RASSEGNA STAMPA 13 MARZO 2016 UNIVERSITÀ, CONTRIBUTI TAGLIATI FORSE SALVE SASSARI E CAGLIARI MATRICOLE IN CRESCITA: +6MILA IN UN ANNO SOLTANTO IL 3% DELLE RAGAZZE SI LAUREA IN INFORMATICHE BOCCONIANI: STUDI TROPPO MATEMATICI, SERVE PIÙ PLURALISMO ARRIVA L’IDENTITÀ DIGITALE LA SOCIETA’ SENZA FUTURO TAS: TELECAMERE ANTI-CRIMINALITÀ NELLA RIVOLUZIONE DIGITALE I CITTADINI E IL DIRITTO DI CONTARE NON SI PUÒ CRESCERE CHIEDENDO SOLO DIRITTI E TRASCURANDO I DOVERI MIGRANTI: LE PIATTAFORME PER SMONTARE STEREOTIPI NOTIZIE FALSE SFIDA ALL'ULTIMO CONGIUNTIVO DETENUTI BATTONO UNIVERSITARI ECCO IL BATTERIO CHE DIGERISCE LA PLASTICA ========================================================= I COMMISSARI DELLE ASL: «NOI VOGLIAMO COLLABORARE» RAS: STOP AI MINI-OSPEDALI: MA SULLA RIFORMA È GUERRA ORARIO: DIRETTIVA EUROPEA ANCHE PER GLI SPECIALIZZANDI. AOUCA: TRA DICEMBRE E MARZO IL CONCEPIMENTO UNISS: L'INFEZIONE CHE PORTA ALLA SCLEROSI SAN RAFFAELE: DOPPIA DATA PER IL TEST DI MEDICINA CONGELATI GLI SCIOPERI DEI MEDICI LORENZIN: NIENTE TAGLI ALLA SANITÀ, ABBIAMO GIÀ DATO TUTELA DEL PAZIENTE: DECISO PASSO IN AVANTI FSE CHI FA LE SCALE A PIEDI HA IL CERVELLO PIÙ GIOVANE CHE IL LASER SIA CON TE LOMBROSO AVEVA RAGIONE: NEL CERVELLO LE RADICI DELLA VIOLENZA" SE LA DIAGNOSI PASSA DAL CELLULARE UNA STUDENTESSA SU QUATTRO FA USO DI PSICOFARMACI SE AI GIOVANI LA «PRIMA VOLTA» FA ANCORA PAURA ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ: OLIO DI PALMA INNOCUO IMMUNITÀ PIÙ EFFICACE SE I BIMBI «SI SPORCANO» IL BOOMERANG DELL’AGONISMO ======================================================== ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 Mar. ’15 UNIVERSITÀ, CONTRIBUTI TAGLIATI FORSE SALVE SASSARI E CAGLIARI CAGLIARI C’è uno spiraglio perché alle università di Sassari e Cagliari il Governo non tagli i finanziamenti. È emerso dall’incontro a Roma fra la Giunta, i rettori e il ministro all’Istruzione. «Abbiamo sottolineato – scrive il governatore Pigliaru – che c'è un caso specifico, in Sardegna, legato all'insularità e alla bassa densità di popolazione. L'attuale metodo di valutazione (è quello dei costi standard per studente) è tarato a livello nazionale e non tiene conto delle dimensioni del bacino dei possibili iscritti e che di fatto penalizza la Sardegna». Secondo la Regione, «il ministro ha riconosciuto che esiste un caso specifico e si è impegnato a modificare l'attuale sistema dei finanziamenti già da quest’anno mentre per il futuro sarà riconosciuta la discriminante dell'insularità». Nei prossimi giorni, è scritto nel comunicato, «dal Governo attendiamo una proposta e la valuteremo con attenzione proprio per verificare che le due università isolane non siano penalizzate rispetto a quelle delle altre regioni». ________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Mar. ’15 MATRICOLE IN CRESCITA: +6MILA IN UN ANNO roma In un paese in fondo alla classifica Ocse per numero di laureati ogni segnale in controtendenza che giunge dal mondo dell’università va accolto con favore. Come quello che è arrivato ieri dal Miur e che certifica l’aumento delle matricole iscritte agli atenei italiani: seimila in più rispetto all’anno accademico 2014/2015. Che in termini percentuali significa +2%, +3% tra i soli 19enni. Di tutti i numeri contenuti nel focus pubblicato sul sito dell’Istruzione il più interessante riguarda il trend degli immatricolati. Che sono tornati a crescere dopo due anni, passati dai 265.562 del 2014/2015 ai 271.119 attuali. Un aumento che ha interessato quasi l’intero Stivale: dal +5,2% del Nord-Est (valore massimo) al +3,7% del Nord-Ovest fino al +1,8% del Centro e al +2% delle Isole. Fa eccezione solo il Mezzogiorno che perde il 2,1% di matricole. Rilevante è anche la crescita del numero di diciannovenni (74,7%) tra i neoiscritti, a conferma del fatto che la scelta di proseguire gli studi avviene soprattutto nei primi anni dopo il diploma. Il tasso di passaggio dalla scuola all’università risulta in crescita dopo diversi anni di calo: più della metà dei diplomati si è iscritta quest’anno ad un corso di laurea subito dopo l’esame di Stato. Tasso di passaggio che varia in base all’area di provenienza dello studente, con un massimo nel Nord-Ovest (54,1%) e un minimo nelle Isole (43,6%). Così come sono diversi i tassi di mobilità con un diplomato su quattro del Sud e delle Isole sceglie un ateneo del Centro-Nord. Degna di nota è inoltre la maggiore attrattività fatta registrare dalla macroarea scientifica e da quella sociale, scelte rispettivamente dal 36,3% e dal 33,8% delle matricole. Con il corollario che in tutte le aree si evidenzia una maggior presenza delle donne, a eccezione di quella scientifica dove il 62,4% degli immatricolati rimane di sesso maschile. Donne che continuano a rappresentare la maggioranza degli immatricolati (55,2%). Un accenno lo merita infine il legame con la maturità. Da un lato, perché al crescere del voto di diploma aumenta anche la propensione a immatricolarsi: oltre il 90% delle eccellenze si iscrive all’università (e sceglie nella maggioranza dei casi ingegneria), mentre la percentuale scende al 22% tra i maturati con 60/100. Dall’altro, perché la scelta di proseguire gli studi all’università continua a interessare soprattutto i liceali. Che rappresentano in media otto matricole su dieci. © RIPRODUZIONE RISERVATA Eugenio Bruno ________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 Mar. ’15 SOLTANTO IL 3% DELLE RAGAZZE SI LAUREA IN DISCIPLINE INFORMATICHE Le navigatrici in Rete sono 200 milioni meno degli uomini e il numero aumenterà ancora «L'informatica è troppo importante per essere lasciata agli uomini». Parola di una signora inglese, Karen Spärck Jones, che Google deve ringraziare per aver elaborato, nei primi anni Settanta, una teoria sugli algoritmi che governano i moderni motori di ricerca. Ma le sue parole non sono mai state prese in considerazione se nel 2016 si parla ancora di “gender digital divide”, il divario di genere nel mondo del digitale. LE DIFFERENZE A dare le dimensioni di quanto le donne restino indietro nelle professioni scientifiche e informatiche o anche semplicemente nell'utilizzo del digitale in ogni aspetto della vita, sono le cifre ricordate ieri durante il convegno “Donne digitali”, organizzato allo Ied di Cagliari da Confindustria giovani, nell'ambito degli eventi della “Settimana del rosa digitale”. Nel mondo le donne in rete sono duecento milioni in meno rispetto agli uomini, e la tendenza per il 2016 è ancora più sconfortante, con una previsione che arriva a 350 milioni. I dati sono dell'International Telecommunication Union, l'agenzia dell'Onu che si occupa di Ict, che ha calcolato che solo il 19% dei manager Ict sono donne, rispetto alla media del 45% degli altri settori e solo il 9% degli sviluppatori di app sono donne. I NUMERI Guardando all'Europa i numeri non sono migliori: solo il 3% delle ragazze si laurea in discipline informatiche. Mentre in Italia il gap è maggiore e la percentuale di chi non ha mai utilizzato Internet è del 36% per le donne e del 26,9% per gli uomini, in Europa si ferma al 3%. «La salute della democrazia di un Paese dipende dalla presenza di adeguate competenze digitali nella popolazione», ha spiegato Antonella Fancello, esperta di innovazione nella pubblica amministrazione. A preoccupare è ancora di più la scarsa percezione e consapevolezza del divario in ambito tecnologico. «In Italia quando si parla di differenze di genere l'unico fattore realmente preso in considerazione è quello della violenza sulle donne». EDUCAZIONE DIGITALE Il paradosso della differenza di genere nel web, quello che dovrebbe essere lo spazio più democratico e aperto al confronto, ha radici sociali e culturali. «È fondamentale avviare i più piccoli, maschi e femmine, alla conoscenza e utilizzo del digitale», ha evidenziato Maria Paola Corona, imprenditrice e per anni alla guida dell'Agenzia regionale Sardegna Ricerche, «e per questo è necessario avere docenti, uomini e donne, formati in maniera adeguata per evitare di perpetrare quel fenomeno di analfabetismo digitale che caratterizza la nostra popolazione». LE TESTIMONIANZE A portare la propria esperienza di “donne digitali” sono state anche alcune professioniste e imprenditrici che hanno fatto del web, dell'informatica e dell'innovazione una professione. Come Antonella Arca, ceo di MakeTag, la start up acquisita di recente da un colosso inglese dei video online, e Alice Soru, coordinatrice dell'Open Campus di Tiscali. «Quando mi sono iscritta al corso di informatica al Politecnico di Torino in tutto eravamo cinque donne», ha raccontato Arca «ma ciò che conta è andare avanti senza porsi alcun limite e non sentirsi penalizzate». La strada però è ancora lunga se, come certifica l'Ue, ci vorranno ancora settant'anni, nel 2085, prima di arrivare a una parità retributiva tra uomo e donna. Marzia Piga ________________________________________________________ Avvenire 09 Mar.‘16 ANCHE I BOCCONIANI VOGLIONO RIPENSARE L'ECONOMIA: «STUDI TROPPO MATEMATICI, SERVE PIÙ PLURALISMO» Arriva direttamente dagli studenti universitari la richiesta di ripensare l'economia. Cioè di rimettere in discussione, sull'onda lunga della crisi che ha minato le basi stesse del modello dominante da decenni, il fatto che l'economia venga troppo spesso spacciata per una scienza esatta e immutabile. Un'esigenza di cui si è fatta interprete l'associazione Rethinking Economics Italia, rete studentesca che rappresenta in Italia l'omonimo gruppo internazionale e l'Isipe (Iniziativa studentesca internazionale per il Pluralismo in economia), attivi in mezzo mondo (dall'Argentina agli Stati Uniti, dalla Germania a Israele, alla Nuova Zelanda). E che ha già messo radici in una decina di atenei italiani, compresa l'Università Bocconi di Milano, dove ieri il ramo "bocconiano" dell'associazione ha organizzato un partecipatissimo incontro di presentazione ufficiale. Quello che i raga77i chiedono è in sostanza che nelle aule universitarie si apra al pluralismo teorico, metodologico e interdisciplinare nell'insegnamento dell'economia. Cosa che evidentemente non avviene, se sul profilo Twitter dell'associazione si legge che «il mondo è cambiato, le università no». Alcuni dei dogmi da ridiscutere, o abolire, perché smentiti dalla storia? Ad esempio la correlazione inversa tra crescita dei salari e della disoccupazione, cioè che per aumentare l'occupazione si debbano contenere i salari; o che i mercati finanziari siano capaci di auto-regolamentarsi: «Affermare che è stato Adam Smith a teorizzare la "mano invisibile del mercato" è un errore da segno blu», ha sottolineato il professor Alessandro Roncaglia dell'Università La Sapienza di Roma, nella lista dei sostenitori del Manifesto di Rethinking Economics insieme ad esempio a Jean-Paul Fitoussi e Stefano Zamagni. Mentre il professor Luca Fantacci della Bocconi, coautore insieme a Massimo Amato del volume "Fine della finanza" (Donzelli Editore), ha detto che «l'economia prima di tutto dovrebbe avere consapevolezza dei propri limiti». Andrea Di Turi ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 9 Mar. ’15 ARRIVA L’IDENTITÀ DIGITALE Addio a file e scartoffie Pubblica amministrazione dal 15 marzo a portata di clic con il sistema “Spid” Codici rilasciati da Poste, Tim e Infocert. Cosa fare per usufruire dei servizi di Gabriella Cerami ROMA Addio file e scartoffie, mai più mille password e chiavi d’accesso, basta con le vie crucis da uno sportello all’altro: la Pubblica amministrazione sarà a “portata di clic”. È questo lo slogan di Spid, il sistema d’identità digitale, il cosiddetto Pin unico, presentato dal ministro Marianna Madia, che ha annunciato: «Lavoriamo per una Repubblica matura, perché migliaia di amministrazioni non si muovano più come isole ma come un corpo unitario che dà servizi ai cittadini e che risponde ai loro bisogni senza scaricare responsabilità di servizi inefficienti. Parte una grande infrastruttura immateriale del Paese». Spid sarà disponibile dal 15 marzo e le identità saranno rilasciate e certificate da Poste italiane, Tim e Infocert. L’Agenzia per l’Italia Digitale si pone come obiettivo sei milioni di identità digitali entro l’anno. Per adesso sono allacciate al sistema l’Agenzia delle entrate, l’Inps e l’Inail, tre Comuni (Firenze, Venezia, Lecce) e sette Regioni (Toscana, Liguria, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Piemonte e Umbria). Per il consolidamento e la diffusione su tutto il territorio nazionale, il governo si è dato due anni di tempo, con lo scopo di totalizzare 10 milioni di password entro la fine del 2017. Ecco a cosa serve e come si ottiene. Come, quando e a chi richiedere Spid. Chi è interessato potrà dal 15 marzo fare domanda a uno dei tre operatori già accreditati dall’Agenzia per l’Italia digitale: Tim, Poste Italiane e Infocert. Occorre fornire nome, cognome, data e luogo di nascita, documento d’identità, telefono, indirizzo di posta elettronica e domicilio (codice fiscale o partita Iva, sede legale e ragione sociale se azienda). Poi si passa alla verifica tramite canale tradizionale (esibizione documento e compilazione modulo) o per via telematica (carta d’identità elettronica o firma digitale). Seicento pratiche da gestire direttamente con Spid. Il Pin unico funzionerà da subito per 300 servizi che a giugno lieviteranno a 600. Tra le altre cose, sarà possibile pagare la colf, iscrivere il bambino all’asilo nido, saldare l’Imu o la Tari e la Tasi, cambiare la residenza, ritirare i referti medici, riscattare la laurea, richiedere incentivi d’impresa. Una sola chiave per tutti i cassetti della Pubblica amministrazione. La password unica rimpiazza migliaia di codici esistenti e permetterà di entrare via web da subito nei servizi pubblici e in futuro anche in quelli privati (bancari, assicurativi, di e-commerce). Spid si presenta come un “bottone” telematico, uguale per tutti i servizi (il logo è la sigla Spid in blu e bianco, la “i” rappresenta una persona stilizzata). L’accesso potrà avvenire con pc, smartphone o tablet. Gratis per almeno due anni ed è possibile recuperare vecchi Pin. Le credenziali di Spid saranno rilasciate attraverso posta, e-mail o sms. Per ora ad essere attivati sono i primi 2 livelli di sicurezza e almeno per 24 mesi saranno gratuiti. Inoltre chi ha già una password rilasciata da una Pubblica amministrazione potrà accelerare l’iter, facendosela semplicemente riconoscere dall’operatore. Tre livelli di sicurezza. Tre sono i livelli di riservatezza, per quello base serve solo username e password, per il secondo gradino si aggiunge una “one time password” (usa e getta) e al terzo si affianca una smart card, un supporto fisico con chip. Il terzo livello è pensato per professionisti e operazioni complesse (trasferimento fondi o scambio dati sensibili). ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 9 Mar. ’15 LA SOCIETA’ SENZA FUTURO Tra tombe e culle un equilibrio negativo Il problema della denatalità grave anche in Sardegna L’inutile chiusura delle frontiere dettata dalla paura Nel preoccupante scenario del declino demografico appare incomprensibile la reazione di rigetto dell’emigrazione di GIANFRANCO BOTTAZZI C'era da aspettarselo. Nonostante fosse fenomeno noto da tempo, l'Istat pubblica i dati della popolazione, delle nascite e delle morti, relativi al 2015 e lo scoop è servito. In Italia un numero di morti senza precedenti e un numero di nati spaventosamente ridotto. Insomma si fanno sempre meno figli e il numero dei morti eccede sistematicamente il numero dei nati. Risultato ovvio: la popolazione diminuisce e, poiché anche l'apporto dei flussi migratori che si fissano stabilmente in Italia si riduce (contrariamente a quanto fanno credere gli allarmismi strumentalmente agitati dai più vari demagoghi), la popolazione invecchia in modo marcato. C'era anche da attendersi che si scatenasse il filone italico del complottismo: l'aumento delle morti sarebbe la conseguenza dell'inquinamento, delle scie cosmiche, dell'ozono, delle porcherie che ci mettono negli alimenti, delle vaccinazioni e così via. Fenomeni, tutti, dei quali sarebbe bene preoccuparsi, ma che nel caso specifico non c'entrano. Vero è che si vive sempre più a lungo, ma è anche vero che il balsamo della immortalità non è stato ancora inventato. Logico perciò che, con una popolazione in età avanzata sempre più numerosa, il tasso di mortalità (ossia la probabilità di morte) non possa che aumentare. Se, contemporaneamente, non nascono bambini, il fenomeno assume il carattere di un circolo vizioso. Insomma, sono le ferree leggi della demografia, e non c'è nulla da stupirsi. In Sardegna non va meglio, anzi semmai va peggio. E in Europa, chi più chi meno, la situazione è altrettanto inquietante: nessun Paese, neanche quelli che sviluppano da anni politiche determinate per favorire la natalità (come la Francia o i Paesi scandinavi), raggiunge quella soglia di 2,1 figli in media per ogni donna che rappresenta il tasso di fecondità con il quale semplicemente si riproduce la popolazione esistente. Se l'Europa - e l'Italia in essa - non registra un vero e proprio crollo lo si deve agli immigrati. In Sardegna, neanche gli immigrati compensano un calo degli abitanti che consegue non solo a poche nascite, ma anche a un saldo migratorio negativo conseguenza dei Sardi, giovani soprattutto, che se ne vanno. Insomma, un quadro fosco, del quale si discute poco, del quale la politica discute ancor meno. Forse perché gli scenari che questo quadro disegna sono veramente inquietanti. Una società che non fa figli è infatti, in tutta evidenza, una società malata, una società senza futuro. È già avvenuto tante volte nella storia che intere civiltà e società sparissero per consunzione demografica. È la volta dell'Europa (e della Sardegna)? Di fronte al fenomeno della denatalità e del declino demografico, le spiegazioni che vengono più spesso avanzate chiamano in ballo la crisi, le scarse opportunità di occupazione, le difficoltà delle giovani coppie a metter su casa, insomma le difficoltà materiali. La spiegazione vera è molto più complessa ed è su di essa che dovremmo esercitarci. Non si fanno figli, o se ne fanno pochi e tardi, perché le nostre società sono impaurite dai mille rischi, veri o presunti, che si vedono all'orizzonte, dal timore egoistico di perdere quel po' di benessere e di consumo al quale abbiamo avuto accesso, dalla paura delle responsabilità, da un individualismo che viene da lontano ma che sempre più, nella cosiddetta seconda modernità, presuppone un "io" autosufficiente e indipendente, che vuole essere libero di assecondare la ricerca delle proprie soddisfazioni e che dunque vede come un impaccio un figlio che, per bene che vada, condiziona la tua esistenza per venti o trenta anni. Certo, le insicurezze del contesto nella società neo- liberista non aiutano, ma è piuttosto questo complesso appena accennato di fattori che dovremmo esplorare, certi che, senza capire questo, eventuali politiche e incentivi avrebbero effetti tutto sommato di scarso rilievo. Nello scenario preoccupante del declino demografico, appare ancora più incomprensibile l'ottusa chiusura di molti alla problematica dell'immigrazione. Premesso che – anche qui la storia è maestra, se solo la si vuole ricordare! – non c'è muro o filo spinato che possa fermare flussi che oggi premono alle frontiere delle cittadelle (invecchiate) del benessere. Che si tratti dell'Europa, degli Stati Uniti, del Giappone o dell'Australia, quanto potranno resistere le fortezze all'assalto dei più miseri? È paradossale che i Paesi che oggi esprimono maggiori chiusure e intolleranza, sono proprio quelli che hanno maggiori problemi di declino demografico. Cosa faranno, tra trent'anni, i fascisti ungheresi, o i nazionalisti polacchi o slovacchi? O i nostri leghisti sempre più fascisti? Dato che tra trent'anni scarseggeranno i giovani aitanti da inquadrare militarmente (e quelli arruolabili non ne avranno verosimilmente voglia), manderanno alle frontiere a difendere i confini truppe composte di mercenari siriani o eritrei? Avevano fatto così anche gli antichi Romani, ma questo aveva solamente rallentato la caduta dell'Impero. Per secoli, tuttavia, nell'Impero romano si circolava liberamente e, alla fine, i "barbari" furono in gran parte romanizzati. Non sarebbe il caso di attrezzarsi con politiche lungimiranti nei confronti di flussi di immigrazione che comunque dureranno ancora per anni e anni? Gianfranco Bottazzi è ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Cagliari ________________________________________________________ L’Unione Sarda 12 Mar. ’15 ANCHE LE TELECAMERE ANTI-CRIMINALITÀ NELLA RIVOLUZIONE DIGITALE DELLA REGIONE Magari non risolveranno i problemi degli attentati ai sindaci e dello spopolamento, però gli interventi presentati ieri dalla Regione costituiscono un segnale chiaro. Ancora di più il giorno dopo l'assemblea di Abbasanta in cui i sindaci hanno gridato all'abbandono dei piccoli centri e al malessere, spesso causa di intimidazioni. Dunque, eccoli: videosorveglianza in 80 Comuni entro diciotto mesi e banda ultralarga in 313 entro il giugno 2017. Scopo delle due misure previste nell'Agenda digitale della Sardegna è, nel primo caso, la tutela della legalità e della sicurezza pubblica in tutto il territorio regionale, nel secondo, garantire pari diritti a cittadini che senza l'intervento della Regione non avrebbero la possibilità di accedere a connessioni internet ad alta velocità. SISTEMI DI VIDEOSORVEGLIANZA Una prima applicazione prevede il monitoraggio video dei centri abitati per un maggior controllo. Tutti i dati registrati dalla rete potranno essere messi a disposizione delle forze dell'ordine. Per la realizzazione delle reti, la Regione impegna 7 milioni e 150mila euro. Degli 80 Comuni sinora interessati, 32 hanno popolazione fino a duemila abitanti, 25 fino a cinquemila e 23 oltre cinquemila. Nel progetto “Reti per la sicurezza dei cittadini e del territorio”, sono coinvolti anche l'Unione dei Comuni “Alta Gallura”, l'Unione dell'Anglona e della Bassa Valle del Coghinas, la Comunità montana numero 5 nel Nuorese, l'Aggregazione Comuni Orgosolo e Urzulei e l'Unione dei Comuni del Terralbese. Per questi interventi sono disponibili 6 milioni e 900mila euro, mentre con gli altri 250mila sarà realizzato il nodo di gestione infrastrutturale dell'intero sistema presso il data center della Regione. La Giunta ha fatto sapere che l'intervento costituisce la base infrastrutturale per rendere operativo un sistema di sensori molto sofisticato con strumenti tecnologici che consentiranno di acquisire informazioni, dati, parametri rilevanti per la sicurezza del territorio. IL PROGETTO BANDA ULTRALARGA Ieri il governatore Francesco Pigliaru - con gli assessori agli Affari generali e all'Agricoltura, Gianmario Demuro ed Elisabetta Falchi, Alessio Beltrame (capo della segreteria del sottosegretario Antonello Giacomelli) e l'ad di Infratel Salvo Lombardo - ha anche annunciato l'avvio dei lavori per realizzare le infrastrutture relative alla banda ultralarga in 313 Comuni. Sono centri che ricadono nelle aree rurali in cui, in assenza di interesse da parte di operatori privati, interviene la Regione con risorse pubbliche. Il progetto prevede una spesa di 56 milioni (fondi Feasr), riguarda 507.577 cittadini e 278.768 unità immobiliari. La Giunta ora chiede ai Comuni interessati di agevolare l'iter dei procedimenti amministrativi e delle relative autorizzazioni per facilitare la realizzazione delle opere e ridurre i costi. OCCUPAZIONE E LOTTA ALLO SPOPOLAMENTO «Gli interventi per la banda ultralarga porteranno occupazione», ha commentato Pigliaru. Mentre l'ad di Infratel (la società in house del Mise che ha dettato il cronoprogramma), Lombardo, ha calcolato che in ogni Comune le imprese che si occuperanno dei lavori - Eriksonn, Eds, Sirti, Alpitel, Tecnit, Mazzoni - assumeranno 14 persone. Infine, ha aggiunto il presidente della Regione, «la connessione ad alta velocità rappresenta anche una delle condizioni necessarie per combattere lo spopolamento delle zone rurali per lo sviluppo di un modello agroalimentare moderno». Roberto Murgia ________________________________________________________ Corriere della Sera 10 Mar. ’15 I CITTADINI E IL DIRITTO DI CONTARE I votanti diminuiscono, i partiti si svuotano, i sindacati divengono afoni. Ha ragione Ferruccio de Bortoli ( Corriere della Sera , 5 marzo 2016) nel rilevare che si apre un fossato tra cittadini e istituzioni. Il divario tra «Paese reale» e «Paese legale» — come si diceva nell’Ottocento — è un problema che si riaffaccia periodicamente, ma in termini nuovi, in tutte le democrazie. Una volta era questione di ampiezza del suffragio. Conquistato il suffragio universale, è divenuto problema di canali di comunicazione tra società e Stato, prima tenuti aperti da partiti e sindacati (di lavoratori e di datori di lavoro). Questi hanno sempre meno iscritti, sono meno vitali, meno diffusi sul territorio. Non assicurano, quindi, quella trasmissione di domande sociali alle istituzioni che costituisce il loro compito principale. Contemporaneamente, nelle istituzioni, c’è dovunque la necessità di un accentramento dei poteri, imposto dalla globalizzazione: basti pensare ai diversi vertici europei e mondiali, ai quali non possono certo partecipare gli interi governi e che richiedono la presenza dei soli capi degli esecutivi. Questo malessere, se non crisi, della democrazia, emerge in un momento nel quale, paradossalmente, l’offerta di istituzioni democratiche aumenta, gli stessi partiti si aprono, il «capitale sociale» cresce. Basti pensare alla diffusione mondiale di organismi intermedi, tra Comune e Stato, chiamati Regioni, territori, comunità, per dare un’altra voce ai cittadini. Basti pensare alla introduzione di elezioni primarie, sull’esempio americano, per aumentare il tasso di democraticità degli stessi partiti (che, da strumento della democrazia, divengono essi stessi obiettivi della democrazia) e all’aumento del «capitale sociale», costituito da quelle reti di cooperazione che arricchiscono il tessuto comunitario e danno occasione ai cittadini di «svolgere la propria personalità», come dice la Costituzione. L’apparente contraddizione si spiega in un solo modo: accanto all’aumento di offerta di democrazia, all’apertura dei partiti e alla crescita sociale, si registra anche un aumento della domanda di democrazia. Dopo un ciclo secolare o semisecolare — a seconda degli Stati — di vita del suffragio universale, i cittadini si sentono padroni e questo fa emergere la debolezza originaria della democrazia moderna: essa è in realtà una oligarchia corretta da periodiche elezioni delle persone alle quali è affidato il potere (democrazia delegata o indiretta). Di qui la ricerca di rimedi, surrogati o alternative. I referendum, che si prestano però ad appelli al popolo di tipo gollista. La democrazia detta deliberativa, cioè la consultazione dei cittadini sulle politiche pubbliche, che però non può esercitarsi su tutte le decisioni e non può condurre a una integrale socializzazione del potere (un sogno inseguito da varie correnti del socialismo nell’Ottocento e all’inizio del Novecento). Il ricorso alla rete, con tutte le arbitrarietà alle quali si presta. In Italia il malessere dei cittadini è più accentuato perché non funzionano male solo i rami alti, ma anche quelli bassi delle istituzioni, scuole, ospedali,università, trasporti, strade, giustizia. Ne sono un segno i periodici sondaggi sulla fiducia dei cittadini, che mettono in alto forze dell’ordine, chiesa, autorità indipendenti e molto in basso amministrazioni pubbliche, servizi a rete, corti. Giustamente Maria Elena Boschi ( Corriere della Sera del 6 marzo 2016) punta su «un Paese più semplice e più giusto», perché il malfunzionamento dei rami bassi produce diseguaglianze tra chi non può fare a meno di servizi pubblici e chi ha i mezzi per evitare di ricorrere a essi. Sabino Cassese ________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Mar. ’15 NON SI PUÒ CRESCERE CHIEDENDO SOLO DIRITTI E TRASCURANDO I DOVERI Sforzo comune Tutti devono rimboccarsi le maniche, altrimenti non ci sarà uno sviluppo ma un addio collettivo alle libertà individuali nel nostro Paese si dibatte spesso sui motivi che ci relegano agli ultimi posti delle classifiche internazionali su competitività, sviluppo, innovazione, libertà economiche, produttività ed altre variabili. Il World Economic Forum nel suo Global Competitiveness Index basato su tre indici (Contesto macroeconomico nel quale pesa il debito pubblico e la pressione fiscale, la qualità delle pubbliche amministrazioni e la tecnologia), ci assegna un poco lusinghiero 49° posto su 144 Paesi analizzati a pari punti con Kazakhstan, Costa Rica, Filippine e Panama. Si fanno molte analisi per cercarne le cause, altre ancora per capire come sia stato possibile accumulare un così gravoso debito pubblico che peraltro rappresenta anch’esso un grande freno allo sviluppo. I motivi sono sicuramente di natura economica, di organizzazione, di eccesso di legislazione ma credo che una parte non irrilevante là si possa riscontrare nel binomio diritti - doveri. Il nostro Paese sembra infatti la patria dei diritti ma non quella dei doveri; vi sarà capitato di seguire i talk show televisivi e soprattutto i dibattiti con i politici. In tal caso avrete sentito frequentemente la parola diritti ma difficilmente quella doveri. Tutti i politici elencano una serie di diritti che secondo loro vanno implementati senza neppure conoscere a volte la composizione della nostra spesa pubblica e senza pensare che gran parte di quello che consumiamo oggi non lo paghiamo noi ma la mettiamo a debito delle future generazioni. Nella dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo adottata nell’aprile del 1948 si legge che «diritti e doveri sono interrelati in ogni attività umana, sociale e politica. Mentre i diritti esaltano la libertà individuale, i doveri esprimono la dignità di quella libertà». Tratto quindi l’argomento perché lo ritengo essenziale per il futuro del nostro Paese sapendo che non si può generalizzare e pensando con rispetto alle tante persone che i doveri li avrebbero voluti fare ma che per motivi fisici o psichici o per cattiva sorte non hanno potuto. Orbene, tutti hanno diritti: alla sanità, alla scuola, alla pensione, alla casa, al lavoro e così via. Ma chi deve garantire questi diritti se non l’individuo stesso e la collettività degli individui nell’ambito delle proprie disponibilità? E come si attuano i diritti? Solo se il «collettivo» nel suo insieme adempie pienamente ai propri doveri. Ad esempio, tutti hanno diritto di essere curati e di non incappare in malasanità. Ma spesso la malasanità dipende da altri soggetti che non hanno fatto il proprio dovere. Il viadotto crollato o la strada rovinata e piena di buche limitano i diritti dei cittadini alla circolazione e alla sicurezza; spesso non è colpa della natura avversa ma responsabilità di chi ha progettato e costruito con scarso senso del dovere. Nelle pubbliche amministrazioni (ma il concetto vale anche per le attività private) ci sono molte cose che non funzionano. Poi si scopre che tanti rappresentanti del popolo pensavano solo ai propri interessi con un senso civico del dovere prossimo allo zero. Ma sono pochi o è poco diffuso il senso civico del dovere? A guardare la cronaca c’è di che preoccuparsi: i falsi braccianti agricoli scoperti a migliaia, gli ispettori Inps che «taroccavano i verbali di accertamento» e non erano mica pochi; i falsi invalidi a migliaia che tolgono diritti ai veri invalidi; i fatti di Roma (mafia capitale) non certo di poche persone. E che dire di gran parte dei Consigli Regionali accusati di spese non consone o delle acquisizioni di certuni «a loro insaputa». Per non parlare poi del dovere di pagare le tasse; e invece dalle dichiarazioni Irpef 2014 (per l’anno 2013) risulta che il 46,5% dei contribuenti (19,079 milioni) hanno redditi da zero o negativi fino a 15.000, dichiarano solo il 16,20% del totale dei redditi, cioè 130 miliardi per un reddito medio di 6.851 (571 euro al mese, meno di un pensionato sociale con integrazione); l’imposta media pagata è pari a 485 per contribuente ma considerando il rapporto cittadini italiani (60.782.668) su contribuenti (40.989.567) ogni contribuente ha in carico 1,483 cittadini per cui ai 19,079 milioni di dichiaranti fino a 15.000 corrispondono 28.295.197 cittadini e l’imposta media annua pagata pro capite è pari a 327. Per garantire la sola sanità che costa 1.790 per ogni cittadino occorre che altri paghino circa 41 miliardi di euro. Vi pare che un Paese come l’Italia abbia la metà della popolazione sotto la soglia di povertà? E come si fa a garantire il diritto alla pensione, all’assistenza e alla sanità con questo pesante squilibrio diritti- doveri? Oggi, come risulta dal 3° Rapporto di Itinerari Previdenziali la metà dei pensionati sono assistiti e lo Stato spende circa il 53% della spesa totale per pensioni, assistenza e sanità. Per dare diritti occorre che tutti ci si rimbocchi le maniche senza se e senza ma; diversamente non ci sarà sviluppo ma un addio ai diritti e alla libertà individuale che questi esprimono. Docente e Presidente Itinerari Previdenziali ________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 Mar. ’15 MIGRANTI: LE PIATTAFORME PER SMONTARE GLI STEREOTIPI E LE NOTIZIE FALSE Con una informazione diversa Open Migration punta a incidere sulle policy Ricominciare dal dato puro e dall’informazione di qualità per comprendere e raccontare in modo più completo la realtà. Con questo spirito ogni giorno Open Migration produce e rielabora dati, li rende leggibili e li diffonde. Messo in campo dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (Cild), una rete di trenta organizzazioni che lavorano per i diritti umani e le libertà civili, il progetto è nato, «da un lato dall’esigenza, interna a Cild, di mettere a frutto le esperienze delle associazioni, dall’altro dalla constatazione di un vuoto di informazione in Italia» spiega Giulio Frigieri, direttore creativo di Cild e del progetto Open Migration. Il valore aggiunto maggiore è la dashboard, con dati aggiornati in tempo reale su sbarchi, flussi, impatto demografico, il tutto visualizzato in grafici e mappe intuitive, anche per i non addetti ai lavori. La sola lettura dei dati di per sé offre delle chiavi interpretative. Per esempio, se si osservano le destinazioni, la Germania è il primo paese europeo per richieste di asilo, ma se guardiamo alle richieste di asilo per numero di abitanti nel paese di ricezione, il quadro cambia molto: Ungheria, Svezia e Austria guidano la classifica. Inoltre i dati sono dinamici nel tempo. Basta far passare il mouse sull’infografica che riporta i paesi di origine dei richiedenti asilo, per vedere quanto la situazione si sia evoluta negli ultimi 15 anni. L’esempio più eclatante è quello della Siria, che in pochi anni sale in cima alla classifica delle richieste d’asilo (25mila nel 2012, quasi 400mila nel 2015), senza avere una storia di immigrazione massiccia paragonabile. La presenza di Iraq e Afghanistan nei primi posti di questa classifica racconta la storia di decenni di guerre, violenza e instabilità politica. E nel 2015 l’Ucraina compare per la prima volta, a causa della guerra che coinvolge vaste aree del paese. Infine, ci sono casi come Algeria, Sierra Leone e Bosnia Erzegovina, la cui situazione appare molto cambiata dal 2000: pochi richiedenti asilo e tassi di riconoscimento bassi. Nella sezione Infografiche è poi possibile cercare questi materiali illustrativi e tanti altri grazie a un filtro per tema, paese e fonte (almeno una ventina). I dati vengono utilizzati anche per portare argomentazioni incontrovertibili nella sezione fact checking. Con articoli come «in Italia arrivano soprattutto migranti economici? Non esattamente» oppure «Come smentire la bufala dell’invasione musulmana in Italia». In questo modo Open Migration riesce ad avere un ruolo efficace di advocacy: «Abbiamo un approccio modernamente giornalistico con visualizzazioni dei dati immediate ed efficaci. Nella consapevolezza che le policy devono partire da una base comune: l’informazione di interesse pubblico» aggiunge Frigieri. Le notizie false vengono smontate con la forza dei dati. La stessa sorte capita per gli stereotipi e i pregiudizi che spesso accompagnano la percezione dei media, dell’opinione pubblica di un fenomeno tanto complesso come quello delle migrazioni. In questo senso Open Migration ha la potenzialità di andare a incidere - come ogni progetto giornalistico ben fatto - sulle politiche italiane ed europee. Dati ma anche approfondimenti come un’intervista sul fenomeno della migrazione al sociologo Zygmunt Bauman, contributi come quello di Stefano Solari, che spiega che gli immigrati “salvano” le pensioni italiane, schede come quella sul complesso regolamento di Dublino. Infine la sezione Quiz, più “leggera”, interroga sulle conoscenze sui migranti o sui musulmani in Italia. La necessità di andare oltre gli stereotipi e le reazione emotive è colta anche in altri paesi europei. In Germania, per esempio, Hoaxmap intende smascherare le notizie false - dagli omicidi agli stupri - su profughi e migranti. Creato nel 2015 da Karolin Schwarz, il sito www.hoaxmap.org raccoglie su una mappa tutti le notizie che attribuiscono un reato a un migrante. Non solo. Ogni segnalazione - per ora 350 casi posti su una mappa - è affiancata da tutta la documentazione e le fonti che smentiscono la notizia. Le cause delle segnalazioni appaiono visualizzate su una tag cloud: a caratteri maggiori «stupro», «violenza sessuale», «fanatismo». ________________________________________________________ La Stampa 08 Mar.‘16 SFIDA ALL'ULTIMO CONGIUNTIVO DETENUTI BATTONO UNIVERSITARI Vittoria dei carcerati di Regina Coeli sfidati dagli studenti di Tor Vergata Chi usa ancora la parola «affinché». Per di più unito al congiuntivo perfettamente coniugato? Oppure parole come «altresì» o «diatriba»? Nel carcere di Regina Coeli le usano e a colpi di vocaboli di alto spessore linguistico e di condizionali, congiuntivi e preposizioni hanno battuto gli studenti dell'università di Tor Vergata. Sabato mattina la biblioteca del penitenziario romano ha ospitato la prima guerra di parole mai organizzata in Italia tra detenuti e ragazzi. Ci sono dei precedenti negli Stati Uniti, lo scorso settembre i giovani della rinomata Harvard, fino ad allora campioni nazionali di dibattito, sono stati pesantemente sconfitti da tre carcerati americani del penitenziario di Eastern New York. Un paradosso che si è ripetuto anche sabato mattina nell'ora di sfida Regina Coeli-Tor Vergata. Non erano impreparati i ragazzi dell'università, non hanno nulla in comune con gli adolescenti che hanno partecipato qualche giorno fa alla due giorni dello Young International Forum di Rimini e che davanti alle domande degli esperti hanno dimostrato di non conoscere il significato di parole come «empatia» o «assertività». In questo caso gli studenti conoscevano di sicuro il significato di tantissime parole ma non le hanno usate. E non sempre badavano ai congiuntivi. Al contrario dei detenuti, ribattezzati sabato mattina i signori di Regina Coeli, che hanno fatto sfoggio di un lessico invidiabile. Dicevano cesoie e non forbici ascari e non soldati, smidollati non insulti irripetibili. La gara si svolge secondo re gole molto rigide. Le squadre sfidanti devono condurre un di battito sull'uso delle armi come legittima difesa. Hanno a disposizione due round, ciascuno formato da un minuto per una presentazione, venti minuti per h discussione vera e propria, ut altro minuto per la conclusione Nel primo round la squadra sostiene una tesi, nel secondo h tesi opposta, ed è questa la veri difficoltà della sfida, riuscire ac essere credibili e convincente sia come accusatori che come difensori dell'uso delle armi «Entrambe le squadre si soni preparate separatamente spiega Flavia Trupia, una laurea in filosofia del linguaggio docente e presidente di PerLa Re-Associazione Per La Retorica che ha organizzato la sfida ognuno ha ricevuto lezioni di attonalità e di argomentazione. E hanno dovuto imparare le regole della guerra di parole: non si interrompe, non si insulta, l'aggressività non serve, anzi, fa perdere la propria squadra». Insomma le uniche armi a disposizione sono le parole. E alla fine è grazie alle parole che la giuria emette il suo verdetto dopo pochi minuti di camera di consiglio. Primo premio ai signori di Regina Coeli, «una vittoria di misura per la capacità e il controllo e per la capacità di retorica che è stata ammirevole», legge la presidente della giuria, la linguista Valeria Della Valle. Loro, i signori di Regina Coeli, minimizzano: «Ho solo seguito i consigli sull'esposizione in pubblico e le tecniche di postura. Ho aggiunto ironia, ridicolizzato gli avversari. E ho avuto conferma di come si possa essere sempre più vicini di quello che si pensi», spiega Valerio usando due congiuntivi in una frase ________________________________________________________ Le Scienze 11 Mar. ’15 ECCO IL BATTERIO CHE DIGERISCE LA PLASTICA Il PET, la comune plastica con cui vengono prodotte le bottiglie per bevande, viene idrolizzata da un batterio scoperto in Giappone. Il risultato potrebbe aprire nuove strade per il riciclaggio di questo materiale, la cui dispersione nell'ambiente rappresenta un problema sempre più gravoso in tutto il mondo(red) * Bastano due enzimi ai batteri della specie Ideonella sakaiensis 201- F6per degradare il polietilene tereftalato, o PET, la plastica usata in gran parte del packaging, soprattutto per fabbricare bottiglie. L'hanno scoperto Shosuke Yoshida, del Kyoto Institute of Technology, e colleghi di altri istituti giapponesi. Il risultato, descritto in sulla rivista “Science” è importante perché apre la strada a nuove soluzioni dei problemi ambientali dovuto alla dispersione di questo materiale fortemente resistente alla biodegradazione. )Nel solo 2013, nel mondo sono state prodotte 56 milioni di tonnellate di PET derivate per il 90 per cento dal petrolio. Si calcola inoltre che solo il 14 per cento circa viene separato e avviato ai processi di riciclaggio. Molti laboratori di ricerca hanno quindi cercato microrganismi in grado di digerire il materiale: finora gli unici che sembrano capaci di farlo sono alcune specie di funghi, ma nessuna specie di batteri. Yoshida e colleghi hanno raccolto 250 campioni di detriti di PET e hanno testato la capacità di alcuni ceppi batterici che utilizzano il PET come fonte primaria di carbonio per vivere. Hanno così identificato un nuovo batterio, battezzato Ideonella sakaiensis 201-F6, che è in grado di degradare quasi completamente un film sottile di PET dopo sei settimane alla temperatura di 30 gradi. Approfondendo i meccanismi utilizzati dal batterio, gli autori hanno identificato un enzima, denominato ISF6_4831 che, in presenza di acqua, è in grado di scindere il PET in una sostanza intermedia, che a sua volta viene degradata da un secondo enzima.. In pratica, questi due enzimi da soli possono scindere il PET nei suoi costituenti fondamentali, e anche se l'intervallo di tempo richiesto è piuttosto lungo, potrebbero comunque trovare un'utile applicazione nelle tecnologie di riciclaggio. ========================================================= ________________________________________________________ La Nuova Sardegna 11 Mar. ’15 Sanità/L’inchiesta del Consiglio I COMMISSARI DELLE ASL: «NOI VOGLIAMO COLLABORARE» CAGLIARI Gli undici commissari delle Asl sono pronti a collaborare con l’indagine del Consiglio regionale sulla spesa sanitaria. Sono stati i manager-traghettatori a dirlo nell’aula della commissione d’inchiesta presieduta da Attilio Dedoni (Riformatori). Se in passato ci sono state incomprensioni nel trasmettere i dati sugli ultimi dieci anni di contabilità delle Aziende, ora la disponibilità è piena «purché la commissione sia chiara sui documenti che vuole acquisire e soprattutto la richiesta sia omogenea». Agostino Sussarellu (Sassari), Savina Ortu (Cagliari), Mario Palermo (Nuoro), Maria Maddalena Giua (Medio Campidano), Antonio Onnis (Sulcis), Paolo Tecleme (Gallura), Giovanna Porcu (Oristano),Federico Argiolas (Ogliastra), Graziella Pintus (Brotzu), Giuseppe Pintor (Mista Sassari), Giorgio Sorrentino (Mista, Cagliari) nei loro interventi hanno rimarcato la piena disponibilità delle Aziende. E la soluzione è stata trovata: in ogni Asl ci sarà un responsabile dei rapporti con la commissione d’inchiesta e spetterà «a lui, in base alle richieste, garantire l’uniformità dei dati». A cominciare dall'andamento della spesa farmaceutica, agli appalti e alle gare, al costo del personale e a tutto «quanto attiene alla gestione negli ultimi dieci anni». ________________________________________________________ L’Unione Sarda 13 Mar. ’15 RAS: STOP AI MINI-OSPEDALI: MA SULLA RIFORMA È GUERRA Una riforma della sanità che parte da quello che doveva essere il traguardo. Lo scontro sul riassetto della rete ospedaliera si concentra su visioni opposte. Da una parte chi pensa che «sarebbe stato necessario riorganizzare il territorio», come sottolinea Ignazio Ganga (Cisl). Altro punto di vista quello dell'assessore della Sanità, Luigi Arru, convinto che «abbiamo tutelato le aree disagiate anche se le regole imposte dal ministero sono molto più severe». L'ATTACCO Il primo criterio su cui si fonda la rete è il numero di abitanti: perciò nei territori più periferici e meno abitati si lamenta il fenomeno dell'abbandono. Si teme che il “declassamento” degli ospedali sia il requiem per tutta la comunità. «Il progetto proposto dalla Regione - spiega Ganga - non offre serenità al territorio, rischia di mortificare le aspettative». Non a caso è proprio dai territori che arrivano le proteste più vibranti: «Sono stati messi in discussione molti presìdi, col rischio di aumentare i costi per le famiglie», sottolinea il rappresentante della Cisl. LA RETE La nuova geografia dell'Isola è stata costruita sul concetto di “rete”. Così, a Cagliari e Sassari ci saranno i cosiddetti Dea di secondo livello, ospedali con la maggiore specializzazione, per servire un bacino d'utenza di 600 mila abitanti. Nel resto della Sardegna ci sono ospedali di primo livello, quelli di base e quelli in particolari situazioni di zone disagiate. IL DISAGIO Eppure da gran parte della Sardegna ci sono state manifestazioni e proteste per non smantellare gli ospedali esistenti. «In Ogliastra abbiamo mantenuto un ospedale rinforzato nonostante non si raggiunga il minimo di 80 mila abitanti», spiega Arru. PUNTI NASCITA Altra questione spinosa riguarda la chiusura dei punti nascita. La quota minima di parti annuali, imposta dal ministero, è 500. Questa cifra assicura o meno la qualità e la diseconomia di un punto nascita, almeno secondo i calcoli fatti dalla politica. In Sardegna, dopo trattative e proteste, sono stati messi in salvo con deroghe quelli di Lanusei, La Maddalena e Tempio, nonostante nessuno raggiungesse la quota parti richiesta. In altre zone, come Carbonia e Iglesias c'è stata la fusione tra i due ospedali per garantire la sopravvivenza del centro. «Il problema di questi punti nascita è che se si dovesse verificare una situazione di emergenza è necessario avere la struttura. È un'assunzione di responsabilità». I TERRITORI I distretti per le cure territoriali dovrebbero sopperire all'assenza di strutture ospedaliere. Almeno per le patologie croniche e per il primo intervento. «Si tratta di coinvolgere i medici di famiglia, infermieri e altre figure professionale per assicurare il presidio», spiega Arru. La situazione è però ancora in fase di costruzione e «senza il loro potenziamento non si potranno garantire alla Sardegna le condizioni di omogeneità nell'offerta dei servizi alle persone», lamenta Ganga. C'è un progetto che si lega a quello sulla banda larga nei Comuni dell'interno e «riguarda la possibilità di monitorare le malattie con la trasmissione dei dati a una centrale con un operatore». Matteo Sau ________________________________________________________ QS 11 Mar. ’15 ORARIO DI LAVORO. DIRETTIVA EUROPEA VALE ANCHE PER GLI SPECIALIZZANDI. L’Anaao rende noto il parere del Ministero della Salute "E’ di ieri la risposta del Ministero della salute ad una precisa richiesta della nostra Associazione che mette una pietra tombale su ogni tipo di interpretazione machiavellica della norma, ribadendo che le disposizioni contenute nella direttiva sull'orario di lavoro 2003/88/CE si applicano anche ai medici in formazione". Così il sindacato della dirigenza medica interviene sulla questione specializzandi. IL PARERE DEL MINISTERO DELLA SALUTE 12 MAR - "Nonostante la diffida Anaao Assomed inviata in dicembre ai Rettori degli atenei italiani, continuiamo a ricevere segnalazioni di gravi irregolarità riguardo l’applicazione della recente normativa sugli orari di lavoro da parte dei Direttori di Scuola di Specializzazione. Come è ormai noto, il 25 novembre 2015 è entrata in vigore la legge 161/2014 riguardante la normativa europea in materia di orario di lavoro e riposi per i professionisti sanitari (D.lgs. 66/2003 – 2003/88/CE). Essa vale anche per i medici in formazione, nonostante qualche accademico abbia sollevato dubbi in proposito, di fatto infrangendo volontariamente la legge". Così l'Anaao, in una nota, torna a ribadire la validità del nuovo orario di lavoro anche per gli specializzandi. "Anche l’Osservatorio Nazionale per la Formazione medico-specialistica del Miur ha recentemente formulato un parere con il quale ha ribadito che 'l’impegno richiesto per la formazione specialistica […] è in ogni caso pari a quello previsto per il personale medico del Ssn a tempo pieno e pertanto vanno considerati anche per il medico in formazione specialistica analoghi schemi di impegno orario giornaliero'. Il parere di tale Osservatorio - prosegue la nota - è purtroppo stato oggetto di bieca strumentalizzazione da parte di alcuni atenei italiani, che sono incredibilmente arrivati ad affermare, con congetture bizzarre e pindariche, che la normativa non valeva per i medici in formazione. E’ di ieri la risposta del Ministero della salute ad una precisa richiesta della nostra Associazione che mette una pietra tombale su ogni tipo di interpretazione machiavellica della norma, con buona pace degli Universitari dissidenti: 'Le disposizioni contenute nella direttiva sull'orario di lavoro 2003/88/CE, che consolida e sostituisce le precedenti direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, si applicano anche ai medici in formazione'”. "L’Anaao Assomed si è finora astenuta nel segnalare le numerose irregolarità all'ispettorato del lavoro per i medici in formazione, pur già esistendo tutti i formali requisiti per poterlo fare, ma ora si rende necessario far partire una seconda e ultima lettera di diffida, così che nessuno potrà appellarsi al 'Ma io non lo sapevo'. Anaao Giovani auspica che la legge venga dunque finalmente rispettata da tutti i Direttori di Scuola di Specializzazione, senza se e senza ma, e - conclude - invita tutti i giovani colleghi a partecipare alla nostra survey sull’applicazione della normativa sugli orari di lavoro nell’ambito formativo universitario post-laurea". 12 marzo 2016 ________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 Mar. ’15 AOUCA:. RICERCA UNIVERSITARIA: TRA DICEMBRE E MARZO IL CONCEPIMENTO Settembre è il mese dei bebè: un ormone influenza la nascita È settembre il mese in cui nascono i bebè cagliaritani. Ma la luna piena e le stelle non c'entrano niente. A influire sulle nascite dei bambini, secondo uno studio dei ricercatori della Clinica di ostetricia e ginecologia del Policlinico universitario, è un ormone che si rafforza col buio nella stagione invernale: la melatonina. È sufficiente un semplice calcolo e andare a ritroso di nove mesi per individuare tra dicembre e marzo i giorni più proficui per il concepimento. Non è un semplice calcolo statistico, la scoperta è fondamentale nella terapia sulla fertilità e permette di diminuire le false aspettative e risparmiare ingenti quantità di denaro pubblico. LA RICERCA Gian Benedetto Melis è il direttore dell'équipe cagliaritana che ha collaborato con la facoltà di Modena per ottenere un risultato che a prima vista può sembrare banale, ma che ha ripercussioni importanti nella vita di una coppia e della comunità. «Nello studio delle gravidanze ci siamo sempre occupati di ritmi: dalla pubertà, al ciclo mestruale per finire alla menopausa. Aiutandoci con le statistiche abbiamo scoperto che il periodo più fertile per una coppia è tra dicembre e marzo. In particolare, nel nostro emisfero, tra il solstizio d'inverno e di primavera». Quindi stelle e astri influiscono nel successo di una gravidanza? «No - afferma Melis - tutto è legato alla melatonina che regola il ciclo veglia-sonno e che ha il massimo di secrezione durante la notte. Questo ormone va a sommare la sua efficacia con gli spermatozoi che, sempre nello stesso arco temporale, sono più mobili e aumentano le percentuali di successo di una coppia. Tra dicembre e marzo, quando le giornate sono più corte, abbiamo registrato un maggior numero di gravidanze che si traducono in parti. Lo scorso settembre al Policlinico sono stati 159 su un totale di circa 1700». A COLPO SICURO La ricerca dello staff del Policlinico ha notevoli riflessi soprattutto dal punto di vista economico. Individuando il periodo di fertilità si riducono i tentativi e, spesso, i viaggi della speranza all'estero alla ricerca di una gravidanza. In soldoni il calcolo è presto fatto. Chi si rivolge a una struttura pubblica deve pagare il ticket di 300 euro per ogni tentativo di fecondazione (dosaggi ormonali ed ecografie): in media almeno tre. Chi ha fretta e possibilità economica può sempre rivolgersi alle cliniche private fuori dall'Isola, ma deve mettere in conto una spesa di almeno 5mila euro. AUGURI E FIGLIE FEMMINE Se prima a una coppia si auguravano figli maschi ora è meglio incoraggiare l'arrivo delle femmine. Al Brotzu l'anno scorso sono nati 521 maschi e 386 femmine. Anche in questo caso è necessario sfatare la leggenda sul numero più elevato di bebè femmina. È vero il contrario, anche se il rapporto tra i sessi si inverte verso i 40 anni: la mortalità degli uomini, nella prima fascia d'età, è superiore. Andrea Artizzu ________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 Mar. ’15 UNISS: L'INFEZIONE CHE PORTA ALLA SCLEROSI Una scoperta dell'Università di Sassari Dietro l'insorgenza di Sclerosi multipla e Diabete 1 possono nascondersi comuni infezioni. È la tesi di due studi effettuati da un'équipe di ricerca di Microbiologia del Dipartimento di Scienze Biomediche dell'Università di Sassari, guidata dal professor Leonardo Sechi, talmente promettenti da meritarsi la pubblicazione sulle pagine della prestigiosa rivista “Scientific Reports - Nature”. Alla base dell'ipotesi formulata dai ricercatori sardi ci sarebbe la correlazione tra la Map (una paratubercolosi a carico degli allevamenti di ruminanti), il virus Epstein Barr (responsabile invece della mononucleosi infettiva negli uomini) e la comparsa di patologie autoimmuni come la Sclerosi multipla e il Diabete di tipo 1, sia in età adulta che in quella pediatrica. Due patologie, per di più, ad altissima incidenza in Sardegna. «La scoperta indica la necessità di dotarsi di piani efficaci di controllo delle infezioni, in particolare della Paratubercolosi - spiega Leonardo Sechi - infatti, il Map è un patogeno altamente resistente, diffuso in circa il 50-60 per cento degli allevamenti in Sardegna». L'ultima aggiornamento in merito è stato pubblicato ieri, e riguarda appunto l'associazione fra il Map, il virus di Epstein Barr (EBV) e antigeni (ossia sostanze riconosciute come dannose dal sistema immunitario) affini a quelli coinvolti nella Sclerosi Multipla dell'uomo. «Lo studio ha evidenziato la presenza di anticorpi contro questi antigeni sia nel sangue, che nei fluidi del sistema nervoso dei pazienti affetti da Sclerosi Multipla», spiega Giuseppe Mameli, ricercatore del Dipartimento di Scienze Biomediche e primo autore dell'articolo. «Inoltre è stata osservata una produzione di anticorpi che mette in evidenza l'importanza del ruolo dei linfociti B (le cellule che appunto producono anticorpi) in entrambe le malattie». L'incrocio di risultati, emersi durante la lunga ricerca effettuata anche in collaborazione con le professoresse Eleonora Cocco e Maria Giovanna Marrosu dell'Università di Cagliari, attribuirebbero perciò alle infezioni di paratubercolosi e virus di Epstein Barr una corresponsabilità nell'insorgenza di Sclerosi Multipla. Un'ipotesi già tracciata da un precedente studio, anche'esso effettuato nell'Isola, pubblicato a gennaio sull'“European Journal of Neurology” proprio da Sechi e Mameli, insieme ai professori Giordano Madeddu e Roberto Manetti del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell'Università di Sassari. Un secondo filone di ricerca sta indagando invece sul rapporto tra la paratubercolosi dei ruminanti e il Diabete di tipo 1. Un altro articolo firmato a fine febbraio dal gruppo di ricerca capeggiato da Sechi ha esteso il pericolo anche ai malati più piccoli. «Non solo i pazienti affetti da diabete di tipo 1, ma anche i bambini a rischio di diabete esaminati nelle strutture romane dell'Università di Tor Vergata, mostrano sia anticorpi contro la paratubercolosi che quelli omologhi presenti nei diabetici», spiega Magda Niegowska, dottoranda del corso in Life Science and Biotechnologies e prima autrice della pubblicazione. Infine, lo scorso gennaio, una ricerca su un gruppo di piccoli pazienti sardi dell'Ospedale Brotzu di Cagliari aveva osservato come i bambini venuti a contatto in tenera età con il batterio responsabile della paratubercolosi dei ruminanti, potessero attivare la risposta autoimmune contro le cellule beta del pancreas, portando in poco tempo alla loro distruzione e, quindi, alla comparsa di diabete. Luca Mascia ________________________________________________________ Corriere della Sera 08 Mar.‘16 Via all'anno accademico IL SAN RAFFAELE SCEGLIE LA DOPPIA DATA PER IL TEST DI MEDICINA Test di ingresso a Medicina a settembre, quest'anno, per le future matricole dell'università Vita-Salute del San Raffaele, prima dell'estate si svolgerà soltanto l'esame per il corso in inglese: «Per l'International Md Program doppia data: i130 marzo, per gli studenti non Ue, e i131 maggio», spiegano in ateneo. L'università l'anno scorso aveva organizzato i due test i119 marzo, e si erano presentati oltre tremila candidati per i cento posti di Medicina e altri 700 per i 70 del corso in inglese. Nuovo calendario allora, l'ateneo lo ha comunicato ieri nel giorno dell'inaugurazione dell'anno accademico. Presentati i nuovi programmi per Filosofia e Psicologia e i risultati raggiunti dall'ateneo. «Superata la crisi fra 2011 e 2013, l'integrazione con l'ospedale è completa e i dati sono positivi», ha spiegato il rettore Alessandro Dal Maschio che ha ricordato i 30 candidati per posto di Medicina e ha parlato di «luci e ombre» per i corsi senza test, con iscritti in calo a Biotecnologie mediche e alla magistrale di Psicologia e in aumento a Scienze Filosofiche. L'ateneo ha annunciato l'accordo con l'Università della Svizzera Italiana per una laurea magistrale, in inglese, a Psicologia: due semestri a Milano due a Lugano e titolo valido nei due Paesi. Nuova laurea magistrale a Filosofia: «Con una cattedra in memoria di Giuseppe Rotelli — ha detto il rettore — arriverà un docente di calibro internazionale». Federica Cavadini ________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 Mar. ’15 CONGELATI GLI SCIOPERI DEI MEDICI Sanità. Sospeso per 60 giorni dai sindacati il fermo che il 17 e 18 marzo avrebbe bloccato ospedali e studi Governance, professione, contratti, formazione, precariato. Il Governo apre ai sindacati dei medici e promette di scrivere a caratteri cubitali la"questione sanità" nell’agenda dei prossimi mesi. Anzi, già delle prossime settimane. E i sindacati, compatti, apprezzano quanto meno l’impegno, decidendo di sospendere lo sciopero di due giorni, ormai imminente, di giovedì 17 e venerdì 18 marzo prossimi, che avrebbe bloccato ospedali e studi dei medici di famiglia. Una sospensione di sessanta giorni, non ancora una revoca. Che intanto, però, consente sia ai dottori d’Italia, sia al Governo di "vedere" le carte che entrambi hanno in serbo. E di tracciare una road map capace di coniugare sostenibilità del Servizio sanitario, equilibrio dei conti (o addirittura l’aumento delle risorse) e le robuste aspettative delle categorie. Una scommessa, quasi un salto mortale doppio, da vincere appunto in sessanta giorni. Un clima «cordiale e costruttivo», hanno detto gli stessi sindacati, ha caratterizzato il vertice di ieri a palazzo Chigi con le ministre Beatrice Lorenzin (Salute) e Marianna Madia (Pubblica amministrazione) e del sottosegretario della presidenza del Consiglio, Claudio De Vincenti. Un incontro voluto dal Governo per fermare gli scioperi alle porte e, insieme, per cercare di rispondere alle richieste dei camici bianchi, via via cresciute come una valanga in questi mesi. Tra il «Patto per la salute» da applicare, contratto e convenzione scomparsi, ruolo dei medici e loro rapporto con le altre professioni sanitarie, servizi negli ospedali al contagocce e difficoltà sempre maggiori di svolgere la professione. Fino all’ultimo caso: il decreto sulle prestazioni inappropriate che taglia 203 visite ed esami specialistici: un ginepraio di difficile applicazione, sul quale è in preparazione una nuova circolare ministeriale per fare chiarezza ed eliminare errori anche marchiani. Intanto il Governo - Lorenzin e Madia, ma anche, si prevede, la ministra dell’Università, Stefania Giannini - ha dato ieri l’avvio alla nascita di appositi tavoli di lavoro. A partire dall’impegno preso dal Governo di confermare i livelli di finanziamento oggi previsti al Ssn e di garantire in tutta Italia allo stesso modo l’erogazione dei Lea (livelli essenziali di assistenza), oggi concessi a macchia di leopardo. Se davvero tutte le Regioni ce la faranno. I tavoli saranno essenzialmente dedicati a cinque temi cruciali, si aspettano i sindacati: la «valorizzazione» e il «ruolo centrale» della professione medica (nelle asl, negli ospedali, nel territorio); il coinvolgimento nelle scelte sulle progressioni di carriera e nei rapporti con le professioni sanitarie; i contratti flessibili e la graduale stabilizzazione dei precari; la riforma del sistema di formazione pre e post laurea; le trattative per i rinnovi contrattuale. Temi delicati, che da tempo vedono su opposte sponde rispetto ai medici il Miur o le professioni sanitarie (sulla formazione o sui ruoli di medici e infermieri, ad esempio) e le stesse Regioni. Come accade per la «centralità» che i medici reclamano. Tutto starà a vedere come ciascun capitolo verrà declinato. E cosa vorranno le Regioni. E il Mef, che deve fare i conti, verificare, magari aprire la borsa della spesa. Quella che da anni viene stretta, o meglio, ridotta. © RIPRODUZIONE RISERVATA Roberto Turno ________________________________________________________ Il Sole24Ore 11 Mar. ’15 LORENZIN: «NIENTE TAGLI ALLA SANITÀ, ABBIAMO GIÀ DATO. ANZI SERVONO PIÙ RISORSE» Roma Ma non è che dopo la lettera di Bruxelles all’Italia e in vista dell’autunno, la sanità farà ancora una volta da bad bank dei risparmi della spesa pubblica? «La sanità ha già dato e sta dando parecchio. La spending review sta funzionando. Aggiungo come ministro della Salute che ci servono risorse per il personale e per la farmaceutica ospedaliera». Il giorno dopo la tregua siglata mercoledì a Palazzo Chigi con i medici, che hanno sospeso per 60 giorni, gli scioperi programmati, Beatrice Lorenzin mette le carte in tavola. Non vede tagli all’orizzonte, anzi. E traccia una road map dei tavoli con i sindacati. Ai medici garantisce, e chiede, «condivisione». Fa capire che potrebbero non esserci sanzioni per garantire l’appropriatezza delle prestazioni con quei tagli contestati a 203 interventi. E tende la mano: «La sanità cammina sulle gambe di chi ci lavora». Sarà una nuova stagione? Ministro, con i medici è tregua. Soddisfatta? Certo, mi fa davvero molto piacere. Le richieste e il ragionamento fatti dai sindacati sono condivisibili. Richiedono anzitutto un metodo. A partire dal fatto che la sanità è non solo al centro dell’agenda per il ministro della Salute, che è scontato. Ma lo è per tutto il Governo. Vuol dire? Che è decisiva la condivisione sui temi più sentiti e importanti nel prossimo periodo per garantire la sostenibilità del sistema sanitario, insieme a un corretto “funzionamento” delle professioni sanitarie. Non dimentichiamo mai che la sanità cammina sulle gambe di chi la porta avanti, di chi la sostiene. Lei ha detto di essere in una posizione di “ascolto”: cosa vuol dire? Vogliamo risolvere i temi in sospeso. Contratto e comparto dedicato, su cui la collega Madia ha dimostrato una grande apertura; l’accesso alla professione e la qualificazione professionale. Anche temi che mi sono da sempre a cuore, come i percorsi di valorizzazione del merito e delle competenze, al di là della solita carriera. Serve l’attenzione e la cura di tutti. Come per il blocco del turn over, il precariato, l’accesso alla professione. Non vogliamo lasciare niente di incompiuto. Forse non faremo tutto insieme, in alcuni casi ci vorrà più tempo. Ma l’importante, lo ripeto, è che ci sia un metodo di lavoro da seguire insieme con l’impegno e la consapevolezza comuni. I dottori reclamano un ruolo centrale nel Ssn. L’importante è che ci sia un premio per le competenze e che si affrontino le nuove sfide dei modelli organizzativi. I medici devono essere in prima linea nel dibattito e nelle decisioni. Quando arrivano le nuove regole sull’appropriatezza delle prestazioni, con quei tagli a più di 200 interventi? Arriveranno prestissimo. Ho incaricato gli uffici di correggere alcune cose che si sono dimostrate inefficaci e anche alcuni errori strutturali. Non c’è nessuna sanzione per i medici in questo momento. E io spero che comunque non ci sia bisogno di prevedere un meccanismo sanzionatorio. Ma un meccanismo nel quale i medici ci aiutino a camminare insieme per l’appropriatezza delle prestazioni. Nelle trattative qualcosa si concede, ma anche qualcosa si chiede in cambio. Cosa chiede lei ai medici? Che ci aiutino nella valorizzazione delle competenze e del merito. Che si assumano anche la responsabilità nei confronti di chi non applica le regole condivise insieme. Altrimenti non riusciremo mai a far funzionare questa macchina, che deve camminare insieme a loro. Senza sarebbe impossibile. Per farcela servono però anche più fondi. Ci sono? Io penso che le risorse ci siano. Soprattutto se l’andamento dell’economia continuerà a segnare “più” in previsione dei prossimi anni. Credo che da questo punto di vista possiamo lavorare con ottimismo. Nessuna preoccupazione per la lettera e gli eventuali cartellini gialli di Bruxelles? La sanità non sarà chiamata ancora una volta a tagliare? In questi anni abbiamo dovuto lavorare con le preoccupazioni che conosciamo, perché la situazione non era facile. Ma voglio essere ottimista, sono ottimista. Insomma, niente sanità bancomat o bad bank dei risparmi? La sanità ha già dato, e sta dando, parecchio in questi anni. Lavoriamo alla spending review, che sta producendo ottimi risultati, con l’obiettivo di reinvestire i risparmi. Detto questo, come ministro della Salute aggiungo che abbiamo necessità di risorse per il personale e per la spesa farmaceutica ospedaliera . © RIPRODUZIONE RISERVATA Roberto Turno ________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 Mar. ’15 TUTELA DEL PAZIENTE. ?È FONDAMENTALE UN DECISO PASSO IN AVANTI DELLE REGIONI NELL’ATTUAZIONE DEL FASCICOLO SANITARIO ELETTRONICO Serve un circolo virtuoso tra privacy e sanità L’esigenza di protezione della privacy rischia di impedire la corretta erogazione delle cure sanitarie? Questa domanda, così come è stata posta, esige una risposta chiara, perché su questo terreno si incrociano non solo i due diritti fondamentali alla protezione dei dati personali e alla tutela della salute, ma anche priorità legate all’ammodernamento del nostro Paese e all’attuale agenda politico-economica; dall’ottimizzazione dei servizi alla semplificazione delle operazioni con conseguente riduzione dei tempi e dei costi. Superfluo, ma forse necessario, ricordare che è l’esistenza stessa di una pluralità di diritti e di valori a racchiudere in sé la possibilità di un loro conflitto e la conseguente definizione dei limiti che essi reciprocamente incontrano nell’ordinata convivenza civile. La via d’uscita è il loro bilanciamento che deve essere operato anzitutto dal legislatore e che, in ogni caso, non può mai comportare la prevalenza assoluta dell’uno sull’altro. Va poi osservato che la relazione di reciproca integrazione fra privacy e salute trova una composizione che non sempre e non necessariamente comprime al “contenuto essenziale” uno dei due diritti in discussione ma, al contrario, li può rafforzare entrambi nella salvaguardia della dignità della persona. Nel processo di digitalizzazione della sanità, in particolare nell’ambito delle banche dati contenenti le informazioni sullo stato di salute dei pazienti accessibili dagli operatori sanitari, la volontà virtuosa di velocizzare le procedure e migliorare i servizi ha portato alla proliferazione di archivi “delocalizzati”: i cosiddetti dossier sanitari elettronici istituiti presso ciascuna struttura sanitaria. In assenza di una cornice normativa in materia, il Garante ha svolto un ruolo di supplenza quando, nel giugno 2015, ha emanato apposite Linee guida per provare a dare un po’ di ordine a iniziative disomogenee, con lo scopo di garantire l’esattezza, l’integrità e la disponibilità dei dati, nonché la protezione da rischi di accessi non autorizzati o trattamenti non consentiti. Ciò al fine di assicurare un reale potere di scelta in autodeterminazione informativa del paziente, in un quadro di tutela della salute più forte, perché fondato su dati esatti e aggiornati, al riparo da indebite comunicazioni che purtroppo spesso sono state segnalate e affrontate dall’Autorità. Ci chiediamo allora: perché mancano le norme di legge sul dossier sanitario? La risposta è semplice: perché il legislatore ha scelto un’altra strada e ha investito su un altro strumento, il fascicolo sanitario elettronico che ha il pregio, rispetto al dossier sanitario, di accumulare le informazioni cliniche non di una singola azienda, bensì di tutti gli organismi sanitari di ogni Regione. Questo percorso ormai è ben tracciato e condiviso: il Parlamento ha approvato la legge, il Ministero ha emanato il regolamento, e anche il Garante ha dato un contributo importante, nel senso di rafforzare le garanzie in termini di potere di scelta consapevole dei pazienti e di irrobustimento delle fondamentali misure di sicurezza nella comunicazione e conservazione dei dati. Oggi, a fronte di statistiche ancora basse sulla diffusione dei fascicoli sanitari attivati, spetta alle Regioni un passo deciso sia nella direzione della definitiva attuazione del percorso di implementazione sia, al contempo, nel far comprendere ai cittadini l’importanza che questo strumento riveste per l’erogazione delle cure migliori, perché consente al medico che ci cura in un ospedale di poter attingere alle informazioni precedentemente raccolte presso una struttura sanitaria situata in un’altra provincia dello stesso territorio regionale. È all’interno delle regole correttamente definite, anche con il contributo del Garante, che si migliora la garanzia del diritto alla salute con la semplificazione degli adempimenti, la velocizzazione delle procedure, la riduzione dei costi delle prestazioni sanitarie: alla certezza che le informazioni registrate siano esatte (e quindi anche le conseguenti diagnosi e prognosi) si accompagna la consapevolezza che esse siano condivise doverosamente (ma esclusivamente) dai soli medici curanti, al riparo da accessi indesiderati, non dovuti ma, soprattutto, lesivi per la nostra dignità. Autorità Garante per la protezione dei dati personali © RIPRODUZIONE RISERVATA Licia Califano ________________________________________________________ La Gazzetta del Mezzogiorno 13 Mar.‘16 CHI FA LE SCALE A PIEDI HA IL CERVELLO PIÙ GIOVANE Cercate l'elisir di gioventù eterna? Gli ingredienti alla sua base sarebbero due: salire e scendere le scale a piedi, e studiare. La scoperta si deve ai ricercatori della Concordia University di Montreal (Canada), che sono giunti a conclusioni molto precise: l'età del cervello diminuisce di 0,58 anni per ogni piano di scale che si sale o scende quotidianamente e di 0,95 anni per ogni anno di studio. Diversamente da altre attività fisiche, molti anziani possono salire le scale senza problemi almeno una volta al giorno, preservando così le proprie capacità mentali. Lo studio ha preso in esame oltre 300 persone sane con un'età compresa tra i 19 e i 79 anni ________________________________________________________ Repubblica 06 Mar.‘16 CHE IL LASER SIA CON TE Il dispositivo, quello che Maiman aveva costruito di rubino. L'idea primigenia era stata di Albert Einstein, che nel 1917 aveva descritto l'"emissione stimolata di radiazioni". Ma per là prima parte dell'acronimo, cioè per l—amplificazione della luce" così prodotta, ci volle del tempo: un po' perché serviva una certa tecnologia, un po' perché la comunità scientifica aveva già abbastanza da fare con il resto delle idee di Einstein e con la fisica del Novecento. Una volta accesa quella luce color rubino a Malibu, però, bastarono due anni perché un laser entrasse in una sala operatoria, e si trovasse a lampeggiare tra le mani di un oculista. Oggi la maggior parte dei laser discendono da quello, e sono fatti come il nome descrive. «Ma da allora si sono evoluti tantissimo», spiega Paolo De Natale, direttore dell'Istituto nazionale di ottica ( Ino ) del Cnr, che ha la sede sulle colline di Arcetri ( Firenze) davanti alla villa di Galileo Galilei. «La luce laser è nata nella regione del visibile, per questo se diciamo laser pensiamo a una luce colorata. Ma poi siamo riusciti a coprire regioni dello spettro elettromagnetico via via sempre più ampie E allargare la copertura dello spettro significa allargare le possibilità di applicazione del laser». Per esempio, «nell'infrarosso si possono distinguere bene le molecole: molecole semplici, come la CO2, e molecole complesse, come quelle biologiche». Quindi i laser diventano cruciali per produrre sensori di inquinamento o nuovi strumenti di studio in biologia, e in futuro anche di diagnosi. Oltre, al confine con il regno delle microonde, nella regione delle frequenze terahertz, si possono produrre fasci di luce non visibile a cui molti materiali sono trasparenti: «e pensate che vantaggio per i sistemi di sicurezza, come quelli in aeroporto». Da quelle parti dello spettro c'è un nuovo tipo di laser: il laser a cascata quantica. «All'Ino ci stiamo lavorando sin da quando fu inventato, circa venti anni fa. Da allora studiamo la fisica di queste sorgenti, che intanto sono diventate sempre più compatte e versatili e oggi si possono usare a temperatura ambiente», prosegue De Natale. Strumenti basati su questo laser si usano già, per distinguere l'anidride carbonica prodotta bruciando combustibili fossili da quella da fonti rinnovabili e per datare reperti archeologici. Dalla parte opposta dello spettro c'è un'altra grande sfida per il futuro: «produrre laser che diano radiazioni a lunghezze d'onda così corte da permettere di costruire circuiti elettronici sempre più piccoli. Tanto da fare mega computer grandi come telefonini», spiega Massimo Ferrario, dei Laboratori Nazionali di Frascati dell'Infn. Solo che qui la tecnologia convenzionale non basta più. «Per andare oltre l'ultravioletto la prossima rivoluzione saranno i cosiddetti laser a elettroni liberi — prosegue Ferrario — cioè laser in cui a essere stimolata è una nuvola di elettroni non legati a nuclei atomici: a seconda di quanto ti accelero, posso generare radiazioni di lunghezza d'onda diversa, anche molto corta, come raggi X». Il primo laser di questo tipo fu costruito nel 1977 e oggi al mondo ne esistono pochi, anche perché si tratta di macchine enormi. «La grande sfida consiste proprio nel ridurne le dimensioni e i costi così da renderne possibile l'uso negli ospedali, nelle università e nelle industrie». Uno oggi si trova nel laboratorio Elettra Sincrotrone Trieste e si chiama Fermi: «è un oggetto di trecento metri con caratteristiche uniche», spiega Claudio Masciovecchio, che ne è il responsabile scientifico. «Con questo laser possiamo studiare la materia fino al singolo atomo, e capire nel dettaglio come funzionino certe proteine. Per esempio quelle dei processi della fotosintesi, che è un sistema di produzione dell'energia di grandissima efficienza», e che sarebbe quindi bello essere in grado di copiare. Intanto il laser ha permesso di costruire orologi atomici super precisi, di quelli che perdono meno di un secondo durante tutta la vita di un Universo, su cui si basano oggi i nostri sistemi di posizionamento satellite- re. E sarà «il connubio tra informatica e laser a fare davvero la rivoluzione», prevede De Natale. Comunque, che cosa ci riservi in futuro il laser non è facile provare a figurarselo: «negli anni sessanta chi studiava i laser veniva preso per matto: non immaginavamo certo come li avremmo usati oggi», chiosa ridendo Ferrario. Come dire che, per saperlo, possiamo solo continuare a seguire la strada indicata da quella luce rosso rubino che cinquantasei anni fa si è accesa a Malibu ________________________________________________________ TST 09 Mar.‘16 LOMBROSO AVEVA RAGIONE SI NASCONDONO NEL CERVELLO LE RADICI DELLA VIOLENZA" Un provocatorio modello spiega i Natural born killer "Oltre l'ambiente, determinanti biologia e genetica" NEUROSCIENZE STEFANO RIZZATO In principio fu Cesare Lombroso, e l'idea che sul volto fosse scritta la natura di un uomo. Che esistessero criminali per nascita, e la propensione alla violenza si vedesse nella forma di un cranio, in una fila di denti, in anomalie e deviazioni fisiologiche. Poi vennero la modernità, la crisi del positivismo, il rifiuto di tesi bollate come razziste. Ma la criminologia ha fatto il suo giro e ora dà ragione al suo fondatore. Almeno in parte. «Oggi lo sappiamo: la propensione al crimine e alla violenza non è solo effetto di fattori sociali: è il prodotto di tante componenti, ha radici anche biologiche e genetiche». A dirlo è Adrian Raine, psichiatra e criminologo inglese, autore del saggio «L'anatomia della violenza», edito da Mondadori. Un tomo sorprendente e vivace, che recupera e reinterpreta Lombroso, ma soprattutto apre una frontiera tutta nuova: la neurocriminologia. L'idea è cercare le basi del comportamento antisociale scrutando tra le pieghe del cervello. Usando le neuro- scienze e gli strumenti high tech. Fino ad arrivare a predire la propensione al crimine, incrociando parametri genetici, biologici, ma anche sociali. «La violenza è un comportamento complesso: non possiamo darne una spiegazione semplice», sorride Raine. È stato lui il protagonista del BrainForum 2016, che si è tenuto lunedì al teatro Franco Parenti di Milano, mentre oggi terrà una «lecture» all'Università di Torino. Doppia occasione per rilanciare quella che pare una provocazione. E che, invece, è il frutto di studi accurati e metanalisi brillanti. Quello che Raine propone è un modello «biosociale». Che spiega l'inclinazione alla violenza con due cause intrecciate: genetica e ambiente. Da una parte geni e cromosomi, dall'altra il contesto sociale. Il primo è il versante più inedito, se si parla di crimine e criminologia. Lo studioso mostra come il gene mutato «Mao-A» interferisca con le funzioni dei neurotrasmettitori e sia per questo associato ad impulsività e altri comportamenti a rischio. E indica altri geni - «5htt62», «Drd263», «Dat164» e «Drd465» - da collegare al comportamento antisociale e alla criminalità, perché regolano serotonina e dopamina. Poi c'è la parte più lombrosiana del saggio: quella che prova a leggere anche nella conformazione del cervello l'attitudine violenta o criminale. Raine si spinge fino ad associare ai comportamenti antisociali una serie di «anomalie cerebrali». Uno sviluppo incompleto della corteccia prefrontale, qualcosa che non va nella corteccia cingolata posteriore, disfunzioni per amigdala e ippocampo. Senza bisogno di portare a disturbi psichici veri e propri, questi difetti del cervello possono rendere una persona più incline al crimine. E Raine prova a dimostrarlo – tra l'altro - facendo tomografie sul cervello dei detenuti. E applicando il neuroimaging funzionale anche ai mariti violenti. «I nostri risultati - spiega - sfidano la prospettiva puramente sociale della violenza domestica e suggeriscono invece che esista una predisposizione neurobiologica». L'aspetto sociale è pienamente nell'equazione. Alla radice delle anomalie cerebrali Raine colloca sia cause genetiche sia cause ambientali, esterne. L'accento è sui primi anni di vita di una persona: quelli che determinano l'adulto di domani e la buona o cattiva strada che prenderà. Le scienze sociali lo dicono da un pezzo, ma ora si prova a dare una base neuroscientifica. «Fattori sociali come la malnutrizione o l'abbandono materno - spiega lo psichiatra - possono determinare l'esistenza di uno o più di quei difetti cerebrali che dicevamo. E i semi della violenza si diffondono addirittura nel periodo prenatale. C'è una relazione tra il fumo in gravidanza e la violenza da adulti. E quella tra sindrome alcolica fetale e la via del crimine è impressionante». Fumare o bere alcol durante la gravidanza espone il futuro bebè a danni cerebrali, ma non danni qualunque: proprio a quelli collegati al comportamento antisociale. È qui che si arriva a camminare su un ter- reno affascinante e delicato, con vista sul caro vecchio determinismo. Di questo passo la neurocriminologia potrà offrire, fin dal primo giorno di vita, il «profilo criminologico» di un soggetto. Con basi statistiche, incrociando dati genetici, biologici e ambientali, sapremo la propensione al crimine. «E potremmo arrivare - prosegue Raine - fermare il crimine prima che accada. Ma la domanda è questa: che fare con tutti questi dati? Siamo disposti all'idea di arresti preventivi per chi, sulla base di tutti i parametri, risulti ad alto rischio?» Il dilemma etico non è da poco. Anche perché per Raine non ci sono automatismi: i delitti non sono conseguenza diretta dei «cattivi geni» e delle anomalie cerebrali. Ma i concetti di libero arbitrio e di responsabilità paiono ridimensionati. «E tutto questo - dice lo studioso - si potrebbe usare nel modo sbagliato, come stigma nei confronti di chi è geneticamente o biologicamente propenso al crimine. Invece le nuove conoscenze ci dovrebbero portare a fare investimenti sui primi anni di vita dei bambini e sulla maternità. Ma anche a rivedere la giustizia. Ora sappiamo che non tutti gli uomini nascono uguali. Alcuni criminali scontano colpe non proprie, scritte nel cervello. La giustizia del XXI secolo può ancora ignorare tutto questo? Ma poi: l'idea di responsabilità che fine farebbe?» ________________________________________________________ La Gazzetta del Mezzogiorno 13 Mar.‘16 SE LA DIAGNOSI PASSA DAL CELLULARE l medici contano su smartphone e dispositivi indossabili per integrare la raccolta dati di Eugenio Santoro* Smartphone e applicazioni mediche sono sempre più utilizzati dai cittadini e dai pazienti. La loro diffusione potrebbe avere ripercussioni future non solo sul monitoraggio, sulla gestione e sulla prevenzione delle malattie, ma anche sul modo di fare ricerca medica. Gli scienziati e i ricercatori sono infatti concordi nel pensare che i dati raccolti da orologi, braccialetti, tecnologia indossabile, smartphone e applicazioni, una volta perseguito lo scopo per il quale sono stati raccolti dagli utenti, possano essere loro "donati" per essere sfruttati a fini di ricerca. Certamente è di questa idea la Apple, che circa un anno fa ha lanciato ResearchKit, una piattaforma software progettata per aiutare medici e scienziati a raccogliere dati attraverso gli Apple Watch e le applicazioni per iPhone e metterli in relazione con alcune specifiche patologie. I dati raccolti arrivano dall'applicazione "Salute" (è pre-installata sulle versioni più recenti del sistema operativo alla base degli iPhone) e riguardano i nostri stili di vita (numero di passi fatti nel corso della giornata, calorie ingerite, tipo di alimentazione, misure corporee) e altri dati sulla nostra salute. Altri provengono invece da applicazioni installate sullo smartphone e realizzate da terze parti (come per esempio Runtastic, la nota applicazione per misurare i nostri progressi nell'attività sportiva) oppure da applicazioni appositamente progettate e realizzate da enti di ricerca e centri universitari per condurre uno specifico studio. Una volta raccolti, i dati, privati di tutti gli elementi che possono condurre all'identità di chi li ha forniti, sono inviati direttamente sui server dei ricercatori dove saranno analizzati. La partecipazione alle ricerche è volontaria. Chiunque lo desidera può scaricare e installare le applicazioni sviluppate a fini di ricerca, ma solo chi avrà fornito un apposito consenso informato (cioè la propria approvazione a partecipare alla ricerca dopo aver preso visione della documentazione che ne attesta le finalità) potrà partecipare fattivamente con i propri dati. Numerosi centri universitari americani hanno iniziato a usare questa piattaforma per promuovere i propri studi. Per esempio esiste un'App che, per studiare l'autismo, usa la videocamera FaceTime HD dell'iPhone insieme a innovativi algoritmi di riconoscimento dei volti, e analizza la reazione emotiva dei bambini di fronte a una serie di video. Per lo studio del morbo di Parkinson è invece disponibile un'app che permette di misurare in modo preciso valori come la manualità, la memoria, l'equilibrio e l'andatura, tutte informazioni che possono aiutare i ricercatori ad avere una visione più chiara dei diversi sintomi della malattia. In ambito cardiovascolare esiste poi un'App che si serve di questionari ed esercizi pratici per aiutare i ricercatori a valutare in modo più accurato come l'attività fisica e lo stile di vita dei partecipanti siano correlati al rischio di malattie cardiovascolari, mentre in ambito oncologico ne è disponibile un'altra che indaga sugli effetti a lungo termine della chemioterapia utilizzata nella cura dei tumori al seno con l'obiettivo di capire come migliorare la qualità della vita delle pazienti dopo questo tipo di trattamenti. Tra le applicazioni di ResearchKit iniziano a comparire quelle che acquisiscono dati direttamente dai dispositivi indossatili, come dimostra l'applicazione realizzata dai ricercatori della Johns Hopkins University per valutare se i sensori dell'Apple Watch possano rilevare insorgenza e durata di una crisi epilettica. Tali strumenti possono sostituirsi alle ricerche oggi in atto? Certamente no, ma possono aiutare i ricercatori a integrarle. Per esempio l'impiego di ResearchKit può rivelarsi utile negli studi osservazionali, quelli cioè che cercano una relazione causa/effetto tra i dati raccolti e lo sviluppo di alcune patologie con l'obiettivo di generare delle ipotesi che poi saranno valutate con appositi studi condotti in modo tradizionale, oppure in quelli che permettono di identificare precocemente i segni di alcune malattie. Ad ogni modo i vantaggi associati all'impiego di questa piattaforma software sono numerosi, a cominciare dalla maggiore accuratezza dei dati raccolti e dalla loro immediata disponibilità che permette di rendere più rapido l'arruolamento dei pazienti (in uno degli studi attivati, in una sola giornata è stato reclutato un numero di pazienti che attraverso le vie tradizionali si sarebbe raggiunto in sei mesi). Non bisogna tuttavia dimenticare i pericoli di questi strumenti, primo tra i quali il fatto che i dati raccolti sono custoditi sul nostro smartphone, e che pertanto dobbiamo imparare a proteggerli (per esempio con meccanismi di password) più di quanto non avvenga oggi. Oggi le applicazioni di ResearchKit sono disponibili solo per gli utenti che posseggono uno smartphone della Apple, ma per il prossimo aprile è previsto il lancio di ResearchStack, un'analoga piattaforma che permetterà di sviluppare applicazioni per la ricerca che siano compatibili con il sistema operativo Android e con la maggior parte dei dispositivi diversi da quelli di Apple. Iwitter @eugeniosantoro email: eugento.santoro@marlonegri.it Laboratorio di Informatica medica 1RCCS - Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri" ________________________________________________________ Il Resto del Carlino 13 Mar.‘16 UNA STUDENTESSA SU QUATTRO FA USO DI PSICOFARMACI Oltre il 48,2 dei ragazzi è dedito al gioco d'azzardo GLI SPINELLI? Per gli studenti delle scuole riminesi non sono affatto un tabù. Uno su tre, infatti, ammette candidamente di averne fatto uso. Tra le giovanissimi spopolano invece gli psicofarmaci: una ragazza su quattro dichiara di averli assunti per i più disparati motivi, che vanno dalla per dita di peso alla cura dell'insonnia E poi c'è il gioco d'azzardo. Quasi un ragazzo su due, di recente, ha ceduto alla tentazione delle slot machine o del grana e vinci. E un quadro tutt'altro che rami curante quello fotografato dall'ultima inchiesta del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che ha preso in considerazione l'utilizzo di sostanze illegali tra la popolazione giovanile scolarizzata delle diverse province dell'Emilia Romagna I dati si riferiscono alle abitudini degli studenti, maschi e femmine, di età compresa tra i 15 e i 19 anni, nel corso del 2014. La cannabis guida la classifica delle droghe più diffuse tra gli adolescenti. A Rimini, il 35,6% dei ragazzi e il 25,5% delle ragazze ha provato a fumar e gli spinelli, mentre il 31,6% dei maschi lo ha fatto di recente. Il 3,5% dei giovani ha ‘sniffato' almeno una volta cocaina (4,6% se si considerano solo i maschi), mentre il 4 % ha scelto di sballarsi con gli allucinogeni (funghi, ketamina ed Lsd). La percentuale di utilizzo degli stimolanti (amfetamine, ecstasy e Ghb) si attesta al 3,8%, mentre quella dell'eroina è ferma all'1,4%. Ma è l'alcol la vera piaga degli adolescenti riminesi. L'89,1% del campione ha infatti ammesso di averlo consumato in modo abituale nel corso della sua vita Una pratica sempre diffusa, tra i giovani delle nostre scuole, è quella del `binge drinking'. Pratica che in sostanza consiste nel tracannare almeno cinque consumazioni alcoliche di fila, fino a stordirsi o p ne o ancora a collassare. Il 31% dei giovani tra i 15 e i 19 anni dichiara di essersi cimentato di recente in questa sorta di maratona alcolica, che in certe occasioni può concludersi anche con il trasporto in pronto soccorso. Altra tendenza che sta prendendo sempre più è legata all'utilizzo degli psicofarmaci. Le pillole vanno di moda soprattutto tra le ragazze. Il 23,3% le ha assunte, mentre il 12,8% lo ha fatto di recente. Più bassa la percentuale tra i maschi (11,8%). Il vizio della sigaretta ha contagiato invece almeno un adolescente su due (il 54% dichiara di aver filmato più o meno frequentemente durante la sua vita). Infine c'è il gioco d'azzardo Rimini si conferma maglia nera in Regione, con una percentuale di diffusione tra i maschi che raggiunge il 48,2% (29,7% per le femmine). Un dato di gran lunga superiore a quello dei ragazzi di Bologna (seconda provincia in Regione), fermi a quota 39,8%. Lorenzo Muccioli ________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Mar. ’15 SE AI GIOVANI LA «PRIMA VOLTA» FA ANCORA PAURA di Michela Mantovan quel primo incontro con l’amore, con il piacere e la paura del corpo, è sempre un passaggio di vita, ormai liberato dell’antico senso di imposizione. Ma si discute ancora del momento «giusto». In origine era la verginità, ora si dice «prima volta». Perché quel primo incontro con l’amore, con il piacere e la paura del corpo, è sempre un passaggio di vita, una svolta che lascia il segno, ma si è liberato dell’antico senso di «imposizione» consegnandosi alla sfera dell’intimità, dove il contesto socio-culturale non pretende più prove né requisiti. Resta un momento delicato, che oggi risente di una doppia ambivalenza. Da una parte infatti avere il primo rapporto sessuale «troppo presto» comporta i rischi di una scelta non ponderata il cui significato simbolico andrebbe elaborato e inserito in un percorso di costruzione dell’identità — e non sempre i pre-adolescenti hanno gli strumenti per gestire le conseguenze emotive della prima volta, che per una ragazza su dieci in Italia avviene sotto i 14 anni. Dall’altro lato arrivare all’appuntamento «troppo tardi» implica un sentimento di vergogna e di inadeguatezza, con il conseguente timore di essere rifiutati dalla comunità dei coetanei. Nell’inchiesta di Radio27 abbiamo raccolto pareri di esperti come Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva; di genitori come Cecilia Storti, mamma di cinque figli di età compresa tra i venti e i dodici anni, che con il tempo ha accettato di rivedere le sue certezze su sessualità e matrimonio; della scrittrice Melissa Panarello, oggi trentenne, che nel 2003 scandalizzò con il romanzo di educazione sessual- sentimentale «100 colpi di spazzola prima di andare a dormire» e nel 2011 ha pubblicato «In Italia si chiama amore», viaggio fra pudori e trasgressioni, vizi privati e pubbliche virtù degli italiani. In epoca di sessualizzazione precoce, con un flusso continuo di stimoli e pressioni da più direzioni che collegano gli indici di popolarità degli adolescenti nel «gruppo» direttamente all’esperienza sessuale, i ragazzi si sentono spesso chiamati a prove di potenza fisica senza potersi dare il tempo di collegare corpo e mente, mentre le ragazze sono spinte verso un’immagine sempre più standardizzata, sexy, ammiccante. «I nostri figli non giocano più a fare i grandi — spiega Alberto Pellai — ma dispongono fin da subito di tutti gli strumenti per indossare un’identità “adultizzata” che non conosce passaggi graduali. Non hanno bisogno di prediche ma di essere aiutati a porsi le giuste domande». Lì dove fino agli anni Sessanta il tabù era il sesso, oggi è la verginità a spaventare, riflette Melissa Panarello: «In quest’ansia di crescere il più in fretta possibile, liberarsi di quel peso diventa un rito iniziatico». Ma approdare alla sessualità non equivale a scoprire il piacere, di fronte al quale — soprattutto al piacere delle donne — la società prova ancora imbarazzo. Melissa P. ha pagato un prezzo per «100 colpi di spazzola»? «Certo. Le donne non devono avere voglie, desideri, tanto meno scriverne — per di più, la scrittura femminile è carnale, corporea. Il problema non si pone per gli uomini». Buon ascolto. Maria Luisa Agnese Maria Serena Natale ________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Mar. ’15 È TROPPO PRESTO O TARDI? PERCHÉ LA VERGINITÀ CI FA ANCORA PAURA SCOPRIRE L’ULTIMO DEI TABÙ In origine era la verginità, ora si dice «prima volta». Perché quel primo incontro con l’amore, con il piacere e la paura del corpo, è sempre un passaggio di vita, una svolta che lascia il segno, ma si è liberato dell’antico senso di «imposizione» consegnandosi alla sfera dell’intimità, dove il contesto socio-culturale non pretende più prove né requisiti. Resta un momento delicato, che oggi risente di una doppia ambivalenza. Da una parte infatti avere il primo rapporto sessuale «troppo presto» comporta i rischi di una scelta non ponderata il cui significato simbolico andrebbe elaborato e inserito in un percorso di costruzione dell’identità — e non sempre i pre-adolescenti hanno gli strumenti per gestire le conseguenze emotive della prima volta, che per una ragazza su dieci in Italia avviene sotto i 14 anni. Dall’altro lato arrivare all’appuntamento «troppo tardi» implica un sentimento di vergogna e di inadeguatezza, con il conseguente timore di essere rifiutati dalla comunità dei coetanei. Nell’inchiesta di Radio27 abbiamo raccolto pareri di esperti come Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva; di genitori come Cecilia Storti, mamma di cinque figli di età compresa tra i venti e i dodici anni, che con il tempo ha accettato di rivedere le sue certezze su sessualità e matrimonio; della scrittrice Melissa Panarello, oggi trentenne, che nel 2003 scandalizzò con il romanzo di educazione sessual- sentimentale «100 colpi di spazzola prima di andare a dormire» e nel 2011 ha pubblicato «In Italia si chiama amore», viaggio fra pudori e trasgressioni, vizi privati e pubbliche virtù degli italiani. In epoca di sessualizzazione precoce, con un flusso continuo di stimoli e pressioni da più direzioni che collegano gli indici di popolarità degli adolescenti nel «gruppo» direttamente all’esperienza sessuale, i ragazzi si sentono spesso chiamati a prove di potenza fisica senza potersi dare il tempo di collegare corpo e mente, mentre le ragazze sono spinte verso un’immagine sempre più standardizzata, sexy, ammiccante. «I nostri figli non giocano più a fare i grandi — spiega Alberto Pellai — ma dispongono fin da subito di tutti gli strumenti per indossare un’identità “adultizzata” che non conosce passaggi graduali. Non hanno bisogno di prediche ma di essere aiutati a porsi le giuste domande». Lì dove fino agli anni Sessanta il tabù era il sesso, oggi è la verginità a spaventare, riflette Melissa Panarello: «In quest’ansia di crescere il più in fretta possibile, liberarsi di quel peso diventa un rito iniziatico». Ma approdare alla sessualità non equivale a scoprire il piacere, di fronte al quale — soprattutto al piacere delle donne — la società prova ancora imbarazzo. Melissa P. ha pagato un prezzo per «100 colpi di spazzola»? «Certo. Le donne non devono avere voglie, desideri, tanto meno scriverne — per di più, la scrittura femminile è carnale, corporea. Il problema non si pone per gli uomini». Buon ascolto. Maria Luisa Agnese Maria Serena Natale ________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Mar. ’15 SECONDO L’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ OLIO DI PALMA INNOCUO Secondo l’Istituto Superiore di Sanità i rischi per la salute con l’olio di palma dipendono in realtà dalla quantità Maggiore attenzione con i bimbi È più ricco di grassi saturi rispetto ad altri oli vegetali a uso alimentare. Essendo molto diffuso in prodotti industriali bisogna tenerlo presente C’è chi lo considera l’ingrediente più pericoloso sulle nostre tavole e chi ne ridimensiona i possibili effetti negativi, chi lo vede come il fumo negli occhi e chi pensa che non sia diverso da altri tipi di grassi: sull’olio di palma ci sono due agguerrite fazioni contrapposte, chi ha ragione? Per fare chiarezza, su richiesta del Ministero della Salute, l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) si è espresso con un parere sulle conseguenze per la salute dell’olio di palma: un documento che sottolinea come questo olio di per sé non possa definirsi “tossico”, ma tutto dipenda da quanto se ne consuma. «La criticità deriva dal contenuto di grassi saturi, pari a circa il 50% del totale e più alta rispetto a quello di altri oli vegetali a uso alimentare: un eccesso del consumo di grassi saturi, che si trovano anche in carne, formaggi, latte e uova, è infatti associato a un maggior rischio cardiovascolare — spiega Marco Silano, uno degli autori del documento —. L’olio di palma perciò non è rischioso di per sé, lo diventa quando se ne introduce troppo; essendo presente in molti prodotti alimentari industriali dei quali si fa largo consumo ( cracker, biscotti, cibi pronti, merendine, ndr ), la probabilità di eccedere con le quantità può essere reale». Per capire l’impatto dell’olio di palma sulla dieta degli italiani, i ricercatori hanno misurato l’introito di grassi saturi contenuti naturalmente nei cibi e quelli dell’olio in questione aggiunto ai prodotti dall’industria alimentare. «Abbiamo usato gli unici dati di consumo degli alimenti validati scientificamente e suddivisi per fasce d’età, raccolti 10 anni fa dall’Inran (oggi Crea), stimando così la frequenza di uso dei prodotti contenenti olio di palma; quindi, abbiamo aggiornato il dato valutando le etichette attuali per i contenuti di grassi saturi — dice Silano —. La situazione è certo cambiata in 10 anni, ma per stimare il consumo di olio di palma non potevamo utilizzare fonti incerte come i dati di importazione, perché non sappiamo poi quanti prodotti finiti vengano esportati e quindi non siano consumati in Italia, o quelli sulle vendite al dettaglio. I dati di natura commerciale non ci dicono chi mangia davvero quei prodotti in famiglia, quante volte, in quanto tempo». L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda che l’assunzione di grassi saturi di qualunque natura non superi il 10% delle calorie giornaliere. «Le nostre stime indicano che nei bimbi italiani questa percentuale va dall’11 al 18%, negli adulti si attesta attorno all’11% — sottolinea l’esperto —. Ciò significa che nei bambini dovremmo fare più attenzione e contenere i consumi di grassi saturi in generale. Le stime dell’Iss rilevano inoltre che nei bambini dai 3 ai 10 anni circa il 70% dei grassi saturi deriva dal consumo di alimenti quali carne, latte, latticini e uova, il rimanente 30% da snack, biscotti, gelati e cioccolato, onnipresenti nella dieta dei più piccoli. Riguardo l’olio di palma in particolare, non esiste una specifica ragione di salute per evitarne il consumo; tuttavia bisogna mantenere l’assunzione di acidi grassi saturi entro i limiti raccomandati garantendo allo stesso tempo un adeguato apporto di alimenti contenenti acidi grassi mono e polinsaturi (come olio di oliva e pesce). Perciò è bene moderare il consumo dei prodotti che contengono alte percentuali di grassi saturi e sono assunti con maggiore frequenza, il tutto nell’ambito di stili di vita sani e di una dieta varia ed equilibrata che comprenda anche alimenti naturalmente apportatori di grassi saturi». Insomma, un biscotto con olio di palma non uccide nessuno. Certo non si deve esagerare. «Oltre ai bimbi, altre categorie che dovrebbero prestare particolare attenzione all’introito di grassi saturi sono gli adulti obesi, ipertesi, con dislipidemie o che abbiano già sofferto di patologie cardiovascolari», conclude Silano, che dichiara di non aver alcun conflitto di interessi sull’argomento. Elena Meli ________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Mar. ’15 LA CONFERMA IMMUNITÀ PIÙ EFFICACE SE I BIMBI «SI SPORCANO» Nella prevenzione delle allergie alimentari alcuni punti fermi sono ormai assodati. Vale lo stesso per le allergie respiratorie. Secondo le stime i pazienti con rinite allergica sono il 25-30% della popolazione, ma le proiezioni ipotizzano un 2020 in cui la metà dei bambini e degli adolescenti dovrà fare i conti con un’allergia respiratoria. Per invertire la rotta dovremmo mettere in atto tutte le strategie di prevenzione possibili, fin da prima della nascita: «Ormai è sicuro, infatti, che se la mamma fuma durante la gravidanza il rischio di allergie dei figli aumenta — spiega Giorgio Walter Canoni ca, presidente della Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (Siaaic) —. Anche l’inquinamento urbano favorisce l’ipersensibilità: si è visto per esempio che le particelle che derivano dai motori diesel aumentano la produzione di immunoglobuline E nei bronchi ed è ormai dimostrato il paradosso della città, ovvero il fatto che le pollinosi siano più diffuse nei centri urbani che in campagna, dove l’esposizione alle piante è maggiore. Colpa dello smog e dell’ “eccesso di pulizia” dei bimbi metropolitani: non incontrare germi contro cui ci si deve difendere fa deragliare il sistema immunitario, che si attiva contro sostanze innocue come i pollini. Il consiglio? Far giocare i bambini piccoli con la terra, al parco, senza paura che si sporchino». E magari sfruttare tutte le occasioni per respirare aria buona in campagna, al mare o in montagna. Più controverso l’effetto degli animali domestici sul rischio di allergie: le ricerche hanno dato risultati contrastanti ed è difficile, a oggi, essere certi che un gatto o un cane con cui convivere fin dalla nascita o quasi sia protettivo o, al contrario, non crei piuttosto i presupposti per allergie future. «C’è invece accordo sull’uso dei probiotici per prevenire riniti e allergie in generale: esistono ormai molti dati che indicano l’opportunità di introdurli fin da piccoli, soprattutto in chi è più a rischio», osserva Canonica. Probiotici specifici consumati con regolarità infatti hanno un effetto positivo sulla composizione della flora batterica intestinale, con conseguenze benefiche sul grado di infiammazione e sull’equilibrio della risposta immunitaria. Quando l’allergia c’è, per prevenire le crisi si può solo provare a evitare l’incontro coi pollini: consultare i bollettini pollinici, respirare col naso, non uscire nelle ore più calde quando i pollini sono più concentrati o in caso di temporali, perché come ha dimostrato Gennaro D’Amato, pneumoallergologo del Cardarelli di Napoli, «temporali e “bombe d’acqua”, sempre più comuni per colpa delle variazioni del clima, durante le stagioni polliniche possono innescare crisi gravi: i pollini, soprattutto nelle prime fasi dell’evento atmosferico, gonfiano e poi si rompono riuscendo a penetrare in profondità nelle vie aeree, tanto da scatenare asma anche in chi di norma ha solo una rinite allergica». E. M. ________________________________________________________ Corriere della Sera 13 Mar. ’15 IL BOOMERANG DELL’AGONISMO «Non arrenderti! Ancora uno sforzo!». «Sei a un passo dalla vittoria!». Sono le parole rivolte di solito da un allenatore agli atleti di cui cura la preparazione. Ma sono anche le formule di incitamento che scandiscono ormai la vita quotidiana di ciascuno, formule che, anzi, ciascuno ripete spesso tra sé e sé, quasi fosse il proprio personal trainer. Come mai? Immaginiamo forse di vivere tutti come atleti? Pensiamo sia un dovere l’esercizio, il perfezionamento continuo? Aspiriamo a primeggiare? Ebbene, occorre ammetterlo, condividiamo, anche se inconsapevolmente, una concezione agonistica dell’esistenza. Il fenomeno ha assunto negli ultimi anni contorni più nitidi e proporzioni sempre più vaste. Al punto da spingere i filosofi a interrogarsi su ciò che caratterizza l’agonismo diffuso, sui motivi che lo provocano, sulle ripercussioni etiche e politiche. Perché questo è almeno certo: che le generazioni che ci hanno preceduto, quelle delle nostre madri e dei nostri padri, non concepivano la propria vita come una gara incessante. Il che non vuol dire che non si mettessero in gioco o che si sottraessero alle sfide. Che cos’è cambiato allora negli ultimi vent’anni? La questione è più complessa di quel che appare a prima vista. Senza dubbio la concorrenza è il cardine dell’economia capitalistica, che ha mostrato i suoi effetti esiziali non solo nel consumismo sfrenato, ma anche nell’ingiunzione alla crescita, nella spinta propulsiva, e nondimeno distruttiva, a produrre sempre di più. Tuttavia l’estremizzazione della sfida, l’inseguimento del prestigio, il sogno della superiorità, che si accompagnano perfino a un certo disprezzo per il denaro, sembrano tradire — come osservava già Jacques Derrida — una provenienza non economica. Se parole come valutazione, classifica, selezione, merito, prevalgono nel discorso pubblico, indirizzano i programmi politici, improntano il lessico dell’economia, è perché il modello competitivo ha un successo incontrastato. La competizione viene vissuta come la modalità prima di relazione, con se stessi e con gli altri, quasi fosse una legge primordiale. Non c’è più quasi lembo di vita che si sottragga al modello della gara. Non vediamo più il mondo, attraverso le lenti di Marx, solo come un grande magazzino di merci, né più solo come un immane spettacolo; per noi è sempre più lo spazio planetario di innumerevoli e differenti gare che si intersecano e si succedono a ritmo vertiginoso e nelle quali siamo ininterrottamente coinvolti. Il paradigma agonistico ha un’estensione e una profondità tali da poter essere considerato uno dei tratti peculiari della nostra epoca. La visione imprenditoriale della vita, su cui attirava l’attenzione Foucault, non è sufficiente a spiegare il fenomeno nel suo complesso. Né basta puntare l’indice sull’alleanza che da tempo lega il pensiero liberale alle scienze sociobiologiche, basate, nella vulgata, sulla lotta per la sopravvivenza. Se il mito agonistico si è imposto nel neoliberalismo attuale, è perché questo è la versione ultima della razionalità moderna che — come ha visto Heidegger — ruota intorno al calcolo, a ciò che è quantitativo, a ciò che è oggettivo. Ecco perché lo sport svolge nella vita attuale un ruolo senza precedenti. Si può essere sedentari, e seguire tuttavia un modello sportivo di vita dove l’imperativo categorico è primeggiare. L’uomo nuovo è l’atleta. Non è un caso che manager e soprattutto politici, da Clinton a Sarkozy, a Cameron, accettino volentieri di essere ripresi mentre fanno jogging o corrono in bicicletta. Sono dunque l’economia e la politica a piegarsi, quasi, allo schema dello sport. Il successo del paradigma sportivo-agonistico va ricondotto all’esigenza di farsi valere in un mondo dove tutti sono — o dovrebbero essere — uguali in partenza, in cui cioè, secondo i dettami della democrazia, non ci sarebbe margine per nessun privilegio e il merito sarebbe oggettivamente misurabile. In breve, la gara sportiva assurge a modello della competizione democratica. Perché si tratta di un confronto aperto a tutti, dove le prestazioni agonistiche sono quantificabili, dove i tecnici, in veste di arbitri imparziali, proclamano vincitore il migliore. Proprio per questo lo sport, praticato prima da una élite, è divenuto fenomeno di massa. In un libro dedicato a questo tema Alain Ehrenberg ha parlato di «culto della performance». Lo sport concilierebbe concorrenza e giustizia — anche se la giustizia non sarebbe che il diritto del più forte. Non importa poi che lo sport, tra doping, trucchi e corruzione, sia ben lontano da questo miraggio. L’importante è che resti l’ideale di una gara corretta, perché oggettiva, il cui responso è incontestabile. Chi ha vinto, e ha battuto il record, è migliore, è anzi superiore. Di qui lo spazio enorme che gli sportivi hanno nella sfera pubblica e nei media; osannati come eroi nazionali, vengono presi come veri e propri maestri di vita. Eppure, lo sportivo che ha vinto, ha vinto per sé, non ha combattuto per gli altri; è un eroe isolato che può essere solo ammirato da lontano. Dietro questa fiducia nel calcolo si cela la terribile convinzione che la vita possa essere ridotta a una gara. L’assunzione di questo agonismo, che porta con sé l’obbligo di vincere, ha conseguenze devastanti. Che ne è, infatti, di chi perde? Disagio, depressione, «passioni tristi», come le chiamava Spinoza, scandiscono questa tarda modernità. Ma qui non deve sfuggire un altro fenomeno correlato: il gioco d’azzardo. Chi si sente escluso, avviato alla sconfitta, tenta la mossa estrema. Il «rischia tutto!», messaggio reiterato dalla pubblicità, viene preso alla lettera: si mettono in gioco non solo i soldi, gli averi, ma il tempo, i legami affettivi, la dignità, la vita stessa. Da un lato il gioco d’azzardo appare la rivolta esterna all’agonismo, la scorciatoia per aggirare tutte le gare vincendo d’un colpo, dall’altro ne è solo la versione parossistica che porta quasi sempre alla rovina. Se la vita è una gara, un percorso finalizzato alla vittoria, la morte è l’ultima sfida — con inquietanti effetti per la bioetica. E su questo ha invitato di recente a riflettere Remo Bodei. Perché in extremis , nonostante le vittorie accumulate, si viene comunque sconfitti. Il modello agonistico, per l’affinità persino etimologica tra gara e guerra, ostenta non di rado tratti bellici. E se il confronto umano si riduce a uno strenuo misurarsi con gli altri, il conflitto — come già sottolineava Thomas Hobbes — è inevitabile. Se qualcuno vince, qualcun altro deve perdere. Di più: l’altro, se non si erge ad allenatore o arbitro, serve solo a identificare meglio la nostra posizione in classifica, o a riconoscere magari la nostra vittoria. Per il resto l’atleta, che ciascuno di noi dovrebbe essere, punta a essere leggero e flessibile, liberandosi da ogni relazione e da ogni responsabilità. Collabora solo di tanto in tanto o, come si dice, «fa squadra», cioè si aggrega temporaneamente in vista di un avversario comune. Poi fa ritorno a sé. E continua a competere — ma con se stesso. Nell’età in cui domina l’incantesimo scientista della cifra, il fascino perverso di statistiche, classifiche, sondaggi, la valutazione impronta la vita intera. Si dilata a tutte le età (basti pensare a quel che avviene nelle scuole e negli atenei), non risparmia la politica e il mondo dello spettacolo. La valutazione fa anzi spettacolo, come dimostrano programmi quali MasterChef , The Voice of Italy e i numerosissimi reality . Occorre essere «in forma», belli, sani, abbronzati — a ogni prezzo, con ogni sforzo. Non per vivere una vita migliore, bensì per vincere. Dal dentista alla palestra, dall’estetista al corso di lingua: la giornata diventa un lungo training, un immenso addestramento. Eccelle chi resiste eroicamente. Ma l’esercizio non è forse encomiabile? E il desiderio di perfezionamento non va elogiato? Si può rispondere con Peter Sloterdijk, quando riflette su quella che chiama l’antropotecnica del postumanismo. Abbiamo ereditato dal Novecento la figura dell’oltreuomo, la spinta a sfidare i vincoli fisici, a superare ogni limite. Siamo tutti acrobati. Ci misuriamo con difficoltà sempre maggiori. La nostra esistenza è una «prestazione acrobatica». Ma il nostro atletismo eroico è una «ascesi de- spiritualizzata». Abbiamo perso la trascendenza e il senso della verticalità. Procediamo in solitudine, lungo una fune tesa non in alto, ma raso terra — come aveva intuito Kafka. Malgrado la tensione e lo stress, rischiamo miseramente di inciampare a ogni passo. Si deve per questo condannare la competizione come tale? Certo che no. D’altronde nell’agone greco è sorta la stessa filosofia. È Nietzsche, il filosofo a cui non è sfuggito il tratto tragico-distruttivo del pensiero greco, a offrire nel suo scritto Agone omerico una indicazione decisiva. Nei versi di Esiodo scorge «due dee chiamate Eris». C’è una contesa buona, che «spinge al lavoro anche l’uomo inetto»; il vicino gareggia con il vicino, ma la gara, stimolata dall’invidia e dalla gelosia, tende al benessere. C’è invece una contesa cattiva che porta solo all’annientamento reciproco. Qui non si dà misura e trionfa perciò l’ambizione smisurata dell’unico genio. Per l’agone greco è indispensabile invece un secondo genio — nessuno deve essere per sempre il migliore. Altrimenti il gioco agonistico si esaurirebbe con grave danno per la città e la società politica. Ecco allora il male dell’agonismo moderno: è la cattiva Eris che da un lato favorisce la mediocrità aggressiva, dall’altro non conosce che un singolo, isolato vincitore.