più delle caratteristiche dell'offerta formativa. Che fare, quindi? Bisogna governare il fenomeno della mobilità studentesca e non più, semplicemente, subirlo (così come i territori poveri subiscono l'emigrazione della loro forza lavoro). Per governarlo occorre conoscerlo. I pochi dati riportati (di fonte MiUR) permettono solo di intravedere i tratti generali del fenomeno. Servono studi per aggregati di diplomati, analisi dei flussi per individuare le caratteristiche dei "poli di attrazione", studi caso-controllo, ricerche qualitative per capire cosa accade davvero nella scuola nell’orientare gli studenti agli studi universitari. Occorre, anche, che gli atenei sardi affrontino la sfida della competitività con strumenti più efficaci di brochure informative o altre iniziative di pseudo-marketing. Per renderle attrattive e competitive è indispensabile dare più valore aggiunto alle lauree conseguite nell'isola. Come? Ad esempio, modernizzando gli strumenti didattici (abbiamo le Lim nelle scuole … ma come sono attrezzate le nostre aule universitarie?). È necessario sottoporre a "manutenzioni" continue l'offerta formativa aggiornandola in modo da valorizzare al meglio le potenzialità che è in grado di esprimere per preparare i giovani alle sfide del lavoro. In mancanza di un tessuto produttivo in grado di offrire reali opportunità di tirocinio, sarebbe utile favorire gli spin- off universitari e rendere gli stessi le "palestre" in cui svolgere le attività di job-training. Serve tutto questo e anche altro. Occorre, soprattutto, sburocratizzare la gestione del diritto allo studio dando direttamente risorse agli atenei per organizzare i supporti che favoriscono la vita dei loro studenti (in sede e fuori-sede). La sfida è difficile, per le università sarde ma anche per la Regione. Servono idee e la capacità di attuarle. *Professore di Statistica Sociale Università di Cagliari ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 25 Set.. ’14 «QUINDICI MILIONI PER GLI STUDENTI» La Commissione Istruzione: le risorse dall’assestamento di bilancio CAGLIARI Davanti ai rappresentanti degli studenti nei Cda dell'Ersu di Cagliari e Sassari, il presidente della commissione Istruzione del Consiglio regionale, Gavino Manca (Pd), ha assicurato il massimo impegno per recuperare i 15 milioni necessari a garantire il diritto allo studio a tutti gli universitari «capaci, meritevoli e a basso reddito». Le risorse potrebbero essere trovate con l'assestamento di bilancio o nella legge finanziaria 2015. «La commissione - ha spiegato il presidente - ha l'obiettivo di arrivare a una riforma complessiva della legge sul diritto allo studio ormai vecchia di 30 anni e di rivedere il sistema delle graduatorie, perchè in un quadro di risorse limitato è necessario essere particolarmente selettivi e rigorosi nell'individuazione delle priorità». Antonio Puddu, rappresentante degli studenti nel Cda dell'Ersu di Sassari, ha ricordato che rispetto all'anno accademico 2011/2012, in cui era stato finanziato il 100% delle domande, «si è passati alla drammatica situazione attuale che consentirà ad appena il 36% degli aventi diritto di usufruire delle risorse pubbliche destinate al diritto allo studio». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 Set.. ’14 ESTETICA E FILOSOFIA “FUSE” NELLE CERE DI SUSINI Convegno Lo storico Kemp a Cagliari per i 200 anni della scomparsa dell'anatomista «Queste opere sono un connubio di estetica e filosofia», dice Martin Kemp davanti alle cere di Clemente Susini. Storico dell'arte, docente a Oxford, laureato a Cambridge e specializzato in Scienze Naturali, il professore è ritenuto il massimo esperto di Leonardo da Vinci e ha curato il cd-rom del Codice Leicester per conto di Bill Gates. Ha osservato in silenzio il contenuto delle teche in legno, originali come le etichette autografe vergate dall'autore e i panni bianchi stesi sul fondo. Ha passato in rivista teste, tronchi, apparati riproduttori soffermandosi sui particolari. Il reticolo dei nervi e dei tendini, cuore, cervello, tutti gli organi di una lezione di anatomia d'impressionante realismo. Le cere di Clemente Susini furono realizzate tra il 1803 e il 1905 nel laboratorio della Specola, a Firenze. A commissionarle fu Carlo Felice di Savoia e a contattare lo scultore e anatomista fu un valente medico, Francesco Antonio Boi. Non badò a spese, il Viceré. Volle che la collezione, destinata al suo palazzo, fosse realizzata nei materiali migliori, cera d'api e cocciniglie cinesi e giapponesi. «Furono fuse a 55 gradi, per questo sono così resistenti», spiega il professor Alessandro Riva, custode e cultore della rara raccolta donata nel 1957 e allestita alla Cittadella dal 1991, durante il rettorato di Duilio Casula. E racconta al collega inglese la storia della sua nascita, l'interesse scientifico che ricopre, la sua fama nel mondo dopo un periodo di oblio e il pericolo che possa essere in futuro essere accantonata o restituita alla polvere di un magazzino. Martin Kemp, assorto nella contemplazione, così commenta: «Questi corpi ci fanno riflettere sulla condizione umana, non si limitano a descrivere ma fondono l'intento creativo con la precisione del dettaglio. Gli studi anatomici, del resto, sono nati dall'arte. Leonardo fu il primo a iniettare cera in un cranio, ricavandone il calco». A far capire ai visitatori il rapporto tra il visibile e il nascosto, la locandina di una mostra curata a Londra da Martin Kemp nel 2001 alla Hayward Gallery. “Spectacular Bodies. Arte e scienza del corpo umano da Leonardo a oggi” scelse l'immagine di un individuo di sesso maschile con la maglietta sollevata sul torace dissezionato a metà. «Robbie Williams mi ha rubato l'idea, si è fatto fotografare con la giacca aperta». Poi, lo studioso si ferma, confronta le dita della sua mano a un modello in cera, le chiude, trova una perfetta corrispondenza . E riassume con poche parole il significato di ciò che ha visto «Metafora e dramma su letto di seta». Oggi, nell'Aula Magna dell'Ateneo, sarà uno degli ospiti di rango al congresso organizzato in occasione dei duecento anni dalla morte di Clemente Susini. Assisterà dunque anche alla dimostrazione pratica di Eleanor Crook, medical artist che plasma sculture in cera, legno e silicone dai tratti patologici. Il suo intervento è un omaggio ai ricercatori del passato. S'intitola infatti “Ars est celare artem. The mimetic techniques of Clemente Susini”. Pinuccio Sciola parlerà di un argomento che ben conosce, “Le Pietre Vive e la loro anatomia”. Dopo l'apertura del Rettore Giovanni Melis, il workshop prevede il contributo del professore emerito della Facoltà di Medicina Alessandro Riva e la presentazione del libro di Ugo Pastorino, direttore della Divisione di Chirurgia Toracica di Milano. Martin Kemp disserterà sul tema “Tradition of performance in anatomical representations from the Renaissance to Susini”. A seguire la relazione di Fausto Barbagli, presidente dell'associazione nazionale Musei Scientifici La Specola. Roberta Ballestriero (The open University, Manchester) metterà a confronto i capolavori della raccolta cagliaritana con le cere londinesi di Joseph Towne. E ancora, gli apporti di Maurizio Rippa Bonati, cattedratico della Storia della Medicina a Padova, e di Claudia Corti, curatrice del Museo La Specola. Alessandra Menesini _________________________________________________________ Repubblica 26 set. ’14 LA PAGELLA INGLESE CHE BOCCIA L'ITALIA: SCUOLA INEFFICIENTE UN NUOVO INDICE INCROCIA IL NUMERO DEGLI ALUNNI E I SALARI. CON RISULTATI POCO CONFORTANTI di Cinzia Gubbini La nostra scuola? Roba da tondo classifica, ma la Germania fa peggio di noi, almeno secondo un nuovo criterio di valutazione, che sta suscitando scalpore nel mondo dell'istruzione, tanto da essere finito sulle colonne dell'Economist. Il metodo è stato messo a punto da Gems Education Solutions, un ente di ricerca privato inglese e si propone di valutare l'efficienza di un sistema scolastico a partire da due fattori considerati interamente determinabili dalla politica: il salario degli insegnanti e la «grandezza» delle classi. L'indice pare ribaltare le teorie secondo cui per ottenere buoni risultati gli insegnanti vanno ben pagati mentre le classi non devono essere troppo numerose. Questo il metodo studiato dall'istituto: partendo dagli elementi contenuti nelle analisi periodiche dell'Ocse, compresi i risultati degli studenti ottenuti con il test internazionale Pisa, Gems ha individuato nella Finlandia il Paese più efficiente. Si tratta di uno Stato in cui gli insegnanti non hanno stipendi altissimi (quasi 49 mila curo all'anno) e dove le classi possono essere considerate abbastanza numerose (16,5 studenti in inedia). La classifica viene stilata paragonando i 30 Paesi presi in esame alla Finlandia. In questa lista l'Italia si posiziona al 23' posto: gli insegnanti italiani guadagnano circa 31 mila euro all'anno. Il salario targa da raggiungere - secondo la ricerca - dovrebbe essere di 34.760. Per quanto riguarda il numero di alunni per classe, i numeri non sembrano essere aggiornati, considerando che la media di ragazzi per insegnante è di 10,8 (come risultava dai dati Ocse del 2007-2008). Secondo lo studio, tenendo fermi i salari, il numero di alunni dovrebbe addirittura scendere a 8,2. Cosicché l'Italia, pur non essendo un Paese efficiente, risulta esserlo più della Germania dove - dice Gems - gli insegnanti vengono pagati troppo rispetto ai risultati ottenuti. La valutazione non tiene conto di altri fattori, c'è da fidarsi? «Ovviamente non esiste un'unica componente che rende buono un sistema scolastico, tuttavia ritengo che analisi di questo tipo possano essere utili» dice Roberto Ricci, responsabile del Sistema Nazionale di Valutazione (Invalsi). Ma il dato quantitativo non rischia di semplificare troppo? «Senza dati quantitativi si rischia l'opposto, e cioè di prendere decisioni su basi ideologiche. Sta ai politici scegliere fra alter native date, ciascuna delle quali ha i suoi costi e i suoi benefici». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Set.. ’14 MERIDIANA: LO STRANO CASO DI HOSTESS E STEWARD CHE VOGLIONO RESTARE CASSINTEGRATI Meridiana li ha richiamati al lavoro, loro erano negli Usa e hanno fatto causa. Il giudice: insensato «Sindrome depressiva ansiosa reattiva»: richiamati al lavoro, uno steward e una hostess di Meridiana, invece di fare festa, giurano d’essere stati gettati nella più cupa depressione: preferivano la cassa integrazione. Così han fatto causa all’azienda chiedendo duecentomila euro di danni. Una storia piccola piccola. Ma che rivela in modo abbagliante i deliri di un sistema abnorme. Sia chiaro: il contesto è pesante. Con un braccio di ferro tra l’azienda e i sindacati che in questi giorni si è fatto durissimo. Da una parte la compagnia fondata nel ‘63 dall’Aga Khan con il nome di Alisarda, la quale dice di non farcela più coi conti a causa di tragici errori di gestione del passato (esempio: otto tipi diversi di aerei su una flotta di 27 e cioè otto diversi stock di pezzi di ricambio, otto diversi gruppi di manutentori, otto diverse autorizzazioni...) e di un decreto del Tribunale che nel 2010 «impose l’assunzione di 600 persone stabilizzate dopo due stagioni di lavoro part-time» col risultato che, accusa l’amministratore delegato Roberto Scaramella, «lavoriamo con mille dipendenti e 1.600 sono in più». Dall’altra parte i sindacati che, accusati d’avere indetto nel 2014 «un’agitazione ogni tre settimane con due o otto dipendenti ufficialmente in sciopero e un diluvio di certificati medici», accusano a loro volta la società di «fare i soldi» con la «nuova» Air Italy (per la proprietà «più moderna, più competitiva, meno costosa») basata a Malpensa e di scaricare le perdite sulla «vecchia» Meridiana e sui lavoratori . Peggio: i vertici del gruppo si sarebbero arroccati al punto di «blindare la palazzina con filo spinato e lastre di acciaio». Uno scontro frontale. Sul quale stanno mediando la Regione Sardegna e i ministri del Lavoro e dei Trasporti, Giuliano Poletti e Maurizio Lupi. Che hanno strappato la revoca per 1.600 dipendenti della mobilità prevista a ottobre. Per ora. Poi si vedrà. Va da sé che, in momenti così, ogni dettaglio dello scontro assume un valore decuplicato. Come, appunto, la causa giudiziaria di cui dicevamo. Partiamo dall’inizio. Maria e Donato, chiamiamoli così, vengono assunti da Eurofly, oggi Meridiana Fly, nel 1998. Ruolo: assistenti di volo. Dopo un po’ diventano rappresentanti dell’Usb, una delle dieci (dieci!) sigle sindacali della compagnia aerea. Nel giugno 2011, coi bilanci a picco, Meridiana, governo e sindacati (tranne l’Usb e i piloti) siglano un accordo che concede la Cigs, cioè la Cassa integrazione guadagni straordinaria, a zero ore volontaria. Maria e Donato, come scriveranno nel ricorso, accettano. Lei dal gennaio 2012, lui dall’aprile. Fino al 2015. Solo che qualche mese dopo i due, moglie e marito, «venivano richiamati in servizio (...) mentre si trovavano negli Usa alla ricerca di una nuova occupazione lavorativa, dopo aver ottenuto la Green Card all’esito di un dispendioso e snervante iter burocratico che ha coinvolto l’intera famiglia composta dagli stessi, quali coniugi, e dai tre figli minori». Convinti di esser stati richiamati a lavorare «senza alcuna reale e concreta necessità e solo per carattere punitivo, ritorsivo e illegittimo», i due erano dunque tornati ma, si legge nel ricorso, «al loro rientro in Italia si sono recati dal medico di base e successivamente presso il Policlinico Umberto I di Roma ove è stata loro diagnosticata una “sindrome depressivo ansiosa reattiva” alla quale è seguita la sospensione delle licenze di volo da parte dell’Istituto di medicina legale, con blocco lavorativo di quattro mesi, oltre al mese prescritto dal medico di base». Non bastasse, insisteva il ricorso, l’azienda aveva mandato per tre volte il medico fiscale a controllare il loro stato di salute. Chiedevano dunque al magistrato di dichiarare «la natura discriminatoria dei comportamenti descritti attuati dalla compagnia aerea nei loro confronti, con ordine di cessazione dei comportamenti antisindacali, discriminatori e vessatori» e il ritorno, «a chiusura della malattia», in cassa integrazione. Pari all’80% dell’ultimo stipendio. Che a volte, nei periodi di punta, grazie al numero di ore di volo, può schizzare fino a 4.000 euro. Il giudice avrebbe dovuto dunque condannare l’azienda «al pagamento delle differenze retributive» pari per quei mesi a «4.000 euro e 4.800 euro, oltre a interessi legali» nonché «del danno biologico e da riduzione della capacità lavorativa sofferti rispettivamente per complessive 92.715,97 euro e 94.363,38 euro, o altra somma, tenuto conto del diniego di rinnovo della licenza di volo». Che loro stessi, peraltro, avevano forzato con la «sindrome depressiva ansiosa reattiva». Macché: il giudice del lavoro Francesca La Russa ha dato loro torto. Su tutto. Non solo era «legittimo il richiamo» al lavoro anche per le «positive ripercussioni sul piano sociale per i minori costi ricadenti sulla collettività», cioè per i cittadini italiani che stavano pagando alla famigliola il soggiorno in America. Non solo era insensata la lagna su questo ritorno al lavoro perché «semmai dovrebbero dolersi i lavoratori il cui rapporto di lavoro non viene ripristinato». Ma erano «pienamente legittime» le visite del medico fiscale «per la verifica della comune malattia dei ricorrenti». Risultato finale: ricorso respinto. Resta, a tutti gli italiani, una curiosità: esiste un altro Paese al mondo dove dei lavoratori possano pretendere di restare in cassa integrazione e chiedano i danni per il rientro al lavoro? O c’è, da noi, qualche regoletta eccentricamente mostruosa? ____________________________________________________________ Corriere della Sera 27 Set.. ’14 VIVERE PER FINTA I BUGIARDI DI INTERNET Blagoveshchensk è una città curiosa. Calda d’estate e freddissima d’inverno. Piace perché è l’ultimo segno di vita dell’estrema Russia. La Cina è a meno di duecento metri, al di là del fiume Amur. A Blagoveshchensk è deliziosa la parte lungo il corso d’acqua: costruzioni in mattoni rossi, rifiniture in bianco, un grande arco con simboli comunisti che guarda alla città (cinese) di Heihe, dall’altra parte. Se poi volete assaporare un pezzo d’Unione Sovietica basta andare all’interno: palazzi grigi, mosaici che emanano patriottismo. Però senti di essere alla fine del mondo. Un po’ come a Cochrane, altro centro abitato alla fine del pianeta, nel sud del Cile, a pochi chilometri dalla Patagonia e dall’Argentina. Il cuore di Cochrane è fatto di cinque strade orizzontali che s’incrociano con otto verticali e una obliqua. L’aria è frizzantina, le case e le baracche sono basse e colorate, tutt’intorno c’è molto verde e un fiume accidentato. Magari fatelo un salto a Blagoveshchensk e a Cochrane. Noi però non ci siamo andati. Non fisicamente, almeno. Anche se l’impressione che abbiamo dato forse è stata quella. Le informazioni le abbiamo trovate sui motori di ricerca. Le temperature su Wikipedia. Le strade su Google Maps. L’«architettura» delle città su Google Street View. Potevamo raccontare il nostro (finto) viaggio pure su Facebook o Twitter, Instagram o Pinterest. O rendervi partecipi dei nostri pseudo-spostamenti con Foursquare: sarebbe bastato manipolare il Gps del telefonino. Potevamo pure parlare via Skype. Non l’abbiamo fatto. A tutto questo ci ha già pensato Zilla Van Den Bon, un’olandese di 25 anni. Qualche settimana fa ha fatto credere a parenti e amici di essere in vacanza in Thailandia. Si è fatta «immortalare» nel mare dell’Estremo Oriente e tra i monaci buddisti. Poi ha pubblicato le foto sul web. Ma da casa sua, ad Amsterdam, non s’è mai mossa. Le sono bastate un programma di fotoritocco e i profili social per ingannare tutti. «Volevo dimostrare come tramite i social media manipoliamo la nostra immagine e creiamo un “mondo online” poco reale», ha commentato lei. La nostra vita (digitale) in bilico tra realtà e finzione. Tra ciò che facciamo e ciò che vorremmo fare. Intanto un po’ la «abbelliamo». Soprattutto con le istantanee. Che, oggi, costituiscono una «prova». Fotografo e pubblico. Dunque è «vero». Ryan Broderick, giornalista del sito Buzzfeed , qualche mese fa ha raccontato la sua finta presenza al Coachella Festival, uno dei più famosi appuntamenti di musica elettronica. Poi ha dato 19 consigli su come dire attraverso i social network di esserci stati. Dimostrando che si può essere dei «bugiardi digitali». «Viviamo in una società che si fa conoscere, e spesso si vanta, attraverso i pixel», sostengono Andy Dao e Stacey Smith, due artisti di Brooklyn. Per questo spopola il loro Instasham, dove si può scegliere tra migliaia di foto «cool» e caricarle sulla propria galleria di Instagram. Un modo per fare gli «splendidi». Anche se la vita vera è più «grigia». Un divario raccontato bene da Shaun Higton nel cortometraggio «What’s on your mind» dove l’esistenza piatta del protagonista diventa entusiasmante quando viene raccontata sui social network. «Abbiamo sempre fornito una presentazione selettiva di noi stessi, il web ha solo accentuato questa caratteristica», commenta il sociologo Adam Arvidsson, docente di Etnografia digitale e Digital media and global communication all’Università Statale di Milano. Per Arvidsson «identità reale e digitale sono sovrapposte. Siamo quello che pubblichiamo su Facebook, Twitter, Instagram, LinkedIn e i nostri account sono il nostro biglietto da visita, nella società e nel lavoro». È qui che pubblichiamo in maniera selettiva ciò che ci riguarda. «Serve al nostro self branding». E siccome la reazione degli altri — i «mi piace», i retweet — è immediata, si innesca un meccanismo di competizione. «E questo ci porta pure a mentire». Da una ricerca (in corso) del Centro Studi Etnografia Digitale emerge, per esempio, che tanti ragazzi sostengono su Twitter di essere fan degli One Direction «soltanto perché questo aumenta i follower». Però se le bugie vengono scoperte «scatta un meccanismo di “punizione” che arriva fino alla cancellazione di ogni legame sui social media», avverte Arvidsson. «Non è un caso che Second Life sia fallito in pochi mesi. I profili falsi hanno allontanato gli utenti». Insomma: mentite sì, se proprio non potete farne a meno. Ma con moderazione. E, possibilmente, con dei complici. Digitali. @leonard_berberi ____________________________________________________________ Il Repubblica 28 Set.. ’14 UN MODELLO A PIRAMIDE CHE TAGLIA TUTTI I PONTI COL SENSO COMUNE ANCHE uno schiavo, se bene indirizza- o, può dimostrare il teorema di Pitaora. È la tesi che, come al solito per bocca di Socrate, Platone difende nel Me- none, dopo aver constatato che la ricchezza di Anito ( altro personaggio del dialogo) non lo rendeva per questo più intelligente (Anito si vendicherà divenendo uno dei tre accusatori principali di Socrate ). L'ideale di Platone era quello del filosofo-re, eppure sottolineava l'intrinseca democraticità del sapere, come trasmissione ed esame comune, contrapposto alla scienza esoterica, in particolare al sapere sacerdotale degli egizi, protetto da una scrittura che conoscevano solo loro. Oggi però il costo delle apparecchiature favorisce i ricchi, Anito e non lo schiavo di Menone, e si crea quella che potremmo definire "scienza piramidale", una scienza di vertice, esoterica e poco comunicata. Nel momento in cui da una parte il web diffonde tutto, compreso il negazionismo e l'idea che la terra sia concava e non convessa, e dall'altra la big science comporta investimenti miliardari, le piramidi si riformano. E se le piramidi nascono come osservatori astronomici, none privo di ironia il fatto che la manifestazione di questa scienza esoterica nasca proprio dalla dismissione del telescopio orbitale Hubble, non più utile per la Nasa, ma utilissimo per tanti altri scienziati non di punta. La scienza come ideale di una comunità illimitata della comunicazione di cui parlava, quasi mezzo secolo fa, il filosofo tedesco Karl-Otto Apel, richiamandosi al "socialismo logico" propugnato nell'Ottocento da Charles Sanders Peirce, è un sogno del passato, e questo costituisce un pericolo non solo per la democrazia, ma per la scienza, per almeno tre motivi. Primo, si scava un fosso tra la scienza e il senso comune. Quando Husserl parlava dell—adulto nella nostra epoca" come uomo medio e mediamente incivilito, si riferiva a una personaper cui il mondo non era un mistero. Ma, da una parte, la tecnica ci è diventata sempre più estranea. Per un paradosso della "età della tecnica", nessuno se la sentirebbe seriamente di metter le mani nel proprio computer come si faceva, una volta, con la propria automobile ( a sua volta divenuta inintelligibile a causa della quantità di componenti elettroniche che incorpora). D'altra parte, questo medesimo paradosso, in forma meno avvertita ma molto più potente, vale per la scienza: non solo siamo più ignoranti che mai ( nel senso che non riusciamo a tenere dietro agli sviluppi della scienza), ma gli stessi scienziati non sono in grado di dominare se non un territorio limitato, anche supponendo ( e non è ovvio, come dimostra il caso del telescopio nella piramide ) che sia garantita una regolare trasmissione delle scoperte. Secondo, date le spese necessarie per la ricerca, e le sue ricadute economiche e militari, assistiamo a una privatizzazione del sapere. Lo scienziato non è più un «funzionario dell'umanità» ( secondo la commovente retorica burocratica con cui Husserl definiva il filosofo) ma il detentore di un sapere iniziatico, per ragioni di fatto (non viene comunicato ) e di diritto ( anche quando è comunicato, risulta incomprensibile ai più). Io so ben poco di astronomia, diversamente da Leopardi. E colpa mia, ma anche se la studiassi non mi basterebbe la biblioteca di mio padre, né il telescopio del Gattopardo. Verrei a sapere delle cose a scoppio ritardato, come la luce delle stelle morte da tempo. Magari i marziani esistono, ma noi (un noi in cui bisogna includere anche un bel po' di scienziati) non lo sappiamo. Lo sanno nella piramide, e ce lo diranno se e quando lo vorranno loro. Ma proprio qui si apre un terzo problema, ancora più grande dei precedenti. Husserl vedeva nella comunicazione una condizione fondamentale della nascita della scienza. Se il primo geometra non avesse comunicato le sue scoperte, e se queste non fossero state scritte, conservate e trasmesse, la sua scoperta si sarebbe limitata a un breve bagliore, a una luce che illumina prima che torni il buio, aspettando che un altro, se mai ci sarà, ripeta la scoperta. Nel momento in cui la scienza, nel suo livello più avanzato, si trasforma nel possesso di pochi, la piramide si rivela un edificio fragilissimo: basta un black- out, un impiegato distratto o un fanatico (non necessariamente del Califfato), e tutti i segreti della piramide ritornano nel nulla da cui erano usciti. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Set.. ’14 TRIVELLE, TUTTI CONTRO IL GOVERNO Il consiglio regionale della Puglia ha già chiesto al Governo, con un ordine del giorno, di rivedere la regolamentazione delle attività estrattive di idrocarburi. In Basilicata sono pronti alle barricate contro le estrazioni di petrolio off shore. In Sicilia cinque Comuni e otto associazioni ambientaliste si sono unite contro il progetto di trivellazione marina dell'Eni ed hanno presentato un ricorso al Tar. Da nord a sud le Regioni iniziano a mobilitarsi contro i 369 progetti di ricerca o coltivazione di idrocarburi in terra e le 161 richieste di perforare il mare che hanno già ottenuto il via libera o rischiano di ottenerlo senza che gli enti (e le popolazioni) locali si possano opporre in alcun modo. La Sardegna per ora annuncia che «assumerà tutte le posizioni atte a salvaguardare gli interessi della nostra terra in termini di tutela dell'ambiente e sviluppo economico teso alla difesa delle risorse ambientali e territoriali», come ha detto mercoledì l'assessore regionale all'Ambiente. Compresi ricorsi sino alla Corte costituzionale. Ma al momento - ha confermato ieri Donatella Spano - non è in programma un'iniziativa autonoma di Viale Trento, in attesa che la Conferenza delle Regioni approfondisca l'articolato del decreto legge “Sblocca Italia” e rediga un documento che conterrà le osservazioni di tutti. Si tenta un'azione politica, insomma, con l'intento di arrivare al 16 ottobre, data della prossima riunione delle Regioni, con un documento condiviso da sottoporre al Governo prima che il decreto venga convertito in legge. Del resto se da un lato Matteo Renzi ha ribadito la ferma volontà di scippare alle Regioni ogni potere di veto sui progetti di ricerca di idrocarburi, dall'altro nello stesso decreto afferma di voler rispettare «il principio di leale collaborazione con i diversi livelli territoriali, nonché il principio costituzionale di tutela dell'ambiente». Principi che sarebbero apertamente violati se il Governo - in nome di un supposto interesse strategico nazionale - desse il via libera al progetto “Eleonora” col quale la Saras vuole scavare, contro il volere dei territori, un pozzo profondo 2850 metri in un'area di 443 chilometri quadrati alla ricerca di metano. Un progetto bocciato dal Savi (Servizio di sostenibilità ambientale, valutazione impatti e sistemi informativi ambientali) che il 9 settembre ha dichiarato inammissibile lo studio di impatto ambientale del progetto perché non è conforme al Piano paesaggistico regionale e al Puc del Comune di Arborea. Se il Governo andasse avanti si porrebbe anche un problema di costituzionalità dei provvedimenti visto che, come specifica il ministero dello Sviluppo economico nelle schede che riguardano il progetto Eleonora «in Sardegna, per la sola terraferma, in virtù dello Statuto speciale, la competenza normativa e amministrativa è completamente autonoma». C'è dunque spazio per un ricorso alla Consulta? «La situazione è fluida, c'è un negoziato tra Regioni e Stato, bisognerà vedere come sarà modificato il decreto legge e poi valutare in che modo eventualmente agire», spiega Pietro Ciarlo, docente di Diritto costituzionale all'università di Cagliari e tra i 35 componenti della commissione speciale per le riforme nominata da Enrico Letta all'inizio dell'estate del 2013. «Certo è che il Governo vuole riappropriarsi di queste competenze e che le Regioni stanno facendo resistenza. Ed è altrettanto certo», aggiunge, «che la classe politica sarda negli ultimi anni è stata troppo impegnata a litigare e ha dimenticato di difendere la sua specialità». Intanto il Comitato di resistenza popolare contro il progetto Eleonora ha replicato con una lunga lettera al Sole 24 ore, il quotidiano di Confindustria (sponsor del progetto) che nei giorni scorsi ha deriso la Regione, rea di aver «rinunciato al suo metano, conservato in miliardi di metri cubi nelle profondità dell'isola». I cittadini hanno ricordato, tra le altre cose, che le «succose royalties» alle quali la Sardegna rinuncerebbe dandosi, secondo il quotidiano, la zappa suoi piedi, «non siano riuscite a risollevare l'economia di una delle regioni d'Italia tra le più trivellate, la Basilicata, la quale secondo i dati Istat, ha un indice di povertà tra i più alti in Italia». Fabio Manca ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 Set.. ’14 LA SARDEGNA RINUNCIA AL SUO METANO Energia. La Regione respinge il progetto di cercare un grande giacimento sotto Arborea (Oristano) Jacopo Giliberto La Regione Sardegna ha deciso di rinunciare al suo metano conservato in miliardi di metri cubi nelle profondità dell'isola, e alle royalty succose, e preferisce continuare a importare il Gpl petrolifero sul cui mercato ha voluto indagare l'Antitrust. Il 9 settembre su carta intestata della Regione autonoma, sotto la scritta Assessoradu de sa defensa de s'ambiente, il servizio Sostenibilità ambientale e valutazione degli impatti (Savi) ha respinto la richiesta della Saras di scavare un pozzo alla ricerca di metano. «Si comunica l'improcedibilità della procedura in esame, disponendone, al contempo l'archiviazione», letterale virgole comprese. Non si saprà mai se l'impatto ambientale del pozzo di prova è considerevole o minimo, se il giacimento è generoso come sembra. La richiesta è stata respinta al mittente senza alcun esame perché contrasta con il piano regolatore, «non conformità con le norme vigenti (Ppr-Puc)». Asciutto il comunicato della Saras: «Prendiamo atto della decisione del Savi, che non intacca l'impegno profuso finora». La Sardegna non usa metano perché non ha alcun collegamento con i gasdotti nazionali. Le imprese e le famiglie bruciano derivati del petrolio importati via nave, come Gpl in bombola o aria propanata. In provincia d'Oristano, sotto Arborea – una piana paludosa bonificata dal fascismo e trasformata in una scacchiera di fondi coltivati – i geologi hanno intravisto miliardi di metri cubi di metano di ottima qualità, privo di sostanze pericolose. Quel metano cui finora la Sardegna è stata costretta a rinunciare. La Saras della famiglia Moratti, con sede legale a Cagliari e sede operativa a Milano, la cui raffineria di Sarròch è la più colossale del Mediterraneo, studiava la geologia sarda alla ricerca di aree geotermiche da cui ricavare energia rinnovabile. S'imbatté nelle tracce di giacimenti di dimensioni non misurabili uno dei quali, il giacimento Eleonora, prometteva da solo 3 miliardi di metri cubi di gas. Decise di diversificare dalla sola raffinazione del greggio importato e di diventare, in piccolo, una compagnia petrolifera, e chiese il permesso di esplorare il sottosuolo. Il progetto di pozzo per esplorare il sottosuolo è simile ai normali pozzi per l'acqua potabile o alle migliaia di pozzi italiani di metano. L'area occupata dal cantiere sarebbe stata di circa un ettaro e al centro ci sarebbe stato il "trapano". Però il giacimento si trova a poche centinaia di metri dall'ultimo residuo di palude scampato al prosciugamento fascista, il pregiatissimo stagno di S'Ena Arrubia, protetto dalle leggi. Entusiasti per la decisione dell'assessoradu de s'ambiente i comitati contrari alle trivellazioni. Sui "social" sono comparse centinaia di espressioni di vittoria contro quella che, scrivono alcuni, sarebbe stata una devastazione ambientale. _________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 26 set. ’14 SAPIENZA: ORO AI BARONI, DISAGI AGLI STUDENTI di Carlo Di Foggia La calca si ammassa fin oltre le porte d'alluminio. "Ahò, ma che è? Manco fosse Vasco Rossi". E invece è una lezione di Diritto commerciale nell'Ateneo più grande d'Europa. Le elezioni per il nuovo rettore, che oggi avranno un primo responso sono un'eco lontana. Il benvenuto agli studenti avviene tra pareti di plastica e tetti di tela che riverberano la voce microfonata del docente "e quando piove non senti nulla". I posti a sedere non bastano: 500 mila curo per due tensostrutture nel polmone verde della città universitaria perché Giurisprudenza non ha abbastanza aule. O meglio, le avrà. "Al massimo fra due anni" assicurò Luigi Frati, due anni fa. La ground zero degli atenei italiani Il regno del Magnifico è giunto al termine: 20 anni da preside di Medicina, 10 da prorettore e rettore. Oltre un lustro di inchieste, scandali e parentopoli, una moglie e due figli piazzati a "casa sua", divisa in tre facoltà, due finite ai fedeli Eugenio Gaudio - il candidato favorito per la successione - e Adriano Redler, ex assessore e consigliere regionale, candidato alle ultime Europee per Forza Italia. Tutto "mentre l'università affrontava tagli e accorpamenti". Risultato? Il ritorno in attivo: da meno 60 milioni a più 8,5. "Sapienza è la ground zero dell'università italiana: grandi potenzialità e un ottimo corpo docente convivono con disservizi, corporativismi, clientele: colpa di una gestione verti- cistica", raccontano voci interne all'amministrazione. È il segnale che un'era finisce davvero, e si scontrano - come altrove - due mondi: quello Gelmini-Frati, delle università-feudi, e quello "collegiale" auspicato da molti. La sfida che attende il successore è enorme: disinnescare la bomba Policlinico e rilanciare un ateneo che in 10 anni ha perso 40 mila iscritti ed è tornato in attivo pensionando i docenti. "Ci crede che Economia - spiega un membro del cda che chiede l'anonimato - ha ospitato Federico Caffè, laureato Mario Draghi e due premi Nobel, ma subisce un salasso verso la Luiss, che è distante anni luce?". Giurisprudenza è un cantiere aperto dal 1992. Il "sarcofago", come viene chiamata la soprelevazione, tra rinvii, varianti d'opera, costi decuplicati, inchieste e un operaio morto ancora attende l'inaugurazione. Ponteggi e gru disegnano un panorama che ha accolto generazioni di studenti. "Siamo più di 1.300 e non abbiamo l'Aula magna, chiusa per i lavori", raccontano all'ingresso: "Abbiamo fatto lezione ovunque". I lavori tengono in ostaggio anche l'adiacente Scienze politiche. Appena entrati, un odore di muffa arriva alle narici. "Quando hanno riaperto - spiega Teresa, studentessa di Relazioni internazionali - era insopportabile. I lavori hanno causato infiltrazioni" e indica un angolo dove la vernice è scrostata. L'ultima promessa è di Frati: "La messa in sicurezza è finita, si passa ai lavori per le aule". Tradotto: avanti con le tensostrutture. "Nelle ex Poste, a San Lorenzo era anche peggio", ricorda un veterano: "Quelli di Medicina del Sant'Andrea con i tendoni ci convivono da anni". Cinquanta metri più in là c'è il "ballatoio", le segreterie amministrative. Anche qui, la calca: ci sono le richieste di aurea. Giurisprudenza ha un solo sportello aperto e la coda parte dieci metri fuori. A Scienze politiche si prende un numerino, sul monitor campeggia la scritta: "Aspettare in sala d'attesa". Intorno non ci sono sedie, molti sono seduti per terra. A Ingegneria il pannello indica l'attesa: "130 minuti". "Sto qui dalle nove e ora chiude", si lamenta uno studente mentre l'amico mostra un biglietto con il numero 215 (il contatore segna 71). La lista dei disagi è lunga. "I docenti non vengono perché hanno il loro studio - spiega Federica, Giurisprudenza - mandano gli assistenti". Una figura illegale: assegnisti costretti a fare da sostituti. "Il punto dolente sono stage e tirocini - continua Teresa - devi cavartela da sola". Lettere, dopo aver quadruplicato facoltà e corsi (spesa: un miliardo) è tornata un corpo solo: "Ma si fa lezione in 400 in aule da 80". "La Magnifica oligarchia" "Frati ha creato una oligarchia, perfino tra gli studenti, ma ha anche tagliato sprechi e inefficienze, e premiato il merito. A volte a modo suo", racconta chi lo conosce bene. Un esempio? In questi giorni il Senato accademico ha assegnato alcuni fondi di ricerca. Il budget è stato incrementato di 315mila euro per portare da 30 a 40 i progetti finanziabili, il quarantesimo è quello di Giacomo Frati, figlio del rettore e ordinario nella facoltà del padre. "Come fai a votare no? È comunque un incremento", spiega un membro del Senato. Vero. La ricerca è l'unico settore non falcidiato. "Peccato siano briciole", spiegano da Fisica. Mercoledì scorso, alcuni tra i 150 ricercatori in scadenza hanno protestato sotto la Minerva. "Esodati" dopo molta didattica a "costo zero", pagata con fondi esterni: hanno sostituito i professori "ma non è servito a nulla". Nell'era Frati, chi ha preso fondi da fuori ha ottenuto incarichi e potere. È successo con i 20 milioni di euro dell'Istituto italiano di tecnologia di Genova, un carrozzone pubblico guidato da Roberto Cingolani, ordinario di Fisica con ottime entrature politiche (è stato consulente di Raffaele Fitto). Soldi per un progetto, manco a dirlo, di area medica, ma affidati al fisico Giancarlo Ruocco, divenuto prorettore fidato di Frati, ora acerrimo nemico del magnifico e tra i candidati alla successione. Ma la lista è lunga. Il latinista Alessandro Schiesaro, per dire, fidatissimo numero due di Maria- stella Gelmini, nel 2011 è diventato direttore della neonata "Scuola d'eccellenza": 16 studenti e 30 milioni di euro concessi dal Miur di cui era capo segreteria tecnica. "Uno schiaffo alla crisi", commentarono i sindacati. "È un oggetto misterioso", spiegano oggi fonti interne all'amministrazione. "Di sicuro - accusano dal collettivo Link - hanno speso 3 milioni per dare un alloggio a viale regina Elena a 16 studenti". Per gli altri ci sono gli studentati. _________________________________________________________ La Stampa 23 set. ’14 LA FASCIA DI OZONO RECUPERA SI PUÒ SALVARE ANCHE IL CLIMA? Nel 1987 la firma dell'accordo tra gli Stati che ha evitato un disastro globale MARCO MAGRINI Finalmente una buona notizia. Per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, i Paesi del mondo hanno firmato un trattato internazionale all'unanimità. Un'intesa globale di simili proporzioni poteva solo arrivare su un tema di natura ambientale - la drastica riduzione nell'emissione di gas dannosi per la vita sulla Terra - che è nel legittimo interesse di tutti gli abitanti del pianeta e delle generazioni a venire. «Il grado di flessibilità e determinazione esibito dalla comunità internazionale nel raggiungere questo compromesso - ha dichiarato il primo ministro inglese - è senza precedenti». Peccato che sia una buona notizia di ventisette anni fa. È il settembre del 1987: il primo ministro si chiama Margaret Thatcher, alla Casa Bianca c'è Ronald Reagan e Giovanni Goria a Palazzo Chigi. Tutti i Paesi del mondo firmano il Protocollo di Montreal per mettere progressivamente al bando la produzione di clorofluorocarburi (CFC), sostanze chimiche che distruggono nella stratosfera la fascia dell'ozono, una molecola composta da tre atomi di ossigeno. È vero che nella troposfera, dove abitiamo noi, l'ozono è a tutti gli effetti una sostanza inquinante e indesiderata. Ma lassù, fra i 10 e i 50 chilometri più in alto, genera un risultato assai desiderato: fa da scudo alle frequenze più dannose della radiazione ultravioletta. Che il Protocollo di Montreal sia stato un trionfo del multilateralismo, lo si apprezza bene a 27 anni di distanza. Secondo l'ultimo rapporto sul tema commissionato dall'Unep, il braccio ambientale dell'Onu, il cosiddetto «buco dell'ozono» sopra il Polo Sud ha smesso di allargarsi e sta dando segnali di recupero: si prevede che, a metà secolo, tornerà ai livelli del 1980. In soldoni, secondo il rapporto, «il Protocollo riuscirà a prevenire i due milioni di casi di tumore alla pelle anno che erano previsti per il 2030, a scongiurare danni agli occhi e al sistema immunitario, a proteggere gli animali e l'agricoltura». Invece di una regola, Montreal è stato un'eccezione. In molti si erano aspettati di ripetere il successo dieci anni dopo quando nel 1997, alla firma del Protocollo di Kyoto, la comunità internazionale si prefiggeva un obiettivo del tutto simile: mettere un freno alle emissioni dei gas serra che trattengono la radiazione infrarossa del Pianeta - anidride carbonica, metano e protossido di azoto - trasformandolo giustappunto in una serra. Se possibile, la posta in gioco è ben più rilevante rispetto ai CFC: si tratta di scongiurare un processo di riscaldamento climatico che, se incontrollato, rischia di rendere inabitabili numerose aree del pianeta, di innalzare il livello del mare di molti metri cambiando la geografia. E quindi anche il corso della storia. A 17 anni di distanza dalla sua firma, sappiamo bene che il Protocollo di Kyoto è stato un gigantesco flop: mai ratificato dagli Stati Uniti, di fatto applicato con convinzione solo in Europa, ha solo scalfito la concentrazione atmosferica di gas serra. Come fra il dire e il fare, fra il Protocollo di Montreal e il Protocollo di Kyoto c'è di mezzo il mare. Certo, fra i due accordi c'è una differenza sostanziale. Un conto è cancellare le emissioni dei CFC, che servivano solo a far funzionare frigoriferi, condizionatori e bombolette spray; un conto diminuire le emissioni dei gas serra che derivano dall'utilizzo dei combustibili fossili, facendo marciare tutte le auto, tutti gli aerei e tutte le fabbriche del mondo. Aggiungiamo pure che, ai tempi di Montreal, già si sapeva come rimpiazzare i clorofluorocarburi, mentre le tecnologie per sostituire i combustibili fossili - solare, eolica, ma anche nucleare - sono molto più costose del carbone o del petrolio. Tuttavia, nei due casi colpisce la differenza di trattamento nei confronti della comunità scientifica. Quando gli scienziati misero in guardia il mondo sugli effetti collaterali dei CFC - una reazione chimica ai piani alti della stratosfera - tutti ci hanno subito creduto. Quando gli scienziati mettono in guardia contro il riscaldamento del pianeta - per effetto di un'altra, inoppugnabile, reazione fisica - c'è ancora qualcuno che giura seriamente di dubitarne. Questo dubbio, certamente instillato anche dalle lobby economiche dei combustibili fossili, è stato utile ai conservatori in seno al Congresso americano per boicottare Kyoto e tutti i successivi tentativi di migliorarlo. «Il tempo a disposizione sta scadendo», ha detto il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-Moon, che proprio oggi ha convocato a New York un vertice sul clima. Il suo obiettivo è convincere gli Stati a prendere subito l'impegno di tagliare le emissioni di gas-serra, in modo da mettere tutto nero su bianco in un nuovo trattato internazionale, da firmare l'anno prossimo a Parigi. Sarebbe una bella notizia. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Set.. ’14 SULLE STRADE DI MARIA LAI A un anno dalla morte, la Sardegna le dedica una rassegna in tre sedi: il Palazzo di Città di Cagliari, il MAN di Nuoro e il paese di Ulassai Gabi Scardi Maria Lai nasce nel 1919 a Ulassai, e nell'Ogliastra trascorre i primi anni, osservando ciò che le si svolge intorno. Dell'importanza di questo periodo di formazione resterà consapevole. «ll senso dei grandi spazi e la visione cosmica mi viene dal paese in cui sono nata, Ulassai. – dirà – Sono stata educata dal suo paesaggio, dalla vastità su cui si affaccia». E all'amico Gianni Dessì: «Ero incuriosita dai contorni delle rocce, dai fili d'erba e soprattutto dai grandi vuoti, dal senso d'infinito di quei paesaggi vastissimi. Questi mi condizionavano in modo che può sembrare contradditorio: infatti, da quello spazio immenso mi sentivo imprigionata. Avevo la necessità vitale di inventare altri spazi». Da bimba tutto le appariva carico di significato. Era attratta dall'atto del filare e del tessere, e dal telaio stesso, sul quale si misurano la pazienza e la creatività femminili. Vedeva la nonna rammendare le lenzuola, e immaginava che vi stesse scrivendo storie da raccontare. La affascinavano le fiabe e le leggende; e già amava scarabocchiare: prendeva dal camino pezzi di carbone e li usava per tracciare sui muri segni e forme che diventavano i protagonisti di piccoli mondi inventati. I primi disegni pervenutici sono ritratti di parenti o di amici, realizzati al tratto con penna o matita, o tempera. Solo da adolescente, a Cagliari, Maria Lai comincia a frequentare la scuola. Incontra, in veste di professore, lo scrittore Salvatore Cambosu, dal quale apprende ad amare la scrittura, la poesia e a capire l'importanza del ritmo. Nel 1933 si trova a posare per Francesco Ciusa, che sta scolpendo il ritratto per la lapide della sorellina, morta a 8 anni. Scopre così la scultura, e comincia lei stessa a modellare la creta, maneggiandola come, in casa, aveva visto impastare la pasta del pane. Si atterrà poi sempre al principio che «l'arte deve conquistare la semplicità di un pane». La formazione prosegue a Roma, dove entra in contatto con l'ambiente culturale, quindi a Venezia, tra l'Accademia e l'atelier di Arturo Martini. Ma poi Maria Lai finisce per ristabilirsi in Sardegna. La sua rete di relazioni resterà ampia, e l'attitudine a confrontarsi e a sperimentare la spingeranno a muoversi sempre su un orizzonte di riferimento internazionale. Nel suo lavoro rileviamo un'acuta e partecipe consapevolezza dei movimenti culturali in corso, dalla poesia visiva all'arte povera, e un'interdisciplinarietà che nasce dall'interesse per la musica o per il teatro, per l'educazione. Ma è dall'isola che Maria Lai trae forza e ispirazione: da leggende, tradizioni, paesaggi; basti pensare alle Terrecotte, ai Pani, ai Presepi, ai Telai; e alle Geografie, sorte di cosmogonie poetiche che sintetizzano terra e cielo, tempo e spazio; e ai libri, realizzati con ogni materiale possibile, dalla carta al pane, alla ceramica, alla stoffa: Lai vi abbina le immagini e una scrittura asemantica, capace di trasmettere emozioni e suggestioni. Tra i dispositivi espressivi che utilizzò maggiormente c'è il cucito: tante delle sue immagini sono tracciate su stoffa, col filo. A un anno dalla morte, la Sardegna le dedica la rassegna Ricucire il Mondo, in tre sedi: il Palazzo di Città di Cagliari, il MAN di Nuoro, il paese di Ulassai. È un'occasione per rivederne il percorso nella sua organicità. La mostra di Cagliari, a cura di Anna Maria Montaldo, è dedicata al periodo dagli anni Quaranta agli anni Ottanta; quella di Nuoro, a cura di Barbara Casavecchia e Lorenzo Giusti, al periodo successivo; fa da cerniera tra le due Legarsi alla montagna, del 1981: un'opera straordinaria che nasce dalla commissione di un museo ai caduti da parte del suo paese di nascita, Ulassai, e che Lai trasforma in un'azione collettiva ispirata a una leggenda locale: un nastro azzurro lega tra loro case e famiglie del paese, per poi arrampicarsi in cima al monte che incombe su tutti. L'opera, così emblematica, non costituisce però un'eccezione: a partire dagli anni Ottanta l'artista realizza, in tutta l'Italia, una serie di azioni, interventi ambientali e progetti relazionali e di formazione attraverso la parola, l'immagine, il gesto. In molti casi coinvolge i ragazzi delle scuole. «Quando ero bambina pensavo che diventare adulta significasse perdere il diritto al gioco», diceva l'artista. Non fu così; lei continuò a giocare e anzi, grazie a una notevole capacità di comunicazione, nel suo gioco coinvolse molti; senonché il gioco si era fatto serio: in posta c'era la possibilità di combattere la passività generalizzata e l'isolamento, di vincere l'apatia e l'indifferenza, di scuotere le coscienze e mobilitare le intelligenze. A chi la conobbe lasciò molto. Anche per questo la mostra comprende, a Cagliari e a Nuoro, due installazioni di Claudia Losi e Antonio Marras: omaggi che comprendono oggetti disseminati dall'artista tra amici e parenti nel corso degli anni. Legarsi alla montagna restò comunque, per Maria Lai stessa, un momento centrale. Negli anni successivi, a Ulassai, l'artista creò anche una decina di altre opere a cielo aperto, tuttora visibili; per arrivare infine, nel 2006, a inaugurare uno spazio per l'arte in quello che era stata in passato una minuscola stazione ferroviaria in cima a uno sperone roccioso. Nasce così un luogo di grande poesia: la Stazione dell'Arte; affidato ora alla cura di Cristiana Giglio, il sito rivive come punto di approdo di un lungo, armonico percorso e come luogo propulsore di energia creativa. _________________________________________________________ ItaliaOggi 23 set. ’14 PRIVACY:SONO FUORI LEGGE DUE SITI SU TRE PRIVACY/ Un'indagine di Federprivacy condotta su 2.500 pagine pubbliche e private Assenza di idonea informativa e mancanza del consenso DI ANTONIO CICCIA In Italia il 67% non è in regola con il Codice della privacy, sia nel settore privato sia nel pubblico. Dati trattati senza consenso. Possibili sanzioni per 24 milioni al mese Due terzi dei siti web italiani violano la privacy. Su un campione di 2.500 siti, il 67% non è in regola non il Codice della privacy. Tra le violazioni più frequenti l'assenza di idonea informativa e la mancata raccolta del consenso. La denuncia parte da Federprivacy, che ha inviato un dettagliato dosger al Garante. Federprivacy ha stimato anche il possibile valore delle sanzioni per gli illeciti riscontrati: si parla di qualcosa come 24 milioni al mese. Due terzi dei siti web italiani violano la privacy. Su un campione di 2.500 siti, il 67% non è in regola con il dlgs 196/2003 (codice della privacy). Tra le violazioni più frequenti l'assenza di idonea informativa e la mancata raccolta del consenso. La denuncia parte da Federprivacy, che ha inviato un dettagliato dossier al Garante. Federprivacy ha stimato anche il possibile valore delle sanzioni per gli illeciti riscontrati: si parla di 24 milioni al mese. A parte la valutazione della cifra, emerge in maniera oggettiva la diffusione della disapplicazione della normativa a protezione dei dati personali. E le violazioni toccano trasversalmente sia il settore privato sia il settore pubblico. Vediamo il dettaglio della ricerca. Su 2.500 siti web di enti e imprese italiane, in 1.690 casi non è rispettato l'obbligo di informare l'interessato su come saranno trattati i suoi dati personali (violazione dell'articolo 13 del Codice della Privacy) e in molti casi non è rispettata neppure la richiesta di consenso al trattamento dei dati (violazione dell'articolo 23 del Codice della Privacy). Nel 55% dei casi, a non dare idonea informativa all'interessato, sono piccole e medie imprese, mentre il 17% dei siti web che omettono di dare 'informativa svolge attività in settori legati alla salute, che quindi trattano dati sensibili, come per esempio, ospedali, cliniche, laboratori di analisi, studi medici, dentisti, chirurghi ecc. Nel 7% dei casi a commettere tali violazioni sono anche le aziende informatiche, come web agency o società di consulenza nel settori di internet, che spesso sviluppano esse stesse numerosi altri siti web per i loro clienti. Risulta inoltre che il 6% deì contravventori sono soggetti di condizioni economiche e dimensionali notevoli, come grandi aziende, multinazionali, enti pubblici, e anche personalità come artisti, politici e altri vip. Pubbliche amministrazioni ed enti pubblici alimentano la graduatoria dei siti senza idonea informativa nel 3% dei casi, mentre raggiunge il 4% di questa classifica negativa il gruppo dei partiti, associazioni ed enti non profit. In materia va ricordato che le prescrizioni del codice della privacy vanno adottate, per esempio, ogni volta che si chiede all'utente di compilare form di contatto, fornendo le loro informazioni personali. Il codice della privacy assegna all'interessato il diritto di ricevere un'idonea informativa sul trattamento dei dati personali per poter essere in grado di scegliere se prestare o meno il proprio consenso. Tra l'altro l'informativa riguarda trasversalmente tutti i settori, compresi gli enti pubblici e i siti internet istituzionali. Sul versante sanzionato- rio, l'articolo 161 del dlgs 196/2003 punisce le infrazioni a tale prescrizione con sanzioni pesantissime che vanno dai 6 mila ai 36 mila euro, cifre che possono essere anche raddoppiate se tali violazioni coinvolgono numerosi interessati, come nel caso di siti internet accessibili al pubblico, o addirittura quadruplicate se il contravventore è un soggetto facoltoso. «L'ammontare delle violazioni rilevate nell'arco di un solo mese è stimata, codice alla mano, intorno ai 24 milioni di euro - spiega il presidente di Federprivacy, Nicola Bernardi - ma la portata del fenomeno è molto più estesa perché i domini registrati presso il Registro.it del Cnr sono a oggi circa 2,5 milioni, e questo significa che il campione analizzato equivale ad appena un millesimo dei siti italiani. L'entità di queste infrazioni, che sono pure alla bella vista di tutti su internet, è quindi potenzialmente calcolabile in alcuni miliardi di euro». ========================================================= ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 26 Set.. ’14 ASL, PARTE LA RIVOLUZIONE IN REGIONE Concluso in commissione l’esame del nuovo assetto con 12 aziende, entro ottobre via tutti i manager CAGLIARI Le Asl saranno commissariate non prima di fine ottobre. Solo fra due settimane la proposta di riordino del sistema regionale sanitario sarà inserita all’ordine del giorno del Consiglio regionale. Ieri la commissione Sanità, presieduta da Raimondo Perra, ha concluso l’esame degli articoli della bozza presentata dal Partito Democratico e poi sospeso la votazione finale in attesa del necessario parere della commissione Bilancio. Parere che dovrebbe arrivare entro la fine della prossima settimana e a quel punto il testo dovrebbe essere licenziato dalla commissione che ha cominciato a esaminarlo due mesi fa. Resta da capire ancora se l’inserimento nella mappa della dodicesima Azienda (è quella che dovrà gestire il servizio urgenza 118 e pronto soccorso, ora diviso a metà fra Cagliari e Sassari) basterà da solo a far saltare gli attuali manager tutti nominati dalla vecchia giunta di centrodestra. Secondo alcune indiscrezioni, alcuni partiti della maggioranza (a cominciare dal Centro Democratico) vorrebbero inserire all’ultimo momento anche un emendamento che riduce, invece di aumentare, il numero delle Asl. Se questo tentativo non dovesse avere successo, la proroga dei direttori generali in carica potrebbe addirittura allungarsi. Un articolo della proposta di legge prevede che sia la Giunta a «completare il riordino del sistema regionale» con un disegno di legge da presentare entro novanta giorni dal prossimo voto del Consiglio. Tempi ancora più lunghi, dunque, anche se il Pd è sicuro che con l’ingresso dell’Azienda per le emergenze, la sigla è Areu, la stessa Giunta potrà commissariare molto prima e comunque entro ottobre le otto vecchie Aziende sanitarie, l’ospedale Brotzu e i due policlinici di Cagliari e Sassari. È evidente che il centrosinistra vuole spingere sull’acceleratore, soprattutto ora che i rapporti fra l’assessore alla Sanità, Luigi Arru, e i manager nominati dal centrodestra si sono deteriorati. L’ultimo scontro è con il direttore generale dell’Asl 7 (Sulcis) che sarebbe deciso a citare in giudizio la Regione dopo che l’assessorato alla sanità gli ha bocciato il bilancio 2012. Una scelta subito contestata dalla consigliera regionale del Centro Democratico, Anna Maria Busia: «Maurizio Calamida – è lui il manager dell’Asl 7 – invece di fare causa alla Regione deve dimettersi per l’uso improprio di denaro pubblico che ha fatto finora». Sono tesi anche i rapporti tra l’assessorato e il manager dell’Asl 1 di Sassari. A suo tempo anche Massimo Temussi ha dato incarico a un legale di valutare se fosse o meno regolare la direttiva con cui mesi fa l’assessore alla Sanità aveva imposto ai direttori generali di limitarsi solo all’ordinaria amministrazione. Circolare, a quanto pare, che nessuno ha rispettato e proprio da lì sarebbero cominciati i contrasti più duri. Ma ormai è chiaro: il conto alla rovescia è cominciato e per le Asl il commissariamento è solo questione massimo di un mese. Bisognerà poi vedere come Giunta e maggioranza si muoveranno nella scelta dei traghettatori verso il nuovo sistema sanitario. Le scelte non saranno facili e anzi possibile che proprio sugli incarichi risaltino fuori vecchi malumori. (ua) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 Set.. ’14 POLICLINICO, NEONATI REGISTRATI ALL'ANAGRAFE DI MONSERRATO «I nuovi nati al Policlinico di Monserrato saranno registrati direttamente a Cagliari», è stata la promessa fatta al taglio del nastro del Blocco Q, dove sono stati trasferiti i reparti di Ginecologia e Ostetricia del San Giovanni di Dio. Invece - nonostante siano passati dieci mesi - la possibilità di scrivere «nato a Cagliari» sui documenti d'identità ancora non esiste: colpa del sistema informatico della struttura universitaria, che non è in grado di elaborare la richiesta, fatta già da tanti genitori. Norme alla mano, dovrebbe essere tutto molto semplice: per il Policlinico dovrebbe valere il concetto di extraterritorialità, simile a quello che regola i rapporti tra gli Stati (un esempio ospedaliero è il Gemelli di Roma, in territorio italiano ma considerato del Vaticano), visto che l'ospedale è sì sul territorio di Monserrato, ma la sede dell'università - proprietaria della struttura - è a Cagliari. Lo stesso discorso vale per il Brotzu: l'ospedale cagliaritano è in gran parte costruito su un'area del Comune di Selargius. «Per una carenza del sistema Sisar, i neonati vengono ancora registrati automaticamente all'anagrafe di Monserrato», racconta Gian Benedetto Melis, direttore della clinica Ostetrica. Il dettaglio non ha però avuto ricadute negative sulle statistiche delle nascite. Anzi: «A dieci mesi dal trasferimento del reparto, abbiamo registrato un incremento dei nuovi nati del 30 per cento. La media al San Giovanni era di circa 1400 bambini all'anno, mentre ora dovremmo superare i 1700. Rimane da aggiornare il sistema informatico. Dopo la nascita è possibile chiedere il “trasferimento” nell'anagrafe cagliaritana, ma sulla carta di identità dei bambini rimarrà «nato a Monserrato». Michele Ruffi ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Set.. ’14 MONSERRATO RIVENDICA I BIMBI NATI AL POLICLINICO Nessuno tocchi i neonati venuti alla luce al Policlinico: sono nati a Monserrato e sulla loro carta d'identità - e nel codice fiscale - non ci potranno essere “cessioni” a favore di Cagliari. Lo sostiene, anzi lo rivendica il sindaco Gianni Argiolas, primo cittadino del Comune dell'hinterland. «I neonati vanno registrati in prima battuta nel Ccomune dove sono nati. Lo dice il Dpr 396 del 2000. E poi mi sembra un atto di rispetto nei confronti di Monserrato, perché crediamo nell'università e nel Policlinico. Abbiamo dato tanto, in termini di territorio, e almeno sotto questo aspetto è giusto che si ottenga quello che ci spetta», dice Argiolas. Le promesse fatte all'inaugurazione del Blocco Q, dove da dieci mesi è stata trasferita la clinica Ostetrica, erano altre. E per ora non si è riusciti a metterle in pratica per questioni tecniche: il servizio informatico andrebbe aggiornato. Per il sindaco la questione delle nascite è però una sorta di risarcimento: «Il nostro territorio è un fazzoletto o poco più. Abbiamo dato tanti terreni all'università, nell'unico punto in cui era possibile un'espansione. Poi Monserrato non ha niente di inferiore rispetto a Cagliari. Di fatto non abbiamo nessun beneficio. Anzi: il nostro Comune ha un carico di lavoro in più, che sopportiamo volentieri». Ma la nascita a Monserrato è solo un “passaggio”, perché poi i bambini possono essere registrati nelle anagrafi degli altri Comuni. «Sarà solo un passaggio, che però non si può saltare: è una questione di principio», dice il sindaco. Michele Ruffi ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 Set.. ’14 L'APPELLO DELLA ASL AI DOTTORI PRECARI La protesta dei camici bianchi precari, che per voce del loro sindacato (Anaao) hanno invocato regole più severe per i contratti di lavoro, ha lasciato di stucco il direttore generale della Asl di Lanusei Francesco Pintus: «Perché non vengono da noi?». L'appello non arriva per caso. Tra le corsie dell'azienda ospedaliera ogliastrina ci sarebbero molti posti vacanti, ma i concorsi per assunzioni a tempo indeterminato vanno deserti. O, nella migliore delle ipotesi, i vincitori prendono possesso dell'incarico e, non appena vengono aperte le procedure di mobilità nelle altre Asl, chiedono il trasferimento. «Nell'ultimo anno cinque dei sei anestesisti che abbiamo assunto con l'ultima selezione sono andati via». Il problema non riguarda solo gli anestesisti, in Ogliastra sembra difficile reperire cardiologi, ortopedici e altro. Per questo, l'azienda è costretta a stipulare delle convenzioni (costose) con i medici delle altre Asl. ( m. c. ) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 22 Set.. ’14 MEDICI SENZA DIRITTI: «VIVIAMO NEL PRECARIATO» «Il posto fisso è un'utopia anche per i giovani medici specialisti». Il frequente ricorso ai contratti atipici non garantisce ai precari i diritti dei colleghi col posto fisso e il sindacato dei giovani dirigenti medici chiede maggiori garanzie per i giovani camici bianchi. «Nessun diritto alla maternità, alle ferie, alla malattia, nessuna previdenza, niente anni di anzianità, nessuna possibilità di fare carriera», denuncia Michela Piludu, responsabile dell'Anaao giovani per la Sardegna. «Non esiste un regolamento, come quello che tutela i lavoratori a tempo indeterminato, così i medici che hanno già sostenuto un percorso formativo troppo lungo e pesante, si ritrovano specialisti e precari senza poter sperare in un futuro migliore». Tutte le aziende sanitarie fanno ampio ricorso ai contratti a tempo determinato per i medici, sono più di venti quelli che lavorano tra il Policlinico e il Civile per conto dell'azienda ospedaliero-universitaria e una cinquantina sono quelli impegnati nei presidi gestiti della Asl 8. «Sono pochissime le mosche bianche che hanno la possibilità di sostenere un concorso al termine della specializzazione e ambire ad un posto fisso. Nella maggior parte dei casi la nostra generazione vive nel precariato», denuncia Piludu, «cerchiamo almeno di regolarizzare questa forma di precariato, si potrebbe per esempio cominciare con introdurre il diritto alla maternità, alle ferie, alla malattia: per i diritti fondamentali di un lavoratore non dovrebbero esserci distinzioni tra medici di serie A e medici di serie B». Secondo il segretario dell'Anaao giovani sarda interventi importanti dovrebbero essere messi in campo per riorganizzare la formazione. «Bisogna cercare di abolire quel limbo nel quale spesso i medici si ritrovano senza far niente tra laurea e specializzazione. In Francia e Germania la formazione post lauream va in parallelo con l'attività lavorativa e si ha la possibilità di essere assunti all'interno della stessa struttura ospedaliera nella quale si è nati e cresciuti», conclude. «Tanti medici convivono con questa precarietà e grazie alla loro buona volontà si riesce ancora a garantire un'assistenza ai pazienti di livello medio-alto». Marcello Zasso ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 Set.. ’14 SARDEGNAIT, SCADUTI I CONTRATTI Il mancato rinnovo di alcuni contratti di servizio, ormai scaduti, getta ombre sul futuro dei 170 lavoratori di SardegnaIt , la società in house della Regione che opera nel settore Ict. L'allarme arriva dai sindacati regionali di categoria Filcams Cgil e Fisascat Cisl che chiedono all'assessore agli Affari Generali un incontro per discutere il nuovo modello organizzativo, le prospettive della società e la convenzione quadro in attesa di rinnovo. I contratti di servizio, come il Siar (sistema informativo agricolo regionale, scaduto il 31 luglio e che gestisce le anagrafi agricole e i fondi del Psr), il SiTr (sistema informativo territoriale regionale, scaduto il 31 agosto) e il Suap (sportello unico per le attività produttive) solo per citarne alcuni, non sono stati rinnovati per effetto di una delibera di Giunta dello scorso giugno (22/12) che, su indicazione della Comunità europea, ridefinisce i criteri di assegnazione dei servizi della Regione alle società in house. «Il necessario processo riformatore», dicono i sindacati «non deve paralizzare le attività e mettere a rischio i posti di lavoro, perciò è necessario che siano messe a disposizione le risorse necessarie al funzionamento dei servizi». LA RISPOSTA «Sul futuro di SardegnaIt e delle società partecipate in generale, la situazione è sotto controllo ed è in corso da parte della Regione un approfondimento sul loro ruolo, così come accade a livello nazionale», replica l'assessore regionale agli Affari Generali, Gianmario Demuro. Che aggiunge: «In settimana, i rappresentanti dei lavoratori riceveranno la convocazione per un incontro». ( ma. mad. ) _________________________________________________________ Il Gazzettino 22 set. ’14 MEDICI A SCUOLA DI ETERNA GIOVINEZZA VENEZIA Da oggi alla Fondazione Cini una "due giorni" mondiale sulla medicina rigenerativa "elisir di lunga vita" non e solo una promessa: con le staminali si ricostruiscono i tessuti malati Daniela Boresi MESTRE C'era una pratica che ha accomunato i ricchi e potenti della terra di tutte le latitudini e le ere: la riconquista della gioventù perduta attraverso alchimie e artifici. C'è chi, come gli imperatori cinesi, trovava gli elisir nelle placente delle proprie spose, altri usavano la stampella della chimica, altri ancora navigavano nell'empirico. Il sogno che la società culla da sempre è quello di regalarsi l'eterna giovinezza. Non solo intesa come freschezza del volto e turgore dei tessuti, ma anche come assenza di tutti quegli "acciacchi" che l'età si porta in eredità e che è un'impresa contrastare. Eppure la capacità di rigenerarsi ce l'abbiamo sempre avuta a portata di mano, tra le pieghe di una scienza che ha cominciato, da anni, a guardare le cellule staminali, con crescente curiosità. «È estremamente affascinante sapere che abbiamo in mano la capacità di rigenerarci, che in noi stessi si possono trovare cellule e cocktail di proteine in grado di limitare i danni dell'età - spiega Antoine Turzi, amministratore delegato di Regenlab, laboratorio di ricerca leader nello studio delle cellule staminali e nella loro applicazione, organizzatore da oggi alla Fondazione Cini di Venezia di "Generation-Regeneration", un focus mondiale sulla scienza rigenerativa - Oggi siamo in grado di rigenare i tessuti danneggiati dopo un trauma o lesionati dall'invecchiamento, riconsegnare la funzionalità in caso di artrosi, o ancora ridare il turgore giovanile ad un volto». Saranno gli esperti provenienti dalle più grandi università dal mondo, dagli Stati Uniti alla Spagna, dalla Francia a Taiwan, dalla Russia e soprattutto dalle migliori scuole italiane, per citarne solo alcune, che confronteranno nel corso di questa "due giorni" di alta scienza i loro studi. Il campo è affascinante quanto complesso. Banalizzando si potrebbe dire che l'uomo sta imparando a riavvolgere il nastro del film della propria vita, riportandolo agli anni migliori. Una ricerca, come spiega il dottor Turzi, che di anno in anno presenta passi avanti interessanti. «Le cellule staminali che funzionano sono quelle prelevate da un paziente e da lui utilizzate - continua Turzi - I campi di applicazione sono infiniti. Abbiamo visto che sono eccezionali nella cura dell'osteoporosi, delle articolazioni, ad esempio. L'uso delle staminali prese dal midollo osseo è più efficace di una protesi di metallo». Nessuna magia. Il nostro unico e fantastico alleato in questa conquista è il nostro corpo che attraverso il plasma ci fornisce tutto quanto serve, dopo essere stato opportunamente trattato ed arricchito, per ricostruire le parti danneggiate. Non è una ricerca nata oggi, ma un lungo percorso che anche Università come quella di Roma o di Firenze e Milano e Padova hanno passo passo costruito. Un sogno di giovinezza nato con la chimica, continuato appunto con l'estratto di plasma e approdato ad un altro prodotto biologico, l'uso delle cellule del midollo osseo del paziente. Oggi l'uomo è in grado di ripristinare una parte del proprio corpo e rinnovarla come fosse nuova. «Non sono tecniche empiriche, ci sono 2 milioni di persone al mondo che utilizzano oggi queste metodiche, per aggiustare i danni del tempo o per sistemare quelli provocati dai traumi - spiega Turzi - L'uomo sta imparando ad introdurre una medicina molto più naturale e meno tossica: è affascinante vedere come siamo in grado di progredire, affidandoci a nuove tecnologie che hanno radici però così antiche e profonde». ___________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 26 set. ’14 POLICLINICO, SCONTRO SUL BUCO MILIONARIO È IL BUCO NERO che rischia di inghiottire i conti dell'università. L'ex Azienda universitaria ospedaliera (liquidata nel 1999 con un debito di 750 milioni di euro) è rinata come struttura autonoma, ma accumula deficit spaventosi. I vertici sono stati sempre nominati dal rettore (toccherebbe alla Regione). La struttura ha un passivo di 70 milioni di euro e diversi contenziosi legali con l'università a cui cerca di accollare parte dei passivi. Un decreto del '99 lo richiede, così come auspicato dal piano triennale di rientro imposto dalla gestione commissariale della disastrata sanità del Lazio. Manca però il protocollo d'intesa, firmato a dicembre scorso ma bocciato dai ministeri competenti (e dallo stesso Frati). Il direttore, Domenico Alessio (vicino all'ex segretario Udc, Lorenzo Cesa) in una relazione alla Corte dei Conti - visionata dal Fatto - ha accusato i suoi predecessori di aver promosso senza concorso (né copertura) 1.606 dipendenti. Il Policlinico chiede a Sapienza il rimborso di 60 milioni di euro. La risposta di Frati è durissima: l'Ateneo spende circa 110 milioni per il personale distaccato e chiede all'Azienda a sua volta di pagare il personale docente con compiti assistenziali (40 milioni di euro). Deciderà il tribunale. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 24 Set.. ’14 TROPPI TEST GENETICI CREANO ANSIE INUTILI Uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Jama (Journal of American Medical Association) porta solidi argomenti a favore di un allargamento a tutte le donne del test per i geni Brca1 e Brca2, le cui mutazioni aumentano molto il rischio di tumore al seno. Finora questo test è stato consigliato solo a donne con altri casi di questa malattia in famiglia. Si può quindi dire che si tratta di una buona notizia in chiave di medicina preventiva. Se però si allarga lo sguardo sul proliferare indiscriminato dei test genetici e in particolare delle cosiddette «batterie di test», qualche considerazione meno entusiastica appare legittima. Per fare un esempio: è possibile sottoporsi al test per Brca1 e Brca2 e sentirsi proporre, per qualche soldo in più, una serie di analisi su altri geni. Così si potrebbe scoprire, per esempio, di non rischiare ciò che si temeva, ma di essere esposti a qualche altra patologia, per la quale non c’è nulla da fare in termini di prevenzione. Quanto esposti, poi? Talvolta il medico può dirlo, talvolta no. E, aspetto ancora più destabilizzante, le compagnie che producono le batterie di test sono in concorrenza e quindi propongono allettanti «pacchetti» differenziati, che aumentano le possibilità e la confusione. In attesa di saperne di più sul reale «peso» di molti di questi test restano allora due certezze. La prima è che non è una buona idea affidare speranze e timori a una serie indiscriminata di analisi genetiche senza la consulenza di veri specialisti, che ce le sappiano anche sconsigliare (oltre che interpretare) quando è il caso. La seconda è che, per fortuna, il nostro destino, in buona misura, possiamo costruircelo noi con uno stile di vita più sano. Luigi Ripamonti ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 26 Set.. ’14 ETEROLOGA: IN SARDEGNA COSTERÀ 400 EURO L'assessore regionale della Sanità Luigi Arru dovrebbe proporre alla Giunta un ticket di 400 euro per chi si sottoporrà in Sardegna alla fecondazione eterologa. La cifra corrisponde alla tariffa minima nella forbice stabilita ieri dalla Conferenza delle Regioni, che va da 400 a 600 euro. La delibera, già predisposta dagli uffici dell'assessorato, potrebbe essere esaminata dall'esecutivo la settimana prossima. Le linee guida sono state elaborate da Giovanni Monni, primario di Ginecologia all'ospedale Microcitemico di Cagliari, uno dei tre centri pubblici in cui è possibile eseguire la procreazione medicalmente assistita (attualmente impraticabile in strutture private). Gli altri due sono i reparti di Ginecologia del Policlinico di Cagliari e dell'azienda ospedaliero-universitaria di Sassari. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Set.. ’14 DONNE POCO ATTENTE A DIFENDERSI DAI TUMORI Prima vengono le vacanze, poi i vestiti e l’estetica, solo al quarto posto ci sono i controlli periodici per la salute che precedono (di pochissimo) divertimenti e medicine in caso di bisogno. Così le donne italiane, intervistate da AstraRicerche per Fondazione Umberto Veronesi, in un campione rappresentativo fra i 18 e i 65 anni, dicono di spendere i loro soldi. E se circa i due terzi delle interrogate dicono d’impegnarsi per raccogliere informazioni e mantenere un buon stato di salute, ben quattro su dieci in realtà non lo fanno abbastanza. Da un lato, infatti, affermano di seguire un’alimentazione sana e bilanciata, non bevono o comunque consumano poco alcol, non fumano, limitano l’uso di farmaci. Dall’altro, però, ammettono di non effettuare regolarmente visite o test per il tumore al seno: per distrazione, perché i costi sono elevati, perché non sanno bene che cosa fare, o per paura degli esiti. «Le buone intenzioni non bastano, è la diagnosi precoce che salva la vita» sottolinea Paolo Veronesi, direttore della Chirurgia Senologica dell’Istituto Europeo di Oncologia e Presidente della Fondazione, che ad ottobre (mese dedicato alla prevenzione del carcinoma mammario) torna a fare informazione e raccogliere fondi per la ricerca, con il progetto Pink is Good (http://pinkisgood.it/wp/). «Ogni anno in Italia — continua l’esperto — sono circa 46 mila i nuovi casi di tumore al seno, l’80% riguarda donne con più di 50 anni, ma cresce l’incidenza nelle 30-40 enni. E dal nostro sondaggio emerge che troppe giovani, soprattutto tra i 18 e 25 anni, sono poco informate e non fanno neppure l’autopalpazione del seno. Il messaggio è uno solo e semplice: se la malattia viene scoperta in fase iniziale la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è del 98 %». Studi e statistiche a livello mondiale lo hanno ampiamente dimostrato, ma vista l’ampia schiera di “indisciplinate” e di poco o male informate, bisogna ribadirlo: possiamo davvero influenzare le nostre probabilità di ammalarci di cancro. «Sovrappeso, scarso esercizio fisico , dieta ricca di carboidrati e di grassi saturi contribuiscono a far salire il rischio sensibilmente— dice Lucia Del Mastro, direttore dell’Unità per lo sviluppo di terapie innovative all’Istituto per la ricerca sul Cancro del San Martino di Genova —. E sottoporsi regolarmente agli esami appropriati può fare la differenza fra vivere e morire, perché prima si scopre il tumore, maggiori sono le chances di curarlo con successo». Sondaggio alla mano, quasi tutte le italiane sanno però che la predisposizione genetica (in particolare la mutazione nei geni Brca1 e Brca2) fa crescere molto il pericolo, così come l’aver avuto in famiglia mamma, nonne, zie o sorelle con un carcinoma mammario o alle ovaie. «Il programma di prevenzione dev’essere elaborato su misura, tenendo conto dei vari fattori di rischio, ma anche delle caratteristiche anatomiche delle mammelle, molto diverse da donna a donna e nella stessa donna a diverse età» chiarisce Veronesi. «Giovanissime o meno, le donne non devono preoccuparsi, ma occuparsi del proprio seno per rendere la malattia sempre più curabile — aggiunge Del Mastro, che interverrà domani, 29 settembre, a un incontro organizzato a Milano, nella sede del Corriere della Sera, in occasione del Congresso europeo di oncologia (Esmo) —. Solo 20 anni fa le probabilità di guarigione completa erano la metà di quelle attuali. Il merito è di prevenzione e diagnosi precoce, oltre che di cure più efficaci e personalizzate». Oggi, se il nodulo è individuato quando è piccolo, l’intervento chirurgico può essere risolutivo e poco invasivo. In tutti gli altri casi, grazie ai progressi della ricerca, ci sono svariate strategie che possono essere combinate o usate in sequenza a seconda dei casi. «La tempestività resta importante anche durante le cure» spiega Alberto Farolfi, oncologo dell’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori di Forlì e coordinatore di uno studio presentato al convegno Esmo in corso a Madrid. Ad esempio, nelle donne con tumori scoperti quando sono ancora piccoli e circoscritti, ma che hanno la tendenza a crescere rapidamente, bisogna aspettare giusto il tempo di recuperare dall’intervento e cominciare la chemioterapia al massimo entro sei settimane. «Rispettando questi tempi si possono ridurre sia il rischio di ricadute sia la mortalità —chiarisce Farolfi —. È la conclusione a cui siamo giunti dopo aver seguito per più di 8 anni e mezzo oltre 700 donne colpite da carcinoma mammario con un elevato indice di proliferazione, scoperto però nella gran parte dei casi in una fase iniziale, con linfonodi negativi o un solo linfonodo positivo. È una situazione molto simile a quanto osserviamo ogni giorno nella pratica clinica, perché grazie agli screening e alla prevenzione è più raro trovare donne con un tumore già esteso oltre la mammella». Vera Martinella ____________________________________________________________ Corriere della Sera 28 Set.. ’14 DEVE AUMENTARE L’ADESIONE ALL’OFFERTA DEGLI ESAMI DI SCREENING Che le donne siano tradizionalmente attente alla salute più degli uomini è un fatto innegabile, ma quando si tratta di tumori restano ampi margini di miglioramento. A testimoniarlo ci sono anche i numeri contenuti nel Rapporto 2014 dell’Osservatorio nazionale screening. Nel corso del 2012 più di tre milioni di italiane sono state chiamate a fare lo screening con Pap test per la diagnosi precoce del cancro dell’utero, ma soltanto il 41 per cento ha accettato l’invito. E se a oltre quattro milioni di connazionali è stata offerta l’opportunità del test Sof (quello per la ricerca del sangue occulto nelle feci) per il colon retto, ha aderito solamente la metà delle donne e il 45 per cento dei maschi. «Troppo pochi, specie se si considera che sono esami gratuiti, rapidi e indolore e che potrebbero salvare la vita — sottolinea Stefano Cascinu, presidente dell’Aiom, l’Associazione italiana di oncologia medica —. Sebbene i dati provino un impegno maggiore nella compagine femminile, non si può dire che siano soddisfacenti. Tanto più che riguardano il secondo tumore più diffuso fra le donne, quello del colon, e il quarto, quello al collo dell’utero o cervice uterina (al primo e terzo posto ci sono rispettivamente carcinoma mammario e polmonare, ndr )». L’importanza di fare gli esami appare chiara anche a fronte dei nuovi casi di questi tumori (quasi 55mila nel 2013 le diagnosi di carcinoma colorettale e 8.200 quelle di neoplasia uterina) e dei vantaggi che si potrebbero trarre da una diagnosi precoce. «Un test Sof (in Italia offerto gratuitamente ogni due anni ai cittadini fra i 50 e i 70 anni) diminuisce del 20 per cento il rischio di ammalarsi di carcinoma colon- rettale e del 40 per cento quello di morirne — prosegue Stefanoi Cascinu, presente in questi giorni al Congresso europeo di oncologia Esmo, in corso a Madrid —. E un Pap test ogni tre anni (l’invito arriva alle italiane fra i 25 e i 64 anni) riduce del 60-70 per cento la probabilità di sviluppare un cancro della cervice. Con il test per la ricerca dell’Hpv o Papillomavirus, che in alcune Regioni già sostituisce il “vecchio” Pap test, questa protezione cresce ulteriormente». Con gli esami di screening, poi, è possibile scoprire e curare persino le formazioni benigne che possono nel tempo degenerare in tumori di utero e colon, prevenendo così del tutto l’insorgenza di un carcinoma. Senza considerare che dal 2007 ormai tutte le ragazzine 11enni vengono invitate a vaccinarsi contro il virus Hpv, primo responsabile del tumore alla cervice uterina, in modo tale da poterne essere praticamente immuni. Ma anche in questo caso ci sono margini di miglioramento: la copertura vaccinale nel nostro Paese è ferma al 69 per cento, ovvero tre ragazzine su dieci non colgono l’opportunità offerta. Per quanto riguarda il tumore al colon, oltre ai controlli, per limitare le probabilità d’ammalarsi, conta poi molto anche lo stile di vita: «Il rischio sale in chi è sovrappeso e cresce persino del 33 per cento nelle persone obese — spiega Fortunato Ciardiello, professore di Oncologia Medica alla SecondaUniversità di Napoli e presidente eletto Esmo —. Questa neoplasia è direttamente associata ad un’alimentazione ad alto contenuto calorico, ricca di grassi animali e carni rosse e povera di fibre: bisogna aumentare frutta e verdura, ridurre pane e cereali raffinati, patate, carne rossa, dolci e zucchero. Fare attività fisica regolarmente è altrettanto importante. E per chi ha una familiarità o altri fattori predisponenti (come morbo di Crohn o rettocolite ulcerosa) è consigliabile anticipare i controlli verso i 45 anni ed eseguire una colonscopia raggiunti i 50anni». V. M. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 28 Set.. ’14 MISSION POSSIBLE: CURARE LA MORTALITÀ Il nuovo business dei big della Silicon Valley è l'industria anti-età con investimenti milionari in startup e ceo stellati Roberto Manzocco a Mentre l'industria anti età – cioè tutte le pratiche che mirano a nascondere i segni del tempo, dai cosmetici alla chirurgia estetica – continua a vivere e prosperare, nella Silicon Valley si intravede la nascita di un nuovo paradigma, per il quale il processo d'invecchiamento dovrebbe essere trattato quasi come una patologia, da curare con terapie tutte ancora da inventare. E a guidare la carica è, dal settembre del 2013, la Calico (California Life Company), compagnia biotech sita a San Francisco e voluta da Google, con l'obiettivo di studiare la biologia dell'invecchiamento, al fine di rimandare la vecchiaia il più possibile. Questa almeno la sua mission, anche se gli obiettivi sottostanti sembrano ancora più ambiziosi; tanto che, nella copertina dedicata, «Time» ha titolato in modo eloquente «Google vs. Death». Calico nasce da un'idea di Bill Maris, manager di Google Venture, che si è chiesto il perché molte compagnie cerchino di curare questa o quella patologia, senza preoccuparsi di intervenire sulla causa sottostante a molte di esse, cioè il processo d'invecchiamento. Infine è sceso in campo il Ceo di Google Larry Page, che molto ottimisticamente ha parlato della possibilità di aumentare forse anche di 100 anni l'aspettativa di vita dei ventenni di oggi. Ceo della Calico è Arthur Levinson, presidente della Apple ed ex presidente di Genentech. La compagnia ha inoltre assunto Cynthia Kenyon, ricercatrice dell'Università della California. Nell'ambito della biogerontologia, la Kenyon è una figura leggendaria: nel 1993 è diventata famosa per essere riuscita, modificando un singolo gene, a raddoppiare l'aspettativa di vita del Caenorhabditis elegans, un verme nematode. A differenza delle altre startup biotech, che abbisognano di ritorni economici immediati, la Calico è provvista di una maggiore flessibilità, e potrà lavorare sul lungo periodo. E questo mese la compagnia ha annunciato una partnership con il colosso biofarmaceutico Usa AbbVie, assieme al quale lancerà un centro di R&D, con lo scopo di scoprire terapie per il trattamento delle patologie legate all'età. Sette mesi dopo la Calico, è sceso in campo Craig Venter. A marzo il celebre genetista ha lanciato la Human Longevity Inc., startup che punta a lavorare su salute ed estensione dell'aspettativa di vita, con un budget iniziale di 70 milioni di dollari. La Human Longevity mapperà 40mila genomi appartenenti a persone sane e malate, vecchie e giovani, al fine di costruire il più ampio database del mondo sulla variabilità genetica umana. Si raccoglieranno inoltre dati sui genomi degli organismi che vivono in simbiosi con noi, come batteri e funghi. Vola basso, Venter, e sostiene che il suo lavoro non mira per forza al prolungamento della vita. Tra i cofondatori c'è però anche Peter Diamandis, il presidente della X-Prize Foundation – quella del volo spaziale privato –, che dice senza mezzi termini di mirare a «fare dei cento anni i nuovi sessanta». La compagnia venderà il suo database, ma svilupperà anche terapie a base di staminali per trattare l'invecchiamento. Citiamo poi il Palo Alto Longevity Prize, che offre un milione di dollari a chi contribuirà alla decodifica del processo d'invecchiamento. Sostenuto da diversi soggetti privati, il Palo Alto Longevity Prize è stato lanciato dall'imprenditore Joon Yun. L'iniziativa comprende due premi. Il primo è dedicato a chi riuscirà in un mammifero a riportare a livelli giovanili il tasso di variabilità del ritmo cardiaco, sintomo della capacità dell'organismo di mantenere l'equilibrio omeostatico, e quindi la stabilità termica e chimica. Il secondo premio andrà a chi riuscirà ad aumentare l'aspettativa di vita di un mammifero del 50 per cento. Non è un caso che tutte queste iniziative nascano proprio attorno alla Silicon Valley, ricettacolo per visionari desiderosi di scommettere su imprese che altrove verrebbero bollate come "troppo audaci" o "folli". Per fare un esempio di questa strana commistione tra business e tecnoutopia citiamo il caso emblematico di Peter Thiel, investitore molto ascoltato in Silicon Valley, uno dei fondatori di Paypal, nonché il primo investitore esterno di Facebook. Ed è anche un sostenitore dell'idea che l'umana mortalità debba essere in qualche modo "curata". Thiel ha donato più di sei milioni di dollari ad Aubrey de Grey, il controverso biogerontologo britannico che mira a cancellare il processo di invecchiamento tramite un set di terapie miranti a trattarne tutti gli aspetti. E Thiel non è l'unico; citiamo ad esempio Larry Ellison, presidente e cofondatore della Oracle, la cui Ellison Foundation investe 50 milioni di dollari all'anno nella ricerca contro l'invecchiamento. In sostanza, l'ambizione di questi longevisti è sì quella di superare il limite massimo raggiungibile dai normali esseri umani – il primato va alla francese Jeanne Calment, morta nel 1997 a oltre 122 anni –, ma è anche quella di rimandare il più possibile la fragilità della vecchiaia – finendo tra l'altro per ridurre i costi per il sistema pensionistico e per quello sanitario –. Il che capiterebbe pure al momento giusto, visto che una recente analisi dell'Onu uscita su «Science» paventa non solo la possibilità che la popolazione mondiale raggiunga gli 11 miliardi entro il 2100, ma anche che Europa, Giappone, Cina, India e Brasile siano in procinto di affrontare un rapido ed economicamente problematico invecchiamento della popolazione. Mai come ora è il caso di dire: chi vivrà, vedrà. ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 27 Set.. ’14 UROLOGIA. DISFUNZIONE ERETTILE E IPERTROFIA PROSTATICA, GLI UOMINI LE SOTTOVALUTANO Solo un uomo su quattro pensa che la disfunzione erettile sia una vera e propria malattia e uno su tre la ritiene una conseguenza normale dell'età che avanza. Meno di uno su tre ritiene l’ipertrofia prostatica “degna” di cure. I dati di un'indagine dell’Osservatorio “Pianeta Uomo” presentati all'87° Congresso nazionale Siu a Firenze 28 SET - Un uomo su dieci soffre di disfunzione erettile, in un caso su due accompagnata da una prostata ingrossata, mentre l'ipertrofia della ghiandola riguarda il 16 % della popolazione.Ma solo un uomo su quattro vede la disfunzione erettile come una malattia, e quindi non parla con il medico e non si cura, e uno su tre pensa sia una normale conseguenza dell'età. Così i pazienti di fatto si rassegnano a subirne i disagi, vivendo la propria condizione con imbarazzo e preoccupazione fino ad arrivare a sentirsi depressi in un caso su tre. L'ipertrofia prostatica invece è vissuta più “alla luce del sole”, come una vera malattia che comporta un impatto elevato sulla qualità di vita, persino maggiore di quello di diabete, ipertensione o gastrite. Il risultato? Oltre al disagio fisico si determinano anche conseguenze negative sulla vita personale e di coppia. E la cattiva sessualità ha un impatto negativo sulla qualità di vita. Un circolo vizioso difficile da controllare. A fotografare il “disagio” maschile sono i dati di un'indagine dell’Osservatorio “Pianeta Uomo” presentati durante l'87° Congresso Nazionale della Società Italiana di Urologia, a Firenze dal 27 al 30 settembre. Un sondaggio, condotto su mille uomini over 40 per capire le loro conoscenze, esperienze e preoccupazioni in materia di disfunzione erettile e ipertrofia prostatica benigna. Se la maggioranza degli uomini non vede la disfunzione erettile come una malattia, in caso di ipertrofia prostatica invece, pur pensando che il problema sia un'inevitabile conseguenza dell'età, gli uomini sono più “combattivi” perché quattro su dieci la considerano una vera patologia: più preoccupati che depressi o imbarazzati, i pazienti ritengono che la prostata ingrossata incida sulla loro qualità di vita più di malattie come il diabete, l'ipertensione o la gastrite. E gli effetti si fanno sentire soprattutto sulla vita lavorativa. “Solo un uomo su quattro sa che la disfunzione erettile è una vera malattia – osserva Vincenzo Mirone, segretario generale della Siu – paradossalmente, la percentuale di consapevoli scende ulteriormente fra chi ne soffre: meno di un paziente su cinque pensa che il suo disturbo richieda terapie, il 30% crede sia semplicemente una conseguenza dell'età. Qualcosa di analogo accade fra chi ha la prostata ingrossata, ritenuta però una patologia da un numero maggiore di uomini (41%): anche in questo caso paradossalmente nei pazienti la consapevolezza scende e meno di uno su tre la ritiene “degna” di cure. Tutto questo indica che si tratta di due problemi sottovalutati da chi ne è colpito e ciò può portare a non ricorrere a trattamenti che potrebbero migliorare molto la qualità di vita”. Purtroppo, infatti, queste patologie incidono moltissimo sulla quotidianità di chi ne soffre: per la maggioranza dei pazienti dormire diventa problematico perché si svegliano almeno un paio di volte per notte, quattro giorni su sette; lo stress inoltre si fa sentire e se negli uomini sani la colpa è soprattutto del lavoro (59%), quanto irrompe la disfunzione erettile o l'ipertrofia prostatica sono i problemi di salute a mettere sotto pressione, nel primo caso associati anche a difficoltà di coppia e familiari. “I pazienti con la prostata ingrossata indicano l'ipertrofia come una patologia dal forte impatto sulla qualità di vita, specificando che la considerano più grave di diabete, ipertensione o gastrite: oltre il 60% è preoccupato per la propria malattia, uno su tre vive difficoltà sul lavoro per colpa della malattia, uno su cinque esce perfino di meno con gli altri a causa dell'ipertrofia – fa notare Mirone –. Invece gli uomini con disfunzione erettile, pur ammettendo di essere pochissimo soddisfatti della propria qualità di vita e della relazione con la partner, sono di fatto più rassegnati (23%) e in imbarazzo (25%), uno su tre è preoccupato o depresso, solo quattro su dieci trovano davvero il coraggio di parlarne: uno su tre è a disagio ad affrontare il discorso con la partner, contro uno su cinque quando il problema è l'ipertrofia prostatica. Tutto questo indica che si tratta di due patologie tuttora affrontate in maniera inadeguata dagli uomini, seppure per motivi e in modi diversi”. È fondamentale quindi che il medico diventi il “tutor” del paziente: è stato infatti dimostrato che gli uomini, se vengono seguiti e sostenuti dal proprio medico, sono soddisfatti delle cure, non le abbandonano e trovano finalmente una soluzione per i loro problemi tornando a una buona qualità di vita”. ____________________________________________________________ Quotidiano Sanità 26 Set.. ’14 CARENZA FARMACI. LA DENUNCIA DI ALTROCONSUMO: "ALCUNI NON PIÙ DISPONIBILI, ALTRI RICOMPARSI CON PREZZI AUMENTATI FINO AL 1630%" Da febbraio 2014 ad agosto 2014 sono arrivate attraverso il sito Altroconsumo 170 segnalazioni da parte di consumatori e anche di alcuni farmacisti. Ad attirare l'attenzione il caso di tre farmaci tumorali: Alkeran, Leukeran e Purinethol. Tutti della Aspen Pharma: scomparsi in momenti diversi sono riapparsi con un prezzo lievitato, rispettivamente, del 1630%, del 1265% e del 565%. 26 SET - Farmaci essenziali carenti sul mercato, i pazienti non li trovano, non hanno alternative. Casi-limite: farmaci spariti dalla distribuzione e poi riapparsi mesi dopo, con prezzi aumentati anche di sedici volte, passando da 5,23 euro a 85,33 euro, come nel caso dell'Alkeran. Problema reale e persistente, la carenza di alcuni medicinali; molti di questi farmaci sono di classe A, cioè ritenuti essenziali. Da febbraio 2014 ad agosto 2014 sono arrivate attraverso il sito Altroconsumo 170 segnalazioni da parte di consumatori e anche di alcuni farmacisti. Segnalate sia carenze di prodotti su cui c’era già stata comunicazione ufficiale, noti all’Agenzia Italiana del Farmaco e reperibili sul sito di Aifa, sia carenze non note, né ufficiali, non comprese nell’elenco di Aifa, ma reali, tangibili, segnalate dai consumatori e inoltrate da Altroconsumo all’Aifa. Intanto però il fenomeno è degno di attenzione. Dietro la sparizione di un farmaco ci possono essere diverse motivazioni: problemi produttivi o regolatori, esportazione parallela, traffici illegali. Ogni caso dev’essere valutato a sé. Ma ha attirato la rabbia dei pazienti e la curiosità di Altroconsumo il caso di tre farmaci per il trattamento dei tumori: l’Alkeran, il Leukeran, il Purinethol, tutti della Aspen Pharma: scomparsi dalla circolazione in momenti diversi sono riapparsi con un prezzo lievitato, rispettivamente da 5,23 a 85,33 euro (+1630%), da 7,13 a 90,20 euro (+1265%), da 15,98 a 90,35 euro (+565%). Delta di prezzo enormi, tali da portare Altroconsumo a chiedere immediate spiegazioni formali all’Aifa, che ha rinegoziato il prezzo con la casa produttrice e al ministero della Salute. Una lettera indirizzata alle due istituzioni non ha ancora ricevuto risposta. In qualche caso la carenza è risolvibile chiedendo al medico la prescrizione di un farmaco equivalente. Quando non ci sono alternative, il problema per i pazienti può diventare più serio; se le carenze sono note ad Aifa, l’Agenzia può mettere in atto azioni di monitoraggio e adottare misure di contenimento del disagio per i pazienti (per es. autorizzare l’importazione del medicinale dall’estero); se invece le carenze non sono note ad Aifa, nessuna misura di protezione per i pazienti può essere adottata. Il fenomeno è complesso e deve essere affrontato e risolto con la collaborazione di tutti i soggetti sul mercato, in primis i farmacisti, che hanno in passato cercato di attirare l’attenzione sul problema. "L’attività di monitoraggio dovrebbe essere incrociata - segnala Altroconsumo - i singoli farmacisti, le associazioni di categoria dovrebbero essere coadiuvati nel segnalare ad Aifa e al ministero della Salute le carenze di medicinali che riscontrano nel lavoro quotidiano. Auspicabile attivare un servizio di segnalazione delle carenze rivolto ai consumatori".