RASSEGNA STAMPA 05/10/2014 COSTI STANDARD SENZA 700MILA FUORI CORSO MA I «PREMI» RISCHIANO DI DIMENTICARE GLI STUDENTI UNIVERSITÀ, ALMENO 20MILA I FUORI CORSO IL RETTORE MELIS: «NUMERI SBAGLIATI, C’È UNA FLESSIONE» IL RETTORE MASTINO: «PER ORA MOLTI PUNTI DI TENUTA FORTE» UNICA: ALL'ATTACCO DEI FUORICORSO UNIVERSITÀ, PRIMATO ITALIANO IMPOSTE CRESCIUTE DEL 63% SARDEGNA: TASSE BLOCCATE NEGLI ATENEI SCONTI PER I REDDITI BASSI E MAGGIORAZIONI PER I FUORI CORSO LE RICHIESTE DEGLI STUDENTI: PIU SERVIZI APPELLO CONTRO UN'UNIVERSITÀ DI GRIGI BUROCRATI UNIVERSITÀ, RICERCANO STIPENDI GAUDIO NUOVO RETTORE DELLA SAPIENZA: ANCORA MEDICINA GAUDIO: FARÒ UN'UNIVERSITÀ PER TUTTI LA SCUOLA ITALIANA NON È INTERNAZIONALE, LO DICONO I PROF ATENEI, NELLA TOP 100 LA NORMALE DI PISA BENVENUTI AL NOBEL DEGLI ERRORI SARDEGNA RICERCHE, UNA NUOVA LEGGE LAVORO: CGIA, UN DIPENDENTE SU TRE SI AMMALA DI LUNEDÌ. SE VOLETE ESSERE CREATIVI IMPARATE AD ANNOIARVI MOBY PRINCE, 21MILA FIRME LA SCIENZA APERTA DALL'OPEN SOURCE E-LEARNING OPPORTUNITÀ D'ITALIA ========================================================= PIGLIARU: TAGLIARE LE ASL SANITÀ ALLA RESA DEI CONTI ARRU: IL DEFICIT VA ABBATTUTO SUBITO ASL, MAGGIORANZA AI FERRI CORTI TEDDE (FI): LA GIUNTA CONDIZIONA I MANAGER CORSI PER OPERATORI SOCIO-SANITARI SARDEGNAIT, L'ALLARME DEI SINDACATI: COSA VUOL FARE DI NOI SPECIALIZZAZIONI MEDICINA EVITIAMO LE FARSE MEDICINA A TARANTO IL CORSO DI LAUREA RISCHIA LA CHIUSURA ANTITRUST, MAXI-MULTA AI MEDICI ATTESE PER LE CURE E PROBLEMI CON I TICKET SANITÀ, ALMENO UN MILIARDO DI TAGLI SANITÀ PRIVATA: COI TAGLI AI RIMBORSI 800 LICENZIATI UFFICIO TECNICO A RISCHIO, AL BROTZU TIRA ARIA DI SCIOPERO RIDATECI UN VERO MEDICO DELLA MUTUA LA METRO RESTA UN DESIDERIO: LAVORI FERMI, PENDOLARI FURIOSI SANITÀ DIGITALE. PER 51% DEI DIRIGENTI SANITARI LA TEMPESTA DI GHIACCIO DEL '98 IMPRESSA NEL DNA VERONESI:LA CENTRALITÀ DEL PAZIENTE, È STATA LA MIA RIVOLUZIONE" HIV, IL VIRUS NASCE NEGLI ANNI 20 IN CONGO I BATTERI MANGIA SUDORE CONTRO LE MALATTIE DELLA PELLE ECCO PERCHÉ L'ESERCIZIO FISICO COMBATTE LA DEPRESSIONE LO SPORT PER PREVENIRE LE MALATTIE «DAREMO 46 MILIONI ALLE SOCIETÀ» VANDANA SHIVA: "IO, SPINA NEL FIANCO DELL'INDUSTRIA OGM VIETARE GLI OGM È UN GRAVE DANNO PREMIO INTERNAZIONALE AL BUSINCO DI CAGLIARI ANGELUCCI: LA CERTIFICAZIONE DELLA QUALITÀ DEL NOSTRO LAVORO DAL PEPERONCINO UN AIUTO PER RIDURRE L’APPETITO DI CHI DEVE STARE A DIETA NESSUNO CONTROLLA I PACEMAKER ITALIANI «NON C’È L’OBBLIGO» ========================================================= ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Sett,’14 COSTI STANDARD SENZA 700MILA FUORI CORSO Record di ritardatari a Potenza e L'Aquila - Studenti più regolari allo Iuav di Venezia e al Politecnico Gianni Trovati A Potenza, L'Aquila e Cagliari più di metà degli iscritti sono fuoricorso, mentre all'altro capo della classifica degli atenei statali si incontrano lo Iuav di Venezia e il Politecnico di Milano, dove meno di uno studente su tre ha sforato la «durata legale» del suo corso di studio. I tempi lunghi con cui si arriva alla laurea sono uno dei mali storici della nostra università, e nemmeno la riforma degli ordinamenti l'ha cancellato. Negli ultimi dieci anni, in una sola occasione (nel 2007/2008) la quota di iscritti regolari ha superato di un soffio il 60%, per poi ridiscendere al 58,9% registrato nel 2011/2012: 700mila studenti, insomma, sono fuori corso. Del problema ora prova a occuparsi anche il sistema di finanziamento, con l'arrivo dei «costi standard per studente» che da quest'anno dovrebbero cominciare a misurare i fondi a ogni università statale. Il principio dei costi standard, che attua uno dei capitoli più importanti della riforma Gelmini, prova a contrastare gli "sprechi" misurando i fondi da assegnare a ogni ateneo statale in base ai corsi (e al conseguente numero di docenti), alle attività aggiuntive e ai servizi che offre. Per trovare il costo standard per studente, qui sta il punto, questi dati vengono parametrati alla popolazione studentesca, calcolando però solo gli studenti iscritti «entro la durata normale del corso di studio». Il meccanismo è fissato dal decreto attuativo della riforma (articolo 8 del Dlgs 49/2012), e naturalmente torna nelle elaborazioni dei tecnici ministeriali destinate a sfociare nei prossimi giorni nel provvedimento definitivo insieme al decreto sulla distribuzione del fondo di finanziamento ordinario. Quest'anno i costi standard dovrebbero governare poco meno di un miliardo di euro, cioè il 20% della «quota base» del fondo ordinario, ma il loro peso è destinato a raddoppiare nel 2015 e a crescere progressivamente fino ad abbracciare il 100% del fondo-base (oggi vale 5 miliardi, a cui si aggiungono gli 1,2 distribuiti in base agli indicatori di qualità e i 900 milioni per altri interventi). Cifre di questo tipo, ovviamente, sono più che sufficienti ad agitare rettori e docenti, e nei giorni scorsi il Consiglio universitario nazionale, esprimendo «forti riserve» per il fatto che i meccanismi di base dei costi standard non sono ancora stati illustrati nel dettaglio, ha raccomandato al ministero di «considerare la complessità del sistema», per definire un metodo in grado di adattarsi alle tante variabili delle accademie italiane. La stessa geografia del tasso di fuoricorso aiuta a individuarne qualcuna. Anche su questo indicatore, prima di tutto, l'università appare spaccata fra Nord e Sud, e non vede alcun ateneo meridionale fra i venti "migliori" e la sola Pisa fra i venti "peggiori". A spiegare il fenomeno è un mix di fattori, dall'emigrazione universitaria, che muove verso il Nord molti fra gli studenti più motivati, al livello medio di servizi e strutture, che penalizza gli studenti in tante università del Mezzogiorno insieme ai "buchi" crescenti nel diritto allo studio. Non è indifferente, poi, il livello medio delle tasse universitarie, più alto al Nord, perché quando si paga mediamente di più (e spesso si affrontano anche i costi dell'alloggio, perché si è fuori sede) si ha una spinta maggiore ad arrivare prima al traguardo. Conta molto anche la tipologia dei corsi offerti, perché (è sempre l'Anvur a dirlo) a Medicina è «regolare» più del 70% degli iscritti, mentre a Veterinaria e Scienze della formazione la loro quota non arriva al 57 per cento. Anche all'interno della stessa area di studio, poi, la presenza del numero chiuso con selezione all'ingresso può fare la differenza, come mostra per esempio il confronto fra diverse facoltà di architettura. gianni.trovati@ilsole24ore.com ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 29 Sett,’14 MA I «PREMI» RISCHIANO DI DIMENTICARE GLI STUDENTI Gianni Trovati Come i castelli dei romanzi gotici, l'università italiana è piena di fantasmi. Lo sono, prima di tutto, gli oltre 300mila studenti che sono presenti nelle liste degli iscritti, ma non appaiono praticamente mai a un appello d'esame: sono dappertutto, ma in alcuni atenei raggiungono percentuali da capogiro fin quasi a sfiorare il 50% degli iscritti come accade a Foggia o a Benevento (dati Anvur). Gli studenti, però, stanno diventando incorporei anche nei criteri di distribuzione della «quota premiale», cioè di quella parte del Fondo di finanziamento ordinario che tocca a ogni università sulla base delle proprie performance di qualità. Quest'anno, con un atto di coraggio che sta facendo storcere il naso in parti del mondo universitario, il ministro Giannini ha deciso di dedicare ai «premi» 1,22 miliardi, il 50% in più dell'anno scorso, ma nella girandola dei parametri gli studenti sono quasi spariti: "valgono" 121 milioni, invece dei 240 milioni promessi nella lettera di fine luglio scritta dal ministro alla Crui e invece dei 280 del 2013, ma solo se hanno sostenuto qualche esame all'estero, mentre se rimangono in Italia non contano nulla. L'orizzonte internazionale (che è qualcosa di più complesso dell'Erasmus) è importante, certo, ma cancellare del tutto i parametri legati all'attività degli studenti nelle loro università italiane (oltre a dimenticare definitivamente i criteri legati agli esiti occupazionali e ai giudizi dei laureandi sui corsi frequentati, previsti dalle leggi e mai applicati) è una mossa drastica. A motivarla non basta l'altro atto di coraggio (perché tale è, da noi, applicare davvero qualcuna delle riforme scritte in «Gazzetta Ufficiale») rappresentato dall'introduzione effettiva dei costi standard. Il meccanismo individuerà il finanziamento da attribuire a ogni università in base al rapporto fra le attività che offre e gli studenti che serve, considerando però solo gli studenti regolari: un disincentivo evidente alla proliferazione dei fuori corso, fra cui ci sono i tanti studenti che si presentano solo all'ufficio iscrizioni. Una manovra "a tenaglia" fra costi standard e premi legati alla didattica avrebbe forse assestato colpi duri a qualche ateneo, mettendo a rischio la tenuta anche politica dell'operazione, ma gli incentivi basati quasi solo sui risultati (passati) della ricerca finiscono per essere squilibrati. La scelta di escludere i fuori corso dai calcoli sui costi standard, poi, è corretta, ma per essere davvero efficace merita di essere affinata nel tempo. Nelle nostre università, per esempio, esistono anche gli studenti lavoratori, che dedicano solo una parte del tempo a libri ed esami e quindi finiscono spesso fuori corso. In tutta Europa, Italia compresa, esiste l'iscrizione part-time, che permette di considerare la loro condizione (e di far pagare meno tasse d'iscrizione a chi utilizza solo una parte dei servizi universitari), ma è quasi ignorata dai nostri atenei. L'arrivo dei costi standard è l'occasione giusta per rimediare. Parecchi fantasmi, infine, infestano anche i ruoli docenti: sono i professori che da anni non pubblicano nulla, e raramente salgono in cattedra, magari perché impegnati in più "soddisfacenti" attività professionali. La valutazione della ricerca targata Anvur ne ha stanati parecchi, ma l'anagrafe dei docenti prevista da anni dalla legge ancora non c'è. È un fantasma anche lei. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 Set. ’14 UNIVERSITÀ, ALMENO 20MILA I FUORI CORSO Isola maglia nera per Il Sole 24 Ore. Ma gli atenei di Sassari e Cagliari contestano i dati: le nostre performance sono migliori di Pier Giorgio Pinna SASSARI Fuori corso in Sardegna 25mila universitari? O "solo" 20mila su un totale di 50mila iscritti nei due atenei? C'è incertezza su percentuali e cifre esatte. Ma a ogni modo nell’isola questi numeri fanno riflettere. «A Sassari e a Cagliari un iscritto su due è in ritardo», ha sostenuto il "Sole 24 Ore". Ma le università sarde replicano: «Dati sbagliati». La classifica negativa per la Sardegna - pubblicata ieri dal quotidiano di Confindustria - è basata su rilevazioni dell'Agenzia per le valutazioni del sistema universitario. In quest'elenco l’ateneo di Sassari è al sesto peggior posto, con un 49% di fuori corso, su 59 sedi italiane. Quello di Cagliari viene indicato persino più in basso: con il 51,3% sarebbe preceduto nel non invidiabile primato unicamente da Potenza e dall'Aquila. Ma le due università contestano con forza questa ricostruzione. E forniscono percentuali differenti. Cagliari parla di un 43%, che la collocherebbe a metà graduatoria. Mentre a Sassari il numero dei fuori corso viene conteggiato in poche migliaia e la percentuale ridimensionata addirittura al 33%, fatto che la inserirebbe tra le migliori. Non è improbabile che sulla discrepanza tra statistiche influiscano definizioni non omogenee del termine "fuori corso" tra vecchio e nuovo ordinamento universitario. Da Sassari in particolare viene fatto osservare che per la graduatoria del “Sole” sarebbero stati presi in considerazione gli studenti “non regolari”, e non “i fuori corso”. Nell'isola il fenomeno si conferma comunque di proporzioni impressionanti. E solleva interrogativi. Come mai tanti ritardi? Le cause sono molteplici. E in qualche misura accomunano molte università del Meridione. Ma la tendenza non ha effetti negativi solo sulle prospettive dei singoli. Incide in maniera pesante anche sul futuro economico degli atenei. Infatti una parte del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) che ogni anno da Roma viene stanziata per tutte le università pubbliche, già oggi è collegata alla stima di queste performance. Più il dato è sfavorevole e più si riducono gli stanziamenti, nonostante nell'isola ci siano misure di compensazione basate sui numeri storici di ogni singolo quadro d'ateneo e sul minor reddito medio pro capite delle famiglie sarde rispetto ad altre regioni. Sia a Sassari sia a Cagliari il maggior numero di fuori corso si riscontra nelle facoltà umanistiche e in scienze giuridiche. La tendenza è meno accentuata a Medicina e in altri dipartimenti con test d'accesso rigidi. Sullo sfondo, al di là di percentuali così contrastanti, resta il perché di tanti fuori corso. Diverse le ragioni. Intanto, molti di loro non figurano nel regime universitario riservato agli studenti-lavoratori. Il motivo? Sono in parecchi a svolgere prestazioni in nero pur di frequentare i corsi e riuscire a laurearsi. Si va dalle baby-sitter alle colf e ai pony express delle pizzerie sino a tecnici, meccanici, pastori, contadini, operai: tutti in ostaggio di un sommerso che li penalizza due volte. Un'altra parte dei fuori corso è formata da pendolari con difficoltà nei trasporti che impediscono di frequentare le lezioni con regolarità. Questione della quale costituisce un sotto-problema, soprattutto a Cagliari, la mancanza di alloggi Ersu per tutti gli universitari che ne fanno richiesta. Tra gli altri punti grigi, oltre alla scarsa preparazione media a livello scolastico che parecchi si trascinano dietro nei primi anni di università con ovvii contraccolpi nel rendimento in facoltà, c'è infine un dramma sociale. L'impossibilità da parte di molti genitori cassintegrati, disoccupati o che hanno perso il posto di lavoro all’improvviso di garantire il pagamento costante delle tasse. E quindi di permettere ai figli universitari di rispettare anni e tempi prefissati per gli esami. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 Set. ’14 IL RETTORE MELIS: «NUMERI SBAGLIATI, C’È UNA FLESSIONE» Quei numeri, secondo l’ateneo di Cagliari, non solo non sono corretti: falsano i dati in controtendenza emersi in questi ultimi anni. Dall’università ricordano infatti come, anche durante l’inaugurazione del più recente anno accademico, il rettore avesse indicato la percentuale del 43,6% per i fuori corso del 2013, stesso anno di riferimento della graduatoria del “Sole”. Quello relativo a questi studenti è fra l’altro un dato in costante flessione, spiega adesso Giovanni Melis. Che aggiunge: «Resta una percentuale certamente importante, sulla quale stiamo lavorando, ma non ha di sicuro le dimensioni indicate». Gli uffici dell’università di Cagliari stanno prendendo contatto con l’Anvur - «che risulta aver fornito la percentuale sbagliata» - per comprendere la natura dell’errore commesso: perché «anche nell’Anagrafe degli studenti d’ateneo figura una percentuale molto più contenuta». ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 30 Set. ’14 IL RETTORE MASTINO: «PER ORA MOLTI PUNTI DI TENUTA FORTE» Il rettore dell'ateneo sassarese, Attilio Mastino, chiaramente è preoccupato per il mancato rispetto dei tempi da parte di troppi studenti. Ma tiene a sottolineare che per ora ci sono comunque forti punti di tenuta. E, sul piano finanziario per l’ateneo, spiega il perché. «Il calcolo del fondo 2014 non si discosterà molto da quello del 2013 – puntualizza – E un eventuale taglio non potrà superare il 3,5%. Il nostro bilancio di previsione - approvato in pareggio a dicembre - è già su questa linea». «In realtà non ci saranno così riduzioni rispetto al 2013: perché il costo standard per studente si limiterà quest'anno al 20% della quota base», sottolinea ancora. Non solo: «Alla base del 75% calcolata sulla spesa storica si sommano una quota premiale, prevalentemente sulla ricerca, del 18%, dato per Sassari discreto, e un intervento perequativo del 2,5% per Medicina ex Policlinici e per il disagio socioeconomico». E l'ultimo dato dovrebbe avvantaggiare Sassari. Non è però finita qui. Per il rettore sassarese, infatti, «risulta evidente che l'ateneo dovrà con rapidità migliorare le performance della didattica e aumentare il numero degli iscritti, perché il costo standard per studenti è destinato in futuro a essere l'indicatore principale per il calcolo del Fondo ordinario». Proprio per queste ragioni dall'università dell'isola sono partite di recente iniziative tese a rendere più attrative le università sarde e a far arrivare da noi ragazzi e ragazze di altri Paesi. «Una è quella avviata di recente con la Fondazione Banco di Sardegna che farà iscrivere gratuitamente nei nostri corsi gli studenti del Maghreb», ricorda a titolo esemplificativo Mastino. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 02 ott. ’14 ALL'ATTACCO DEI FUORICORSO Chi più ne ha, paga dazio. I fuoricorso, si sa, sono la spina nel fianco delle Università. E Cagliari non fa eccezione: sul groppone se ne porta ben 12.601, ossia il 43,6% di iscritti (28.902). È questo il loro peso reale, quello che poi va a incidere nella distribuzione dei finanziamenti statali, diminuiti del 20% dal 2009 a oggi (anche per via dei tagli ministeriali). Rimettere in “riga” un fuoricorso vuol dire dunque posizionare meglio l'Ateneo nelle graduatorie nazionali e internazionali, che sempre di più tengono in considerazione parametri legati alla produttività degli studenti e dell'Università (ricerca scientifica, internazionalizzazione). LA POLEMICA Si capisce pertanto perché anche una tacca di decimale può fare la differenza e far risentire l'Ateneo di Cagliari che, in una statistica del Sole 24Ore, si è visto affibiare il 51% di iscritti fuoricorso. «Niente di più sbagliato», ribatte il rettore Giovanni Melis: la cifra corretta, confermata in occasione dell'inaugurazione dell'ultimo anno accademico, «è il 43,6%». Sette punti percentuali di differenza che il rettore non intende farsi scappare. E ieri infatti li ha reclamati, contattando direttamente l'Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione dell'università e della ricerca, scoprendo, a suo favore, che nel calcolo dei fuoricorso erano stati considerati anche gli studenti iscritti a tempo parziale. I DATI Svelato l'arcano, la polemica si spegne ma la battaglia sui fuoricorso continua a essere una priorità dell'ateneo cagliaritano. Che comincia a vedere qualche risultato, grazie anche alle contromisure adottate negli ultimi anni per favorire la regolarità degli studi e disincentivare il fenomeno dei “parcheggiati”: dal 43,8% del 2010 si è passati al 43,6% attuale, dopo il 43,3% registrato lo scorso anno. Cifre ancora alte ma decisamente lontane dal passato quando ben oltre il 50% degli iscritti era irregolare, specie in alcune facoltà. Oggi i più indietro con il corso di studi sono gli studenti di Ingegneria e Architettura (il 54,8% è fuoricorso), seguiti dai colleghi degli Studi umanistici (46,6%) e di Scienze economiche, giuridiche e politiche (42%). Risultato: più della metà degli iscritti a Cagliari (28.902) è regolare contro un 43,6% in ritardo con gli studi. CHI SONO Quando si va fuoricorso? Se un ragazzo si iscrive a tempo pieno a un corso triennale, viene considerato fuoricorso dal quarto anno. Se si iscrive invece a tempo parziale (il caso di studenti lavoratori o pendolari) avrà a disposizione il doppio degli anni (dunque 6) per completare gli studi. Per gli atenei questo studente sarà considerato fuoricorso solo dal settimo anno in poi. L'Anvur, al contrario, li ha considerati irregolari a partire dalla fine della durata standard del corso, facendo così lievitare la percentuale dei fuoricorso al 51%. CONTROMISURE Oggi l'Università di Cagliari offre agli studenti una gamma di strumenti, dal progetto Orientamento finanziato con fondi europei ai corsi di riallineamento online (33 attualmente disponibili) fino al test di verifica proposto alle matricole per valutare la loro preparazione iniziale e colmare da subito le lacune che impedirebbero un regolare percorso di studio. C'è inoltre il meccanismo della decadenza, introdotto, con molte polemiche, qualche anno fa per gli iscritti ai corsi prima del '99. Finora nessuno è mai stato cancellato ma la misura ha smosso tanti studenti: «Oggi - ricorda il rettore - Cagliari laurea in media 4mila persone all'anno, con un trend in crescita, e un record nel 2012 con 4817 laureati». Numeri che fanno alzare la quota premiale dello Stato: dal 7% del 2009 oggi è salita al 16%. Insomma studiare premia sia gli studenti (con borse di studio per i fuorisede meritevoli) che l'Università. E chi non studia? Asino resta. E più povero, visto che le tasse costano di più. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 05 Ott.’14 UNIVERSITÀ, PRIMATO ITALIANO IMPOSTE CRESCIUTE DEL 63% I rincari in 10 anni. E in Germania si studia gratis Di là, in Germania, è caduta pure l’ultima «roccaforte», la Bassa Sassonia: dal 1° ottobre l’università è gratuita. Di qua le tasse restano. E aumentano del 63% in dieci anni. Tedeschi o no, quando si tratta dei conti del sistema accademico l’Italia non brilla. Lo spiega un documento della Commissione europea che ha preso in esame la contribuzione studentesca, le borse di studio e le esenzioni previste nella dichiarazione dei redditi. Ci si laurea gratis in Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia (e Germania). In Spagna per un percorso triennale si spendono 1.074 euro, in Belgio fino a 837, in Francia 183, in Gran Bretagna 11.099, tra 830 e 3.319 in Svizzera. L’Italia fa pagare in media 1.300 euro. L’Estonia, invece, spicca per la sua «originalità»: se lo studente raccoglie 30 crediti formativi in sei mesi (o 60 in un anno) non paga nulla. Altrimenti per ogni credito mancante deve sborsare 50-120 euro, a seconda del corso. Le cose non vanno meglio alla voce «diritto allo studio». Secondo il dossier comunitario siamo il Paese che dà meno supporto finanziario (tra borse per motivi di reddito e premi per merito), se si esclude la Grecia: lo riceve soltanto il 7,5% degli studenti. Lontani dalla Francia, dove lo ottiene più di un giovane su tre. Lontanissimi dalla Danimarca dove lo Stato, oltre a non far pagare le rette, mette a disposizione fino a 9.274 euro. E la percentuale italiana potrebbe pure diminuire — denunciano le associazioni studentesche — se va in porto un punto dello sblocca Italia che permetterebbe di far inserire alle Regioni i fondi per le borse nel patto di Stabilità. Un’università gratuita per tutti anche da noi? «Me lo auguro, magari non da un anno all’altro, ma per gradini», ragiona Ivano Dionigi, rettore dell’Università di Bologna, un ateneo che conta 87 mila iscritti. Sarebbe un modo, secondo il docente, «per fermare l’emorragia di studenti che non si iscrivono più nei nostri atenei e per trattenere quelli che vanno a formarsi all’estero. La fuga dei cervelli non è più solo quella dei ricercatori trentenni, ma anche dei 18-19enni». Sarebbe anche un modo «per garantire davvero il diritto allo studio: un principio costituzionale rispettato più negli anni 60-70 che oggi». Copiare la Germania sì, ma con due precisazioni. La prima: «Il sussidio non deve essere un assegno di pre-disoccupazione, ma deve verificare che lo studente abbia un percorso regolare negli studi, che dia gli esami». La seconda: «La gratuità non si può applicare a chi ha un reddito elevato, di centinaia di migliaia di euro». Tutto questo in tempo di crisi. «Mi rendo conto che per il Paese sarebbe un costo immediato notevole — continua Dionigi — ma si tratta di un investimento». Certo, per i tedeschi è facile. «A loro i soldi non mancano e a livello pro capite spendono più dell’Italia», aggiunge Stefano Paleari, numero uno dell’Università di Bergamo e presidente della Crui, la Conferenza dei rettori. Preso il finanziamento pubblico agli atenei nel 2012, la Germania ha dato alle sue istituzioni quasi 25 miliardi di euro, 304 per ogni cittadino. In Italia quella voce è stata di 6,6 miliardi, pari a 109 euro a testa. Un terzo. «E dal 2008 quella spesa è aumentata del 20% in Germania, ma diminuita del 14% in Italia». Paleari non è molto d’accordo sulla gratuità. «Noi e i tedeschi abbiamo sistemi diversi e di là le tasse non sono mai state altissime». Però, se vogliamo fare come loro, «dobbiamo copiare tutto il modello, altrimenti il meccanismo salta». «Quello che ci serve nell’immediato è una stabilità del sistema contributivo — analizza Paleari —: stop a ulteriori tagli dei finanziamenti statali e di conseguenza stop all’aumento delle tasse universitarie». Un modo per concentrarsi sul diritto allo studio «che in Italia funziona male ed è insufficiente». lberberi@corriere.it ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 01 ott. ’14 SARDEGNA: TASSE BLOCCATE NEGLI ATENEI Sos degli iscritti: più servizi A Sassari e a Cagliari il costo per frequentare le lezioni resta tra i più bassi d’Italia Agevolazioni per andare incontro ai meritevoli nel quadro generale delle spese di Pier Giorgio Pinna Nessun aumento delle tasse universitarie nell’isola. Gli atenei sardi hanno deciso di tenere calmierate le tariffe per le iscrizioni. Con una crisi sociale tanto devastante niente aumenti, quindi: meglio incoraggiare l’ingresso nei corsi di laurea. Ma gli studenti chiedono più servizi, una didattica aperta e borse di studio. SASSARI Tutto confermato: nessun aumento delle tasse universitarie nell’isola. Gli atenei sardi hanno deciso di tenere calmierate le tariffe per le iscrizioni. Con una crisi sociale tanto devastante niente aumenti, quindi: meglio incoraggiare l’ingresso nei corsi di laurea (scadenze per la prima rata di pagamento previste a metà ottobre), anziché costringere i ragazzi a rinunciare del tutto a qualsiasi chance oppure a dirigersi subito verso altre sedi accademiche. Ma gli studenti chiedono più servizi, una didattica aperta, garanzie di maggiore efficienza operativa. E contestano, in parte anche ai Consigli di amministrazione dei due Ersu, una serie di carenze. A Sassari come a Cagliari. I provvedimenti. C’è comunque da sottolineare in maniera positiva la scelta fatta dai due atenei sardi. In tutta Italia la crescita delle tasse negli ultimi 10-12 anni è stata notevole. Ovunque, una corsa affannosa per recuperare entrate. Il motivo? Sopperire ai tagli al Fondo di finanziamento ordinario imposti dalla riforma Gelmini. Così la via più breve sulla penisola è stata far pagare di più gli studenti. E ritoccare in modo generalizzato le tariffe per le prestazioni: ticket per gli esami di Stato, i tirocini e i test di ammissione alle facoltà a numero chiuso, spese per i corsi di dottorato e per quelli di specializzazione, contributi per i master e per il loro perfezionamento-aggiornamento. Gli incentivi. A Sassari e a Cagliari, al contrario, previste agevolazioni per gli iscritti che sono in regola con gli esami e che prendono buoni voti. Più penalizzate le migliaia di fuori corso: almeno 20mila su u totale di 50mila iscritti nell’isola. A Sassari, per esempio, ragazze e ragazzi che nel corso dell’anno accademico maturano almeno 40 “crediti formativi universitari” (Cfu) su 60 avranno diritto a una riduzione di 50 euro sull’importo delle tasse. «È una nuova misura premiale che si aggiunge a quelle che erano già a regime e che sono state confermate», spiegano in ateneo. Gli interventi e le risorse. Sempre a Sassari, ecco qualcuna delle chance offerte da tempo a chi ha conseguito maggiori meriti sul campo. Gli studenti che hanno preso il diploma di maturità con una votazione di 100/100 più la lode, e che si iscrivono per la prima volta in corsi di laurea triennale o magistrale a ciclo unico, per il primo anno sono esonerati dal pagamento della seconda e della terza rata. Gli iscritti che invece sono in regola con gli esami, e che alla fine ottengono il titolo finale con una votazione di 110/110 e lode entro l’ultima sessione estiva utile per restare in corso, avranno diritto al rimborso della seconda e terza rata. Le altre misure. Anche a Cagliari sono stati fissati contributi e agevolazioni economiche per chi riesce a percorrere senza intoppi il proprio percorso di studi. E certo in una realtà sociale difficile come l’isola la volontà dei due Senati accademici è stata orientata nel senso di creare nuovi incentivi alla frequenza. Così come quella dei rettori: Attilio Mastino sino a novembre per Sassari, dove tra un mese sarà sostituito dal nuovo eletto, Massimo Carpinelli, e Giovanni Melis, per Cagliari, cambio di guardia programmato per il prossimo anno. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 01 ott. ’14 SCONTI PER I REDDITI BASSI E MAGGIORAZIONI PER I FUORI CORSO i livelli delle prestazioni erogate nell’isola SASSARI Le università oggi si presentano sempre più come fabbriche dell’istruzione, dell’aggiornamento, della preparazione professionale. Così il discorso delle spese da parte dei “fruitori” di diversi servizi non è limitato alle imposte: si estende fino ad abbracciare campi diversi. Qualche esempio delle “prestazioni” e delle “tariffe” nei due atenei dell’isola consente di capire meglio questo mondo da tempo in profonda trasformazione. Per comprendere il quale varrà comunque la pena di cominciare sempre dal pacchetto-tasse. A Cagliari per uno studente al 2° anno fuori corso l’importo mimino è di 285 euro, il massimo di 3.262. Per uno al 3° anno fuori corso, o più, si va da 305 euro a 10 volte tanto. A fronte di queste maggiorazioni per chi non è in regola con i tempi, sono fissate riduzioni in altri casi. Riguardano studenti a tempo parziale (-10%), oppure che ogni anno hanno almeno 50 Crediti formativi universitari (-10%) o i fuori corso che comunque superano la soglia di un certo numero di Cfu o di esami. Per quest’anno, sempre a Cagliari, a seconda del dipartimento nel quale si studia c’è solo una minima variazione nelle tasse sul “contributo di facoltà”: l’importo minimo di 43 euro è previsto per Scienze economiche, giuridiche e politiche, il massimo - 153 euro - per Medicina. Sia a Sassari sia Cagliari il calcolo delle imposte è in funzione dell’Iseeu, parametro fiscale che oltre al reddito familiare dichiarato si allarga a indicatori diversi, compresi quelli immobiliari e patrimoniali in genere. Significativa poi, a Cagliari, l’entità di altre cifre. 50 euro (come a Sassari e dappertutto in Italia) il costo per partecipare ai Tirocini formativi per l'abilitazione all'insegnamento, ma 2.500 euro quello per la frequenza. Corsi di specializzazione: se l’importo non è deciso dal Miur, la spesa per prendere parte al test d’accesso è di 22 euro, come per i corsi di laurea. Quella annuale per la frequenza delle Scuole varia da 1.615 euro per la professione legale, a 955 euro per le specializzazioni mediche, sino a 861 euro per i Beni archeologici. Ulteriori informazioni sono disponibili su internet cliccando sul link www.unica.it e nel sito del ministero http://statistica.miur.it/. Ecco invece la situazione su una serie di servizi forniti dell’ateneo di Sassari (www.uniss.it, di particolare interesse il Manifesto generale degli studi, oltre alla Normativa generale in materia di tasse). Contributo per gli esami di Stato: 180 euro per i medici, 150 euro per le altre categorie. A proposito di questa specifica “voce” comunque l’ateneo turritano sostiene di spendere molto di più di ciò che incassa. E questo perché esistono disposizioni ministeriali secondo le quali le commissioni devono essere sempre formate da docenti e professionisti, naturalmente tutti da retribuire ti. D’altronde, viene ancora sottolineato a Sassari come a Cagliari, «avere la possibilità di sostenere esami del genere in Sardegna permette ai candidati di risparmiare sui costi di una eventuale trasferta -viaggi, hotel, pasti e così via - per ottenere l’abilitazione in altre regioni italiane». «A ben vedere, quindi, nessuna stangata, piuttosto un servizio che l’università rende alla città e all’intera regione», dicono a Sassari, non dimenticando di far notare che chi sostiene l’esame di Stato non è più uno studente. Sempre da Sassari, un’ultima notizia sui tributi da versare per le scuole di specializzazione mediche. Sono pari a 848,78 euro all’anno. Così suddivisi: prima rata 529 euro (tassa di iscrizione 319,56, imposta di bollo 16, contributo di laboratorio 193), seconda rata: 319 euro. ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 01 ott. ’14 LE RICHIESTE DEGLI STUDENTI: PIU SERVIZI «Biblioteche e ‘borse’ sempre accessibili, aule e spazi per tutti» SASSARI Soddisfatti per lo stop ai rincari. Molto meno per l’affidabilità e l’efficienza dei servizi. È un coro di proteste, su quest’ultimo versante, quello che arriva da molti studenti degli atenei sardi. E, soprattutto, dai loro delegati: i ragazzi e le ragazze che siedono nei Cda e nei Consigli dei corsi di laurea. «È vero: le tasse nell’isola si basano in genere su parametri più bassi di centro e nord Italia – riconosce Giulio Tupponi, per il Forum rappresentante degli studenti nel Senato accademico di Sassari - Però ci sono cose che non capisco. Mi risulta per esempio inspiegabile la differenza nella prima rata tra facoltà scientifiche - 366 euro - e umanistiche, per le quali se ne versano 306. Dicono che dipende dai laboratori. Ma in alcuni dipartimenti fanno comunque pagare i 60 euro di scarto, come nel caso di Lingue, anche se i laboratori non sempre sono agibili». «Esistono poi altri disagi - incalza - Perché le biblioteche non restano aperte nei fine settimana? E per quale motivo, se manca o non viene pagato il personale, non si usano gli studenti delle “150 Ore”?». Altro punto dolente: i dottorandi. «Come Forum abbiamo appena ottenuto dal Cda una mozione per cancellare le tasse ai neo-iscritti senza borse di studio - attacca Tupponi – Ma il regime andrebbe allargato a tutti. Che logica c’è stata finora nel consentire l’agevolazione solo ai dottorandi che avevamo anche la borsa di studio?». Critiche da Giacomo Dessì, ex rappresentante degli studenti medi a Cagliari, oggi al terzo anno di università: «Intanto, dal 2012 a oggi c’è sempre stato qualche piccolo aumento delle tasse - precisa – E poi non vedo che aule sporche e sovraffollate, tanti ricercatori ma pochi docenti di prima e seconda fascia». «Sì, troppi servizi sono carenti – conferma Federica Atzeni, iscritta a Ingegneria e rappresentante di UniCa 2.0 nel Senato accademico – Mancano i luoghi di aggregazione destinati a tutti per dibattiti, cineforum e altre iniziative. Solo due biblioteche restano aperte sino a mezzanotte, ma solo dal lunedì al venerdì». «E l’Ersu non ha alloggi per tutti quelli che ne hanno diritto: pochissimi dei 12mila fuori sede trovano un posto – accusa – Pochissime le borse di studio e troppe difficoltà economiche: 300 miei colleghi quest’anno non hanno potuto continuare perché le famiglie non potevano più pagare: è una vergogna». Tatiana Giuranna, ex delegata per Giurisprudenza a Sassari, è scettica persino sul basso livello medio delle tasse. «In realtà – spiega – è solo il risultato della povertà diffusa: si paga meno perché i redditi dei sardi, a parte quelli dei dipendenti pubblici, livellati, sono tra i più bassi d’Italia». «E le “borse”? Ci sono tanti idonei che non le ottengono mai perché la Regione discrimina Sassari a favore di Cagliari – continua – E in una situazione del genere c’è stato a Sassari persino chi ha proposto la decadenza per i fuori corso: un doppio scandalo». (pgp) _________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Ott. ’14 APPELLO CONTRO UN'UNIVERSITÀ DI GRIGI BUROCRATI Un corpo docente sempre più vecchio, concorsi incerti, finanziai enti ne non arrivano. Così nessuno discute più di insegnamento di Nucdo Ordine Quali dovrebbero essere i compiti principali di un professore universitario? Di fronte a questa domanda, non è difficile immaginare una risposta unanime: insegnare e fare ricerca. Eppure nei fatti, purtroppo, le cose non stanno così. Una serie di dannose riforme - da quella Berlinguer a quella Gelmini (che ha inferto il colpo mortale), senza contare le numerose modifiche degli ordinamenti didattici - e la crescente burocratizzazione hanno imposto processi decisionali così pressanti da mettere in serio pericolo proprio la centralità di quelle due attività essenziali, Preparare una lezione e frequentare una biblioteca o un laboratorio sono diventati lussi che un professore si può permettere a fatica. Anni di interminabili discussioni per ridisegnare curricula e corsi di laurea nei minimi dettagli hanno logorato l'università a tal punto che i piccoli benefici ipotizzati sono stati spazzati via dalla confusione e dall'incertezza che per lungo tempo hanno regnato, e ancora regnano, negli atenei. In un vortice avvitato su se stesso, i presunti "ammodernamenti" (spesso ispirati dall'illusione di risanare bilanci ridotti al lumicino) e i legittimi processi di valutazione sono stati esasperati a tal punto da provocare effetti diametralmente opposti a quelli desiderati. Il farmaco delle riforme e della "misurazione" anziché risanare il malato ha finito per indebolirlo ancora di più inesorabilmente. Alla moltiplicazione esponenziale di riunioni istituzionali (consigli di dipartimento, di corso di laurea, di dottorato sommati a quelli di amministrazione e di Senato) e di commissioni (per la didattica, per la programmazione, per le biblioteche, per gli accessi, per i rapporti con le scuole...) vanno aggiunte anche le compilazioni di dossier e di schede che alimentano i processi di valutazione e di autovalutazione. Un meccanismo talmente complesso da richiedere un grande dispendio di energie. Basta aver esperienza diretta dei consigli, di ogni ordine e grado, per rapire quanto la discussione tra colleghi sia totalmente monopolizzata da preoccupazioni molto lontane da quelle che avrebbero dovuto essere considerate essenziali: il dialogo sulla ricerca e sull'insegnamento è talmente periferico da essere percepito, quando avviene, come un piacevole incidente di percorso. II corpo docente universitario italiano invecchia precipitosamente (gli ultimi rilevamenti indicano a 37 anni l'ingresso per i ricercatori, a 44 per gli associati e a 51 per gli ordinari), mentre la sua consistenza è seriamente minacciata da un'inarrestabile emorragia (i nostri professori risultano il 25% in meno rispetto alla media di quelli tedeschi, francesi, spagnoli o britannici). I cicli concorsuali (caratterizzati da lunghe pause e da improvvise accelerazioni) si svolgono in un clima generale di incertezza. Le ultime due selezioni abilitanti hanno determinato principalmente una crescita verticale tutta interna agli atenei: gli auspicabili passaggi ad associato e a ordinario non hanno però consentito quella necessaria osmosi con l'esterno. E se tra i selezionati figurano anche candidati non strutturali, l'attuale contingenza economica riuscirà difficilmente a permettere il loro ingresso in università con bilanci così magri. Non si è potuto contare neppure sui budget lasciati vacanti dai pensionamenti. Anche in questo caso le restrizioni hanno avuto notevoli conseguenze negative: se nel 2007 ogni cinque posti liberati se ne recuperava solo uno, quest'anno uno su due, mentre bisognerà aspettare il 2018 per pareggiare il bilancio delle entrate e delle uscite (uno su uno). Nessuna seria programmazione economica è possibile se gli atenei conoscono solo a fine anno la somma stanziata dal Fondo di finanziamento Ordinario (FF0), che rappresenta tuttora Centrata più cospicua delle università. All'interno di questo quadro che non ha bisogno di commenti, come immaginare l'immissione di nuova linfa nei circuiti universitari? Da anni si promettono finanziamenti per posti di ricercatore a contratto. Ma finora non si è visto nulla. Ignorare questa priorità del ricambio significa mettere una pietra tombale sul futuro dell'università: l'età media dei nostri docenti ha raggiunto livelli preoccupanti, mentre ai giovani studiosi più meritevoli non resta che percorrere la strada dell'emigrazione. Anche sul fronte dei dottorati di ricerca i conti non tornano. La spinta agli accorpamenti - che ha determinato soprattutto la recente configurazione dei nuovi dipartimenti ormai svuotati, in molti casi, di ogni specificità disciplinare - ha imposto la creazione prima di scuole dottorali e ora di corsi di dottorato caratterizzati da etichette molto generiche: e, fatte salve alcune eccezioni, i collegi dei docenti (per raggiungere ì numeri intimati dalle nuove regole, necessari per ottenere i finanziamenti) sono stati gonfiati allargando a dismisura la nozione di "affinità". Lo stesso pericolo di "annacquamento" minaccia i passaggi dalla laurea biennale a quella magistrale. Per paura di lasciare scoperti i posti messi a disposizione dal ministero, si tende a stemperare le competenze disciplinari per attirare quegli studenti che provengono da altri corsi di laurea. I risultati, in prospettiva, sono facilmente prevedibili! Le follie manageriali e burocratiche arrivano anche al punto, con l'illusione di inseguire il mercato, di imporre ai dipartimenti contatti con organizzazioni territoriali per decidere il destino dei corsi di laurea: immaginate un direttore che prende appuntamento con un dirigente della Camera di Commercio per discutere l'opportunità di mantenere o sopprimere un indirizzo in filologia o in lingue orientali o in fisica teorica. Si è perduta la coscienza che l'università ha il dovere di salvaguardare anche (mi verrebbe da dire: soprattutto) quelle discipline frequentate da pochi studenti: eliminare dai piani di studio l'insegnamento del sanscrito o sopprimere i corsi di laurea in matematica, fisica o chimica significherebbe minare alla base la vita di superi. che vanno protetti a ogni costo. Abbiamo dimenticato, in questi decenni, che ]'università deve avere un'importante funzione civile. Preparare gli studenti a una professione, certamente. Ma innanzitutto formare degli esseri umani liberi, come ricorda lohn Henty Newman. L'educazione non può essere ridotta a un «fine particolare e ristretto» che «si possa pesare e misurare»: coloro che insistono su questo modello, scrive Newman, «argomentano come se ogni cosa, al pari di ogni persona, avesse il suo prezzo» e pretendono che «dove c'è stato un grande investimento» ci sia da «aspettarsi un ritorno corrispondente». Ma chiedersi quale possa essere il valore di mercato «dell'articolo chiamato "educazione liberale"» significa dimenticare che «la cultura generale della mente» viene prima «dello studio professionale e scientifico». L'università non può essere gestita come un'azienda, Gli studenti non possono essere considerati clienti che acquistano una laurea. E, in particolar modo, i professori non possono essere trasformati in burocrati senz'anima. Sarebbe un errore gravissimo continuare su questa strada. C'è bisogno di una seria riflessione sul destino dell’Università. Di un'immediata inversione di marcia dei governi che non prestano all'istruzione e alla ricerca l'attenzione che meriterebbero: in Italia si destina agli atenei pubblici un terzo di ciò che si investe in Germania o in Francia. Di un'immediata inversione di marcia di quei docenti che hanno privilegiato la gestione del potere a discapito dell'insegnamento e della ricerca: inducendo molti giovani a pensare, a torto, che la loro formazione si costruisse nell'esercizio della burocrazia e nei corridoi dei ministeri e non nelle biblioteche e nei laboratori. Se finora - nonostante tutto - l'Italia è riuscita a formare studiosi che hanno conquistato posti di prestigio all'estero, adesso non si può più contare su una gloriosa eredità che inizia a sgretolarsi. Vivere sugli allori del passato potrebbe rivelarsi un errore fatale per il futuro del nostro Paese. _________________________________________________________ Italia Oggi 01 Ott. ’14 UNIVERSITÀ, RICERCANO STIPENDI Tagliano dappertutto salvo che sulle indennità e le prebende delle strutture di vertice Padova: un milione e 200 mila per gli organi di ateneo DI GIORGIO PONZIANO dieta. Sono stati messi i Comuni, le Province, le Regioni (fino a un certo punto), i ministeri (ma si attendono i dati). Però non c'è solo la politica. La finanza pubblica sostiene, per esempio, le università. Raramente s'è guardato dentro la pentola degli atenei. Anzi, quando sono stati oggetto di tagli (lineari) s'è levato un coro di protesta: penalizzati gli studenti, in fuga i ricercatori, i professori impossibilitati a insegnare. Ma nessuno che abbia preso il pallottoliere. Anche i molti editorialisti dei grandi giornali, che tutti i giorni lanciano (giustamente) j'accuse contro gli sprechi e la necessità che la finanza pubblica sia meglio indirizzata, mai hanno speso una riga per porre interrogativi sui conti delle università. Ovvio, molti di loro sono docenti universitari e fanno parte di una casta che attacca le altre ma aborrisce gli esami di coscienza. Ad alzare il coperchio sono alcuni sindacati (Cisl, Cisal, Confsal) dell'università di Padova, che fanno un po' di conti in casa loro ma assicurano che, pure negli altri atenei d'Italia, l'andazzo è, più o meno, il medesimo. Nel 2013 l'ateneo padovano ha speso 1 milione e 100 mila euro (sì, avete letto bene) per gli organi di ateneo. Gli stessi organi che hanno gridato allo scandalo, in passato, per la limatura dei fondi che lo Stato destina al sistema universitario. Si potrà discutere su questi tagli, certo vi è un problema di dove finiscono i fondi, nel caso di Padova sembra che una cifra per nulla irrisoria prenda una strada che non è quella dell'ammodernamento tecnologico delle aule, del potenziamento delle biblioteche, del sostegno agli studenti. «Gli assurdi costi dei gettoni di presenza per la partecipazione agli organi di ateneo (Senato Accademico e Consiglio di Amministrazione) e delle indennità di carica per rettore, prorettori, delegati, direttori- scrivono i sindacati meriterebbero qualche sforbiciata». Continua il documento, che a Padova è stato un fulmine a ciel sereno: «Dopo lunga insistenza il rettore ha finalmente deciso di pubblicare il valore della sua indennità: 96.542,95 euro, che si sommano al suo stipendio da docente. Il totale supera i 200.000 euro annui. Non è dato sapere ancora il compenso del prorettore vicario. Sono spese non più accettabili sul piano etico anche alla luce dei lamentati tagli alle università e, più in generale, alla luce anche delle difficoltà del Paese». Se moltiplichiamo il milione di euro per il numero degli atenei italiani il risultato è un gruzzolo niente male che se ne va per mantenere un apparato spesso burocratico anziché venire destinato alla didattica. A Padova hanno gettato il sasso nello stagno. E la richiesta mira pure a ottenere più trasparenza perché «assistiamo —affermano i sindacati- alla spartizione dei posti di personale docente e tecnico-amministrativo, alla scelta di «esperti» più o meno amici del potente di turno; al ricorso ancora massiccio ad incarichi esterni anche in presenza di competenze interne; alla nomina di una inutile pletora di prorettori». Conclusione? Più trasparenza. E una proposta: «Chiediamo che le sedute del Senato Accademico e del Consiglio di Amministrazione vengano trasmesse in streaming audio-video, come avviene in altri enti pubblici, in modo che tutta la comunità accademica e la cittadinanza possano assistere, conoscere ed interagire». Partirà da Padova 'un'operazione- chiarezza sui meccanismi di gestione delle università? In molte aziende pubbliche s'è proceduto a una cura dimagrante degli organismi dì vertice. Non è ipotizzabile lo stesso provvedimento per gli atenei, prevedendo organi più agili e meno costosi? Un altro «caso» è quello di Pisa, sollevato dalle organizzazioni degli studenti. E' stato deciso un taglio del 20% del bilancio ma, secondo gli studenti, la spending review non ha neppure sfiorato gli organi di governo, che anzi sono andati in direzione opposta. Una delibera ha deciso quasi il raddoppio dell'indennità del rettore, passata a 95 mila euro l'anno (da sommare allo stipendio da docente), e del prorettore (che oggi riceve 38 mila euro). Ma addirittura ilché «assistiamo —affermano i sindacati- alla spartizione dei posti di personale docente e tecnico- amministrativo, alla scelta di «esperti» più o meno amici del potente di turno; al ricorso ancora massiccio ad incarichi esterni anche in presenza di competenze interne; alla nomina di una inutile pletora di prorettori». Conclusione? Più trasparenza. E una proposta: «Chiediamo che le sedute del Senato Accademico e del Consiglio di Amministrazione vengano trasmesse in streaming audio-video, come avviene in altri enti pubblici, in modo che tutta la comunità accademica e la cittadinanza possano assistere, conoscere ed interagire». Partirà da Padova 'un'operazione- chiarezza sui meccanismi di gestione delle università? In molte aziende pubbliche s'è proceduto a una cura dimagrante degli organismi dì vertice. Non è ipotizzabile lo stesso provvedimento per gli atenei, prevedendo organi più agili e meno costosi? Un altro «caso» è quello di Pisa, sollevato dalle organizzazioni degli studenti. E' stato deciso un taglio del 20% del bilancio ma, secondo gli studenti, la spending review non ha neppure sfiorato gli organi di governo, che anzi sono andati in direzione opposta. Una delibera ha deciso quasi il raddoppio dell'indennità del rettore, passata a 95 mila euro l'anno (da sommare allo stipendio da docente), e del prorettore (che oggi riceve 38 mila euro). Ma addirittura il gettone di presenza per ogni riunione del consiglio d'amministrazione è aumentato da 200 a 500 euro. Con tanti saluti alla razionalizzazione e al risparmio. La delibera ha avuto il voto contrario del rappresentante degli studenti. «L'aumento - scrivono gli studenti di Sinistra Per - è motivo di forte criticità in particolare per le cariche monocratiche. Comprendiamo l’aumento di impegno e della responsabilità individuale, ma continuiamo a ritenere inopportuno, in un momento di crisi e di tagli all'università e a tutte le amministrazioni pubbliche, aumentare le singole retribuzioni, soprattutto se pensiamo che i principali beneficiari saranno docenti ordinari che percepiscono già, in moltissimi casi, oltre 100 mila euro all'anno». Attraverso l'ufficio stampa, l'università pisana ha fatto sapere: «L'aumento delle indennità è il frutto di una manovra più complessa. L'ateneo è stato riorganizzato secondo la riforma Gelmini, con un risparmio fino al 20% del bilancio. Ma il carico di lavoro di rettore, prorettore e direttori è aumentato». Delle università incomincia a interessarsi anche la Corte dei conti, che nello spulciare i bilanci passati dell'ateneo di Siena ha scoperto 360 chili di aragoste e gamberoni siciliani comprati su ordine di un ex rettore per un totale di 21.500 euro. Il motivo? A detta del docente, servivano per alcuni esperimenti di biologia marina. Una tesi che non ha convinto i magistrati contabili che già da tempo stanno lavorando sui pesanti conti in rosso dell'ateneo: sembra che tre anni fa il deficit fosse arrivato a 250 milioni. Al vaglio della corte ci sono ora altri atenei. Intanto quello di Verona ha deciso un piccolo investimento: la stampa di un nuovo libretto personale che prevede la possibilità, per lo studente, di indicare, alla voce, sesso: Alias. È destinato agli studenti in procinto di cambiare sesso e che, secondo l'università, si sentirebbero imbarazzati a dovere scegliere tra le due canoniche categorie di maschi o femmine Il rettore di Padova aggiunge, al sua stipendio di professare ordinario, di 97 mila curo e quindi porta a casa, complessivamente. una retribuzione di 200 mila euro annui Dovunque gettoni di presenza a go-go per tutte le innumerevoli cariche: rettore, prorettori, delegati, direttori. A Pisa i componenti del cda si sono aumentati il gettone da 200 a 500 euro L'ateneo di Siena ha acquistato 360 chili di aragoste e gamberoni siciliani. I dirigenti spiegano che servivano per alcuni esperimenti di biologia marina. La Corte dei conti però vuoi venderei chiaro ____________________________________________________________ Corriere della Sera 04 Ott.’14 GAUDIO NUOVO RETTORE DELLA SAPIENZA ELETTO ANCORA UN DOCENTE DI MEDICINA La Sapienza ha scelto la continuità. Come previsto, ieri Eugenio Gaudio, cosentino, 58 anni, è stato eletto Magnifico rettore dell’università romana, la più grande d’Europa. Il preside di Medicina, molto vicino al suo predecessore Luigi Frati, ha ottenuto 2.546 voti, il 59,9%, battendo di diverse lunghezze l’unico altro candidato rimasto, Giancarlo Ruocco, ex capodipartimento di Fisica e prorettore alla Ricerca. Applausi, abbracci e pacche sulle spalle. Così gli studenti, i docenti e il personale amministrativo hanno accolto la nomina di Gaudio che sarà in carica dal primo novembre e per i prossimi sei anni. Come gesto di buon augurio il Rettore uscente, Luigi Frati, ha voluto scambiare cravatta e spilla con il neoeletto: «Spilla in inglese si dice pin , - ha detto scherzando - come il pin del codice di conto corrente. Io gliel’ho dato, come per dire, ora sono affari tuoi». Dopo dieci anni, 4 da pro-rettore vicario e 6 da rettore, finisce l’era Frati: moglie e due figli dentro l’università, polemiche, inchieste, ma anche il fiore all’occhiello di un bilancio riportato in attivo, da meno 48 a più 18 milioni. Cosa cambierà con Gaudio? Di certo rimarrà lo strapotere di Medicina sugli altri dipartimenti che alcuni speravano di intaccare. _________________________________________________________ Roma 04 Ott. ’14 FARÒ UN'UNIVERSITÀ PER TUTTI NON CI SARANNO LOTTIZZAZIONI di Claudia Voltattorni Quando alla Sapienza contavano l'ultimo voto, lui stava mangiando un supplì. Non era nell'Aula Magna del rettorato ad assistere allo spoglio. «Avevo bisogno di un po' di distacco per non perdere la mia lucidità». E nonostante della Sapienza sia ormai un frequentatore pluriennale (ci si è laureato nel 198o), non nasconde una certa emozione mentre entra nella grande sala a gradoni e tutti i presenti gli regalano un applauso con tanto di standing ovation. «Emozione ma anche grande senso di responsabilità". Perché da ieri pomeriggio Eugenio Gaudio, cosentino, classe '56, professore e preside di Medicina, è il nuovo Magnifico rettore della Sapienza: 2.546 voti per guidare per 6 anni il più grande ateneo d'Europa fuori dalla crisi. Lei era il favorito fin dall'inizio e ha vinto. Più di qualcuno dirà che è merito del suo legame molto stretto con il suo predecessore Luigi Frati, anche lui medico e anche lui proveniente dalla facoltà di Medicina. «Le rispondo dicendo che non si possono utilizzare queste chiavi di lettura per una realtà complessa come una grande università. Possono andare bene per le squadre di calcio, non per l'ateneo più grande d'Europa che invece ha bisogno di essere compreso, sostenuto, aiutato e rilanciato. Del passato manterrò le cose buone, quelle negative verranno cambiate. Non solo. Sono emozionato per questo ruolo ma soprattutto onorato della fiducia che così tanti ragazzi soprattutto hanno voluto darmi. Quasi il 7o per cento dei rappresentanti degli studenti mi ha scelto: ecco, io lavorerò per loro, per ripagare la loro fiducia in me. E per tutti coloro che vogliono tornare a far grande la Sapienza». E stato eletto da quasi il 6o per cento dei votanti, ma cosa dice a tutti coloro che invece non l'hanno scelta come rettore? «Che sarò il rettore di tutti e che con l'aiuto di tutti riporteremo in alto il nome della Sapienza. Ho l'ambizione di credere che migliorare la Sapienza contribuirà a migliorare il Paese. Vorrei che la nostra università diventasse un modello per tutte le altre, che faccia da apripista per tutto il sistema universitario oggi in crisi e mal considerato. Le mie parole sono: internazionalizzazione, apertura al mondo del lavoro, contatti con territorio e istituzioni, qualità nella formazione, aiuti alla ricerca. Ma in questo c'è bisogno che tutti facciano la loro parte, dalla politica ai media, vorremmo che tutti si convincessero che fare il bene dell'università significa fare il bene del Paese.» Proprio ora che si parla di nuovi tagli per l'università? «La spending review deve essere fatta con attenzione. Basta tagliare sull'università, quando invece i fondi vanno aumentati. Se si vuole andare avanti, bisogna investire nei giovani, nell'istruzione, nella ricerca, nell'alta formazione. Il vantaggio sarà per tutti». Chi sarà nella sua squadra di governo della nuova Sapienza? Qualcuno degli altri candidati l'ha chiamata per le congratulazioni? «Beh, il professor Renato Masiani, (preside di Architettura, ndr), che dopo il suo ritiro mi aveva pubblicamente manifestato il suo appoggio. Tutti coloro che vorranno partecipare al rilancio della Sapienza sono i benvenuti. Non si faranno spartizioni né lottizzazioni. Sarà una squadra ampia di persone serie, competenti e di tutte le aree, che abbiano obiettivi istituzionali. Chi ha un problema di promozione personale cerchi altrove». Cosa farà dal primo novembre, giorno del suo insediamento? «Voglio che vengano organizzate delle commissioni, ognuna per ogni punto del mio programma, voglio che tutti partecipino, che facciano sentire la propria voce per conoscere le problematiche di ogni area, le criticità, i punti di forza. Tutti devono sentirsi coinvolti e interessati. C'è molto da lavorare e solo insieme a tutte le anime della Sapienza si potrà fare qualcosa. Da solo non posso fare nulla». cvoltattorni@corriere.it ____________________________________________________________ Repubblica 1 Ott,’14 LA SCUOLA ITALIANA NON È INTERNAZIONALE, LO DICONO I PROF Ricerca di Intercultura: siamo indietro, per esempio in inglese Lo leggo dopo Intercultura è un’associazione che dal 1955 manda studenti delle scuole superiori italiane all’estero. Con la fondazione onlus cresciuta successivamente, ha deciso di interrogare 206 docenti dell’università e trecento docenti di scuola (media superiore) per chiedere loro com’è la scuola italiana. E come sono i suoi studenti. In particolare com’è la scuola e come sono gli studenti sotto l’aspetto dell’internazionalizzazione. Non si parla solo delle fondamentali lingue, ma di tutte quelle caratteristiche di profilo che fanno di un ragazzo italiano un giovane capace di immergersi nel mondo. La risposta, registrata ed elaborata da Ipsos, è una sostanziale bocciatura. Siamo indietro rispetto al Nord Europa, dicono i prof che frequentano i ragazzi e i prof che li accoglieranno. Indietro per capacità critica e di soluzione dei problemi. Indietro, e questa è una novità, nella qualità del ragionamento e nella critica in autonomia. Su queste questioni sembravamo all’avanguardia, l’inchiesta dice che non è più così. Meglio, lo dicono i prof. E poi non miglioriamo nell’uso delle lingue straniere, a partire dal basic english. Esistono anche aree di soddisfazione, nel dossier: l’abilità nell’utilizzo degli strumenti informatici e la capacità di relazionarsi e integrarsi con persone di culture diverse. Per gli insegnanti sentiti c’è un problema nodale nello scontro tra medie superiori e università, la fase tra i diciotto e i diciannove anni. I docenti delle superiori sono mediamente di età media avanzata. Entrati nel mondo della scuola con un concorso che rifletteva altri tempi, rispecchiano una scuola non predisposta al cambiamento (lo stesso 57% dei docenti si dà un voto dall’1 al 5). E i vecchi prof sono in difficoltà a stare al passo di una generazione più giovane di professori universitari che, per riuscire a ottenere una cattedra, ha dovuto passare per anni di dottorato, esperienze internazionali, stesura di tesi e ricerche in lingua straniera. Il sistema scolastico va a due velocità: lo studente, in mezzo, si trova impreparato al “salto quantistico” richiesto nel passaggio da un sistema all’altro. La scuola italiana appare incapace di cambiare, dicono i docenti d’ateneo, ma poi riesce a farsi promuovere sul campo. Non è al passo con i tempi, eppure è capace di fornire un’alta qualità d’insegnamento (il 19% dei docenti universitari dà un voto da 8 a 10, il 26% dà un 7 e il 23% la sufficienza) e di fornire alla società studenti istruiti. La qualità dei programmi di studio umanistici e la capacità di approfondimento culturale sono insiti nella scuola italiana. Il nostro sistema scolastico d’istruzione di secondo grado, tuttavia, è indietro nella sua capacità di aprirsi a un livello più internazionale (bocciata dal 50%), soprattutto in virtù della cronica problematica della conoscenza delle lingue da parte degli insegnanti non di lingua (gli stessi prof, dotati di autocritica, si danno una valutazione insufficiente nel 78% dei casi). L’esperienza all’estero va fatta in qualsiasi momento. Stimola quelle capacità dove i ragazzi erano deficitari: l’autonomia, il senso di responsabilità, la capacità di prendere decisioni e affrontare le situazioni critiche, il senso critico. È un’esperienza a tutto tondo che permette a questi adolescenti di diventare adulti e pronti ad affrontare il mondo dell’università e quello lavorativo con le stesse competenze dei loro coetanei degli altri paesi. Alla fine il giudizio medio di insegnanti e docenti universitari sulla scuola italiana è insufficiente: voto, rispettivamente, di 5,6 e 5,1 (in una scala da uno a dieci). Una scuola aperta al cambiamento, che vuole essere al passo con i sistemi scolastici più avanzati e positivamente valutati non può prescindere, in prima istanza, dal programmare uno scambio di buone pratiche con i sistemi scolastici di altri paesi. I docenti universitari consigliano di imparare a dare maggiore attenzione alle lingue straniere (25%) e a introdurre, nel solco dell’impostazione anglosassone, una maggiore attività pratica: ricerche sul campo, laboratori, tirocini. E’ da incentivare, per il 22% degli intervistati, la mobilità individuale e di gruppo. Bisogna puntare su un apprendimento basato sui valori etici: disciplina, rigore, meritocrazia. Scuola e università, purtroppo, sono due sistemi formativi che viaggiano a due velocità su binari paralleli e non riescono a entrare proficuamente in contatto. Almeno per ora. Dalla ricerca emerge la mancanza di un passaggio di informazioni e competenze tra school e university: oggi prevalgono attività di marketing rivolte agli studenti per la scelta universitaria, quasi mai progetti di collaborazione. Secondo i docenti universitari, l’adolescente tipo alla soglia dell’esame di maturità è sicuramente bravo nell’utilizzo degli strumenti informatici, uno smanettone, e ha sviluppato una grande capacità nel relazionarsi e integrarsi con altre culture, essendo sin da piccolo a contatto con coetanei immigrati. I nostri studenti hanno in nuce il germe del cambiamento richiesto, ma inevaso, alla scuola. Quello che manca, in una scuola superiore ancora troppo paternalistica, è il “libero arbitrio” e così quando l’università chiede ai ragazzi di diventare autonomi, avere senso di responsabilità, sviluppare una soglia minima di capacità di ragionamento e critica, c’è la caduta. La bocciatura arriva da parte di oltre il 50% degli intervistati. All’interno di un sistema scolastico non aperto al cambiamento, internet e i computer, racconta la ricerca, stanno attuando silenziosamente quella rivoluzione democratica che può permettere ai nostri ragazzi di sviluppare un autonomia nello studio. Internet li ha abituati a informarsi e ad aggiornarsi e li sta abituando a ragionare in termini globali. Il pericolo più grande per le generazioni connesse è l’incapacità di concentrazione e attenzione (il 63% dei prof e il 71% dei docenti d’ateneo li boccia in questo senso). Roberto Ruffino, segretario generale della Fondazione Intercultura (onlus) commenta: «Un soggiorno prolungato all’estero non produce solo competenze interculturali o l’apertura verso i problemi del mondo, produce una crescita complessiva della persona in quelle aree definite come i saperi essenziali per entrare nella vita attiva del XXI secolo: imparare a imparare, a progettare, a comunicare, a collaborare e partecipare, ad agire in modo autonomo e responsabile, a risolvere problemi, a individuare collegamenti e relazioni, ad acquisire e interpretare l’informazione. L’educazione interculturale è una conversione della mente, un nuovo modo di guardare al mondo». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 2 Ott,’14 ATENEI, NELLA TOP 100 LA NORMALE DI PISA Times Higher Education. Ranking 2014 Eugenio Bruno ROMA Dai ranking internazionali sulle università arriva per la prima volta una sorpresa positiva per l'Italia. Che, dopo 10 tentativi andati a vuoto, centra il bersaglio. E piazza una sua università tra le prime 100 del globo. Si tratta della Normale di Pisa che si posiziona al 63esimo posto del World university rankings 2014. Una soddisfazione doppia per la Scuola superiore pisana che è una debuttante nella celebre classifica del Times Higher Education, giunta quest'anno all'undicesima edizione. In realtà le buone notizie per il nostro Paese finiscono qui, come sottolinea uno degli editor del rapporto, Phil Baty: «I ranking continuano a riservare cattive notizie per l'Italia Italy, mentre altre 16 università raggiungono la top 400 nessuna entra nella top 200». Meglio di noi fanno, per restare all'Europa, non solo il Regno Unito (con 29 atenei tra i migliori 200) e la Germania (12), ma anche l'Olanda (11), la Francia (7), la Svizzera (7), la Svezia (5), la Turchia e il Belgio, entrambi con quattro. Nel complesso i 13 indicatori riuniti in cinque gruppi (didattica, ricerca, citazioni, rapporto con le industrie e outlook internazionale), che il settimanale inglese ha utilizzato, confermano le principali tendenze principali nel mondo. A cominciare dalla composizione del podio che resta la stessa degli ultimi quattro anni: in testa c'è il California Institute of Technology, seguita da un'altra università statunitense (Harvard) e da una britannica (Oxford). E proseguendo con la crescita continua dell'Asia che fa segnare la migliore performance della sua storia con 24 atenei nella top 200, sei tra i primi 50 e due tra i migliori 25. Degno di nota è poi l'avanzamento dei tedeschi, che guadagnano due nuovi membri tra i primi 200 e scavalcano gli olandesi. Tornando all'Italia, nel complesso le ombre superano le luci. Per trovare un secondo ateneo tricolore bisogna infatti scendere al 201-225esimo posto dove c'è Trieste. Alle sue spalle troviamo Milano Bicocca e Pavia, entrambe classificate nel gruppo 226-250. A seguire - nel range 251- 275esimo posto - ci sono il Salento, Trento (che l'anno scorso era stata invece la prima delle italiane) e Torino. Poi tutte le altre: Bologna (276-300), Milano Statale (301-350), Padova (301-350), Pisa (301-350), Milano Politecnico (301-350), La Sapienza di Roma, Bari, Ferrara, Firenze e Roma III (tutte nel gruppo 351-400). E chissà se il successo della Normale servirà a evitare le polemiche che ogni nuovo ranking internazionale scatena lungo lo Stivale. Come accaduto ad agosto dopo che l'Academic ranking dell'università Jiao Tong di Shanghai ci aveva tenuto fuori dalla top 150. ____________________________________________________________ Repubblica 4 Ott,’14 BENVENUTI AL NOBEL DEGLI ERRORI Grandi esclusi, ricerche sbagliate, scelte tardive. La vigilia dei premi i cui criteri restano un enigma MASSIMIANO BUCCHI METTIAMO che qualcuno vi chieda a bruciapelo di pensare a uno scienziato e a una scoperta premiata con il Nobel, a chi pensereste in primo luogo? Probabilmente ad Albert Einstein e alla teoria della relatività, magari immaginandovi il grande fisico inchinarsi al Re di Svezia nell’atto di ricevere il prestigioso premio. Peccato che una simile scena non sia mai avvenuta. Einstein non ricevette il Nobel per la relatività, né andò mai a Stoccolma a ritirare il premio. In oltre un secolo di storia - la prima edizione fu nel 1901, l’ultima si svolgerà la prossima settimana - la sua è stata una delle tante assegnazioni sbagliate. Fu il risultato di un lungo e rocambolesco percorso segnato dalle lotte interne al Comitato Nobel per la Fisica a cui compete la proposta per il voto finale dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze. Il suo nome era comparso regolarmente sin dal 1910 nelle “nomination” che il Comitato riceve da un selezionato pool di studiosi di tutto il mondo ma fino al 1922 alcuni membri del Comitato si opposero strenuamente: in parte perché la forte enfasi del Comitato sugli aspetti sperimentali portava a considerare la relatività troppo speculativa, perfino “filosofica”; in parte perché difficile da comprendere per alcuni degli stessi esponenti del Comitato. Dopo le conferme sperimentali arrivate nel 1919 e la crescente popolarità e visibilità pubblica di Einstein la posizione del Comitato divenne sempre più difficile. Riuscì a sbloccarla il fisico svedese Carl Wilhelm Oseen, che propose di premiare Einstein nel 1922 (con il premio non assegnato nel 1921) ma non per la relatività, bensì «per la scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico». Einstein, che mise a disposizione dell’ex-moglie Mileva Maric l’intero ammontare del premio (121.000 corone svedesi, equivalenti a dieci anni di stipendio di un professore universitario dell’epoca), ricevette la notizia nel novembre 1922, quando era in viaggio verso il Giappone e non poté quindi partecipare alla tradizionale cerimonia che si tiene a Stoccolma ogni 10 dicembre (anniversario della morte del fondatore Alfred Nobel). Perfino sul diploma, unico caso in tutta la storia del premio, fu aggiunto una sorta di disclaimer, ennesimo invito a maneggiare con cura la teoria della relatività. Einstein non sembrò darsene troppa pena quando finalmente tenne la sua “conferenza Nobel” l’11 luglio dell’anno successivo. Non a Stoccolma, ma nella sala dei concerti del parco Liseberg a Göteborg. In prima fila tra gli altri uno spettatore desideroso di imparare qualcosa sulla relatività: Re Gustavo V di Svezia. Ma se il cammino di Einstein verso il Nobel fu tribolato, altri scienziati e scienziate furono ancora più sfortunati. Senza il contributo della biofisica e cristallografa Rosalind Franklin, come in seguito ammisero gli stessi colleghi James Watson e Francis Crick, «la comprensione della struttura del Dna sarebbe stata improbabile se non impossibile». Ma il suo nome non figura negli annali del premio. Esclusa dall’articolo che esponeva lo storico risultato, morì nel 1958 quattro anni prima che Watson, Crick e il loro collaboratore Maurice Wilkins ricevessero, nel 1962, il Nobel per la medicina. La fisica austriaca Lise Meitner ebbe un ruolo decisivo nel chiarire il processo della fissione nucleare. Costretta a lasciare il proprio Paese in quanto ebrea, trasferitasi in Svezia, più volte nominata come possibile premio Nobel, fu vittima di tensioni tra fisici e chimici, ostilità personali da parte di influenti scienziati svedesi e scelte “politiche” legate alla delicata situazione internazionale al termine della Seconda guerra mondiale. Altre scelte del Comitato si sono rivelate assai discutibili anche nella sostanza: il patologo danese Johannes Fibiger ricevette il Nobel 1926 in me- dicina per la scoperta del parassita Spiroptera carcinoma e del suo ruolo, poi smentito da successivi studi, in alcune forme di cancro. L’anno dopo il medico austriaco Julius Wagner-Jauregg fu premiato per i suoi tentativi di curare la dementia paralytica con inoculazioni malariche: una tecnica che aveva la lieve controindicazione di uccidere circa il 15 per cento dei pazienti. A volte l’abbaglio è dei mezzi di informazione, magari fuorviati da diffuse indiscrezioni ed aspettative. Il 7 novembre 1915 il New York Times e numerose altre testate giornalistiche in tutto il mondo annunciarono trionfalmente l’assegnazione (mai realmente avvenuta) del premio Nobel per la fisica all’ingegnere, fisico e inventore serboamericano Nikola Tesla e all’inventore americano Thomas Alva Edison. Del resto, una svista degli organi di stampa contribuì alla stessa istituzione del premio da parte dello svedese Alfred Nobel (chimico, inventore e imprenditore, titolare di oltre trecento brevetti tra cui quelli della dinamite e della gelatina esplosiva). Scioccato dalla lettura del proprio necrologio - pubblicato per errore alla morte del fratello - che lo definiva «mercante di morte» e desideroso di essere ricordato in modo diverso, Nobel decise nel testamento (1895) di destinare gran parte del proprio patrimonio a premiare ogni anno le più importanti scoperte o invenzioni in campo fisico, chimico e medico; «l’opera letteraria più notevole di ispirazione idealistica«; «la personalità che avrà più contribuito al ravvicinamento tra i popoli». Ma la grande visibilità ed autorevolezza del premio seduce e abbaglia anche il grande pubblico. Gli archivi dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze custodiscono, oltre ai documenti ufficiali su proposte e decisioni relative al premio, una serie di voluminosi scatoloni. È “il lato B” del premio Nobel: lettere di sedicenti geni che reclamano il premio sulla base di rivoluzionarie e improbabili scoperte; corposi manoscritti illustrati contenenti clamorose rivelazioni suggerite talvolta da fonti aliene; cartoline i cui mittenti chiedono di essere contattati dalla segreteria per prendere accordi sulla consegna del riconoscimento. Una vertiginosa finestra sull’ambizione umana che a modo suo testimonia la popolarità del premio, l’ultima e forse la più grande invenzione del prolifico inventore Alfred Nobel. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 02 ott. ’14 SARDEGNA RICERCHE, UNA NUOVA LEGGE Da una parte milioni di euro non utilizzati fermi nelle casse di “Sardegna Ricerche”, dall'altra un disegno di legge - annunciato dall'assessore alla Programmazione, Raffaele Paci - che modificherà la legge istitutiva della società, nata negli anni Ottanta come finanziaria per le aziende che puntavano sull'innovazione e oggi punto di riferimento per lo sviluppo della ricerca scientifica nell'Isola. È quanto emerso nell'adunanza della Sezione controllo della Corte dei Conti che ha esaminato l'attività 2010-2013 della società regionale. Il magistrato relatore, Valeria Motzo, ha evidenziato una «situazione confusa», legata anche all'incertezza sulla natura giuridica dell'Ente (dovrà essere chiarito se è un consorzio, una società in house o una partecipata). Indice puntato sugli «accantonamenti» che, nel solo 2012, sono arrivati a 16 milioni di euro. Fondi che Sardegna Ricerche ha accumulato negli anni e non speso per varie ragioni e che potrebbero essere svincolati e riutilizzati. Osservazioni anche dai giudici consiglieri Maria Paola Marcia e Lucia d'Amboriso. «La Regione è certa» si è chiesta la prima, «che sia necessario destinare queste risorse se poi finiscono accantonate?». Sulla montagna di «residui» è stata sentita la presidente della società, Ketty Corona: «In accordo con la Regione» ha spiegato, «abbiamo fatto una revisione completa: 5 milioni e 800 mila euro sono così stati messi subito a disposizione, mentre per altri 10 presenteremo una tabella precisa su quali siano le attività in corso e quelle ultimate». L'assessore Paci ha annunciato un disegno di legge per superare l'incertezza giuridica e la nuova missione della partecipata. La futura gestione potrebbe essere affidata ad un'unica persona affiancata da un comitato scientifico. Sui residui: i 5 milioni recuperati, riassegnati sempre a Sardegna Ricerche per nuovi progetti, garantiranno un risparmio per la Regione. ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 4 Ott,’14 LAVORO: CGIA, UN DIPENDENTE SU TRE SI AMMALA DI LUNEDÌ. IN CALABRIA RECORD DI ASSENZE Oltre il 30% dei certificati medici dei lavoratori dipendenti viene presentato di lunedì. E alla Calabria va il record di giorni medi di malattia all'anno (34,6), che salgono addirittura a 41,8 nel settore privato. È quanto emerge da una ricerca effettuata dall'Ufficio studi della Cgia di Mestre, nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione), nel quale sono stati 6 milioni i lavoratori dipendenti italiani che hanno registrato almeno una malattia. Un certificato su tre presentato lunedì Secondo la Cgia mediamente, ciascun lavoratore dipendente italiano si è ammalato 2,23 volte ed è rimasto a casa 17,71 giorni. Complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l'anno. Oltre il 30% dei certificati medici che attestano l'impossibilità da parte di un operaio o di un impiegato di recarsi nel proprio posto di lavoro è stato presentato di lunedì. Nel pubblico ci si ammala più spesso Nel pubblico ci si ammala più spesso, ma mediamente si perdono meno giorni di lavoro che nel settore privato. Sempre nel 2012, i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego sono stati 16,72 (con 2,62 casi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di casi per lavoratore uguale a 2,08). Calabria maglia nera A livello territoriale spiccano i risultati della Calabria. Nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabro è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. Tra i lavoratori dipendenti più spesso ammalati troviamo anche i siciliani (con 19,9 giorni medi di malattia all'anno), i campani (con 19,4) e i pugliesi (con 18,8). Gli operai e gli impiegati meno «cagionevoli»», invece, li troviamo a Nordest. Se i lavoratori dipendenti dell'Emilia Romagna rimangono a casa mediamente 16,3 giorni all'anno, in Veneto le assenze per malattia scendono a 15,5 per toccare il punto più basso nel Trentino Alto Adige, con 15,3 giorni. ____________________________________________________________ Repubblica 3 Ott,’14 VANDANA SHIVA: "IO, SPINA NEL FIANCO DELL'INDUSTRIA OGM. VOGLIONO SCREDITARMI MA CONTINUO A LOTTARE" Attacco del New Yorker alla leader del movimento mondiale contro gli organismi geneticamente modificati. E lei, a Repubblica, ribatte alle accuse una per una dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI CATTIVO giornalismo, affermazioni disoneste, un tentativo sistematico di distorcere la realtà". In questa intervista passa al contrattacco Vandana Shiva, la leader indiana del vasto movimento mondiale contro gli organismi geneticamente modificati (Ogm). Da New York è esplosa "l'affaire Vandana Shiva" con una risonanza internazionale. Seeds of Doubt ( i semi del dubbio), s'intitola l'ampio reportage che le ha dedicato il giornalista scientifico Michael Specter sul magazine New Yorker. Un attacco frontale alla reputazione della Shiva, alle sue tesi, perfino alla sua onestà. Scontro fra titani. Da una parte c'è la 62enne indiana che ha fondato nel 1987 il movimento Navdanya ("nove semi"), ha ricevuto il prestigioso Right Livelihood Award, guida una crociata globale contro la multinazionale Monsanto, si è costruita un immenso seguito, con alleati italiani come Slow Food e Terra Madre. Sul fronte opposto c'è una delle più prestigiose testate d'America, un tempio del giornalismo di qualità, diretto da David Remnick. E progressista doc. È uno scisma all'interno dell'opinione pubblica liberal? Citando un pezzo di comunità scientifica che è ormai convinto della sicurezza degli Ogm, e ancor più della loro superiorità su ogni alternativa (coltivazioni tradizionali con alto uso di pesticidi, coltivazioni "bio" esposte a tossine), il reportage è una requisitoria contro la Shiva. È descritta come una ciarlatana, priva di basi scientifiche, abile a sfruttare paure irrazionali dell'opinione pubblica. Le accuse sono pesanti, per esempio sulle "correlazioni" infondate tra Ogm e autismo. O peggio: le campagne contro gli Ogm secondo economisti di Berkeley e Monaco sono responsabili di migliaia di morti per avere impedito l'adozione del Golden Rice, il riso arricchito con vitamina A che riduce la cecità tra i bambini dei paesi poveri. Specter cita una scienziata consulente della Commissione europea secondo cui "la paura degli Ogm non è veramente motivata dal pericolo di queste biotecnologie, ma dalla diffidenza verso le multinazionali che dominano l'agroindustria". La comunità scientifica non è compatta, in realtà. Lo dimostrano le lettere al New Yorker. Eric Chivian, scienziato della Harvard Medical School, accusa Specter di "perdere credibilità perché omette serie preoccupazioni scientifiche" sugli insetticidi neuro-tossici usati per coltivare il mais geneticamente manipolato. I toni rasentano la guerra di religione, sul sito di Vandana Shiva appare, poi rimosso, un appello a trattare i pro-Ogm come "nazisti che vanno processati per crimini contro l'umanità". A sua volta, lei elenca intimidazioni e minacce di morte. Dalla sua casa di New Delhi mi dedica un'ora del suo tempo al telefono e risponde a tutte le domande più spinose. Cominciamo dai titoli di studio. Specter insinua il dubbio che lei si presenti come una scienziata mentre non lo è, la descrive come una che ha solo la laurea breve, anche se poi il direttore Remnick ha fatto su questo un'autocritica ("Nessuno contesta che abbia ottenuto un master in Fisica e sono dispiaciuto che non sia menzionato nell'articolo"). Lei è o non è una scienziata? Dove ha studiato? "Specter e l'industria biotecnologica vogliono screditarmi descrivendo me e i milioni di persone contrarie agli Ogm come anti-scientifici, romantici. I miei studi sono una spina nel fianco per loro. Ho preso un Ph. D. (dottorato di ricerca) in Canada, in Filosofia della scienza con una tesi sulla Teoria quantica; e un master in Fisica. La teoria quantica mi ha insegnato alcuni principi che ispirano il mio lavoro, ma mi sono spostata da un paradigma meccanicistico a uno ecologico. Potevo continuare i miei studi quantici alla fondazione Tata o proseguire studi interdisciplinari sulle politiche della ricerca scientifica al Politecnico di Bangalore. Ho scelto la seconda strada per approfondire le relazioni tra scienza e società. Ho studiato abbastanza la fisica per impadronirmi dei suoi concetti, ma non mi sono voluta trasformare in una macchina di calcolo. E ho tanta stima degli intellettuali non-scienziati che contribuiscono a mettere in discussione il pensiero scientifico, come Noam Chomsky". Altra accusa: la sua campagna ignora che il cotone Bt (con il Bacillus thuringiensis) abbia migliorato la condizione dei contadini indiani, ridotto l'uso di pesticidi e quindi le malattie dei coltivatori. Inoltre quell'epidemia di suicidi che lei denuncia sarebbe un falso: la percentuale tra i contadini indiani che coltivano Ogm sarebbe inferiore rispetto ad altre categorie sociali. "Specter non ha fatto una vera ricognizione sul campo, non si è spinto nella regione cotoniera del Maharashtra. Altrimenti avrebbe saputo di Shankar Raut e Tatyaji Varlu, del villaggio di Varud, suicidi dopo il disastroso raccolto di cotone Bt. E tanti casi come questi. L'argomento che i contadini si suicidano per i debiti, e non per gli Ogm, è specioso. Gli agenti della Monsanto che vendono semenze Ogm, fertilizzanti e pesticidi, sono gli stessi che fanno il credito. Il contadino prima si indebita per le semenze di cotone, poi scopre di dover comprare più fertilizzanti e pesticidi e s'indebita ancora. Il bacillo del cotone Bt perde efficacia, le dosi di pesticidi aumentano, i debiti pure. È questo ciclo di alti costi, escalation nei prodotti chimici, la trappola del debito che spinge al suicidio". Il New Yorker contesta la sua affermazione secondo cui i brevetti della Monsanto impediscono ai contadini di conservare le sementi. Una legge sui diritti degli agricoltori, varata nel 2001, tutela il loro diritto di conservare e riutilizzare i semi. E, secondo l'articolo, i costi scendono e i raccolti sono più ricchi. "Prima che arrivasse la Monsanto le semenze locali di cotone costavano da 5 a 10 rupie il chilo. Il monopolio costruito dalla Monsanto ha fatto salire i prezzi a 3.555 rupie il chilo di cui 1.200 sono royalties. Laddove la Monsanto ha dovuto ridurre i prezzi, per esempio nell'Andra Pradesh, è successo grazie alle nostre pressioni sull'antitrust locale. Anche la legge del 2001 non nasce per caso, io ero stata designata tra gli esperti del ministero dell'Agricoltura. Ma la lotta non finisce mai. Pensi che in questo momento la Pepsi Cola sta penetrando nel business delle mense scolastiche in India. Altro che alimentazione equilibrata, chilometro zero. Un colosso americano del junk-food vuole decidere cosa mangiano i bambini indiani. È in pericolo la nostra sovranità alimentare. Dietro le campagne ideologiche come questo articolo del New Yorker s'intravede un altro obiettivo. Monsanto vuole conquistare l'Africa. Perciò devono diffondere il mito che i loro Ogm hanno reso ricchi i contadini indiani". Ma ci sono fior di scienziati autorevoli, non al servizio delle multinazionali, che lavorano in strutture di ricerca pubbliche, e difendono gli Ogm. Chiedono di non essere demonizzati. Chiedono che la libertà di ricerca sia difesa anche se i risultati sono sgraditi. "Il principio fondamentale che ci muove è questo: l'idea che il diritto su un seme sia proprietà privata, è inaccettabile. Non si deve poter brevettare e privatizzare una pianta (o addirittura generazioni di piante) così come non si deve poterlo fare con la vita umana. L'America difende delle forme estreme di proprietà privata attraverso i brevetti. Non sono contraria alla ricerca. L'importante è che gli scienziati distinguano i ruoli. Chi fa ricerca in laboratorio non deve poi essere coinvolto nella commercializzazione di un prodotto. Uno scienziato puro non deve trasformarsi in venditore globale di sementi brevettate. La Monsanto non persegue il progresso scientifico, altrimenti non sarebbe contraria alla trasparenza. Guardi, nonostante le loro campagne perfino in America l'opinione pubblica vuol essere informata, chiede l'etichettatura degli Ogm. E Monsanto che fa? Trascina in tribunale lo Stato del Vermont per bloccare l'obbligo delle etichette trasparenti. Anche l'Europa è minacciata, dentro il nuovo trattato di libero scambio che state negoziando con gli Usa ci sono attacchi al vostro principio di precauzione". In seguito alle accuse del New Yorker un agronomo italiano ha proposto che il governo Renzi cancelli la sua partecipazione all'Expo 2015. "Se non ci vado io, andranno altri a sostenere le mie tesi. L'importante è che l'Expo non sia una manifestazione commerciale bensì un'occasione educativa, per riflettere sul grande tema di oggi: in che modo si deve nutrire l'umanità, con quali conseguenze sulla salute, sui consumi energetici, sulla biodiversità. Dobbiamo riprenderci questi temi essenziali della vita, sottrarli alla macchina propagandistica dell'agrobusiness ". ____________________________________________________________ Repubblica 4 Ott,’14 VIETARE GLI OGM È UN GRAVE DANNO. NON CI SONO PROVE CHE SIANO NOCIVI” Si continuano ad ignorare 15 anni di ricerche scientifiche e non ci sono evidenze sugli effetti dannosi degli organismi geneticamente modificati Vandana Shiva? Non è una vera scienziata, le sue critiche sono vaghe e fuori luogo di ELENA CATTANEO È OPPORTUNO e salutare, anche in funzione delle sfide che vengono dalla grave crisi economica del Paese, che si torni a parlare in dettaglio e con pacatezza di Ogm, tema controverso e vissuto a mio giudizio troppo emotivamente. È un fatto nuovo e che mi dà speranza. Nel corso di un recente convegno organizzato a Mantova da Confagricoltura di Lombardia e Veneto si sono discusse le ragioni che impediscono di fare in Italia ciò che la Spagna fa con vantaggi per ambiente ed economia: coltivare (anche) mais migliorato con le biotecnologie. Moltissimi prodotti del made in Italy alimentare esistono grazie alla mangimistica Ogm, che importiamo dall'estero. Evidentemente non fa male né alla salute né tantomeno al gusto. Però fa molto male alle nostre tasche, visto che la bilancia agroalimentare è in deficit fisso per almeno 4 miliardi di euro all'anno da decenni. Questi sono dati certi e dimostrati. Sono ancora in cerca di prove contro l'impiego di Ogm (mais, soia, cotone). Li sto studiando uno a uno. E' un impegno. La letteratura scientifica è difficile, ma è pubblica e accessibile a tutti. Con l'aiuto di diversi colleghi ho capito che per alcuni Ogm, come il mais, le prove di sicurezza ambientale e per la salute umana sono esaustive e certificate. Per altri, come la colza, no. In questo caso c'è un rischio di commistione con piante affini. Tra pochi mesi scadrà anche il brevetto sul mais Ogm dopo che quello sulla soia resistente a un erbicida è appena scaduto. Alcuni Paesi si stanno organizzando per avvantaggiarsene ulteriormente. Noi no. Contro gli Ogm si ascoltano argomenti che sono gli stessi da almeno tre lustri. Mi chiedo come si possano ignorare quindici anni di prove e pubblicazioni scientifiche sulla sicurezza di piante come il mais o il cotone Bt, o la soia Ogm. Le critiche sono le solite. "Non sono sicuri". "Non sappiamo cosa possano fare nel lungo periodo". Ma questi sono giudizi vaghi. Opinioni o premonizioni. Intanto negli Stati Uniti (come in Spagna) li coltivano e, come noi, li consumano da oltre vent'anni. L'Agenzia che certifica la sicurezza ambientale e umana (Efsa di Parma), la Commissione Europea, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, e una moltitudine di scienziati abituati al confronto internazionale hanno controllato e concluso che, ad esempio, il mais Bt è sicuro. O meglio, che è più sicuro per l'ambiente e la salute umana del mais tradizionale irrorato da insetticidi o del mais biologico che presenta talvolta preoccupanti livelli di micotossine cancerogene. Possibile che tutti questi enti pubblici autorizzino cose pericolose? Se qualcuno ha dati diversi, e auspicabilmente non manipolati o artefatti, li deve mettere a disposizione affinché siano controllati. Il Governo e la politica economica del Paese non possono basarsi sui "sentimenti" o sulle opinioni, invece che su fatti scientificamente validati. Nell'interesse del Paese le decisioni devono essere prese confrontando fatti, numeri e statistiche. Queste sono le regole del confronto scientifico, ma in ultima istanza anche democratico. Altrimenti è come se Galileo Galilei non fosse nemmeno nato e non avessimo ancora capito cosa ha permesso di triplicare l'aspettativa di vita, curare malattie, riscaldare le case, andare sulla Luna, etc. Oggi si fa pagare caro il cosiddetto cibo biologico dando garanzie del fatto che sarebbe senza Ogm. Non mi pare onesto. Nessun italiano può aver certezza di aver mai mangiato, che so, un salame biologico proveniente da animali non alimentati con Ogm, né questa sicurezza ci sarà fino almeno al 2018 e forse oltre (come risulta dal Regolamento 836/2014 della CE, che rinnova l'ennesima deroga per i mangimi di polli e maiali biologici). Non mi interessa discutere se un mangime privo di Ogm sia meglio o peggio, anche se mi incuriosirebbe un esperimento per stabilire se qualcuno noterà mai una differenza nella "tipicità italiana" del salame ottenuto da animali nutriti con uno dei due mangimi. Mi preme discutere come stanno davvero le cose. Di quel che si può dimostrare. Non so che farci se sono una scienziata, ma il mio primo dovere è dire sempre e solo cosa è provato oggi, al meglio delle nostre conoscenze. Per contro chiedo altrettanto. Non opinioni. Da vent'anni s'invoca il principio di precauzione contro gli Ogm. Da vent'anni li stiamo già sperimentando, nutrendoci indirettamente e vestendoci con cotone Ogm. E non capisco perché il principio di precauzione non dovrebbe valere per gli insetticidi, che da decenni due volte l'anno si spargono su centinaia di migliaia di ettari di mais con danni già visibili sia sulla perdita di biodiversità (farfalle, coccinelle, larve) sia per le intossicazioni umane riconosciute anche dall'Accademia Pontificia delle Scienze. L'Italia "libera dagli Ogm" usa due volte e mezzo più pesticidi degli Stati Uniti, che coltivano sia Ogm sia prodotti biologici, senza integralismi, scegliendo caso per caso e non privandosi di nessun tipo di agricoltura. Noi scienziati non possiamo nemmeno studiarli. Non possiamo sperimentare per recuperare piante in estinzione come, ad esempio, il pomodoro San Marzano o il riso Carnaroli. Eravamo alla frontiera nelle biotecnologie vegetali. I progetti giacciono da 15 anni chiusi nei cassetti dei laboratori delle nostre università pubbliche (non di multinazionali). Singolare un Paese che uccide la propria innovazione agitando spauracchi privi di analisi approfondite dei rischi e dei benefici. Non capisco nemmeno il silenzio di un governo di sinistra, che si disinteressa di quei milioni di cittadini costretti dalla crisi a ridurre la spesa alimentare e che non possono certo ricorrere al costoso biologico (ne fa uso il 2% della popolazione) - al quale, ripeto, non sono contraria. Da ultimo, mi domando come sia possibile avere l'attivista politica Vandana Shiva come Ambassador di Expo2015. Anche dopo l'intervista pubblicata ieri su questo giornale, nella quale non confuta nessuno degli argomenti del New Yorker. Ammette di non avere un dottorato in fisica, ma solo un master e il dottorato in filosofia. Non è quindi una scienziata in ambito della fisica come aveva lasciato intendere. Non ripete più che i semi Ogm sarebbero sterili e rimane sul vago in merito ai suicidi dei contadini che lei attribuisce ai semi di cotone Ogm di Monsanto. Prima diceva che erano 280 mila. Anche le sue critiche ai brevetti sono del tutto fuori luogo. I contadini sono proprietari anche dei semi Ogm acquistati e li possono riseminare sui loro terreni tutte le volte che desiderano. Ma siccome tutti i semi ibridi, quindi anche non Ogm, se riseminati diventano meno produttivi, da sempre i contadini i semi (Ogm e non-Ogm) li riacquistano, e se conviene economicamente acquistano anche quelli brevettati. Grazie all'uso dei semi Ogm da parte dei contadini, l'India in pochi anni è diventata il secondo produttore di cotone al mondo ed il 93% dei contadini indiani ha scelto semi di cotone Ogm. Vogliamo dire che i contadini indiani sono passati tutti a comprare e coltivare semi Ogm perché rendevano di più? E come non essere solidali con i nostri agricoltori che chiedono un'eguale libertà d'impresa, cioè di poter coltivare (anche) mais modificato con lo stesso gene che ha reso vantaggioso il cotone indiano. Concludo, esprimendo anche inquietudine per il fatto che 40mila aziende agricole, molte delle quali vorrebbero coltivare sia biologico sia Ogm, in tutta libertà e sicurezza (perché la coesistenza è possibile), chiudono ogni anno in Italia. Mentre apprendo che Coldiretti, contraria agli Ogm, vende e usa mangimi Ogm. C'è qualcosa di profondo che non va nel nostro Paese. La vicenda degli Ogm è paradigmatica. Come lo sono il caso Stamina, la sperimentazione animale, i vaccini, etc. È la perdita del senso di cosa è "vero in modo accertabile". La scienza cerca prove. I partiti cercano voti. Al Paese serve una visione e una cultura politica che torni a valorizzare i fatti e le competenze, come presupposto per recuperare la fiducia degli elettori. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 05 Ott.’14 SE VOLETE ESSERE CREATIVI IMPARATE AD ANNOIARVI Leonardo Da Vinci è l’esempio più famoso di creativo a tutto tondo: ha realizzato capolavori di ingegno e maestria in innumerevoli campi. Musicisti, pittori, scrittori fanno della creatività un lavoro e sono creativi per contratto pure i pubblicitari. Ma creativa è anche la massaia che deve reinventarsi una ricetta perché le manca un ingrediente, o l’elettricista che trova una soluzione diversa dal consueto per far funzionare un impianto. Il pensiero creativo, insomma, sembra poter essere ovunque. Ma che cos’è davvero la creatività? La possediamo realmente tutti, o è un dono di pochi talentuosi? È legata a doppio filo con l’intelligenza? Ma soprattutto, è vero che è in crisi, come sostiene uno studio apparso di recente sul Creativity Research Journal ? Stando, infatti, ai risultati della ricerca, condotta su 300 mila persone sottoposte a uno dei test più usati per misurare la creatività, dal 1990 in poi c’è stato un chiaro declino dei punteggi, mentre gli analoghi test sull’intelligenza indicano una continua crescita del quoziente intellettivo: un ambiente molto ricco di stimoli come quello attuale pare averci reso più intelligenti, “addormentando” però l’inventiva, specie nei bambini, che invece, di solito, sono i migliori nei test di creatività. Secondo i ricercatori, ciò accade perché interagiamo in modi sempre più impersonali grazie alla tecnologia, perdendo “segnali” comunicativi che arrivano dal contatto diretto e aiutano a sviluppare una personalità estrosa. Ma la nostra creatività diminuisce pure perché oggi tutti, bambini compresi, abbiamo poco tempo per pensare in libertà: nel caso dei bimbi, ad esempio, programmi scolastici molto ampi, attività collaterali di ogni genere e giochi elettronici hanno fagocitato il tempo libero, che invece andrebbe dedicato anche ad annoiarsi un po’. Perché proprio la noia è benzina per le nuove idee. Una ricerca pubblicata su Frontiers in Psychology , ad esempio, ha dimostrato che favorire le attività poco strutturate, dal gioco all’aperto alla lettura, dalle visite allo zoo alle passeggiate nel parco, aiuta gli alunni delle scuole elementari ad avere performance creative migliori: il gioco di ruolo, un classico delle attività infantili, è uno dei modi migliori per stimolare il “genio”. E uno studio americano su 56 adulti conferma: bastano quattro giorni di full immersion nella natura, senza diavolerie elettroniche, per dare una tregua alla mente che, non più costretta a dare fondo alle sue capacità di attenzione, ritrova slancio e creatività. Ma se lo stile di vita attuale sembra soffocare l’inventiva, d’altro canto c’è sempre maggior consapevolezza che fantasia e creatività siano talenti da incentivare. Spiega Barbara Colombo, coordinatrice dell’unità di ricerca di Psicologia della Creatività all’Università Cattolica di Milano: «Studi su persone che hanno perso l’impiego hanno dimostrato che il pensiero creativo si associa a una maggior probabilità di reinserirsi nel mondo del lavoro o di migliorare la propria posizione: chi è molto esperto nel suo campo, ma è “rigido”, non lascia mai la strada vecchia per la nuova e spesso non trova alternative; chi è esperto ma ha un pensiero flessibile, capace di spaziare con creatività, riesce a riciclarsi meglio. Ed è più apprezzato dai datori di lavoro». Tutto sta nella capacità di avere un pensiero divergente , caratteristica alla base della creatività secondo molti studiosi: chi vede oltre gli steccati, facendosi distrarre da stimoli collaterali insoliti, è più ingegnoso e innovativo di chi utilizza solo il pensiero convergente, ovvero focalizzato su un obiettivo, logico e razionale. Secondo molte ricerche, poi, chi è creativo è anche più intelligente (mentre l’inverso non è scontato). Ma è possibile definire la creatività? «È composta da diversi fattori: fluidità (quante idee siamo capaci di partorire); flessibilità (capacità di trarre spunto da elementi diversi e passare dall’uno all’altro); originalità , (effettiva innovazione del pensiero); elaborazione (il grado di dettaglio con cui si specificano le idee) — spiega l’esperta —. Secondo un altro tipo di approccio, la creatività è soprattutto la capacità di associare elementi molto distanti fra loro per trarne una novità». Elena Meli ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 05 Ott.’14 MOBY PRINCE, 21MILA FIRME Cresce la mobilitazione per la riapertura dell’inchiesta LIVORNO La petizione per chiedere verità e giustizia sulla tragedia del Moby Prince, lanciata nelle scorse settimane sulla piattaforme on line change.org, ha raggiunto quasi 21 mila firme. Lo rende noto il suo promotore, Luchino Chessa, figlio del comandante del traghetto della Navarma morto a bordo la sera del 10 aprile 1991 insieme ad altre 139 persone. L'iniziativa è stata fatta nome anche degli altri familiari delle vittime. Ieri, in occasione della notte bianca della memoria della diga del Vajont, durante la veglia Francesco Gerardi ha ricordato la strage del Moby Prince e anche la petizione. «Dobbiamo andare avanti con la raccolta firme – ha aggiunto Chessa –. Più siamo, più contiamo. Non dimenticare è un atto di civiltà e fa crescere la democrazia del nostro Paese». I familiari delle vittime del Moby Prince invocano un intervento diretto del premier Matteo Renzi per fare luce sulla vicenda oltre 23 anni dopo la più grande tragedia della marineria italiana. «Da allora – scrive Chessa – le indagini e i processi sulla vicenda hanno portato a un nulla di fatto e io insieme agli altri familiari ne siamo stati purtroppo testimoni. Quella notte nel porto di Livorno c'erano navi militarizzate in forza agli Stati Uniti, di ritorno dalla guerra del Golfo e che avrebbero dovuto scaricare armi nella base di Camp Darby. C'era una petroliera, l'Agip Abruzzo, che si trovava in una zona di mare “off limits” per quanto riguarda l'ancoraggio e in ogni caso in un tratto di mare diverso da quello riportato negli atti ufficiali». Nella lettera a Renzi, Luchino Chessa sottolinea che «non c'erano tuttavia tracciati radar, né satelliti che guardavano il porto di Livorno, e soprattutto non ci sono stati soccorsi coordinati e tempestivi» e per questo chiede «che si faccia piena luce su tutta la vicenda anche utilizzando i documenti chiusi negli archivi segreti dello Stato». Chessa rinnova infine l'auspicio di promuovere «una commissione d'inchiesta parlamentare bicamerale, che possa operare con professionalità e spirito costituzionale, fino a fornire risposte definitive ai quesiti che ci poniamo da 23 anni». ____________________________________________________________ Il Sole24ore 05 Ott.’14 LA SCIENZA APERTA DALL'OPEN SOURCE Spesso i dati di ricerca sono condivisi, ma sono inaccessibili a causa di strumenti di calcolo chiusi. Come i software Marco Passarello Che la scienza debba essere aperta in linea di principio non sembrerebbe dover essere neppure materia di discussione. Il fondamento del metodo scientifico sta nella possibilità per ogni scienziato di venire a conoscenza dei risultati ottenuti dai colleghi per verificarne la riproducibilità. Nella pratica però siamo ancora lontani dall'ideale in cui ogni articolo pubblicato contiene tutte le informazioni necessarie perché chiunque possa replicare lo studio o portarlo avanti. Spesso i dati vengono riportati solo in modo parziale o, anche quando vengono forniti, gli strumenti di calcolo che hanno permesso di ottenerli sono inaccessibili in quanto di tipo commerciale, e quindi costosi, o non pubblici, facendo della replicabilità un mero principio inapplicabile. Queste difficoltà vengono affrontate dal movimento dell'open science, che si batte per modificare gli standard delle pubblicazioni scientifiche in modo che la disponibilità dei dati sia massima. Tra i principi guida del movimento ci sono l'open research (cioè una ricerca che metta sempre a disposizione online a chiunque sia i dati prodotti, sia le metodologie usate), l'open access (cioè la pubblicazione degli articoli in una forma che non richieda costosi abbonamenti o non sia accessibile solo per gli accademici) e l'open notebook science, cioè la condivisione non solo dei risultati finali ma anche di tutti i dati grezzi e delle altre informazioni che permettono di analizzare nel dettaglio lo svolgimento della ricerca. È evidente che una scienza completamente aperta sarebbe molto più efficiente. Secondo alcuni critici, peraltro, l'assenza di filtri istituzionali potrebbe confondere il pubblico, rendere possibili esperimenti pericolosi senza controllo, o anche appesantire gli scienziati con una mole di dati troppo grande e perciò ingestibile. I veri freni all'open science, tuttavia, derivano da questioni di interesse: «Il motivo che spinge alcuni a ostacolare la condivisione dei risultati è una distorsione che si è creata negli ultimi anni, l'illusione che mantenere il controllo dei dati attraverso un know-how specifico permetta di generare un numero maggiore di pubblicazioni utili per la carriera». A spiegarlo è Luca Heltai, matematico e ricercatore presso la Sissa di Trieste, che da tempo contribuisce a sviluppare una libreria open source per la risoluzione di problemi di matematica applicata, e che si sforza di diffondere la cultura dell'open science. «Mi sto battendo da anni perché si arrivi a rendere sempre pubblici tutti i codici sorgente utilizzati, in modo che qualunque altro ricercatore desideroso di occuparsi dell'argomento possa utilizzarli senza dover ripartire da zero». Secondo Heltai, i primi a beneficiare di una scienza aperta sono i ricercatori stessi. «Negli ultimi anni ci si è accorti che è sempre più difficile sviluppare dei codici che siano all'avanguardia, in grado di superare l'attuale "stato dell'arte", se ogni volta è necessario ricominciare da capo. L'ho provato di persona: sfruttando librerie open source sono riuscito a svolgere in quattro giorni un lavoro che prima mi aveva richiesto sei mesi. D'altronde su una libreria come quella di cui mi occupo, la deal.II, si impegna una settantina di ricercatori, che dedicano una decina di ore la settimana ciascuno: in pratica è il frutto di molti anni di lavoro. Nessun singolo gruppo di ricerca potrebbe fare altrettanto». Tuttora molti articoli su riviste internazionali non mettono a disposizione i codici con cui sono stati ottenuti i risultati citati. «Ancora oggi molti preferiscono, quando devono cominciare un lavoro, affidarsi a un software commerciale, che è più facile da usare, ha un'interfaccia più semplice e accattivante, e così via. Inoltre i principali gruppi di ricerca hanno sviluppato "in casa" alcuni software, e preferiscono continuare a utilizzarli perché si sentono più sicuri. Noi speriamo che si possano vincere queste resistenze, che sono fondamentalmente di natura culturale». ____________________________________________________________ Il Sole24ore 05 Ott.’14 E-LEARNING OPPORTUNITÀ D'ITALIA Le università possono aprirsi mediante il web Ma tutti devono sostenere Piergiovanni Mometto L'Italia è un Paese ricco di talenti. Le nostre università, pur non essendo in cima alle classifiche mondiali, formano giovani capaci di farsi valere all'estero presso gli istituti più prestigiosi. Ma i tanti centri di eccellenza, le realtà che producono ricerca di qualità e innovazione faticano a emergere e farsi conoscere. Tuttavia oggi, nel contesto dell'economia della conoscenza e del sapere condiviso, si aprono nuove strade percorribili dal nostro sistema educativo per tornare a essere un centro di attrazione di risorse e di persone di valore. A partire dallo sviluppo di un'offerta di formazione di qualità online con cui il sistema Italia possa proporre le proprie eccellenze alla platea internazionale. Ma per ottenere questo risultato è necessario che tutti gli attori interessati – dalla politica al sistema universitario e alle aziende – facciano la loro parte. È questa la sollecitazione che emerge dal rapporto «E-Learning: la rivoluzione in corso e l'impatto sul sistema della formazione in Italia» realizzato per Aspen Insitute Italia da «I talenti italiani all'estero», un gruppo di giovani ricercatori e docenti universitari affermati all'estero. Questo documento dedicato all'analisi dei processi di insegnamento e apprendimento a distanza basati sulle tecnologie digitali nel nostro Paese si inserisce a pieno titolo nel dibattito sul futuro della nostra istruzione portando un contributo e un punto di vista importante poiché proviene da un contesto, quello delle grandi multinazionali tecnologiche e delle università internazionali, dove l'e-learning ormai da tempo è parte integrante dell'offerta formativa rivolta non solo a studenti e dipendenti ma anche alla platea globale di giovani e meno giovani che utilizzano le nuove tecnologie della comunicazione per aggiornarsi, studiare, seguire i propri interessi e i propri sogni. In particolare, in ambito universitario, l'offerta di corsi online di qualità da un lato integra stabilmente l'offerta formativa, facilitando il percorso di studi agli studenti che hanno difficoltà a frequentare le aule, mentre dall'altro l'offerta massiccia e spesso gratuita di contenuti educativi online diventa una opportunità per ribadire (o per migliorare) la visibilità e l'appeal di un istituto o di un polo universitario. Le grandi piattaforme per la fruizione online di contenuti formativi – i Mooc, Massive Open Online Courses – stanno avendo un importante successo di pubblico, misurabile in milioni di studenti e in migliaia di corsi offerti. Un modello vincente perché risponde alle esigenze di una società dove non esiste più una netta separazione fra progetti formativi individuali e vita lavorativa. Un modello che si sta cercando di introdurre anche in Italia. Da noi la formazione online è stata per anni appannaggio quasi esclusivo delle università telematiche e considerata come "formazione di serie B" dalla cultura accademica. Ma negli ultimi anni sono sempre più numerose le università che offrono una seria proposta di corsi a distanza e utilizzano l'e-learning anche per integrare la formazione in presenza. Ma sono proposte generalmente limitate ai soli iscritti. È di questi giorni invece la firma di un accordo fra la Luiss di Roma e Iversity, startup per la formazione a distanza di Berlino, che fornirà il supporto tecnologico per l'offerta di corsi. Iversity, peraltro, è già partner dell'Università di Firenze. Il 3 ottobre ha preso avvio il secondo Mooc in Managing Fashion and Luxury Companies della Bocconi, in collaborazione con Sda, veicolato attraverso la piattaforma di Coursera: ai nastri di partenza oltre 20mila studenti da 157 Paesi. Proprio la proposta di corsi online di qualità nei settori della moda, del design e delle eccellenze del made in Italy viene indicata dal report come la chiave di volta che permetterebbe al sistema Italia di tornare a essere attraente per studenti e professionisti stranieri. Ma per riuscire in questo intento è fondamentale che la politica sia capace di attivare azioni di sostegno in un quadro normativo coerente; che le università innovino nelle metodologie didattiche e siano capaci di individuare le aree realmente strategiche su cui effettuare gli investimenti e che siano in grado di integrare la loro proposta formativa con le esigenze e le conoscenze provenienti dalle aziende. Queste ultime, a loro volta, devono avere la capacità di essere protagoniste e proporre contenuti e corsi in grado di promuovere la loro immagine, ma anche di attirare valide risorse umane provenienti da tutto il mondo. Queste le ricette che il rapporto offre agli "attori" sociali coinvolti nel sistema educativo italiano. Con un'avvertenza. Parlare di e-learning oggi significa occuparsi di un «processo che interessa l'istruzione scolastica (dalla scuola materna all'università), la formazione specialistica (inclusa quella aziendale) e il cosiddetto life-long learning (la formazione come processo che accompagna l'intera vita lavorativa)». Significa quindi occuparsi del modo in cui nella nostra società si trasmette la conoscenza. Ha quindi ancora senso continuare a distinguere fra apprendimento ed e-learning? ========================================================= ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 01 ott. ’14 ENTI LOCALI, SI CAMBIA PIGLIARU: TAGLIARE LE ASL Non è più un'indiscrezione. La voglia di Francesco Pigliaru di tagliare le Asl diventa ufficiale in una conferenza stampa dedicata, in teoria, ad altri temi: «Siamo molto interessati a ridurre il numero delle Aziende sanitarie locali». Il governatore la butta lì, con casualità ben studiata. È un messaggio agli alleati, nei giorni in cui il Consiglio regionale esamina la proposta di riforma sanitaria. «Ne stiamo discutendo, miriamo a proporre una significativa diminuzione delle Asl», ripete Pigliaru. E quando gli si chiede se è possibile che arrivi in aula un emendamento della Giunta, conferma senza tentennare. I MANAGER Al suo fianco, l'assessore alla Sanità Luigi Arru aggiunge: «Per i commissariamenti degli attuali manager potrebbe bastare la legge in discussione». Ma, a maggior ragione, con un taglio delle Asl sarebbero quasi automatici. Altrettanto chiaro, Pigliaru, nello smentire una sua contrarietà all'Agenzia dell'emergenza-urgenza, prevista dalla proposta di legge del Pd: «La Sardegna ha una popolazione scarsa su un vasto territorio, l'Areu avrebbe un senso. Non c'entra col taglio delle Asl». Posizioni che peseranno sul tavolo della maggioranza, quando si farà il punto sulla riforma. Nel frattempo si fanno sentire i Rossomori: «Non è tempo di polemiche per interessi di parte o visibilità», scrivono i consiglieri regionali Emilio Usula e Paolo Zedda, «la proposta di riordino discussa in commissione non può essere contrabbandata come una riforma definitiva del sistema sanitario. Contiene novità perfettibili, ma che possono migliorare in tempi brevi alcune criticità. Perciò la sosteniamo». IL SORVEGLIA-ASL L'occasione per parlare della questione è la presentazione del comitato permanente per il monitoraggio della spesa e dei servizi nella sanità, istituito ieri dalla Giunta. Oltre all'assessore, riferisce Arru, ne faranno parte un delegato della presidenza della Regione, uno dell'assessorato alla Programmazione e tre esperti di bilanci. «Faremo una verifica trimestrale dei conti - dice l'assessore - ma anche dei servizi resi». Per esempio in riferimento alle liste d'attesa. ENTI LOCALI Nella stessa seduta sono stati concordati anche gli indirizzi per la riforma delle autonomie, necessaria con la scomparsa delle Province. «Il riassetto arriverà con un disegno di legge - precisa l'assessore agli Enti locali Cristiano Erriu - ma prevediamo di istituire l'area metropolitana di Cagliari, che comprenderà sedici Comuni, e alcuni distretti amministrativi regionali per le funzioni sovracomunali». Quanti? «Sicuramente meno delle otto Province». Il numero però resta da definire. Si punterà anche sulle Unioni dei Comuni, una quarantina. Gestiranno in maniera associata alcune funzioni comunali: per altro la legge nazionale lo imporrà, dal 31 dicembre, per i centri con meno di 5mila abitanti. La riforma sarà congegnata insieme all'assessorato degli Affari generali: «Si va verso un sistema integrato Regione-enti locali - conferma l'assessore Gianmario Demuro - in cui le Unioni dei Comuni cureranno soprattutto i servizi alla persona, e i distretti la programmazione delle funzioni di area vasta». ACQUISTI ELETTRONICI Nella riorganizzazione rientra la nuova piattaforma telematica per gli acquisti centralizzati di beni e servizi e degli appalti della pubblica amministrazione: «Nasce di fatto una centrale unica di committenza - riprende l'assessore Erriu - per la Regione e i suoi enti, i Comuni, le Asl, le Università». «Siamo tra le prime regioni d'Italia a dotarci di uno strumento informatico simile», sottolinea Pigliaru: «Fa parte di una serie di provvedimenti che contribuiranno a creare economie di scala ed efficienza delle istituzioni». ____________________________________________________________ L’unione Sarda 05 Ott..’14 SANITÀ ALLA RESA DEI CONTI Vertice chiarificatore tra Giunta e alleati sul taglio Asl - Non c'è l'intesa sul dimezzamento. E ora si profila una riforma in due tempi Troppe idee diverse, sulla riforma delle Asl, per un'alleanza sola: nel centrosinistra ci sono forse più punti di vista che partiti, Francesco Pigliaru vuole ridurre le aziende, altri restano affezionati all'assetto attuale, urge un chiarimento. Si farà nei prossimi giorni, dopo il sì definitivo della commissione Sanità alla legge che istituisce l'Azienda dell'emergenza, l'elisoccorso e la centrale unica di acquisto. Da domani il Pd sonderà le disponibilità degli alleati. Di certo sarà un vertice delicato, per effetto delle tensioni tra la Giunta e la maggioranza. CACCIA AI MANAGER Tensioni che potrebbero pure acuirsi, se fosse vera un'ipotesi che circola da un po': per scegliere i manager delle Asl l'esecutivo medita di replicare il metodo Abbanoa. Cioè affidare a una società di cacciatori di teste la ricerca dei nomi giusti per coniugare efficienza e conti in ordine. Il nuovo amministratore del gestore idrico, Alessandro Ramazzotti, è stato scovato così. Ma una strada simile deluderebbe chi vuole riprodurre la classica lottizzazione partitica. Problema solo eventuale, per ora: è sicuro invece l'attrito sul numero delle Asl. DIVERGENZE Pigliaru ha preannunciato una proposta di riduzione, che secondo qualcuno equivarrà a un dimezzamento: da otto a quattro, corrispondenti alle Province storiche. Altri (La Base) predicano l'Asl unica. Un testo di legge del Partito dei sardi lasciava sette centri di controllo, comprese le aziende miste e il Brotzu. Il Centro democratico punta a tre, e intanto si prepara a votare contro la legge elaborata dalla commissione presieduta dal socialista Mondo Perra: l'astensione di Anna Maria Busia nella votazione sul parere finanziario («non ci sono certezze sulla copertura»), in commissione Bilancio, è stata la prova generale. Finora non hanno avuto eco le voci contrarie al taglio, ma ci sono. Anche nel Pd, nonostante le aperture del capogruppo Pietro Cocco: «Ragioneremo serenamente insieme al presidente», assicura, «il testo attuale della legge prevede che la Giunta presenti, entro 90 giorni, un disegno di legge sulla riorganizzazione generale». CONTI ALLA MANO È possibile però che l'esecutivo intervenga con un emendamento in aula sul testo della commissione. L'imminente vertice dovrà servire proprio a decidere quale strada seguire. «Ogni valutazione sarà fatta sulla base dei conti precisi sui possibili risparmi», riprende Cocco, alludendo ai calcoli degli uffici: «Approvare in fretta questa prima riforma è importante perché consentirà subito di contenere i costi e ripristinare i servizi tagliati ai cittadini». Qualche dubbio, sulla sforbiciata alle Asl, arriva da Sel: «Può essere opportuna oppure inutile», riflette il capogruppo Daniele Cocco, «dipende da quanto inciderà realmente sulle spese. E poi dovremo stare attenti a non ridurre i servizi ai cittadini». Invece, aggiunge, «è necessario commissariare immediatamente le Asl, per evitare di aggravare il deficit». L'OPPOSIZIONE «I Riformatori sono contrarissimi alla legge votata in commissione», avverte il capogruppo Attilio Dedoni: «Anche le cose teoricamente opportune, come la centrale unica di committenza e le case della salute, se non sono legate a una riforma complessiva seria non portano alcun beneficio». Da anni i Riformatori invocano l'Asl unica: «L'innovazione fondamentale sarebbe centralizzare la gestione del personale da una parte, e degli acquisti e appalti dall'altra. Purtroppo il testo del centrosinistra non serve a dare organicità e operatività al sistema. Non va incontro agli interessi della gente. Forse - conclude Dedoni - l'unica cosa che terrà insieme la maggioranza, alla fine, sarà la possibilità di commissariare le Asl». Giuseppe Meloni ____________________________________________________________ La Nuova Sardegna 02 ott. ’14 ARRU: IL DEFICIT VA ABBATTUTO SUBITO La Giunta ha già preparato il percorso di riforma. Dalla riduzione delle Asl al taglio delle spese CAGLIARI Sulla sanità nessuno sconto: il deficit (400 milioni) va abbattuto in fretta. L’ha ribadito l’assessore Luigi Arru nella risposta all’interrogazione presentata dal consigliere regionale Marco Tedde (Forza Italia) sulla delibera di giunta che da luglio in poi ha imposto ai manager Asl (nominati dal centrodestra) di «limitarsi all’ordinaria amministrazione». Per Tedde la delibera è stata «un’evidente ingerenza della politica nella gestione che spetta ai direttori generali». Secca la risposta di Arru: «Gli obiettivi dovevano essere tre: ridurre i costi, razionalizzare i posti letto e migliorare gli standard dei servizi, ma nessuno è stato raggiunto». In altre parole, la delibera non è stata altro che l’anteprima di quanto accadrà nei prossimi mesi: il commissariamento delle Asl, delle due Aziende miste di Sassari e Cagliari, sono i policlinici universitari, e dell’ospedale Brotzu di Cagliari. Prima del cambio della guardia provvisorio, come si sa da tempo, ci sarà l’approvazione in aula della proposta di legge presentata dal Pd e che ha come punto forte la costituzione dell’Asl regionale per le emergenze. Proposta che – seppure con qualche probabile correzione in corsa – passerà di sicuro, ma oggi «non può essere contrabbandata da nessuno come la riforma definitiva del sistema sanitario», hanno scritto dai banchi della maggioranza i consiglieri regionali Emilio Usala e Paolo Zedda dei Rossomori. Per loro la svolta arriverà quando saranno revocati, senza titubanza aggiungono, «gli incarichi agli amministratori che non hanno raggiunto gli obiettivi richiesti, come lo è il rigoroso controllo della spesa sanitaria». Sempre di spesa hanno parlato i segretari del sindacato autonomo dei medici e dei laboratori di analisi convocati dalla commissione Sanità del Consiglio regionale. Secondo Giuseppe Lo Nardo del Sampi, «con la riduzione delle tariffe pagate dalle Asl agli studi e laboratori privati, come imposto da un decreto del ministero alla salute, sarebbero inevitabili i licenziamenti nelle strutture sanitarie private, almeno 800 posti in meno, e la drastica riduzione dei servizi offerti ai cittadini». Le tariffe – ha aggiunto – sono ferme dal 1998 e non solo non state aggiornate ma già ridotte del 20 per cento e ora c’è il rischio di un altro taglio. «A quel punto la situazione diventerebbe insostenibile – ha detto Lo Nardo – e un servizio privato che ora supplisce alle carenze di quello pubblico, ma pesa sul bilancio regionale solo per 61 milioni contro i circa 370 milioni che costano le prestazioni fornite dalle Asl, sarebbe ridimensionato». È un pericolo che non va corso, ha detto il presidente della commissione, Raimondo Perra, soprattutto perché la chiusura degli studi convenzionati ricadrebbe sulle strutture pubbliche già in difficoltà». (ua) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Sett ’14 ASL, MAGGIORANZA AI FERRI CORTI Otto Asl, due aziende miste (ospedaliero-universitarie), poi il Brotzu che fa storia a sé. Undici gangli vitali della sanità sarda, ma per arrotondare sta arrivando il dodicesimo: l'Agenzia regionale dell'emergenza-urgenza, per brevità chiamata Areu. È la grande novità della legge di riforma che sta per approdare all'aula del Consiglio regionale, dopo che è stato completato l'esame nella commissione Sanità presieduta dal socialista Mondo Perra. Prevede un'organizzazione centralizzata per il 118, i reparti di pronto soccorso, le guardie mediche e così via. Ha suscitato polemiche, alla fine però è passata. Ma la maggioranza ha solo rinviato i suoi problemi. La divergenza sul taglio delle Asl non è risolta. «Non voteremo una legge che aumenta il numero delle poltrone», annuncia Roberto Desini del Centro democratico. CONTRASTI Urge un vertice di coalizione, perché altrimenti il centrosinistra rischia di trovarsi alle prese con la prima grave spaccatura. È probabile che si faccia nei prossimi giorni: domani - dopo i pareri finanziari e delle autonomie locali - la commissione dovrebbe votare definitivamente la legge e spedirla al dibattito in aula. E la maggioranza non può permettersi di affrontare quel passaggio senza un'intesa al suo interno. Perché la posizione del Centro democratico - anticipata nei mesi scorsi dal leader regionale, il deputato Roberto Capelli - trova sponda anche in altre parti della maggioranza. Alcuni partiti (come l'area sovranista) hanno proposto la riduzione del numero delle Asl. Ma, soprattutto, sarebbe propenso a tagliarle anche Francesco Pigliaru. E in ogni caso il governatore non vorrebbe dare un segnale contraddittorio con la linea di sobrietà. Qualcuno ipotizza, come punto di caduta, quattro Asl (corrispondenti alle Province storiche) e il via libera all'Areu. Ma è una mediazione ancora tutta da costruire. PD E ALLEATI «Ho già detto che non sono personalmente contrario a rivedere il numero delle Asl», ripete il capogruppo consiliare del Pd Pietro Cocco, «se si dimostra che questo può garantire un risparmio senza intaccare i servizi. Ragioneremo anche sulla base dei conti precisi». Se ne sta occupando l'assessorato guidato da Luigi Arru: secondo i primi calcoli, la centrale unica degli acquisti (altra novità prevista dalla legge) potrebbe tagliare i costi della sanità di una somma tra 50 e 200 milioni. Ma sono previsioni ancora molto embrionali. «Nel complesso - riprende Cocco - siamo soddisfatti, perché la nostra proposta di legge va nella direzione tracciata dai nostri programmi elettorali». Desini però non la pensa così: «L'Areu non è una necessità. E secondo noi non serve neppure una legge per commissariare le Asl», prosegue l'esponente centrista, alludendo ai sospetti di chi pensa che il vero obiettivo della riforma sia quello: «Siamo favorevolissimi ai commissariamenti, ma ci sono già le condizioni per farli sulla base delle norme attuali». L'OPPOSIZIONE «Se ci sono forze di maggioranza disponibili a ragionare, siamo pronti a discutere di una seria riforma sanitaria», avverte il capogruppo di Forza Italia Pietro Pittalis: «Ma se il testo resterà quello attuale, lo contrasteremo con ogni mezzo. Anche a costo di raddoppiare gli emendamenti già presentati in commissione». Erano 400, i conti si fanno in fretta. Per attaccare l'Areu, nei giorni scorsi la minoranza - tramite un altro forzista, Antonello Peru - ne ha denunciato i costi: solo per il direttore generale, quello sanitario e quello amministrativo servirebbero 600mila euro all'anno. «Ma in generale, secondo i nostri calcoli - prosegue Pittalis - l'intera riforma voluta dal centrosinistra ci farà spendere dai 50 ai 90 milioni in più. Altro che risparmi. Se è utile un'organizzazione unica del 118, basta creare un dipartimento presso l'assessorato». ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 30 Sett ’14 TEDDE (FI): LA GIUNTA CONDIZIONA I MANAGER «Ora finalmente presidente e assessore dovranno rispondere». Così Marco Tedde, vicecapogruppo di Forza Italia, annuncia l'inserimento all'ordine del giorno del Consiglio regionale, convocato per mercoledì, dell'interpellanza sulle indebite ingerenze della Giunta nell'amministrazione delle aziende sanitarie locali sarde. «Disattendendo alcuni fondamentali impegni politici e principi normativi», ricorda l'esponente azzurro «la Giunta Regionale con deliberazione numero 28/17 del 17 luglio ha imposto ai direttori generali delle aziende sanitarie e ospedaliere l'obbligo di sospendere l'efficacia, con effetto immediato, degli atti aziendali». Ha inoltre imposto «di non adottare atti eccedenti l'ordinaria amministrazione in difetto di preventiva «valutazione ad opera dell'assessorato», mortificando le loro competenze istituzionali e precludendo loro la possibilità di gestire efficacemente le aziende e garantire la tempestiva tutela della salute pubblica. «È una vergogna senza precedenti», prosegue l'ex sindaco di Alghero «che stride con le enunciazioni di principio del presidente Pigliaru». Il motivo è semplice. «Pigliaru predica per una sanità libera da condizionamenti politici, ma razzola per una lottizzazione selvaggia del settore. Quando però si valicano i confini di ciò che attiene alle scelte politiche e si invade il campo amministrativo, qualcuno deve fischiare il fuorigioco. Lo faremo mercoledì in aula, richiamando presidente ed assessore a rientrare nell'alveo dei propri compiti istituzionali». ( re. po.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 01 ott. ’14 CORSI PER OPERATORI SOCIO-SANITARI Sessanta corsi per dare un lavoro a 1.500 sardi. La Giunta, su proposta dell'assessore al Lavoro Virginia Mura e del suo collega della Sanità Luigi Arru, ha stanziato 6 milioni per la formazione professionale degli operatori sociosanitari. «Un intervento legato all'analisi dei fabbisogni del mercato pubblico e privato», nota Mura. I corsi inizieranno a febbraio. Saranno riservati 375 posti a ciascuna delle seguenti categorie: disoccupati ordinari, giovani al di sotto dei 30 anni, persone che hanno perso gli ammortizzatori sociali, occupati del settore privi della qualifica. «Nelle strutture pubbliche - calcola Arru - servono oltre 500 operatori, altri 308 nell'assistenza territoriale. Il resto sarà assorbito dal privato». Dei 6 milioni destinati ai corsi, poco meno di 5 provengono, spiega l'assessore al Lavoro, da «risorse del Fondo sociale europeo che altrimenti perderemmo. Invece per 1 milione e 275mila euro iniziamo a usare la programmazione 2014-2020». (g. m.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 29 Sett ’14 SARDEGNAIT, L'ALLARME DEI SINDACATI: LA GIUNTA CI DICA COSA VUOL FARE DI NOI Aspettavano una chiamata che non è mai arrivata. Se entro oggi dalla Regione non arriverà un segnale, un appuntamento - come promesso - i dipendenti di SardegnaIt inizieranno la mobilitazione. Un sit-in davanti all'assessorato agli Affari generali, per cominciare. «Che ci dicano cosa c'è scritto nel nostro futuro, qual è la strategia sull' information technology in Sardegna, cosa si vuole fare delle società in house (quelle in utile come la nostra)». È il secondo appello in breve tempo che parte dai sindacati regionali di categoria Filcams Cgil e Fisascat Cisl. Ricordano che in ballo ci sono 140 posti di lavoro, 17 a tempo determinato, le prime persone andranno a casa a metà ottobre, il 31 dicembre è il termine ultimo per salvarsi o morire. «C'è in atto una grande riforma della Pubblica amministrazione», sottolinea Fabio Calai (Cgil) «e anche noi, pur non essendo “regionali”, ne facciamo parte. Chiediamo chiarezza e impegni». Il messaggio è chiaro: si corre il rischio di finire in un calderone di tagli e cancellazioni in nome della razionalizzazione e della spending review , senza distinzioni tra realtà in attivo oppure in rosso. SardegnaIt è stata costituita nel dicembre 2006 dalla Regione (Giunta Soru) e dal Crs4. Dall'autunno 2009 (Giunta Cappellacci) la Regione detiene il 100% delle quote. La mission è quella di fornire all'Ente, al proprio interno e nei rapporti con i cittadini e altre istituzioni, «le migliori soluzioni Ict», progetti, servizi, innovazione, tecnologia. La società ha un amministratore unico, Marcello Barone, che nel novembre 2013 è stato confermato dall'ex presidente Cappellacci fino al 2016. A giugno di quest'anno, l'attuale capo della Giunta, Francesco Pigliaru, in una delibera, ha rilevato una serie di anomalie (come un significativo aumento dei costi per il personale e interventi non previsti in atti ufficiali, ad esempio la web tv) così ha vietato l'assunzione di consulenti e personale, imposto «opportune misure per la riduzione dei costi di gestione del 10%», non ha approvato il budget e il Piano degli obiettivi per il 2014 e chiesto una riformulazione. Poi puntualmente presentata a fine giugno. È in questo momento che è scattato l'allarme. «Abbiamo chiesto immediatamente un incontro all'assessore, a giugno, e non abbiamo ricevuto risposte», sottolineano i sindacati. Le paure riguardano «il mancato rinnovo di alcuni contratti di servizio, ormai scaduti». Il Siar (sistema informativo agricolo regionale - scaduto il 31 luglio - che gestisce le anagrafi agricole e i fondi del Piano di sviluppo rurale), il SiTr (sistema informativo territoriale regionale, scaduto il 31 agosto) e il Suap (sportello unico per le attività produttive), tra gli altri, non sono stati rinnovati per effetto di quella delibera che «su indicazione di Bruxelles, ridefinisce i criteri di assegnazione dei servizi della Regione alle società in house. «Il necessario processo riformatore», sottolineano, «non deve paralizzare le attività e mettere a rischio i posti di lavoro. Quindi è necessario che siano messe a disposizione le risorse necessarie al funzionamento dei servizi e che si faccia chiarezza». L'assessore agli Affari generali, Gianmario Demuro, ha spiegato che «la situazione è sotto controllo ed è in corso da pa ______________________________________________ Corriere della Sera 02 Ott.’14 SPECIALIZZAZIONI MEDICINA EVITIAMO LE FARSE di Beppe Severgnini A fine mese sono previste le prove per accedere alle scuole di specializzazione in medicina. Si svolgeranno con modalità nuove (quiz a risposte multiple, una graduatoria nazionale per l’assegnazione dei posti). Arrivano con uno strascico di ansie e polemiche: entrambe giustificate. Per un giovane medico onesto, l’accesso alla specializzazione è un bivio che decide quale strada prende la vita. Per un giovane medico disonesto è la grande occasione per imbrogliare i colleghi, la sanità, la società. Probabilmente, continuerà così. Se fossimo un Paese serio, dovremmo prenderne atto e correre ai ripari. Ma forse non siamo un Paese tanto serio. Altrimenti, non accadrebbe questo. 1.Il bando è uscito a ridosso della data dell’esame e in ritardo rispetto agli scorsi anni. La bibliografia non è stata chiarita. Risultato: il candidato deve prepararsi sull’intero programma di studi di medicina. 2.La graduatoria è nazionale, ma la valutazione dei candidati per l’accesso al test è diversa da ateneo adateneo.3.Il metodo di assegnazione dei posti non è chiaro come in Francia e Spagna, dove esiste una graduatoria nazionale (i primi classificati scelgono dove andare). In Italia il sistema è macchinoso. La destinazione dipende dalla graduatoria espressa da ciascun candidato al momento dell’iscrizione al test. 4.Il nuovo test nazionale arriva dopo anni di test locali. Chi non è entrato nella scuola di specializzazione, magari a causa dei soliti traffici baronali, è ora svantaggiato (a parità di graduatoria, passano i più giovani).5.Mancano ancora le sedi per il test. C’è bisogno di 15mila computer (che non s’impallino a metà della prova). 6.Rischio di irregolarità. Durante il concorso di Medicina Generale, il 17 settembre, in tutta Italia sono accadute cose sgradevoli. Mi scrivono tre giovani medici (Filippo Pesapane, Michele Ballabio, Stefano Marcelli): «Cellulari che suonavano, smartphone usati senza controllo e discussioni ad alta voce (...) Una prova equa scongiurerebbe inevitabili ricorsi con dispendio di tempo, soldi ed energie». Impeccabile. Aggiungo: un giovane medico, preparato e onesto, non tollera più queste farse. Prende e se ne va all’estero: Svizzera, Germania, Regno Unito lo accoglieranno a braccia aperte. L’Italia, che l’ha portato fino alla laurea, con costi collettivi non indifferenti, saluterà un bravo professionista. Gli altri, quello dello smartphone e dell’amico di papà, invece ce li teniamo qui: garantito. _________________________________________________________ Gazzetta Del Mezzogiorno 03 Ott. ’14 MEDICINA A TARANTO IL CORSO DI LAUREA RISCHIA LA CHIUSURA gli studenti in rivolta LUCA BARILE BARI. Tutto l'Ateneo li ha sentiti arrivare, tra il suono dei fischietti, i cori e le trombe da stadio. Mattinata di protesta, ieri a Bari, per gli studenti dei corsi di laurea nelle professioni sanitarie che si tengono nella sede distaccata dell'Università, a Taranto. I ragazzi temono la paralisi, o peggio la chiusura del polo jonico, a causa della rinuncia a svolgere lezioni che hanno presentato i docenti. Professori e ricercatori, a loro volta, sono infatti in mobilitazione: reclamano il pagamento degli arretrati e degli adegua- menti stipendiali, che spettano loro in quanto medici convenzionati con il Policlinico barese. La contestazione dei ragazzi è iniziata intorno alle dieci. Sono arrivati scandendo slogan ed esibendo striscioni e sono stati ricevuti dal presidente della Scuola di Medicina, Paolo Livrea, che ha cercato di rassicurarli in un dibattito pacifico, ma nel quale sono emersi malumori non più contenibili. «Da anni denunciamo le problematiche che affliggono gli iscritti del polo jonico» spiega Michele Labianca, rappresentante degli studenti di Medicina ed esponente dell'associazione "Studenti perà". Dopo la risoluzione della questione sede, sebbene sussistano problemi relativi al trasferimento dell'impianto di teledidattica, non è stato trovato rimedio alla carenza di personale docente universitario». Già in passato, infatti, i ragazzi che frequentano i corsi a Taranto (infermieristica, tecniche della riabilitazione e di prevenzione nei luoghi di lavoro ) hanno dovuto sopportare le molteplici interruzioni alla corrente elettrica, e quindi alle lezioni, dovute a continui furti di cavi di rame. In seguito, sono stati spostati, per ordine del prefetto di Taranto, dalla vecchia sede in via Deledda, considerata a rischio per la vicinanza all'Ilva all'attuale sistemazione in corso de Gasperi, nel quartiere Paolo VI. L'ultimo atto, il problema dei docenti. «Da quattordici anni, a causa dell'incapacità dell'Ateneo e del Policlinico, attendiamo quello che ci spetta - ha spiegato Livrea - e nonostante ciò sto facendo di tutto per convincerli a fare lezione». Sullo sfondo, l'antico problema delle integrazioni stipendiali per gli universitari che svolgono anche assistenza sanitaria. Il lodo arbitrale dell'aprile 2012, salutato come la soluzione al contenzioso, non è stato applicato. Ma gli studenti non vogliono andarci di mezzo. «Ci opponiamo alla chiusura della sede - aggiunge Labianca - ribadendo la necessità di trovare una soluzione definitiva e non un temporaneo rimedio, consapevoli dell'importanza culturale e sociale di una facoltà medica sul territorio». Il rettore dell'Ateneo, Antonio Uricchio, da Roma dov'è intervenuto ad una conferenza dei rettori, fa sapere di essere «costantemente impegnato nell'individuazione delle soluzioni più idonee» e che, in ogni caso, «l'offerta formativa a Taranto sarà garantita». ____________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 Ott,’14 SANITÀ, ALMENO UN MILIARDO DI TAGLI Da spending e sconti fiscali attesi 10-11 miliardi ma ne mancano ancora 3 Marco Mobili Marco Rogari ROMA Non meno di 800 milioni-1 miliardo. A meno di due settimane dal varo della legge di stabilità sembra essere questo l'obiettivo minimo della riduzione di spesa per la sanità. Anche se resta in piedi l'ipotesi di un intervento più consistente, vicino ai 2 miliardi, con ricadute sul Fondo sanitario e sul patto per la salute con le Regioni. Ma i Governatori e il ministro Beatrice Lorenzin continuano a frenare su questa seconda ipotesi. La partita insomma è ancora in corso. Con il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, che ribadisce come anche per la sanità esistano margini di risparmio. E che manda un messaggio chiaro ai ministeri dicendo al "Foglio" che se non arriveranno proposte adeguate per procedere con riduzioni selettive di spesa si procederà con tagli lineari. All'appello mancherebbero ancora almeno 3 miliardi del piano complessivo di tagli, che seppure ridotto rispetto all'obiettivo di 16 miliardi indicato dal Def di aprile, dovrà comunque garantire 10-11 miliardi, compresi gli 1,5-2 miliardi attesi dallo sfoltimento della giungla delle tax expenditures. Gran parte dell'operazione sulla sanità sarà realizzata attraverso il nuovo giro di vite sugli acquisti di beni e servizi (convenzioni Ssn comprese), che complessivamente per tutta la Pa dovrà assicurare almeno 2-2,5 miliardi. Con la possibilità di arrivare a 4-5 miliardi, ovvero quasi la metà del piano di tagli. Secondo il sottosegretario all'Economia, Enrico Zanetti, l'asticella della "stabilità" sarà posizionata a quota 22 miliardi. Ma si potrebbe salire anche a quota 24- 25 miliardi, magari per effetto della proroga, ma forse in maniera più selettiva, dell'ecobonus energetico e di quello per le ristrutturazioni edilizie, chiesta dal ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi. Una proroga che non è scontata per entrambe le agevolazioni. Nella legge di stabilità, o in un suo collegato, sembra ormai destinato a entrare anche una misura che prevede la la garanzia statale, attraverso il Fondo centrale di garanzia, sulle Abs cosiddette «mezzanine» interessate dal piano Bce (si veda altro articolo a pag. 4). Nelle ultime ore all'interno del Governo ha preso quota l'ipotesi di inserire nella "stabilità" la norma sull'autoriciclaggio, frutto di una lunga mediazione tra Giustizia, Economia e Parlamento. Non è del tutto escluso, poi, che l'intero pacchetto di misure sul rientro dei capitali possa traslocare direttamente nella ex Finanziaria. Alla stabilità saranno collegati dal Governo tre provvedimenti: oltre alla delega sulla Pa, già all'esame del Senato, il Governo varerà un'altra delega specifica sulla revisione dell'ordinamento degli enti locali e un disegno di legge con misure su spending review, promozione dell'occupazione e degli investimenti nei settori del cinema e dello spettacolo dal vivo. Intanto non manca qualche polemica per la decisione del Governo di vincolare l'obiettivo a medio termine del raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2017 a una clausola di salvaguardia imperniata su interventi sull'Iva e sulle imposte indirette per 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,7 miliardi nel 2018. Che, secondo la Nota di aggiornamento del Def, produrrebbe una perdita di Pil dello 0,7% con una contrazione di consumi e investimenti di 1,3 punti. Per la Confcommercio un aumento dell'Iva sarebbe «una resa alla crisi». No pure da Forza Italia. E critiche arrivano anche dal Codacons. La "stabilità" dovrebbe essere varata il 15 ottobre. La cornice è stata delineata dalla Nota di aggiornamento al Def: 12,5 miliardi per la crescita facendo leva anche sugli 11,5 miliardi ricavati dallo scostamento tra il rapporto deficit-Pil "programmatico" per il 2015 (2,9%) e quello "tendenziale" (2,2%); 10-11 miliardi di tagli e potatura delle tax expenditures da utilizzare anche per disinnescare la clausola fiscale da 3 miliardi ereditata dall'ultima "stabilità" targata Letta- Saccomanni e far fronte ai 4-6 miliardi delle consuete spese indifferibili da 4-6 miliardi (dalle missioni di pace al 5 per mille). Sul fronte dei tagli, al netto dell'operazione forniture, i singoli ministeri dovrebbero garantire altri 1,5-2 miliardi (con un contributo della Difesa di 3-500milioni). Un altro miliardo dovrebbe arrivare dalla prima stretta sulle partecipate a carico degli enti locali. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 30 Set.’14 ANTITRUST, MAXI-MULTA AI MEDICI ( f.ch. ) Multa da 831mila euro per la Federazione nazionale dei medici da parte dell’Antitrust, a causa delle «disposizioni idonee a ostacolare ingiustificatamente l’attività pubblicitaria degli iscritti e che costituiscono illeciti restrizioni della concorrenza». La sanzione arriva a seguito dell’istruttoria aperta un anno fa per la segnalazione di Groupon. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 01 Ott.’14 ATTESE PER LE CURE E PROBLEMI CON I TICKET ROMA È per i cittadini il maggior ostacolo verso una serena ed efficace fruizione del servizio sanitariopubblico. Il ticket. E se alla prospettiva di partecipare alla spesa si aggiunge la lunghezza delle liste di attesa, la fuga verso il privato o addirittura la rinuncia alle cure diventano una soluzione sempre più praticata. Di nuovo negativo, ma con indizi di miglioramento, il rapporto Pit Salute elaborato dal Tribunale per i diritti del malato. Su oltre 24 mila segnalazioni raccolte dai 260 sportelli in ospedale, una su quattro (23,7%) riguarda la difficoltà di usufruire delle prestazioni sanitarie. In 6 casi su 10 le attese sono la principale causa di allontanamento, seguite da insostenibilità dei ticket (31%) e costi alti dell’intramoenia (10,1%) cioé l’alternativa costituita dalla possibilità di ricevere le stesse cure a pagamento. Però c’è anche un po’ di luce. Scese del 16%, rispetto al rapporto precedenze, le lamentele sulle liste. A parte le situazioni estreme: 2 anni per un intervento di ernia al disco, 14 per una mammografia, 20 mesi per una visita psichiatrica. Margherita De Bac ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 02 ott. ’14 SANITÀ PRIVATA, IL GRIDO D'ALLARME: COI TAGLI AI RIMBORSI 800 LICENZIATI Il settore privato convenzionato eroga il 52 per cento delle prestazioni ambulatoriali ma grava sul bilancio della sanità per l'1,4. In termini assoluti costa 61 milioni di euro contro i circa 370 dell'altro 48 per cento erogato dal servizio sanitario regionale. Dette così le ragioni a sostegno della battaglia che i 240 studi medici e laboratori clinici sardi stanno sostenendo per la loro sopravvivenza sembrano granitiche. Ma è davvero così o è semplicemente una difesa dei grandi interessi che ruotano attorno alla sanità, pubblica e privata? Giuseppe Lo Nardo, segretario del Sindacato autonomi professionisti medici italiani, prova a usare la forza dei numeri per dimostrare alla commissione Sanità del consiglio regionale che «le tariffe sono ferme al 1998, quando c'era la lira, e non sono mai state aggiornate, anzi sono state decurtate del 20 per cento. E saranno tagliate ancora se sarà applicata la delibera regionale che, recependo un decreto ministeriale del 2012, aggiorna al ribasso il “Nomenclatore tariffario”. «Sarebbero inevitabili almeno 800 licenziamenti su un totale di 1400 addetti e la drastica riduzione dei servizi sanitari offerti ai cittadini, che nel momento in cui dovesse essere applicato il decreto si dovrebbero pagare le prestazioni per intero», hanno detto i rappresentanti del Sapmi e di Federlab agli onorevoli della commissione. La delibera sarebbe stata sospesa dall'assessorato ma per ora non ci sono conferme ufficiali. Dunque la protesta va avanti. «Le nostre strutture suppliscono alle necessità dei cittadini e supportano il sistema pubblico con professionalità certificate e di elevato livello», hanno sostenuto i rappresentanti di ambulatori privati, laboratori di analisi e centri radiologici, «oltre a creare una rete di assistenza territoriale in stretta collaborazioni con i medici di base». La categoria chiede di istituire «una Commissione paritetica consultiva Regione-organizzazioni sindacali che, partendo da un'analisi dei costi, possa proporre un nuovo Nomenclatore tariffario regionale», l'assessore Luigi Arru conferma di essere pronto. La Regione, con questa operazione, risparmierebbe circa otto milioni all'anno ma, fa osservare il presidente della commissione Sanità Raimondo Perra (Psi), «se gli studi convenzionati passassero all'assistenza indiretta, i pazienti si riverserebbero verso le strutture pubbliche, che già trovano in difficoltà a seguire i propri ricoverati». Anche Lorenzo Cozzolino (Pd) ritiene che il grido d'allarme della sanità privata sia giustificato, anche perché, ha fatto notare, per adeguare il nomenclatore in Sardegna si è fatto riferimento alle tariffe di Sicilia, Calabria e Umbria e non a quelle di Toscana, Emilia Romagna e Piemonte, che sono regioni virtuose e rimborsano tariffe doppie rispetto a quelle che si vorrebbero rimborsare in Sardegna. A giudizio di Perra, «i danni di questa decisione sarebbero ben più alti del risparmio ricercato con il taglio delle tariffe: aumento dei tempi per le liste d'attesa, aumento della spesa pubblica a causa delle più lunghe degenze dei pazienti ricoverati. Arru ha annunciato che a breve convocherà i rappresentanti di categoria. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 02 ott. ’14 UFFICIO TECNICO A RISCHIO, AL BROTZU TIRA ARIA DI SCIOPERO Alta tensione al Brotzu. I sindacati (Cgil, Cisl, Uil e Rsu) hanno convocato per martedì prossimo l'assemblea del personale. L'appuntamento è nei i locali dell'ufficio tecnico, al sottopiano. E proprio l'ufficio tecnico, o meglio la sua riorganizzazione, è al centro dei lavori, unico punto all'ordine del giorno. Il clima è tale che non si esclude la proclamazione di uno sciopero. Alcune settimane fa era stato annunciato lo stato d'agitazione proprio sull'ipotesi che la direzione generale dell'azienda intendesse affidare a ditte esterne le manutenzioni togliendole all'ufficio interno che, secondo i rappresentanti dei lavoratori, era stato progressivamente spolpato, anche con la riqualificazione di personale tecnico come personale sanitario. La situazione era anche stata esposta al prefetto, da cui i sindacati attendono di essere convocati. (m. n.) ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 03 ott. ’14 RIDATECI UN VERO MEDICO DELLA MUTUA Roberto Roveda L a sanità pubblica in Italia funziona sempre peggio. A raccontarcelo una volta di più è il rapporto “(Sanità) in cerca di cura” presentato in questi giorni dal Tribunale per i diritti del malato del movimento Cittadinanzattiva (www.cittadinanzattiva.it/homepage/salute). Nel rapporto si legge di tempi sempre più lunghi per interventi comuni- in media due anni per un'ernia al disco!-, di ticket sempre più cari e di tanti, troppi italiani che rinunciano alle cure, se non indispensabili. Soprattutto nello studio emerge un generale malcontento per la qualità dell'assistenza sanitaria di base, cioè medico e pediatra di famiglia, non più considerati punti di riferimenti imprescindibili per le questioni di salute. Quest'ultimo dato, a nostro parere, è quello più grave, sintomo di un sistema sanitario in cui sono abbondati sprechi e inefficienze, ma è mancata la volontà di realizzare una adeguata assistenza medica sul territorio. Troppo poco, infatti, si è investito sul rapporto medico-paziente e così oggi ci ritroviamo con “medici della mutua” e pediatri sovraccarichi e ridotti spesso a meri passacarte, dediti a prescrivere frettolosamente medicinali e visite specialistiche. È insomma venuta meno quella relazione che consentiva al “dottore di famiglia” di garantire un monitoraggio capillare sulla salute della popolazione, evitando quel ricorso ad esami e specialisti che oggi manda in tilt gli ospedali e pesa tanto sulle tasche degli italiani. Da questa questione cruciale è necessario ripartire se si vogliono cambiare le cose, restituendo a medici e pediatri ruoli e funzioni antichi. E per farlo bisogna prima di tutto investire su queste figure, aumentando il loro numero in modo che possano dedicare a ogni paziente tempo e risorse adeguate. Inoltre si dovrebbe puntare sulla creazione di veri e propri ambulatori gestiti da più medici in modo da garantire assistenza medica anche al di fuori dei tradizionali orari di visita. Ambulatori in cui ci siano, magari, le attrezzature per alcuni esami di base come l'elettrocardiogramma o alcune indagini sul sangue. In questo modo si alleggerirebbero i carichi di lavoro nelle strutture ospedalieri e si avrebbe un controllo più meticoloso sulle condizioni di salute della cittadinanza, con, alla lunga, meno costi e meno malati. E meno vergogne del tipo un anno di attesa per una Tac. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 03 ott. ’14 LA METRO RESTA UN DESIDERIO: LAVORI FERMI, PENDOLARI FURIOSI La metropolitana corre veloce, ma solo con la fantasia. I cittadini la reclamano, il sindaco l'ha chiesta a gran voce, ma del sistema di trasporto leggero a Selargius ancora non c'è traccia. Binari e fermate continuano a esistere solo sulla carta: dall'accordo di programma firmato nel 2008 gli unici lavori fatti sono quelli per realizzare un «parcheggio di scambio», tra via delle Camelie e via delle Viole. Messo da parte il linguaggio tecnico si traduce in uno spiazzo fresco d'asfalto. Delle rotaie destinate a collegare Selargius a Cagliari e all'area vasta neanche l'ombra. L'ATTESA «La promettono da anni, ce l'ha Monserrato, non capisco perché a Selargius sia ancora tutto fermo», protesta Annalisa Corona mentre attende il pullman nella piazza del Comune. Marco Onali, vent'anni, fa un cenno d'assenso: «Altroché se la userei, qui siamo tagliati fuori dal mondo. La metropolitana è necessaria». Mario Merlo si unisce al coro: «Faccio la guardia giurata, mi divido tra Cagliari e hinterland, la metropolitana sarebbe una gran cosa, lascerei la macchina a casa». Le polemiche arrivano anche dai banchi dell'opposizione: «Bisogna dare un'accelerata», osserva Dino Deiana, consigliere col Centro Democratico. «La metropolitana risolverebbe tanti problemi legati al trasporto». BINARI FANTASMA Il disegno è grandioso: una fermata a su Tremini de Baxiu, poco distante dal parco di San Lussorio, un'altra in via Primo Maggio, e binari lungo Riu Nou. Oggi di tutto questo esiste ben poco: solo il parcheggio di scambio nelle periferia della città. È appena arrivato il via libera di Regione e Arst per la realizzazione di una fermata intermedia tra le stazioni di San Gottardo e Settimo. «Banchina di circa trenta metri, con pensilina e impianti d'illuminazione. Panca d'acciaio, cestino e pannello per gli avvisi», si legge nel progetto. Ma nell'area in questione tutto tace. CONCU «I lavori procedono», assicura Gigi Concu, vice sindaco con delega all'attuazione del Programma di mandato e assessore ai Servizi tecnologici, Viabilità e Ambiente. «In tutto questo tempo abbiamo fatto ciò che era in nostro potere, stimolando le istituzioni coinvolte, non abbiamo colpa dei ritardi», tiene a precisare. «I soldi ci sono, ma la gestione delle risorse - messe sul piatto dalla Comunità Europea - segue un ordine di priorità, la regia la stabilisce la Regione». Di concreto per ora c'è solo l'accordo di programma firmato tra Regione, Provincia e comuni interessati, il 23 maggio del 2008, con la Giunta Soru. C'era anche Selargius. Ma la metropolitana di superficie si è fermata a Monserrato. __________________________________________________________ Quotidiano Sanità 3 Ott,’14 SANITÀ DIGITALE. PER 51% DEI DIRIGENTI SANITARI EUROPEI IN TRE ANNI AVRÀ FORTE IMPATTO SU MODELLI BUSINESS E' quanto emerge da uno studio condotto dall’Economist Intelligence Unit e sponsorizzato da Ricoh. "L’integrazione delle informazioni e l’automazione dei processi riducono i costi amministrativi e migliorano la tutela della privacy dei pazienti”. 02 OTT - Nel comparto sanità la tecnologia è alla base del cambiamento:il 51% dei dirigenti europei di questo settore afferma infatti che nei prossimi tre anni l’IT avrà un forte impatto sui modelli di business. E’ quanto emerge dallo studio The Challenge of Speed (La sfida della velocità), condotto dall’Economist Intelligence Unit e sponsorizzato da Ricoh. “Dalla ricerca – commenta Davide Oriani, Ceo di Ricoh Italia – emerge che il settore sanitario è alle prese con la sfida della trasformazione digitale, con l’obiettivo di migliorare l’accesso e la condivisione delle informazioni e, di conseguenza, la cura del paziente. Ad esempio integrando i sistemi di gestione delle informazioni in un ospedale, un medico può accedere con maggior facilità alle schede dei pazienti e ottenere più velocemente i risultati degli esami e questo migliora le prestazioni sanitarie. L’integrazione delle informazioni e l’automazione dei processi riducono poi i costi amministrativi e migliorano la tutela della privacy dei pazienti”. Grazie a una conoscenza specifica delle modalità operative di questo settore, Ricoh migliora l’efficienza delle organizzazioni sanitarie private supportandole nell’ottimizzazione dei processi documentali, inclusi quelli relativi al percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale del paziente. Ricoh ha sviluppato soluzioni e servizi per: migliorare l’accesso alle informazioni mediche; ridurre i costi per la gestione documentale; aumentare la sicurezza dei dati. Tra le soluzioni proposte: -AdiCare: è un sistema di workflow management per l’automazione dei processi delle strutture clinico-ospedaliere. Tra i flussi di lavoro che possono essere migliorati mediante la soluzione vi sono ad esempio quelli relativi alla gestione delle istanze, delle prescrizioni, del Fascicolo Amministrativo del paziente, dei documenti HR, amministrativi (fatture attive e passive, ordini d’acquisto, DDT…) e legali (ispezioni, pratiche…). Tra le numerose funzionalità integrate nella soluzione vi è la firma grafometrica utilizzata ad esempio per la gestione del consenso informato. -eRecord Connect: è una soluzione che consente di digitalizzare i documenti sanitari cartacei e le cartelle cliniche dal multifunzione e di integrarli direttamente nel sistema informativo ospedaliero (Hospital Information System) mediante lo standard HL7-CDA. I medici possono così accedere in modo sicuro alle informazioni sui pazienti, in ogni passaggio del decorso clinico e ospedaliero. La cartella clinica digitale può essere associata al numero ID del paziente e ad altri dati migliorando così la gestione delle informazioni e le prestazioni dei servizi sanitari. “I progetti – spiega Davide Oriani – sono sempre preceduti da una fase di consulenza in cui gli specialisti Ricoh analizzano le tecnologie utilizzate, i costi e i processi al fine di individuare le aree di miglioramento. Alla fase di analisi segue la condivisione dei risultati con la struttura sanitaria e la selezione delle tecnologie hardware e software ottimali. Per supportare al meglio le strutture sanitarie private Ricoh ha stretto una partnership con Aiop (Associazione italiana ospedalità privata) che prevede la fornitura gratuita agli associati Aiop dei propri servizi consulenziali fino al 31 maggio 2015”. ____________________________________________________________ Repubblica 1 Ott,’14 LA TEMPESTA DI GHIACCIO DEL '98 IMPRESSA NEL DNA Il drammatico inverno canadese di 16 anni fa lasciò per un mese il Québec senza energia elettrica. Ora uno studio rivela che l'episodio ha lasciato un segno nel profilo genetico dei bimbi nati in quel periodo UNA SETTIMANA ininterrotta di maltempo e un mese senza energia elettrica: nel 1998 il Canada fu colpito da una delle tempeste di ghiaccio più violente e rovinose della storia del Nord America. Ora uno studio rivela che le conseguenze di quel drammatico inverno è rimasto impresso nel dna dei bimbi che erano nel pancione in attesa di nascere. La ricerca, portata avanti sin dall'inizio sulle donne in stato di gravidanza che avevano vissuto lo stress della drammatica situazione, ha messo in evidenza la particolarità genetica sui 36 bambini studiati, come riporta lo studio pubblicato su Plos One. Secondo psicobiologa Lei Cao che ha coordinato i colleghi dell'Istituto universitario di salute mentale Douglas e dell'università McGill di Montreal, a determinare il profilo epigentico è stato soprattutto il numero di giorni vissuti senza energia elettrica durante la tempesta di ghiaccio. Lo studio, denominato "Progetto ghiaccio", è stato avviato appena cinque mesi dopo la tempesta con l'arruolamento di 150 famiglie in cui la mamma era incinta e continua ancora adesso, con i ragazzi adolescenti. La ricerca ha permesso di scoprire all'interno dei linfociti T (cellule del sistema immunitario) un profilo distintivo nella metilazione del Dna (modificazione epigenetica). Questo studio è il primo a mostrare che l'esposizione a uno stress oggettivo nelle donne incinte è causa di cambiamenti a lungo termine dell'epigenoma dei loro bambini. Meno percepibili, invece, gli effetti concreti sulla salute. Tuttavia i cambiamenti nella famiglia dei geni legati all'immunità e del metabolismo degli zuccheri ritrovati nei bambini - oggi adolescenti - aumenterebbero il rischio di soffrire di asma, diabete e obesità. ____________________________________________________________ Repubblica 29 Sett,’14 VERONESI: "LA CENTRALITÀ DEL PAZIENTE, È STATA QUESTA LA MIA RIVOLUZIONE" Lo scienziato ospite del videoforum di Repubblica Tv risponde ai lettori, parla dell'importanza della prevenzione e della diagnosi precoce nella lotta al cancro, ma anche del rapporto tra medico e malato: "Il tumore è curabile nel 65 per cento dei casi. Sul cancro al seno potremmo arrivare alla mortalità zero" di VALERIA TEODONIO Lo leggo dopo ROMA - "Ai miei medici dico: se un paziente vi ferma in corridoio, non correte via, ascoltatelo fino a quando ha qualcosa da dirvi". Umberto Veronesi, oncologo di fama, ospite del videoforum di Repubblica Tv, risponde alle domande dei lettori su cancro, eutanasia, sigaretta elettronica, sperimentazione sugli animali, droghe leggere. E lo fa pochi giorni dopo aver annunciato la sua decisione di lasciare la direzione scientifica dello Ieo, l'Istituto europeo di oncologia che ha fondato e diretto per vent'anni a Milano. "Anni intensi e ricchi di risultati - ha spiegato Veronesi, che comunque resterà direttore scientifico emerito - . Abbiamo trovato delle cure molto efficaci e che mantengono alta la qualità della vita. Il nostro motto è stato: guarire di più, guarire meglio. Perché da noi il paziente è protagonista, è libero, può ricevere i parenti dalla mattina alla sera ed è molto ascoltato dai medici". Ed è proprio questa la rivoluzione di Veronesi: mettere la persona malata al centro di tutto. Malati che oggi possono contare su terapie efficaci, ma anche su nuovi strumenti per la diagnosi precoce. "Possiamo esaminare con un semplice esame del sangue il dna di un tumore, e individuarlo anche se è costituito da pochissime cellule. In più esiste la risonanza magnetica su tutto il corpo. Che riesce ad scoprire un nodulo tumorale di pochi millimetri in qualsiasi parte del corpo. Quando questo esame sarà diventato comune, basterà farlo una volta all'anno e si potranno eliminare radiografie, mammografie e colonscopie". ____________________________________________________________ Repubblica 2 Ott,’14 HIV, SCOPERTA L'ORIGINE DELLA PANDEMIA: IL VIRUS NASCE NEGLI ANNI 20 IN CONGO La conferma dall'analisi del genoma. La diffusione iniziale nella città africana, crocevia di commerci e viaggiatori Il virus dell'Hiv LA PANDEMIA del virus Hiv, che finora ha colpito più di 75 milioni di persone nel mondo, ha avuto origine negli anni Venti a Kinshasa, l'attuale capitale della Repubblica democratica del Congo: il rapido sviluppo della città africana, trasformata in quel tempo in un crocevia di viaggiatori e commerci, avrebbe scatenato la "tempesta perfetta" alla base della diffusione del virus. E' quanto dimostra l'analisi del genoma dell'Hiv condotta da un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall'università belga di Leuven e da quella di Oxford. I risultati sono pubblicati su Science. Per localizzare la 'culla' della pandemia, i ricercatori hanno analizzato alcune sequenze del genoma del virus Hiv-1 appartenente al gruppo M (il più diffuso). Incrociando queste informazioni con dati epidemiologici e geografici, è stato possibile risalire ai primissimi contagi, avvenuti a Kinshasa negli anni Venti. Quegli anni furono un periodo storico di grande fermento per la colonia belga, che divenne rapidamente un centro di riferimento per il commercio di avorio e di carne, oltre che la meta di moltissimi lavoratori. Questo mix di fattori determinò una forte promiscuità, con la conseguente fioritura del mercato del sesso: a questa situazione, già di per se esplosiva, si aggiunse infine la pratica di usare aghi non sterili. Una condizione ideale secondo i ricercatori, da cui sarebbe partito il contagio globale. Oggi la percentuale di guarigione è pari al 65 per cento, con punte del 95 per cento per alcuni tipi di cancro, come il tumore al seno, alla prostata, alla pelle. Ma c'è ancora tanto da fare. "Su cervello e pancreas non siamo riusciti a fare progressi", sottolinea l'oncologo. In generale le due armi principali restano la diagnosi precoce e la prevenzione. "Per quanto riguarda il tumore al seno - aggiunge - bisogna fare una mammografia una volta all'anno dai 40 anni. E non dai 50, come è previsto dal servizio pubblico. E poi ecografia mammaria ogni 6 mesi e nei casi di familiarità risonanza magnetica ogni anno. Con questo insieme di interventi diagnostici possiamo arrivare al nostro obiettivo: la mortalità zero". I tumori sono causati da molte cause diverse: fumo, inquinamento, alimentazione sbagliata (nel 20 per cento pei casi). Un altro 25 per cento è dovuto a virus. Poi ci sono le radiazioni, i coloranti, i pesticidi. Sotto accusa anche i grassi animali. "Le statistiche - spiega Veronesi - dicono che nei paesi dove non si mangia carne non c'è cancro del colon". Fumo vietato, ovviamente. Ma la sigaretta elettronica? "Non fa male. E' il tabacco ad essere dannoso". Mentre sulla cannabis Veronesi sentenzia: "E' un ottimo farmaco, ma la battaglia è dura. Quando ero ministro (della Sanità, ndr) ho fatto una fatica enorme a convincere i medici a usare la morfina nei casi gravi. Veniva considerata come una droga". Durissima anche la battaglia per l'eutanasia. Perché non abbreviare la sofferenza nei casi terminali? Chiede un lettore. Perché il Parlamento non si pronuncia sui temi etici? "Perché siamo arretrati - è la risposta di Veronesi - io sono per l'autodeterminazione. Ognuno deve essere libero di scegliere. Il problema sono il conservatorismo e l'influenza della Chiesa, la concezione religiosa della vita, il concetto che riceviamo la vita da Dio e che solo Dio ce la può togliere. Cose che rispetto, ma che per un non credente sono solo parole". Del resto le forze che si oppongono alle idee nuove - sottolinea - sono gigantesche. "Faccio solo un esempio: mi ero convinto che per curare il cancro alla mammella non servisse a nulla asportare il seno, ma che bastasse toglierne una piccola parte. Ho avuto l'opposizione di tutti i chirurghi del mondo. Dal primo all'ultimo". Ma dopo 10 anni di studi ha avuto ragione. "Asportare il seno non serviva a nulla". ____________________________________________________________ Repubblica 29 Sett.’14 I BATTERI MANGIA SUDORE CONTRO LE MALATTIE DELLA PELLE Testati su un gruppo di volontari attraverso una speciale "crema" per il viso, i microrganismi capaci di metabolizzare l'ammoniaca, hanno dimostrato di poter migliorare il microambiente cutaneo 29 settembre 2014 1 LinkedIn 0 Pinterest AIUTERANNO a curare ferite cutanee e infiammazioni della pelle: sono i batteri mangia-sudore, speciali microrganismi che metabolizzano l'ammoniaca, una componente importante del sudore, appunto e che possono migliorare la salute della pelle. Potrebbero rappresentare il trattamento del futuro contro malattie come l'acne o brutte ferite. Lo dimostra uno studio condotto da AoBiome, su un gruppo di 24 volontari su cui sono stati utilizzati i batteri: tutti hanno riportato un miglioramento delle condizioni e dell'aspetto della cute, rispetto a un gruppo di controllo con placebo. I ricercatori hanno presentato i risultati dello studio alla 5a Conferenza dell'American Society for Microbiology in corso a Washington Dc. Ibatteri "ammoniaca ossidanti" sono presenti nel suolo e nell'acqua e sono componenti essenziali del ciclo dell'azoto e dei processi di nitrificazione ambientali. I ricercatori hanno ipotizzato che potessero essere particolarmente adatti per la pelle umana in quanto i prodotti dell'ossidazione dell'ammoniaca, nitriti e ossido nitrico, svolgono un ruolo importante nelle funzioni fisiologiche cutanee, tra cui l'infiammazione, il rilassamento dei vasi sanguigni e la guarigione dalle ferite. Questi microrganismi possono anche migliorare il microambiente cutaneo abbassando il pH. Per lo studio, i ricercatori hanno utilizzato un ceppo di Nitrosomonas eutropha isolato dal suolo. Nel trial, a un gruppo di volontari è stata applicata una sospensione di batteri vivi sul viso e sul cuoio capelluto per una settimana, mentre il secondo gruppo ha utilizzato il placebo. Entrambi i gruppi sono stati seguiti per altre due settimane. Ebbene, chi ha usato questa speciale "crema" ha avuto miglioramenti qualitativi della pelle rispetto al gruppo di controllo. "Il nostro prossimo passo è quello di condurre studi clinici per valutare il potenziale terapeutico di questi batteri nei pazienti con ulcere diabetiche o acne", dice Larry Weiss, Chief Medical Officer di AOBiome. ____________________________________________________________ Le Scienze 30 Sett.,’14 ECCO PERCHÉ L'ESERCIZIO FISICO COMBATTE LA DEPRESSIONE I muscoli ben allenati producono un enzima che aiuta ad espellere dall'organismo le sostanze nocive che si accumulano a causa dello stress: lo rivela un nuovo studio sui topi, chiarendo il ruolo chiave della proteina PGC-1alfa1, la stessa che media l'incremento della muscolatura scheletrica in risposta all'esercizio fisico. La PGC-1alfa1, infatti, partecipa al filtraggio del sangue dalle sostanze chimiche che possono danneggiare il cervello (red) disturbi mentalineuroscienze L'esercizio fisico ha molti benefici effetti sulla salute, non ultimo quello di proteggere dalla depressione legata allo stress. Ma in base a quali meccanismi si verifica questo tipo di protezione? Lo hanno scoperto i ricercatori del Karolinska Institut di Stoccolma, in Svezia, grazie a uno studio ora pubblicato sulla rivista “Cell”. Secondo le conclusioni degli autori, l'esercizio induce dei cambiamenti nei muscoli scheletrici che hanno l'effetto di filtrare le sostanze nocive per il funzionamento del cervello che si accumulano nel sangue durante lo stress. “In termini neurobiologici, in realtà non sappiamo ancora che cosa sia la depressione”, ha puntualizzato Mia Lindskog, ricercatore del Karolinska che ha partecipato alla ricerca. “Il nostro studio è un altro pezzo del grande puzzle di conoscenze su questo disturbo psichiatrico, poiché fornisce una spiegazione dei cambiamenti biochimici protettivi indotti dall'esercizio fisico che sono in grado di prevenire il danno del cervello in situazioni di stress”. E' noto da tempo che l'esercizio fisico consente di combattere la depressione. Lo studio ha trovato la spiegazione biochimica di questa connessione (© Corey Jenkins/Corbis)I ricercatori hanno utilizzato topi geneticamente modificati in modo da avere alti livelli della proteina PGC-1alfa1, che media i processi biochimici che inducono un incremento della muscolatura scheletrica in risposta all'esercizio. Questi roditori, insieme con altri non modificati, che costituivano il gruppo di controllo, sono stati esposti a input ambientali stressanti, come forti rumori, lampi di luce e inversione del ritmo circadiano a intervalli regolari. Dopo cinque settimane di stress di grado lieve, solo i topi normali hanno mostrato un comportamento depressivo, mentre i topi geneticamente modificati non mostravano affatto questi sintomi. Dalle analisi è emerso che gli alti livelli della proteina PGC-1alfa1 si accompagnavano a più elevati livelli di un enzima, denominato KAT, che svolge un compito biochimico fondamentale: converte la chinurenina, che si produce durante le situazioni di stress, in acido chinurenico, una sostanza che non può passare dal sangue al cervello. Se manca l'enzima KAT, la chinurenina non viene trasformata e si accumula. Questa connessione ha condotto ai ricercatori a ipotizzare che fosse proprio la chinurenina a danneggiare il cervello. L'ipotesi ha trovato conferma in un test ulteriore condotto somministrando questa sostanza ai topi studiati. Risultato: i topi normali mostravano segni di depressione, quelli geneticamente modificati - in grado quindi di trasformare la chinurenina - no. “La nostra ipotesi iniziale era che i muscoli allenati producessero una sostanza con effetti benefici sul cervello”, ha spiegato Jorge Ruas, che ha coordinato la ricerca. “In realtà, abbiamo scoperto il meccanismo opposto: i muscoli ben allenati producono un enzima che aiuta ad espellere dall'organismo le sostanze nocive: in questo contesto dunque la funzione dei muscoli ricorda quella del rene o del fegato; è possibile che questo lavoro apra la strada allo studio di un nuovo principio farmacologico per il trattamento della depressione, in cui l'approccio terapeutico sia mediato proprio dalla funzione dei muscoli scheletrici”. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 03 ott. ’14 LO SPORT PER PREVENIRE LE MALATTIE «DAREMO 46 MILIONI ALLE SOCIETÀ» Il mondo dello sport in Sardegna potrebbe presto ricevere una boccata d'ossigeno, che per il prossimo anno si traduce nel consistente impegno finanziario di 46 milioni e mezzo di euro. È questa la cifra contenuta nella proposta di legge presentata ieri in Consiglio regionale dal gruppo del Partito democratico, primo firmatario il consigliere Roberto Deriu. L'obiettivo principale del testo, definito dallo stesso Deriu «una legge rivoluzionaria», è quello di coniugare attività sportiva e salute, in una logica di prevenzione delle malattie e di miglioramento della qualità della vita delle persone e delle famiglie e di integrazione sociale, con il presupposto di base di ridurre i costi della sanità. La proposta di legge prevede l'istituzione di un albo unico dello sport della salute e di un albo comunale delle società sportive, che contenga tutti gli elementi utili all'identificazione e classificazione delle organizzazioni sportive anche ai fini dell'erogazione dei contributi pubblici e disciplina le procedure per l'affidamento di impianti sportivi. Per il 2015 l'impegno finanziario previsto è di 46,5 milioni di euro, pari all'uno per cento della spesa sanitaria, che verrebbe sottratto ai circa tre miliardi di euro di spesa sanitaria complessiva. Risorse reperibili dal risparmio previsto dalla legge di riordino dei servizi extraospedalieri che sta per essere licenziata dalla commissione Sanità. «Salute e sport vanno di pari passo», ha spiegato Deriu, «destinare risorse allo sport significa fare prevenzione e tutelare la salute pubblica». Secondo un'indagine del Coni, le persone che praticano una qualsiasi attività motoria in Sardegna sono circa 942 mila, con un incremento, tra il 2009 e il 2012, dell'uno per cento della popolazione complessiva, mentre oltre il 40 per cento del totale della popolazione non pratica alcun tipo di attività. «È partendo da questi dati che abbiamo pensato a una legge quadro che per la prima volta colleghi direttamente la pratica sportiva alla prevenzione sanitaria, attribuendo allo sport il corretto ruolo di ausilio alle politiche della salute», ha sottolineato Deriu. L'altra emergenza che la proposta di legge intende affrontare e risolvere è quella della crisi delle società sportive: «L'impegno finanziario previsto consentirà di dare sostegno alle tantissime società e associazioni sportive isolane che rischiano di chiudere», ha sottolineato il primo firmatario. Il sistema sportivo a livello nazionale trova il principale sostegno finanziario nella spesa delle famiglie, che incide per oltre il 70 per cento sul fatturato complessivo. La spesa nazionale per lo sport in relazione alla spesa pubblica è pari a meno dell'uno per cento del Pil. Anche la Sardegna ha diminuito negli anni la spesa per il settore, nell'ultimo triennio sono stati spesi 30 milioni di euro, con un calo nel 2012, rispetto all'anno precedente, di oltre il 15 per cento e nel 2013, rispetto al 2012, di un ulteriore 10 per cento. ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 ott. ’14 PREMIO INTERNAZIONALE AL BUSINCO DI CAGLIARI SE IL CENTRO Trapianti è un modello Accreditamento internazionale per il Centro trapianti di midollo dell'ospedale Businco di Cagliari. Un passo avanti lungo il cammino dell'assistenza di qualità per un reparto ma anche per un ospedale che annovera già diversi punti di eccellenza. Il riconoscimento premia l'impegno dell'Unità di Ematologia diretta da Emanuele Angelucci nell'accreditare il programma trapianti secondo gli standard internazionali Jacie. La notizia è arrivata al termine di un controllo, durato 2 giorni, da parte di 4 ispettori esterni che hanno messo la lente di ingrandimento su un progetto elaborato in 3 anni, al quale ha partecipato con entusiasmo, ma anche con inevitabili perplessità, tutto il personale dell'Ematologia. Il risultato ottenuto non è una semplice certificazione, nella quale si esaminano le procedure senza entrare nel merito: accreditamento significa controllare anche i dettagli. Jacie (Join accreditation committee ISCT EMBT) è un organismo internazionale europeo, no-profit, fondato nel 1998 per valutare l'accreditamento nel campo dei trapianti di cellule staminali ematopoietiche. «L'obiettivo - spiega Angelucci - è promuovere la sicurezza e la qualità in tutto il percorso trapiantologico (dalla raccolta delle cellule, alla lavorazione e conservazione, fino all'intervento) seguendo il paziente e il donatore per tutto l'iter terapeutico. Questo standard è formalmente riconosciuto dalle autorità regolatorie in Europa ed è stato elaborato in collaborazione con la fondazione statunitense Fact (Foundation for the accreditation of cellular therapy)». L'accreditamento riguarda il trapianto autologo, allogenico e la raccolta di cellule staminali ematopoietiche, sia da midollo osseo che da sangue periferico. E infatti coinvolge anche il Centro trasfusionale dell'Azienda ospedaliera Brotzu, nella fase in cui collabora col Businco. Un importante traguardo è stato raggiunto, ma non è stato facile. Anche perché l'impegno profuso ha messo in discussione certezze ed equilibri che si creano in tutti gli organismi nei quali si lavora in team. «In effetti - ammette Angelucci - abbiamo analizzato tutto quello che facciamo, magari per pura consuetudine. In parte, ci siamo dovuti adeguare a nuovi standard e procedure previste da Jacie, ma molte cose le facevamo già. Quella che a volte mancava era la tracciabilità, molto importante, si pensi, ad esempio, agli eventi avversi». Sono emerse, tra voi, resistenze nell'adeguarsi alle nuove metodologie? «In effetti, in alcuni casi si è lamentata una certa burocrazia. Tipo: perché scrivere come si fanno certe operazioni? Ma anche scrivere è importante, perché abbiamo tante procedure e devono essere tutte registrate in modo che vengano poi ripetute correttamente. C'è stata anche paura di porre in discussione la propria autorevolezza. Ma è meglio mettere tutto nero su bianco e aggiornarlo. Sfuggendo all'autoreferenzialità». Si è trattato, in effetti, di avviare una macchina imponente, per elaborare un progetto che ha coinvolto circa sessanta persone, tra medici, infermieri, tecnici di laboratorio e operatori di supporto. Questo significa che ha partecipato tutta l'Ematologia? «Il processo di accreditamento riguardava in particolare il Centro trapianti Vilma Deplano, ma ha interessato tutta l'Ematologia, perché noi facciamo un lavoro in connessione. Il paziente, infatti, prima di essere sottoposto a trapianto, viene curato per la malattia ematologica». L'ispezione Jacie ha sottoposto a verifica un progetto che ha compreso l'intera attività del reparto, messo a punto con un impegno capillare, che ha permesso di predisporre una mappa e una standardizzazione di tutti i processi. I risultati sono riportati in una imponente documentazione che comprende ben 250 elaborati, fra procedure, istruzioni operative e moduli. In pratica tutti hanno dovuto adeguare la propria attività per adeguarsi a oltre mille parametri standard. E anche questo rappresenta una garanzia che l'accreditamento condurrà a un miglioramento dell'attività di assistenza e ricerca. Lucio Salis ____________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 ott. ’14 ANGELUCCI: LA CERTIFICAZIONE DELLA QUALITÀ DEL NOSTRO LAVORO I l riconoscimento è importante, anche perché unico in Sardegna. Ma cosa aggiunge l'accreditamento Jacie alla carta di identità del “Centro trapianti Vilma Deplano” dell'ospedale Businco? Il primario Emanuele Angelucci ( nella foto ) preferisce i toni bassi. «Ci ha permesso di scoprire che certe operazioni possono essere fatte meglio. Questa significa una migliore tutela per i pazienti e per gli operatori, perché si agisce secondo procedure validate anche da altri. Insomma: nessuno inventa niente, si agisce sempre seguendo strade ben determinate». Ci hanno impiegato 3 anni, nell'ospedale di viale Yenner, per raggiungere un traguardo che significa soprattutto implementare il valore del proprio lavoro. Obiettivo centrato (secondo Jacie) puntando sul concetto di qualità. «È stato infatti istituito un team che controlla il livello di qualità di ogni aspetto della nostra attività . Questo vuol dire documentazione, tracciabilità, stesura e adeguamento dei protocolli, reporting di tutti gli eventi avversi e anomalie, comprese le piccole deviazioni dallo standard. Tutto ciò che facciamo deve essere documentato e certificato attraverso un sintema di autocontrollo». Anche perché l'accreditamento non viene concesso, una tantum, in via definitiva, ma prevede visite ispettive successive da parte degli inviati Jacie, durante le quali si accerta come si è agito nei 4 anni precedenti. Ma non c'è il rischio che questa codifica delle procedure, cosi rigida da poter apparire ossessiva, possa condizionare l'attività del Centro trapianti? «In effetti, tutta la mappa dei processi è stata oggetto di elaborazione, ogni fase ha un suo responsabile, quindi se si verifica un'anomalia, se c'è qualcosa che si blocca si sa a chi fare riferimento, ma questo non vuol dire inquisire o colpevolizzare nessuno. Si analizzano le cose che non vanno bene e si cercano i perché». Tanto rigore è giustificato dal tipo e dalla mole di attività del reparto. In Ematologia si trattano le patologie oncologiche del sangue, come leucemie acute, croniche e linfomi. Ovviamente, non tutte le terapie hanno come punto di arrivo il trapianto di midollo. Anzi, i progressi in campo farmacologico tendono a ridurre la necessità di ricorrere a questo tipo di intervento. Attualmente, si eseguono in media 60 trapianti all'anno: 35 autologi (cioè con cellule staminali emopoietiche prelevate dal midollo osseo dello stesso paziente) e 25 allogenici (con cellule di un donatore). In casi particolari, quando si deve agire in tempi brevi, si pratica anche il trapianto aploidentico, cioè con cellule prelevate da familiare non completamente compatibile. ( l.s. ) ____________________________________________________________ Corriere della Sera 01 Ott.’14 ARRIVA IN ITALIA IL FARMACO CHE SCONFIGGE L’EPATITE C ROMA Arriva anche in Italia il Sofosbuvir, il «superfarmaco» che riesce a eradicare il virus dell’epatite C. L’Aifa (l’agenzia italiana del farmaco) è riuscita a chiudere, non senza una serie di difficoltà e dopo numerosi rinvii, la trattativa sul prezzo della terapia che nel nostro Paese ha una platea potenziale di centinaia di migliaia di pazienti, anche se secondo alcune stime la riceveranno intanto in 30 mila. «L’accordo — spiega l’Aifa — consentirà di trattare il più grande numero di pazienti in Europa, tenuto conto della più alta prevalenza della patologia in Italia». Fino a questo momento il farmaco, il primo approvato di una classe capace di eradicare il virus in oltre il 90% dei pazienti, è stato offerto in via compassionevole a poco più di mille pazienti, i più gravi. Il medicinale verrà somministrato secondo criteri di appropriatezza definiti dalla Commissione Tecnico-Scientifica della stessa agenzia, sulla base della gravità della patologia. «In realtà su 1,5 milioni di persone infette in Italia potenzialmente quelle trattabili sono 300-400mila — spiega Antonio Gasbarrini, uno dei fondatori di Alleanza contro l’Epatite, associazione che riunisce medici e pazienti — di questi però ce ne sono circa 30 mila che avrebbero bisogno del farmaco subito». La fine della trattativa, sui cui termini le parti mantengono la riservatezza, era prevista prima dell’estate, ma uno stop chiesto dalla Gilead, l’azienda che detiene i diritti del farmaco, ha rinviato la procedura. Il Sofosbuvir è già stato approvato negli Usa, dove è diventato in soli tre mesi la terapia che ha guadagnato di più nella storia. In alcuni Paesi europei, dove l’incidenza della malattia è più bassa, è stato accettato il prezzo di circa 60 mila euro a paziente. Un costo che in Italia metterebbe a rischio il Servizio sanitario nazionale, come ha più volte ricordato anche il ministro Lorenzin. ____________________________________________________________ Corriere della Sera 05 Ott.’14 DAL PEPERONCINO UN AIUTO PER RIDURRE L’APPETITO DI CHI DEVE STARE A DIETA Al peperoncino sono state attribuite fin dall’antichità diverse capacità: basti dire che già 5500 anni avanti Cristo in Messico veniva utilizzato come conservante dei cibi, o che i nativi americani lo usavano contro il mal di denti. Arrivando ai giorni nostri, invece, del peperoncino si è parlato spesso come alimento capace di favorire la sazietà. Se ne sono occupati in tempi recentissimi anche ricercatori dell’Università di Maastricht (Paesi Bassi): in uno studio pubblicato su Appetite , hanno osservato come, in condizioni di “equilibrio” energetico (calorie introdotte pari a quelle necessarie per coprire i fabbisogni), l’aggiunta a ogni pasto di un grammo di peperoncino rosso, pari all’incirca alla «punta» di un cucchiaino (equivalente a 39 mila unità Scoville , l’unità di misura del contenuto dei principali capsaicinoidi, le sostanze che determinano la “piccantezza”, vedi tabella ), aumentava la sazietà e preveniva gli «eccessi» al pasto successivo. In condizioni di restrizione calorica, inoltre, con l’aggiunta di peperoncino ad ogni pasto il desiderio di mangiare dopo cena risultava minore. «Lo studio — commenta Mauro Bortolotti, gastroeneterologo e membro dell’American Gastroenterological Association — è l’ultima conferma delle proprietà sazianti del peperoncino. Il meccanismo d’azione sembra collegato soprattutto alla sua piccantezza e questo fa ipotizzare un’attivazione di recettori viscerali della sazietà e della sensazione di ripienezza gastrica». «Ma la ricerca degli ultimi anni ha confermato molte altre proprietà del peperoncino, — aggiunge Bortolotti, autore di una revisione sul peperoncino rosso, pubblicata sul Journal of Gastrointestinal and Liver Disease s — in particolare quelle in campo gastroenterologico, dove ha un effetto analgesico nelle malattie funzionali caratterizzate da dolore viscerale in assenza di patologie organiche, come il colon irritabile e la dispepsia similulcerosa. Il peperoncino, poi, favorisce il metabolismo corporeo, l’ossidazione dei grassi, la riduzione di colesterolo e trigliceridi. In campo cardiovascolare, infine, ha attività coronarodilatante, fibrinolitica e antiaggregante piastrinica (come l’aspirina, senza effetti collaterali). Il peperoncino è in genere ben tollerato; va evitato però nelle persone con emorroidi infiammate, erosioni esofagee o gastriche in fase acuta». ____________________________________________________________ Corriere della Sera 05 Ott.’14 NESSUNO CONTROLLA I PACEMAKER ITALIANI «NON C’È L’OBBLIGO» ROMA Il laboratorio dovrebbe verificare attraverso una serie di test la qualità dei pacemaker destinati ai pazienti italiani, circa 60 mila impianti l’anno, 700 mila i portatori. Anziché un centro ad alta tecnologia come ci si aspetterebbe, sembra piuttosto un locale dismesso da anni. Polvere ovunque, manopole pendenti, la ruggine che si fa largo tra gli ingranaggi dei macchinari. «Qui non passa nessun pacemaker. I controlli non ci sono. È una truffa», dichiara una figura femminile resa irriconoscibile volutamente dalle riprese, a tutela dell’anonimato. Così funziona, meglio dire non funziona, il servizio dell’Istituto superiore di sanità (Iss), l’unico ente abilitato dall’Unione Europea ad eseguire le prove sui dispositivi medici e rilasciare il marchio Ce, secondo l’inchiesta di «Report» di Milena Gabanelli, in onda stasera alle 21.45 su RaiTre. La vicenda viene raccontata da Sigfrido Ranucci che ha filmato per la prima volta il «laboratorio fantasma» del maggiore organismo di sanità pubblica italiano. Dalle carte in possesso di «Report» emerge che in Istituto, commissariato dal ministro Beatrice Lorenzin, sapevano già dal 2010. In pratica il centro incaricato di attestare l’affidabilità dei piccoli dispositivi in titanio avrebbe rilasciato certificazioni fasulle. Gabanelli però rassicura i pazienti, precisando bene che non devono sentirsi in pericolo in quanto le aziende produttrici garantiscono procedure e controlli severissimi: «Non significa assolutamente che i pacemaker siano difettosi». Non ci sono infatti segnalazioni di eventi avversi. E il ruolo del ministero della Salute? Il suo compito è esaminare i fascicoli su ogni singolo prodotto, incluse le carte dell’Iss. Non ha risposte convincenti la funzionaria intervistata da Ranucci, in mancanza del capo dipartimento farmaci e dispositivi medici, Marcella Marletta, moglie di Carmine Guarino, responsabile a sua volta dell’organismo di valutazione dei dossier tecnici presentati dalle ditte. L’Istituto non replica: «Non smentisco e non confermo», scrive il commissario Walter Ricciardi. La Marletta, per iscritto, chiarisce: «Gli organismi vigilanti sono ispezionati anche dalla Commissione europea e non sono obbligati a eseguire prove di laboratorio ma devono attestare che l’azienda le abbia fatte presso la propria officina o altrove». Margherita De Bac