RASSEGNA STAMPA 14 Febbraio 2016 SONO TRA I MIGLIORI BOICOTTERÒ VALUTAZIONI UNIVERSITÀ A DIETA: LE ENTRATE GIÙ DEL 15% ITALIA FERMA NELLA PAGELLA DEL MERITO LE UNIVERSITÀ DI CAGLIARI E SASSARI DEVONO ALLEARSI FELICE PER I CERVELLI IN FUGA, FIGURACCIA DELLA GIANNINI RICERCA; NOSTRI SCIENZIATI LANCIANO SOS SEMPLICE MAGGIORANZA PER ABILITAZIONE DEI PROFESSORI SENTENZE SCONCERTANTI SUI CORSI DI LAUREA A NUMERO CHIUSO ATENEI, RESTA IL NUMERO CHIUSO SENTENZA DEL TAR: MEDICINA, STOP AL NUMERO CHIUSO LAUREE A NUMERO CHIUSO: IL MINISTERO TOPPA ANCORA QUANDO LA GIURISPRUDENZA CHIEDE AIUTO ALLA SCIENZA L’ITALICO VIZIETTO DEL "COPIA E INCOLLA FALSE RICERCHE SANZIONI A 11 DOCENTI DELL'UNIVERSITÀ ORA ANCHE L'UNIVERSITÀ PUNISCE LE BUGIE DEL PROF ANTI OGM GIOVANI OTTO SELFIE AL GIORNO LA PRIGIONIA DELL’AUTOSCATTO MUSEI , CULLA DELL’IDENTITÀ NAZIONALE ========================================================= MANTOVANI: CHI NON SI VACCINA RISCHIA DI PIÙ CURE INAPPROPRIATE, SANZIONI RINVIATE SANITÀ, IL 2016 SARÀ IN ROSSO IL BUCO È DI 170 MILIONI RAS: CENTO MILIONI PER LA SANITÀ PRIVATA ESAMI, SOTTO TIRO IL SUPERTICKET C’ERA UNA VOLTA LA “BUONA” MEDICINA: VECCHI E NUOVI PARADIGMI OBAMA: IL FUTURO DI MEDICINA, SCIENZA E CLIMA: HIV SUPERPOTENTE E BEFFARDO: SI REPLICA ANCHE QUANDO NON SI VEDE ODONTOIATRI:CAO “FUORI I MERCANTI DA PROFESSIONE RISCRITTURA DEL DNA, CHIEDERE MORATORIE NON BASTA PIÙ L’AMBIENTE «INNESCA» I GENI ALL’ORIGINE DELL’IRA LO SPORT NON FUNZIONA SE SI È SEDENTARI CRONICI I TRE ITALIANI CHE VIVONO RICORDANDO TUTTO DIPENDENZE E DEPRESSIONE? COLPA DEI GENI NEANDERTHAL ========================================================= ________________________________________________________ TST 10 Feb. ’16 SONO TRA I MIGLIORI MA LO STATO NON DÀ PIÙ FINANZIAMENTI E IO BOICOTTERÒ LE VALUTAZIONI La protesta*di Mingione, star di equazioni e derivate E il fisico Parisi si indigna su "Nature" per i tagli alla ricerca Persiste una volontà punitiva e squalificante nei confronti della ricerca universitaria da parte della classe politica, nonostante la ricerca italiana sia, secondo oggettive indagini da parte di enti terzi e internazionali, ai primi posti nel mondo in quanto a efficienza, soprattutto nei settori delle "scienze dure"». È l'accusa esplicita di Giuseppe Mingione, 43 anni, docente di analisi matematica all'Università di Parma, tra i 99 studiosi più citati al mondo nel suo campo e tra i 44 italiani della lista Thomson Reuters. Pluripremiato, è un «habitué» degli istituti di ricerca internazionali più prestigiosi. Si occupa di equazioni differenziali a derivate parziali e di calcolo delle variazioni. Equazioni che derivano da modelli fisici, che descrivono situazioni di equilibrio di materiali, per esempio in elasticità, o di evoluzione di sistemi complessi, per esempio in problemi di diffusione del calore. Il professore, diventato ordinario a 33 anni nel 2006, nel quinquennio 2011-15 si è visto azzerare gli anni di anzianità. Per questo, assieme ad altri colleghi, ha deciso di boicottare il processo di Valutazione della qualità della ricerca (il cosiddetto «Vqr») a cura del ministero, che classifica il livello delle università per elargire di conseguenza i fondi. Professore come funziona la sua strategia di boicottaggio? «Ci viene chiesto di produrre due pubblicazioni uscite nel periodo 2011- 14. Io non lo farò. In quel periodo ho prodotto 16 lavori che la Vqr valuta con il massimo del punteggio». Lo Stato bistratta voi docenti? «Certo. Il nuovo bando di finanziamento assegnerà appena 30 milioni l'anno a tutta la ricerca di base. Significa che siamo fuori dalla competizione internazionale. È di pochi giorni fa una lettera su "Nature", ispirata da Giorgio Parisi, uno dei maggiori fisici teorici, che denuncia questo fatto. I miei colleghi all'estero hanno decine di volte in più di quanto dispongo io». Tuttavia lo «Scimago Journal Rank», che misura l'impatto bibliometrico delle nazioni, colloca l'Italia nei primi 10 posti. Le risulta? «Sì, è notevole, visto che abbiamo molti meno ricercatori degli altri Paesi. Aggiungo che, secondo un rapporto del governo inglese, l'Italia oscilla tra il secondo e terzo posto per ricerca prodotta, rinormalizzata alla spesa. Penso a cosa potremmo fare se fossimo trattati alla stregua degli altri Paesi...». Allora perché il governo dovrebbe congiurare contro l'università? «Non si tratta di questo governo, ma di un atteggiamento della classe politica. Non si guarda per tempi lunghi. Si guarda da qui alle prossime elezioni. Meglio allora dirottare i soldi verso enti privati, partecipate, grandi opere o eventi, cose che la politica può controllare e che a volte sono utili in uno schema clientelare. Il contrario di quello che avviene per i fondi di ricerca: sono rendicontati al centesimo senza sprechi, ma soprattutto il loro uso non è soggetto al condizionamenti della politica. Questo, evidentemente, secca». Lei verso chi punta il dito accusatore? «Tutti i governi, da Berlusconi in poi, hanno avuto per la ricerca un atteggiamento sprezzante. Gli scatti, bloccati nel 2011, sono stati reintrodotti, ma hanno cancellato l'anzianità pregressa e solo ai professori universitari, tra i dipendenti pubblici. Per come la vedo io, questo è un segno di puro disprezzo. A queste condizioni è impensabile lavorare serenamente». Anche i docenti però non rappresentano il massimo della limpidità: corruzione, nepotismo... è la cronaca a riportarlo con frequenza. Che cosa risponde? «C'è spesso una narrazione aneddotica e scandalistica, fatta di casi aberranti, che vengono presentati come fossero la norma. Ci vogliono invece analisi serie». Ma sono i singoli casi a mettere in cattiva luce anche i docenti virtuosi. Perché non chiedete una riforma che renda trasparenti assunzioni e fondi? «Penso che ci siano molte cose da razionalizzare, ma tutto questo non deve essere fatto sull'onda dell'isterismo o dell'ideologia. Siamo in tanti, autonomi, come per esempio chi fa parte del Gruppo 2003, a fare fact-checking e critica costruttiva. Crediamo sia il metodo per migliorare, dal momento che non ci aiutano né governo né rettori». ________________________________________________________ Il Sole24Ore 08 Feb. ‘16 UNIVERSITÀ A DIETA: LE ENTRATE GIÙ DEL 15% Tra il 2010 e il 2015 le università statali hanno perso quasi il 15% delle proprie entrate strutturali e hanno sforbiciato dell’11,5% le uscite (tagli scaricati soprattutto sulle spese per il personale). Sul fronte degli incassi, l’autofinanziamento è sempre più vitale, perché il rapporto fra entrate proprie (tasse e contributi, prima di tutto) e trasferimenti è cresciuto dal 26 al 34,2 per cento. Evoluzione inevitabile, dal momento che rispetto al 2010 il fondo di finanziamento ordinario ha perso un miliardo. Servizio pagina 4 Alessandro Schiesaro con Analisi di Gianni Trovati In cinque anni persi 2 miliardi: in crisi soprattutto il Sud - Sforbiciata anche alle uscite (-11,5%) La spending review nell’università non è solo materia di corsi e convegni, ma negli ultimi anni ha rappresentato una presenza sempre più costante nelle scelte gestionali degli atenei: lo dicono i numeri, dai quali emerge il panorama di un settore in pesante crisi di risorse, che nel suo complesso ha però provato a difendere il livello di servizi e prestazioni. Le cifre in gioco I numeri, quindi: tra il 2010 e il 2015 le università hanno perso quasi il 15% delle proprie entrate strutturali e hanno sforbiciato dell’11,5% le uscite. I tagli, ed è questo l’aspetto più qualificante, si sono scaricati in particolare sulle spese per il personale, che sono state schiacciate dal blocco degli scatti e dai vincoli al turnover, e hanno perso in cinque anni il 13,8% del loro peso. Le spese per i «servizi agli studenti», un capitolo che comprende borse di dottorato, assegni di ricerca e scuole di specializzazione, ma anche i programmi di mobilità e di scambi culturali per gli studenti, invece hanno tenuto, e tra il 2010 e il 2015 sono cresciute del 2%, mantenendo di conseguenza quasi lo stesso ritmo della mini-inflazione del periodo. Identica la dinamica delle «spese di funzionamento», voce canonica nelle teorie della spending, che però merita un’analisi più puntuale: gli aumenti nelle spese per le utenze (elettricità, gas, acqua e telefonia +7,5%) e per la pulizia (+7%) confermano le difficoltà vissute finora dai sistemi di controllo degli appalti e di centralizzazione degli acquisti, ma altre voci come le uscite per i laboratori (+6%) potrebbero spiegarsi anche con una piccola spinta ulteriore alle attività. Bilanci trasparenti I numeri chiave, però, sono altri e si concentrano nella colonna delle entrate. Tutte le cifre di questa pagina riguardano gli andamenti effettivi di cassa e arrivano da due fonti. Quelle complessive, aggiornate a fine 2015 per il confronto annuale, sono tratte dal Siope, il cervellone telematico del ministero dell’Economia che monitora quotidianamente incassi e pagamenti di tutta la pubblica amministrazione; i numeri relativi alle singole università (aggiornati per il momento al 2014) arrivano invece da «bilanci atenei», il portale che il ministero dell’Università ha lanciato sul proprio sito istituzionale per offrire il quadro della salute economico-finanziaria dei bilanci accademici: di ogni ateneo, in una rassegna che per ora esclude i non statali, è finalmente possibile consultare tutti i principali dati di bilancio, spulciando anche i numeri delle società partecipate, mentre in forma sintetica vengono offerti i dati sui principali indicatori dei conti, come il rapporto fra spese fisse e finanziamenti statali, quello fra spese di personale ed entrate e la sostenibilità dell’indebitamento. Le entrate Sono le entrate, dunque, a offrire le chiavi di lettura più importanti. La prima: l’autofinanziamento è sempre più vitale, perché il rapporto fra entrate proprie (tasse e contributi, prima di tutto, ma anche l’attività commerciale e gli accordi di programma) e trasferimenti è cresciuto di un terzo, passando dal 26 al 34,2 per cento. Si tratta di un’evoluzione inevitabile, dal momento che rispetto al 2010, quando era ancora “puntellato” da voci provvisorie come i 500 milioni del piano straordinario targato Mussi-Padoa Schioppa, il fondo di finanziamento ordinario ha perso in termini di incassi un miliardo di euro, mentre altri 100 milioni annuali si sono volatilizzati alla voce «trasferimenti per borse di studio». A sostenere i conti accademici, di conseguenza, sono stati chiamati sempre di più gli studenti e le loro famiglie, anche se in termini assoluti il loro valore non è riuscito a crescere a causa dell’emorragia di studenti che in cinque anni ha fatto perdere alle università il 6,5% dei propri iscritti in cinque anni accademici (si veda Il Sole 24 Ore del 2 novembre 2015). Tasse e contributi, nel frattempo, sono scesi “solo” del 3,5%, attestandosi a quota 1,7 miliardi tondi, aumentando quindi il loro peso percentuale sul totale delle entrate universitarie. Mezzogiorno in crisi È nelle università del Sud che i conti traballano pericolosamente, messi in crisi da un circolo vizioso che parte dalla perdita di studenti (e quindi di contributi), si riflette nella flessione delle performance e di conseguenza produce assegni statali alleggeriti per i tagli nella «quota premiale» collegata ai risultati. Le entrate strutturali degli atenei meridionali crollano in cinque anni del 20%, cioè il doppio rispetto alle università del Nord, e la stessa forbice si riscontra nei numeri del fondo universitario (-13,6% di incassi al Nord, -24,8% al Sud). Le prospettive In questo quadro va detto che l’ultima manovra, per la prima volta da molto tempo, riporta qualche segno «più» nelle voci del finanziamento statale all’università, con una serie di mini-interventi relativi a rafforzamento della quota premiale, piano straordinario per i ricercatori e fondo «Giulio Natta» per il reclutamento all’estero, che in totale racimolano 116 milioni per il 2016 e 165,5 milioni dal 2017. Una boccata d’ossigeno importante, che da sola non riuscirà però a cambiare le dinamiche strutturali, soprattutto nelle aree con il fiato più corto. gianni.trovati@ilsole24ore.com Gianni Trovati ________________________________________________________ Il Sole24Ore 08 Feb. ‘16 ITALIA FERMA NELLA PAGELLA DEL MERITO Se guardiamo ai numeri, un miglioramento dello “stato del merito” dell’Italia nell’ultimo anno c’è stato, ma talmente impercettibile da non sollevare neppure un refolo del vento di cambiamento che tanto servirebbe. Difficile definire diversamente un +0,06% registrato dall’ultimo Meritometro, l’indicatore quantitativo di sintesi e misurazione del merito a livello Paese. Rispetto ai 12 stati europei valutati dal Forum della Meritocrazia - grazie a un team di ricercatori dell’Università Cattolica di Milano che ha messo a punto lo strumento da un paio di anni - l’Italia rimane in ultima posizione nel ranking 2016 su tutti i pilastri, come nella prima edizione del 2015. Di fatto, quindi, il trend del Paese è stazionario. «Un risultato dovuto anche all’attività del Governo, segnata da alcune manovre positive, ma controbilanciata da azioni che hanno frenato la spinta innovativa – avverte Nicolò Boggian, direttore generale del Forum -. Così rischiamo di perdere le partite più critiche del XXI secolo, in primis quella dell’attrazione dei talenti, che si intreccia con la crisi demografica e la necessaria innovazione del welfare per contemperare le esigenze dei giovani e degli anziani». L’andamento dell’Italia si inserisce in un'Europa che nel complesso migliora, con un lieve rallentamento dei primi della classe (Finlandia, Norvegia, Gran Bretagna, Austria) e un’altrettanto lieve accelerazione del cluster debole, grazie più alla Spagna e alla Polonia che all’Italia. «La distanza che ci separa dai best performer rimane imbarazzante» commenta Giorgio Neglia, coordinatore del team di lavoro e consigliere del Forum della Meritocrazia. Con un punteggio di 23,4 abbiamo un distacco di oltre 40 punti dalla Finlandia, quasi 30 dalla Germania, 20 dalla Francia, mentre aumenta il gap con la Polonia (oltre 16 punti) e la Spagna (oltre 12 punti). «Dobbiamo riconoscere che alcuni segnali positivi, seppur minimi, ci sono – afferma Neglia -, a partire dal pilastro Libertà, che ha registrato la migliore performance, probabilmente per l’impatto della riforma del lavoro, valutata positivamente dalle agenzie internazionali; sul parametro Pari opportunità, dove il fattore donne indica un progressivo miglioramento, mentre sui giovani pesa come un macigno la zavorra dei Neet che non diminuisce abbastanza; e sul fronte Trasparenza, principalmente grazie all’azione dell'Autorità Anticorruzione, che Transparency International ha riconosciuto facendoci guadagnare 8 posizioni nell’indicatore sulla percezione della corruzione». Tuttavia si poteva e doveva fare di più e meglio. «Ad esempio, la Buona Scuola con il nuovo ruolo dei presidi, o la Scuola in chiaro vanno nella giusta direzione, ma come si conciliano - si chiede Boggian – con l’assunzione di 68mila precari in maniera affatto meritocratica, a stipendi da fame? O, ancora, come spiegare il mancato allineamento tra la riforma della scuola e quella del mercato del lavoro, che non aiuta ad attenuare il tasso di disoccupazione?». Quanto ai pilastri con segno negativo «l’arretramento più forte è avvenuto sulle Regole: la giustizia civile e quella penale ancora troppo lente e farraginose finiscono per allontanare gli investitori stranieri – segnala Neglia -. Segue l’Attrattività dei talenti, fattore su cui pesa la mancanza di una policy organica oltre al depotenziamento di alcune misure, come la legge 238/2010 sul rientro dei cervelli. Infine, anche la Qualità del sistema educativo segna il passo per i dati sull’educazione terziaria e il tasso di abbandono degli studi». Ora si attende la riforma della Pa, su cui il Forum della Meritocrazia auspica un avvicinamento tra le regole che governano il privato e il pubblico, sia nel ruolo della dirigenza sia nella gestione dell’organizzazione, con la creazione dei presupposti di una gestione più sana, trasparente e misurabile, ad esempio, delle partecipate. «Per invertire il trend, servirebbero almeno un paio di interventi forti e chiari – conclude Boggian -. Alcune perplessità della Ue sulla Legge di Stabilità dimostrano che è più che mai necessario individuare linee di investimento mirate a uno sviluppo sano, in un ecosistema realmente competitivo che premia il merito nell’interesse di tutto il Paese». ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 12 Feb. ‘16 LE UNIVERSITÀ DI CAGLIARI E SASSARI DEVONO ALLEARSI Risponde Manlio Brigaglia Nei giorni scorsi si è tenuto a Cagliari un incontro sul tema della sopravvivenza dell'università in Sardegna. L'uso ministeriale, e quindi governativo, di determinati indicatori sta lì a dimostrare che è in atto una forte sperequazione ai danni delle università meridionali e in particolare di quelle localizzate in Sardegna. Non è pensabile che questo possa avvenire, se si pensa al ruolo che la scuola e l'università svolgono come motori dello sviluppo culturale ed economico del territorio e delle comunità. La difesa delle università di Cagliari e di Sassari deve però riesaminare il complessivo sistema universitario “sardo”. Si impone da parte delle due università una politica comune, come se si trattasse di un' unica università, nel rispetto delle specifiche storie ed identità. Per esempio: la gemmazione delle sedi non può essere solo frutto delle decisioni di Cagliari e di Sassari: Iglesias, Nuoro, Oristano e Olbia, e per ognuna di esse l'individuazione di distinti corsi di laurea e dei loro contenuti, anche con riferimento alle “vocazioni” dei distinti territori, devono discendere da una politica unitaria delle due università e della Regione. Se il sistema universitario sardo ha come riferimento l'intero territorio regionale, occorre intervenire sulla continuità territoriale “interna”, con una diversa politica sul sistema infrastrutturale dell'isola. Stiamo assistendo a politiche di razionalizzazione del sistema scolastico e del sistema sanitario senza che contestualmente si pensi a migliorare i collegamenti tra i nuovi poli ed i loro bacini di riferimento. Non correggere i divari esistenti significa accelerare lo svuotamento delle aree interne. Difendere il sistema universitario della Sardegna significa anche avvicinare i territori alle università, fare in modo che la Sardegna senta propria l'università, avverta l'importanza del suo mantenimento e del suo sviluppo. Deve cessare di essere una questione che riguarda solo le città maggiori dell'isola! Franco Annunziata Cagliari ________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 14 Feb. ’16 FELICE PER I CERVELLI IN FUGA, FIGURACCIA DELLA GIANNINI Il ministro si vanta dei 3o italiani vincitori degli Erc. Molti però sono all'estero. La ricercatrice: "Non si prenda meriti non suoi" Arrivare ottavi e far finta di essere terzi. Ottenere 13 finanziamenti per progetti di ricerca e sognarne più del doppio: trenta. Per falsificare la realtà, alla ministra dell'Istruzione Stefania Giannini è bastato estrapolare un dato dal suo contesto. Peccato che subito dopo una ricercatrice l'abbia riportata sulla terra con un post su Facebook . PROCEDIAMO con ordine. Nei giorni scorsi, l'Erc (Consiglio europeo della Ricerca) ha pubblicato i nomi dei 302 scienziati vincitori di finanziamenti per i loro progetti, su più di 2 mila candidati. Parliamo di cifre molto alte: il budget totale ammonta a 585 milioni di euro. Tra gli assegnatari, ben trenta sono di nazionalità italiana. Guardando questo dato, meglio di noi hanno fatto soltanto Germania e Regno Unito. E infatti è proprio su questo che ha insistito la ministra Giannini su Facebook: "Un'altra ottima notizia - ha scritto - per la ricerca italiana". Ma il dato che davvero rivela il successo o il fallimento di un Paese è un altro. Alla titolare dell'Istruzione sarebbe bastato osservare con attenzione le slide che lei stessa ha pubblicato per accorgersi del numero di borse per i progetti che davvero saranno portati avanti in Italia: avrebbe notato che questi sono solo 13, gli altri 17 si svolgeranno all'estero. È stata proprio una ricercatrice italiana "espatriata" a svelare la figuraccia della ministra: Roberta D'Alessandro, abruzzese che lavora all'Università di Leida, in Olanda. Il suo post, diventato virale in pochi minuti, è una pesante accusa al sistema italiano che non premia il merito. "Cara ministra - si legge sulla sua pagina - non si vanti dei miei risultati. La mia Erc e quella del collega Francesco Berto sono olandesi, non italiane. L'Italia non ci ha voluto". La ricercatrice premiata si è laureata in Lingue e Letterature straniere all'Università dell'Aquila, ma dopo il titolo è dovuta partire per il dottorato a Stoccarda. Perché l'Italia non è riuscita a trattenere una studiosa che dopo pochi anni ha vinto un finanziamento così autorevole? La risposta è sempre nel post di Roberta: "Chieda alla vincitrice del concorso per linguistica informatica al Politecnico di Milano (con dottorato in estetica, mentre io lavoravo in Microsoft), quanti grant ha ottenuto, oppure alle due vincitrici del concorso in linguistica inglese, senza dottorato, alla Statale di Milano, quanti fondi hanno ottenuto". Ricapitolando, i veri numeri sono questi: l'Italia, con i suoi 13 progetti, è ottava nella graduatoria europea. Al primo posto c'è il Regno Unito che chiude in netto attivo il saldo tra talenti esportati (dieci) e importati (45). Questi ultimi, sommati ai 22 che sono rimasti in patria, arrivano a 67 progetti finanziati. Seguono Germania con 45 e Francia con 31. Hanno fatto meglio di noi anche Olanda, Svizzera, Spagna e Israele. Infelice, per la ministra Giannini, si è rivelato anche il riferimento al numero di scienziati premiati di sesso femminile: "Soprattutto - ha scritto Giannini - colpisce il fatto che siamo primi per numero di ricercatrici che hanno ottenuto un riconoscimento". In effetti, sarebbero ben sedici se nove di loro non avessero portato all'estero il proprio talento, lasciandone in Italia solo sette. ________________________________________________________ Il Giornale 12 Feb. ’16 RICERCA; NOSTRI SCIENZIATI LANCIANO SOS Sessantotto grandi cervelli fanno appello all'Europa: «Salvate la ricerca. E dateci fondi come a tutti gli altri» Anna Maria Greco Roma Diecimila firme in una settimana, in testa 68 grandi scienziati italiani. Tutti a sostenere l'appello all'Unione europea, pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature e on line su Change.org, perchè i governi europei garantiscano fondi per la ricerca uniformi, in modo da non creare una distorsione della competitività nazionale, in particolare del nostro Paese. Che ha cervelli d'eccellenza ma mette a loro disposizione risorse inadeguate, tarpando le ali a progetti che potrebbero avere un grande futuro. Quello che si chiede, in sostanza, è un «commissariamento per il bene della scienza» da parte dell'Europa. Mentre il mondo si congratula con gli studiosi del nostro Istituto Nazionale di Fisica Nucleare per la scoperta delle onde gravitazionali, che gli scienziati italiani hanno fatto con i colleghi americani, e francesi, il sigillo finale alla teoria della relatività di Einstein diventa l'occasione per alzare un grido di protesta. L'idea parte da Giorgio Parisi, fisico teorico di fama e rilevanza mondiale dell'università La Sapienza di Roma e membro del Gruppo 2003, che ha raccolto a sostegno della sua lettera il fior fiore degli scienziati italiani, come i fisici Giovanni Ciccotti, Duccio Fanelli, Vincenzo Fiorentini e Stefano Ruffo. «Chiediamo all'Ue - scrivono- di spingere i governi nazionali a mantenere i fondi per la ricerca a un livello superiore a quello della pura sussistenza. Questo permetterebbe a tutti gli scienziati europei — e non solo a quelli britannici, tedeschi e scandinavi — di concorrere per i fondi di ricerca Horizon 2020». Insomma, nell'Ue la differenza di visione (e di spesa) dei governi causa una distorsione competitiva enorme, ingiustificata e dannosa, e serve un input forzato dall'Unione agli esecutivi nazionali, un «commissariamento per il bene della scienza» appunto. Altrimenti, accade che «i fondi di quest'anno per i progetti sovvenzionati dallo Stato sono, in Italia, di 92 milioni di euro. In Francia il bilancio annuale dell'Agenzia della Ricerca Scientifica Francese si attesta su un miliardo l'anno». Un divario incolmabile, che rischia di affossare la ricerca in un Paese i cui studiosi sono spesso di livello mondiale, come dimostra l'ultima scoperta. L'appello è dunque diretto anche al nostro governo. «L'Italia - spiega Parisi - trascura gravemente la ricerca di base. Oramai da decenni il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) non riesce a finanziarla, operando in un regime di perenne carenza di risorse» Alla lettera è collegata la petizione su Change.org, che ha raccolto in pochi giorni 10 mila firme, numero destinato a crescere ancora. «Un successo quasi unico - sottolinea Parisi-considerando che si parla del tema della ricerca, poco dibattuto in Italia. Sono felicissimo di aver potuto dare voce a un settore tanto trascurato del nostro Paese. Una parte di questi ricercatori rivendica il diritto di poter lavorare in Italia senza dover obbligatoriamente andare all'estero». ________________________________________________________ Lex Italiana 5 Feb. ‘16 SEMPLICE MAGGIORANZA PER L'ABILITAZIONE NAZIONALE DEI PROFESSORI UNIVERSITARI CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 5 febbraio 2016* (per l’abilitazione nazionale alle funzioni di professore universitario è sufficiente la maggioranza dei voti dei commissari; ritiene illegittima la norma regolamentare che, per l'abilitazione stessa, prevedeva un quorum minimo dei quattro quinti dei componenti). CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - sentenza 5 febbraio 2016 n. 470 - Pres. Barra Caracciolo, Est. Lageder - Presidenza del Consiglio dei Ministri ed altri (Avv. Stato Pluchino) c. Navone (Avv. Nucci) - (conferma T.A.R. Lazio - Roma, Sez. III Bis, n. 13121 del 2015). Università - Professori universitari - Idoneità nazionale - Disciplina di cui all’art. 8, comma 5, del d.P.R. n. 222 del 2011 - Previsione di un quorum minimo, per il conseguimento dell’idoneità, dei quattro quinti dei componenti (anziché della maggioranza assoluta) - Illegittimità - Fattispecie. E’ illegittimo l’art. 8, comma 5, del d.P.R. 14 settembre 2011, n. 222, nella parte in cui, ai fini dell’attribuzione dell’abilitazione nazionale alle funzioni di professore universitario, stabilisce che «la commissione delibera a maggioranza dei quattro quinti dei componenti»; tale disposizione regolamentare infatti non trova copertura alcuna nei «criteri» fissati alla potestà regolamentare governativa dall’art. 16, comma 3, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 («criteri», da qualificare, con una più appropriata terminologia, come «norme generali regolatrici» ai sensi dell’art. 17, comma 2, l. n. 400 del 1988, le quali, secondo la giurisprudenza costituzionale, assolvono ad una funzione delimitativa stringente della potestà regolamentare governativa nelle materie delegificate) (1), non risultandovi stabilito alcunché con riguardo ad un’eventuale maggioranza qualificata che debba assistere la deliberazione di abilitazione. E’ pertanto illegittimo il giudizio di inidoneità a professore universitario di seconda fascia (nella specie per il settore concorsuale 12/A1 - Diritto privato) per il mancato raggiungimento del prescritto quorum di quattro quinti dei componenti della commissione giudicatrice, dovendosi ritenere sufficiente per l'idoneità - in base ai criteri generali applicabili a tutti gli organi collegiali - la maggioranza del voto dei componenti (nella specie, a favore dell’abilitazione del candidato, avevano espresso un giudizio positivo tre su cinque commissari; nonostante ciò il candidato stesso era stato ritenuto non idoneo) (2). ----------------------------------------- (1) Cfr. Corte Cost., sent. n. 303/2005. (2) Ha osservato la sentenza in rassegna che, come correttamente rilevato nella sentenza dl T.A.R. Lazio appellata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed altri, l’introduzione di una deroga talmente significativa alle regole generali che presiedono al funzionamento degli organi collegiali – infatti, generalmente ed in assenza di un’espressa previsione normativa, la volontà dell’organo collegiale si identifica con quella della maggioranza dei votanti (coincidente, negli organi collegiali perfetti, con la maggioranza dei componenti), corrispondente alla metà più uno dei votanti – necessitava di una previsione espressa nella legge autorizzativa, pena la violazione dell’art. 17, comma 2, l. n. 400 del 1988. Ciò vale, a maggior ragione, per le commissioni giudicatrici di procedure di abilitazione o concorsuali – quale la commissione nazionale di abilitazione delle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia, nominata secondo una complessa procedura per ciascun settore concorsuale, composta da cinque membri [v. artt. 3, lett. f), l. n. 240 del 2010 e 6 d.P.R. n. 22 del 2011] –, le cui valutazioni sono improntate esclusivamente a criteri di discrezionalità tecnica. Nle caso in questione – a differenza dalle ipotesi di organi collegiali muniti di poteri discrezionali amministrativi, in cui la maggioranza qualificata è, sovente, richiesta in relazione a determinate materie o in ragione della natura degli interessi rappresentati dai vari componenti dell’organo –, la previsione di una maggioranza qualificata, attributiva di un sostanziale potere di veto alla minoranza dissenziente in seno all’organo collegiale chiamato a formulare un giudizio prettamente tecnico sull’idoneità dei candidati (sotto il profilo della loro qualificazione scientifica, per l’accesso alla prima e seconda fascia dei professori, sulla base della valutazione dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche), non appare, comunque, sorretta da un’adeguata ratio giustificatrice. Peraltro, anche nella disciplina pregressa del settore dei concorsi universitari era richiesta la maggioranza semplice delle commissioni giudicatrici per l’indicazione dei candidati ritenuti meritevoli dell’idoneità scientifica nazionale (v., da ultimo, l’art. 9, comma 9, d.lgs. 6 aprile 2006, n. 164 – abrogato dall’art. 29, comma 12, l. n. 240 del 2010 –, secondo cui «Al termine dei lavori la commissione, previa valutazione comparativa, con deliberazione assunta a maggioranza dei componenti, indica i candidati ritenuti meritevoli dell’idoneità scientifica nazionale nei limiti numerici fissati dal bando»), ad ulteriore rafforzamento della sopra enunciata esigenza di una disposizione derogatoria espressa di rango primario. ___________________________________________________ Lex Italiana 8 Feb. ‘16 SENTENZE SCONCERTANTI SUI CORSI DI LAUREA A NUMERO CHIUSO NELLE UNIVERSITÀ TAR LAZIO - ROMA - sentenza 8 febbraio 2016*, con un breve commento di G. VIRGA, Una serie di sentenze sconcertanti del TAR Lazio sul c.d. numero chiuso nelle Università. TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III BIS - sentenza 8 febbraio 2016 n. 1839 - Pres. ff. ed Est. Quiligotti - Bellinvia ed altri (Avv.ti Delia e Bonetti) c. Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca ed altri (Avv.ra Stato) e Pinizzotto ed altri (n.c.) - (dichiara il ricorso avverso la mancata ammissione ai corsi di laurea in medicina e chirurgia e odontoiatria e protesi dentaria per l'a.a. 2014/2015 improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, ferma restando l’immatricolazione in soprannumero della parte ricorrente nel corso di laurea in questione). Università - Corsi di laurea a numero chiuso - Mancata ammissione a detti corsi - Ricorsi proposti avverso i provvedimenti di diniego di ammissione - Dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse agli stessi - Comporta l’improcedibilità dei ricorsi stessi, ma non travolge le ordinanze cautelari di ammissione con riserva ai suddetti corsi. La dichiarazione del difensore di sopravvenuta carenza di interesse del proprio assistito alla decisione del ricorso comporta l'improcedibilità dell'impugnazione, non potendo in tal caso - in omaggio al principio dispositivo - il giudice decidere la controversia nel merito, imponendosi una declaratoria in conformità; tuttavia, ove, a seguito del ricorso avverso la mancata ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso, sia stata concessa l’ammissione con riserva a detti corsi, pur a seguito della dichiarazione di improcedibilità del ricorso, resta ferma l’immatricolazione in soprannumero dei ricorrenti nei corsi di laurea in questione. --------------------------------------------------- BREVE COMMENTO DI GIOVANNI VIRGA Una serie di sentenze sconcertanti del TAR Lazio sul c.d. numero chiuso nelle Università La sentenza in rassegna, che fa parte di un nutrito numero di sentenze analoghe, è sconcertante, dato che, pur affermando banalmente nella sua laconica motivazione che la dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse del difensore comporta la dichiarazione di improcedibilità del ricorso (principio questo supportato inutilmente dal richiamo, in motivazione, di una lunga e dotta elencazione di precedenti), nel dispositivo tuttavia aggiunge – senza alcuna motivazione al riguardo - che la dichiarazione di improcedibilità non travolge la misura dell’ammissione con riserva ad alcuni corsi di laurea a numero chiuso disposta in via cautelare. Il principio affermato costantemente dalla giurisprudenza, com’è noto, è invece opposto: la dichiarazione di improcedibilità, così come la rinuncia al ricorso, finisce per far venire meno l'efficacia delle misure cautelari eventualmente concesse. Solo una pronuncia di accoglimento del ricorso può infatti comportare il consolidamento degli effetti delle misure interinali concesse. Si fa eccezione a tale principio solo nel caso di dichiarazione di cessazione della materia del contendere (nella specie non ricorrente), dato che in tal caso l'emissione di un provvedimento pienamente satisfattivo per i ricorrenti con effetto retroattivo fa venir meno l'efficacia di quello impugnato con il ricorso introduttivo. Il principio affermato dal TAR Lazio nella specie, oltre che del tutto immotivato e contrastante con la costante giurisprudenza, è anche pericoloso, perchè si presta ad un possibile uso strumentale delle misure cautelari e della dichiarazione di sopravvenuta carenza d’interesse. Se si dovesse infatti far strada tale orientamento, per i difensori dei ricorrenti sarebbe facile ottenere la concessione di una qualsiasi misura cautelare e perpetuarla (o meglio, consolidarla) con una semplice dichiarazione di sopravvenuta carenza d’interesse. Si premierebbero in tal modo i furbi che, piuttosto che affrontare il merito del ricorso, con una semplice dichiarazione di improcedibilità finirebbero per consolidare la misura cautelare ottenuta, senza rischio alcuno. La sentenza in rassegna, assieme a tutte le altre (che, a quanto pare, riguarderebbero in totale 8.000 ricorrenti che non erano stati ammessi al corsi di laurea in medicina e chirurgia ed in odontoiatria), ha dato la stura ad una serie di articoli giornalistici nei quali i difensori ed i rappresentanti dei ricorrenti baldanzosamente affermano che, per effetto delle sentenze in questione, il numero chiuso per i predetti corsi di laurea sarebbe ormai venuto meno: v. per tutti l’articolo pubblicato ne “Il Fatto Quotidiano” intitolato “Test Medicina, Tar riammette 8mila studenti. Il numero chiuso è una legge illegale”; clicca qui per consultarlo. Nel testo dell’articolo appena citato il coordinatore nazionale dell’Udu (Unione degli Universitari) si lascia andare a dichiarazioni altisonanti e perfino imbarazzanti, secondo cui: “Sono sentenze storiche che segnano un passo avanti decisivo nella battaglia contro questo sistema di accesso, il quale preclude ogni anno a migliaia di studenti la possibilità di frequentare il corso di studi che avevano immaginato per il proprio futuro. Gli studenti iscritti in sovrannumero hanno dimostrato di aver diritto di studiare ciò che avevano scelto nel modo più semplice possibile: frequentando le lezioni e dando esami”. Altrettanto trionfalistiche sono le dichiarazioni degli avvocati dei ricorrenti. In particolare l’avv. Bonetti ha spiegato che il maxi ricorso è stato “spacchettato” in diversi procedimenti e accolto “con una quarantina di sentenze definitive del Tar, le più consistenti emanate in questi ultimi giorni. Si tratta di ricorsi per l’iscrizione all’anno 2014/2015. L’ultima volta che ci fu un numero così consistente di ricorsi accolti – continua Bonetti – il ministero dell’Istruzione dovette cambiare la legge. Parliamo del 1999. Una cosa è certa: questa vittoria deve indurre il legislatore a cambiare il sistema. Non si può andare avanti a colpi di sentenze sul diritto allo studio”. Insomma, un uso palesemente strumentale della dichiarazione di sopravvenuta carenza d'interesse è stato presentato come l'inizio di una serie di sentenze definite “storiche” e "di accoglimento" (mentre in realtà sono di dichiarazione di improcedibilità) e che dovrebbero addirittura indurre il legislatore a cambiare il sistema. Si confida nel Consiglio di Stato affinchè sia fatta giustizia dell'escamotage escogitato dagli abili avvocati dei ricorrenti e che le sentenze asseritamente storiche siano poste "storicamente" nel nulla nella parte in cui affermano laconicamente che la dichiarazione di improcedibilità del ricorso, per effetto della dichiarazione di sopravvenuta carenza d'interesse dei ricorrenti, manterrebbe in vita l'ammissione con riserva al corso di laurea a numero chiuso. Va infine notato che la sentenza in rassegna, così come le altre quaranta di contenuto analogo che l'accompagnano e che hanno deciso il maxiricorso "spacchettato", testimonia indirettamente l'attuale fase di SBANDAMENTO CHE ATTRAVERSA LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA; uno sbandamento dovuto forse anche al fatto che molti Presidenti con grande esperienza, che prima impedivano immotivate "fughe in avanti", sono recentemente stati posti in quiescenza. Non a caso nella specie l'Estensore ha assunto anche le funzioni di Presidente. Non ci si rende tuttavia conto del fatto che le sconcertanti fughe in avanti della giurisprudenza (dalle quali non è immune neanche il Consiglio di Stato: v. ad es. la recente sentenza della Sez. III che ha ritenuto inammissibile la notifica del ricorso via PEC, dopo una lunga serie di sentenze che l'avevano ritenuta invece ammissibile e che è stata depositata mentre il Segretario Generale, con apposita nota, ha invitato tutti gli avvocati ad anticipare il processo amministrativo telematico), creando scompiglio e discredito, offrono il destro all'attuale classe politica - che già nutre poche simpatie per i giudici amministrativi - per operare un sostanzioso ridimensionamento, se non una vera e propria "rottamazione" (per usare una terminologia tanto cara all'attuale premier), del sistema di giustizia amministrativa. La eredità lasciataci dopo oltre 125 anni da Silvio Spaventa e dai tanti che credettero nel corso del tempo nel sistema di giustizia amministrativa va infatti preservata con sentenze equilibrate ed adeguatamente motivate. P.S. del 9 febbraio 2016: ad onor del vero, rileggendo attentamente questa mattina, a mente fresca, la sentenza, non risulta ben chiaro se l'ammissione "in soprannumero" dei ricorrenti sia stata concessa in forza di una ordinanza cautelare, ovvero spontaneamente dalla P.A.; ciò tuttavia non fa venir meno le considerazioni espresse in precedenza.Infatti, la eventuale concessione interinale dell'ammissione "in soprannumero" da parte della P.A., ove interpretata nel senso di concessione in via definitiva dell'iscrizione "in soprannumero", avrebbe dovuto comportare in ogni caso la dichiarazione di cessazione della materia del contendere e giammai la declaratoria di improcedibilità del ricorso accompagnata (solo in dispositivo) dall'affermazione che rimarrebbe ferma "l’immatricolazione in soprannumero della parte ricorrente nel corso di laurea in questione". Ed avrebbe comunque imposto una minima motivazione per sorreggere quest'ultima statuizione, usata strumentalmente dai difensori dei ricorrenti per affermare che ormai sarebbe venuto meno il numero chiuso e che addirittura si imporrebbe una nuova disciplina in materia. Parafrasando Mao può dirsi che grande è la confusione sotto il cielo e, quindi, tutto va male. N. 01839/2016 REG.PROV.COLL. ________________________________________________________ Italia Oggi 09 Feb. ‘16 ATENEI, RESTA IL NUMERO CHIUSO Ma cambieranno i test di accesso e le attività preparatorie DI SANDRA CARDI Il numero chiuso rimane, cambieranno invece i test di accesso e le attività preparatorie, a carico di scuola e università. E questo l'orientamento che prevale ai piani alti del ministero dell'istruzione in merito alla riforma dei criteri di ammissione alle facoltà a numero programmato Il dossier è tornato di attualità dopo la sentenza del Tar Lazio che ha sancito il pieno diritto di circa 6 mila matricole a proseguire il loro iter universitario anche se non avevano passato i test di accesso a Medicina nel 2014 (si veda ItaliaOggi del 4 febbraio scorso): ammessi a frequentare il primo anno in via cautelativa dalla magistratura amministrativa, i ricorrenti avevano poi superato gli esami previsti. Prova più che sufficiente, ha argomentato il tribunale regionale del Lazio, per ritenerli meritevoli di andare avanti. A dispetto dei risultati della prima selezione. Una sentenza che fa raddoppiare gli iscritti regolari delle facoltà interessate. Della necessità di una revisione complessiva dei sistemi di ingresso ai corsi a numero chiuso aveva già parlato lo scorso anno il ministro dell'istruzione, Stefania Giannini, che si era detta personalmente favorevole al sistema francese: tutti dentro al primo anno, poi si fa selezione in base agli esami superati. Di diverso avviso il sottosegretario Davide Faraone, che si era schierato invece per il mantenimento della prova all'ingresso. Intanto è passato un anno e il tempo per decidere il da farsi stringe se vale la promessa di avviare il nuovo sistema già nel 2016. A viale Trastevere, dove il dossier ha subito vari stop, prima per fare spazio alla riforma della scuola e poi per i vari decreti attuativi della stessa, si ritiene ad oggi poco fattibile l'eliminazione del numero chiuso, soprattutto per l'impatto organizzativo che la decisione avrebbe sugli atenei. Più realistico invece un ripensamento dei test, con una diversa articolazione delle prove, e della fase preparatoria e di orientamento degli studenti. Attivando le leve della Buona scuola, è già possibile per gli istituti scolastici far svolgere ai propri studenti delle ore di, alternanza all'università, così come utilizzare il 20% di curriculum per attività di formazione ad hoc. Decisiva l'attività di orientamento anche in partnership con le università. Uno sforzo in più potrebbe essere chiesto agli atenei anche sul fronte dei corsi di preparazione, da tenersi in estate come alternativa a quelli offerti sul mercato. Intanto, le aule dei tribunali, con una messe di sentenze, si stanno sostituendo al legislatore e all'amministrazione. In questi giorni, mentre il Tar Lazio regolarizzava la posizione di 6 mila matricole, il tribunale di Caltanissetta ha confermato la legittimità dei corsi di Medicina e professioni Sanitarie dell'università romena Dunarea a Enna, per la quale non sono previsti test, rigettando il ricorso presentato dal Miur. Il modello italiano di selezione delle matricole fa acqua da tutte le parti. ________________________________________________________ Il Giornale d’Italia 10 Feb. ’16 LAUREE A NUMERO CHIUSO: IL MINISTERO TOPPA ANCORA Il ministero dell'Istruzione, con il decreto ministeriale 50 dell'8 febbraio scorso, ha annunciato che le graduatorie per i corsi di laurea a numero chiuso saranno chiuse il prossimo 10 febbraio, con l'obbligo per gli studenti assegnati di immatricolarsi entro il 15 febbraio, pena la decadenza dalle graduatorie. Tutti i posti che non sa nomo coperti resteranno vuoti e non saranno riassegnati. Jacopo Dionisio, coordinatore nazionale dell'Unione degli Universitari, dichiara: "E' una scelta irresponsabile e scellerata quella del MIUR; non è ammissibile pubblicare un decreto con queste scadenze così ravvicinate: decreto pubblicato 1"8 per la chiusura delle graduatorie il 10. Il rischio concreto è che troppi posti non vengano assegnati, privando gli studenti della possibilità di iscriversi, nonostante ve ne siano ancora disponibili: allo stato attuale ci risultano più di 420 posti ancora in via di assegnazione, per le sole Medicina e Odontoiatria. Quella del MIUR una volontà completamente folle, in contro- tendenza con tutti i provvedimenti che sta emettendo il tribunale amministrativo". ________________________________________________________ Il Secolo XIX 09 Feb. ‘16 SENTENZA DEL TAR: MEDICINA, STOP AL NUMERO CHIUSO Riammessi 9.000 studenti GUIDO FILIPPI NUMERO chiuso a Medicina, ancora una volta bocciato. Anche questa volta da una sentenza del Tar del Lazio che ha ammesso 9.000 studenti che avevano presentato ricorso per la mancata iscrizione all'anno accademico 2014-2015. Studenti che sono così iscritti d'ufficio a Medicina e Chirurgia. A Genova l'anno scorso era stati un centinaio e quest'anno non è ancora possibile fare previsioni, ma potrebbero essere ancora di più. Il preside Mario Amore, ammette che ci saranno sicuramente problemi organizzativi, ma prima di sbilanciarsi attende di sapere quanti saranno i "nuovi iscritti". «Sono sentenze storiche — commenta Jacopo Dionisio, coordinatore nazionale dell'Unione degli Universitari — che segnano un passo avanti decisivo nella battaglia contro questo sistema di accesso, il quale preclude ogni anno a migliaia di studenti la possibilità di frequentare il corso di studi che avevano immaginato per il proprio futuro. Sempre di più gli studenti extracomunitari decidono di non studiare nel nostro Paese lasciando numerosi posti vacanti che non vengono assegnati né agli studenti comunitari né agli studenti extracomunitari che non superano la soglia minima di ammissione. Questo dimostra quanto già denunciato da moltissime indagini: il nostro modello di istruzione è sempre meno attrattivo a confronto con il resto d'Europa». Chi, invece, contesta la sentenza del Tar el Lazio è l'Anaao, il sindacato più rappresentativo dei camici bianci. «I giudici hanno dato il colpo finale al numero chiuso a Medicina. L'effetto sarà incrementare l'esercito di medici disoccupati ed il numero, già alto, di precari da stabilizzare. Se l'Europa ormai disinveste nella formazione per assumere medici formati a spese dei contribuenti italiani, l'Italia spreca due volte, prima formando ed illudendo i giovani e poi cacciandoli. E così che almeno il 25-30% dei nuovi medici viene assorbito dai sistemi sanitari esteri». filippi@ilsecoloxixi ________________________________________________________ Corriere della Sera 12 Feb. ’16 L’ITALICO VIZIETTO DEL "COPIA E INCOLLA Il caso del professore, colpevole di aver preso pan pari le frasi del suo maestro al concorso per l'abilitazione, e assolto Per favore, i nostri Governanti la smettano di insistere con la retorica del richiamo dei cervelli in patria e della meritocrazia. Inizino prima a fare la loro parte». Lo scrive in una lettera al Corriere una ragazza italiana che sta frequentando la Columbia University di New York. Si chiama Sofia Profita ed è indignata per aver letto sul nostro quotidiano la storia di Dario Tomasello, il docente messinese accusato dal suo collega di facoltà Giuseppe Ponimeli', carte alla mano, di aver copiato frasi su frasi dai libri di Giuseppe Amoroso, lo studioso che fu maestro di entrambi. Un plagio confermato dallo stesso professor Amoroso: «Il saccheggio operato ai miei danni è di dimensioni surreali. Interi miei libri smembrati, spostati a segmenti, privati di ogni tipo di segnaletica specifica che li potesse individuare, sono stati utilizzati per la costruzione di saggi nei quali si collocano in modo "allotrio" ed eccentrico. Non riesco a capire come una Commissione di concorso universitario non abbia avuto il sospetto di trovarsi di fronte ai titoli (?) di un candidato così privi di qualsiasi ordine e consequenzialità di discorso critico». Scrive Sofia Profita: «Agli studenti della mia Università quando ci si iscrive si spiega cos'è il plagio e si fa loro sottoscrivere un contratto d'onore». E proibitissimo fare «copia letterale o copia di un intero paragrafo o sezione più grande senza citazione del vero autore, lasciando intendere, invece, di esserlo. Parafrasare il testo di altri senza citarli e riscriverlo con parole proprie, ma utilizzando l'idea o l'argomento come originale. Utilizzare i dati raccolti da un altro, attribuendosene la paternità, anche se se ne fa un'analisi originale». E chi prova a fare il furbo? «Chi è sospettato di plagio è sottoposto ad un processo disciplinare che, se accertato l'imbroglio, porta senza dubbio all'espulsione dall'Università. Ciò riguarda gli studenti, mentre un Professore scoperto a copiare sarebbe certamente costretto a cambiare completamente il suo comparto professionale. Naturalmente sto parlando di Università americane e non italiane». Dove, invece, una lettera del ministero ha comunicato che dopo avere «visionata la documentazione» la commissione ha deciso di «non dover modificare il giudizio di abilitazione del prof. Fomasello. Nessuno stupore. Basti ricordare la denuncia del sito www.roars.it (roars return on academic research) sulla nomina nel consiglio direttivo di Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca» dell'ordinario di chirurgia Paolo Miccoli. Pizzicato sul «copia-incolla» proprio nell'elaborato richiesto agli aspiranti consiglieri per illustrare «sinteticamente le principali linee di intervento» e il modo in cui ogni «candidato intenda orientare la propria funzione». LINEE PROGRAMMATICHE, Riportiamo col copia incolla (legittimo, ovvio, se si cita) lo stenografico della Commissione cultura del 24 settembre 2015 che doveva dare il via libera alla nomina: «Francesco D'Uva (M5S) annuncia che i deputati del suo gruppo non parteciperanno alle votazioni sulle proposte di nomina. Rileva, in particolare, relativamente alla nomina del professor Miccoli, che il voto contrario è dovuto al fatto che, come documentato su www.roars.it, le linee programmatiche del professor Miccoli contengono estratti letterali — non virgolettati — provenienti dai seguenti quattro testi di altri autori, da lui non citati...». E giù l'elenco, dettagliatissimo, dei testi saccheggiati. Conclusione: «Ritiene dunque non accettabile che chi, nella scrittura delle sue linee programmatiche, abbia fatto uso letterale, non citando, di materiale altrui, possa essere nominato a far parte del Consiglio di gestione dell'Anvur». E come finì? Nomina approvata. Conferma Ha dichiarato i professor Giuseppe Amoroso: «Il saccheggio operato ai miei danni è di dimensioni surreali» ________________________________________________________ Repubblica 08 Feb. ‘16 QUANDO LA GIURISPRUDENZA CHIEDE AIUTO ALLA SCIENZA GLI STUDIOSI Elena Cattaneo, scienziata e senatrice a vita, e Pietro Rescigno, uno dei più noti giuristi italiani ROMA. La giurisprudenza decide ogni giorno su casi e controversie contando sull'aiuto di esperti e scienziati. Ma non sempre la scienza può dare delle risposte certe ai giudici. Di questo delicato argomento si discuterà nel convegno "Giurisprudenza e Scienza" in programma all'Accademia Nazionale dei Lincei di Roma ( 9 e 10 marzo 2016 ). Tanti gli argomenti sul tavolo. Cultori ed esperti scientifici cercheranno di spiegare in che modo e con quali esiti le conoscenze scientifiche possono rendersi utili nel procedimento di formazione di una decisione legislativa. O ancora fare il punto, nei rapporti tra giurisprudenza e scienza, su quali sono le necessarie basi scientifiche delle prove di giudizio. Qualche esempio? C'è il delicato caso dei processi penali sul mesotelioma, un tumore maligno quasi sempre correlato all'esposizione ad asbesto ( amianto ). Come è possibile identificare con un evento specifico ( data la complessità della cancerogenesi ) quando è avvenuta la trasformazione di una cellula da normale a neoplastica, in seguito a quali esposizioni e soprattutto se queste esposizioni siano rilevanti? Sembrano, insomma, poco limpide le modalità con cui i saperi scientifici si innestano nei procedimenti che portano a decisioni o a formulare nuove norme. 1 temi del convegno sono stati anticipati ieri dall'inserto domenicale del Sole 24 Ore. L'autore, Marcello Lotti, s'interroga su medicina e diritto. «Perché i rapporti tra scienza e legge siano realmente cooperativi è essenziale accettare che la scienza non è in grado di offrire le risposte che il giudice si aspetta di avere». E ancora: «Le cause ambientali delle neoplasie sono di carattere probabilistico. Sarebbe forse più opportuno ragionare sulla responsabilità civile e non penale». Al convegno capitolino parteciperanno scienziati e giuristi, epistemologici e studiosi delle diverse discipline scientifiche: Antonio Gambaro, Natalino Irti, Pietro Rescigno, Paolo Grossi, Elena Cattaneo e Giulio Giorello. ________________________________________________________ Repubblica 10 Feb. ‘16 FALSE RICERCHE SANZIONI A 11 DOCENTI DELL'UNIVERSITÀ BIANCA DE FAZIO NAPOLI. Finisce sulla graticola il gruppo di scienziati napoletani accusato di aver manipolato i dati sulle ricerche sugli Ogm, gli organismi geneticamente modificati. Il professore Federico Infascelli (docente a Veterinaria dell'ateneo Federico II) ed altri 10 tra docenti e ricercatori dell'ateneo sono stati formalmente accusati di aver ritoccato e usato impropriamente alcune immagini nelle loro ricerche, di aver "violato le regole nell'integrità della ricerca", di aver fabbricato risultati sperimentali non esistenti. I primi sospetti li ebbe, mesi fa, la scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo, che incontrò Infascelli a un'audizione al Senato proprio sugli Ogm. Non avendo ricevuto risposta quando aveva sottolineato, con Infascelli, le incoerenze di parti delle sue ricerche, si era rivolta al rettore dell'università di Napoli, Gaetano Manfredi, chiedendogli un tempestivo intervento. Manfredi ha nominato una commissione d'inchiesta che ha ormai concluso il suo iter. Il rettore, ieri, ha comminato le sanzioni per tutti gli appartenenti al gruppo interdisciplinare ( graduandole in base alle responsabilità)• richiami formali per tutti, poi impossibilità a pubblicare usando il nome dell'ateneo, nei prossimi anni, senza prima passare al vaglio del direttore di dipartimento. «Un fatto grave - afferma Manfredi - ma l'ateneo ha dimostrato di avere al suo interno gli anticorpi necessari». ________________________________________________________ Il Foglio 13 Feb. ’16 ORA ANCHE L'UNIVERSITÀ PUNISCE LE BUGIE DEL PROF ANTI OGM Milano. "Per un ricercatore la cosa più importante è la reputazione e queste sanzioni restano nei fascicoli. E' una pagina dolorosa, ma non si poteva decidere diversamente". Gaetano Manfredi, il rettore della Federico II di Napoli, parla delle sanzioni comminate al professor Federico Infascelli e al suo gruppo di ricerca per le gravi violazioni in alcuni studi che puntavano a sostenere la pericolosità dei alcuni mangimi Ogm (Organismi geneticamente modificati). Dopo la segnalazione delle scorrettezze da parte della senatrice a vita Elena Cattaneo, il rettore ha convocato una commissione di esperti esterni che dopo due mesi di indagini e di verifica ha "bocciato" duramente le pubblicazioni e i loro autori: sono presenti "violazioni molto gravi", consistenti nella manipolazione di diverse foto, con la "volontà di fabbricare un risultato sperimentale non esistente". Infascelli ha presentato le sue controdeduzioni, risultate però non abbastanza robuste da fare cambiare idea al giurì e al rettore. Manfredi, sentito il Senato accademico, ha deciso di togliere ai ricercatori coinvolti l'autonomia nelle pubblicazioni per i prossimi anni, obbligandoli alla supervisione del direttore di dipartimenti sui prossimi lavori. Una sanzione che può sembrare blanda, ma che è un duro colpo per il curriculum e la reputazione di un ricercatore: "Quello che è emerso dalla relazione della commissione di esperti è che alcune immagini risultavano modificate e altre erano state usate più volte per diversi esperimenti - dice al Foglio il rettore della Federico II - Molto probabilmente non tutti gli autori erano a conoscenza di queste violazioni, ma in questi casi è impossibile andare a individuare la colpa individuale". Pertanto le sanzioni sono andate a tutto il gruppo di circa dieci ricercatori e non solo al coordinatore e ai "corresponding author", che hanno un ruolo di responsabilità maggiore: "Sono convinto, senza averne prova, che forse alcuni erano all'oscuro di tutto, è stata una scelta dolorosa ma non c'è possibilità di fare distinzione", dice Manfredi. La "vicenda Infascelli", come già raccontato dal Foglio, è nata dopo che il professore di Nutrizione e alimentazione animale della Federico II aveva esposto i risultati dei suoi studi sulla pericolosità dei mangimi Ogm in audizione al Senato (concetti ribaditi anche a convegni anti-Ogm del Movimento 5 stelle). Le tesi di Infascelli, in contrasto con lo stato attuale delle conoscenze scientifiche, hanno attirato l'attenzione della senatrice- scienziata Elena Cattaneo che si è messa a studiare quelle pubblicazioni. Per caso alcune pagine sono state stampate su carta riciclata, permettendo alla Cattaneo di notare a occhio nudo alcune anomalie nelle fotografie di cui forse non si sarebbe potuta accorgere su carta normale. Da lì sono partiti gli approfondimenti, le verifiche, le richieste di chiarimento e le segnalazioni delle manipolazioni e delle scorrettezze, confermate sia dalle riviste scientifiche sia, ora, dall'università napoletana. "Abbiamo un regolamento sull'integrità scientifica molto severo - dice Manfredi - con l'aumento della competizione accademica per il conseguimento dei fondi si può essere spinti a comportamenti non corretti. Per questo ci siamo dotati di uno strumento per agire sull'integrità scientifica, ma non immaginavamo casi come questo". Il "caso Infascelli" è da un lato una brutta pagina per la ricerca italiana, soprattutto per il clamore che la vicenda ha suscitato a livello internazionale, dall'altro ha dimostrato la capacità della comunità scientifica di riconoscere e punire le manipolazioni: "Il lato positivo prevale su quello negativo - dice il rettore Manfredi - Sono casi sempre esistiti nella storia della ricerca, l'importante è che la comunità scientifica abbia anticorpi per intervenire. E' una vicenda dolorosa, ma appena segnalato il caso l'ateneo ha agito con una risposta ferma e in tempi rapidi". ________________________________________________________ Corriere della Sera 08 Feb. ‘16 GIOVANI OTTO SELFIE AL GIORNO LA PRIGIONIA DELL’AUTOSCATTO Foto in situazioni a rischio o private. Sul cellulare 13 ore al giorno DI UMBERTO TORELLI Che la «selfie-mania» abbia contagiato tanti, non ci sono dubbi. Ogni occasione è buona per fare autoscatti digitali: al ristorante per mostrare il cibo che si mangia, durante le vacanze in compagnia con lo sfondo di monumenti e panorami. Nella maggioranza dei casi lo scopo è postare selfie sui social network e chiedere i «like». Nel 2016 l’abitudine sembra destinati a radicarsi, vista anche la tendenza fra alcuni giovani agli autoscatti in situazioni estreme, a rischio della vita, o a sfondo sessuale, postati online con troppa disinvoltura. Anche a scuola Lo rivela la ricerca «Usi, consumi e abusi della tecnologia», condotta a fine gennaio dall’Osservatorio nazionale tendenze e comportamenti degli adolescenti, organo permanente che ha lo scopo di analizzare le tendenze, le abitudini, i consumi e i comportamenti dei giovani della generazione digitale. Riguarda un campione di 7 mila adolescenti italiani tra i 13 e i 19 anni. «Il 95% dei ragazzi dice di avere almeno un profilo social, ma c’è chi ne gestisce fino a cinque — spiega Maura Manca, presidente dell’Osservatorio —. Questo significa che i giovani condividono tutta la propria vita all’interno di gruppi e chat, con seri pericoli per la privacy». La permanenza giornaliera passate su smartphone e tablet varia tra le sette e le 13 ore. In pratica gli adolescenti cliccano sui display senza soluzione di continuità. Il 71,5% dichiara di farne uso anche durante l’orario scolastico. Con la più classica delle scuse: «Tanto lo tengo silenzioso sotto il banco». Il 12% degli intervistati si sveglia durante la notte per dare un’occhiata veloce ai messaggini in arrivo. Ma il fenomeno emergente riguarda i selfie . Gli adolescenti tra i 13 e i 19 anni ne scattano fra i tre e gli otto al giorno. Uno su dieci dichiara di farne in situazioni pericolose per ottenere maggiori «like» sui social. Gli esempi di cronaca sono molti, dai salti tra i balconi alle arrampicate estreme, fino alle salite su ponti e tralicci. Bravate che sono costate la vita a qualcuno. «Il fenomeno interessa soprattutto i maschi, che cercano emulazione e consensi nel gruppo di appartenenza. Le ragazze sono propense agli autoscatti mentre si lavano e vestono, o mentre bevono alcolici: per finire con i selfie in bagno con le amiche quando si sentono male». Inoltre il 3,1% degli intervistati, in maggioranza ragazze, dice di avere scattato selfie intimi e averli postati in Rete. Ancora peggio, cinque su cento hanno pubblicato online quelli di amiche a loro insaputa. Privacy violata «Qui c’è la completa violazione della sfera personale — continua Maura Manca —. Il grave pericolo è che le foto girino sul web senza controllo». Se poi ne vengono a conoscenza i genitori, per le adolescenti più fragili scattano calo di autostima e vergogna che possono sfociare in forme di depressione. Sta inoltre comparendo tra gli adolescenti il r evenge porn , la vendetta pornografica: la pubblicazione di contenuti a sfondo sessuale, per vendicarsi dopo essere stati lasciati o traditi dal partner. L’1,1% dichiara di aver già vissuto questa situazione, ma il fenomeno è in aumento. Quali consigli dunque per ragazzi e genitori? Ai primi, anche se scontato, quello di non accettare l’amicizia social da chiunque. Valutando prima, con ricerche online, chi si nasconde dietro al profilo. E se proprio si vogliono postare foto intime: solo con gruppi chiusi di amici sicuri. Per i genitori il passo importante è imparare a conoscere il mondo dei ragazzi, saperne di più sui nuovi strumenti di comunicazione. «Inutile demonizzare la tecnologia e servono a poco le minacce di provvedimenti punitivi o il sequestro del cellulare — dice Manca — : spesso si finisce per innalzare muri d’incomprensione». Utile spiegare loro che quando cercheranno lavoro, i responsabili delle risorse umane, prima dei colloqui faranno ricerche per vedere il loro profilo e che cosa hanno fatto. E il web ha la memoria lunga. @utorelli ________________________________________________________ Corriere della Sera 11 Feb. ‘16 MUSEI , CULLA DELL’IDENTITÀ NAZIONALE L’intuizione di Sisto IV (545 anni fa) La tutela del patrimonio fa parte dei principi fondamentali del nostro Stato Un’eredità che arriva dal 1471, con la nascita della prima collezione aperta a tutti L’articolo 9 della nostra Costituzione è trasparente come un cristallo, nella sua semplicissima esposizione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Custodire i nostri beni culturali, trasmetterli alle future generazioni, valorizzarli in uno spirito non mercantilistico ma divulgativo, è un obbligo costituzionale che vincola l’intera Repubblica in tutte le sue articolazioni: lo Stato centralizzato, le Regioni, i Comuni grandi e piccoli. Quelle poche righe sono il frutto di un grande e fecondo dibattito che si svolse tra i Padri costituenti al momento di stendere la carta. I due principali protagonisti furono il comunista Concetto Marchesi e il democristiano Aldo Moro. E fu così, in uno spirito da compromesso storico ante litteram, che la tutela del Patrimonio fa parte dei principi fondamentali della Repubblica, inserito tra i primi dodici articoli. Di questo solidissimo impianto l’offerta museale pubblica rappresenta l’architrave portante. Lo capì molto bene papa Sisto IV quando, nel 1471, donò alla città di Roma una collezione di importanti bronzi provenienti dal Laterano (tra questi la Lupa capitolina, celeberrimo simbolo dell’Urbe noto in tutto il mondo), che destinò al cortile del Palazzo dei Conservatori e alla piazza del Campidoglio. Pezzi visibili tuttora: la testa, la mano e il globo del colosso marmoreo di Costantino. Quella scelta di 545 anni fa è considerata la nascita del museo aperto al pubblico perché Sisto IV, Francesco della Rovere, umanista di formazione filosofica e grande appassionato d’arte, considerava i romani del suo tempo gli eredi del retaggio classico e di ciò che ne restava. Quindi un’eredità diffusa che anticipa, di due secoli e mezzo e più, la straordinaria donazione alla città di Firenze di tutti i beni artistici raccolti dalla dinastia Medici da parte dell’ultima esponente della famiglia, l’Elettrice Palatina Anna Maria Luisa, figlia di Cosimo III. Nel 1737, cedendo i beni del Granducato agli eredi Lorena, affidò «Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioie ed altre cose preziose, siccome le sante reliquie, a condizione espressa che di quello che è per ornamento dello Stato, per utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri, non ne sarà nulla trasportato e levato fuori dalla Capitale e dello Stato del Granducato». È un’idea modernissima, anzi contemporanea, di bene pubblico, di turismo culturale, di vincolo. Senza questa colta e raffinata principessa Medici, gli Uffizi semplicemente non esisterebbero e chissà come e dove sarebbe sparsa, per l’Europa, la grandiosa collezione. Un museo è dunque un bene che appartiene a tutti perché tutti sono chiamati a tutelarlo, ammirarlo, valorizzarlo, condividerlo con chi viene da altre parti del mondo. Un museo non è un luogo polveroso ma è, anzi, la radice identitaria di una collettività nazionale. «Il museo è uno dei luoghi che danno l’idea più elevata dell’uomo», scriveva André Malraux nel 1957. Due anni dopo sarebbe diventato ministro della Cultura francese fino al 1969, con un dicastero appositamente creato per lui. E, da grande scrittore e straordinario intellettuale, fece proprio leva sulla struttura dei grandi musei francesi, a partire dal Louvre, museo pubblico dal 1793 negli stessi spazi usati da generazioni di Re di Francia. Dalla politica di Malraux nacque il concetto di «grandeur» anche culturale della Francia, la rivendicazione di una straordinaria identità capace di parlare al proprio tempo e di tradursi quindi in materia viva. Non per niente il Louvre, dai tempi di Malraux in poi, è un corpo vivo in cui continuano a innestarsi e a prosperare tanti stimoli legati all’oggi: il nuovo ingresso con la piramide di vetro di Ieoh Ming Pei inaugurato nel 1988, l’apertura dell’ala Richelieu nel 1993, dopo il trasferimento del potentissimo ministero delle Finanze che resistette fino all’ultimo. La prova più concreta che un grande museo può battere persino la burocrazia quando esprime un grande progetto culturale. L’iniziativa del «Corriere della Sera», con la collana dei trenta maggiori musei del mondo, racconta non solo gli splendori delle collezioni ma anche il legame con la storia dei popoli, con la loro cultura diffusa, col loro gusto originale. I «Musei del Mondo» proporranno ai nostri lettori un viaggio ragionato e divulgativo, grazie ai contributi di Philippe Daverio, nell’universo delle idee e del bello. Roma non sarebbe Roma senza la Galleria Borghese o i Musei Vaticani, così come New York sarebbe impensabile senza il Metropolitan Museum o Mosca avrebbe un volto diverso senza il magnifico Pushkin. Sono le tracce di quel cammino dell’idea più elevata dell’uomo, come ci spiegò Malraux, l’intellettuale-ministro innamorato dei mus ========================================================= Il Sole24Ore 13 Feb. ‘16 SANITÀ. FINO A QUANDO IL SISTEMA NON SARÀ A REGIME CURE INAPPROPRIATE, SANZIONI RINVIATE Stop alle multe per i medici che "sgarrano", altolà al rischio super ticket che incombeva sulle tasche dei cittadini, una circolare applicativa per fare chiarezza e manifesti negli studi per informare i pazienti. Il ministero della Salute fa retromarcia sul “decreto appropriatezza”, che mette all’indice 203 prestazioni di specialistica ambulatoriale erogabili in ambito Ssn, indicandone condizioni di erogabilità e di appropriatezza prescrittiva. La decisione di rimettere mano al decreto - pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 20 gennaio - è arrivata ieri dopo un vertice al ministero tra la ministra della Salute Beatrice Lorenzin, una delegazione della Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo) guidata dalla presidente Roberta Chersevani e il coordinatore degli assessori alla Salute, Sergio Venturi. Obiettivo dell’incontro, dipanare una matassa decisamente ingarbugliata: il decreto Lorenzin (Dm 9 dicembre 2015) è diretta derivazione del Dl enti locali, pubblicato ad agosto scorso, che chiamava anche medici dipendenti e convenzionati a contribuire alla stretta sulla spesa sanitaria. Solo prescrizioni “appropriate”, si legge nella norma, pena tagli allo stipendio. Un’operazione contestatissima dai camici bianchi, sulle barricate da mesi contro «il tentativo di generale smantellamento della sanità pubblica». I sindacati alla riunione di ieri non hanno partecipato, perché non invitati. E per il momento confermano le due giornate di sciopero del 17 e 18 marzo. Intanto, Lorenzin si è affrettata a gettare acqua sul fuoco delle polemiche, a cominciare dal tormentone-sanzioni. «Arriveranno quando sarà tutto a regime - ha spiegato -. Ci sarà un monitoraggio e ci rivedremo, insieme anche ai medici e alle Regioni, per capire come andare avanti. L’importante è avere tutti lo stesso obiettivo e cioè curare i pazienti nel modo migliore. Questo però va fatto senza sprechi: non servono a nessuno e anzi sono dannosi». Poi, la promessa: tutto il risparmio ottenuto con l’operazione appropriatezza sarà reinvestito nel sistema sanitario. «Anche e soprattutto a favore della medicina del territorio - ha precisato Lorenzin - che noi abbiamo tutto l’interesse a rafforzare con i medici». E se i prescrittori hanno denunciato persino aggressioni da parte di pazienti che si erano visti rifiutare ricette consuete - è il caso emblematico del colesterolo "buono" Hdl, che in determinati casi, stando al decreto, andrebbe ripetuto non prima di 5 anni altrimenti il cittadino paga da sé - il ministero si impegna a «comunicare meglio»: manifesti in tutti gli ambulatori spiegheranno cosa è cambiato. Mentre una circolare applicativa farà luce, a breve, su tutto il decreto. Inoltre Sogei, la società Ict del ministero dell’Economia, correggerà gli errori nei software dei medici e disinnescherà la bomba-ticket, che rischiava di far lievitare i costi per i pazienti: d’ora in poi su una stessa ricetta potranno essere prescritti anche più esami. Tutto bene, quindi? I medici restano cauti. «Permangono le sanzioni - afferma il segretario Fimmg (medici di famiglia) Giacomo Milillo - demandate a un accordo Stato-Regioni anziché a una commissione paritetica». Sulla stessa lunghezza d’onda Costantino Troise (Anaao Assomed), che aggiunge: «Resta sul tappeto il problema vero: definire i criteri di appropriatezza non spetta alla politica ma ai medici, all’interno di un’alleanza con i cittadini». © RIPRODUZIONE RISERVATA Barbara Gobbi ________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Feb. ‘16 ESAMI, SOTTO TIRO IL SUPERTICKET Rischio di una raffica di superticket e code per gli assistiti, burocrazia e mille dubbi per i medici. Nelle intenzioni del governo doveva servire a tagliare203 esami e prestazioni sanitarie «inutili», circa 22 milioni di test ambulatoriali, per evitare sprechi e «inappropriatezza». Nella realtà, si sta traducendo in una beffa per gli italiani. E sta scatenando anche le proteste dei medici, sia di famiglia che d’ospedale. Insomma, un flop a scoppio quasi immediato. Il decreto sull’appropriatezza (pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» del 20 gennaio) della ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, è sotto accusa. Non poche Regioni stanno addirittura evitando di applicarlo, data l’incertezza di interpretazione di numerose disposizioni, anche perché finora il ministero non ha fornito i chiarimenti necessari. Chiarimenti che, sembra, potrebbero arrivare a breve. Intanto l’appropriatezza anti- sprechi resta nel freezer. O quasi. Ma i casi di alleggerimento delle tasche degli assistiti si moltiplicano, come denuncia la Fimmg (medici di famiglia). Spiega Giacomo Milillo (segretario nazionale Fimmg): «A ogni prestazione soggetta a limitazioni prescrittive è allegata una nota che, come per i farmaci, indica in quale caso quell’accertamento può essere erogato a carico del Ssn. Il problema è che ogni prestazione con limiti prescrittivi dev’essere trascritta su una ricetta a sé, facendo così moltiplicare il super-ticket da 10 euro che altrimenti si sarebbe pagato una sola volta». Può capitare per una transaminasi, o per una batteria di esami per chi è in grave sovrappeso: dai 12 esami in due sole ricette rosa per 20 euro di ticket, si arriverebbe adesso a 5 ricette per 50 euro. O più. Poi ci sarebbe il "ticket sulle allergie" dei bimbi, con i pediatri costretti a rinviare il piccolo paziente dallo specialista, l’unico autorizzato a prescrivere i test del caso: altri 10 euro da pagare. Per non dire dei fastidi per i medici della ricetta elettronica, che il medico dovrà usare obbligatoriamente,salvo sanzioni: peccato che non preveda una casella per le "note limitative". Pasticci dopo pasticci. Come per gli esami del colesterolo, che se di lieve entità potranno essere ripetuti gratis solo dopo 5 anni, altrimenti si paga il ticket anche se esenti perché malati cronici o in condizioni disagiate. Intanto la Fimmg mette le mani avanti e invia a tutti i medici di famiglia una lista di "istruzioni per l’uso". Di più: li sconsiglia di trascrivere le prescrizioni degli specialisti. Con disagi incorporati per i medici, certo,ma soprattutto per gli assistiti. Che magari, per non pagare ticket o analisi private, cercheranno di farsi ricoverare in ospedale: altroché risparmiare contro le prestazioni inappropriate. Ma non solo i medici di famiglia sono sulle barricate. «Il caos è servito», denuncia l’Anaao, il principale sindacato dei medici ospedalieri. «Le difficoltà applicative negli studi e negli ospedali - afferma il segretario nazionale Costantino Troise - che sottraggono tempo alle cure, certificano che ministro e governo, nel nobile intento di fare cassa, sono riusciti nell’impresa di scontentare tutti». Trasferendo i costi «sulle tasche dei cittadini» e creando difficoltà e rischi ai medici. «Non è un caso che i presidenti di alcune Regioni si sono resi conto del pasticcio e hanno invitato i direttori generali a soprassedere all'applicazione». Conclusione: lo sciopero generale di 48 ore del 17 e 18 marzo dei camici bianchi «è confermato», giura Troise. © RIPRODUZIONE RISERVATA Roberto Turno ________________________________________________________ Il Sole24Ore 14 Feb. ‘16 MANTOVANI: CHI NON SI VACCINA RISCHIA DI PIÙ Negli ultimi due decenni dell’Ottocento, mentre Louis Pasteur otteneva le prime immunizzazioni con agenti infettivi attenuati artificialmente contro il colera dei polli, il carbonchio del bestiame e la rabbia dell’uomo, si riaccendevano gli scontri tra pro e contro la vaccinazione antivaiolosa. Anche gli omeopati britannici erano incerti sulla questione. L’influente James Compton Burnett pubblicò nel 1884 un libro intitolato Vaccinosis, nel quale scriveva che la «vaccinazione è una misura patogenica omeoprofilattica: una malattia viene provocata per prevenirne una simile – il vaiolo vaccino per prevenire quello umano… dato che nel vaccinare una persona la stiamo facendo ammalare, gli comunichiamo la vaccinosi». Egli aveva capito che il principio dell’immunizzazione artificiale era consonante con la legge di simpatia – similia similibus curantur – quella che nella Teoria generale della magia Marcell Mauss chiama «seconda legge della magia» e che è alla base del pensiero omeopatico. L’idea del tempo era che le vaccinazioni prevengono una malattia causandola in una forma più lieve, così immunizzando l’organismo contro gli effetti dell’agente naturale. Alcuni omeopati accusavano Pasteur di aver rubato all’omeopatia anche l’idea di attenuare per coltivazione seriale gli agenti patogeni con cui ottenne i suoi “vaccini”. La posizione di Compton Burnett non prevalse. John Le Gay Brereton, un altro influente omeopata britannico, negli stessi anni dichiarava: «Preferirei farmi sparare piuttosto che un mio famigliare si vaccini». Chi allora era contrario alla vaccinazione, cioè al vaccino antivaioloso che era l’unico esistente e la sua produzione era pesantemente contaminata, aveva buoni argomenti per non vaccinarsi – sul piano individuale ma non su quello statistico, dato che contrarre naturalmente il vaiolo umano implicava un rischio di morte di molto superiore ai rischi da inoculazione di linfe vaiolose animali o umane conteneti ogni genere di altri patogeni. È un fatto che l’idea dell’immunizzazione artificiale ha un’origine magica, come aveva capito Compton Burnett, così come è vero che le prime vaccinazioni erano tutt’altro che sicure. Quando il fenomeno trovò una spiegazione scientifica, che consentì di migliorare il metodo di produzione e la sicurezza, omeopati e medici eterodossi rifiutarono i vaccini. Ed è questa una eclatante prova del carattere superstizioso e fideistico delle medicine cosiddette alternative. Come spiega in modo chiaro e avvincente Alberto Mantovani, i vaccini sono oggi gli strumenti più efficaci di prevenzione di gravissime malattie infettive, che nel passato mietevano milioni di vittime, soprattutto bambini, e che ancora oggi causano larga parte delle morti e disabilità nei paesi in via di sviluppo. Il libro si snoda raccontando come funziona il sistema immunitario e perché è possibile insegnargli a riconoscere un agente estraneo, cioè a ricordarsene per anni o per tutta la vita. Il libro descrive quindi come sono realizzati e controllati i vaccini, e porta le prove che sono più sicuri della maggior parte dei farmaci che assumiamo per diverse malattie comuni. La caratteristica che rende efficace e utile il libro è che non si dilunga più di tanto sulle mirabolanti conoscenze e tecnologie vaccinologiche. Va dritto al cuore delle domande e delle incertezze che le persone comune hanno sull’utilità e i rischi associati ai vaccini, fornendo prove e comprensibili spiegazioni. I due concetti chiave per capire le dimensioni sociali del problema sono la cosiddetta immunità di gregge e la percezione del rischio. L’immunità di gregge è un fatto matematico. Per ogni malattia infettiva esistono delle soglie di immunizzazione, che dipendono dall’efficienza con cui l’agente si diffonde, che se sono superate garantiscono la protezione dal contagio anche per coloro che non possono vaccinarsi per motivi medici, ed eventualmente anche privati. È dovere di uno stato democratico e liberale garantire l’esercizio di tutte libertà personali nella misura in cui qualcuna metta a rischio la libertà di altre persone o crei condizioni per cui le persone che non sono autonome subiscono le scelte ideologiche di altri. Se è possibile fare una trasfusione e salvare la vita a un figlio di Testimoni di Geova che si oppongono, non si capisce perché non si dovrebbe obbligare dei genitori a vaccinare i figli, se vogliono usare servizi pubblici, o se la loro scelta impedisce a bambini immunodepressi di godere gli stessi diritti, o mette a rischio la salute dei loro stesso figlio. Per quanto riguarda il rischio, come scrive Mantovani, «è la ridotta percezione del rischio il motivo principale per cui alcuni genitori sono restii a vaccinare i figlio. In un certo senso, i vaccini sono vittime del proprio successo: grazie a loro, malattie che in passato milioni di morti e gravi disabilità sono diventate rare o sono state eliminate». © RIPRODUZIONE RISERVATA Alberto Mantovani (con Monica Florianello), Immunità e Vaccini. Perché è giusto proteggere la nostra salute e quella dei nostri figli , Mondadori, Milano, pagg.143, € 18 Gilberto Corbellini _______________________________________________ La Nuova Sardegna 10 Feb. ‘16 SANITÀ, IL 2016 SARÀ IN ROSSO IL BUCO È DI 170 MILIONI Le spese sono superiori alle entrate. Alla fine del 2015 risparmio di 50 milioni L’assessore Arru: «Puntiamo a un servizio pubblico efficace ed efficiente» di Umberto Aime CAGLIARI Prima la buona notizia: negli ultimi tre mesi del 2015, la sanità ha risparmiato 50 milioni. Evviva, ha del miracoloso. Subito dopo quella cattiva: nonostante gli sforzi, il bilancio della salute quest’anno partirà con un handicap intorno ai 170 milioni, per colpa di «stanziamenti che non coprirebbero tutte le spese previste». È davvero strano il mondo delle Asl e dintorni: far quadrare i conti sembra essere sempre un’impresa disperata. Ma la maggioranza di centrosinistra vuole riuscirci anche senza aumentare le tasse ai sardi, sarebbe il secondo miracolo, e, nell’istruttoria sulla Finanziaria, ha chiesto a chi di dovere, l’assessore Luigi Arru, lumi sul percorso. La relazione. Di fronte alle commissioni Bilancio e Sanità del Consiglio, riunite insieme, chi non vuole essere crocifisso ma neanche santificato, Arru appunto, è stato preciso: «Non può più passare il messaggio che la sanità sarda sia un buco nero, mentre è vero che costa e il mio compito è quello di migliorare la spesa di un ritrovato servizio pubblico efficace ed efficiente». Per questo, all’inizio, ha voluto dire che «l’anno scorso, abbiamo risparmiato grazie alle regole rigide applicate con rigore dalle aziende sanitarie». Certo, il futuro lo preoccupa, come gli ha ricordato l’opposizione di centrodestra dopo aver evocato il debito già per l’anno in corso, ma Arru ha replicato. «Se è vero che la sanità pesa fino al 50 per cento sul bilancio della Regione», è innegabile anche questo: «Avevo chiesto come fabbisogno 2016 quasi 3,3 miliardi, ma in Finanziaria sono stati contabilizzati 152 milioni in meno e quindi sappiamo di dover vivere un’altra stagione difficile, in apnea». Insomma, chi ha in mano la cassa non gli ha dato certo una mano. Il vecchio debito. La sanità si trascina da tempo un rosso di quasi 400 milioni (sceso a 354 con i risparmi fine 2015) ed «è quello che vogliamo aggredire», ha detto Arru. Nel rispondere alle domande dei presidenti delle commissioni (Francesco Sabatini e Raimondo Perra), della maggioranza – che non è stata tenera – e dell’opposizione – sempre molto dura – l’assessore è stato deciso nel proporre la strategia in cui crede come fosse un mantra. «Con la riorganizzazione della rete ospedaliera, senza più doppioni, e la messa sotto controllo di quella farmaceutica – sono state le sue parole – possiamo fare un primo passo decisivo per riportare in pareggio il sistema e far sì che le buone pratiche appena introdotte diventino durature». L’impresa. La strada è in salita e lui lo sa bene. «Però – ha aggiunto – possiamo farcela con l’impegno di tutti». Con un chiaro riferimento alle resistenze che il suo piano di rientro («C’è e siamo pronti ad accettare ogni suggerimento») continua a trovare nella stessa maggioranza, Soldi in meno. Arru ha detto che in Finanziaria sono «diverse le voci sottostimate». Ad esempio il taglio per le politiche sociali sarà di 32 milioni, ma «sappiamo che quei finanziamenti sono attesi e ce li chiederanno». Dunque, i risparmi interni «dovranno continuare a essere la strada maestra se vogliamo migliorare la qualità del sistema ed evitare contraccolpi sulle entrate della Regione». Non c’è dubbio: al momento del confronto sulla Finanziaria, sarà la sanità il terreno di scontro fra maggioranza e opposizione. Dalle super tasse per passare agli ospedali e poi tutto il resto, a cominciare dal costo del personale: ogni manciata di euro finirà sotto osservazione, Le verifiche. Dopo aver ascoltato le relazioni degli undici commissari delle Asl, tutti abbastanza fiduciosi sulla possibilità di contenere i costi, è stato il presidente della commissione Sanità, Franco Sabatini, a presentare una prima proposta operativa. Con un emendamento, chiederà che i controlli siano trimestrali («Dobbiamo aver la certezza dei passi in avanti») e poi «fra sei mesi l’assessore dovrà dirci a che punto siamo». Luigi Arru si è alzato in piedi e ha detto: «Sono pronto». ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 9 Feb. ‘16 RAS; CENTO MILIONI PER LA SANITÀ PRIVATA Firmato il contratto: confermati per le Asl i tetti di spesa dell’anno scorso CAGLIARI La sanità privata avrà dalla Regione gli stessi soldi del 2015: poco più di 99 milioni. Il contratto è stato firmato, in questi giorni, fra l’assessorato alla Sanità e le associazioni delle case di cura, dopo il via libera della Giunta. Ognuna delle quattro Asl, in cui sono presenti strutture private accreditate, o meglio ancora convenzionate, avrà a disposizione un tetto massimo di spesa per i rapporti con le cliniche. L’Asl 1 di Sassari non potrà superare gli 8 milioni e 900mila euro nei rapporti con il Policlinico sassarese. Quella di Lanusei poco meno di 5 milioni e mezzo col «Tommasini». Intorno ai 10 milioni sarà il budegt dell’Azienda di Oristano per le prestazioni fornite dalla casa di cura «Madonna del Rimedio». La fetta più grande è stata assegnata all’Asl 8 di Cagliari, con ben 41milioni destinati al gruppo Kinetika Sardegna, che gestisce il Policlinico e la Casa di cura Sant’Elena, a Quartu, la clinica San Salvatore, appena riaperta, e la «Lay», a Cagliari. Il resto dell’accreditamento dovrà essere suddiviso fra le strutture private Sant’Anna (5 milioni e 700mila), Sant’Antonio (9 milioni), Villa Elena (6 milioni e 600mila), e Decimo (12 milioni). Va detto che i tetti di spesa – com’è scritto nella delibera – dovrebbero rimanere gli stessi fino al 2018. «Perché preso atto che è in corso la riorganizzazione della rete ospedaliera – si legge – è stato ritenuto opportuno confermare i criteri dell’anno precedente». E in effetti è la tabella allegata conferma che il 95 per cento del «tetto» è «stato calcolato sullo storico», cioè sui vecchi pagamenti. Solo il 5 per cento è vincolato alla cosiddetta appropriatezza: sono i controlli che, di mese in mese, saranno effettuati dalle Asl soprattutto sui ricoveri nelle cliniche private. In altre parole, dovrà essere più stringente la verifica sulle spese di cui è chiesto il rimborso al sistema sanitario regionale. Stando alle mappe del piano di riorganizzazione della rete ospedaliera, la sanità privata dovrà garantire una dotazione massima di 1.146 posti letto, con 697 per gli acuti e 449 destinati alla riabilitazione. Bisognerà vedere, alla fine, quale resterà il peso della sanità privata sul sistema con l’inaugurazione del Mater Olbia e cosa accadrà nei prossimi due anni che dovrebbero essere decisivi per riportare in equilibrio i conti delle Asl. Stando a una recente indagine, le strutture private incidono per poco più del 15 per cento sul costo totale della spesa sanitaria per quanto riguarda i ricoveri. Con questo particolare: i sardi preferiscono ancora la sanità pubblica, liste d’attesa a parte. ________________________________________________________ QS 13 Feb. ‘16 C’ERA UNA VOLTA LA “BUONA” MEDICINA: VECCHI E NUOVI PARADIGMI Dalla svalorizzazione del lavoro al taylorismo in medicina. Un breve viaggio su come si sta evolvendo (involvendo?) l’ars medica e il ruolo di supplenza (invadenza?) della politica nel processo di riforma della medicina in rapporto alla società che cambia 13 FEB - Partiamo dalla svalorizzazione del lavoro sanitario. Il processo è in atto e tutto viene trascinato in basso. E in tal contesto anche la medicina subisce un processo di deprezzamento: da un lato essa viene ridotta a genere di consumo; dall’altro viene utilizzata come mezzo di polemica politica tra i diversi schieramenti. Un esempio del primo tipo è la diffusione di programmi televisivi e rubriche su i principali quotidiani in cui selve di esperti affrontano le diverse questioni dal meteorismo alla disfunzione erettile convinti di fare educazione sanitaria e offrire un counselling ai cittadini; un esempio dell’altro sono le due interviste al neo presidente della Conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini e al presidente del comitato di settore Massimo Garavaglia comparse quasi simultaneamente nel mese di gennaio su Quotidiano sanità; interviste in cui sugli stessi temi (finanziamento SSN, disponibilità di risorse, sostenibilità, etc.) i due esponenti politici, membri della stessa Conferenza delle Regioni, mostrano posizioni diametralmente opposte. Qualcuno potrebbe giustamente sostenere che l’appartenenza ad un organismo istituzionale non deve necessariamente comportare un appiattimento delle posizioni, ma tra avere dei punti di vista diversi a sostenere tesi tra loro incompatibili ce ne corre, e comunque ai tempi della presidenza Errani una polemica così aspra non si sarebbe vista perché a prevalere sarebbe stato uno approccio di tipo bipartisan. La svalorizzazione della sanità passa poi attraverso i dispositivi della medicina totalmente amministrata in cui è la regolamentazione esterna che cerca di disciplinare aspetti importanti della erogazione di servizi e prestazioni senza alcun coinvolgimento dei diretti erogatori, i professionisti. Un modello in cui la medicina perde la sua finalità fondativa di “ars curandi” (subordinata in modo esclusivo a scienza e coscienza del medico) per diventare oggetto della politica amministrativa perchè fonte di sprechi su cui intervenire con misure di razionamento (esplicito o implicito che sia). I limiti dei professionisti Di questo stato di cose i medici e i loro corpi di rappresentanza non sono esenti da colpe. La professione avrebbe dovuto attivare da tempo un processo di auto-regolazione e autopoiesi procedendo alla elaborazione di protocolli di appropriatezza, sfoltendo le numerose prestazioni inutili o obsolete; lo stesso dicasi per quanto riguarda l’appropriatezza organizzativa con la progressiva semplificazione dei luoghi di cura (Reparto, DH, Day service) per le prestazioni a minore setting assistenziale su cui si è invece taciuto nel timore di perdere funzioni e incarichi di vertici. E così la regolamentazione esterna ha prodotto dei mostri traducendosi sostanzialmente in tagli orizzontali e alla ceca che impattano sulla qualità dei servizi perché privi di una vera razionalità. Per amore di verità dei cambiamenti sono nel frattempo intervenuti e come ricordato su QS dal direttivo di Slow Medicine, 29 società scientifiche e associazioni professionali italianeaderenti al progetto Fare di più non significa fare meglio-Choosing Wisely Italy, hanno già identificato 145 pratiche a rischio di inappropriatezza che pertanto non dovrebbero più essere prescritte Slow Medicine infatti sostiene giustamente che “le prestazioni a rischio d’inappropriatezza non (devono essere) imposte dall’alto, ma si basano sull’assunzione di responsabilità dei medici e degli altri professionisti sanitari nelle scelte di cura. Al centro dell’interesse permangono la relazione e il dialogo con i pazienti e i cittadini che sono informati sui benefici e i possibili danni di esami e trattamenti, per giungere ad una decisione condivisa” Il taylorismo in medicina Sul numero del 14 gennaio 2016 della prestigiosa rivista “The New England Journal of Medicine” Pamela Hartzband e Jerome Groopman firmano un editoriale dal titolo “Medical Taylorism” Gli autori dopo avere ricordato come il principio guida del taylorismo sia la convinzione che “esiste una sola strada ottimale per raggiungere un determinato obiettivo e che rientra tra le responsabilità del manager quella di fare in modo che gli operai non si discostano da questa” sostengono che “non appena il sistema sanitario è stato sottoposto a una progressiva pressione di tipo economico finalizzata al raggiungimento dei medesimi obiettivi, il taylorismo ha iniziato a permeare anche la cultura della medicina”. Per gli autori “I clinici che seguivano il modello di produzione snella della Toyota cominciarono ad auspicare che la cura dei pazienti dovesse seguire delle procedure standardizzate non dissimili da quelle utilizzate nelle fabbriche di automobili” sicché con il tempo il “loro obiettivo è diventato quello di determinare quale fosse il tempo ottimale della interazione medico-paziente al fine di giungere a una sua standardizzazione”. Si procedette quindi a introdurre nei dipartimenti di emergenza una cartella clinica elettronica “the electronic health record” (EHR) con il lodevole obiettivo di rendere immediatamente disponibili le informazioni sul paziente e migliorare la sicurezza identificando le interazioni farmacologiche pericolose. La cartella elettronica tuttavia obbliga alla formulazione di specifiche domande rendendo così impossibile, a causa dei soli 15-20 minuti previsti per ogni visita, le interviste aperte. E questo si traduce nella impossibilità di acquisire ulteriori utili informazioni non codificate dal sistema e di rilevare le aspettative e i punti di vista del paziente. L’effetto finale non è stato dunque l’ottimizzazione del tempo ma un aumento del carico di lavoro (con successivo burnout) e soprattutto una diminuita attenzione del medico nei confronti dei pazienti con invitabile frustrazioni di entrambi. L’editoriale termina con il seguente ammonimento “un buon percorso di cure richiede tempo e non esiste un unica via ottimale per trattare diverse affezioni. Quando faceva riferimento alla medicina, Taylor aveva torto perché l’uomo viene prima del sistema”. E dunque (si potrebbe aggiungere) una “buona” medicina è quella che si fa su misura del paziente pur muovendosi sulla base di conoscenze certe e rifiutando quelle generalizzazioni che non tengono conto della unicità della persona. Una posizione dunque non dissimile da quella comparsa tante volte su QS per la quale una “Buona” medicina non è quella “costruita sulla carta” ma quella che si riconosce integralmente nei principi ippocratici La buona medicina Fin dalle sue origini (e il corpus ippocratico ne è la riprova) la medicina come ars curandi ha ricompresso in sé i tre generi di sapere in cui Aristotele aveva suddiviso la conoscenza scientifica. Nella sua proto-tassonomia infatti Aristotele distingueva: le scienze teoriche (fisica, matematica e soprattutto filosofia) attinenti tra tutto ciò che è a quel che è con necessità; le scienze pratiche (in primis la politica, con una parte essenziale e preminente, l’etica e, con parti subordinate, l’arte militare, l’economia e la retorica) dirette ad orientare l’azione umana, a promuovere atti, comportamenti; le scienze poietiche la poesia e le tecniche tese alla produzione di oggetti e al fare. La peculiarità della medicina ippocratica consisteva nell’appunto nel racchiudere in sé queste componenti. Il sapere teorico con la fisiologia dei 4 umori (che Galeno perfezionerà successivamente e che rappresenterà il paradigma dominante fino al 17°secolo ) e la interazione tra individuo e mondo (i venti, il clima e i diversi temperamenti); il sapere pratico con il codice di comportamento del medico che avrà la sua massima espressione nel giuramento (che ancora oggi i medici sottoscrivono al momento della laurea); il sapere poietico con l’utilizzo della terapeutica sia nella prescrizione del “regime” (alimentazione, attività fisica, attività sessuale, bagni, vomiti, lassativi, etc.) e sia nella cura “chirurgica” delle ferite, delle fratture, delle lussazioni etc. La medicina ippocratica (che ancora oggi rappresenta la principale medicina praticata) dunque non è nata come scienza particolare ma come arte della cura in quanto essa per i suoi obiettivi deve necessariamente utilizzare campi scientifici diversi. La medicina pertanto è un sistema epistemico complesso in cui le diverse componenti sono fuse in un unico corpo e in cui la conoscenza (il sapere) non può essere disgiunta dalla coscienza (l’etica) e della capacità pratiche del medico. I saperi La “buona” medicina dunque deve continuamente rinnovare le sue conoscenze e di conseguenza i medici devono orientare la loro pratica restando “nel vero” delle conoscenze valide scientificamente. Restare “nel vero” non significa tuttavia agire “il vero” perché le capacità euristiche del “nel vero” sono limitate dai paradigmi dominanti che possono non essere “il vero” Luigi Pagliaroe altri (Recenti Prog Med 2015; 106: 308-315) fanno a tale proposito il caso di George Washington che nel dicembre 1799 si ammala di una presumibile epiglottite batterica e viene salassato per un totale di 3,75 litri di sangue in 9-10 ore, mentre gli vengono applicati dei vescicanti e gli viene somministrato un purgante. Washington è curato dai più illustri medici degli Stati Uniti, che nella relazione pubblicata dopo la sua morte non manifestano nessun dubbio sulla buona qualità delle cure prestate. I medici infatti erano ancora fedeli alla teoria dei 4 umori e ritenevano in totale buona fede che la malattia fosse una discrasia nella composizione di medesimi e una condizione di disequilibrio che doveva essere corretta (come oggi si corregge un’acidosi con i bicarbonato) attraverso la rimozione dei liquidi in eccesso. Avere consapevolezza che la conoscenza procede per salti e rottura epistemiche deve dunque indurre a valutare sempre criticamente le teorie e pratiche prevalenti e correnti (comprese linee guida e buone pratiche) perché esse potrebbero essere falsificate nell’arco di pochissimi anni. Per fare un esempio più recente voglio solo ricordare che intere generazioni di medici (tra cui la mia) hanno considerato la digitale il farmaco di base nello scompenso cardiaco mentre oggi nessun cardiologo la prescriverebbe se non in casi particolarissimi. L’etica La medicina senza etica è l’orrore che i criminali medici nazisti hanno compiuto nei campi di concentramento riducendo il soggetto e il suo corpo in mero oggetto di indagine “scientifica” privo di ogni connotato di dignità e umanità. Un orrore che rimarrà indelebilmente nella storia della medicina e che purtroppo si è perpetuato in tempi recenti in una clinica privata del Nord Italia dove i malati sono stati sottoposti a interventi chirurgici demolitivi per il solo fine di ricavarne guadagno. Il principio etico universalmente valido rimane per la medicina quello dell’imperativo categorico kantiano “agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo” Nulla di più va detto perché nell’imperativo categorico c’è il rispetto per il singolo paziente come per l’intero genere umano con un raggio di azione che riguarda il presente ma che si estende anche al futuro e quindi alle generazioni che verranno. Un imperativo che è dunque valido per il clinico, per il medico del lavoro, per l’igienista e per l’epidemiologo. Le expertises del medico Il medico deve costantemente rivalutare e rinnovare le sue capacità di intervento. Un medico che non si pone criticamene nei confronti del suo modus operandi facendo tesoro degli errori non è un medico che segue i principi ippocratici. Il tipo di razionalità che ci è concessa in dote non è quella “olimpica” ma è quella “limitata” e quindi soggetta sempre e costantemente a bias specie nelle situazioni di incertezza. Chi mostra arroganza nella sua vita professionale è un ignorante che sbaglia illudendosi di non sbagliare. Serve tuttavia un ulteriore cambio di passo che faccia uscire il professionista dall’isolamento in cui spesso svolge il suo lavoro. Indispensabile è allora la creazione di reti di professionisti di diversa disciplina che mettano in comune le loro expertises per affrontare problemi clinici più complessi. E questo vale soprattutto per i medici di famiglia che con le nuove tecnologie potrebbero essere inseriti inospedali virtuali condividendo il lavoro clinico con gli altri specialisti. Un sistema per dare risposte adeguate alle necessità cliniche dei pazienti, migliorando l’appropriatezza delle prescrizioni senza codici e codicilli di nessuna utilità. La medicina razionale La medicina razionale è quella che partendo dalle sue basi fondative e ad esse non rinunciando, si adegua alla società e ai suoi inevitabili cambiamenti in un processo in cui i medici devono necessariamente e responsabilmente essere i protagonisti. La medicina infatti non è solo l’atto che si consuma nel rapporto medico-paziente, essendo costantemente satura di funzionamenti e obbligazioni sociali: le (mutevoli) logiche istituzionali, il finanziamento pubblico, le leggi sanitarie, i codici di comportamento i sets di aspettative dei professionisti e dei pazienti. Un mondo materiale e simbolico che si deve “conformare” costantemente con il campo istituzionale suo proprio. Per questo i processi di riforma sono necessari, ma essi necessitano di pratiche concertative tra i diversi attori senza di che rimangono scritte sulla sabbia. Una constatazione quasi banale che pure viene dimenticata dal regolatore pubblico che, sotto la pressione di pressioni che nulla hanno a che fare con i fini della medicina, pretende di entrare nel gioco a gamba tesa non risolvendo nessuno problema. Una pratica politica di nessuna utilità e che al contrario accentua il quadro di difficoltà che attraversa l’intera società del nostro paese Roberto Polillo ________________________________________________________ QS 13 Feb. ‘16 ESCLUSIVA. INTERVISTA A BARACK OBAMA.IL FUTURO DI MEDICINA, SCIENZA E CLIMA: “Con la medicina personalizzata le possibilità di cure sono infinite. Io un nerd? Sì, e me ne vanto” “È possibile che tra uno o due decenni i trattamenti non saranno più indirizzati solo alla malattia, ma anche al singolo paziente”. Il Futuro della medicina, delle missioni spaziali e della lotta ai cambiamenti climatici. Il presidente degli Stati Uniti ha concesso una lunga intervista a Popular Science disponibile in anteprima in lingua italiana su Quotidiano Sanità e Popular Science Italia 13 FEB - Il Futuro della medicina e delle biotecnologie, delle missioni spaziali e delle politiche climatiche. Ne abbiamo parlato con il presidente degli Stati Uniti che ha concesso una intervista esclusiva a Popular Science per parlare di scienza, clima e medicina. In particolare, il presidente americano ha ricordato gli impegni profusi dalla sua amministrazione nell’implementazione di politiche a favore dell’energia pulita, del clima e dello sviluppo delle biotecnologie. Obama ha poi parlato dell’importanza della ricerca clinica come motore di una medicina “personalizzata” sul paziente. Un traguardo che sarà possibile raggiungere nel giro di venti anni. Sul tema delle missioni spaziali il presidente degli Stati Uniti ha ricordato come una collaborazione tra NASA e il settore privato possa portare a una “sostenibile” presenza umana nello spazio, individuando nell’industria che opera in questo settore un partner strategico per la logistica di future missioni. Infine, una lunga riflessione sull’accordo sul clima raggiunto a Parigi. Obama lo ha definito un accordo “storico”, per la realizzazione del quale è stata fondamentale la leadership americana. Gli Stati Uniti, in poco più di sette anni, sono diventanti un leader globale nella lotta contro i cambiamenti climatici POPULAR SCIENCE: E’ stato un presidente amico della scienza. Perché secondo lei scienza e tecnologia sono così importanti? BARACK OBAMA: Scienza e tecnologia hanno contribuito a rendere l’America il più grande paese della Terra. Per affrontare le più ardue sfide del nostro tempo – che si sia trattato di aver messo piede per primi sulla Luna, di aver sviluppato il vaccino per la polio, inventato internet o ancora costruito le forze armate più forti del mondo – abbiamo sempre potuto contare sull’aiuto di scienziati, tecnologi, ingegneri e matematici innovatori. Nel mio discorso inaugurale, ho promesso che la mia amministrazione avrebbe ridato alla scienza il posto che meritava ed è esattamente quello che abbiamo fatto. Abbiamo potenziato la ricerca sull’energia pulita, lanciato importanti iniziative nei processi di produzione avanzata, biomedicina e dell’High Performance Computing. Abbiamo lavorato sulla conoscenza e sulla resilienza nei confronti del cambiamento climatico e ci siamo focalizzati sulla formazione di insegnanti STEM [scienza, tecnologia, ingegneria e matematica], affinché le generazioni future possano crescere con le capacità necessarie per competere nel ventunesimo secolo. Essere a favore della scienza è l’unico modo per assicurarci che gli Stati Uniti continuino a essere leader nel mondo. Le nostre politiche riflettono tutto ciò. POPULAR SCIENCE: Tra le iniziative che ha portato avanti alla Casa Bianca, si è concentrato molto sul miglioramento dell’istruzione scientifica (STEM) nel Paese. Da questo punto di vista, quale è l’obiettivo raggiunto di cui è più orgoglioso? BARACK OBAMA: C’è molto per cui essere orgogliosi. Nei nostri college e Università si sono laureati 25.000 ingegneri in più all’anno rispetto a quando mi sono insediato. Abbiamo percorso più di metà strada verso l’obiettivo di formare 100.000 nuovi insegnanti di matematica e scienze entro il 2021. Abbiamo ottenuto più di un miliardo di dollari di investimenti privati per migliorare l’istruzione scientifica e ottenuto l’impegno dei direttivi di college e delle Università ad aiutare gli studenti meno rappresentati a conseguire lauree scientifiche. Inoltre, c’è un aspetto, difficile da tradurre in numeri, ma davvero importante: tutti i giovani, tra cui le minoranze e le ragazze, sono molto entusiasti di seguire la loro passione per le materie STEM. Una delle nuove tradizioni che ho avviato da presidente è la Fiera della Scienza della Casa Bianca. Dovremmo celebrare i vincitori di questa fiera come celebriamo i vincitori del Super Bowl, perché quando i giovani amano la scienza, la tecnologia, l’ingegneria e la matematica, non è solo un’opportunità per le loro carriere, ma è un’opportunità di crescita per tutta l’America. Vogliamo che le prossime conquiste- industriali o in ambito medico – avvengano proprio qui, negli Stati Uniti. POPULAR SCIENCE: Si considera un nerd e, se sì, quale è il suo passatempo preferito da nerd? BARACK OBAMA: Essere un “nerd” è diventato un grande motivo di onore. Sono sicuro di non essere stato l’unico bambino ad aver letto i fumetti di Spiderman o ad aver imparato a fare il saluto vulcaniano, ma le cose erano diverse da come sono oggi. Sento che i nostri giovani sono orgogliosi di essere intelligenti e curiosi, di progettare nuove cose e di affrontare grandi problemi con nuove prospettive. Credo che l’America sia un paese più nerd rispetto a quando ero piccolo, e questa è una grande cosa! POPULAR SCIENCE: Lei ha posto grande enfasi anche sullo sviluppo dell’innovazione e dell’imprenditorialità. Come può nascere la “Silicon Valley” in tutto il resto del Paese? BARACK OBAMA: Innovazione e imprenditorialità sono già in atto in tutti gli States. Ora le tecnologie come cloud computing, big data e stampa 3-D stanno riducendo le barriere all’accesso. Oggi è possibile collaborare con partner nel paese e nel mondo praticamente alla velocità della luce. Quindi, non importa dove vivi; non c’è mai stato un momento migliore per lanciare un’idea e realizzarla negli USA. Naturalmente, stiamo lavorando per rendere ciò ancora più facile per gli imprenditori. Non importa chi tu sia, cosa sembri o quale è il tuo codice di avviamento postale, se ti impegni, dovresti avere la possibilità di andare tanto lontano quanto ti porta il tuo talento. Per questo, la nostra iniziativa TechFire – che ha l’obiettivo di impiegare un maggior numero di americani in lavori tecnologici ben retribuiti – si sta allargando a 35 fra città, stati e regioni. Questo è anche il motivo per cui abbiamo ospitato alla Casa Bianca la prima Demo Day and Maker Faire. Mi sbilancio dicendo che sono il primo presidente ad aver dato il benvenuto a una giraffa robotica alta 17 piedi . Alcuni degli scienziati, imprenditori e inventori più stimolanti che ho incontrato sono anche alcuni dei più giovani. Elana Simon ha presentato il suo lavoro ad una delle nostre quattro Fiere della Scienza. A 12 anni, Elena è sopravvissuta a una rara forma di tumore al fegato. Insieme a uno dei suoi chirurghi, ha raccolto dati sulla sua malattia in tutto il paese e ha scoperto una mutazione genetica comune a tutti i campioni esaminati: tutto ciò prima di diplomarsi. Questo è il tipo di storia che vogliamo vedere di più da ogni parte dell’America. E non ho dubbi che, grazie alle nostre politiche, ce la faremo. POPULAR SCIENCE: Parliamo di settori più difficili e specifici: due delle nostre più grandi iniziative nel campo scientifico sono state gli studi sul cervello e la pionieristica medicina di precisione. Perché ha scelto queste due aree? BARACK OBAMA: Quando si parla di medicina di precisione, dobbiamo dire che i progressi tecnologici, la ricerca clinica e la raccolta dei dati già permettono il trattamento di malattie un tempo ritenute incurabili. È possibile che tra uno o due decenni i trattamenti non saranno più indirizzati solo alla malattia, ma anche al singolo paziente. Siamo attenti a proteggere i dati dei pazienti e a renderli partner attivi del lavoro. Perché se sviluppiamo la medicina di precisione nel modo corretto, le possibilità di realizzare cure migliori sono praticamente infinite. La BRAIN Initiative è un altro progetto importante. Oggi possiamo individuare galassie a miliardi di anni luce di distanza. Possiamo studiare particelle più piccolo di un atomo, ma non abbiamo ancora risolto il mistero di ciò che sta tra le nostre orecchie. Credo che se gli Stati Uniti fanno da guida si possa arrivare a scoperte importanti. Centinaia di scienziati e molte Università, aziende, Fondazioni e altre organizzazioni hanno fatto molti passi avanti per aiutarci ad affrontare questa sfida. POPULAR SCIENCE: Lei ha anche sostenuto lo sviluppo di un’industria spaziale privata che lavori al fianco del Governo per completarne l’impegno. Cosa pensa dell’esplorazione e della “commercializzazione dello spazio”? Chi se ne occuperà? BARACK OBAMA: Ho suggerito una visione di esplorazione dello spazio in cui i nostri astronauti non viaggino nel sistema solare solo per visitarlo, ma per popolarlo. Per costruire una presenza umana sostenibile nello spazio, avremo bisogno di una florida economia dello spazio nel settore privato. Vedo l’espansione dell’industria spaziale come un complemento e non una sostituzione allo straordinario lavoro della NASA. Prendendo in carico compiti come il trasporto di merce e equipaggio presso la Stazione Spaziale Internazionale, la NASA si può concentrare maggiormente sulle missioni esplorative più difficili, come quelle su Marte, o a condurre ulteriori studi sulla Terra e del resto del sistema solare. Mentre rivolgiamo il nostro sguardo ad altri pianeti, possiamo anche creare buoni posti di lavoro sul nostro. Le aziende americane hanno iniziato a richiedere al mercato il lancio di satelliti commerciali. Questo è solo un esempio del modo in cui l’economia spaziale sta aiutando i lavoratori americani ad avere successo. POPULAR SCIENCE: Se finisse su Marte, chi vorrebbe come compagno: Mark Watney di The Martian, o Ellen Ripley di Alien? BARACK OBAMA: Visto che è una domanda ipotetica, posso scegliere entrambi? Se avessi Matt Damon che coltiva patate e Sigourney Weaver che si occupa di tutti gli sgradevoli intrusi, si, mi piacerebbe. POPULAR SCIENCE: Sono passati due mesi dall’accordo sul clima concluso a Parigi. Come crede che verrà ricordato questo accordo tra 20 anni? BARACK OBAMA: Credo che l’accordo di Parigi possa rappresentare una svolta per il pianeta. È il passo più grande che il mondo abbia mai fatto per combattere il cambiamento climatico. Quando sono andato a Parigi, all’inizio della conferenza sul clima, ho visto che avevamo bisogno di un accordo duraturo per ridurre le emissioni globali di carbonio, per far sì che il mondo vada verso un futuro con bassi livelli di carbonio. Questo è esattamente ciò che abbiamo raggiunto. Gli americani dovrebbero essere orgogliosi perché il raggiungimento di questo storico accordo è un tributo alla leadership statunitense. Gli scettici dicevano il passaggio ad un’economia basata sull’energia pulita avrebbe fatto perdere posti di lavoro. Invece, abbiamo assistito alla creazione della più lunga serie di creazione di posti di lavoro nel settore privato della storia. In quasi due decenni,abbiamo portato la produzione economica ai massimi livelli, riducendo al massimo l’inquinamento da carbonio. Questi risultati oggettivi hanno permesso il coinvolgimento di altri paesi. Con il nostro storico annuncio congiunto con la Cina lo scorso anno, abbiamo dimostrato che è possibile superare le vecchie divisioni tra paesi sviluppati e in via di sviluppo che hanno ostacolato il progresso mondiale tanto a lungo. Questo traguardo ha ispirato moltissime altre nazioni a seguire la nostra strada, prefissandosi ambiziosi obiettivi climatici. POPULAR SCIENCE: Alcuni si chiedono se l’accordo di Parigi bloccherà davvero il cambiamento climatico. Pensa che andrà così lontano? BARACK OBAMA: Nessun accordo è perfetto, incluso questo. Ma l’accordo di Parigi costituisce quella base duratura di cui il mondo necessita. Significa meno inquinamento da carbonio che minaccia il pianeta e più lavoro e crescita economica guidata dagli investimenti nella low-carbon economy. Ciò ridurrà o ritarderà molti degli effetti più nocivi del cambiamento climatico. Anche se è valido, l’accordo da solo non previene interamente questi effetti. Quindi la fine della conferenza di Parigi non è assolutamente la fine del nostro lavoro. Ora dobbiamo dar vita la fase successiva: investire nelle tecnologie e dare impulso all’ innovazione per poter continuare a raggiungere gli obiettivi prefissati. Ciò significa che i governi, gli scienziati, le aziende, i lavoratori e gli investitori economici devono lavorare insieme per costruire un futuro low-carbon e i nuovi posti di lavoro . Poiché i paesi hanno convenuto di incontrarsi ogni cinque anni, potremo stabilire obiettivi ancora più ambiziosi negli anni a venire. POPULAR SCIENCE: Parlando di scienza del clima, quale è il più grande risultato raggiunto dalla sua amministrazione? BARACK OBAMA: Prima di risolvere un problema, bisogna comprenderlo. Per questo, ci siamo battuti molto per proteggere il finanziamento del U.S. Global Change Research Program, un grande impegno del governo per aiutarci a capire cosa sta succedendo oggi per poter meglio prevedere il futuro. Grazie ai nostri sforzi, i satelliti, gli aerei, le navi, e i sistemi di monitoraggio terrestri stanno fornendo conoscenze indispensabili e avvalorando i modelli che ci suggeriscono cosa aspettarci in futuro. La mia amministrazione non solo ha contribuito al progresso nella scienza del clima, ma ha anche fatto un buon uso dei risultati. Abbiamo usato le conoscenze più aggiornate in materia di scienza del clima come base del nostro Programma nazionale di azione sul clima. Inoltre, abbiamo iniziato a sviluppare database climatici accessibili e strumenti che possano aiutare governi, aziende e cittadini a proteggersi dagli effetti del cambiamento climatico che non è possibile evitare. POPULAR SCIENCE: Cosa direbbe a quei pochi che, sia all’interno del Congresso che fuori, negano gli effetti del cambiamento climatico? BARACK OBAMA: Nei primi sedici anni del ventunesimo secolo, si sono registrati quindici dei sedici anni più caldi del pianeta. L’anno più caldo è stato il 2015. Il Pentagono ci avverte che il cambiamento climatico minaccerà la sicurezza nazionale incoraggiando l’instabilità all’estero. Qui stiamo assistendo a stagioni degli incendi più lunghe e pericolose, che si accompagnano a devastanti periodi di siccità. L’anno scorso ho visitato l’Alaska, in cui le città sono state letteralmente inghiottite dall’aumento dei livelli del mare. Ora Miami è regolarmente colpita da inondazioni. Quindi non c’è niente da dibattere. Ora la questione è cosa fare riguardo al cambiamento climatico perché sta diventando troppo tardi. Credo che nonostante il partito, se i candidati eletti vogliono dare ai vostri figli e nipoti un mondo che è rotto e non si può riparare, semplicemente non meritano il vostro voto. POPULAR SCIENCE: Un’ultima domanda sul clima: crede che sia stato fatto abbastanza? BARACK OBAMA: Beh, quello che abbiamo fatto è qui. Negli ultimi sette anni abbiamo trasformato l’America nel leader mondiale della lotta al cambiamento climatico. Abbiamo fissato nuovi standard per i carburanti di automobili e camion, investito più di ogni altra amministrazione in settori in crescita come quello solare e eolico, preso misure senza precedenti per salvaguardare le risorse naturali e posto limiti alla quantità di inquinamento da carbonio che gli impianti energetici possono propagare nell’aria. Cosa più importante, abbiamo dimostrato di non dover scegliere tra un’economia in crescita e un pianeta più sicuro per le future generazioni. Possiamo averli entrambi. Alla fine, quando penso ai nostri sforzi per combattere il cambiamento climatico, non penso solo alle emissioni di CO2 o all’aumento della temperatura globale. Penso alle mie due figlie e ai nipoti che spero di avere un giorno. Mi immagino a spingere un bambino o una bambina sull’altalena, all’aria aperta, guardando il sole. In quel momento, voglio sapere che il pianeta è in forma. E voglio aver contribuito a ciò. Perché questo è il nostro obiettivo: lasciarci dietro un modo migliore, più sicuro e più prospero per i nostri figli e nipoti. Questa è la missione più importante che dobbiamo portare avanti nel tempo che ci è concesso sulla Terra. E dopo sette anni d presidente, sono più fiducioso che insieme ce la faremo. Cliff Ransom Foto a cura di F. Scott Schafer ________________________________________________________ TST 10 Feb. ’16 HIV SUPERPOTENTE E BEFFARDO: SI REPLICA ANCHE QUANDO NON SI VEDE Ricerca Usa su "Nature" ribalta una serie di stereotipi sul virus L’Aids non ha bisogno di mutare, perché prolifera nei linfonodi Il virus dell'Hiv ha capacità insospettate. Sa replicarsi e infettare cellule nuove anche durante la terapia antiretrovirale. E lo fa riuscendo a rendendersi invisibile, tanto da non lasciare traccia negli esami dal sangue. Conseguenza: illude i pazienti di essere liberi dall'infezione o, almeno, di averne bloccato la diffusione, anche se non è così. Non è quindi possibile eradicare completamente l'Hiv dall'organismo: non per colpa di cellule infette «dormienti», ma perché il virus continua a diffondersi incessantemente, attaccando una serie di piccole nicchie. A smascherare l'esistenza di questi «serbatoi virali», che vengono alimentati via via da nuove cellule infette, è uno studio della Northwestern University (Usa). I ricercatori - spiegano in un articolo su «Nature» - hanno analizzato l'Hiv presente nei linfociti del sangue e dei tessuti linfonodali di tre pazienti, infetti all'inizio e dopo sei mesi di terapia, quando i livelli del virus erano al di sotto del limite di misurazione, vale a dire uno dei criteri che indicano che la terapia antiretrovirale ha raggiunto la massima efficacia. Grazie all'analisi i ricercatori hanno dimostrato che il virus, anche in presenza di terapia, continua a riprodursi a bassissimi livelli nei linfonodi, un tessuto in cui i farmaci fanno fatica a penetrare. E non solo. Sequenziando il genoma virale, è stata anche ricostruita l'evoluzione dell'Hiv nel tempo. «I risultati dello studio - commenta Giovanni Maga, virologo dell'Istituto di genetica molecolare del Cnr, autore del libro "Aids: la verità negata" (Il Pensiero Scientifico Editore) - hanno dimostrato che l'assenza del virus nel sangue non significa che l'Hiv non continui a riprodursi. La replicazione, infatti, consente al virus di generare nuovi "serbatoi" di latenza per tutta la vita del paziente». Un altro paradigma dominante scardinato dallo studio riguarda il contenuto degli stessi «serbatoi virali». Finora si era convinti che contenessero solo cellule infette, «messe a riposo», e non cellule infette nuove, perché nessuno è mai riuscito a osservare il virus con nuove mutazioni genetiche. Ora, invece, il team americano ha capito che la replicazione nei linfonodi non porta alla comparsa di mutanti resistenti solo perché la concentrazione dei farmaci che penetra in quelle aree è talmente bassa che il virus non ha bisogno di mutare per combatterne l'azione. «Le implicazioni sono molto importanti - sottolinea Maga -. Infatti, se non si riuscirà a migliorare la penetrazione dei farmaci, non sarà mai possibile eliminare tutti i serbatoi di latenza. Inoltre, lo studio - continua - ha chiaramente dimostrato che l'Hiv è in grado di proliferare in particolari organi, anche in presenza dí terapia, senza bisogno di accumulare mutazioni di resistenza. La speranza di curare i pazienti, vale a dire di eradicare completamente il virus, passa adesso attraverso la nostra capacità di colpirlo nei "santuari" in cui è così abile a nascondersi». ________________________________________________________ QS 12 Feb. ‘16 ODONTOIATRI. PARLA RENZO (CAO): “FUORI I MERCANTI DA PROFESSIONE. LO Stato investa nella salute orale” Il presidente della Commissione Albo Odontoiatri della Fnomceo a tutto campo. “La professione deve essere ripensata per essere in grado di accettare le sfide del futuro. Stop alla pletora”. E poi lancia l’appello: “Potenziare la rete degli ambulatori odontoiatrici pubblici, spesso in condizioni disastrose, almeno per rispondere alle esigenze primarie” 13 FEB - Il presidente della Cao Giuseppe Renzo guida con grinta gli odontoiatri italiani da molti anni. L’ultima iniziativa importante che ha fortemente voluto è la Carta dell’Odontoiatria, che fissa diritti e doveri peculiari della professione e che è stata varata a Taormina a dicembre, nel corso di tre giornate di lavoro che portavano un titolo significativo: “Fuori i mercanti dalla professione". E in quest’intervista che sarà pubblicata anche su La Professione – l’house organ della Fnomceo, scatta una fotografia a 360 gradi della professione, tra criticità e prospettive. Presidente Renzo, quale scenario offre l’odontoiatria italiana? La professione deve essere ripensata per essere in grado di accettare le sfide del futuro. Nell’ultimo periodo si sono evidenziate diverse criticità, generalmente non provenienti dalla professione ma dall’esterno: la crisi economica che ha messo in crisi gli odontoiatri e la “pazientela” sempre meno in grado di accedere alle cure odontoiatriche, i livelli minimi assistenziali non garantiti e l’impossibilità, in un prossimo futuro, di poter prevedere un intervento serio del SSN per sostenere l’ accesso alle cure odontoiatriche stesse. Sono tutti elementi che fanno soffrire le persone e che si ripercuotono fortemente sulla professione odontoiatrica. In cosa si evidenziano le attuali “difficoltà della pazientela”? Partiamo da un dato di fatto: le cure odontoiatriche sono economicamente onerose. Questo dipende da molti fattori: le cure odontoiatriche richiedono spesso interventi ripetuti e successivi ed inoltre impiegano, se si vuole intervenire con la massima qualità, materiali costosi, attrezzature sofisticate e personale formato. Mi si consenta una provocazione: perché soltanto per le nostre categorie i costi diretti e indotti per l’aggiornamento secondo ECM ministeriale sono a carico del professionista e non sono consentiti gli sgravi fiscali o detrazioni ? Si pensi che l’Odontoiatria è esercitata per il 90/92 % in libera professione e si capirà da cosa nasce la mia contestazione: la sperequazione! Alcuni costi sono incomprimibili, tanto è vero che il sistema pubblico non riesce a garantire le cure odontoiatriche, anche perché la stessa prestazione costa quattro volte di più nel pubblico che nel privato. E vengo al punto: la pazientela è in difficoltà perché da una parte patisce la crisi economica e dall’altra i Lea, in ambito odontoiatrico, non sono garantiti. Ora si parla di adeguatezza prescrittiva: in campo odontoiatrico significa semplicemente cancellazione di quasi tutte le prestazioni. La ridefinizione dei livelli minimi assistenziali secondo il decreto sull’appropriatezza prescrittiva in Odontoiatria è un non senso. Le cure odontoiatriche non sono mai state garantite dal cosiddetto Sistema Sanitario, se non per limitate fasce, in maniera parcellizzata sul territorio nazionale e con tempi biblici. Sorge spontanea una domanda: a parte le diverse catene, i liberi professionisti sono sempre più in affanno nel fare “impresa”, non si vorrà ripercorrere strade già battute, importando in Italia il modello delle “assicurazioni”? L’esperienza ha dimostrato che nel Paese che ha inventato questo sistema, gli Stati Uniti d’America, il risultato è stato negativo e ha recato solo inefficienza. Porre l’assistenza odontoiatrica nelle mani delle assicurazioni non significa applicare il sistema della mutualità volontaria e, ancora meno, delle mutue sociali. E quanto questa crisi si ripercuote sulla professione? Molto. Oltre alla crisi generale, oltre alla permanenza di costi importanti per lo svolgimento delle prestazioni con standard qualitativi adeguati, c’è un’ulteriore criticità, che è la pletora odontoiatrica. In Italia ci sono 61mila odontoiatri, con un rapporto di 1 ogni 900 abitanti, mentre l’OMS ha stabilito il rapporto ottimale in 1 a 2.000. Qualcuno pensava e continua a pensare che la pletora, in ragione dell’aumentata concorrenza, potesse far scendere le parcelle, ma questo non è accaduto, proprio perché gran parte dei costi, come dicevo prima, sono incomprimibili. I sempre presenti e solleciti “Soloni” dovrebbero verificare i dati: le parcelle non hanno subito il calo sperato, mentre si sono contratte le richieste e la qualità delle cure. Il rapporto medico-paziente in molti casi annullato, mentre le scelte terapeutiche subiscono l’inevitabile influenza del “datore di lavoro”, inevitabilmente orientato a valutare costi di investimento e ritorno economico per l’azienda e non ai benefici per il paziente. Dobbiamo aspettare che emergano criticità in termini di sicurezza? Le tariffe, di cui parla il sistema della concorrenza, possono subire una riduzione esclusivamente in presenza di scarsa qualità nelle prestazioni d’opera intellettuale, dei materiali e della sicurezza igienico- sanitaria! Tutte le altre questioni, attualmente presenti nello scenario futuribile che vede contestato il Sindacato ANDI, che difende gli interessi dei propri iscritti, dai terzi lucranti (società commerciali, con finalità legittime di guadagno ma non certo paladini del diritto alle cure), non trovano l’Istituzione impreparata. L’Ordine, in quanto ente ausiliario della Pubblica Amministrazione posto anche a tutela del diritto costituzionalmente riconosciuto alla tutela della salute, esprime con forza quanto più volte affermato: “Fuori i mercanti dalla professione”. Il risultato vero e verificabile è che abbiamo cittadini che rinunciano alle cure odontoiatriche e contemporaneamente la professione registra una disoccupazione intorno al 12-15% e una sottoccupazione del 15-20%. Lo studio EURES, che abbiamo presentato a novembre a Taormina, mostra come i giovani odontoiatri nei primi tre anni dalla laurea guadagnano 1.000- 1.200 euro al mese, mentre le donne, con la solita disparità, non arrivano a 900 euro. Una situazione che espone anche i colleghi più giovani alla pratica illecita del prestanomismo, con tutti i rischi legali e professionali. Per arginare la pletora odontoiatrica si potrebbe intervenire sul numero di laureati e dunque sul fabbisogno stimato annualmente da Ministero della Salute. Avete fatto delle richieste in questa direzione? I Collegi CAO provinciali chiedono da tempo una riflessione su questa situazione, tanto da proporre, provocatoriamente, un fabbisogno uguale a zero. Sappiamo– e si sono già manifestate le prime avvisaglie – che corriamo il rischio di farci considerare una casta chiusa, a difesa di privilegi, che non si vuole aprire ai giovani. Niente di più falso e lo dicono le statistiche: l’incremento di laureati iscritti agli Albi degli Odontoiatri è il più alto tra tutte le professioni intellettuali negli ultimi 15 anni ! Corriamo anche il rischio di fare saldare fra loro gli interessi dei poteri forti: Università che vogliono numeri per mantenere insegnamenti e cattedre e gruppi economici interessati ad investire capitali con l’ unica finalità del guadagno. Risultato: sforniamo disoccupati, manovalanza a basso costo ad enorme impatto sociale! Come rappresentante della CAO Nazionale, ho personalmente inviato una lettera al Ministro Lorenzin proprio su questo tema, ribadendo come sia necessario armonizzare una strategia di livello europeo, sulla base dell’iniziativa della Joint Action on Health Workforce Planningand Forecasting promossa dalla Commissione Europea. In assenza di questi interventi, gli studenti italiani continueranno a orientarsi verso altri paesi europei o anche extraeuropei, vanificando ogni forma di programmazione e consentendo, nei fatti, il percorso di studi solo ai più abbienti. Come si può intervenire per superare questa situazione difficile? Noi stiamo innanzitutto cercando di far capire agli interlocutori politici e amministrativi che questa è una professione intellettuale e dunque non può essere regolata sic et simpliciter con le norme che si rivolgono alle imprese e al mercato. Alludo, chiaramente, alla politica dell’Antitrust, che non comprende che, se le aziende possono essere governate dal mercato, ovvero dalla legge della domanda e dell’offerta, le professioni intellettuali debbono invece rispettare anche altri requisiti: qualità, etica e deontologia, senza le quali la prestazione non può essere reputata sicura. Se questo non accade il primo ad essere danneggiato è il cittadino-paziente, e poi anche lo stesso professionista. Pensa che ci saranno novità nei nuovi Lea annunciati per febbraio? Il diritto alle cura, anche delle malattie del cavo orale, è un diritto sancito nella Carta costituzionale. Bisogna quindi potenziare la rete degli ambulatori odontoiatrici pubblici, spesso in condizioni disastrose per carenza di materiale e di attrezzature, almeno per rispondere alle esigenze primarie. In questo momento di crisi, per rispondere ai bisogni sempre più gravi dei cittadini, si sono anche attivate molte iniziative di volontariato in ambito odontoiatrico, rivolte alle scuole, ai portatori di handicap e alle fasce più disagiate della popolazione. Non si può pensare, però, di risolvere i problemi col volontariato, ne’ dall’altra parte imponendo ai professionisti tariffe “calmierate” e insufficienti a coprire i costi, come qualcuno ha ipotizzato. Occorre invece trovare strade per armonizzare il sistema pubblico con il sistema libero-professionale. Si potrebbe, per esempio, ripensare al sistema dell’assistenza indiretta: prestazioni erogate dai libero- professionisti, in parte sostenute dal SSN e in parte pagate dei cittadini. Si possono individuare prestazioni essenziali interamente a carico del SSN, prestazioni aggiuntive sostenute per una quota dal SSN e per un’altra dai cittadini e prestazioni superiori interamente pagate dal paziente. Insomma, pensate di tornare al convenzionamento indiretto? Potrebbe essere un grande servizio per la popolazione e anche un sostegno alla professione, che subisce la crisi. Aggiungo un solo elemento: la prevenzione in campo odontoiatrico può ridurre del 50% le patologie. Oggi non viene svolta in nessun modo dal servizio pubblico, ma solo da alcune iniziative volontarie dei professionisti, mentre si potrebbe fare molto. Al di là del piano normativo, state pensando anche ad azioni positive rivolte ai professionisti? Grazie all’azione di Enpam e Confprofessioni si sono aperte possibilità di accedere ai fondi strutturali FSE e FESR messi a disposizione dalla Comunità Europea, con prestiti e mutui rivolti ai professionisti, soprattutto ai giovani. È stata una battaglia vincente, ingaggiata a Bruxelles da tutte le forze politiche del nostro Paese, consentendo ai professionisti, e non solo alle imprese commerciali, di usufruire di queste risorse destinate all’innovazione e allo sviluppo. A proposito di Enpam: c’è una novità importante che riguarda i giovani anche in ambito previdenziale. Può illustrarla? Partiamo da una premessa: il percorso di formazione in Italia è particolarmente lungo, oltretutto con un problema specifico per le scuole di specializzazione in odontoiatria. Ancora una volta denuncio la sperequazione evidente tra Medici laureati in Medicina e Chirurgia e Medici laureati in Odontoiatria. Questo porta i nostri giovani ad entrare nel mercato del lavoro più tardi che in tutte le altre nazioni europee. È una situazione che accomuna medici e odontoiatri, che non cominciano a lavorare prima dei 28-32 anni. Considerato che la riforma pensionistica chiede ormai un periodo di contribuzione che supera i 40 anni, abbiamo pensato che fosse utile consentire agli studenti degli ultimi anni di poter avviare, con costi molto ridotti, la loro iscrizione all’Enpam, avvicinandoli così agli standard europei. Qual è il problema della formazione specialistica in odontoiatria? Ci sono due ordini di problemi: il primo è che mancano finanziamenti adeguati per le Scuole di specializzazione in odontoiatria e il secondo è che sono state erroneamente inserite in un profilo che non gli è proprio. Il risultato è che molte non riescono neanche a partire ed altre, come quella di Roma, non ricevono il riconoscimento europeo. È una situazione allucinante, sulla quale combattiamo da tempo e che porta molti laureati anche a proseguire gli studia all’estero. Quale obiettivo si è dato per il 2016? Vorreiche riuscissimo a superare le incomprensioni che abbiamo avuto in questi anni con alcuni interlocutori politici e istituzionali. La professione odontoiatrica è una professione intellettuale e non può essere trattata come un settore commerciale. Solo se c’è questo riconoscimento il professionista può lavorare con serenità e garantire la salute del cittadino. Eva Antoniotti ________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 08 Feb. ‘16 RISCRITTURA DEL DNA, CHIEDERE MORATORIE NON BASTA PIÙ ROBERTO SATOLLII Non sono un biologo molecolare, per cui mi stupisco di trovare spesso nella casella dello spam, tra occasioni di sesso e trappole di fishing, anche offerte di acquisto di sistemi Crispr/Cas, gli stessi di cui le autorità britanniche hanno autorizzato l'uso su embrioni umani per modificarne il genoma. È un utensile molecolare scoperto solo tre anni fa, sul quale infuriano due accese battaglie: quella per il brevetto e lo sfruttamento economico; e quella sui confini etici e legali oltre cui non ci si dovrebbe spingere. Consente di "riscrivere" il Dna con semplicità e precisione tali da aprire la porta a possibilità sino a ieri impensabili, in tutti i campi della biologia, compresa la correzione di gravi malattie ereditarie, come la distrofia muscolare o l'emofilia. SEMBRA DI ESSERE tornati agli anni settanta, quando David Baltimore (premio Nobel nel 1975 con Renato Dulbecco) promosse ad Asilomar una celebre moratoria sulla tecnica del Dna ricombinante, che si chiamava allora "ingegneria genetica". Ora si parla invece di "editing genetico", e sarebbe interessante approfondire tutte le implicazioni del cambiamento di metafora. E certo che l'allarme sembra ora più concreto e immediato, perché modificando il genoma umano a livello di cellule germinali (spermatozoi, uova ed embrioni), oltre a eliminare cause di malattia si potrebbe essere tentati anche di provare a migliorare anche caratteri fisici o intellettuali; e d'altra parte ogni svista compiuta su un singolo individuo verrebbe pagata indefinitamente dalle generazioni future. Anche gli argomenti non sono cambiati molto in questi 40 anni: giocare a fare Dio, sostituirsi all'evoluzione naturale, avventurarsi su una china scivolosa senza conoscere tutte le possibili conseguenze, da una parte; pesare pragmaticamente i vantaggi e gli svantaggi, concedere ai malati la speranza di una possibile soluzione, non frenare il progresso delle conoscenze e dell'umanità, dall'altro. Questo la dice lunga su quanto la rapidità con cui avanzano le biotecnologie sorpassi di molte lunghezze l'arrancare della società nel maturare una sufficiente consapevolezza della posta in gioco. Sono passati meno di due mesi da quando a NewYork si sono incontrati scienziati americani, cinesi, britannici e di altri Paesi per cercare di concordare una linea comune internazionale, e già Londra ha rotto gli indugi col via libera a un esperimento su embrioni umani sani, da distruggere però dopo una settimana di sviluppo: lo scopo quindi è di ricerca pura e non applicativo. Un nuovo utensile molecolare consente di modificare con tale facilità e precisione il genoma che gli scopritori stessi invocano prudenza prima di applicarlo anche all'uomo per produrre modifiche che si trasmettano alle generazioni future. La discussione riempie le pagine di riviste come l'europea Nature e l'americana Science, ed è stata innescata tra gli altri dai Nobel Paul Berg e David Baltimore. Sembra un déjà vu: gli stessi scienziati furono i promotori della celebre moratoria di Asilomar, esattamente 40 anni fa, quando con la tecnica del DNA ricombinante faceva i primi passi quella che allora si chiamava "ingegneria" e oggi "editing" del DNA. Al di là delle metafore che cambiano, ora l'allarme appare più concreto e immediato, perché modificando il genoma umano a livello di cellule germinali (spermatozoi, uova ed embrioni), oltre ad eliminare cause di malattia si potrebbe essere tentati di creare caratteri fisici o intellettuali da superuomini. Anche gli argomenti sembrano gli stessi di allora: sostituirsi a dio, o all'evoluzione naturale, avventurarsi su una china scivolosa senza conoscerne i rischi, pesare pragmaticamente i vantaggi e gli svantaggi e così via. Questo conferma il divario di velocità tra il progresso delle biotecnologie e la maturazione della consapevolezza e della riflessione filosofica che dovrebbe accompagnarlo. LE SOMIGLIANZE con Asilo- mar però finiscono qui. Tutto è cambiato. Non c'è più solo il dominio incontrastato della scienza americana: sarebbero in attesa di pubblicazione imminente i risultati di esperimenti sul genoma umano fatti da ricercatori cinesi. E non c'è più solo l'accademia, cui in genere appartengono i proponenti della moratoria: una miriade di start up e di spin off dominano il campo e raccolgono capitali di rischio in cerca di possibili affari. In compenso, leggi e regole non sono più assenti, come allora, anche se variamente articolate e stringenti. La manipolazione del genoma germinale umano è vietata per legge in gran parte d'Europa, mentre è solo soggetta alla vigilanza delle autorità sanitarie negli Usa o in Cina, e senza restrizioni in molti altri Paesi. L'arma della moratoria in stile anni Settanta sembra perciò spuntata, e si può persino sospettare che alcuni dei firmatari abbiano aderito solo per far parlare di sé: nessuno vuole davvero bloccare una ricerca che promette di rivoluzionare il futuro dell'umanità. Proprio per questo, più che una discussione tra gli addetti ai lavori con argomenti ormai triti, sarebbe urgente uno sforzo di democrazia globale per rendere coscienti i cittadini del mondo intero di quale sia la posta in gioco. ________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Feb. ‘16 L’AMBIENTE «INNESCA» I GENI Così possono esplodere comportamenti antisociali Geni o ambiente? Il solito problema mai risolto che questa volta si applica a chi ha subito violenza da piccolo. Questi bambini, dall’adolescenza in poi possono avere comportamenti antisociali e qualcuno diventa persino aggressivo o commette dei crimini. Non tutti però, molti di loro avranno una vita normale, socievoli o meno si capisce, ma come tutti gli altri. Perché qualcuno di loro sì e qualcuno no? Non lo sa nessuno. Potrebbe dipendere dai geni di cui si sa qualcosa ma non tutto, oppure dall’ambiente, dai genitori per esempio o dalle persone che frequentano o dalla scuola e dalle possibilità economiche. Come orientarsi? Provate a chiedere a un genetista, vi dirà quasi sicuramente che tutto dipende dal Dna; poi fate la stessa domanda a uno psicologo, vi risponderà che è tutta questione di ambiente, quello in cui questi ragazzi sono cresciuti. Insomma siete al punto di prima, chi ha ragione? Tutti e due almeno un po’. Il fatto è che per rispondere a domande così bisognerebbe aver studiato il problema in modo molto più approfondito di come è stato fatto finora. Ci vorrebbero dati su varie popolazioni di ragazzi e si dovrebbero poter confrontare quelli che hanno avuto un’infanzia felice con chi invece ha subito violenza e il comportamento di questi ragazzi poi andrebbe seguito nel tempo e lo si dovrebbe poter fare per un periodo abbastanza lungo. Difficile, ma non impossibile, tanto che ricercatori del Canada — il lavoro è pubblicato su «The British Journal of Psychiatry» di questi giorni — ci sono riusciti. Hanno preso in esame più di tremila ragazzi, la maggior parte di loro con una vita del tutto normale fin da piccoli, ma c’era anche chi aveva avuto un’infanzia difficile. L’obiettivo di tutto questo poi era di studiare l’influenza dei geni sul comportamento che i ragazzi avrebbero avuto negli anni successivi. I ricercatori non potevano certo studiare l’intero genoma — almeno 30 mila geni con interazioni estremamente articolate tra loro e sistemi di regolazione che rendono tutto ancora più complicato — perché mettere in rapporto una o più alterazioni genetiche con diversi comportamenti è più difficile che cercare l’ago nel pagliaio. Così hanno fatto riferimento a un lavoro precedente pubblicato su «Science» da un gruppo di psichiatri inglesi, americani e neozelandesi che aveva già dimostrato come i comportamenti antisociali di chi aveva subito violenza da piccolo dipendevano soprattutto da un gene che presiede alla sintesi di una proteina: monoaminossidasi A (MAOA) — si tratta di un enzima che degrada noradrenalina, serotonina e dopamina, ormoni che funzionano come «neurotrasmettitori», aiutano cioè i neuroni a dialogare fra loro e in questo modo governano emozioni, tono dell’umore ma anche depressione, rabbia e tanto d’altro. Una volta deciso di concentrarsi su quel gene, il resto diventava più facile. Si trattava di mettere in rapporto certe variazioni (i medici dicono polimorfismi) del gene MAOA con il comportamento dei ragazzi nel tempo confrontando chi aveva subito violenza da piccolo con gli altri. La prima informazione che viene fuori da questo studio — e non è di poco conto — è che essere esposti a violenza da piccoli aumenta davvero la probabilità di sviluppare con il tempo una personalità antisociale fino ad arrivare, per qualcuno di questi, a comportamenti aggressivi, in famiglia per esempio o con il partner. Fin qui non c’è niente di nuovo e ci si poteva arrivare con il buon senso, ma il rigore con cui è stato condotto questo studio e il tempo di osservazione così prolungato ci consentono oggi di avere qualche certezza in più. Un’altra informazione importante che emerge dallo studio canadese è che la variazione del gene MAOA, proprio quello identificato più di dieci anni fa su «Science», influenza in modo importante l’eventuale comportamento antisociale di chi ha subito violenza da piccolo. Questo polimorfismo ce l’ha il 30 per cento della popolazione e sono proprio i portatori di questa variazione ad avere alla lunga le maggiori difficoltà di rapporto con gli altri. Ma l’informazione forse più importante che emerge da questo studio è che la variazione genetica da sola non basta a scatenare comportamenti antisociali. L’effetto negativo dell’alterazione genetica sul comportamento si esprime solo in contesti molto particolari che configurano di fatto circostanze ambientali sfavorevoli. Così la domanda che c’eravamo posti all’inizio (vale per questo ma per tantissime altre condizioni in cui ci si interroga sull’influenza dei geni rispetto all’ambiente) andrebbe posta in un altro modo: «Com’è che l’ambiente può modificare l’espressione o la funzione di certi geni?». Più si studia e più ci si rende conto che non ci sono comportamenti che dipendono dai geni e comportamenti che dipendono dall’ambiente. Ci sono piuttosto predisposizioni genetiche che consentono in circostanze ambientali particolari di sviluppare certi comportamenti piuttosto che altri. Ed è vero anche il contrario. Capita che l’ambiente possa influenzare attraverso modifiche che i medici chiamano epigenetiche, l’espressione di certi geni e questo si traduce in comportamenti diversi a seconda delle circostanze. Insomma, nel caso dei bambini che hanno subito violenza da piccoli non bastano i geni per sviluppare comportamenti antisociali e altre forme di labilità psichica: ci vogliono circostanze ambientali sfavorevoli. Il termine «ambiente» però è un po’ vago. Il passo successivo rispetto allo studio del «British Journal of Psychiatry» sarà quello di capire quali sono queste circostanze ambientali sfavorevoli e come si possono prevenire i comportamenti antisociali ed eventualmente aggressivi. E non è solo una curiosità; il giorno che riusciremo a capirlo la vita di questi ragazzi potrebbe cambiare. ________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Feb. ‘16 ALL’ORIGINE DELL’IRA Quando ero piccolo mio padre inveiva spesso contro i mercanti di armi — «di cannoni», diceva lui — che riteneva essere all’origine di tutte le guerre. A quell’epoca io non avevo la più pallida idea di che cosa fosse la biologia — l’ho scoperta solo a 25 anni! — e ancora meno la biologia del comportamento, ma la faccenda non mi quadrava affatto. Mi pareva semplicistica, antistorica e poco aderente all’osservazione della ordinaria microconflittualità quotidiana di tutti contro tutti, suscettibile di alcuni improvvisi incredibili inasprimenti. A parte il fatto che non esiste alcun fenomeno che abbia un’unica causa, sarebbe stato opportuno, pensavo, chiedersi se la conflittualità tra individui non avesse anche una qualche base biologica, oltre che storica. A metà gennaio la rivista «Science» ha pubblicato una recensione del libro Why we snap , cioè «Perché scattiamo. Comprendere il circuito della collera nel nostro cervello» di R. Douglas Fields (Dutton, 2015). In questa lunga recensione, Pascal Wallisch, psicologo dell’Università di New York, tocca molti dei temi connessi all’argomento, a partire dalla nostra cosiddetta razionalità e dalla nostra scarsa linearità di comportamento. Lo studio delle dinamiche economiche assume che queste vedano come attore principale un essere umano dotato di specifiche qualità, che è stato convenzionalmente definito homo oeconomicus . La caratteristica fondamentale di costui o di costei è quella di agire sempre razionalmente e lucidamente, in modo da massimizzare il proprio guadagno, tenendo conto delle condizioni in cui si trova a operare. Si tratta ovviamente di una idealizzazione — come quelle di un moto in assenza di attrito, di gas ideale e di corpo solido — utile per impostare un’analisi dei processi economici che si osservano nelle varie situazioni. Le neuroscienze ci hanno insegnato però negli ultimi trent’anni che nessuno di noi si può comportare così in ogni situazione, non solo in pratica, ma nemmeno in teoria. Perché? Perché ciascuno di noi possiede una sorta di «razionalità limitata», limitata per almeno due ragioni. Perché, anche se fosse perfetta, la nostra razionalità dovrebbe sempre fare i conti con l’interferenza del nostro onnipresente universo emotivo, e soprattutto perché la razionalità di ciascuno di noi è gravemente imperfetta e mostra specifiche «falle», vere e proprie «illusioni cognitive», che ci inducono spesso a fare scelte sbagliate, soprattutto, va detto, se si deve decidere in fretta e in condizioni di stress. Tanto per giocare, sottoponetevi a questo semplice problemino, abbastanza noto e di cui s’è già scritto su «la Lettura». Un tifoso compra insieme una felpa e un distintivo della propria squadra preferita. Per comprare le due cose, spende 110 euro. Se la felpa è costata 100 euro più del distintivo, quanto è costato il distintivo? Provate a rispondere e vedrete che molti di voi daranno una risposta sbagliata, non perché siate stupidi, ma perché il nostro cervello funziona bene soltanto fino a un certo punto, a meno che non lo si metta alla frusta. Cosa che spesso non si fa e che è, per esempio, all’origine del fatto che le cose costino 4,99 euro invece che 5. E questi non sono che alcuni esempi elementari. Colui che ha il merito principale di avere scoperto queste sorprendenti proprietà del nostro cervello, Daniel Kahneman, ha ottenuto un premio Nobel per la sua scoperta. L’andamento dell’economia mondiale degli ultimi anni, d’altra parte, ha messo drammaticamente a nudo quanto difettosi, oltre che improvvidamente emotivi, siano i ragionamenti di cui sono capaci anche i migliori operatori di mercato. Considerazioni del genere sono ormai all’ordine del giorno e ne è anche nata una nuova scienza, la neuroeconomia. Ma qual è il motivo per cui il ragionamento degli individui ha tutte queste defaillance ? La risposta è semplice. Quando il nostro cervello si è formato e perfezionato non esistevano partite di scacchi, indovinelli logici o agenti delle assicurazioni, mentre esisteva un enorme numero di situazioni pericolose dove era richiesta una pronta valutazione delle condizioni ambientali e una decisione molto spedita. La nostra mente doveva essere veloce a valutare, e capace di decisioni tempestive, piuttosto che logicamente ineccepibili. Noi abbiamo ereditato un cervello di questo tipo e quello usiamo anche oggi che le condizioni esterne sono tanto diverse. Ci vorranno millenni, se ci saranno, perché quello cambi e ci dobbiamo arrangiare con ciò che abbiamo, ovvero un buon compromesso fra prontezza e rigore. Il fatto poi che possediamo una matematica e perfino una logica, una disciplina nata anzi praticamente adulta già venticinque secoli fa, deriva dal fatto che non esiste al mondo un unico individuo, ma una moltitudine di persone che, agendo collettivamente, riescono a sopperire ai difetti logici di ciascuno di noi. Se si vogliono veramente comprendere molte delle nostre caratteristiche occorre spesso mettere la questione in prospettiva e considerarla da un punto di vista evoluzionistico, anche se con le dovute cautele. Lo stesso vale per i nostri inopinati scatti di collera, per le nostre ostilità, sorde o conclamate, e la nostra perdurante e logorante conflittualità sociale. Negarlo serve solamente a impedirci di comprendere e magari porre rimedio, perché comprendere è sempre necessario anche per poter cambiare le cose e renderle più in linea con i nostri desideri. Non basta desiderarlo, sperarlo o prometterlo, come fanno molto spesso i promettitori di professione, iperbolici reclamizzatori del nulla. Anche per quanto riguarda gli scoppi d’ira, rari fortunatamente, ma talvolta disastrosi e spesso memorabili anche per chi vi è stato coinvolto, è possibile individuare un’origine evolutiva, che può anche rivelare il suo volto paradossale: qualcosa originariamente finalizzato a proteggere la nostra sicurezza, la può mettere gravemente a rischio nel mondo di oggi, e comunque spingerci a comportamenti inappropriati alla situazione. Nove sembrano essere le situazioni più indicate per scatenare la nostra collera: una minaccia per la nostra vita oppure per parti del nostro corpo; una minaccia per il partner o altri membri della famiglia oppure anche per il gruppo di appartenenza; insulti a noi oppure all’ordinamento sociale; un tentativo di invadere il nostro territorio oppure di appropriarsi di roba nostra; e infine una qualche forma di costrizione che ci impedisca libertà d’azione. Sopravvivenza, quindi, e integrità per noi e le persone a noi più vicine, territorialità in senso proprio o esteso, e libertà di manovra materiale e virtuale, sono, non sorprendentemente, le questioni sul tavolo, alle quali teniamo sopra a tutto il resto. A queste aggiungerei almeno l’intransigenza per una mancanza di rispetto e di considerazione, istanza molto sentita oggi in un mondo dominato dalla conoscenza e dalla comunicazione. Che cosa mette in moto tutto questo? Mette in moto una serie di aree cerebrali connesse con l’emotività, dopo una valutazione prettamente emotiva mediata dall’amigdala e una più meditata operata dell’ippocampo. A seguito di tutto ciò si passa o non si passa all’azione, in dipendenza della gravità degli stimoli, della situazione complessiva e dell’indole del soggetto implicato, il cui comportamento può anche variare da momento a momento. Questo è quello che accade dentro di noi. Su questo va poi esercitata un’eventuale azione inibitoria da parte della corteccia cerebrale e della nostra cosiddetta razionalità, sulla base della nostra indole e dell’educazione che abbiamo ricevuto. La cosa può magari essere egregiamente arginata centinaia di volte e manifestarsi più o meno clamorosamente soltanto una o due volte. Spesso senza una concreta possibilità di prevedere. Oppure restare a «bollire in pentola» per anni senza manifestazione alcuna e magari «esplodere» all’improvviso, con atti concreti di ostilità o con decisioni altrettanto inconfondibili verso questo o quello oppure questi o quelli, anche mai incontrati di persona. Il quadro è essenzialmente questo, e non c’è dubbio che contrasti un po’ con la concezione tipica della nostra cultura, figlia della filosofia occidentale e riflessa nelle norme del diritto, che considerano l’uomo come capace di distinguere chiaramente il bene dal male e quindi pienamente responsabile delle proprie azioni e dei propri errori. L’autore fa notare però che molte di queste idee sono state elaborate per via speculativa secoli e secoli prima dello sviluppo delle moderne neuroscienze. Viene quasi da pensare che per molta filosofia valga quanto abbiamo detto di certe istanze biologiche: erano fondamentali e di grande utilità una volta; possono essere di dubbia utilità o anche d’intralcio oggi. Un po’ di quello che ci hanno insegnato le neuroscienze potrebbe essere perciò proficuamente incorporato nelle nostre concezioni correnti. ________________________________________________________ Corriere della Sera 14 Feb. ‘16 LO SPORT NON FUNZIONA SE SI È SEDENTARI CRONICI Trascorriamo le giornate senza mai muoverci dalla scrivania? Anche poche ore alla settimana di esercizio strenuo non daranno grandi benefici Chi è sedentario e di punto in bianco decide di darsi allo sport deve stare attento, perché non è affatto sicuro che possa trarne benefici: da un lato perché spesso si rischia di esagerare e farsi male, dall’altro perché potrebbe non servire a molto se, escluse le due o tre ore di esercizio ad alta intensità “auto-inflitte” ogni settimana il resto del tempo lo si passa seduti. Allenarsi di tanto in tanto non basta: perché faccia davvero bene il movimento deve diventare un’abitudine davvero quotidiana: un avvertimento ai più pigri che vale anche e soprattutto se già c’è qualche piccolo problema di salute, come dimostra una ricerca pubblicata di recente sullo European Journal of Cardiovascular Prevention secondo cui chi ha già una patologia cardiovascolare ed è mediamente sedentario non vede affatto migliorare i propri indici di salute facendo esercizio, a prescindere dalla quantità di allenamento. Conta insomma più quanto si sta seduti che il tempo trascorso praticando sport, come spiega l’autrice, Stephanie Prince dell’università di Ottawa in Canada: «Limitare le ore trascorse seduti lavorando al computer, guidando o guardando la TV è essenziale tanto quanto incrementare i minuti di attività fisica settimanale fino ad arrivare alle quantità raccomandate. Se si fa movimento solo in occasioni specifiche ma poi si poltrisce non si ottengono benefici». La convinzione della ricercatrice canadese è corroborata dall’indagine che ha condotto su circa 300 uomini e donne con qualche problema cardiovascolare. Misurando alle «cavie» con un accelerometro tutte le attività svolte nell’arco di nove giorni e valutando parametri come indice di massa corporea e funzionalità respiratoria, la ricercatrice si è accorta che i partecipanti più sedentari erano i più grassi e con meno fiato, indipendentemente dalle sessioni di allenamento svolte nella settimana. Non è per nulla sorpreso Gianfranco Beltrami, docente del corso di laurea in Scienze motorie dell’Università di Parma e membro del consiglio direttivo della Federazione Medico Sportiva Italiana (FMSI): «Premesso che per ogni età della vita e a seconda delle condizioni di salute la “dose” di esercizio fisico cambia, sicuramente la palestra non basta, se non si aggiunge un movimento libero quotidiano adeguato. Favorire il moto “fuori programma” è importante per il benessere e spesso non ci si accorge di quanto stiamo fermi: ci sono bambini che a fine giornata hanno fatto tremila passi e altri soltanto cinquecento, a parità di ore di scuola e di sport». «Il dispendio energetico reale dipende molto dalle attività libere: dalle faccende di casa alla passeggiata per arrivare al parcheggio, dalle scale al posto dell’ascensore fino ai giochi con i bambini» prosegue lo specialista, «tutto serve a ridurre la sedentarietà. Che davvero fa molto, ma molto, male: è una delle prime cause di mortalità nel mondo e va perciò combattuta in ogni modo. L’organismo umano è fatto per muoversi». Stephanie Prince consiglia almeno di interrompere le ore passate seduti. Alzarsi e muoversi ogni mezz’ora, fare qualche esercizio di fronte alla TV, trascorrere la pausa pranzo o le pause caffè fuori dalla stanza anziché di fronte al computer, monitorare la propria reale attività munendosi di un contapassi sono tutti metodi efficaci per evitare di passare seduti otto o più ore al giorno come i volontari arruolati nello studio canadese. Raccomandazioni che vengono confermate anche da un recente documento pubblicato dall’ American College of Cardiology Sports and Exercise Cardiology Council , che sottolinea come i rischi per la salute si riducano al crescere del movimento. «Gli unici pericoli connessi all’attività fisica sono il non farla o esagerare senza avere un’adeguata preparazione», scrivono gli autori. Accanto alla sedentarietà, infatti, l’altro rischio è farsi prendere dall’entusiasmo e passare da otto ore di sedia ad allenamenti sfiancanti e quotidiani. «Serve sempre gradualità e chi non è uno sportivo, prima di iniziare, dovrebbe farsi visitare dal medico di famiglia o meglio ancora da un medico dello sport, per capire se ci siano specifiche controindicazioni al tipo di attività che si vorrebbe praticare — raccomanda Beltrami —. Inoltre non bisogna mai dimenticare che per essere più tonici e contrastare l’invecchiamento mantenendosi in salute bisogna allenare tutte le componenti della forma fisica: serve l’attività aerobica, per la funzionalità di cuore e polmoni e per liberare le endorfine, gli “ormoni del benessere”, ma anche esercizi per la forza muscolare, che soprattutto con l’andare degli anni si riduce più rapidamente di altre capacità; non devono poi mancare attività per favorire l’equilibrio, anch’esso importante per evitare le cadute una volta diventati anziani, e lo stretching indispensabile per diminuire la probabilità di traumi. Una visita medica serve anche per individuare su quale di queste componenti si debba puntare di più: un iperteso non dovrà sollevare pesi, un obeso dovrà fare un esercizio aerobico mirato e così via. Non si può banalizzare dicendo che la camminata va bene per tutti, per ognuno bisogna individuare la “ricetta” giusta, proprio perché l’esercizio fisico è un vero e proprio farmaco: se ne prendiamo troppo poco non serve a molto, se esageriamo con le dosi o non prendiamo quello giusto rischiamo effetti collaterali dannosi». Alice Vigna ________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Feb. ‘16 I TRE ITALIANI CHE VIVONO RICORDANDO TUTTO I casi nello studio scientifico sulla memoria: non cancellano né un dettaglio né un’emozione Avere una memoria di ferro, e sentirsi normale. I forzati dei ricordi a lungo termine selezionati per scoprire i segreti di chi non dimentica, per capire quali modificazioni funzionali subisce il cervello mentre gli ipertimesici, così si chiamano, estraggono dal passato dettagli precisi. Esempio. Alla domanda cosa è accaduto il 3 maggio 1981, rispondono elencando particolari di cronaca e della loro giornata. Possedere un’arma straordinaria, una memoria di ferro, e sentirsi normale. Marco Pietrantuono la vive così, con allegria e atteggiamento scanzonato: «A scuola non ero il primo della classe. Favorito nell’imparare tabelline o poesie di Leopardi? Macché. Io sfrutto la mia dote in modo spontaneo, mai a comando». Ha 37 anni, un viso simpatico, di Tivoli, uno dei tre campioni selezionati da un team di ricercatori per scoprire i segreti dei ricordi a lungo termine. Venerdì due di loro si sono ritrovati all’istituto di riabilitazione Santa Lucia, a Roma, per sottoporsi a risonanza magnetica. Servirà a capire quali modificazioni funzionali subisce il cervello mentre gli ipertimesici estraggono dal passato dettagli precisi. Esempio. Alla domanda cosa è accaduto il 3 maggio 1981, rispondono elencando particolari di cronaca e della loro giornata personale. Valerio Santangelo, psicologo all’università di Perugia, è uno degli studiosi del progetto assieme alla fisiologa della Sapienza Patrizia Campolongo e a Simone Macrì, Istituto superiore di sanità: «Noi lavoriamo sulla memoria autobiografica, legata alle emozioni, diversa da quella che ad esempio aiuta a fissare nozioni». L’obiettivo è trarre indicazioni utili a comprendere certi meccanismi e in futuro correggere i difetti patologici tipici di malattie come le demenze». È la prima ricerca del genere al mondo. Il pioniere americano James McGaugh si è infatti concentrato su una metodologia diversa. Pietrantuono vive a Lucerna, in Svizzera, dove lavora per la Ruag Aviation. Ingegnere elettronico, si occupa di installazione in aerei ed elicotteri di apparecchiature per la navigazione. «Mi sono candidato a testare le abilità mnemoniche per curiosità. Ho superato la selezione telefonica con un punteggio pari al 60%. La percentuale media raggiunta da chi ritiene di avere una memoria di ferro è inferiore al 10%». Nella vita privata e professionale non dimenticare è sempre un vantaggio? «L’ingegnere deve padroneggiare i concetti, conoscere le formule non basta. Per gli amici era un divertimento mettermi alla prova perché riuscivo a rievocare dettagli che loro avevano cancellato. Mia moglie scherza e dice che quando litighiamo sono un osso duro, le rinfaccio episodi che crede finiti nel dimenticatoio». Ma il passato doloroso che ritorna è un boomerang: «L’ideale sarebbe avere una super-memoria che filtra le esperienze positive». A differenza di Pietrantuono, pare meno incline a prenderla col sorriso Giovanni Gaio, 32 anni, di Feltre, ingegnere energetico e insegnante di scuola serale, secondo ipertimesico arruolato nello studio. «I vantaggi? Smascherare gli ipocriti: ricordare come certe persone erano con me e come sono cambiate ora che sono popolare grazie alle interviste. Ho stampato nel cervello ciò che ha suscitato in me delle emozioni, il resto non lascia traccia. Un esempio. Detesto le leggi italiane, contraddittorie e ingannatrici. Basta una virgola per rendere diverso il contenuto. Non c’è empatia, le scordo». Santangelo racconta che dopo l’annuncio del via alla sperimentazione la collega Campolongo è stata contattata da decine di sedicenti superdotati. Una ventina verranno sottoposti a test. Si spera di arrivare a 6 candidati. I risultati preliminari del progetto dovrebbero arrivare dopo la primavera. «Non illudetevi — avverte lo psicologo —. In molti credono di avere una memoria eccezionale ma messi alla prova falliscono». ________________________________________________________ Le Scienze 12 Feb. ‘16 DIPENDENZE E DEPRESSIONE? COLPA DEI GENI NEANDERTHAL La piccola percentuale di geni che le popolazioni euroasiatiche hanno ereditato dai Neanderthal influenza il rischio di diversi disturbi fisici, come la cheratosi, e mentali, come la dipendenza da nicotina o la depressione. Lo ha scoperto il primo confronto diretto tra dati genomici e cartelle cliniche di 28.000 adulti europei Il rischio di sviluppare alcuni disturbi fisici, come la cheratosi, o mentali, come la dipendenza dalla nicotina e la depressione, è in parte determinato geneticamente: responsabili di questo rischio sono in particolare alcuni geni che abbiamo ereditato dai Neanderthal. È quanto è emerso dal primo studio, apparso sulla rivista “Science” a firma di John Capra, della Vanderbilt University a Nashville, in Tennessee, che ha confrontato genomi e cartelle cliniche di adulti europei, alla ricerca di correlazioni tra le patologie dei soggetti e la piccola porzione di corredo ereditario di origine neanderthaliana. Fin dal 2010 è infatti noto che nel genoma delle popolazioni euroasiatiche è presente un “contributo” dell'uomo di Neanderthal variabile tra l'1 e il 4 per cento, dovuto ai contatti e gli incroci avvenuti circa 40.000 anni fa con Homo sapiens. A partire da questo risultato, sono nate alcune ipotesi su quali tratti degli esseri umani moderni possano essere ereditati dai Neanderthal: si è parlato del colore della pelle, ma anche della suscettibilità alle allergie o del metabolismo dei grassi. Capra e colleghi hanno analizzato i dati clinici di 28.000 pazienti contenuti nel database Electronic Medical Records and Genomics Network (eMERGE), alla ricerca di disturbi e malattie, confrontandoli poi con i profili genomici degli stessi soggetti. I risultati confermano studi precedenti e dimostrano nuove correlazioni. “Il DNA neanderthaliano influenza i tratti clinici degli esseri umani moderni: abbiamo scoperto un'associazione con un'ampia gamma di tratti, tra cui la suscettibilità ad alcune malattie immunologiche, dermatologiche, neurologiche, psichiatriche e riproduttive”, ha spiegato Capra, autore senior dell'articolo. esempio è l'influenza del DNA neanderthaliano sui cheratinociti, cellule che proteggono la pelle dal danno della radiazione ultravioletta e degli agenti patogeni. Dalla nuova analisi è emerso che le varianti derivate dai Neanderthal aumentano il rischio di sviluppare cheratosi, una lesione cutanea caratterizzata dalla presenza di cheratinociti anomali. Più sorprendenti sono forse altre influenze su tratti psicologici. È emerso infatti che un breve tratto di DNA di origine neanderthaliana aumenta in modo significativo il rischio di dipendenza dalla nicotina, mentre esiste una serie di varianti geniche che influenza il rischio di depressione: alcune in senso positivo e altre in senso negativo. Secondo i ricercatori, i risultati indicano che il DNA neanderthaliano rimasto nei genomi delle popolazioni attuali probabilmente garantì alcuni vantaggi adattativi decine di migliaia di anni fa, quando Homo sapiens, proveniente dall'Africa, migrò in Eurasia, dove trovo un ambiente molto diverso, per il tipo di patogeni presenti e per la quantità dell'esposizione solare. Tuttavia molti di questi tratti non sono più vantaggiosi nell'ambiente attuale. Una variante genica neanderthaliana, per esempio, aumenta l'efficienza della coagulazione del sangue. In un ambiente preistorico, il tratto consentiva una rapida cicatrizzazione delle ferite, impedendo le infezioni. In un ambiente moderno, invece, l'ipercoagulazione aumenta il rischio di ictus, di embolia polmonare e di complicazioni durante la gravidanza.