RASSEGNA STAMPA 10 APRILE 2016 UN «TAGLIANDO» PER IL 3+2 AI RICERCATORI NON BASTA SOLTANTO LA CATTEDRA CUN: CLASSI DI CONCORSO SOTTO ACCUSA DALL’ISTRUZIONE +2,4% DI PIL NEL LUNGO PERIODO UNISS: UNIVERSITÀ IN CRISI, MA LA SALVEREMO» UNISS:LE LOW COST PER SALVARE L’UNIVERSITÀ CERVELLI ALL’ESTERO (MA NON IN FUGA) UNICA: MODIFICATE LE TABELLE ISEE UNICA: SUPERBIBLIOTECA NEL VECCHIO GARAGE DI INGEGNERIA UNICA: IL GRANDE ESEMPIO DEL PROFESSOR PANI UNICA: A SANT'ELIA UN OTTAVO DEI LAUREATI DI GENNERUXI FUORISEDE IN ???MOSSE 10 DOPPIO BINARIO PER LE SUMMER SCHOOL INGUSCIO: «LIBERARE LA RICERCA DAI VINCOLI DELLA PA» IL DISGELO CHE FA PERDERE L'EQUILIBRIO ALLA TERRA LA FINE DELL’INFORMAZIONE IL NUCLEARE COSTA ALL'UE 253 MILIARDI IL FISICO VISIONARIO CHE VUOLE COMPLETARE LA TEORIA DEL TUTTO QUANDO I DESIDERI ERANO IL DEMONIO COSÌ È NATO IL TIMOR DI DIO ========================================================= NUOVA RETE OSPEDALIERA E ASL UNICA ENTRO 90 GIORNI LA FORMAZIONE SPECIALISTICA DEI MEDICI VERSO UN NUOVO RESTYLING SPECIALIZZAZIONI MEDICHE. L’ALTOLÀ DELLE UNIVERSITÀ SOLDI PER SALTARE LE LISTE D’ATTESA A SALERNO LA SANITÀ CORROTTA CI COSTA 6 MILIARDI L’ANNO CORRUZIONE IN UNA ASL SU 3: COSTI PER 6 MILIARDI AOUCA: ABUSO D'UFFICIO E FALSO: ASSOLTO GIAN BENEDETTO MELIS TRUFFA ASL8: ASSOLUZIONE MALECI E VELLUTI ROVESCIAMO LA CLESSIDRA DEL WELFARE IL RAZZISMO DELL’ETÀ FARMACI E MEDICI, COMPENSI ONLINE IN CALO LA SPESA DEGLI ITALIANI PER I TICKET IN PRONTO SOCCORSO UNISS: PERCHÉ LE DONNE PRENDONO PIÙ ANTIBIOTICI SE L’ANTIDOLORIFICO È UN LUSSO NUOVE MODALITÀ PER DIAGNOSTICARE IL TUMORE ALLA PROSTATA CHE FISICO QUEL CERVELLO: FARE SPORT IN ETÀ AVANZATA AIUTA PACEMAKER COLLEGATI AL CERVELLO E IL PARKINSON DEVE ARRETRARE L'INTIMITÀ FEMMINILE RINASCE CON IL LIFTING L'AIDS USCÌ ALLA FORESTA AFRICANA VERSO IL 1920 NEI PAZIENTI CON CUORE AFFATICATO CURE EFFICACI RIDUCONO I RICOVERI QUELLI CHE «NON» GLI ASESSUALI (ITALIANI) VECCHI ANTIBIOTICI PER COMBATTERE LA RESISTENZA BATTERICA L'HIV PUÒ SVILUPPARE RESISTENZA A CRISPR-CAS9 ILARIA CAPUA: UNA RIVOLUZIONE VIRALE ========================================================= ________________________________________________________ Il Sole24Ore 05 Apr. ’16 UN «TAGLIANDO» PER IL 3+2 I tempi per trovare lavoro, il calo degli iscritti e i voti spie di un metodo da rifinire La contrazione della popolazione studentesca fa parte dei temi caldi dell’università. Il problema è rilevante, e non nuovo. L’introduzione nel 1999 del cosiddetto 3+2, ossia il passaggio, da corsi unitari di laurea, a due livelli in successione di corsi di laurea, il secondo dei quali denominato laurea magistrale, ha avuto un iniziale impatto positivo sugli ingressi in università. Dopo pochissimi anni, tuttavia, il processo si è interrotto. Dal 2004 le immatricolazioni iniziano a scendere e scendono con continuità: nel decennio successivo si riducono di quasi il 24%. Cause e possibili reazioni a questo processo sono un tema del tutto aperto, così come, più in generale, questione aperta è ancora una diretta e conclusiva valutazione degli esiti del 3+2. Proporrò qui qualche considerazione su due problemi, i quali offrono spunti di riflessione per quella valutazione. Un confronto europeo tra i tassi di occupazione dei giovani laureati vede l’Italia in una posizione di assoluto isolamento. Nella fascia di età 15-24 anni il tasso di occupazione dei laureati in Italia è il 21%, la media in Europa (a 27 paesi) è 56%. Il confronto con Germania (72%), Inghilterra (74%), Francia (54%), Spagna (40%) è oggi desolante. Nell’arco di 15 anni il nostro tasso di occupazione – 48% nel 2001 – si è più che dimezzato. Differenze egualmente pesanti, e forse ancor più significative, si registrano tra i 25-29enni. In questa fascia il tasso di occupazione dei nostri laureati è il 48%, contro una media europea pari al 79%. Anche in questa fascia la contrazione rispetto al 2001 è notevole, pari a 18 punti percentuali. In entrambe le fasce di età, infine, la componente maschile appare in maggior sofferenza. La pesante crescita dei tradizionali ritardi di ingresso dei nostri laureati nel mercato del lavoro è verosimilmente il risultato di un’ampia serie di circostanze. Al di là del loro peso, alcuni contributi sono innegabili: la nuova struttura del 3+2, con l’allungamento dell’intero percorso di laurea e i tempi morti del passaggio tra i due livelli; la notevole dimensione dei passaggi dalla laurea triennale al biennio magistrale; i ritardi nel conseguimento della laurea. Su questi ultimi, il Rapporto Anvur 2013 sullo stato del sistema universitario segnala che la media del tempo effettivo di laurea del triennio è ben 5 anni. Sotto questo aspetto, i nuovi corsi non hanno affatto attenuato l’antico problema delle lunghe permanenze in università. Senza pensare a una ormai impossibile, nuova modifica strutturale dei corsi di laurea, tutti e tre gli aspetti appena citati potrebbero essere affrontati con interventi correttivi diretti a una maggiore efficienza e sostenibilità della struttura 3+2. Una ripresa degli ingressi in università certo ne beneficerebbe. Il secondo problema, cui farò solo un breve cenno, emerge da una recente indagine sui voti di laurea. L’indagine segnala una differenza profonda tra i voti medi di laurea del triennio e della laurea magistrale. Riferendomi qui solo alla Facoltà di Economia, la differenza nell’anno 2012-2013 è intorno a ben 10 punti nelle due componenti di genere. La distribuzione dei laureati per fasce di voti di laurea rende più evidenti le differenze. Dando solo qualche dato, il 35% dei laureati triennali ha un voto di laurea compreso tra 66 e 90, mentre appena il 5% dei laureati magistrali si situa in questa fascia. Sul versante opposto delle votazioni altissime, il 12% dei laureati triennali ha un voto nella fascia 106-110/lode contro ben il 51% dei laureati magistrali. Le differenze nella componente femminile sono di analoga entità. Ora, una qualche riduzione, nel passaggio dal primo al secondo livello di laurea, delle quote di voti medio-bassi non sarebbe certo sorprendente. Ciò che colpisce è la notevole concentrazione dei laureati triennali nelle fasce di voti medio-bassi e la straordinaria concentrazione dei voti di laurea del biennio magistrale nella fascia alta-altissima. Un radicale mutamento di performance dalle lauree di primo livello a quelle di secondo livello emerge dunque con l’ordinamento 3+2. Molte circostanze possono naturalmente contribuire a questo divario di performance e il tema merita approfondimenti. È utile però escludere subito un’ipotesi: l’ipotesi che l’ottima performance del biennio dipenda dalla circostanza che solo un segmento di laureati triennali con votazioni comparativamente più alte si iscrive al biennio magistrale. L’ipotesi non regge per due connessi motivi: la notevole dimensione dei passaggi al biennio e perché la differenza tra il voto medio di laurea degli iscritti alla laurea magistrale e il voto medio dell’insieme dei laureati triennali è minima. Più interessante, ma tutta da verificare, è l’ipotesi che la modesta performance del triennio dipenda anche da un consapevole, diverso impegno degli studenti, nella opinione che il voto di laurea importante nell’accesso al mercato del lavoro sia il voto del biennio magistrale. Il fenomeno sottolineato riguarda non la sola facoltà di Economia, ma l’insieme delle facoltà. I dati richiamati segnalano due problemi. Di fatto, la capacità di selezione nel biennio magistrale risulta alquanto limitata. I segnali che le lauree magistrali comunicano al mercato del lavoro sono in rilevante misura indifferenziati. La selezione è certo più severa nel primo livello di laurea. Gli esiti di questa selezione, in secondo luogo, lasciano qualche timore sulla forza delle basi formative della laurea triennale. Una conclusiva considerazione. Il passaggio da una università di élite a una università di massa con un efficiente disegno di livelli differenziati di professionalità è un traguardo che l’attuale 3+2 non sembra aver raggiunto, almeno in larga parte delle nostre strutture. È tempo ormai di affrontare il problema e di approntare interventi correttivi. Paola Potestio ________________________________________________________ Il Sole24Ore 05 Apr. ’16 AI RICERCATORI NON BASTA SOLTANTO LA CATTEDRA I giornali nei giorni scorsi hanno dato ampio spazio agli interventi di Cattaneo, Gianotti, Angela sul tema della ricerca in Italia. Quando i media si occupano di ricerca o quando se ne occupa la politica (e le due cose, in genere avvengono insieme) salta all’occhio la scarsa, scarsissima conoscenza dei meccanismi di funzionamento e di finanziamento della ricerca e delle carriere in Italia e negli altri paesi, anche in quelli separati dal nostro da un unico confine. Un esempio? A oltre trent’anni dalla sua istituzione il mondo dell’informazione e molti decisori politici hanno ancora idee confuse su cosa sia il dottorato di ricerca e a cosa serva. Eppure il PhD in Italia compie 32 anni. Nemmeno i sindacati ne sanno molto, tant’è che alternativamente i dottorandi sono considerati “precari della conoscenza” oppure studenti con borsa di studio del terzo livello del Bologna process. Una bella differenza. E questo vale anche per gli imprenditori: pochi hanno compreso che l’innovazione non nasce sotto i cavoli ma richiede l’immissione in azienda di chi ricerca l’ha fatta per davvero. Se poco si sa del dottorato (che pure assorbe risorse ingenti) ancora meno si capisce della organizzazione del personale di ricerca all’università: la fase pre-professorale all’università è (ri)diventata una giungla. Forse non tutti sanno che nel sistema universitario italiano coesistono oggi ricercatori con il posto fisso (Rti), ricercatori con il posto quasi fisso (ma con la quasi certezza di diventare professori associati, Rtdb), ricercatori a contratto su budget dell’università, su finanziamenti competitivi e su finanziamenti privati (Rtda), assegnisti di ricerca pre-Gelmini e assegnisti post-Gelmini, e tecnici che pubblicano come gli altri perché variamente coinvolti nelle attività di ricerca. Interessi contrastanti: c’è chi, pur avendo “il posto fisso” vuole – a giusta ragione - fare carriera, e chi, essendo a contratto da molti anni, vuole avere “il posto fisso” e chi avendo una borsa di studio o un assegno ambirebbe a un contratto, e un dottorando a un assegno. E poi ci sono tutti quelli che aspettano la nuova tornata di abilitazioni scientifiche nazionali (Asn) per le promozioni e tutti quelli che l’abilitazione già ce l’hanno, anche tecnici, e temono l’arrivo di altri competitor. Un disastro. A cinque anni dalla sua entrata in vigore, è più che mai necessario un “assessment laico” delle conseguenze della legge Gelmini: il “ricercatore a tempo determinato di tipo A” è una complicazione inutile, per di più discriminato in base alla fonte del finanziamento, è una figura che andrebbe abolita. Come ponte tra università e imprese non funziona. La durata bloccata degli assegni di ricerca non è sostenibile come non lo è quella degli Rtdb (e infatti siamo già alle proroghe in entrambi i casi). Meglio rimuovere vincoli impossibili da rispettare. Va fatta ripartire la tornata di abilitazioni ma non senza misure di accompagnamento che riducano la pressione negli atenei nelle aree sature incentivando la mobilità interateneo. Ma attenzione. Le “chiamate da fuori” – sia nazionali sia internazionali - richiedono non solo il posto ma anche lo spazio in particolare nell’ambito scientifico e tecnologico. Uno scienziato ha bisogno di laboratori, di strumentazioni e di studi per il gruppo di ricerca. Chi farà spazio nei nostri affollati dipartimenti a uno che “viene da fuori” sapendo che promuovere un interno costa un quarto e non pone problemi di infrastrutture e di spazi? Bene quindi le nuove cattedre ma che siano accompagnate anche dalle sedie e dai banchi di laboratorio. Non dimentichiamo che immettere nel sistema studiosi e scienziati che si sono costruiti un C.V. e una posizione grazie alle proprie capacità, in competizione con altri, tanto più se all’estero, avrebbe effetti benefici e di lunga durata perché, una volta insediati, tenderebbero a riprodurre gli schemi che li hanno visti emergere non quelli che li hanno spinti a partire. Sarebbero Ogm di cui il nostro sistema della ricerca e della formazione ha drammaticamente bisogno. Subito. L’autore è Presidente dell’Istituto di Studi Superiori dell’Università di Bologna Dario Braga ________________________________________________________ Italia Oggi 05 Apr. ’16 CUN: CLASSI DI CONCORSO SOTTO ACCUSA Il Cun alla Giannini: il regolamento è da rifare. I prossimi laureati resteranno fuori Consentono ai nutrizionisti di insegnare pure matematica DI EMANEULA Micucci Un architetto del paesaggio come prof di matematica e fisica. Docenti di italiano e latino laureati in beni culturali. Nutrizionisti a insegnare matematica e scienze alle medie. Prof di informatica senza neppure un credito universitario di informatica. Stranezze delle nuove classi di concorso per l'insegnamento nelle scuole secondarie. A denunciarle, ribadendo al ministro Stefania Giannini, la richiesta di rivedere il regolamento per la razionalizzazione e l'accorpamento delle classi di corso a cattedre e a posti di insegnamento, varato lo scorso febbraio (d.P.R. n. 19 del 14 febbraio 2016), è stato nei giorni scorsi il Consiglio universitario nazionale (Cun) con una mozione. Poiché permangono tutte le criticità già segnalate in una raccomandazione dello scorso 14 settembre e in un documento di analisi e proposte dell'8 ottobre. Il Cun afferma «la necessità» di essere coinvolto nel riordino «quale principale organo di consulenza del ministro dell'istruzione per tutto ciò che concerne le classi di laurea e laurea magistrale», sottolinea il presidente Andrea Lenii Mentre il Consiglio nazionale dei chimici vi intravede la premessa per «l'intercambiabilità di professori con lauree molto diverse». Il regolamento, infatti, continua il Cun ad «accogliere soluzioni incoerenti con l'attuale struttura delle classi di laurea magistrale, capaci di produrre effetti distorcenti e di aprire a discriminazioni, causa di un esteso e motivato contenzioso». Si riscontrano classi di concorso a cui possono accedere «laureati magistrali privi di competenze indispensabili» ed non accessibili a laureati in classi di laurea magistrale che «chiaramente forniscono le competenze richieste». Così, scienze per la conservazione dei beni culturali, che è una laurea scientifica con esami di fisica, chimica, geologia, è titolo di accesso per l'insegnamento di italiano, latino, greco nei licei e discipline letterarie alle medie. Mentre il Cun indica di aggiungerla tra i titoli per insegnare scienze naturali, chimiche e biologiche. Nel decreto, inoltre, ci sono classi di concorso che richiedono requisiti «del tutto incompatibili con gli ordinamenti delle attuali lauree magistrali» e altre con «incongruenze tra i titoli del vecchio ordinamento». Ancora, classi di concorso affini per le quali si fissano «requisiti incoerenti» e altre per le quali questi sono «non correlati alle competenze necessarie per l'insegnamento delle discipline previste». Tra le criticità più gravi matematica e scienze alle medie: l'unica classe di laurea magistrale che può fornire le conoscenze necessarie per insegnarla è la LM-95 che, però, non è mai stata attivata. Di qui la a proposta del Cun: o cambiare classe di concorso, separando l'insegnamento della matematica da quello delle scienze, o attivare la classe LM-95, facendola diventare a regime l'unica d'accesso. Per il Cun, poi, è impossibile conciliare quanto richiesto dal regolamento con quanto previsto dalla Buona Scuola (art. 1, comma 181, lettera b.2) L. 107/201): «Il solo esito determinato dalla convivenza di queste disposizioni consiste nel precludere di fatto ai futuri laureati magistrali l'accesso alle classi di concorso individuate». Non meno duro il commento di Armando Zingales, presidente Consiglio nazionale dei chimici: è stato seguito «il principio di attribuire cattedre a soprannumerali in una certa disciplina, non quello di premiare la qualità dell'insegnamento o il bene degli studenti», «ancora una volta si concentra l'attenzione solo sugli aspetti meramente gestionali e finanziari della scuola». _________________________________________________________________ Il Sole 24Ore 04 apr. ’16 DALL’ISTRUZIONE +2,4% DI PIL NEL LUNGO PERIODO Il Governo continua a scommettere sulla “Buona scuola”.?La conferma giunge dal capitolo del Programma nazionale di riforma (Pnr) dedicato all’impatto macroeconomico delle riforme strutturali che, alla voce istruzione, prevede un +0,3% nel 2020 e +0,6% nel 2025. Con un balzo del 2,4% nel lungo periodo. Nel passare dalle stime agli interventi in agenda il documento fa il punto sulle principali novità introdotte dalla legge 107.?A cominciare dall’alternanza scuola lavoro obbligatoria negli ultimi tre anni degli istituti tecnici e professionali (per 400 ore) e nei licei (per 200): per farla partire ufficialmente manca la carta dei diritti e dei doveri degli studenti durante la formazione on the job che dovrebbe arrivare a giugno 2016. Mentre un mese dopo è attesa l’emanazione dei nove decreti legislativi che attuano le altrettante deleghe contenute nella “Buona scuola”.?Restando dalle parti del Miur degno di nota è anche il richiamo esplicito a un altro “Pnr”: il programma nazionale della ricerca che è atteso dal 2014 e che potrebbe arrivare sul tavolo del Cipe la settimana prossima. Varrà 2,5 miliardi nel triennio 2015-2017.?A cui se ne aggiungeranno 3,8 provenienti da programmi regionali e da Horizon 2020. _________________________________________________ La Nuova Sardegna 3 apr. ’16 UNISS: UNIVERSITÀ IN CRISI, MA LA SALVEREMO» di Gabriella Grimaldi SASSARI Di rischio chiusura il rettore non vuole neppure sentirne parlare. «È un’ipotesi che allo stato attuale, nonostante il periodo di grandi difficoltà che il nostro ateneo sta attraversando, non può essere presa in considerazione». Anche l’dea della fusione con altre università, peraltro incoraggiata a suo tempo dalla riforma Gelmini, a quanto dice Massimo Carpinelli non è mai stata vicina alla realtà «perché ci vorrebbe l’accordo di entrambe le università, un protocollo d’intesa che non può essere imposto per legge». Rischio chiusura. Lo spettro della cancellazione, che aleggia su altre strategiche istituzioni come ad esempio l’aeroporto di Alghero, sembra dunque essere distante dalle aule delle facoltà cittadine. Eppure certe cifre a guardarle fanno rizzare i capelli. Una fra le più inquietanti è quella degli iscritti: nell’anno accademico 2012/2013 erano complessivamente 14.437, oggi sono 13.182. Un calo del 4 per cento circa che, unito al fatto che il 17 per cento dei diplomati a Sassari sceglie di proseguire gli studi oltre Tirreno, fa emergere una scarsa attrattività dell’ateneo turritano. E siccome i fondi del ministero per il funzionamento ordinario sono ormai legati al numero di studenti regolari e al costo standard per ciascuno di loro si può dedurre che la parabola dell’università è in fase calante. «Non si può prescindere dal fatto che l’istituzione universitaria - dice il rettore in carica dal novembre 2014 - è strettamente legata al suo territorio. E un territorio dove il tessuto economico fa fatica a riprendersi, dove non ci sono grandi aziende, dove tutti i settori arrancano, non può sostenerla adeguatamente. Ecco perché molti giovani e le loro famiglie fanno un ragionamento legato alle possibilità di occupazione. È chiaro che se mi laureo a Milano avrò, forse, qualche possibilità in più di inserirmi nel mondo del lavoro». Dispersione scolastica. Ma il rettore sottolinea anche che non bisogna trascurare l’aspetto della dispersione scolastica: in Sardegna la percentuale di abbandoni, con il 25,5 per cento, è di gran lunga la più alta d’Italia (17 per cento) che a sua volta è la più alta d’Europa. «Da parte nostra - continua Carpinelli - abbiamo scelto di facilitare l’accesso alle facoltà anche dal punto di vista economico tenendo le tasse universitarie, che sono l’altra voce primaria di introiti oltre ai finanziamenti statali e a quelli regionali, a un livello tra i più bassi nel territorio nazionale». Le tasse. A Sassari l’importo, che varia a seconda del reddito, non supera nella media gli 800 euro. Al massimo si può arrivare a 1300 euro per ogni anno accademico mentre in una grande università del Nord si pagano in media 1600 euro. Ma anche questo “vantaggio” non basta a far svoltare l’ateneo turritano che pure fino ad oggi si è distinto a livello nazionale in alcuni settori che piacciono ai giovani come quello dell’internazionalizzazione: gli scambi Erasmus, per intendersi, che però oggi sono minacciati dall’esiguità di collegamenti col resto del mondo. I finanziamenti. Ad aggravare la situazione il sempre più marcato disimpegno economico del governo nei confronti delle università. Si pensi che nel 2010 l’ateneo di Sassari aveva ricevuto un Fondo di funzionamento ordinario pari a 76 milioni e 78mila euro. Nel 2015 lo stesso fondo è stato di 70 milioni e 969mila euro, a oggi gli uffici amministrativi non hanno idea di quanto il governo elargirà per il funzionamento del 2016. Di conseguenza se nel 2009 l’università di Sassari incideva per l’1,17 per cento del fondo totale, oggi incide per l’1,06. «È vero che esistono clausole di salvaguardia secondo le quali non ci può essere un calo dei finanziamenti superiore al 2,2 per cento - aggiunge Carpinelli - ma sto portando avanti una battaglia all’interno della Crui, la conferenza dei rettori, per far capire che le università sarde non possono essere trattate come le altre. Bisogna considerare tutta una serie di difficoltà determinate dall’insularità che invece oggi come oggi sono ignorate». Il futuro. Ma come si combatte per non affondare e per allontanare il famigerato rischio di chiusura? «Noi da un anno abbiamo ridotto al massimo gli sprechi per quanto riguarda le spese correnti - dice il rettore - e il bilancio è in pareggio. Lavoriamo all’aumento del numero degli studenti con l’efficienza dei servizi e tentiamo di incidere sulla quota premiale del fondo ministeriale incrementando il livello della ricerca (pubblicazioni e altro) e quello degli scambi internazionali». Fra le notizie buone per scacciare la paura, l’assunzione, finanziata dallo Stato, di undici ricercatori a tempo determinato che dopo tre anni potranno diventare professore associato e l’istituzione di due nuovi corsi di laurea: psicologia e cooperazione internazionale. LE CIFRE 13.182 IL NUMERO DEGLI STUDENTI ATTUALMENTE ISCRITTI ALLE VARIE FACOLTÀ DELL’UNIVERSITÀ CITTADINA 1568 IL NUMERO DEGLI STUDENTI LAUREATI NELL’ANNO ACCADEMICO 2014/2015 849 GLI STUDENTI LAUREATI IN CORSO 71 MLN L’IMPORTO DEL FONDO DI FUNZIONAMENTO DEL 2015 7% LA RIDUZIONE DEL FONDO DI FUNZIONAMENTO ORDINARIO RISPETTO AL 2010, ANNO IN CUI VENNERO STANZIATI 76 MILIONI E 78MILA EURO _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 10 apr. ’16 UNISS:LE LOW COST PER SALVARE L’UNIVERSITÀ di EUGENIA TOGNOTTI I voli low cost hanno offerto possibilità di crescita all’Ateneo turritano e creato un ponte vero tra l’isola e l’Europa. Non si può più ritornare indietro A su toppu s'ispina, allo zoppo la spina. Viene in mente questo suggestivo proverbio popolare considerando il sovrappiù di effetti negativi che l'abbandono di Alghero da parte della Ryanair può, potrebbe, comportare per l'Università di Sassari. Già 'azzoppata', come altri atenei meridionali, dalla scarsità delle risorse, dal drastico ridimensionamento di quello che si chiama il Fondo di Funzionamento Ordinario, collegato al numero degli studenti, la cui tendenza al calo, in parte fisiologico in un'isola a bassa natalità, è rafforzata dalla massiccia emigrazione studentesca verso Università delle aree più avanzate del Paese, in grado di offrire opportunità di accesso al mondo del lavoro. La buona riuscita dell'ultimo vertice sul futuro dell'aeroporto di Alghero tra i vertici del ministero dei Trasporti, Ryanair e la Regione; così come le soluzioni proposte, tra cui quella di un provvedimento straordinario per le regioni insulari, avanzata del presidente della Regione Francesco Pigliaru, fanno sperare nell'ottimismo della volontà dei 'negoziatori' istituzionali circa le possibilità - e non in tempi biblici - di uno sbocco positivo. Cosa che eviterebbe all'Università la 'spina' del divorzio tra Ryanair e la Sardegna. Che non preoccupa solo per l'inevitabile ricaduta dell'impoverimento del territorio e del suo tessuto produttivo sulla più alta istituzione educativa, per limitarci a questo aspetto, non certo secondario del problema. Ma che inquieta anche per il venir meno delle grandi potenzialità di crescita che la presenza di un vicino aeroporto e di un collegamento low cost assicura e assicurerà all'Ateneo turritano su molti piani, con lo stabilire un ponte tra l'isola, il resto d'Italia e l'Europa, in vista di un progresso del processo di internazionalizzazione avviato. Del suo valore strategico testimonia, semmai ce ne fosse bisogno, il caso dell'Università di Bergamo per la quale si è aperto un nuovo capitolo da quando Ryanair vola nel vicino aeroporto, di Orio al Serio, a 5 km di distanza dal centro di Bergamo e a 50 dal centro di Milano. Con mille stranieri su un totale di sedicimila studenti; sei corsi in inglese, divisi nelle tre aree di economia, management e turismo, si avvantaggia dei collegamenti quotidiani con Trapani, Lametia Terme, Cagliari, Brindisi, cosa che consente agli studenti residenti in altre regioni di tornare a casa per il fine settimana, con la modica spesa di 25 euro, una manciata di euro in più rispetto al costo del biglietto Sassari-Cagliari, 2 ore e più di viaggio. Mentre parecchi visiting professor sono messi nella condizione di fare lezione la mattina e tornare la sera nel loro Paese. L'università non è più la torre d'avorio che è stata per lunghi secoli. Nel primo Ottocento, il fisiologo torinese Luigi Rolando, autore del fondamentale "Saggio sopra la vera struttura del cervello", studia e fa ricerca nell'Ateneo turritano, del tutto isolato e "separato da ogni commercio scientifico", per riprendere le sue parole, in un tempo in cui i professori piemontesi diretti a Sassari per insegnare Anatomia e Materia medica dovevano affrontare una traversata di giorni per giungere a Cagliari e, da qui, ad Alghero. Il futuro dell'Università di Sassari dipende in qualche misura (anche) da Ryanair e da quello che si riuscirà a fare per superare il condizionamento dell'insularità e il problema dei trasporti. C'è da augurarsi che - accantonando, per una volta, divisioni, contrasti, sfiducia - le istituzioni, i gruppi politici, il mondo dell'imprenditoria, i sindacati, le forze sociali e culturali combattano la battaglia Ryanair mettendo in conto le esigenze di sviluppo dell'Università e quelle del territorio: la Sardegna non può essere destinata a diventare (a tornare ad essere?) l'isola più isola del Mediterraneo. ________________________________________________ La Nuova Sardegna 06 apr. ’16 UNICA: MODIFICATE LE TABELLE ISEE CAGLIARI Gli studenti universitari hanno vinto la loro battaglia sui tetti massimi di reddito (i modelli Isee e Ispe) per ottenere borse di studio e altri benefici. Il decreto che modifica i massimali è stato appena pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e presto anche la Regione si dovrà adeguare. In questi giorni, gli studenti erano scesi di nuovo in piazza per protestare contro «parametri definiti troppo restrittivi» e che «escludevano a priori diversi candidati dalle graduatorie». Alla denuncia degli studenti, in questi mesi si è affiancata anche la Regione, che aveva sollecitato al ministero l’abbassamento delle soglie. «Abbiamo ottenuto un risultato importante – è stato il commento dell’assessore alla Cultura Claudia Firino – In questi mesi, siamo stati sempre in prima linea e stando ogni giorno dalla parte degli studenti». Per poi aggiungere: «Il decreto è stato appena pubblicato e, ripeto, dopo la forte battaglia intrapresa in questi mesi per una Università che fosse sempre più equa e inclusiva, non posso che essere soddisfatta di aver raggiunto quest’obiettivo così a lungo perseguito anche in queste ultime settimane dagli studenti universitari sardi». La Regione si adeguerà subito ai nuovi parametri». La Regione dovrà prendere in carico le nuove tabelle e lo farà subito per permettere anche la riapertura delle graduatorie e riammettere così gli esclusi dai bandi a causa delle soglie di reddito contestate dagli studenti. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 08 apr. ’16 CERVELLI ALL’ESTERO (MA NON IN FUGA) di Elvira Serra Sei millennial su 10 pronti a trasferirsi «Per migliorarci» «V ale la pena restare?». È cambiato il paradigma. Vent’anni fa nessun ragazzo si sarebbe sognato di farsi questa domanda. Il dubbio, semmai, riguardava la possibilità di fare un’esperienza all’estero. Oggi no. Oggi ci si chiede il contrario: vale la pena rimanere in Italia? Vivere per un certo periodo all’estero è pacificamente considerato un’opportunità professionale e di vita. E a conferma di questa nuovo sguardo sul mondo contemporaneo ci sono le risposte dei Millennial italiani: l’83,4 per cento è disponibile a trasferirsi stabilmente per lavoro, in Italia (due su dieci) o fuori dall’Italia (sei su dieci). A dominare la scelta, però, non è l’idea di fuga, quanto piuttosto il desiderio di realizzarsi. Ovunque sia possibile. Il nuovo scenario emerge dal Rapporto Giovani 2016 , la rilevazione che l’Istituto Giuseppe Toniolo, presieduto dal cardinale Angelo Scola, promuove dal 2012 con il sostegno di Intesa SanPaolo e della Fondazione Cariplo e che oggi è arrivata alla terza edizione: una indagine continua su un campione di 9 mila giovani tra i 18 e i 32 anni. Oltre alla propensione a muoversi da parte degli intervistati, c’è il dato di fatto certificato dall’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, che sono quasi raddoppiati dal 2006 al 2015. L’Istat ha calcolato che lo scorso anno le cancellazioni di residenza sono state centomila, a fronte di 28 mila rientri. All’interno degli espatri, poi, è cresciuta l’incidenza dei laureati, che sono il 30 per cento di chi lascia l’Italia dopo i 24 anni. Il saldo umano è certamente negativo. Però merita più di una lettura. «Anzitutto significa che il nostro Paese ha giovani di qualità intraprendenti, con capacità per realizzare cose importanti anche all’estero», premette il coordinatore dell’indagine, Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano. Con lui concorda don Davide Milani, responsabile comunicazione della Diocesi di Milano: «È anacronistico ragionare in termini di estero e Italia: o crediamo all’Europa o non ci crediamo. Un ragazzo che va per dieci anni a Londra non è un cervello in fuga, ma è un giovane che fa un’esperienza importante fuori dal suo Paese e che poi riporta indietro il suo capitale umano. Questo succede anche al contrario: prendiamo Lecco, per esempio, dove c’è il Politecnico e cinquantamila abitanti. Ebbene, avere 300-400 studenti che arrivano da lontano è una ricchezza. Certo, bisogna insistere e lavorare perché non solo i ragazzi vadano via, ma ritornino, e perché gli stranieri ci scelgano come meta di elezione». Un rischio concreto già esiste. «Lo chiamo rischio di desertificazione di quella che dovrebbe essere l’età più fertile», aggiunge Rosina. Perché ai ragazzi talentuosi sempre più pronti a conquistare altrove il loro futuro, bisogna accostare i Neet, quelli che non studiano e non lavorano, pari a 2,4 milioni tra i 15 e i 29 anni: il loro numero è passato dal 19,3% del 2008 al 26,2% del 2014, a fronte di una media europea molto più bassa, salita dal 13% al 15,4%. Ecco perché la vera sfida da non perdere, secondo Rosina, è «quella di creare opportunità, rendere più semplice la mobilità, ma al tempo stesso valorizzare le risorse specifiche, in modo che, in definitiva, un ragazzo sia libero di restare, di partire, di tornare». E lo stesso valga per gli stranieri. Ancora un dato, tra tanti, colpisce nel Rapporto Giovani 2016 : è l’idea che la felicità sia legata più al fare, che all’essere spensierati. I giovani italiani più felici sono quelli che hanno un lavoro. @elvira_serra _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 05 apr. ’16 UNICA: SUPERBIBLIOTECA NEL VECCHIO GARAGE DI INGEGNERIA Sale confortevoli con sistemi di consultazione tecnologicamente avanzati nel campus di Ingegneria progettato per accogliere 330 studenti CAGLIARI Era un garage inutilizzato, adesso è la grande biblioteca del campus di Ingegneria che ieri mattina qualche minuto dopo l’inaugurazione aveva già il suo gruppetto di studenti sistemato davanti alle finestre con vista su una parete del colle di Tuvumannu, un pezzo di mare e, a guardare da un angolo, forse anche il castello di San Michele. Un luogo confortevole, con un’apprezzabile attenzione ai dettagli se ad esempio, per rendere agevole la ricerca degli scaffali, le indicazioni segnaletiche sono state affidate a un grafico dell’università (Stefano Asili) che ci ha lavorato con i suoi studenti. Ieri c’è stata una cerimonia ufficiale che di paludato non aveva neppure il rettore: Maria Del Zompo era molto felice di dare la parola alle bibliotecarie Alessandra Strella e Donatella Tore che a loro volta hanno ringraziato pubblicamente Antonietta Arghittu per aver caricato migliaia di dati (la biblioteca di Ingegneria è agganciata alla biblioteca nazionale) con un lavoro senza soste che aveva lo scopo di essere in rete nel gran giorno dell’inaugurazione, ieri. Maria Del Zompo ha invitato i due rettori precedenti Pasquale Mistretta e Giovanni Melis e a quest’ultimo ha riconosciuto il merito di aver promosso la trasformazione del garage nella biblioteca da 330 posti supertecnologica. Un grazie anche al sindaco Massimo Zedda uscito dal Consiglio metropolitano per venire ad ammirare l’opera: fu decisiva l’accettazione da parte del Comune del cambio di destinazione d’uso del garage. E’ un’opera importante per l’università questa biblioteca accogliente, Del Zompo: «Siamo in prima linea per restare research university, avvieremo presto un progetto pilota assieme al Crs4 per una sorta di muro interattivo dove, con un software, gli studenti potranno studiare assieme lavorando sul muro». Per tenere in quota l’università cagliaritana anche il tempo impiegato dagli studenti per laurearsi è un parametro di valutazione, ecco perché una sala luminosa tecnologicamente avanzata dove «è bello studiare» è stata salutata tra i sorrisi dalla folla di studenti e di docenti. Il progetto è degli architetti cagliaritani Mario Cubeddu e Pier Francesco Cherchi (C+C04studio), così come cagliaritana è l’impresa che l’ha costruita, Imma spa di Luigi Mamusa. (a.s.) ________________________________________________ L’Unione Sarda 07 apr. ’16 UNICA: IL GRANDE ESEMPIO DEL PROFESSOR PANI Lunedì ci ha lasciato il professor Paolo Pani, già docente dell'Università. Mente critica e propositiva, dopo la laurea a Cagliari, visse due fondamentali esperienze a Pittsburgh, dove conobbe la moglie, Janet, e poi a Torino, dove pose le basi del suo percorso scientifico e della sua passione civica e politica. Rientrato a Cagliari agli inizi degli anni '80, organizzò i primi convegni internazionali di oncologia, riunendo esperti mondiali e trapiantando quella linea di ricerca in Sardegna. Pani sentiva come ineludibile l'impegno che l'Università deve avere nei confronti della realtà in cui opera, studiando i problemi e proponendo soluzioni nell'interesse della comunità. Ezio Laconi _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 apr. ’16 UNICA: A SANT'ELIA UN OTTAVO DEI LAUREATI DI GENNERUXI E IL DOPPIO DEI DISOCCUPATI Una città a tante velocità Lavoro e istruzione, un abisso divide centro e periferie Ci sono più Cagliari, nel senso di quartieri, che viaggiano a velocità diverse, e non da oggi. Stavolta, però, non c'entra l'appartenenza “identitaria” a Villanova o a Stampace come sostegno alla tesi “siamo più bravi degli altri”, ma è semplicemente una questione di numeri. Basterebbe dare uno sguardo ai dati emersi dall'ultimo censimento del 2011 - con gli aggiornamenti al 2015 la situazione si è giusto spostata di qualche decimale senza modificarne la sostanza - per capire come sta crescendo la città. Su tutti, altri 16 mila residenti in meno, distribuiti più o meno equamente nei 31 quartieri. A colpire, però, sono due fattori fondamentali, veri segnali su cui riflettere: il livello di istruzione e il lavoro. Per quanto riguarda il primo, spicca la differenza percentuale di laureati tra Quartiere Europeo (39,4) e Sant'Elia (4,1), Monte Urpinu (34,5) e Cep (4,2), Genneruxi (34,4) e Is Mirrionis (14,8). Ed è evidente, anche, che man mano dalla periferia ci si avvicini al centro, ovvero Castello, Marina e Stampace, i numeri progrediscono sensibilmente. SCUOLE E ISOLAMENTO Gli abitanti di Sant'Elia, soprattutto quelli più sensibili che da tempo si battono per un affrancamento dalla loro storica e ormai cronica condizione di isolamento, alcuni anni fa avevano deciso di non mandare i loro figli nella scuola media vicino a casa ma di iscriverli in un paio di altri istituti cittadini (Quartiere del Sole e viale Marconi). Come risposta a un bisogno reale di integrazione, i dirigenti scolastici hanno pensato di creare delle classi apposta per loro, vanificando l'impegno e mortificando le speranze di un percorso formativo nuovo. LAVORO Sul fronte lavoro, che molto dipende dal livello di istruzione, i numeri sono da brividi. A guidare la classifica dei disoccupati, manco a dirlo, è sempre Sant'Elia con il 34,4 per cento (il doppio della media cittadina). Seguono San Michele (27,2), Mulinu Becciu (25,4) e Is Mirrionis (21,9). A far da contraltare, il Quartiere del Sole (9,9), Quartiere Europeo (10) e Monreale (10,5). Sotto il 12 per cento, Monte Mixi, Monte Urpinu e Genneruxi, poco sopra Bonaria (12,4). La crisi, questo è sicuro, ha messo in ginocchio un po' tutti. Ma, a ben vedere, c'è chi ne ha risentito in maniera più pesante. LE DONNE In particolare, sono le donne delle periferie a subire maggiormente gli effetti devastanti del lungo periodo di difficoltà economica generale. E la classifica vede sempre i soliti quartieri ai primi posti, con la forbice che, se possibile, si allarga ulteriormente. La disoccupazione femminile a Sant'Elia supera il 36 per cento, distaccati San Michele (25,9), Mulinu Becciu (24,6) e Is Mirrionis (20,6). Mentre, Monte Urpinu, (10,7), Sant'Alenixedda, San Benedetto e Genneruxi marciano quasi alla pari con poco più dell'11 per cento. I DUBBI Scuola e formazione incidono eccome sul futuro professionale, non ci sono dubbi. Semmai, le perplessità riguardano le origini geografiche di una dicotomia che non è solo cagliaritana ma è diffusa in ogni città moderna, a prescindere dalle dimensioni e dalla popolazione. Vito Fiori _________________________________________________________________ Corriere della Sera 04 apr. ’16 FUORISEDE IN ???MOSSE 10 di Elvira Serra Portarsi da casa moka, caffè e biscotti imparare le parole chiave locali e continuare a coltivare i tuoi interessi Ecco il manuale di sopravvivenza dei giovani italiani emigrati all’estero Talvolta una moka vale più di un dizionario. E una passeggiata a piedi più di una corsa in taxi. Mangiare un’omelette a un tavolino all’aperto può essere più istruttivo della lettura di un libro sui costumi di un popolo. E niente aiuta a fare amicizia all’estero come un hobby, anche se non si conosce la lingua. Parola di expat , italiani espatriati per cercare lavoro. Una scelta che è sempre più una necessità. Ma che resta, soprattutto, un’opportunità. A patto che la si sappia sfruttare. I primi cento giorni sono fondamentali: se si resiste alla nostalgia canaglia di questi tre mesi, tutto il resto andrà in discesa. «Il 60 per cento dei trasferimenti fallisce perché non si riesce ad ambientarsi», ha spiegato alla Bbc Erika Bezzo, consulente della ChangeExperience, società che aiuta gli stranieri in Germania. Un libretto di istruzioni universali non esiste. Ma abbiamo chiesto ai lettori di Corriere.it come sono riusciti a vincere la sfida. Ecco, dunque, i loro consigli, testati sul campo. Andrea Bonetto, per esempio, in una delle due grosse valigie con cui ha lasciato il Piemonte per andare a Miami ha messo caffettiera, caffè e biscotti. «Il mio kit di sopravvivenza». E anche se ora dirige un laboratorio per la ricerca sul cancro a Indianapolis, non si vergogna di ammettere che quando sente troppa nostalgia si fionda in un supermercato di prodotti italiani. «E lì investo buona parte dello stipendio». Il cibo è un tema che ricorre spesso. A volte può essere uno strumento per conoscere meglio i nuovi concittadini. Tania Ghiani, a Parigi per un’azienda farmaceutica, ama sedersi nei caffè e guardare gli altri, cosa mangiano, come parlano. Stesso sistema adottato da Fabio Bardi a New York, Parigi, Monaco di Baviera, Dublino, Singapore e, adesso, a Hong Kong, dove lavora come capo chef pasticciere all’«8 e ½ Otto e mezzo» Bombana, tre stelle Michelin. Racconta: «Osservare gli altri ti mette al riparo da figuracce». Un altro trucco prezioso ovunque è imparare alcune parole chiave nella lingua locale. «Dire “nessun problema” in cantonese mi è servito a creare empatia, anche se la pronuncia era pessima». Perché non basta conoscere l’inglese o il francese. Ci sono posti come la Svezia, il Belgio, la Cina, la Grecia, la Repubblica Ceca, per restare alle testimonianze dei nostri lettori, nei quali saper dire qualcosa nella prima lingua locale, anche in modo maccheronico, aiuta parecchio. È di una donna, Marina Sarli, l’idea di creare una rubrica con i numeri di emergenza: ospedale, ambulanza, polizia, persone su cui contare. «L’ho fatto quando mi sono trasferito da Potenza ad Atene per occuparmi di cooperazione internazionale. Avevo raggiunto il mio fidanzato, di Itaca, ma volevo essere indipendente». Tra le altre iniziative pratiche che si possono rivelare risolutive c’è quella presa da Massimo Giussani a Düsseldorf: «Il conto corrente in Germania l’ho aperto prima di partire». Preziosissima è la rete della comunità di appartenenza. Quella sarda rappresenta un’eccellenza: «Adesso vivo nel Queens — racconta Sandro Demelas, ingegnere di Cagliari —, sopra l’appartamento di un amico di Solarussa». I primi tre mesi a New York li ha superati senza avere un lavoro grazie all’ospitalità dei conoscenti della sua isola. «Ma mi ha agevolato parecchio anche coltivare i miei interessi con gli americani: escursionismo e speleologia». Infine è di aiuto trovarsi un fidanzato sul posto. Per quello, però, altro che libretto di istruzioni. Ci vuole la bacchetta magica. @elvira_serra _________________________________________________________________ Il Sole 24Ore 04 apr. ’16 DOPPIO BINARIO PER LE SUMMER SCHOOL Si moltiplicano i corsi in inglese degli atenei diretti a laureati, studenti e future matricole Corsi intensivi con uno spiccato taglio internazionale, destinati a studenti universitari che vogliano approfondire determinate materie con una full immersion in ambiente multidisciplinare. Sessioni di specializzazione per laureati e dottorandi interessati ad acquisire, in tempi stretti, competenze su temi specifici. Oppure occasioni di orientamento dedicate a chi frequenta le superiori e deve scegliere il percorso post diploma. L’offerta di summer school da parte delle università italiane è molto ricca e varia: sono sempre più numerosi, infatti, gli atenei che propongono corsi nel periodo estivo, aperti sia ai propri iscritti che a candidati esterni,anche dall’estero. La durata dei programmi - quasi sempre in inglese - varia da pochi giorni ad alcune settimane. Le iscrizioni si fanno online mentre il ventaglio delle materie è molto ampio. Il costo dei percorsi estivi è decisamente variabile, in base - sopratutto - alla durata dei programmi, ai docenti e alla loro provenienza, alle esperienze sul campo proposte e all’eventuale coinvolgimento di atenei stranieri: in generale, si va dai 150 euro (per corsi brevi) ai 3.500 euro (per scuole che si svolgano del tutto o in parte all’estero). A questa spesa bisogna spesso aggiungere il budget per viaggio, vitto e alloggio. In alcuni casi, sono previste borse di studio, anche a copertura parziale dei costi per la sistemazione. Si svolgerà, ad esempio, tra il 4 e il 22 luglio la II edizione della Bocconi Summer School, che propone sei corsi (in inglese), che spaziano dall’economia Ue alla finanza “equity e venture capital”, fino al management nei settori luxury, sport, moda/design. Le settimane di studio intensivo - iscrizione entro il 20 aprile - sono aperte a 180 studenti undergraduate da tutto il mondo, selezionati in base a cv, rendimento, motivazioni. Bocconi offre inoltre un percorso di orientamento con «Scopri il tuo talento», summer experience di due giorni, a giugno, per studenti meritevoli di IV superiore, che precede i test di ammissione per l’a.a. 2017/2018. Sempre a Milano, il programma estivo della Statale parte a metà giugno con «Tre giorni da biologo», school organizzata dal dipartimento di bioscenze per 15 studenti di IV e V superiore, che prevede lezioni e laboratori. È fissata per settembre (6-9) la XV scuola in International and development economics - organizzata, tra gli altri, con Cepr di Londra, Università di Torino e Milano Bicocca - che si rivolge a universitari e ricercatori. Sono sei, invece, le proposte della Bicocca, sia in Italia sia all’estero: tra queste c’è la scuola «The forms of urban attractiveness» per laureati triennali, che si svolgerà, dal 13 al 25 giugno - per metà presso l’ateneo milanese e per metà all’Università di Barcellona. Puntano a favorire l’orientamento nella scelta dell’università i tre percorsi dedicati ad architettura, design e ingegneria (rispettivamente di 3, 4 e 5 giorni) dal Politecnico di Milano e previsti a giugno; tra i diversi corsi per laureati, a settembre, ci sono la Rolling Stock summer school (a Lecco) nel campo dell’ingegneria meccanica e la Open City: Landscape in motion (a Piacenza) sulla progettazione dello spazio aperto. C’è tempo fino al 13 aprile per iscriversi alla scuola in Mathematics del Politecnico di Torino (13-17 settembre), in collaborazione con Universita? di Torino e Accademia delle Scienze, riservata a 60 studenti degli atenei organizzatori; mentre si svolgerà nelle ultime due settimane di luglio il percorso «Sewing a small town», per studenti, laureati, Ph.D. e architetti under 30. Sono quattro, invece, le summer school promosse dall’Università di Torino, di cui una con la Renmin University di Pechino. Si muove su un doppio binario anche l’offerta estiva della Luiss. Da una parte, infatti, ci sono le esperienze per studenti tra 16 e 19 anni per supportarli nelle scelte post diploma: sono otto le settimane individuate tra giugno e settembre per le summer school dell’ateneo romano. Dall’altra, invece, ci sono i programmi (sette, in inglese, a luglio) indirizzati a universitari e laureati, con percorsi che spaziano dal commercio internazionale al diritto societario comparato. Ha l’obiettivo di attrarre studenti dall’estero su un terreno fertile come la promozione del patrimonio culturale italiano la school della Sapienza di Roma su Italian Language and Culture, dal 4 al 16 luglio, con due corsi paralleli (in inglese e, in italiano) per 60 universitari stranieri (anche Erasmus). Sono una ventina le iniziative estive messe in campo dalla Cattolica: dagli appuntamenti di orientamento - a Santa Cesarea Terme (Le) a luglio e a Milano a fine agosto - alle tante summer school per studenti e laureati, in campi come il management dei sistemi sanitari, fino a una tre-giorni (sul lago di Como) pensata per offrire a dottorandi e ricercatori strumenti utili per la propria attività. Ricco anche il programma estivo dell’Università di Pisa, con una trentina di percorsi in sei diverse aree disciplinari e aperti, a seconda dei casi, a studenti, laureati, dottorandi, post doc, ma anche giovani professionisti. Le summer school a Siena, invece, sono nove e riguardano ambiti come organizzazione sanitaria, archeologia sperimentale, editoria elettronica. Se sul sito dell’ateneo di Bologna l’offerta è distinta tra scuole che prevedono l’attribuzione di Cfu (6 corsi in fase di ufficializzazione) e quelle che non li rilasciano - tra cui, ad esempio, l’XI edizione dell’Italian design school (in collaborazione con diverse università straniere) tra agosto e settembre -, la Ca’ Foscari di Venezia propone sia attività di orientamento che di studio: dai 5 giorni di «Scegli il tuo futuro!», alle esperienze intensive offerte ai propri studenti grazie a programmi congiunti con università del calibro di Harvard e Columbia. Si rivolge infine a dottorandi e ricercatori a inizio carriera la IV edizione dell’Aidea Capri Summer School, organizzata nell’isola (12-16 settembre) dal dipartimento di Economia della Federico II di Napoli, in collaborazione con un network di università straniere (70% di partecipanti dall’estero); mentre puntano su scienza e tecnologia le proposte estive dell’Università di Catania: come i corsi in medical imaging o in international computer vision, previsti tra metà luglio e inizio agosto. _________________________________________________________________ Il Sole 24Ore 07 apr. ’16 INGUSCIO: «LIBERARE LA RICERCA DAI VINCOLI DELLA PA» «Sono ottimista. Bisogna investire sui nostri giovani offrendo loro carriera e possibilità di muoversi in Italia e all’estero» «Bisogna tornare a rendere la ricerca pubblica italiana un posto attraente per i nostri cervelli e per quelli che dall’estero guardano all’Italia e vorrebbero venire nei nostri centri di eccellenza. Per farlo non bastano però solo i fondi in più, serve anche creare le condizioni per farli lavorare dando loro la possibilità di formare un proprio team di ricerca o di spendere liberamente i fondi a disposizione; ma per fare questo dobbiamo alleggerire le macchine dei nostri enti di ricerca dai troppi lacci e lacciuoli e dai tanti vincoli e dalla burocrazia che derivano dal fatto di rientrare nel perimetro della pubblica amministrazione e che oggi impediscono a un giovane ricercatore di fare carriera e soprattutto di muoversi da un ateneo a un centro di ricerca per fare esperienza e crescere». Massimo Inguscio è in sella al più grande ente scientifico italiano, il Consiglio nazionale della ricerca, da poco più di un mese e vede uno dei mali maggiori della ricerca pubblica italiana nell’ingessamento che rinchiude i nostri ricercatori dentro la gabbia di un “posto fisso” dove si resta per tutta la vita lavorativa. E invece la mobilità per uno scienziato che ha bisogno di stimoli e continui confronti con i colleghi è cruciale, «soprattutto da giovani quando si hanno anche meno vincoli familiari», avverte Inguscio. Che da fisico, nato a Lecce e formatosi a Pisa prima all’università e poi alla Scuola Normale, ha girato praticamente tutta l’Italia da Nord a Sud con diverse incursioni all’estero. Da sempre la ricerca pubblica in Italia è la cenerentola, tra sottofinanziamento e cervelli che fuggono. Che futuro prevede? Io resto ottimista. La ricerca è conseguenza di una cultura che si tramanda e i successi che hanno i nostri ricercatori in Italia e all’estero stanno a significare che prepariamo tremendamente bene i nostri giovani. E ora proprio su di loro bisogna investire perché è nei momenti di crisi che bisogna scommettere sulla ricerca e quindi su una nuova generazione di ricercatori offrendogli però una carriera senza troppi ostacoli e con la possibilità di muoversi da una parte all’altra dell’Italia o anche all’estero. Cosa che ora non accade. E allora perché è ottimista? Nell’ultimo anno si sta assistendo a un’inversione di tendenza, penso a d esempio alla legge di stabilità che prevede un primo piano di reclutamento di un migliaio ricercatori tra atenei ed enti di ricerca. Certo si tratta ancora di numeri piccoli, ma passa finalmente un messaggio positivo. Credo insomma che dopo un profondo inverno si cominci a vedere qualche barlume di primavera per la nostra ricerca. E poi c’è il piano nazionale della ricerca atteso venerdì al Cipe e che stanzia 2,5 miliardi. Cosa si aspetta di trovarci? Da quello che ho letto finora il Piano prevede proprio alcuni strumenti che vanno nella direzione dell’attrazione dei ricercatori, con fondi in più per “vestire” le opportunità di lavoro per i migliori giovani cervelli che avranno fondi aggiuntivi che potranno spendere per i loro studi oltre alla possibilità di formare un gruppo di lavoro attorno al proprio progetto di ricerca. E in questo scenario che ruolo può avere il Cnr? Direi fondamentale. Siamo l’istituto di ricerca italiano che copre più settori scientifici, che vanta più borse dell’Erc e attrae più fondi europei. Siamo una vera e propria filiera della ricerca. Noi con le nostre strutture e ricercatori in tutta Italia possiamo creare la massa critica per aggregare università e aziende identificando luoghi e cittadelle scientifiche specializzate nei settori di punta inseriti nel piano nazionale della ricerca che sono coerenti con quelli previsti dalla nuova programmazione dei fondi europei dove ci sono i veri soldi in più da conquistare. Insomma il Cnr vuole fare quando è possibile il capitano di una squadra competitiva in grado di vincere nei bandi italiani e in quelli europei. In passato qualcuno ha accusato il Cnr di essere un carrozzone e in più ci sono già stati tre riordini dell’ente in 15 anni. Prevedete di intervenire ancora? Il Cnr riceve dal Governo oltre 500 milioni, ma grazie alla sua capacità di attrarre fondi arriva a un bilancio di quasi un miliardo. In questi giorni stiamo scrivendo il piano triennale di programmazione e vogliamo trasformarlo dal documento burocratico del passato in un atto strategico dove evidenziare i nostri punti di forza sui quali scommettere. È il momento di operare delle scelte, di decidere su cosa puntare e cosa lasciar perdere investendo lì dove siamo già competitivi e dove è utile al Paese. In questo senso i settori strategici indicati dal Piano nazionale della ricerca - dall’agroalimentare ai punti di forza del made in Italy - sono una traccia fondamentale. Insomma dobbiamo mirare a una razionalizzazione delle strategie scientifiche, intervenire dove ci sono duplicazioni ed evitando di disperdere risorse. Il premier Renzi poco dopo il suo insediamento aveva proprio parlato della possibilità di accorpamenti tra gli enti di ricerca. Si andrà in questa direzione? Non so cosa deciderà il Governo. So solo che non si devono seguire logiche tipo quella di accorpare l’ente più piccolo al più grande, ma verificando se due enti fanno magari la stessa cosa e quindi si duplicano inutilmente gli sforzi. Nelle prossime settimane è previsto l’arrivo di un decreto di semplificazione per gli enti di ricerca, si tratta di uno dei decreti attuativi della riforma Madia della Pa. Cosa si aspetta? Il mio auspicio è che il mondo della ricerca pubblica venga liberato da tutti i vincoli che derivano dall’appartenere alla pubblica amministrazione. Si deve realizzare quanto previsto dalla legge Ruberti più di 20 anni fa quando si riconosceva piena autonomia all’università e agli enti di ricerca. Un processo questo che si è realizzato solo negli atenei. Un ricercatore di un ente dovrebbe avere di fatto lo stesso stato giuridico di un ricercatore universitario perché questo faciliterebbe moltissimo l’interscambiabilità. Va cambiata anche la modalità di reclutamento? Anche in questo caso va seguito il modello delle università: si deve prevedere un percorso di tenure track,dopo qualche anno a tempo determinato il ricercatore viene valutato per essere assunto. È poi fondamentale che le assunzioni non seguano le regole della Pa della pianta organica, ma avvengano in base al budget. Chi ha i soldi per assumere deve essere libero di farlo. Quello che chiediamo dunque è la massima autonomia possibile nell’assumere o nell’acquistare un apparecchiatura scientifica di cui abbiamo bisogno senza i vincoli di oggi. Più libertà a cui affiancare anche più responsabilità con una rigorosa dose di valutazione. Le procedure di valutazione a molte università però non sono piaciute Dobbiamo smetterla di dire che la valutazione non è buona, è certamente perfettibile ma è fondamentale anche per spingere i finanziamenti verso nuovi settori. Da tempo si dice che serve un’Agenzia per coordinare tutti fondi della ricerca divisi tra i vari ministeri. È d’accordo? È una scelta del Governo ma se guardo al modello francese dove c’è il Cnrs, molto simile al nostro Cnr e anche una Agenzia nazionale, si vede che lì alla fine le scelte strategiche sono di fatto decise dall’ente di ricerca. Ecco in questo senso il nuovo Cnr ha tutti i numeri, le competenze la storia per essere il punto di riferimento, il braccio armato della politica nella scelta delle strategie nella ricerca. Ci sono state diverse polemiche per i fondi assegnati all’Iit di Genova per il decollo dello Human Technopole nelle aree dell’Expo. Che ne pensa? Non sono per le guerre di religione. Credo che un ente come il Cnr che ha competenze trasversali e programmi su temi simili a quelli dell’Iit ha il dovere di sviluppare i suoi programmi, ma anche quello di non dire vade retro satana. Offriremo i nostri progetti e quindi se opportuno e se produce maggiore ricchezza per il Paese collaboreremo con il nuovo polo. Marzio Bartoloni ________________________________________________________ La Repubblica 10 Apr. ’16 IL DISGELO CHE FA PERDERE L'EQUILIBRIO ALLA TERRA Rotazione irregolare" del moto di rotazione sull'asse polare: è un altro effetto del riscaldamento globale ELENA DISSI ROMA. Se potessimo osservare la Terra che ruota, vedremmo una trottola che oscilla e sobbalza. A questi barcollamenti naturali, ha appena scoperto la Nasa, si aggiungono anche quelli "artificiali" causati dal riscaldamento climatico. I ghiacci che si sciolgono ai poli e le falde idriche che si impoveriscono sulla terraferma cambiano infatti la distribuzione delle masse sul pianeta, alterando la rotazione della Terra così come alzare un braccio o una gamba altera la rotazione di un pattinatore. Il nuovo sobbalzo "climatico" fa leggermente variare l'inclinazione dell'asse terrestre. Provocando dunque uno spostamento del polo nord geografico, che per tutto il ventesimo secolo ha migrato a passi piccolissimi verso il Canada, ma a partire dal 2003 ha invertito la rotta e accelerato, percorrendo circa 17 centimetri all'anno in direzione della Gran Bretagna. «Non rischiamo nessun ribaltamento» tranquillizza Giuliano Brancolini, ricercatore associato dell'Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale di Trieste ( Ogs). «La Terra ha una sua inerzia. È come una bicicletta che mantiene l'equilibrio proprio perché è in movimento. La migrazione dei poli non continuerà all'infinito, anche perché i fattori che influenzano l'inclinazione dell'asse terrestre sono numerosi. Ci sono perfino i terremoti molto forti, le eruzioni vulcaniche e lo spostamento delle placche». Surendra Adhikari, il ricercatore della Nasa che ha pubblicato la sua ricerca su Science Advances, conferma che «il cambiamento è sensibile, ancorché non pericoloso». Lo spostamento è sufficiente a ridurre l'accuratezza di un gps. Adhikari e il suo collega Eirk Ivins hanno usato i dati del satellite Grace, capace di misurare la distribuzione delle masse sul pianeta, dal 2003 a oggi. E si sono accorti che gli spostamenti delle acque erano perfettamente, o quasi, in grado di spiegare la misteriosa migrazione del polo nord verso l'Europa, notata a partire dagli anni duemila. Ogni anno, infatti, dalla Groenlandia si sciolgono 278 trilioni di chili all'anno di ghiaccio. Pari, spiega Ivins, «al carico di un miliardo di camion» Dall'Antartide occidentale si perdono ogni anno 172 trilioni di chili, riguadagnati solo in parte nell'Antartide orientale ( 80 trilioni di chili) dove recentemente le nevicate sono aumentate. Lo scioglimento dei ghiacci, da solo, non basta però a spiegare la migrazione verso l'Europa del polo nord. I ricercatori della Nasa hanno trovato il tassello mancante nel depauperamento delle risorse idriche sulla terraferma. La siccità- causata sempre dal cambiamento del clima - e l'eccessivo sfruttamento delle falde fanno perdere ai continenti ben 530 trilioni di chili di acqua all'anno, soprattutto nel subcontinente indiano e nella zona del Mar Caspio, provocando l'innalzamento dei mari di un millimetro e mezzo all'anno. Sembrerebbero numeri piccoli, in rapporto alla grandezza della Terra. «Ma per quanto riguarda il ghiaccio - spiega Laura De Santis, geologa dell'Ogs - si tratta di milioni di chilometri cubi concentrati in un'area limitata rispetto all'intero pianeta. L'Antartide ci sembra remoto, ma lo spessore della sua calotta glaciale raggiunge i 3 chilometri Se si squagliasse completamente farebbe alzare il livello dei mari di circa 60 metri». __________________________________________________ Le scienze Feb. ’16 LA FINE DELL’INFORMAZIONE LA DIFFUSIONE DI NOTIZIE FALSE IN RETE È INARGINABILE Il 18 dicembre scorso Caitlin Dewey, columnist del «Washington Post», annunciava la chiusura della sua rubrica What was Fake, «che c'era di falso». Con cadenza settimanale, a partire dal maggio 2014, si era impegnata a smantellare bufale e teorie del complotto che circolavano su Internet. Per quella settimana avrebbe preparato la sua rubrica come se niente fosse, se non avesse letto gli ultimi risultati del lavoro di Walter Quattrociocchi, direttore del Laboratorio di conputational social science all'Istituto IMT di Alti Studi dì Lucca, rinunciando all'impresa. E, accennando a una bufala che aveva smascherato, riconosceva che «i lettori che avrebbero condiviso senza alcuno spirito critico una storia inverosimile sono esattamente gli stessi che non si sarebbero fatti convincere dal debunking del "Washington Post"». Dal lavoro di Quattrociocchi - che lo illustra nell'articolo di copertina di questo numero, intitolato L'era della (dis)informazione - emerge che la diffusione di informazioni false, leggende metropolitane e teorie del complotto attraverso i social network è semplicemente inarginabile. Il perché è presto detto. I meccanismi di aggregazione delle informazioni sui social da una parte e i confirmation bias, o pregiudizi di conferma, dall'altra - per cui tendiamo a privilegiare le informazioni che confermano le nostre opinioni - concorrono a polarizzare le posizioni. Insomma, se una persona sospetta che i vaccini siano dannosi per la salute, per esempio, troverà in rete innumerevoli conferme alla propria tesi, e non si curerà delle informazioni di segno opposto. E poco Importa che le seconde siano accreditate da tutta la comunità medica e scientifica: l'autorevolezza non è un fattore. A che punto - si chiede Dewey - la società diventa completamente irrazionale? È questo il punto in cui cominciamo a segmentarci in realtà alternative? Sono interrogativi su cui è bene riflettere. Perché la tanto celebrata democrazia dell'informazione in rete potrebbe mettere in profonda crisi la relazione tra informazione e conoscenza acquisita, favorendo i meccanismi della disinformazione. Con buona pace di chi aveva auspicato la nascita di una nuova era dell'informazione. Ultimamente uno dei temi su cui ci si è accalorati, fino a scodellare teorie complottistiche tanto improbabili quanto convincenti, è il Complesso del disseccamento rapido dell'olivo individuato in Salento, la cui responsabilità è stata attribuita al batterio Xylclla fastidiosa e, forse, ad altre concause, di cui hanno parlato Lisa Signorile e Anna Rita Longo sul numero di luglio 2015. Da allora la situazione è andata sempre più aggrovigliandosi, fino al decreto di sequestro degli olivi clic avrebbero dovuto essere abbattuti, emesso dalla Procura di Lecce il 18 dicembre. Allo stato delle cose, la ricerca sulla diffusione di X. fastidiosa e sulle dinamiche della malattia è sostanzialmente bloccata. Perché il confronto scientifico possa continuare, è indispensabile che i ricercatori abbiano accesso alle perizie scientifiche disposte dalla Procura e possano riprendere campionamenti e analisi. Per questo abbiamo pubblicato una lettera aperta a Cataldo Motta, procuratore di Lecce, sul nostro sito. Perché per salvare gli olivi pugliesi potrebbe non esserci il tempo di un processo. Vi è mai capitato di essere a cena con amici o familiari, magari anche con un certo livello di istruzione, e che l'argomento di conversazione fosse centrato sull'ultima notizia letta su Internet, per esempio su come il cambiamento climatico sia indotto dalle scie chimiche o sui vantaggi della medicina alternativa? Oppure seguire in televisione argomentazioni di noti comici o cantanti, senza le più basilari nozioni di statistica o economia, diventati all'improvviso fini analisti economico-politici che palesano quanto signoraggio bancario e Nuovo Ordine Mondiale stiano attentando alla società? Che cosa è cambiato nel nostro modo di informarci e quindi di costruirci un'opinione? Quale ruolo hanno i social media nella diffusione e nella popolarità di tesi alternative e complottiste? La scienza se ne sta occupando. Di recente sono state sviluppate tecniche che hanno permesso di studiare le dinamiche sociali a un livello di risoluzione elevato sfruttando la grande mole di dati dei social media. Inoltre in un rapporto del 2013 sui rischi globali il World Economie Forum, un'organizzazione internazionale indipendente che discute i problemi più pressanti del mondo, mostra che uno dei temi più interessanti e allo stesso tempo tra i più pericolosi per la società, al pari del terrorismo, riguarda la vitalità legata a informazioni infondate o false. Il Web ha cambiato il modo in cui le persone si informano, interagiscono tra loro, trovano amici, argomenti e comunità di interesse, filtrano informazioni e formano le proprie opinioni. Questo scenario, unito all'analfabetismo funzionale, ovvero l'incapacità di comprendere efficacemente un testo (in Italia riguarda quasi la metà della popolazione tra i 15 e i 65 anni, secondo l'Organisation for Economie Cooperation and Development, OECD) e all'esposizione selettiva dei contenuti, guidata principalmente dal pregiudizio di conferma (il cosiddetto confirmation bias) a determinati contenuti può creare veri e propri fenomeni di massa attorno a informazioni false. Dallo studio anatomico di queste dinamiche sociali emergono sia un quadro allarmante sia una inadeguatezza di fondo delle soluzioni, in particolare quelle algoritmiche e meccaniche, pensate per arginare la formazione, diffusione e rinforzo di narrative fasulle, o misinformation. Nel 2009 David Lazer della Harvard University e colleghi hanno pubblicato su «Science» l'articolo Computational Socio! Science, che ha sancito la nascita del nuovo campo di ricerca. Tramite un approccio basato sui dati, questa disciplina tende a unire matematica, statistica, fisica, sociologia e informatica, e ha lo scopo di studiare i fenomeni sociali in maniera quantitativa sfruttando le tracce digitali che lasciamo sui vari social media come Facebook, Twitter, YouTube e così via. Gli utenti nel cybcrspazio selezionano, condividono, commentano e lasciano traccia delle proprie azioni; questo ha reso possibile lo studio della società a un livello di risoluzione senza precedenti, che va molto oltre la mera e pura speculazione. Lungo questa linea sono stati fatti notevoli progressi riguardo alla comprensione della diffusione e del consumo delle informazioni, del loro effetto sulla formazione delle opinioni e su come le persone si influenzino a vicenda. A ciascuno il suo Come accennato, nel 2013 il World Economie Forum ha catalogato la diffusione massiva di informazioni fasulle (massive digital misinformation) come una delle minacce più serie per la società. Questo dipende principalmente dal fatto che nel Web il paradigma di produzione e consumo dei contenuti è fortemente disintermediato. Tutti possono pubblicare la loro versione e opinione su qualunque tematica, senza che poi ci sia un'effettiva verifica sulla fondatezza o quantomeno sulla sostenibilità di quello che è stato pubblicato. I contenuti fruibili sono prodotti dagli stessi fluitori e la veridità I nodi sono gli utenti, gli archi rappresentino la relazione di condivisione. Al centro c'è l'origine, poi i livelli di diffusione. I colori indicano la polarizzazione dell'utente, ovvero la preferenza per uno specifico contenuto: in giallo utente che segue fonti main stream, in verde discussione politica, in rosso fonti alternative, in blu i troll. cità come anche l'utilità delle informazioni sono asservite alle necessita del singolo utente che cerca spesso conferme coerenti a un suo sistema di credenze già strutturato e consolidato. Su Facebook proliferano le pagine su megacomplotti mondiali, scie chimiche, signoraggio bancario, correlazione tra vaccini e autismo, diete fruttariane, fino alle mirabolanti teorie sull'energia infinita che ci viene «astutamente» tenuta nascosta dalle grandi multinazionali a tutela dei loro interessi finanziari. Nonostante la speculazione positivistica basata sull'assunto dell'essere umano razionale, lo studio quantitativo di questi fenomeni ha accesso spie in direzione contraria. In un contesto informativo non filtrato, l'essere umano prende tutto ciò che più gli aggrada ed è conforme al proprio pensiero (confirmation bias, appunto) alimentando la formazione di argomentazioni strampalate che vanno a sostegno delle narrazioni più disparate. Per esempio, nel caso della narrazione fruttariana si sostiene che i nostri antenati non fossero onnivori ma frugivori, nonostante prove empiriche e pitture rupestri indichino l'esatto contrario. Per non parlare di altre leggende metropolitane come i microchip sottocutanei o i finti sbarchi sulla superficie della Luna che sono gli argomenti forti di noti parlamentari. Questo scenario, così fortemente disintermediato e guidato dai gusti di massa, è in grado di generare Fenomeni virali su vasta scala che influiscono notevolmente sulla percezione pubblica di questioni anche importanti come salute, politica economica, geopolitica. E può causare fenomeni bizzarri. Per esempio, lo scorso anno negli Stati Uniti una banale esercitazione militare denominata „la& Helm 15 è diventata sul Web la prova di un incombente colpo di Stato ordito dall'Amministrazione del presidente Barack Obama. La notizia è stata creduta al punto che il governatore del Texas Greg Abbott ha deciso nel dubbio di allenare la Guardia Nazionale. Senza uscire dai confini Italiani, abbiamo il caso della citazione erroneamente attribuita all'ex presidente della repubblica Sandro Pertini e più volte smentita dalla stessa Fondazione Pertini: «Quando il governo non fa ciò che il popolo vuole va cacciato con le mazze e con le pietre». Questa citazione è stata usata come simbolo evocativo per la «protesta dei forconi» ed è finita sui manifesti di una convocazione a una manifestazione nazionale contro il governo «corrotto» nel 2013. Altro esempio interessante è il caso del senatore Cirenga, menzionato in un post ironico che a dicembre 2012 è diventato virale su Facebook.. Cirenga avrebbe partorito una fantomatica proposta di legge per stanziare 134 miliardi di giuro con cui aiutare i parlamentari a trovare un lavoro in caso di non rielezione. La notizia apparsa su Facebook era stata ideata come scherzo, tanto clic nel testo che accompagnava l'immagine si leggeva: «È solo colpa del popolo caprone Che l'ha votata ma che ha soprattutto condiviso questa immane boiata falsa che solo dei boccaloni come voi potevano reputare vera». L'unica traccia dell'esistenza del senatore Cirenga è una pagina Facebook classificata come «personaggio inventato». Non sono rari i messaggi di utenti indignati che ancora oggi lasciano sulla pagina del finto senatore continenti relativi alla fantomatica proposta (si veda l'immagine a fianco). Vero o falso, non importa ________________________________________________________ La Stampa 05 Apr. ’16 IL NUCLEARE COSTA ALL'UE 253 MILIARDI BRUXELLES: NE SERVIRANNO 123 PER SMANTELLARE LE CENTRALI VECCHIE E 130 PER SMALTIRE LE SCORIE EMANUELE BONINI BRUXELELS Fino al 2050 l'Unione europea andrà avanti con le sue centrali nucleari e per la Commissione Ue non è certo un problema. Piuttosto, scrive in una comunicazione rivolta ai ventotto governi dell'Unione, la preoccupazione è che ci sono tanti reattori nuovi in progettazione e troppi impianti (e scorie) ancora in attesa di essere eliminati. Un problema e un rischio, questo, se si considerano anche le minacce del terrorismo internazionale, come ricordano gli attentati di Bruxelles del 22 marzo. Due giorni dopo gli attacchi bomba undici persone sono state private del badge di accesso al sito di Tihange, in Vallonia. L'esecutivo comunitario avverte: «Chi sceglierà di continuare con il nucleare dovranno garantire i più alti standard di sicurezza possibile». Paura dei terroristi I tecnici di Bruxelles ammettono i ritardi. «C'è da investire in sicurezza», per evitare disastri come quello del 2011 a Fukushima, in Giappone, e i kamikaze. Il nodo è soprattutto economico. La Commissione Ue stima che ci vogliono almeno 253 miliardi per liberare l'Europa da centrali in disuso da smantellare (123 miliardi) e dalle scorie (130). Permettere ai siti attivi di produrre fino al 2050 costerà invece tra i 45 e i 50 miliardi. Non è un caso, allora, se degli 89 reattori da archiviare ne siano stati demoliti appena tre, tutti in Germania. Anche perché, come nel caso italiano, non sempre ci sono fondi, e le risorse vanno reperite altrove. Per ragioni di indipendenza e diversificazione delle fonti, basse emissioni e costi minori di altre tecnologie, il nucleare «continuerà a essere un importante componente del mix energetico europeo fino al 2050». Quattro nuovi reattori sono attualmente in costruzione in Finlandia, Francia e Slovacchia, mentre sempre in Finlandia, in Regno Unito e Ungheria sono in corso le assegnazione delle licenze per nuovi impianti a cui aggiungeranno quelli annunciati da Bulgaria, Lituania, Repubblica Ceca e Romania. In un momento in cui in Italia si dibatte la necessità di investire sul petrolio e le trivellazioni in mare, non ritenute sostenibili né sicure, in Europa torna a porsi la questione della sicurezza dell'energia nucleare. «Insieme dovremmo essere in grado di capire come cooperare e garantire l'uso più sicuro degli impianti», sostiene il Commissario per l'energia e l'azione sul clima, Miguel Arias Cariete. Al di là dei condizionali, non certo rassicuranti, resta da capire se si saprà pagare per eliminare scorie e siti obsoleti _________________________________________________________________ Corriere della Sera 07 apr. ’16 IL FISICO VISIONARIO CHE VUOLE COMPLETARE LA TEORIA DEL TUTTO Milano «Il futuro è nelle mani dei giovani visionari, di quelli che riescono a immaginare una vita totalmente digitalizzata. Avremo sugli occhi lenti a contatto che daranno le informazioni su tutte le cose, il web sarà ovunque. Sui muri di casa, sotto il pavimento, nell’aria e dentro di noi. Sarà come l’elettricità, come l’intelligenza. Acquisteremo con un battito di ciglia, parleremo vedendo scorrere nello spazio la biografia di chi ci sta davanti. Trasferiremo le emozioni e le memorie ad altri cervelli, come in Matrix . La scuola com’è oggi, non ci sarà più. I giovani che riescono a vederlo, un futuro così, non vorranno più tornare indietro». A prometterlo ieri alla Triennale di Milano, in un incontro con trecento ragazzi organizzato dalla Kairos di Paolo Basilico, è stato lo scienziato più popolare d’America, Michio Kaku. Pagina Facebook seguita da 2,9 milioni di persone e bestseller che vanno a ruba in ogni parte del mondo, uno che ha insegnato ad Harward e Princeton (ora alla City College of New York) e lavora per completare il sogno di Albert Einstein, la Teoria del tutto: potrebbe ricavare un’equazione, forse non più lunga di un pollice, che riassumerà tutte le leggi fisiche dell’universo. Kaku spiega: «La realtà aumenterà a dismisura. L’impossibile si divide in tre categorie: ciò che si realizzerà in pochi decenni, ciò che verrà entro alcuni secoli e ciò che potrebbe svilupparsi in universi paralleli. Sarà un contagio di informazioni, ovunque». E il senso del mistero? Il piacere di studiare e scoprire man mano le cose, ad esempio nelle relazioni umane? «Un clic per essere in linea, e un off per disconnetterci», è la sua provocatoria risposta. Ma ci verrà mai voglia di scollegarci e tornare «solo» noi? «Proietteremo sul muro di casa un medicoartificiale che ci farà diagnosi e darà terapie, e un avvocato per consulenze istantanee». Tutto comodo, e costerà pochissimo. I chip dei computer? «Varranno un penny». La possibilità del teletrasporto? «Per ora sono solo i fotoni (particelle di luce, ndr ) a sparire e riapparire in un altro posto. Domani potremmo avere noi il mantello di Harry Potter». I nostri telefonini, spiega ancora il fisico, «hanno più potenza di calcolo dell’intero programma spaziale americano e russo di quando ci fu la spedizione dell’Apollo 11 sulla Luna, nel 1969». Qualcuno l’aveva previsto. Per vedere lontano, raccomanda Kaku, «non bisogna avere paura delle infinite possibilità che ci offrono la scienza, e le libere intuizioni». A questo discorso si è collegato anche Paolo Basilico, impegnato da anni nella Fondazione Oliver Twist di Como, per la formazione dei ragazzi, oltre che nella sua ex start up Kairos che oggi gestisce 8 miliardi con sedi sparse in tutto il mondo. «Niente è impossibile, se ci si crede — ha chiuso —. La ricetta del successo richiede entusiasmo, determinazione e fiducia in se stessi». Ecco, allora, l’appello ai giovani che affollavano la sala: «Non temete di essere visionari» . Elisabetta Andreis _________________________________________________________________ Corriere della Sera 09 apr. ’16 QUANDO I DESIDERI ERANO IL DEMONIO di Aldo Cazzullo Bastano poche frasi per capire perché questo Papa sia amato da molti e detestato da qualcuno. I l matrimonio è un dono di Dio. Tale dono include la sessualità (Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, d’ora in poi semplicemente Francesco). «Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini; e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» (Matteo 19,12). Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso per le sue creature (Francesco). «La donna è un tempio costruito su una cloaca. Tu, donna, sei la porta del diavolo, tu hai circuìto quello stesso (uomo) che il diavolo non osava attaccare di fronte. È a causa tua che il figlio di Dio ha dovuto morire; tu dovrai fuggire per sempre in gramaglie e coperta di cenci» (Tertulliano). L’erotismo più sano, sebbene sia unito a una ricerca di piacere, presuppone lo stupore, e perciò può umanizzare gli impulsi. In nessun modo possiamo intendere la dimensione erotica dell’amore come un male permesso o come un peso da sopportare per il bene della famiglia, bensì come dono di Dio che abbellisce l’incontro tra gli sposi (Francesco). «Se è un bene non toccare una donna, allora è un male toccarla: gli sposati vivono come le bestie, infatti nel coito con le donne gli uomini non si distinguono in nulla dai porci e dagli animali irrazionali» (San Gerolamo). L’unione sessuale, vissuta in modo umano e santificata dal sacramento, è a sua volta per gli sposi via di crescita nella vita della grazia. È il mistero nuziale (Francesco). «Maria fu pura, santa, senza macchia, risplendente, dai sentimenti divini, santificata, libera da tutte le lordure del corpo, del pensiero, dell’anima» (Sofronio da Gerusalemme). La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari (Francesco). «Se fosse amico il re dell’universo / noi pregheremmo lui della tua pace / poi c’hai pietà del nostro mal perverso» (Dante Alighieri, Inferno, V canto, episodio di Paolo e Francesca). «Le donne siano sottomesse ai mariti» (San Paolo, Lettera agli Efesini 5, 22). È importante essere chiari nel rifiuto di qualsiasi forma di sottomissione sessuale. Perciò è opportuno evitare ogni interpretazione inadeguata della Lettera agli Efesini. San Paolo qui si esprime in categorie culturali proprie di quell’epoca, ma noi non dobbiamo assumere tale rivestimento culturale, bensì il messaggio… (Francesco). Desideri, sentimenti, emozioni, quello che i classici chiamavano «passioni», occupano un posto importante nel matrimonio… L’essere umano è un vivente di questa terra e tutto quello che fa e cerca è carico di passioni (Francesco). «Sì, dalla volontà perversa si genera la passione, e l’ubbidienza alla passione genera l’abitudine, e l’acquiescenza all’abitudine genera la necessità» (Sant’Agostino, Confessioni, Libro VIII). Provare un’emozione non è qualcosa di moralmente buono o cattivo per sé stesso. Incominciare a provare desiderio o rifiuto non è peccaminoso né riprovevole (Francesco). «I desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero» (San Paolo, Lettera ai Romani 8,21). Provare piacere per qualcuno non è di per sé un bene. Se con tale piacere io faccio in modo che quella persona diventi mia schiava, il sentimento sarà al servizio del mio egoismo. Credere che siamo buoni solo perché «proviamo dei sentimenti» è un tremendo inganno. Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri (Francesco). «Le donne sono destinate principalmente a soddisfare la lussuria degli uomini. Dove c’è la morte ivi c’è il matrimonio, dove non c’è matrimonio ivi non c’è morte» (San Giovanni Crisostomo). Più che parlare della superiorità della verginità sotto ogni profilo, sembra appropriato mostrare che i diversi stati di vita sono complementari, in modo tale che uno può essere più perfetto per qualche aspetto e l’altro può esserlo da un altro punto di vista (Francesco). «Maria, per la grazia di Dio, è rimasta pura da ogni peccato personale durante tutta la sua esistenza» (Catechismo della Chiesa cattolica, punto 493). D’altra parte, i momenti di gioia, il riposo o la festa, e anche la sessualità, si sperimentano come una partecipazione alla vita piena della sua Risurrezione di Cristo (Francesco). «Cristo non rideva mai» (Jorge da Burgos, da «Il nome della rosa» di Umberto Eco). Un vero amore sa anche ricevere dall’altro, è capace di accettarsi come vulnerabile e bisognoso, non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale (Francesco). Nei duemila anni di discussione tra le massime intelligenze della cristianità sull’amore e sul sesso si trova tutto e il contrario di tutto. Le interpretazioni mutano con il mutare delle condizioni storiche e delle sensibilità. Ma bastano questi pochi cenni per realizzare che l’esortazione «Amoris Laetitia», a cominciare dal titolo, rappresenta una grande innovazione nella storia della Chiesa (per quanto ovviamente la sessualità sia concepita dal Papa all’interno del matrimonio); e basterebbe questa per far capire perché Francesco sia molto amato da tanti ma anche molto detestato da qualcuno; e perché, comunque prosegua il suo pontificato, questo Papa è destinato a entrare nella storia, e dopo di lui nulla sarà più come prima. _________________________________________________________________ Il sole24Ore 10 apr. ’16 COSÌ È NATO IL TIMOR DI DIO Nuove ricerche fanno luce sui rapporti tra crescita economica e comparsa delle divinità morali Chi non sa cos’è il «timor di Dio»? Dio, chiunque esso sia, vede tutto, giudica tutto e punisce ogni male. La grande maggioranza delle religioni professate ai nostri giorni si basa proprio su quest’idea. Eppure non è sempre stato così. Per molto tempo i nostri progenitori hanno creduto in divinità che non si occupavano direttamente delle vicende umane né, tantomeno, le giudicavano e sanzionavano. Secondo la testimonianza di Plinio il giovane, ad esempio, al momento dell’eruzione del Vesuvio i pompeiani credevano che gli Dei avessero lasciato il mondo, abbandonandoli al loro tragico destino. È solo in tempi relativamente recenti che si sono sviluppate le credenze in quelli che lo psicologo canadese Ara Narenzayan definisce «Grandi Dei» (Grandi dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo, Cortina, 2014), cioè divinità che sorvegliano la nostra vita quotidiana e la regolano con promesse e minacce che si concretizzeranno nella vita ultraterrena. Da dove vengono queste divinità che sembrano oggi coincidere con l’idea stessa che abbiamo di religione? Secondo molti antropologi e psicologi, le dottrine e religioni morali si sono sviluppate in una fase recente dello sviluppo culturale umano, svolgendo un’importante funzione sociale: favorire la cooperazione e la coesione all’interno dei gruppi. Nelle piccole tribù dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori i legami di parentela e la conoscenza diretta tra gli individui erano probabilmente sufficienti a mantenere la cooperazione. Ma con l’avvento dell’agricoltura gli esseri umani si organizzarono in vaste e anonime società in cui era più facile comportarsi in modo non cooperativo. È proprio in queste società che le divinità morali avrebbero fatto la loro comparsa, per una evidente funzione sociale: gli individui che credono in divinità che sorvegliano e puniscono il male tenderanno a non danneggiare gli altri, anche quando non c’è nessun sorvegliante umano che li osserva. Questa tesi è stata recentemente confermata da una ricerca cui ha partecipato lo stesso Narenzayan pubblicata qualche settimana fa sulla rivista Nature. Gli autori hanno intervistato e sottoposto a dei semplici giochi di tipo economico 591 persone di otto differenti comunità di varie regioni del mondo (dalla Siberia alla Tanzania) che appartenevano a differenti religioni, tra le quali l’induismo, il buddismo e il cristianesimo, e che si riconoscevano in credenze locali quali l’animismo e il culto dei morti. I giochi economici richiedevano ai partecipanti di allocare delle risorse (delle monete) a se stessi oppure ad altri individui credenti che potevano appartenere alla loro stessa comunità locale oppure a estranei che appartenevano a una comunità molto distante. I partecipanti al gioco dovevano, almeno in teoria, distribuire le risorse in modo casuale, sulla base del lancio di un dado. Tuttavia, poiché ciascun giocatore operava la sua scelta in privato aveva la possibilità di ignorare l’esito del lancio del dado e destinare più risorse sulla base delle sue preferenze. I partecipanti erano più propensi a giocare secondo le regole, e concedere quindi più monete ad altri individui credenti ma estranei, appartenenti a comunità più lontane, quando gli dei in cui credevano erano capaci di conoscere i pensieri e i comportamenti delle persone e di punirli per i loro comportamenti illeciti. Insomma, quanto più i partecipanti al gioco credevano in dei che si occupano direttamente dei comportamenti umani, in modo moralistico e punitivo, tanto più erano disposti a destinare risorse a estranei che condividevano la loro stessa fede religiosa. A determinare il comportamento altruistico sembra essere la paura di una punizione, piuttosto che la fiducia in una ricompensa di origine divina. Questi risultati sembrano quindi confermare l’idea che lo sviluppo sociale umano è legato a quello delle religioni morali. La direzione della freccia causale però potrebbe andare in un senso opposto a quello sostenuto da Narenzayan e colleghi. Si potrebbe in effetti pensare che all’origine delle religioni morali vi sia lo sviluppo umano e non il contrario. Le divinità morali non sono infatti comparse subito dopo il costituirsi di società umane complesse, per esempio le religioni degli antichi imperi mesopotamici ed egizi ne erano prive. Esse fanno apparizione, quasi contemporaneamente, in tre diverse aree dell’Eurasia in un periodo relativamente breve e recente, compreso tra il V e il III secolo prima della nostra era. In tale periodo emergono dottrine, anche secolari, come il confucianesimo (Cina), lo stoicismo (Mediterraneo orientale) e l’induismo (India). Malgrado le differenze, queste dottrine hanno in comune un principio di base, quello secondo il quale lo scopo della vita umana non è accumulare beni materiali ma vivere all’insegna della moderazione e dell’aiuto agli altri. Lo storico di Stanford Ian Morris ha di recente scoperto che nelle aree geografiche e nel periodo sopra menzionati si manifestò un significativo aumento di indicatori di sviluppo economico come, in particolare, la quantità d’energia ricavata dall’ambiente. Per esempio, a differenza dei gruppi di cacciatori- raccoglitori che estraevano dall’ambiente 4.000 kcal al giorno per persona, e delle società arcaiche come l’antico Egitto che ne estraevano 15.000, le società che hanno dato la luce alle dottrine e divinità morali ne estraevano più di 25.000. Sotto la guida del giovane psicologo francese Nicolas Baumard, un gruppo di ricerca franco-americano, di cui fa parte lo stesso Morris, qualche mese fa ha ulteriormente corroborato l’ipotesi che l’emergere delle divinità morali sia legato allo sviluppo economico. Baumard e colleghi hanno messo a confronto vari modelli formali e hanno scoperto che quelli basati su indici di avanzamento economico come la quantità di energia estratta dall’ambiente predicono la comparsa e la diffusione delle divinità morali meglio dei modelli basati su indici di complessità socio- demografica. A questo punto sorge una domanda: stabilito che la crescita economica ha favorito la comparsa delle religioni morali, quali sono i meccanismi attraverso cui la prosperità economica ha permesso il diffondersi dell’ascetismo religioso e secolare? Tra le varie risposte considerate da Baumard e colleghi, la più convincente sembra essere la seguente: vivere in ambienti poveri e ostili porta le persone a focalizzarsi sul presente e le incoraggia a mettere in atto strategie a breve termine nell’interazione con gli altri (ad esempio, applicare la regola occhio per occhio, dente per dente). Viceversa, vivere in ambienti prosperi e sicuri porta le persone a focalizzarsi sul futuro e a mettere in atto strategie più a lungo termine nei confronti degli altri (ad esempio, seguire la regola «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te»). Insomma, le credenze e le pratiche legate ai principi delle religioni e delle dottrine ascetico-morali sarebbero il riflesso dei cambiamenti nelle motivazioni e negli stili di vita indotti dalla prosperità economica. Quattrocento anni fa, Galileo accettava l’opinione di un «eminentissimo prelato» secondo la quale «l’intenzione delle Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo». Oggi possiamo constatare che per la scienza non valgono i vincoli saggiamente imposti, sin dai tempi di Galileo, dai più illuminati membri della Chiesa al loro stesso magistero. La ricerca scientifica è l’unico strumento che abbiamo per capire come va il cielo, ma è anche l’unico strumento che ci permette di capire i modi in cui, nel corso della loro storia, gli esseri umani hanno pensato di poter andare in cielo. Purzycki, B.G, Apicella, C., Atkinson, Q., Cohen, E., McNamara, R.A., Willard, A.K. Norenzayan, A., Henrich, J. (2016), Moralistic Gods, Supernatural Punishment and the Expansion of Human Sociality , Nature, 530: 327-330. Baumard, N., Hyafil, A., Morris, I., Boyer, P. (2015), Increased Affluence Explains the Emergence of Ascetic Wisdoms and Moralizing Religions , Current Biology, 25: 10-15 Vittorio Girotto e Giorgio Vallortigara ========================================================= _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 06 apr. ’16 NUOVA RETE OSPEDALIERA E ASL UNICA ENTRO 90 GIORNI Il vertice del centrosinistra approva la tabella di marcia sulla riorganizzazione Da domani al via i lavori della commissione Salute. Pronto il dl sull’Asl CAGLIARI Il serrate le fila sulla sanità è cosa fatta. Per vedere i risultati ci vorrà ancora del tempo, ma neanche troppo: massimo 90 giorni e il pacchetto sarà pronto. Dal vertice di maggioranza, è uscito fuori quello che gli esperti chiamano cronoprogramma. Eccolo: prima la riorganizzazione della rete ospedaliera, da giovedì in commissione Salute del Consiglio regionale, poi il disegno di legge sull’Asl unica, dopo che la Giunta ha giurato di licenziarlo fra due settimane. Se sul calendario il confronto è stato sereno o quasi, è sulla «polpa» che potrebbero esserci ancora un bel po’ di problemi nel centrosinistra. È presto per dirlo, ospedali e Asl sono argomenti delicati e sensibili, l’importante comunque era cominciare subito. La tabella. Quella di marcia è stata sottosctitta da tutti: dal presidente del Consiglio e a quello della Giunta, dai capigruppo all’ultimo dei consiglieri del centrosinistra. Domani a tagliare il nastro sarà la commissione Salute, presieduta da Raimondo Perra (Psi), che comincerà a esaminare la bozza definitiva della rete ospedaliera insieme all’assessore Luigi Arru. «Siamo pronti – ha detto Perra – Subito dopo cominceremo le audizioni e poi ci saranno i sopralluoghi negli Asl. Vogliamo avere un quadro esatto di come la riorganizzazione cambierà la mappa dei posti letto». Nella riunione l’assessore alla Sanità Luigi Arru ha detto: «Il confronto con i territori è stato ampio e tutte le osservazioni che ci sono state segnalate, le abbiamo accolte». Ad esempio il rinforzo dell’ospedale di Lanusei, o la conferma dei punti nascita di La Maddalena e Tempio fino a quando non partirà l’Azienda regionale per le emergenze-urgenze. Anche l’accoppiata degli ospedali di Alghero e Ozieri è stata accolta come suggerimento. «Non è una mappa blindata – ha precisato ancora Perra – e infatti abbiamo chiesto all’assessore una relazione approfondita sull’ultimo incontro che ha avuto con i sindaci, l’altro giorno ad Abbasanta». Stando alle previsioni saranno due settimane intense. Il doppio binario. È la strategia messa a punto quando sarà pronto anche il disegno di legge sull’Asl unica. «L’abbiamo discusso in Giunta – ha detto l’assessore Arru – e ci sono ancora alcune questioni da chiarire. Ormai siamo ai dettagli». Su una sola azienda sanitaria regionale, salvo colpi di scena sempre possibili, il centrosinistra ha deciso di mantenere «una rotta dritta», Secondo Perra sarebbe stato meglio discutere prima di Asl: «Ma non potevano perdere certo due settimane. Fra tre mesi, vogliamo arrivare all’appuntamento col pacchetto approvato. A fine giugno scadrà il mandato ai commissari delle Asl e dal primo luglio tutto dovrà essere pronto». Laboratori d’analisi. Nell’ultima seduta, la Giunta ha deciso di riorganizzare anche la rete dei laboratori di analisi pubblici e privati. «L’attuale è frammentaria – ha detto Arru – Occorre superarla per contenere i costi, ma lo faremo in modo graduale, per puntare a un’aggregazione fra le strutture ad alta capacità produttiva». (ua) _________________________________________________________________ Il sole24Ore 07 apr. ’16 LA FORMAZIONE SPECIALISTICA DEI MEDICI VERSO UN NUOVO RESTYLING È scontro sul nuovo restyling della formazione dei giovani medici di Benedetta Pacelli La formazione specialistica dei medici verso un nuovo restyling. Ma l’università dice no ad altre modifiche sul sistema formativo e alle differenze nel percorso di studi. Ad animare il dibattito la bozza sulla legge delega in materia di gestione e sviluppo delle risorse umane (ex art 22 Patto Salute) che - è l’oggetto del contendere - prevede l’inserimento con contratto a tempo determinato degli specializzandi nel Servizio sanitario nazionale già a partire dal secondo biennio. Un nodo difficile da sciogliere dove la quadratura andrà trovata tra le posizioni dell'intersindacale, che ha elaborato una proposta di modifica dal documento ministeriale, e la posizione di ministeri e regioni che formuleranno nuove osservazioni entro il 26 aprile, data della prossima riunione. La norma La bozza del provvedimento prevede innanzitutto l’istituzione della rete formativa regionale ed interregionale, costituita sia da strutture universitarie che da strutture ospedaliere, pubbliche e private accreditate e contrattualizzate con il Servizio sanitario nazionale. Inoltre per favorire la conciliazione tra lavoro ed esigenze familiari e per un periodo non superiore a 12 mesi, è consentito al medico e al veterinario specializzando e al medico in formazione specifica in medicina generale, la frequenza con impegno orario ridotto, con successivo recupero insieme alle attività formative non svolte. E poi previsto un inserimento degli specializzandi nelle strutture formative che, secondo le proposte dell'intersindacale, dovrà tener conto dei criteri di rotazione e dovrà risultare in coerenza con gli obiettivi definiti dagli ordinamenti didattici dei relativi corsi di specializzazione e di formazione. Le posizioni Ma le ipotesi formulate non vanno già all’università preoccupata, innanzitutto, di un nuovo restyling per la formazione specialistica. Il sistema della formazione medica specialistica, si legge infatti in una richiesta fatta dal presidente del Cun, Andrea Lenzi al ministro dell’Istruzione e università Stefania Giannini «non sia ancora una volta sottoposto a modifiche che ne comportino un ennesimo profondo ripensamento, quando ancora ci si sta confrontando con la prima fase dell'applicazione della recentissima riforma e questa ancora deve mostrare tutte le sue potenzialità di miglioramento e razionalizzazione». Bersaglio delle critiche del Cun è soprattutto il doppio canale formativo (Università-Ssn) per la specializzazione, tanto che si chiede al ministero che «si adoperi affinché siano evitate differenze nel percorso formativo di scuole di una medesima tipologia a seconda della sede di frequenza, tali da comportare inadeguatezza del percorso formativo stesso, rischiando di non garantire la conformità con i processi di formazione europea e generando incertezze negli stessi specializzandi». Infine la richiesta è nel processo di revisione di ascoltare le rappresentanze dei docenti e degli studenti nonché gli esperti presenti presso il Miur. ___________________________________________________________ Quotidiano Sanità 06 apr. ’16 SPECIALIZZAZIONI MEDICHE. L’ALTOLÀ DELLE UNIVERSITÀ alle proposte dei sindacati sulla formazione. Lenzi (Cun) a Giannini: “No a differenze nel percorso di studi” Sotto tiro le proposte per delega per il lavoro in sanità prevista dall'art.22 del Patto per la Salute. “Il sistema della formazione medica specialistica non sia ancora una volta sottoposto a modifiche, quando ancora ci si sta confrontando con la prima fase dell’applicazione della recentissima riforma”. E poi: “Ogni revisione andrà discussa con docenti, studenti ed esperti del Miur”. LE RACCOMANDAZIONI CUN 06 APR - “Il sistema della formazione medica specialistica non sia ancora una volta sottoposto a modifiche che ne comportino un ennesimo profondo ripensamento, quando ancora ci si sta confrontando con la prima fase dell’applicazione della recentissima riforma e questa ancora deve mostrare tutte le sue potenzialità di miglioramento e razionalizzazione”. Questa una delle richieste fatte dal presidente del Cun, Andrea Lenzi al Ministro Stefania Giannini in merito ai lavori sulla legge delega al lavoro in sanità (art.22 Patto Salute). Bersaglio delle critiche del Cun è proprio il doppio canale formativo (Università-Ssn) per la specializzazione. “Il ministro dell’Istruzione, dell'Università e della Ricerca – sottolinea Lenzi - si adoperi affinché siano evitate differenze nel percorso formativo di scuole di una medesima tipologia a seconda della sede di frequenza, tali da comportare inadeguatezza del percorso formativo stesso, rischiando di non garantire la conformità con i processi di formazione europea e generando incertezze negli stessi specializzandi. Altresì si chiede che qualunque proposta di revisione sia discussa solo dopo aver sentito le rappresentanze dei docenti e degli studenti nonché gli esperti presenti presso il Miur coinvolgendoli nei tavolo tecnici dedicati alla formazione in area medica e specialistica”. Ma il presidente chiede anche “che il Cun e il Cnsu, organi di rappresentanza elettive di tutte le componenti accademiche e studentesche presso il Miur e l’Osservatorio nazionale della formazione medico specialistica siano costantemente informati e coinvolti in ogni processo di riforma”. Infine Lenzi chiede al Ministro che “gli attuali specializzandi possano esprimere con chiarezza, sia in forma diretta sia tramite i rappresentanti elettivi presenti ai tavoli nazionali di coordinamento, le loro valutazioni in merito alle nuove proposte in discussione e agli scenari che esse concorrono ad aprir e che prefigurano una graduale uscita della formazione specialistica dal sistema universitario, questo al fine di evitare che il silenzio dei tanti dia spazio alla decisione di pochi”. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 06 apr. ’16 SOLDI PER SALTARE LE LISTE D’ATTESA TRE ARRESTI IN OSPEDALE A SALERNO Avrebbero chiesto ai loro pazienti denaro per accelerare i tempi di ricoveri e interventi chirurgici, superando le liste d’attesa. Nell’inchiesta della Procura di Salerno sull’ospedale Ruggi d’Aragona, sono stati arrestati due medici e una caposala (mentre un altro medico è stato sospeso dal servizio). Indagato (ma i pm avevano chiesto l’arresto) anche Takanori Fukushima, il neurochirurgo che lo scorso ottobre divenne famoso per la presunta visita, poi smentita, al Pontefice. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 06 apr. ’16 LA SANITÀ CORROTTA CI COSTA 6 MILIARDI L’ANNO Il dossier di Transparency: coinvolta una Asl su tre. A Milano requisitoria sul caso Maugeri ROMA La sanità, «anche in tempi di crisi, è il terreno di scorribanda da parte di delinquenti di ogni risma». E il malaffare prolifera soprattutto in «liste d’attesa e appalti per l’acquisto di beni e servizi, comprese le camere mortuarie». La fotografia la scatta Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, nel corso di un incontro nella Capitale in occasione della prima giornata nazionale contro le mazzette in corsia. Se le vecchie bustarelle «sono ormai solo un ricordo», ammette imbarazzato Cantone, nel rapporto «Curiamo la corruzione» presentato da Transparency Italia, Censis e Ispe-Sanità, sono emersi dati piuttosto preoccupanti: in una Asl su tre, ad esempio, si sono verificati episodi di corruzione negli ultimi 5 anni. E non lo dicono i magistrati, ma lo denunciano gli stessi dirigenti delle 151 strutture sanitarie che hanno partecipato all’indagine sulla percezione di episodi da Codice penale. Per non parlare del fatto che il 77% dei manager ritiene che ci sia il rischio concreto di fenomeni di corruzione all’interno della propria struttura. Inoltre se le ruberie costano 6 miliardi l’anno ai contribuenti, le Asl sprecano ancora 1 miliardo l’anno. Cantone, però, invita alla cautela e ricorda: «Abbiamo comunque una sanità che assicura standard elevatissimi e abbiamo messo in campo strumenti nuovi, abbiamo fatto delle linee guida e individuato gli snodi su cui intervenire: primo fra tutti quello delle liste di attesa, che sarebbe bello se potessero essere trasparenti, ma c’è la privacy. Di certo dobbiamo intervenire e fatti come quello di Salerno (arresti per mazzette proprio sulle liste di attesa, ndr ) mi inquietano». A suo sostegno Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, annuncia che «a giorni con il presidente Cantone sottoscriveremo un protocollo per attuare controlli congiunti per garantire l’attuazione del Piano nazionale anticorruzione dedicato alle Asl». «I criminali, quando rubano in sanità, commettono un reato ancora più grave — osserva il ministro —. Il grande strumento contro la corruzione è la trasparenza dei dati». Se con la revisione della spesa il governo «vuole lottare contro la corruzione — sottolinea Lorenzin — e recuperare ampi spazi di efficienza e di razionalizzazione dell’offerta», il garante della legalità punta anche a lavorare come un bravo medico «per stimolare nella sanità “anticorpi anticorruzione”, a partire dagli operatori». In fondo «non è giusto dire che tutto il sistema è corrotto perché non è affatto vero — taglia corto Cantone — anche se per ottenere dei risultati contro il malaffare ci attendiamo tempi non brevi». E ieri è cominciata nel Tribunale di Milano la requisitoria al processo Maugeri nel quale l’ex governatore Roberto Formigoni è imputato di associazione per delinquere e corruzione per 9 milioni ricevuti in benefit e regali da Pierangelo Daccò. Duro il pm Laura Pedio: «Un gruppo di criminali ha guidato la Regione Lombardia: ha rubato soldi alla sanità pubblica destinati ad accorciare le liste d’attesa e migliorare le prestazioni. Soldi rubati da chi avrebbe dovuto tutelarla» . Francesco Di Frischia _________________________________________________________________ Il Sole 24Ore 07 apr. ’16 CORRUZIONE IN UNA ASL SU 3: COSTI PER 6 MILIARDI Rapporto Censis-Ispe-Rissc. Per l’Anac una delle maggiori criticità sono le liste d’attesa e perfino la gestione delle camere mortuarie Cantone: la sanità è terreno di scorribande di delinquenti, così si abbassano i livelli dei servizi roma Gli acquisti di beni e servizi che fanno gola e generano affari illegittimi, le scorciatoie da brivido negli appalti, le assunzioni di personale fuori ordinanza, le liste d’attesa pilotate sulla pelle e le tasche dei malati, la libera professione con trucco dei medici pubblici, l’uso spregiudicato dei farmaci. E poi quegli sprechi miliardari (almeno 1 mld) per voci di spesa non collegate alle cure, dalle mense alle lavanderie alle pulizie delle corsie. Risultato: in una asl o in un ospedale pubblico su tre negli ultimi cinque anni s’è registrato un episodio di corruzione e secondo il 76% dei manager c’è il rischio concreto che nella propria struttura possa verificarsi un fenomeno corruttivo senza neanche usare le armi a disposizione per combattere quello che è diventato ormai un vero e proprio virus. Il virus della corruzione, che nella sanità sta diventando un male endemico. Che secondo alcuni può valere 6 mld. Ma possono essere poco di più, o poco di meno. Nulla cambia. Tanto che Raffaele Cantone, presidente Anac, pur cauto sui numeri, usa parole dure come la pietra: «Per l’enorme giro d’affari che ha intorno, la sanità è terreno di scorribande da parte di delinquenti di ogni tipo. La sanità assicura standard elevatissimi, ma la corruzione abbassa i livelli dei servizi». Perché ruba denaro alle cure, a chi ne ha bisogno. E allora, dice Cantone: «Sarei molto cauto sui numeri, ma credo che in sanità ci sia un problema molto significativo di sprechi e di fatti corruttivi». La celebrazione ieri a Roma della prima «Giornata nazionale contro la corruzione in sanità», promossa con tanto di rapporto («Curiamo la corruzione») da Transparency International Italia, Censis, Ispe sanità e Rissc, ha riacceso i fari mai spenti, ma talvolta troppo bassi, degli sprechi e del malaffare nella sanità pubblica. Che poi è una torta di tutto rispetto: 111 mld (quest’anno) di risorse al Ssn, ma almeno altri 34 mld di spesa privata e di costi tutti a carico delle tasche degli italiani. Con i fatti amari e le truffe di tutti i giorni, le mazzette per avere prima una visita, la Guardia di Finanza che ha denunciato 806 mld di danni erariali nel Ssn. Già, quel vorticoso giro d’affari da quasi 140 mld intorno al quale in tanti vanno come le api al miele. «La mazzetta tradizionale è rimasta quasi solo un ricordo - ha denunciato ancora ieri Cantone alla presentazione del "Rapporto" -. Una delle maggiori criticità nel nostro piano anticorruzione sono le liste d’attesa. Anche le farmaceutiche, perfino la gestione delle sale mortuarie». Spesa che vai, malaffare che trovi. La ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, nel suo messaggio ha rivendicato di aver voluto «aggredire» fin dall’inizio col Governo la corruzione. Da battere ora anche con la «circolazione,la condivisione e la trasparenza dei dati» e con la sanità digitale. E con i controlli, con le ultime misure della legge di stabilità 2016 sulle centrali uniche d’acquisto e le gare. Poi col «Piano nazionale anticorruzione» messo a punto proprio insieme a Cantone, che presto sarà rinverdito con precise linee guida per renderlo operativo e non consentire a nessuno nelle asl e negli ospedali di dimenticarlo, o peggio di aggirarlo. Perché poi proprio questo denunciano i dati del «Rapporto» presentato ieri. Il 40% delle aziende sanitarie non ha pubblicato i rischi di corruzione e tanto meno le misure di prevenzione, mentre un’analisi benché parziale dei rischi è stata effettuata da poco più di una struttura su tre. In breve: appena una azienda sanitaria su quattro ha dato corso agli obblighi di legge. Con una classifica al Sud da far tremare i polsi agli onesti: gli obblighi anticorruzione sono sconosciuti al 100% in Molise, all’89% in Calabria, al 60% in Campania, al 58% in Sicilia. Dove al profondo disavanzo, a gestioni scellerate di decenni, corrisponde appunto non a caso un’infezione corruttiva massima. E antidoti zero, o quasi. E così acquisti di beni e servizi, realizzazione di opere e assunzione di personale sono classificati nell’ordine i principali ambiti a rischio di corruzione. Col 37% delle strutture sanitarie che negli ultimi cinque anni è stata infettata dal virus e un caso su tre degli episodi corruttivi non è stato aggredito come andava fatto. Intanto la barca andava. E le cure per chi ha davvero bisogno facevano a pugni coi tagli ripetuti di questi anni di rigore e per sovrappeso con il denaro pubblico rubato. Chissà, quattro, o forse sei, o forse otto miliardi sottratti ai più deboli. «Un furto di salute», hanno denunciato Lorenzin e Cantone. © RIPRODUZIONE RISERVATA Roberto Turno _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 apr. ’16 AOUCA: ABUSO D'UFFICIO E FALSO: ASSOLTO GIAN BENEDETTO MELIS Il ginecologo era finito sotto processo dopo la denuncia del suo collega Andrea Corda L'abuso d'ufficio «non sussiste» e il falso in atto pubblico «non lo ha commesso». È stato assolto da tutte le accuse l'ex direttore sanitario dell'azienda ospedaliero universitaria Gian Benedetto Melis. Il noto ginecologo (difeso dall'avvocato Leonardo Filippi) era finito a processo per falso e abuso d'ufficio dopo la denuncia del suo collega, anch'egli ginecologo, Andrea Corda (parte civile con l'avvocato Massimiliano Ravenna). Corda accusava Melis di averlo estromesso (dal 2005 al 2012) dalle operazioni ginecologiche e anche dalla diagnostica ecografica. Mentre il presunto falso si riferisce a una cartella clinica (del novembre 2005) in cui Melis veniva indicato come “primo operatore” in un giorno in cui, secondo Corda, non avrebbe potuto esserci, poiché si trovava a Sassari per un incarico peritale. Ritenuto dall'accusa responsabile di entrambi i reati contestati, Melis rischiava una condanna a tre anni e tre mesi di reclusione: è questa la pena sollecitata davanti ai giudici della prima sezione penale dal pm Gaetano Porcu lo scorso gennaio. Il Collegio, però, ieri ha disatteso le richieste del pm, accolto la tesi difensiva, e assolto l'imputato da tutte le accuse. Fondamentali all'esito del processo sono state le dichiarazioni dei testimoni: «Tutti», ha spiegato l'avvocato Filippi, «hanno affermato che a Corda non era stato impedito di operare ma che fosse lui invece a presentarsi in sala operatoria in ritardo e talvolta a non presentarsi proprio». Non solo: la difesa ha sottolineato che «il giorno in cui Melis era stato indicato in cartella clinica come “primo operatore” (vicenda che riguarda il presunto falso) era entrato in sala operatoria all'inizio dell'intervento», inoltre, «un falso non poteva esserci perché la cartella non era firmata». «Siamo contenti di questa sentenza», commenta Filippi, «finalmente viene resa giustizia a un uomo, un professionista, che lavora per la salute delle donne e dispiace che sia stato trascinato in Tribunale. Adesso valuteremo se presentare una querela per calunnia contro Corda». Veronica Nedrini _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 10 apr. ’16 TRUFFA ALLA ASL: ASSOLUZIONE PER MANAGER E MEDICI Dopo il primo grado, l'Appello: il professore di Neurochirurgia Alberto Maleci, il docente di Ortopedia Claudio Velluti e l'ex amministratore legale della casa di cura Policlinico Città di Quartu Antonio Macciotta sono stati assolti con formula piena (il fatto non sussiste) anche nel processo di secondo grado dall'accusa di aver truffato la Asl perché, in quanto professori universitari, Velluti e Maleci secondo il pm non avrebbero potuto svolgere la libera professione in strutture accreditate con il servizio sanitario nazionale, come invece avevano fatto. Già il giudice monocratico, accogliendo le tesi degli avvocati difensori Francesco Atzori, Massimiliano Ravenna e Mariano Delogu, aveva stabilito che medici e manager non avevano provocato danni alle casse pubbliche chiedendo il rimborso per gli interventi di chirurgia ortopedica eseguiti come liberi professionisti. Ora anche il collegio d'appello ha messo la firma sulla stessa valutazione. ______________________________________________ Corriere della Sera 07 apr. ’16 ROVESCIAMO LA CLESSIDRA DEL WELFARE di Maurizio Ferrera Gli anziani con più di 65 anni sono tredici milioni, più di un quinto della popolazione. È comprensibile che le loro esigenze siano al centro del dibattito politico e che le pensioni e la sanità assorbano la parte preponderante della spesa sociale. Si tratta del «welfare per la sicurezza e la cura», rivolto a quei cittadini che hanno già dato il loro apporto alla collettività durante la vita attiva. Non un costo, dunque, ma un giusto ritorno per il lavoro svolto, l’impegno sociale, i contributi versati e le tasse — che peraltro continuano a essere pagate anche durante il pensionamento. Il problema delle risorse non può tuttavia essere ignorato. Ogni dato anno, pensioni, sanità, servizi per gli anziani devono essere finanziati dal gettito di quell’anno. Le imposte e i contributi del passato sono stati già spesi, non c’è alcuna «riserva» disponibile. Anzi, da decenni lo Stato italiano spende più di quanto incassa. Per alimentare il «welfare per la sicurezza» è indispensabile avere alti tassi di crescita e di occupazione. Su questo fronte l’Italia è messa male. La produttività è da anni in declino rispetto ai Paesi concorrenti. La quota di lavoratori sulla popolazione adulta (18-65) è la più bassa d’Europa. Fra le cause, vi è anche l’assenza di politiche pubbliche mirate ed efficaci. Abbiamo urgente bisogno di un «welfare per la crescita e la competitività», che affianchi le persone nei loro percorsi lavorativi. U n welfare che garantisca formazione permanente, consenta la conciliazione famiglia-lavoro, fornisca ammortizzatori sociali intelligenti, faciliti la mobilità e la flessibilità. Lo Stato deve essere il regista del «welfare per la crescita», ma molto può e deve essere fatto a livello decentrato, grazie alla collaborazione fra imprese e sindacati. È la strada imboccata, con grande successo, dalla Germania. Anche noi stiamo facendo i primi passi, prima col Jobs act, ora con il ventaglio di misure a favore della contrattazione aziendale. Ma occorre procedere più speditamente e investire più risorse. Serve infine un «welfare per l’inclusione attiva», rivolto alle fasce più deboli. L’Italia ha da anni una preoccupante anomalia: i più deboli sono i minori che vivono in famiglie disagiate, con i genitori disoccupati o inattivi, collocati ai margini estremi del mercato del lavoro. Molti di questi bambini e adolescenti abbandonano la scuola e non riescono a inserirsi (i famosi Neet: circa un milione e mezzo). Il loro capitale umano è basso, in molti casi persino più misero di quello dei loro genitori. Nei confronti di questi giovani la società ha doveri di inclusione non inferiori ai doveri di protezione verso gli anziani. Non si tratta solo di equità, ma anche di efficienza. Senza robuste passerelle che immettano nel mercato del lavoro studenti motivati e competenti, il motore della crescita s’inceppa prima ancora di dar frutti sul piano della produttività e dell’occupazione. L’inclusione attiva deve riguardare anche i lavoratori ultracinquantenni che rischiano di essere espulsi dalle imprese. Il governo ha dato qualche segnale, prima con le misure di contrasto alla povertà (compresa quella educativa), ora con una legge delega sul riordino dell’assistenza. Ma sono, francamente, pannicelli caldi. Da qualche settimana si è riacceso il dibattito sulle pensioni. A gran voce si propone di re-introdurre flessibilità in uscita (alcuni chiedono addirittura che ciò avvenga senza penalizzazioni) e di estendere il bonus da 80 euro a chi ha prestazioni basse. Il conto sarebbe molto salato. Di crescita e inclusione nessuno si preoccupa. È tempo di capovolgere il ragionamento. Il welfare per la competitività e quello per l’inclusione sono condizioni necessarie per continuare a finanziare il welfare per la sicurezza. Non si tratta di mettere in contrapposizione giovani, adulti e anziani. Ma di capire che senza investimento sui primi e sui secondi non può esservi protezione sostenibile per chi non lavora più. Abbassiamo le luci sulle pensioni e accendiamole sulle politiche per l’occupazione, la formazione, l’istruzione, il contrasto alla povertà dei minori. Senza proclami e dogmatismi. E con l’impegno a introdurre misure concrete e ambiziose nella prossima legge di Stabilità. Maurizio Ferrera _________________________________________________________________ Il Sole 24Ore 09 apr. ’16 FARMACI E MEDICI, COMPENSI ONLINE Industrie del farmaco e medici alla prova trasparenza. Scatta dal 30 giugno l’operazione "Disclosure code", il nuovo codice lanciato dall’associazione europea delle industrie farmaceutiche (Efpia) e recepito da Farmindustria che obbligherà le imprese associate a pubblicare sul web i nomi dei professionisti della sanità e delle organizzazioni che collaborano con loro e i dati 2015 delle transazioni economiche relative a «convegni, consulenze e comitati consultivi». A ciò si aggiungono «le sovvenzioni per la ricerca e lo sviluppo, che verranno pubblicate in aggregato». «Una svolta epocale», la definisce il presidente di Farmindustria Massimo Scaccabarozzi. Ma una volta rese pubbliche queste informazioni, il rischio è di scatenare un vespaio. «Sappiamo che alcuni utilizzeranno questi dati facendosi guidare dal pregiudizio – spiega Scaccabarozzi – ma accettiamo il rischio. Per noi si tratta di collaborazioni positive, un trasferimento bilaterale di valori che va a beneficio della ricerca e dei pazienti e che dovrà essere sempre più trasparente». Per la pubblicazione dei dati individuali è necessario il disco verde dei singoli professionisti. Ma per le transazioni il cui destinatario resterà «anonimo», le informazioni saranno pubblicate in forma aggregata. «Dai primi riscontri – spiega Scaccabarozzi – la stragrande maggioranza dei dottori ha dato l’ok». Per l’Ordine dei medici e la Cgil l’operazione «comporta dei rischi» ma sarà «un’occasione importante per la categoria». Ro. M. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 09 apr. ’16 IL RAZZISMO DELL’ETÀ di Costanza Rizzacasa d’Orsogna C’è Jane Fonda, che a 78 anni e scollatura da vertigine giura di farlo ancora molto bene e nella serie Grace and Frankie discetta, con la 76enne Lily Tomlin, di vibratori e lubrificanti intimi per la post menopausa. C’è Helen Mirren, giubbotto in pelle nera, che reclamizza la crema L’Oreal «per far vedere chi comanda a quelle macchie dell’età». Ma anche Daphne Selfe, riscoperta a settant’anni e che ad 87 posa ancora per Moschino, Carmen Dell’Orefice, in collant sulla copertina di New You ad 84 , Charlotte Rampling, 70enne volto NARS Cosmetics. Babbiona a chi? Le supernonne rivendicano tutto: amore, incarichi, bellezza, soprattutto sesso. Christie Brinkley in costume da bagno sulla cover di People alle 60 candeline non fa più notizia — anche perché c’è Jackie O’Shaughnessy che a 64 è immortalata in lingerie di pizzo. Ma non sarà che è solo un’altra faccia della discriminazione sull’età, dell’ageism? Che il privilegio di pochissime (ricche, belle, fortunate) stressi tutte le altre, le normali, con modelli irraggiungibili? Ne è convinta Ashton Applewhite, ricercatrice a Yale, che sulla discriminazione degli anziani dal 2007 tiene un blog, This Chair Rocks , adesso diventato un libro, in cui denuncia l’impennata di incidenti tra ottantenni che per non apparire vecchie rifiutano l’apparecchio acustico, il deambulatore. Lo chiamano «successful aging», l’invecchiare di successo, come se ce ne fosse uno da falliti. Se oggi non è più accettabile, protesta Applewhite, esser misogini o razzisti, perché lo è ancora discriminare sull’età? Quand’è che diventare anziani è stato abolito e siamo state condannate al Forever Young? Perché è meraviglioso che il genio di Iris Apfel, 94 e arredatrice di nove presidenti USA, sia celebrato nello spot della DS Citroën, che a 81 anni Joan Didion sia preferita da Céline a una decerebrata star di Instagram. Ma se per stare al passo devi attorcigliarti nel kukkutasana dello yoga, non è che la vita era più facile, migliore, quando smettere di provarci era concesso, anzi affrettato? Quando a cinquant’anni potevi metter su 15 chili, non vergognarti della pelle dondolante delle braccia e con la mano a coppa sull’orecchio urlare, «Eh?». Abbiamo eliminato la vecchiaia, ma è la peggiore tirannia. Mannaggia ai baby boomer, che quest’anno compiranno 70 anni e hanno capito, e son terrorizzati, che non possono più fingere, non importa quanto succo di kale. Non solo un problema degli âgé. La grossa grana dei Millennial, nota Grace Dent sull’Independent, sono i decenni — sette, otto — che gli restano da vivere. L’ageism, del resto, è un pregiudizio contro tutti. Tanto diffuso che sui siti per redigere il cv la domanda più frequente è, «Posso mentire sull’età?». Così il governo francese ha introdotto l’obbligo, per le imprese di oltre 50 dipendenti, del curriculum anonimo, mentre negli USA un’altra legge protegge dal ’67 contro le discriminazioni sul lavoro dai 40 in su. Ma che vuol dire essere anziani? E chi decide quando lo diventiamo? Se l’età della pensione, che risponde a logiche come la sostenibilità finanziaria del sistema, è regolata dai singoli Paesi (in Italia la legge Fornero, dove l’età minima aumenta con la speranza di vita), per altri indicatori vige una convenzione internazionale. Nell’indice di vecchiaia, per esempio, cioè il rapporto tra i maggiori di 65 anni e i minori di 15, dove l’Italia si contende il primato mondiale col Giappone ed europeo con la Germania, è quel 65+. Se non fosse che a 66 oggi sei una giovinetta. Anche la medicina gioca un ruolo nello stigma. «Si basa ancora su un’aspettativa della vita di 75 anni», spiega Marco Trabucchi, presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria, «quando invece è dieci anni di più. Un 90enne con acciacchi ma un supporto familiare ed ambientale sarà più giovane di un 74enne che di quei servizi è privo. Se la politica, la società vedono i vecchi come un peso, la medicina li definisce in base a quello che hanno perso: non il miglior concetto su cui impostare un’esistenza che è sempre più lunga». Occorre una narrativa più realista, osserva Marc Freedman, fondatore di encore.org, che aiuta a realizzare seconde carriere. «I vecchi non sono solo Alzheimer, ma neanche Jane Fonda. Puoi e devi puntare a restare in salute, ma sognare l’eterna giovinezza è autodistruttivo». Così un geriatra gira il mondo per combattere i cliché. Bill Thomas, tra i dieci più importanti innovatori americani per il Wall Street Journal , inventore della casa di riposo alternativa, con animali e asili, che ha permesso di tagliare mortalità e costi sanitari. «Espressioni della super efficienza come “Conta l’età mentale” e “Hai gli anni che ti senti” fanno solo male», spiega. «Perché impediscono di accettarci come siamo». Il messaggio giusto è proprio l’opposto. Di una terza fase della vita ricca quanto le altre due, solo diversa. «Come nel modo il cui il cervello stimola la creatività: più precisi i giovani, più bravi i vecchi a improvvisare». O per dirla à la Helen Mirren, «Vali? Più che mai». Costanza RdO _________________________________________________________________ Corriere della Sera 03 apr. ’16 IN CALO LA SPESA DEGLI ITALIANI PER I TICKET IN PRONTO SOCCORSO nel 2015 gli italiani hanno speso di più in ticket sanitari sui farmaci (+1,3%), ma è diminuito l’esborso per «la specialistica» e l’accesso al Pronto soccorso (-3,1%). Lo evidenzia l’ultimo rapporto della Corte dei conti sulla finanza pubblica nel raffronto con l’anno precedente. Complessivamente nel nostro Paese sono stati pagati come compartecipazione alle spese sanitarie, ticket per 2 miliardi e 857 milioni di euro contro i 2 miliardi e 883 milioni del 2014: una leggera flessione (26,1 milioni in meno pari allo 0,9%) che si rispecchia anche nella spesa pro capite, scesa da una media di 48,6 euro nel 2015, ai 47 dell’anno scorso. A livello di area, si è speso di più al Nord, con 51,4 euro per ogni cittadino, contro i 48,4 euro del Centro e i 40,3 di Sud e Isole. Tra le singole Regioni in Veneto si registra la quota più alta (61,6 euro a testa), mentre la più bassa è in Sicilia con 32,4 euro. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 06 apr. ’16 UNISS: PERCHÉ LE DONNE PRENDONO PIÙ ANTIBIOTICI La non parità nelle terapie: 27% di prescrizioni in più. «Sentono di dover guarire subito» di Anna Meldolesi Stoicamente decisa a fare tutto, nonostante il febbrone, con il pensiero alla famiglia che, in caso di infermità prolungata, andrebbe a rotoli. Quando ad ammalarsi è una donna, la possibilità di vedersi prescrivere la scorciatoia (illusoria) degli antibiotici è superiore rispetto a un uomo: il 27 per cento in più. La ricerca è dell’infettivologa italiana Evelina Tacconelli e dei colleghi dell’Università di Tubinga. Lui non riesce ad alzarsi dal letto, anche se il termometro segna soltanto due lineette. Lei continua stoicamente a fare tutto, nonostante il febbrone. Lui non vuole vedere il dottore. Lei ci va spesso, anche se poi non si cura nel migliore dei modi. Lui si preoccupa per le grane che si accumulano in sua assenza sul posto di lavoro. Lei pensa soprattutto alla famiglia che, in caso di infermità prolungata, andrebbe a rotoli. Stereotipi? Sì e no. I maschi non sono tutti uguali e le femmine neppure. Al cinema abbiamo riso per l’ipocondria di coppia di Carlo Verdone e Margherita Buy in Maledetto il giorno che t’ho incontrato , ma la medicina di genere rivela differenze significative nel modo in cui i due sessi si ammalano e si curano. Gli ultimi dati sono usciti sul «Journal of Antimicrobial Chemotherapy» e riguardano gli antibiotici. L’infettivologa italiana Evelina Tacconelli, in forza all’Università di Tubinga, e i suoi colleghi hanno analizzato undici studi sulle prescrizioni effettuate in Italia, Danimarca, Regno Unito, Spagna, Israele, Germania, Nuova Zelanda, Svezia e Belgio. I dati coprono oltre 44 milioni di pazienti e dimostrano che le donne assumono più antibiotici degli uomini. Lei ha in media una probabilità del 27 per cento più alta rispetto a lui di vederseli prescrivere, e la forbice si allarga considerando le donne in età fertile. Alle ragazze di 16-34 anni vengono dati il 36% di antibiotici in più. Per la classe di età successiva, fino a 54 anni, si arriva al 40 per cento. Il fenomeno interessa in particolare il trattamento delle infezioni delle vie respiratorie. Perché? «Forse contribuisce il fatto che le mamme sono più esposte dei papà alle malattie che i bambini contraggono a scuola», ragiona Flavia Franconi. La farmacologa, ora assessore alla Sanità della regione Basilicata, è la maggior esperta italiana di medicina di genere ed è stata chiamata dall’Onu per contribuire alla stesura dei documenti sul tema. Ma si possono avanzare altre ipotesi credibili. Secondo le statistiche le donne si rivolgono più spesso al medico curante, anche se non sempre ne seguono le indicazioni. Inoltre alcune ricerche suggeriscono che sentano in modo più pressante la necessità di guarire in fretta per non venir meno al ruolo di caregiver . È probabile, insomma, che insistano con il medico ottenendo più spesso l’agognata ricetta. Anche il rapporto annuale dell’Aifa, del resto, lo conferma: il consumo di farmaci in Italia tende al rosa. L’influenza è una malattia virale e non batterica, non va curata con gli antibiotici. Ma secondo Annalisa Pantosti, dell’Istituto superiore di sanità, le donne commettono questo errore più spesso degli uomini. Poiché l’abuso di antibiotici porta alla diffusione di germi resistenti, prestare attenzione a questa disuguaglianza di genere aiuterebbe anche i maschi. C’è poi il famoso «women paradox», ci ricorda Franconi: le femmine vivono più a lungo ma si ammalano più spesso dei loro compagni. Attenzione però: il vantaggio in termini di longevità si sta riducendo, perché le donne hanno assunto stili di vita poco salutari. Fumo, alcol, scarsa attività fisica, lo stress del lavoro che si somma alle incombenze domestiche. Ci sono differenze biologiche che rendono i due sessi diversamente vulnerabili a certe malattie e diversamente sensibili ad alcuni trattamenti, che troppo spesso sono stati testati su soggetti di sesso maschile, trascurando le esigenze di donne e bambine. Ma a contare sono anche i fattori culturali e sociali. Delle une e degli altri si occupa, appunto, la medicina di sesso e di genere, a cui sarà dedicato un convegno internazionale la prossima settimana a Matera. Questo approccio sta finalmente ricevendo la dovuta attenzione a livello scientifico ma fatica ancora a entrare nella pratica clinica, soprattutto nei Paesi latini. Anche l’Università è in ritardo, basti pensare che in Italia esistono una sola cattedra dedicata (a Padova), un dottorato di ricerca (a Sassari), un master (a Potenza). _________________________________________________________________ Corriere della Sera 03 apr. ’16 SE L’ANTIDOLORIFICO È UN LUSSO Oltre 400 mila persone l’anno scorso si sono rivolte a uno dei 1.663 enti collegati al «Banco Farmaceutico » per avere le medicine necessarie a curarsi Non avere i soldi per comprare l’antidolorifico, lo sciroppo per la tosse o gli altri medicinali senza obbligo di prescrizione (che il Servizio sanitario nazionale non passa gratuitamente). Essere così privi di mezzi da non potersi permettere nemmeno di pagare il ticket per i farmaci rimborsabili, prescritti su ricetta rossa. Più di 400 mila persone in stato di indigenza - non solo immigrati e profughi, ma sempre più italiani - l’anno scorso si sono rivolte a uno dei 1.663 enti assistenziali diffusi su tutto il territorio nazionale e convenzionati con la «Fondazione Banco Farmaceutico onlus» per avere le medicine necessarie a curarsi. In occasione della “Giornata di raccolta del farmaco”, che si tiene ogni anno, il secondo sabato di febbraio, sono state donate più di 350 mila confezioni di farmaci da banco che sono state poi consegnate agli enti caritativi ai quali si rivolgono quotidianamente le persone indigenti. «Gli italiani si confermano generosi: in pratica, due persone su tre, entrate in farmacia durante la giornata di raccolta, hanno acquistato un farmaco da banco per donarlo a chi non può permetterselo — sottolinea Annarosa Racca, presidente di Federfarma — . Il farmacista consiglia al cittadino quale farmaco acquistare anche in base ai principali bisogni dell’ente cui è collegato, per esempio se ha una maggiore richiesta di antinfiammatori o antipiretici. Quest’anno sono anche aumentate le farmacie aderenti». I farmaci donati sono soprattutto analgesici e antipiretici, seguiti da antinfiammatori per uso orale, preparati per la tosse e malattie da raffreddamento e farmaci per uso locale per dolori articolari e muscolari. medicinali comunque non sufficienti a coprire il fabbisogno espresso dagli enti: rappresentano, infatti, il 37,45% dei farmaci da banco richiesti (si veda infografica). «Nel nostro Paese — riferisce Marco Malinverno, direttore generale della Fondazione Banco Farmaceutico — più di 4 milioni di persone, secondo l’Istat, possono spendere appena 69 euro l’anno per la salute, di cui 52 euro per acquistare farmaci, vale a dire poco più di 5 euro al mese». Dall’indagine dell’Istat, poi, risulta che quasi il 4% degli italiani ha rinunciato ad acquistare farmaci necessari o perché doveva pagarli di tasca propria non essendo prescrivibili, oppure perché avrebbe dovuto pagare ticket e superticket troppo cari. Una parte consistente dri farmaci dispensati - non solo da automedicazione, ma anche quelli con obbligo di prescrizione, integratori e presidi - proviene direttamente dalle donazioni di una trentina di Aziende farmaceutiche che collaborano col Banco Farmaceutico che a sua volta rifornisce gli enti assistenziali convenzionati. L’anno scorso hanno donato 1 milione e 230 mila confezioni. «Ci sono persone indigenti che non accedono né ai farmaci, né alle strutture del Servizio sanitario — ricorda Malinverno —. Per curarsi si rivolgono a uno degli enti assistenziali con personale medico, che fa la visita, la diagnosi ed eroga gratuitamente i farmaci necessari, che nell’80% dei casi sono prescrivibili. Ci sono poi circa 50 mila senzatetto italiani che fino a poco tempo fa avevano una vita ordinaria, ma hanno perso tutto, o gran parte, del reddito per la crisi o in seguito a un divorzio, o perché non sono più in grado di lavorare a causa di malattie croniche: queste persone non vanno nemmeno al Pronto soccorso e, spesso, alle loro esigenze di salute provvedono medici volontari che le raggiungono per strada». Maria Giovanna Faiella ________________________________________________________ Tempi 06 Apr. ’16 NUOVE MODALITÀ PER DIAGNOSTICARE IL TUMORE ALLA PROSTATA Il tumore della prostata è la più frequente neoplasia dell'uomo. Raro nei soggetti con meno di 40 anni, la sua incidenza aumenta progressivamente con l'età e nei soggetti con familiarità e nei fumatori. Ad oggi, la diagnosi del tumore della prostata si effettua tramite la biopsia prostatica, una procedura ambulatoriale che si effettua per via rettale o perineale mediante un ago a scatto che preleva una piccola porzione di tessuto. Per migliorare l'attendibilità dell'esame si tende ad aumentare il numero di prelievi, sino agli attuali 18 o persino 24, per realizzare un vero e proprio "mappaggio" della prostata e ovviare all'impossibilità dell'operatore di visualizzare durante la biopsia la ghiandola in tre dimensioni e la differenza tra tessuto sano e tessuto "dubbio". Presso il Polo Urologico degli Istituti di Cura Città di Pavia e Beato Matteo di Vigevano è stata introdotta una nuova modalità diagnostica che sta rivoluzionando la qualità delle biopsie e l'accesso precoce alle cure: «Siamo finalmente in grado — spiega il dottor Paolo Puppo — di fondere in un'unica immagine a disposizione dell'operatore le informazioni che otteniamo dalla risonanza magnetica (che è in grado di identificare la differenza tra tessuto sano e tessuto tumorale) e quelle che otteniamo con un'ecografia tridimensionale. Il risultato è che l'urologo può studiare in anticipo il percorso della biopsia e dirigerla verso i tessuti sospetti evidenziati dalla risonanza». Si ottengono così biopsie più attendibili ed è possibile programmare in casi selezionati una terapia focale mirata al solo tumore e non all'intera ghiandola prostatica. Per info: www.grupposandonato. ________________________________________________________ L’Espresso 06 Apr. ’16 CHE FISICO QUEL CERVELLO: FARE SPORT IN ETÀ AVANZATA AIUTA Fare sport in età avanzata aiuta a conservare la piena lucidità mentale. Lo dimostra una ricerca sulla materia bianca e l'ippocampo di un'atleta di 93 anni di Irma D'Aria L’IDEA CHE LO SPORT MANTENGA giovane il cervello è un'intuizione non nuova: ogni buon medico di famiglia consiglia ai suoi pazienti anziani di fare movimento (anche) per restare sempre lucidi. Adesso però si è arrivati alla dimostrazione scientifica di quello che succede nel cervello degli atleti anziani. Lo si deve a Olga Kotelko, una signora canadese di 93 anni, che ha iniziato la sua carriera sportiva all'età di 65 anni, collezionando oltre 30 record mondiali con ben 750 medaglie d'oro ìn svariate specialità di atletica leggera. Kotelko ha infatti accettato di mettere sotto lo" scanner" dei neuroscienziati dell'Università dell'Illinois il suo cervello in modo da poter scattare una fotografia reale degli effetti che l'esercizio fisico può avere, anche in tarda età. Così, si è sottoposta a diversi test cognitivi, a una risonanza magnetica e a test cardiorespiratori mentre in un'altra stanza il gruppo di controllo, costituito da donne di età tra i 70-85 anni con uno stile di vita sedentario, è stato sottoposto alle medesime prove. Cosa hanno scoperto gli scienziati? I risultati della "scansione", pubblicati sulla rivista scientifica "Neurocase", hanno mostrato che il cervello di Olga non appariva significativamente ridotto nelle sue dimensioni come accade alle persone sedentarie della sua età. I ricercatori sono stati colpiti in particolare dall'ottima integrità - paragonabile a quella di soggetti giovani - dei tratti di materia bianca nella regione del corpo calloso che connette l'emisfero destro con il sinistro. Inoltre, il suo ippocampo, una parte del cervello coinvolta nella memoria, era più grande dì quello dei volontari di età simile. Insomma, una prova schiacciante del fatto che con l'attività fisica non si costruisce solo massa muscolare ma si allena anche il cervello, persino quando la si intraprende avanti negli anni. «Con l'età il cervello tende a ritirarsi, compaiono spazi pieni di liquido, i ventricoli si allargano e perdiamo neuroni che poi non si riproducono più provocando una graduale perdita di funzioni. L'esercizio fisico potenzia la plasticità cerebrale e quindi ci aiuta a compensare le perdite di neuroni», conferma Alessandro Sale, dell'Istituto di neuro- scienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) di Pisa. Del resto, altri studi lo confermano. I ricercatori dell'Università di Edimburgo, per esempio, hanno effettuato test riguardanti l'attività fisica e i dati clinici di 638 persone di circa 70 anni. La risonanza magnetica ha rivelato che il cervello di chi aveva fatto più attività fisica aveva subito un restringimento minore rispetto a chi aveva svolto un livello minimo di movimento. Anche la stimolazione cerebrale tramite letture o cruciverba non era stata sufficiente a colmare il gap se nel frattempo il corpo era restato fermo. «Svolgere attività fisica, in particolare la corsa e la bicicletta, aumenta il livello di alcuni fattori molecolari che svolgono un ruolo importante nella plasticità cerebrale, ovvero la capacità del nostro cervello di evolversi e incamerare sempre nuove informazioni », spiega ricercatore del Cnr. «Uno di questi è il Brain Derived Neutrofic Factor: si è visto con numerosi studi che i suoi livelli aumentano immediatamente dopo aver fatto esercizio fisico così come aumenta l'IGF-1 che ha un ruolo importantissimo nello sviluppo del bambino oltre a stimolare la plasticità neuronale». In Italia il progetto "Train the brain ",condotto dagli Istituti di neuroscienze e fisiologia clinica del Cnr, dall'Accademia dei Lincei e dall'Università di Pisa ha persino verificato la possibilità di rallentare la progressione della demenza. «Abbiamo sottoposto 60 soggetti con deficit cognitivo lieve ad un percorso combinato di esercizi fisici e di training cognitivi per tre volte a settimana. I risultati hanno dimostrato miglioramenti significativi nei pazienti che facevano sia attività fisica che cognitiva» spiega Sale. Insomma, non è mai troppo tardi per allenare i muscoli di mente e corpo. ________________________________________________________ Il Giorno 04 Apr. ’16 PACEMAKER COLLEGATI AL CERVELLO E IL PARKINSON DEVE ARRETRARE La stimolazione profonda migliora la qualità della vita dei pazienti di ALESSANDRO MALPELO LA RICERCA corre, ma il Parkinson vola: in Italia sono 250.000 le persone che soffrono della malattia. Una volta era il pugile Mohammed Alì, coni suoi tentennamenti, a dare la misura del disagio. Oggi è il molto più giovane attore Michacl J. Fox a rendere l'idea. Affrontiamo il tema con Pietro Cortelli, professore universitario, membro del direttivo della Società italiana di Neurologia (Sin). PROFESSAR CESTELLI, QUALI PROGRESSI IN ARRIVO PER IL PARKINSON? «L'asso nella manica è un progetto europeo da 6 milioni di giuro sul decadimento cerebrale che suscita grandi aspettative». CHI LO HA PROMOSSO? «Noi del Centro per lo studio e la cura dei disordini del movimento dell'Alma Mater siamo tra i partner capofila. Ne abbiamo parlato al Carlton di Bologna in occasione di un importante convegno». UNA BUONA NOTIZIA NEL CAMPO DELLA TERAPIA. «L'efficacia della stimolazione profonda, dispositivi più facili da indossare e da ricaricare». E TRA I MEDICINALI? «Un farmaco che abbiamo sperimentato, safinamide. Prolunga gli effetti positivi del principio attivo di riferimento, la levodopa. Amplia i margini di benessere quando la malattia cronicizza o si complica con altri disturbi». COME LA PERDITA MEMORIA? «Ad esempio. E quindi diventa più complessa da gestire. COLPA DELLA FAMILIARITÀ? «Solo il 5 per cento dei pazienti. presenta alterazioni genetiche riconducibili a forme ereditarie». Si teme un ruolo scatenante degli inquinanti, dei pesticidi. «Diversi lavori mostrano una associazione tra l'esposizione a sostanze chimiche e aumento di rischi di malattia. Queste sostanze possono alterare le funzioni di un organello cellulare, il mitocondrio». Con quali conseguenze? «Diciamo che i neuroni, quelli che producono la dopamina nella sostanza nera del tronco encefalico, diventano fragili». E COME RIPARATE LA FALLA «Il farmaco principale è ancora la levodopa, in compresse da prendere tutti i giorni. Sostituisce la sostanza che viene a mancare. Poi abbiamo farmaci dopamino agonisti, che stimolano i recettori». Molti soffrono per la cura a dosi elevate, che può scatenare atteggiamenti compulsivi. «La terapia ottimale è il risultato di una cooperazione tra medico e paziente. Se si avverte il desiderio spasmodico di fare acquisti o partecipare a lotterie occorre avvertire subito lo specialista che modificherà la cura». La tecnologia dei pacemaker applicata al cervello, che cosa comporta? «La stimolazione profonda, perché di questo si parla, è un trattamento indicato in casi selezionati di Parkinson, e si avvale di microelettrodi. Esercita un'azione continua anche durante il riposo e perle di utilizzare meno farmaci. Spesso il fatto di essere rigidi di notte, contratti, impedisce un buon sonno. I giovani hanno i benefici maggiori, e risultati duraturi». Dispositivi sofisticati, prodotti da azienda come medtronic e Boston Scientific. Quali ospedali li applicano? «Sono almeno una ventina i centri, distribuiti in tutta Italia». ,E dopo l'intervento? «E sempre il neurologo a seguire il paziente nella sua evoluzione». Altre ricerche in arrivo? «Un trial in fase avanzata. Riguarda l'idea di bloccare gli effetti patologici di una proteina sui neuroni dopaminergici tramite anticorpi monoclonali. Potrebbe essere la soluzione definitiva». ________________________________________________________ TST 07 Apr. ’16 L'INTIMITÀ FEMMINILE RINASCE CON IL LIFTING VALENTINA ARCOVIO Vegli States è una moda. In Italia inizia a fare tendenza e quasi una donna su tre la desidera. Si tratta della «re-vagination», un trattamento laser che rigenera e ringiovanisce l'intimità femminile Secondo uno studio di Quanta System Observatory, su 1500 italiane tra i 18 e i 65 anni le richieste di questo «lifting dell'intimità» sono in aumento. Le più sensibili sono le milanesi (25%), seguite dalle romane (17%) e dalle donne napoletane (13%). Lo vorrebbero fare principalmente per sentirsi più femminili, ma anche per motivi di salute o per vivere meglio a livello psicofisico. «Sempre più donne si affidano al trattamento vaginale: il trend è in costante aumento», conferma lo specialista in chirurgia plastica Paolo Mezzana, responsabile dell'ambulatorio di dermatologia oncologica dell'Usi Marco Polo di Roma. «L'intervento migliora la qualità dei tessuti - continua - e concede alle donne uno stato di benessere esteso anche alla vita sessuale nella terza età. Estetica e salute coincidono: non si tratta di un semplice ringiovanimento, ma di un vero e proprio benessere intimo». I trattamenti laser del canale vaginale vengono richiesti principalmente da donne di mezza età che spesso hanno avuto gravidanze multiple o sono in menopausa. L'atrofia vaginale consiste nella perdita del naturale spessore del colla- gene del tessuto vaginale. Con la diminuzione di estrogeni durante la menopausa, in particolare, si verifica un processo d'invecchiamento dei genitali femminili, noto come atrofia vulvovaginale. Le conseguenze sono la diminuzione della lubrificazione, il dolore durante i rapporti sessuali e le alterazioni del ph vaginale. «La stimolazione laser della mucosa endovaginale migliora l'atrofia cellulare, inducendo il tessuto a produrre nuovo collagene - spiega Mezzana -. I miglioramenti riguardano anche l'incontinenza urinaria di tipo lieve, uno dei problemi più invalidanti socialmente. I feedback sono positivi e testimoniano un aumento della qualità dei rapporti sessuali e dell'autostima». ________________________________________________________ Italia Oggi 08 Apr. ’16 L'AIDS USCÌ ALLA FORESTA AFRICANA VERSO IL 1920 DI ANGELICA RATTI Capire come il virus Hiv, Sida (sindrome da immunodeficienza acquisita) abbia lasciato l'Africa, in particolare la foresta del Congo, nei pressi della capitale Kinshasa, intorno al 1920, sarà d'aiut o a combattere nuovi virus emergenti. Il primo caso di Sida è apparso all'inizio del 1980 e nasce il mistero del virus che si propaga e che nessuno vede. Una epidemia invisibile. Il documentario Sida, sulla pista africana, trasmesso sul canale, francese France 5, ricostruisce l'incredibile storia del virus dell'immunodeficienza umana. Un'odissea tragica cominciata molti anni fa ai confini del Cameroun ma che per almeno cniquant'anni nessuno ha visto, anche perché morire di denutrizione o di infezione in Africa non ha nulla di eccezionale. Un medico francese, nel periodo coloniale, Leon Pales, nel 1931 ha moltiplicato le autopsie per capire di che cosa morivano così tanti operai (17 mila morti fra il 1921 e il 1934) che stavano costruendo la ferrovia Brazzaville-porto Pointe-Noire: 551 chilometri attraverso la foresta di Mayombe. Ma non ha trovato nessuno degli agenti patogeni abituali. Recentemente, il figlio di un medico che era stato in servizio nel Congo belga all'epoca coloniale, un ricercatore del Trd di Montpellier, ha ricevuto una serie di biopsie effettuate in quell'epoca grazie alle quali, con l'ausilio di tecniche molecolari, ha potuto individuare la presenza del virus Hivi. Dunque vent'anni prima il primo caso zero in Occidente, nell'Africa centrale si era già verificata una epidemia. Dunque, grazie alla biologia molecolare i ricercatori hanno potuto seguire le tracce del virus, scoprendo così clic già nel 1959 e nel 1960, rispettivamente a Brazzaville e a Kinshasa (città separate dal fiume Congo) c'era il virus dell'Hivl. Due prove per capire che doveva esistere un ceppo comune intorno al 1920. A quell'epoca, un virus similare, Sivcpz sarebbe stato trasmesso dallo scimpanzé all'uomo. Martine Peeters, che ha scoperto i virus discendenti dal Sivcpz alla fine degli anni 1980 in Gabon, è riuscito anche a individuarne la fonte nell'estremo sud-est del Carneroun, in una zona di circa 200 mila chilometri quadrati. La caccia e la diminuzione di scimpanzé portatori del virus in questa regione isolata non hanno permesso che il virus si diffondesse. E' stato solo dopo la metà del XX secolo, con l'urbanizzazione e il miglioramento dei trasporti, con la costruzione della ferrovia, che si sono create le condizioni per la diffusione dell'epidemia in Africa. Ma perché ne fosse toccato l'Occidente ci è voluto un elemento supplementare. Haiti, il virus è passato da lì prima di arrivare in America e in Europa, quando migliaia di insegnanti haitiani sono andati in Congo, per l'indipendenza del paese, nel quadro di un programma dell’Unesco. Ed è stato così che tornando a casa hanno portato il virus dell'Hiv. Lì ad Haiti molto omosessuali americani che vi si recavano negli anni 1970, da New York e San Francisco, sono stati contaminati. E inoltre, a quell'epoca gli Stati Uniti importavano anche migliaia di litri di sangue ogni mese, anche dai donatori haitiani. Sangue contaminato. ________________________________________________________ Italia Oggi 09 Apr. ’16 NEI PAZIENTI CON CUORE AFFATICATO CURE EFFICACI RIDUCONO I RICOVERI Lo scompenso cardiaco è una patologia debilitante e potenzialmente fatale, in cui il cuore non riesce a pompare una quantità sufficiente di sangue, perché la sua muscolatura diventa troppo debole o troppo rigida per funzionare in modo adeguato. 1 pazienti sono pertanto esposti ad un elevato rischio di mortalità, ripetuti ricoveri in ospedale e sintomi come dispnea, affaticamento e ritenzione di liquidi, con un impatto significativo sulla qualità della loro vita. Ogni giorno in Europa vengono diagnosticati 10.000 casi di scompenso cardiaco e 15 milioni di persone già convivono con questa patologia. Nonostante la prevalenza, la maggior parte delle persone non riesce a riconoscere i sintomi: molti pazienti rimangono senza una diagnosi essendo spesso i sintomi erroneamente attribuiti all'avanzare dell'età. Nuove analisi condotte sui dati dello studio Paradigm-F1F, evidenziano un beneficio costante di sacubitril/valsartan a favore dei pazienti con scompenso cardiaco con frazione d'eiezione ridotta (LIFrEF), anche in condizioni di stabilità clinica e indipendentemente dalla terapia di base. «Questa analisi evidenzia che i pazienti con scompenso cardiaco non sono mai realmente stabili. Non possiamo permetterci di attendere un aggravamento delle condizioni dei pazienti prima di prescrivere cure efficaci e poter offrire loro maggiori opportunità di vivere più a lungo e meglio», ha affermato Vas Narasimhan, (ilobal head, drug development and Chief medicai di. Novartis. Da questi dati emerge che è possibile una riduzione del 20% del tasso di crisi gravi cardiovascolari o di ricovero ospedaliero per scompenso cardiaco. LC _________________________________________________________________ Corriere della Sera 10 apr. ’16 QUELLI CHE «NON» GLI ASESSUALI (ITALIANI) COMPIONO UN ANNO IL MONDO DEL GRUPPO X La più piccola ha 13 anni e mezzo ed è arrivata su AVENit, forum online che riunisce la comunità degli asessuali italiani, la settimana scorsa. «Ci ha scritto turbata: non prova attrazione per i compagni di scuola e non capisce perché», racconta Daniele C., amministratore del portale. Ha 36 anni, è milanese e lavora come insegnante di teatro. Anche lui, fino a tre anni fa, era turbato per lo stesso motivo: «Non avevo mai avuto una relazione, né desiderato averla. Fin dal liceo, quando i compagni raccontavano le loro conquiste, mi sentivo diverso: a me il sesso non interessava». Poi, navigando su Internet, per caso è finito su AVENit. Ha scoperto la parola «asessualità», ha cercato il significato: un orientamento sessuale che definisce le persone che non provano questo tipo di attrazione. Ci si è riconosciuto. E per la prima volta, a 33 anni, ha trovato il modo di descriversi: «Ho capito chi sono e mi si è aperto un mondo». Un mondo che è stato «scoperto» 70 anni fa dal sessuologo americano Alfred Kinsey, che nel suo Rapporto diede conto dell’esistenza di un «Gruppo X» di persone che, non provando desiderio sessuale, non rientravano nella sua scala di valutazione del comportamento sessuale (e infatti sono rappresentate con un punto al di fuori dello schema). Un mondo del quale fa parte, secondo alcune stime, il 10% della popolazione globale: persone che magari sesso lo fanno, ma non ne provano né desiderio né bisogno. Un mondo che, di fatto, al di fuori degli Usa e dell’Europa occidentale è ancora quasi sconosciuto: in molti Paesi ammettere di avere un orientamento sessuale non etero è ancora complicato. Mentre nei Paesi anglosassoni ci sono gruppi, collettivi universitari ed helpline dedicate (è negli Usa che è nato il forum principale di AVEN), in Italia i principali luoghi di incontro e dialogo per gli asessuali sono per ora solo due. C’è il forum AVENit, attivo dal 2005 (con 3.460 iscritti, dei quali 200-300 attivi) e dal 2014 presente anche su Facebook con un gruppo dedicato (che conta circa 500 persone). E c’è il Gruppo Asessualità dell’Arcigay di Milano, lanciato nel marzo 2015. Quando è nato, un anno fa, la responsabile Alice Redaelli non sapeva bene cosa aspettarsi: «Alla prima riunione eravamo in tre». Oggi ai loro incontri partecipano una quarantina di persone che arrivano da tutta Italia. Cercano supporto, aiuto, empatia. Vogliono condividere esperienze e chiedere consiglio, anche su come fare «coming out» con famigliari ed amici. «Non è sempre facile, in una società così influenzata dal sesso come la nostra — racconta Alice, che ha 32 anni ed ha scoperto di essere asessuale quand’era adolescente — c’è chi mi ha detto che, se non provo desiderio sessuale, allora non sono un essere umano». A Daniele è capitato invece di ricevere sguardi di commiserazione, «come se il sesso fosse il massimo dei piaceri possibili». Per questo ha deciso di non dirlo ai suoi genitori: «Sono chiusi, temo non capirebbero. Ma almeno hanno smesso di chiedermi perché sono sempre single». Greta Sclaunich gretascl _________________________________________________________________ Corriere della Sera 10 apr. ’16 VECCHI ANTIBIOTICI PER COMBATTERE LA RESISTENZA BATTERICA Si sta (forse) allontanando l’«apocalisse degli antibiotici». Gli allarmi, che da tempo arrivano dal mondo scientifico (“ormai i batteri sono diventati super resistenti agli antibiotici; fra un po’ non avremo più farmaci efficaci; anche una banale chirurgia non potrà più essere praticata, per non parlare di interventi come i trapianti; i malati di tumore non potranno più essere curati con chemioterapie che li rendono immunodepressi e vulnerabili alle infezioni”), pare abbiano cominciato a smuovere le acque. Così, negli Stati Uniti, il Presidente Obama e il Congresso hanno stanziato parecchi milioni di dollari per prevenire e monitorare le infezioni da batteri resistenti e studiare nuovi farmaci. A Davos, durante l’ultimo World Economic Forum di gennaio, si sono raggiunti accordi per incentivare le aziende farmaceutiche a investire nella ricerca. E queste si stanno muovendo, non solo per trovare nuove molecole, ma anche per rispolverare vecchi antibiotici, magari in nuove formulazioni, che possono ridiventare efficaci nei confronti di batteri che, con il passare del tempo, hanno perso le loro capacità di resistenza. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) da parte sua, oltre ai richiami verso i singoli Paesi perché affrontino con urgenza il problema, ha inaugurato, nel novembre scorso, la prima World Antibiotic Awareness Week per sensibilizzare il pubblico. Ecco, davvero c’è bisogno di una maggiore consapevolezza della popolazione. Secondo un sondaggio dell’Oms, condotto nel 2015 su 10 mila persone di 12 Paesi, quasi due persone su tre usano antibiotici contro raffreddori e sindromi influenzali da virus, verso i quali non sono efficaci. E un terzo delle persone, interrompe la terapia appena vede un miglioramento dei sintomi (e anche questo aumenta le resistenze). Adriana Bazzi _________________________________________________________________ Le Scienze 08 apr. ’16 L'HIV PUÒ SVILUPPARE RESISTENZA A CRISPR-CAS9 Usare il sistema di editing genetico CRISPR-Cas9 per bloccare la capacità di replicazione dell'HIV è più difficile del previsto. Alcune minuscole mutazioni, introdotte dal sistema e tollerate dal virus, possono rendere l'agente patogeno ancora più complicato da identificare e debellare Il sistema di difesa antivirale usato da alcuni batteri – il sistema CRISPR/Cas9, sfruttato in ingegneria genetica per intervenire in modo molto preciso sul genoma – dovrà essere perfezionato prima di poter essere usato per combattere l'HIV. Un gruppo di ricercatori della McGill University a Montreal ha infatti scoperto che l'HIV è in grado di sviluppare un'inaspettata resistenza a CRISPR/Cas9. La scoperta e i meccanismi sottostanti a questa resistenza sono illustratati in un articolo pubblicato su “Cell Reports”. Quando il virus entra nella cellula, il suo genoma a RNA viene convertito in DNA, che viene inserito nel DNA cellulare. Il sistema CRISPR/Cas9 può essere programmato per dirigersi verso una certa sequenza di DNA virale ed eliminarla. Sperimentando la tecnica su linee cellulari sensibili all'HIV, Zhen Wang e colleghi hanno scoperto che in questo modo molti virus vengono resi incapaci di riprodursi; alcuni di essi, però, non risentono del trattamento, e anzi diventano più difficili da raggiungere ed eliminare. Dato che l'HIV ha la caratteristica di sopravvivere e prosperare con una certa frequenza alle mutazioni, all'inizio i ricercatori hanno pensato che i virus sfuggiti a CRISPR-Cas9 dovessero la loro salvezza a errori dell'enzima, la trascrittasi inversa, che trasforma l'RNA virale in DNA al momento dell'infezione della cellula. Ma non è così: “la sorpresa è stata che la maggior parte delle mutazioni è stata introdotte nel momento in cui il DNA tagliato dalla CRISPR-Cas9 viene nuovamente saldato. Ma la mutazione cambia la sequenza e l'enzima Cas9 non è più in grado di riconoscere il virus mutato, così questi virus resistenti possono ancora replicarsi”, spiega Chen Liang, che ha partecipato alla ricerca. Secondo i ricercatori, una strategia per superare il problema potrebbe essere prendere di mira con CRISPR-Cas9 più siti contemporaneamente, oppure associare le sequenze CRISPR anche ad altri enzimi oltre che a Cas9. "Abbiamo ancora un lungo cammino per arrivare alla meta, e ci possono essere molte barriere e limitazioni che dovremo superare, ma siamo certi che alla fine avremo successo", ha concluso Liang. _________________________________________________________________ Le Scienze 02 apr. ’16 ILARIA CAPUA: UNA RIVOLUZIONE VIRALE Ilaria Capua (Fabio Campana/ANSA) Dieci anni fa, Ilaria Capua rese pubblici e disponibili a tutti i dati sul virus H5N1, responsabile dell'influenza aviaria, senza chiedere nulla in cambio. Fu un gesto senza precedenti, che ha ripercussioni ancora oggi, inaugurando la stagione della scienza open source: come racconta la virologa in questa intervista a "Le Scienze"di Silvia Bencivelli Siamo nel 2006. Da tre anni l’epidemia di H5N1 si è diffusa dall’estremo oriente a quasi tutta l’Asia ed è arrivata in Europa. È un’influenza aviaria, cioè colpisce e uccide soprattutto i polli. Ma ne uccide parecchi e quelli morti o abbattuti sono più di 150 milioni. Non solo: colpisce e uccide anche gli esseri umani, ed è allarme globale. Il 9 febbraio l’Organizzazione mondiale della sanità animale (OIE) annuncia il primo caso africano: è stato caratterizzato all’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie in un campione proveniente dalla Nigeria. Il laboratorio padovano ne ha decodificato il genoma e il merito è del gruppo di Ilaria Capua, la quale però non si ferma, e fa la sua rivoluzione: rende pubblici i dati. Che cosa successe, in quel 2006? Successe che mi telefonò un funzionario dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e mi chiese di depositare la sequenza in una banca dati ad accesso limitato, in cambio dell’accesso alla banca dati stessa. E successe che io dissi di no. Avevo sofferto non poco per non poter entrare in quella banca dati e per non aver avuto da alcuni colleghi le sequenze virali che loro avevano sequenziato. Semplicemente, pensai di non voler contribuire a perpetuare questo sistema. Caricai la sequenza su GenBank, che è una banca dati aperta, e dissi all’OMS: «Se lo volete, potete andare a prenderlo lì». Ero la prima scienziata a fare una cosa del genere, ma mi sembrava necessario. Poi ho invitato anche i colleghi a fare altrettanto e ho spiegato loro che noi siamo pagati con i soldi pubblici e, soprattutto se c’è un’emergenza, dobbiamo scambiarci le informazioni perché si possano trovare soluzioni rapide. Le sequenze genetiche virali sono fondamentali per studiare un’epidemia e per capire come evolve. Per collegare la conoscenza via via che le cose accadono, insomma. Per questo era assurdo limitarne la circolazione. E dopo il suo «no» che cosa è successo? Quello che non mi aspettavo. Ho avuto un’improvvisa, e inaspettata, popolarità sulla stampa di tutto il mondo. E anche molti attacchi e molte critiche, perché stavo toccando un equilibrio consolidato. Poi, con il tempo, le cose sono cambiate. In che modo? Sono nate diverse banche dati ad accesso aperto. Quando è emerso il virus dell’influenza suina nel 2009 c’erano già diverse piattaforme attive che hanno permesso di accelerare le ricerche e la realizzazione dei vaccini. Ma il significato della mia protesta era quello: il 70 per cento delle malattie che minacciano l’uomo arriva dal mondo animale. E non ha senso che la comunità veterinaria non comunichi con la comunità medica. Poi penso che uno debba anche passarsi una mano sulla coscienza: di fronte a un’emergenza sanitaria si può anche rinunciare al nome su uno studio pubblicato su riviste scientifiche. Perché, c’erano resistenze legate alla difesa della paternità delle proprie scoperte? Sì, certo. Ed è anche comprensibile. Ne ebbi personalmente dimostrazione: la nostra sequenza del 2006 finì pubblicata su «Nature» da ricercatori olandesi. Però le cose sono cambiate anche in questo. Oggi le riviste, a partire da «Nature», permettono di dare l’annuncio senza pregiudicare la possibilità di pubblicare lo studio. Quindi non c’è più bisogno di tenere le sequenze per sé in modo da evitare che altri se ne approprino. Anche se proprio quel gruppo di olandesi nel 2013 ne ha combinata un’altra. Sarebbe a dire? Era in corso l’epidemia di sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus (MERS), iniziata in Arabia Saudita in maniera inattesa: aveva causato morti e non si sapeva da dove fosse arrivata. Gli olandesi ricevettero i campioni biologici sauditi, per lavorarci su. Sequenziarono il virus, però poi lo brevettarono. A nome loro! Causando, tra l’altro, un bell’incidente diplomatico. Ma al di là dei sofismi che usarono per difendersi, per me c’è anche una grossa perplessità etica: come fai a brevettare un virus, una cosa che esiste in natura? A parte casi come questi, la comunità scientifica come si sta comportando? Bene, dove può. Per esempio nel caso di Ebola c’è stata da subito un’ampia condivisione delle sequenze, anche grazie agli statunitensi National Institutes of Health, che hanno messo a disposizione la banca dati, e grazie all’avanzamento delle tecnologie nei paesi più colpiti dalla malattia, che ha permesso una maggiore possibilità di sequenziamento del virus. Al contrario, nel caso di Zika, per esempio, c’è un problema legato alle leggi brasiliane, che non permettono di condividere materiale genetico e biologico. Ma a febbraio scorso «Nature» ha pubblicamente dichiarato che renderà gratuito l’accesso a tutti i dati riguardanti Zika e ha incoraggiato i ricercatori a depositare le sequenze in archivi pubblici. l’OMS oggi come si comporta? Non ha potere sui singoli Stati. Ma negli ultimi anni ha emesso risoluzioni con cui promuove la trasparenza e la condivisione dei dati. Anzi, dopo la mia storia ha anche emesso dichiarazioni importanti sulla necessità di avere la massima trasparenza possibile soprattutto durante le emergenze sanitarie. Ecco un’altra cosa importante che è evoluta in questi dieci anni. Come sono evolute le società scientifiche, che hanno preso decisioni nella stessa direzione. Insomma, il panorama è cambiato. Decisamente, dieci anni fa era il momento giusto per fare quello che ho fatto. La tecnologia c’era, e ci permetteva il salto verso la condivisione dei risultati. Gli scienziati hanno prima tirato il freno a mano, ma poi hanno capitolato. Adesso, fatti salvi casi di particolare reticenze o di particolari ostacoli legali, la condivisione delle sequenze virali è la norma. La politica della scienza ci ha messo qualche anno, ma già nel 2009 con l’influenza suina le cose erano molto cambiate. Chi era maturo, e chiede sempre di più, è l’opinione pubblica, che ha sempre sostenuto la mia idea. Certo, c’è ancora molto da fare. Soprattutto bisogna uniformare procedure e normative. Ma per questo ci vorrà un senso di responsabilità diffusa: non è il tipo di cose che si può calare dall’alto. Il messaggio della mia storia vorrei che fosse questo: le tematiche di salute non possono essere gestite solo da chi fa scienza o si occupa di scienza. Ci vuole un approccio integrato alla salute: esseri umani, animali, ambiente sono tre vasi comunicanti. E la scienza che si occupa di loro deve discutere con altre discipline, come quella etica, quella economica, quella legale. Bisogna essere di mentalità ancora più «open», permeabili e in continua evoluzione. (L'originale di questo articolo è stato pubblicato su "Le Scienze" n.571, marzo 2016) ------------- CHI E' Ilaria Capua è medico veterinario e virologa. È stata direttore del Dipartimento di scienze biomediche comparate dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie, del laboratorio di referenza nazionale, Organizzazione mondiale della sanità animale (OIE) e FAO per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle, del centro di collaborazione nazionale e OIE per le malattie infettive all’interfaccia uomo-animale. Nel 2000 ha sviluppato «DIVA», la prima strategia che ha permesso di eliminare un’epidemia di influenza aviaria, oggi raccomandata da Unione Europea, OIE e FAO. Nel 2007 ha ricevuto il premio «Scientific American 50» e nel 2008 è stata inclusa fra le Revolutionary Minds dalla rivista statunitense «Seed». Nel 2011 è stata la prima donna a vincere il Penn Vet World