RASSEGNA STAMPA 08 Maggio 2016 FONDI AGLI ATENEI, AUMENTA IL MERITO UNIVERSITÀ E SVILUPPO: TUTTI I NUMERI DELLA CRISI ITALIANA SI SBLOCCA IL PIANO PER LA RICERCA TUTTE LE BUFALE DELLO SCIENZIATO DEL DOPO-EXPO L'ESODO DELLE MATRICOLE CHE IMPOVERISCE IL SUD L’ESODO A MILANO DEI RAGAZZI DEL SUD LA GRANDE FUGA DAGLI ATENEI DEL SUD USA, GLI STUDENTI NON SONO PRONTI PER L’UNIVERSITÀ MA LE IMMATRICOLAZIONI SCENDONO UN PO OVUNQUE SARDI STUDIOSI MA SENZA LAVORO ATENEI, ZERO TASSE SUI REDDITI BASSI UNICA: L’UNIVERSITÀ PUNTA SULLE DONNE UNICA: SCOPERTO UN NUOVO METALLO MAMMA ERASMUS: ECCO CHI HA APERTO IL MONDO AGLI STUDENTI BATTERIE E CELLE SOLARI: IL GRAFENE PROMETTE PRODIGI BATTERIE E CELLE SOLARI: IL GRAFENE PROMETTE PRODIGI I MIRACOLI DEL GRAFENE IN MEDICINA IMPRONTE DIGITALI ADDIO, L'IDENTITÀ È SCOLPITA NEL CERVELLO LE ISOLE DI PLASTICA: ALLA SCOPERTA DEL SETTIMO CONTINENTE IL CERVELLO? CONTA CON LE DITA IL GPS MANDA FUORI STRADA IL CERVELLO ========================================================= AOUCA: NEI SOTTERRANEI DELLA MEMORIA ASL, LA POLITICA NON DEVE INFLUENZARE LE NOMINE ASL UNICA: UN'ASL GRANDE COME UN'ISOLA ASL UNICA: ARRU: CI SARANNO RESISTENZE MA È FONDAMENTALE ASL UNICA: PIGLIARU AVVERTE GLI ALLEATI «NIENTE MARCE INDIETRO» ASL UNICA GANAU: «OSPEDALI, RIFORMA DA BOCCIARE» ASL UNICA: FRANCO MELONI – FARLA PRESTO E BENE ASL UNICA, ESAME AL VIA SANITÀ, UN PROBLEMA SPINOSO LA GESTIONE DELL’EMERGENZA L’E-HEALTH CRESCE IN FRETTA MA NON CONVINCE TUTTI GLI INVESTIMENTI NON CRESCONO: «SANITÀ 2.0» AVANTI PIANO SANITÀ DIGITALE AVANTI PIANO ECCO I NODI DA SCIOGLIERE USA, PIÙ MORTI PER SVISTE MEDICI CHE PER INCIDENTI, AEREI E OVERDOSE PARTORIRE IN ACQUA È SICURO? PERPLESSITÀ PER LA SALUTE DEL NASCITURO LA DEPRESSIONE SI CONTROLLERA DISTANZA CON SENSORI VUOI DIMAGRIRE DAVVERO? INIZIA EDUCANDO I TUOI BATTERI MALATTIE RARE OLTRE IL MURO DEL SILENZIO FINIRE IL CIBO È EDUCATO. MA È ANCHE SANO? SE GLI UMANI AMANO TROPPO I LORO AMICI A QUATTRO ZAMPE L’EX GINNASTA SPEGNE L’ENZIMA CHE RENDE AGGRESSIVO IL TUMORE LA PSICOLOGIA DEI MEDICI SOTTO LA LENTE DELL’AIFA L’EMBRIONE CHE CRESCE IN AUTONOMIA LIBERO ARBITRIO: COSA DICONO LE NEUROSCIENZE IL MEDICO SIA ANCHE MAESTRO DI ETICA SENZA ANIMALI NON SI FA RICERCA ========================================================= _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 07 Mag. ’16 FONDI AGLI ATENEI, AUMENTA IL MERITO Arrivano i fondi per il 2016 per gli atenei. Il Miur mette sul piatto 6,921 miliardi - praticamente le stesse risorse del 2015 - e nel decreto di riparto del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo)inviato ieri ai rettori della Crui e al Cun - il Consiglio universitario nazionale - per i pareri di rito inserisce delle novità. Trovano subito spazio alcune delle attese misure previste dal Pnr,il Piano nazionale della ricerca, varato dal Cipe nei giorni scorsi (2,5 miliardi in 3anni): il provvedimento infatti prevede che almeno il 60% dei 135 milioni destinati a finanziare le borse post lauream sia riservato al lancio dei «dottorati innovativi» previsti dal Pnr per favorire il dialogo tra mondo accademico e produttivo. Ma il decreto sul Ffo 2016 fa crescere anche la quota di fondi che sono distribuiti in base ai risultati e alle performance dei singoli atenei che sale a 3 miliardi (erano 2,6 nel 2015) sui 6,9 totali. In particolare aumenta il peso del costo standard - il “prezzo giusto” per ogni ateneo calcolato attraverso il numero degli studenti in corso e quello delle cattedre presenti - che quest’anno passa dal 25 al 30% (1,4 miliardi) dei 4,58 miliardi di quota base distribuita in base alla spesa storica. Ma cresce anche la cosiddetta quota premiale distribuita in base ai risultati nella ricerca e nella didattica che passa da 1,385 miliardi del 2015 a 1,6 miliardi di quest’anno. Anche se in quest’ultima cifra rientrano anche i fondi destinati ai cosiddetti interventi “perequativi” necessari per non penalizzare troppo alcuni atenei: la bozza di decreto prevede infatti che ogni università non perda più del 2,5% della quota che le era stata assegnata nel 2015 (era il 2% nel 2015). Quest’anno nel Dm di riparto non compaiono però i criteri con cui dividere la torta della quota premiale: sarà un successivo decreto a farlo anche in base al nuovo round di valutazione della qualità della ricerca che l’Anvur sta per completare nelle prossime settimane. Non è tutto. Il ministro dell’Istruzione, università e ricerca Stefania Giannini ha deciso di aiutare gli atenei nella pianificazione indicando subito alcune novità di peso in un altro decreto - inviato ai rettori insieme a quello del Ffo - che riguarda la programmazione del sistema universitario 2016-2018. Per favorire l’autonomia degli atenei dal 2017 si interviene proprio sui criteri con cui si mettono a punto le “pagelle” che decidono la distribuzione - spesso contestata - dell’ambita quota premiale. Per rimettere un po’ in gioco il sistema e non premiare sempre gli atenei più forti nella ricerca ci sarà un nuovo meccanismo che distribuirà il 20% della quota premiale consentendo a ogni università di scegliere autonomamente 2 indicatori su cui essere valutati scelti da un paniere indicato dal Miur. Di ciascun indicatore saranno considerati sia il valore nell’anno di riferimento (peso 3/5) che il miglioramento rispetto all’anno precedente (peso 2/5). Il decreto sulla programmazione prevede anche maggiore flessibilità sull’offerta formativa per un numero limitato di corsi (al massimo il 10%) e semplifica le possibilità di reclutamento dei vincitori di programmi Erc (i più prestigiosi a livello europeo) che potranno essere chiamati sia come ricercatori che come professori universitari. Marzio Bartoloni _________________________________________________________________ Unità 08 Mag. ’16 UNIVERSITÀ E SVILUPPO: TUTTI I NUMERI DELLA CRISI ITALIANA Bianca Di Giovanni È stato un declino progressivo e silenzioso, vissuto dal paese quasi come un destino ineluttabile. rUniversità italiana ormai da un decennio è su un piano inclinato. 'A descrivere questa «discesa agli inferi» con numeri, analisi e saggi è un interessante volume della Fondazione Bes edito da Donzelli e curato dall'economista Gianfranco Viesti «Università in declino - Un'indagine sugli atenei da norda sud». Perla Fondazione presieduta da Carlo Trigilia il rapporto sugli atenei italiani è il secondo contributo dedicato alla formazione, tema fondamentale per lo sviluppo economico e la coesione sociale del Paese. Dopo aver analizzato il tema dell'istruzione secondaria, Ressi concentra quest'anno su quella accademica con una notevole mole di dati e uno sguardo approfondito alle diverse realtà locali. Diciamo subito che i numeri fanno tremare i polsi, soprattutto nel confronto internazionale. Il sistema universitario per la prima volta nella sua storia sta regredendo in dimensione: nel 2014-15 si è perso un quinto di strutture rispetto al momento di massima espansione (2004-8). I finanziamenti diminuiscono della stessa misura. Nello stesso periodo in Germania la stessa voce cresceva del 23%. A sud va peggio che al Nord anche per via di politiche differenziate, che hanno colpito chirurgicamente alcuni e salvato l'area di Lombardia e Veneto. l'Università soffre di più del resto dellamacchinapubblica:trail2008 e il 2013 i docenti si riducono dél15%, gli altri dipendenti pubblici de14% L'Italia è all'ultimo posto in Europa come numero di laureati, la Regione con il maggior numero di giovani in possesso del titolo di studio accademico (il Lazio) è ai livelli del Portogallo (circa il 30%). Moilto male per un Paese che punta su innovazione , ricerca, nuove tecnologie: All'Italia servirebbe molto di più anche per mantenere il posto che attualmente occupa tra i Paesi industrializzati. Dunque questi non sono che segnali di un declino imminente del Paese. Eppure in pochi ne parlano. Come mai? «Perché non tutti sono colpiti alla stessa maniera- spiega Viesti, curatore del volume - E anche perché le politiche sull'Università sono state molto più implicite che esplicite, a differenza di quanto accaduto con la scuola». I dati del volume rivelano una realtà molto lontana dai luoghi comuni più diffusi. Si sente ripetere che si studia troppo, che ci sono troppe università. Tutto falso. «Infatti - continua Viesti - In Italia ci sono meno Università che in altri Paesi. Credo che questa discrasia dipenda in parte dal fatto che l'Università gode di poca simpatia. Ma anche dal fatto che c'è una parte della classe dirigente che pensa che l'Università sia inutile». Sbagliato, perché laurearsi conviene: si trova lavoro più facilmente e si guadagna in media di più, anche se la crisi si fa sentire. Per Viesti comunque l'ipotesi di detassare lo studio è buona. «Un buon segnale per la politica fiscale». _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 01 Mag. ’16 SI SBLOCCA IL PIANO PER LA RICERCA Dal Cipe oggi 2,4 miliardi per il Pnr e 1 per Uffizi e grandi musei Troppo spesso trattate come due cenerentole, oggi cultura e ricerca incassano in una riunione straordinaria convocata dal Cipe fondi per 3,5 miliardi. Quasi 2,5 miliardi serviranno per rilanciare subito gli investimenti nei settori top della nostra ricerca anche grazie a una iniezione di 6mila tra nuovi dottorati e ricercatori e un altro miliardo per sbloccare i cantieri dei tanti gioielli del nostro patrimonio culturale, a cominciare dal completamento dei «Grandi Uffizi» di Firenze che puntano a diventare il più grande museo d’Europa. «Si stanziano risorse mai viste per la cultura per completare tutti i grandi progetti», ha detto ieri il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. La linea rossa che unisce i due maxi interventi - che attingono in parte ai fondi europei - è il rilancio di due settori che possono moltiplicare ricchezza e occupazione. E quindi crescita. Con il via libera di oggi parte finalmente il piano nazionale della ricerca 2015-2020 con almeno 28 mesi di ritardo sulla tabella di marcia: sul piatto 2,4 miliardi per i primi tre anni. Solo per restare alle risorse nazionali perché la dote complessiva per l'innovazione sarà ben più corposa. Se le performance italiane di utilizzo dei fondi Ue miglioreranno, il totalizzatore supererà i 14 miliardi. Prima di entrare nel dettaglio conviene peròfare un passo indietro. E ricordare come il Piano messo a punto dai tecnici del Miur e di Palazzo Chigi manchi all'appello dal 2014. Tant'è che aveva già fatto un primo giro di tavolo nel Consiglio dei ministri del 31 gennaio di quell'anno su input dell'allora ministra Maria Chiara Carrozza e del premier dell'epoca Enrico Letta. Salvo essere fagocitato prima dal cambio di governo prima e poi dalla querelle con le regioni sull'utilizzo o meno di 500 milioni del Fondo sviluppo coesione. Alla fine, dopo tanti rinvii, la quadra è stata trovata e quelle risorse potranno essere usate. Del la bozza del“vecchio” Pnr il piano in rampa di lancio mantiene più di un elemento. A cominciare dal maggiore raccordo con la strategia comunitaria. Il programma italiano avrà infatti la stessa durata e le stesse 12 aree di specializzazione intelligente del piano europeo. Che verranno articolate però – ed è la prima novità – in quattro aree di importanza: prioritarie (Aerospazio, Agrifood, Fabbrica Intelligente e Salute); ad alto potenziale (Blue Growth, Chimica Verde, Design-Creatività Made in Italy e Cultural Heritage); in transizione (Smart Communities e Tecnologie per gli Ambienti di Vita); consolidate (Energia e mobilità). Diversa rispetto a due anni fa è anche la posta in palio. Dai 6 miliardi provenienti dal bilancio di viale Trastevere e 12 di derivazione comunitaria si è passati, rispettivamente, a 4,6 nazionali e 9,4 europei. In realtà, l'ammontare di partenza ammonta a poco meno di 2,4 miliardi per il periodo 2015-2017. Di cui 1,9 in gestione al Miur e 450 milioni del Fsc. A questi andranno sommati 3,8 miliardi di risorse concorrenti (400 milioni dai Programmi operativi regionali e 3,4 miliardi dal piano Ue Horizon2020 che mette in palio 80 miliardi). Per aggiudicarseli però, come più volte evidenziato su questo giornale, l'Italia dovrà elevare i suoi di tassi di aggiudicazione dei bandi Ue e passare dal 7,8% dell'ultimo programma quadro al 10 per cento. Un discorso che, a maggior ragione, vale per i 9,4 miliardi a disposizione per il secondo triennio (2018-2020) che potrebbero portare l'ammontare finale oltre quota 14 miliardi. Per non trasformare il Pnr nel solito “libro dei sogni” il Miur ha studiato alcune linee d’azione. Quelle con più risorse sono tre: un miliardo sarà per il «capitale umano» - con misure su dottorati innovativi e incentivi per attrarre in Italia i migliori ricercatori - e un altro miliardo se lo divideranno la ricerca pubblico-privata (con la spinta ai 12 cluster tecnologi dove le imprese sono protagoniste) e il programma per rilanciare l’innovazione al Sud. Il miliardo per il “petrolio” dell’Italia - la cultura - arriva invece dal Fsc. Ed è a tutti gli effetti uno “sblocca cantieri” per tutto il Paese: oltre ai Grandi Uffizi di Firenze, sono previsti interventi (tra restauri, completamenti e anche nuove installazioni) alla Pinacoteca di Brera, alla Galleria d’arte moderna di Roma, al museo di Capodimonte e a quello archeologico di Napoli, a Pompei ed Ercolano, alla Reggia di Caserta, alla Cavalerriza reale di Torino fino a una serie di progetti in Sicilia. Marzio Bartoloni Eugenio Bruno _________________________________________________________________ Il Fatto Quotidiano 08 Mag. ’16 TUTTE LE BUFALE DELLO SCIENZIATO DEL DOPO-EXPO Per il dopo-Expo la bufala dell'elisir di lunga vita GIANNI BARBACETTO Per capire che cosa sarà Human Technopole, la città della ricerca da costruire sull'area Expo, bisogna conoscere il papà di questo progetto: Pier Giuseppe Pelicci. E un noto scienziato italiano, condirettore dello Ieo, l'Istituto europeo di oncologia fondato da Umberto Veronesi, e di Veronesi è il braccio operativo. Pelicci non ha per ora alcun ruolo ufficiale, perché il progetto per il dopo Expo voluto dal presidente del Consiglio Matteo Renzi non ha ancora una struttura definita. È una promessa: creare un grande polo di ricerca sul genoma, per studiare i meccanismi delle malattie oncologiche e neurodegenerative, associarle agli stili di vita, all'alimentazione e alla storia familiare dei pazienti; aggiungerci un centro sui "big data", per sviluppare gli algoritmi necessari a processare l'immensa mole di dati necessari agli studi sulla genomica; e sviluppare un centro di "nano - science & technology" che progettino nuovi dispositivi per monitorare la salute dei pazienti. Ht, una Signoria con ricco tesoretto È solo un annuncio, ma ha già tre punti fermi. Uno, si deve fare sull'area Expo, altrimenti non si saprebbe come utilizzarla, visto che nessun privato ha voluto comprarla, dopo che sono stati spesi 200 milioni di denaro pubblico per acquistarla e altre centinaia di milioni per infrastrutturarla. Due, la regia sarà del genovese Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), che ha il pregio di essere sotto il diretto controllo del governo. Tre, i soldi per finanziare la fasci- nazione - ha promesso Renzi - saranno 150 milioni all'anno per dieci anni, cioè 1 miliardo e mezzo di euro. Sono bei soldi, che porterebbero risorse alla bistrattata ricerca italiana. Eppure finora un pezzo del mondo scientifico (dalla biologa e senatrice a vita Elena Cattaneo all'ex presidente dell'Istituto nazionale di Astrofisica Giovanni Bignami) hanno detto no a un metodo di finanziamento considerato opaco e non meritocratico. "Così come è concepito oggi", dice Elena Cattaneo, "Human Technopole sarà solo una Signoria creata per legge e dotata di tesoretto. Fatta di una corte, completa di vassalli e valvassori, così nessuno avrà voglia di dissentire". "Un clamoroso atto di sfiducia nei confronti della ricerca pubblica da parte del governo che ne è responsabile", aggiunge Bignami. "Uno spot che svilisce la ricerca", incalza Cattaneo, uno sfavillante teatrino messo in scena per "mettere una toppa glamour al dopo Expo". Con soldi distribuiti senza gare pubbliche, senza valutazioni indipendenti, senza libera competizione, senza trasparenza sulle assegnazioni, senza controlli. Il direttore dell'Istituto Italiano di Tecnologia, Roberto Cingolani, sarà trasformato da Renzi in un Re Mida a cui ogni studioso, ogni centro di ricerca, ogni università dovrà pagare pegno se vorrà avere accesso ai fondi ed essere coinvolto nei suoi programmi. Nel progetto Human Technopole Italy 2040 non c'è solo Cingolani, che ci ha almeno messo la faccia. C'è anche Pelicci, che ha steso il progetto sulla genomica. È lo scienziato che da anni promette l'elisir di lunga vita. E lui che ha convinto a entrare nella partita il finanziere Francesco Micheli, con cui ha fondato Genextra, holding specializzata in ricerca biofarmaceutica. Micheli ha poi coinvolto Marco Carrai, l'uomo d'affari più vicino a Renzi, che ha fatto da ponte con il presidente del Consiglio, il quale ha infine fatto suo e lanciato il progetto. Ricerche sul genoma, con la promessa di allungare la vita: è la fascinazione di Human Technopole, ma è anche da sempre il programma di Pelicci, lo scienziato che vuole portare la vita dell'uomo a 120 anni. Progetto affascinante. Ma perché è stato scelto proprio questo, senza una valutazione preventiva di altri temi, senza un confronto con altri programmi possibili? Per esempio la medicina rigenerativa e la terapia genica, in cui l'Italia è prima al mondo, grazie agli studi dell'università di Modena e Reggio Emilia e del San Raffaele di Milano. In questo campo, gli italiani Michele De Luca e Graziella Pellegrini hanno prodotto il primo farmaco al mondo a base di cellule staminali. Invece non c'è stata alcuna discussione, alcuna comparazione: a scegliere, senza aver ricevuto alcun incarico trasparente e senza aver messo in comune percorsi e motivazioni della scelta, è stato un gruppo informale di persone, tra cui il professor Pelicci; poi Renzi ha annunciato in pubblico l'ideona per salvare il dopo-Expo, con annessa promessa del tesoretto miliardario. Solo a cose fatte, e dopo le proteste di una parte del mondo scientifico, è stato coinvolto un gruppo di scienziati internazionali a cui è stato affidato il compito di elaborare una valutazione del programma: ma senza alternative, senza la possibilità di confrontare programmi diversi. L'uomo che sussurra a Matteo Renzi Pier Giuseppe Pelicci vede la luce a Semonte di Gubbio, in Umbria. Ma come scienziato nasce all'Università di Perugia, ateneo ad alta densità massonica. Lì si laurea in medicina nel 1981, poi fa il ricercatore e il docente. Lì entra in contatto con Veronesi, che ha costruito nel tempo una fitta rete di rapporti negli ambienti accademici italiani, con punti di forza soprattutto a Milano, Napoli, Trento, Bari e, appunto, Perugia. Tra il 1981 e il 1986, Pelicci fa il ricercatore in Francia e poi nel laboratorio di biologia molecolare della New York University Medical Center diretto dall'italiano Riccardo Dalla Favera. Tornato in Italia, dello Ieo di Veronesi diventa direttore del dipartimento di oncologia sperimentale, poi vicedirettore, infine, dal 2010, co-direttore scientifico. Intanto insegna a Perugia, a Parma, a Milano alla Statale e all'Università Vita Salute del San Raffaele. Ha ruoli nella Fondazione Veronesi, nell'Int (l'Istituto nazionale dei tumori), nella Firc-Airc (la Fondazione italiana per la ricerca sul cancro), nell'Ifom (l'Istituto Firc di oncologia molecolare). È co-fondatore di Genextra, la holding di Micheli. Ha un curriculum scientifico lungo 27 pagine, ma riassumibile in quattro parole: elisir di lunga vita. È il 1999 quando pubblica sulla prestigiosa rivista Nature un articolo sulla proteina P66. È un gene che controlla il metabolismo. Pelicci sostiene che i ratti a cui viene tolto il P66 hanno una vita più lunga del 30 per cento. Senza alcun effetto collaterale. Senza alcuna variazione di peso. È una folgorazione. Negli anni seguenti, Pelicci spiega in interviste bombastiche che "spegnendo" il P66 nell'uomo si potrebbe prolungare la vita fino a 120 anni. "La scoperta del meccanismo che determina la senescenza ha rivoluzionato la teoria del processo di invecchiamento. In precedenza era attribuito prevalentemente all'ambiente per effetto usura; oggi invece responsabile dell'invecchiamento deve essere considerato in primis il gene programmato dal codice genetico, che ogni individuo si porta dalla nascita". Così parla Pelicci. "Gli studi finora condotti dimostrano che la funzione del gene umano è identica a quella del topo. Quindi è verosimile che anche nell'uomo il gene si comporti come nel topo. L'obiettivo della ricerca scientifica è quindi portare la durata media della vita da 80 anni a 120". Con questo canto delle sirene, facile mettere in moto il meccanismo dei finanziamenti, pubblici e privati. La promessa è quella di trovare, prima o poi, qualcosa di molto simile alla "pillola" dell'eterna giovinezza. Contrordine: ma è tutta colpa dei topi Da quell'annuncio del 1999, passa un decennio in cui il sogno dell'elisir di lunga vita rimbalza dalle riviste scientifiche a giornali e tv. La mirabolante scoperta viene citata e ripresa in centinaia di lavori specialistici, dando lustro (e carriera) a Pelicci, che accumula riconoscimenti, ottiene incarichi pubblici e privati, porta a casa finanzia- menti. Dodici anni dopo, la promessa comincia a sfaldarsi. È Pelicci stesso, nel 2012, a mettere i puntini sulle i. Comunica in un altro articolo, pubblicato su Aging Cell, di aver verificato che se il P66 viene tolto a ratti che vivono non in laboratorio, ma in ambiente selvatico, il risultato è opposto: vivono non di più, ma di meno. Nella ricerca succede: si può anche sbagliare, si possono trovare nuove evidenze che smentiscono quelle precedenti. Ma in questo caso c'erano stati diversi segnali, negli anni precedenti, che avevano messo in dubbio la "scoperta" di Pelicci, mai presi però sul serio dallo scienziato. Già nel 2003 un gruppo di ricercatori del Texas, capitanati da Arlan Richardson, aveva obiettato che il campione di animali testati da Pelicci era troppo piccolo per avere valore statistico. Nel 2005 il team portoghese de Magalhàes aveva sostenuto che i ratti utilizzati nello studio erano troppo pochi e che l'allungamento osservato nella vita degli animali senza P66 poteva essere un inganno statistico. Inoltre ipotizzava che non fossero i ratti senza P66 a vivere il 30 per cento in più, ma gli animali di controllo, quelli restati con il P66, a vivere il 30 per cento in meno, per le condizioni di vita in laboratorio. D'altra parte, anche in un convegno del 2004 due studiosi italiani, Stefano Salvioli e Claudio Franceschini, avevano raccontato che gli umani arrivati alla soglia dei cento anni, al contrario di quanto prevedeva Pelicci, avevano più P66 e non meno di quelli a cui sopravvivevano. Niente da fare: Pelicci per oltre un decennio tace sulle critiche dirette e indirette che vengono rivolte alla sua teoria. E solo nel 2012, quando evidentemente le sue promesse non possono più reggere, fa marcia indietro, dicendo che lo avevano ingannato i ratti in laboratorio. Càpita. I ricercatori possono sbagliare. Negli ultimi anni sono emersi molti casi di ricerche scientifiche sbagliate. Sono anche stati denunciati molti casi di ricerche addirittura taroccate. Come quelle del professor Alfredo Fusco, sotto indagine giudiziaria prima a Milano e ora a Napoli, che secondo l'accusa "aggiustava" con il photoshop le immagini di proteine studiate per associarle all'insorgere di tumori. Così poteva chiedere e ottenere finanziamenti per la ricerca. Sotto processo, a Perugia, anche un altro professore, Stefano Fiorucci, addirittura arrestato nel 2008 con l'accusa di aver inviato a riviste scientifiche Usa immagini non originali, spacciate come frutto della sua ricerca. Con quelle pubblicazioni aveva ottenuto finanziamenti per 2 milioni. Dopo i geni, la dieta: i cibi che fanno miracoli Pelicci si è, se pur tardiva- mente, autocorretto. Continua a inseguire il sogno dell'elisir di lunga vita, ma ora lo declina, come progetto a breve termine, nella miracolosa dieta "Smartfood"; a lungo termine, invece, lo proietta nel dopo Expo di Human Technopole. "Smartfood" promette uFondazione Iri, ceduti a lit nel 2008. Gli investimenti dell'industria, in teoria partner, non superano i 10 milioni. Una vita più lunga grazie ai cibi che "dialogano con il nostro Dna": dal cioccolato alla cipolla, dalle patate viola agli asparagi, dai frutti di bosco alla curcuma, il libro La dieta smartfood (scritto per Rizzoli da Eliana Liotta con Pier Giuseppe Pelicci e Lucilla Titta) svela le proprietà degli alimenti che "mimando il digiuno, modificano le vie genetiche che presiedono alla durata della vita". E promette "il primo regime alimentare tutto italiano a marchio scientifico: quello dello Ieo di Milano". Per chi ha più tempo, almeno fino al 2040, c'è Human Technopole. Annunciato così, nel gennaio 2016, da un entusiastico servizio di Sette, il settimanale del Corriere della Sera: "L'uomo di domani, quasi immortale, nascerà negli ex padiglioni di Expo. Ecco come 1.600 scienziati lo culleranno, tra mappature genetiche e cibi anti-malanni". In otto pagine che sprizzano ottimismo, Pelicci viene presentato (ancora) come "lo scienziato acclamato sulla rivista Nature per aver scoperto uno dei geni dell'invecchiamento". E come il vero padre di Human Technopole: "I rumors raccontano che sia stata una sua relazione a Cernobbio, al Forum Ambrosetti, ad avere acceso una lampadina nella testa di Renzi". Sì, l'uomo che accende le lampadine nella testa di Renzi è uno dei promotori della "medicina di precisione, che non propone terapie uguali per tutti, ma cure mirate alla persona". Quest'anno, ci dicono le dure statistiche, l'età media degli italiani dopo molti anni di crescita torna a calare. Ma Sette annuncia invece che "forse, prima della fine di questo secolo, l'Italia sarà popolata da arzilli novantenni lucidi e in salute". Avranno "i farmaci personalizzati per curarsi, il cibo che previene i malanni, i vestiti antibatterici, l'ambiente meno inquinato, i robot intelligenti per le faccende di casa": venghino venghino, benvenuti nel meraviglioso ELENA CATTANEO Human Technopole sarà una Signoria creata per legge, con vassalli e valvassori: nessuno vorrà dissentire _________________________________________________________________ Il Manifesto 06 Mag. ’16 L'ESODO DELLE MATRICOLE CHE IMPOVERISCE IL SUD Adriana Pollice CENSIS: In un anno più 23 mila universitari migrati al nord. Danni enormi al sistema economico In 10 anni, il Sud ha perso 3,3 miliardi di investimento in capitale umano e 2,5 miliardi di tasse. E calano i fondi per il diritto allo studio I dati diffusi dal Censis ieri confermano l'esodo di giovani studenti e laureati del Mezzogiorno verso l'estero e il Nord del paese. In dieci anni, il Sud ha perso 3,3 miliardi di euro di investimento in capitale umano e 2,5 miliardi di tasse. Lo studio realizzato dall'istituto di ricerca per Confcooperative fotografa anche la fuga dei talenti: in un anno, 3lmila laureati sono andati all'estero o al Centro-Nord. Negli atenei delle regioni settentrionali gli iscritti del Sud sono un esercito di 168mi1a studenti. Nel solo anno accademico 2014-2015, quasi 23mila universitari sono emigrati. Nel 2010-2011 il flusso aveva interessato 27.530 immatricolati e nel 2006-2007 già superava le 26mila unità. Nei tre anni accademici considerati, la quota di immatricolati emigrati per studiare al Centro-Nord si è attestata intorno all'8-9% del totale. Se si analizzano i dati dal lato degli atenei, l'esodo degli studenti del Mezzogiorno nell'ultimo anno ha prodotto una perdita di risorse per il sistema universitario meridionale pari a 122milioni di euro. Le università del Centro-Nord, invece, hanno beneficiato di tasse aggiuntive pari a 248 milioni di euro (una cifra più alta perché le tasse in media sono più elevate), provocando in questo modo una spesa maggiore da sostenere per le famiglie. La proiezione di questo trend a dieci anni, rileva il Censis, porta un effetto di impoverimento delle università meridionali che supera il miliardo di euro, un aumento della spesa per le tasse universitarie sostenute dalle famiglie pari a 1,2 miliardi e una disponibilità di risorse aggiuntive per le università del Centro-Nord che raggiunge quasi 2,5 miliardi. Naturalmente c'è anche un effetto negativo sul sistema economico del Mezzogiorno dovuto alla perdita netta di persone con istruzione elevata. Nel 2013 ben 26mila laureati hanno preso la strada delle regioni centro- settentrionali (l'età media di poco inferiore ai 34 anni), nel 2008 erano stati 19mila (e l'età media si attestava sui 31 anni). Sempre nel 2013 altri 5mila laureati hanno lasciato il Mezzogiorno per andare all'estero. Tutto ciò, rileva il Censis, ha prodotto un investimento senza ritorno per il territorio. Secondo le stime Ocse, in Italia la spesa per studente, sostenuta dalle istituzioni pubbliche durante gli anni necessari a completare il ciclo dell'istruzione (a partire dalla scuola primaria fino alla laurea), è pari complessivamente a 108mila euro così il mancato ritorno dell'investimento realizzato dal nostro paese nel solo 2013 ammonta per il Sud a 3,3 miliardi di curo. Una condizione che rende difficile creare le premesse per produrre innovazione e sviluppo. Soprattutto, un circolo vizioso che produce povertà. Stessa immagine desolante restituita anche dai dati della Fondazione Res, raccolti nel volume Università in declino. Un'indagine sugli atenei italiani da Nord a Sud (Donzelli editore), presentato ieri alla Camera. Rispetto al momento di massima espansione dell'università italiana (tra il 2004 e il 2008), nel 2014-15 sono diminuiti gli immatricolati (meno 20,4%), i docenti (meno 17%), il personale tecnico amministrativo (meno 18%) e i corsi di studio (meno 18%). In calo del 22,5% anche il fondo di finanziamento ordinario (in Germania è cresciuto del 23%). Pochi i laureati: ha ottenuto il titolo il 23,9% dei giovani, la quota più bassa della classifica Ue. «Il calo di immatricolazioni - ha sottolineato il curatore del rapporto, Gianfranco Viesti - è particolarmente intenso nelle Isole (meno 30,2%), al Sud (meno 25,5%) e nel Centro (meno 23,7%), più contenuto al Nord (meno 11%)». Sul fronte del diritto allo studio, la spesa statale è ferma a 160milioni l'anno da oltre un decennio. In generale, gli idonei alla borsa di studio sono meno del 10% degli studenti. Al sud il 40% degli idonei nel 2013-14 non ha beneficiato di borsa per carenza di risorse (il 60% nel caso delle Isole). D'altro canto, le tasse richieste dagli atenei italiani agli iscritti sono le più alte nel gruppo dei paesi europei con sistemi comparabili. E sono aumentate del 51% tra il 2004-05 e il 2013-14 con picchi dell'85% nelle isole e del 70,5% al Sud. Più contenuti gli aumenti al Nord (52,4%) e al Centro (44,4%). _________________________________________________________________ Corriere della Sera 08 Mag. ’16 L’ESODO A MILANO DEI RAGAZZI DEL SUD ROMA Un travaso di ricchezza che risale dal Mezzogiorno prendendo la strada del Nord. L’esodo di quasi 170 mila studenti provenienti dalle regioni del Sud verso le università delle città settentrionali, con Milano che scala la classifica degli atenei, si traduce in quello che sociologi e statistici definiscono un «deflusso». A tradurlo in soldoni è un’analisi di Censis e Confcooperative che ne fissa il valore, stimando il mancato versamento nel sistema universitario meridionale a 122 milioni di euro nell’anno accademico 2014-2015. A fronte dei mancati incassi delle tasse universitarie al Sud vale aggiungere che la spesa sostenuta per iscriversi agli atenei del Nord costa circa 126 milioni di euro in più, in tutto le asse versate dai 168 mila studenti nel periodo 2014-2015 ammontano infatti a 248 milioni. A Milano, per esempio, tra le regioni che forniscono il maggior numero di studenti fuori sede c’è il Piemonte, seguito a ruota da Puglia, Sicilia e Campania. Le università milanesi più interessate da questo flusso migratorio sono la Bocconi e il Politecnico. Un trend consolidato e destinato ad avere effetti nel lungo termine. In un decennio le facoltà del Sud dovranno fare i conti con 1,2 miliardi di euro in meno di tasse universitarie, mentre a Nord le università potranno contare su una disponibilità aggiuntiva che sfiorerà i 2,5 miliardi di euro. Numeri impietosi se a corredo dell’analisi viene tenuto conto del disallineamento tra le aree meridionali e il resto del paese. Al Sud risiede oltre un terzo degli italiani, ma in termine di ricchezza si tratta di regioni a cui corrisponde solo un quinto del Prodotto interno lordo (Pil). I consumi valgono il 30% del totale, ma gli investimenti si fermano al 21,3% del dato complessivo italiano. Lo studio lo definisce «un combinato disposto» che alla fine trova un riflesso immediato nel livello di occupazione: al Sud è inchiodato al 26,1%. In questa fase di repentini cambiamenti tecnologici il Sud evidenzia anche il ritardo sul fronte degli spin off universitari e delle start up: dalle università meridionali esce poco più del 20% delle iniziative più innovative. Un altro dato segnala il basso livello dei partecipanti al programma Erasmus: solo il 18,5% degli studenti universitari iscritti al Sud. Il calcolo degli effetti economici è immediato. L’Ocse in fase di valutazione dei processi formativi ha stimato in 108 mila euro la spesa totale per uno studente dalla scuola elementare fino alla laurea. Così i 26 mila laureati che nel 2014 hanno scelto di lasciare il Mezzogiorno per andare a vivere nelle città del Nord si traducono in un travaso di risorse che vale 2,8 miliardi. Uno scenario in cui si innesta un ulteriore aspetto: i giovani sono sempre più chiusi. Ormai ridotti a minoranza sociale (sono diminuiti di oltre 2,3 milioni in un quindicennio) e sottoposti alla concorrenza degli over 35 i cosidetti millennials preferiscono avere contatti e rapporti solo con i loro coetanei. Andrea Ducci _________________________________________________________________ Giornale d’Italia 06 Mag. ’16 LA GRANDE FUGA DAGLI ATENEI DEL SUD L’esodo degli studenti del Mezzogiorno nell'ultimo anno ha prodotto una perdita di risorse per il sistema universitario meridionale pari a 122 milioni di euro. Le università del Centro-Nord hanno quindi beneficiato di un valore aggiuntivo, determinato dal pagamento delle tasse universitarie, pari a 248 milioni di euro, creando in questo modo una spesa aggiuntiva per le famiglie del Mezzogiorno pari a 126 milioni di euro, visto che le tasse universitarie negli atenei del Centro-Nord sono mediamente più alte. È questo uno dei particolari sull'emigrazione degli studenti del Mezzogiorno che emerge da uno studio realizzato dal Censis per Confcooperative presentato in occasione dell'assemblea nazionale di ieri a Roma. La "fuga dei talenti", ovvero la perdita netta di persone laureate che il Mezzogiorno ha subito negli ultimi anni, ha anche un effetto economico negativo. Nel 2013 ben 26.000 laureati hanno preso la strada delle regioni centro-settentrionali (l'età media era di poco inferiore ai 34 anni), nel 2008 erano stati 19.000 (età media sui 31 anni). Sempre nel 2013 altri 5.000 laureati hanno lasciato il Sud per andare all'estero. Quindi in un anno 31.000 laureati hanno deciso di spendere altrove 1"accumulazione di competenze acquisite sul proprio territorio di origine, determinando in questo modo un ulteriore impoverimento degli asset disponibili per il Mezzogiorno. Considerando che per l'Italia la spesa per studente sostenuta dalle istituzioni pubbliche durante gli anni necessari a completare il ciclo dell'istruzione, a partire dalla scuola primaria fino alla laurea, è pari complessivamente a 108.000 euro, il mancato ritorno dell'investimento realizzato dal nostro Paese, con riferimento ai 5.000 laureati meridionali che nel 2013 hanno lasciato l'Italia, è pari a 540 milioni di euro in un anno. Con riferimento ai 26.000 laureati meridionali che oggi vivono nel Centro-Nord, l'impatto economico può essere valutato in poco più di 2,8 miliardi di euro. In totale, si tratta di 3,3 miliardi di euro: una riduzione di opportunità per quei territori che hanno contribuito a formare un capitale potenzialmente strategico per il futuro. Ma il Sud - si legge nel rapporto del Censis - non è un "deserto e ha molti asset sui cui puntare per sottrarsi a un destino di inesorabile impoverimento. Per sfuggire a questa deriva occorre preservare la dimensione e il valore dei fattori di sviluppo, evitando dispersione e dissipazione. Il sistema dell'istruzione, dell'università e della ricerca è - conclude il Censis - imprescindibile se si persegue l'obiettivo di collocare un territorio sulla frontiera tecnologica e dell’innovazione _________________________________________________________________ Giornale d’Italia 06 Mag. ’16 MA LE IMMATRICOLAZIONI SCENDONO UN PO OVUNQUE per la prima volta nella sua storia il sistema universitario italiano "è di- ventato significativamente più piccolo di circa un quinto". Lo sostiene Carlo Triglia, professore ordinario di sociologia economica all'Università di Firenze che ha presentato la ricerca "Università in declino. Un'indagine sugli atenei da Nord a Sud", ripresa dall'agenzia Dire. Rispetto al 2008 il "momento di massima espansione" del sistema universitario italiano, "gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66.000, - 20%; i docenti sono scesi a meno di 52.000, -17%; il personale tecnico amministrativo a 59.000, -18V. Ridotti anche del 18% i corsi di studio (4.628). Infine il fondo di finanziamento ordinario delle università "è diminuito, in termini reali, del 22,5V, con un taglio che in sette anni sè aggirato sul 1,4 miliardi di euro. Anche l'obiettivo europeo di raggiungere, nel 2020, il 40% di giovani laureati "sembra decisamente fuori dalla nostra portata: l'Italia è con il 23,9% all'ultimo posto fra i 28 stati membri". Una radiografia a tinte fosche che si accentuano negli "atenei del centro-sud", visto che oltre il 50% del calo degli immatricolati "è concentrato nel Mezzogiorno". Sempre al sud è maggiore la quota di studenti che abbandona gli studi universitari dopo il primo anno: il 17,5% al sud, contro il 12,6% al nord e il 15,1% al centro. Inoltre, il tempo medio di completamento di un corso triennale "è 5,5 anni al centro e al sud" contro i "4,5 al nord". Nel Mezzogiorno, inoltre, "la diminuzione del personale docente di ruolo è stata del 18,3%" rispetto al- 1"11,3% del nord _________________________________________________________________ Corriere della Sera 06 Mag. ’16 USA, GLI STUDENTI NON SONO PRONTI PER L’UNIVERSITÀ a cura di Carlo Baroni I ragazzi americani non sono pronti per l’università. A denunciarlo è un editoriale del San Diego Union Tribune , diretto da Jeff Light. Il quotidiano californiano prende in esame i test dei ragazzi nell’ultimo anno delle high school. Con esiti sensibilmente inferiori rispetto ai colleghi che li hanno preceduti. Le statistiche dicono che solo il 37 per cento avrebbe i requisiti per affrontare con probabilità di successo i corsi universitari. Il commento vuole essere anche un monito a chi decide di iscriversi in un ateneo e ritiene, per il solo fatto di aver ottenuto un diploma in istituto superiore, di non avere particolari problemi a conseguire anche una laurea. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 06 Mag. ’16 ATENEI, ZERO TASSE SUI REDDITI BASSI Ma con soglie minime di esami La proposta allo studio del governo. Il tetto Isee tra i 13 e i 15 mila euro ROMA Una «no tax area» per le università. Un limite di reddito al di sotto del quale gli studenti (e le loro famiglie) non dovranno pagare tasse e rette per frequentare i corsi. A patto, però, di superare un numero minimo di esami e non finire nella lista degli «inattivi», termine burocratico per fannulloni. È questo il progetto sul tavolo del governo, accennato due giorni fa dal presidente del consiglio Matteo Renzi, che si è detto «pronto a intervenire sulle tasse universitarie». Al di sotto di quale soglia non si pagherebbero le tasse? Al momento si ragiona su una soglia compresa fra i 13 mila e i 15 mila euro come valore Isee, l’indicatore che misura la ricchezza di tutto il nucleo familiare dello studente, tenendo conto non solo del reddito ma anche delle case e degli investimenti, compresi i soldi in banca. La decisione finale, però, non è stata ancora presa. Tutto dipende da quante risorse il governo vuole investire nella partita per compensare le minori tasse che, con questo meccanismo, ogni ateneo incasserebbe. Un’università con molti studenti sotto un Isee di 15 mila euro, infatti, potrebbe non riuscire a far quadrare i conti. Per questo sarebbe necessario un trasferimento aggiuntivo da parte dello Stato, un tot per ogni studente esente iscritto. Il bonus, in ogni caso, sarebbe legato al profitto: per gli studenti dal secondo anno in poi sarebbe necessario aver superato nell’anno precedente un numero minimo di esami, o aver incassato un minimo di crediti formativi, la formula che valuta il peso di ogni singolo corso. Probabilmente due esami o una decina di crediti formativi, ma su questo punto il lavoro è davvero all’inizio. Per le matricole, cioè i nuovi iscritti, le tasse resterebbero sospese fino alla fine del primo anno di corso. Per poi verificare il rispetto del parametro prima del passaggio al secondo anno. La «no tax area» sarebbe valida per tutte e cento le università italiane, che oggi sulle iscrizioni e le tasse hanno regole molto diverse fra loro, ma difficilmente una fascia d’esenzione così generosa. Oltre alla «no tax area», però, c’è un’altra misura che potrebbe entrare nel pacchetto allo studio del governo. E cioè la possibilità di scaricare dalle tasse una parte della retta per chi è sopra la soglia dei 15 mila euro e dovrà continuare a versarla. Una misura che andrebbe incontro non ai più deboli ma al ceto medio. E che avrebbe lo stesso obiettivo di frenare la caduta degli iscritti che da dieci anni colpisce le nostre università. Due numeri per capire l’aria che tira. Nel 2004, dopo l’esame di maturità, si iscrivevano all’università tre ragazzi su quattro. Oggi siamo scesi a due su quattro. Un crollo progressivo che non dipende solo dal livello delle tasse. Ma anche dalla crisi generale e dalla sensazione diffusa (e sbagliata) che studiare non valga più la pena perché tanto poi il lavoro non si trova. Una piccola inversione di tendenza c’è stata nell’ultimo anno accademico, il 2015-2016, con un aumento delle matricole del 2% che però non ha annullato il crollo cominciato all’inizio del secolo. Il pacchetto del governo è ancora in fase di studio. Ma negli ultimi giorni i lavori preparatori hanno subito una brusca accelerazione, arrivata dall’alto. Sul tema delle tasse universitarie sono ferme alla Camera due proposte di legge, una del Movimento 5 stelle, l’altra del Pd. Procedono in parallelo ma pochi giorni fa il M5S ha ottenuto la calendarizzazione in Aula del suo testo, nella quota riservata all’opposizione. La data fissata è il 23 maggio, a pochi giorni dal primo turno del voto per i sindaci delle grandi città, da Roma a Milano. Forse anche per questo Renzi ha deciso di uscire allo scoperto. Sotto elezioni, la marcatura è a uomo. Lorenzo Salvia _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 08 Mag. ’16 UNICA: L’UNIVERSITÀ PUNTA SULLE DONNE al via il progetto nuvola rosa CAGLIARI Sarà presentata alla stampa il 13 maggio alle 11 nell’aula magna “Maria Lai” dell’Università degli Studi di Cagliari (Via Sant’Ignazio 76) l’edizione 2016 di Nuvola Rosa, il progetto che offre formazione gratuita a migliaia di giovani donne in Italia e all’estero, che ha coinvolto ad oggi oltre 3mila ragazze, e che quest’anno punta su Cagliari, Bari e Napoli. L’incontro, che sarà aperto dai saluti istituzionali di Maria Del Zompo, rettore, di Massimo Zedda, sindaco di Cagliari e diJohn R. Phillips, ambasciatore degli Stati Uniti d’America presso la Repubblica Italiana e la Repubblica di San Marino, anticiperà la conclusione del ciclo di corsi di formazione specializzata ospitati dall’Ateneo, finalizzati a far conoscere le opportunità del digitale e aprire un dialogo diretto con le aziende che assumono dentro e fuori dal territorio. Nuvola Rosa è organizzata da Microsoft, Accenture, Asus Avanade e Aviva, con il patrocinio del dipartimento per le Pari Opportunità e della missione diplomatica degli Stati Uniti in Italia, si avvale della partnership di Itu, Sustainable Development Goals e Unric, ondazione Mondo Digitale. _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 Mag. ’16 UNICA: SCOPERTO UN NUOVO METALLO UNIVERSITÀ. Studio del dipartimento di Fisica È stato pubblicato sulla rivista scientifica “Nature communications”, il risultato della scoperta dei fisici dell'Università cittadina coordinati da Vincenzo Fiorentini. Per la prima volta è stata appurata l'esistenza di un materiale metallico e ferroelettrico. L'oggetto degli studi sono stati i metalli usati in elettronica e ottica, ma anche negli strumenti ecografici, negli schermi dei tablet e nei touchscreen. I ferroelettrici sono materiali usati in elettronica e ottica (memorie non volatili, generatori di ultrasuoni per ecografia e altri). Non sono mai metallici, cioè conduttori, ma è valido anche il discorso contrario: nessun metallo è ferroelettrico. Così si pensava. Invece i fisici dell'Ateneo, usando simulazioni quantistiche, hanno predetto un materiale che è intrinsecamente metallico e ferroelettrico. È il primo esempio in assoluto di materiale con queste proprietà. Il team che ha realizzato e pubblicato la ricerca è composto da Alessio Filippetti (professore “Rientro dei cervelli” in città dal 2003 al 2007, poi al Cnr e chiamato di recente come associato), Vincenzo Fiorentini (associato del dipartimento di Fisica cittadino), Francesco Ricci (dottorando del dipartimento di Fisica, ora all'Università di Lovanio, Belgio), Pietro Delugas (ora alla Sissa di Trieste), Jorge Iniguez (ricercatore Luxembourg Ist, visiting professor a Cagliari dal 2013 al 2015). La scoperta potrebbe essere utile in optoelettronica, in accoppiamenti capacitivi (ad esempio, gli schermi dei tablet), o in memorie non- volatili. Conclude Fiorentini: «Bisogna vedere se qualcuno riuscirà a produrre questo materiale in laboratorio». _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 Mag. ’16 SARDI STUDIOSI MA SENZA LAVORO Buoni voti, un annetto in più per conquistare il sospirato “pezzo di carta”, una difficile caccia a un lavoro che, se arriva, si fa attendere. Lo stipendio poi non sarà troppo alto e se sei donna ancora meno. Lo sanno bene i laureati sardi che per trovare un posto, in una terra ad alto tasso di disoccupazione giovanile, ci vuole molta pazienza e una ricca dose di ottimismo. A fare i conti del mondo universitario, con una mole immensa di cifre e statistiche, è il rapporto annuale di AlmaLaurea, il consorzio composto da una settantina di atenei italiani, compresi quel di Cagliari e Sassari. Viene fuori il quadro di un'Isola ancora distante dal resto d'Italia – non per la qualità dell'offerta degli studi – e costretta a pagare da decenni uno sviluppo col freno a mano tirato. LE CIFRE Fra tutti i laureati nel 2015, l'età media dei sardi (27,5 anni a Cagliari e 27,8 a Sassari) è più alta della media nazionale (26,2). Un distacco netto dovuto anche alla percentuale più alta di immatricolati con due o più anni di ritardo (il 30% nell'Isola, solo il 22,5 in Italia). Più basso di circa un punto (intorno agli 80/100 nell'Isola) il voto medio di diploma. Da segnalare la buona predisposizione a integrare il proprio corso con periodi di studio all'estero, con Sassari che svetta a quasi il 20% (in Italia ci si ferma al 12,2%). Valigia pronta e si parte, quindi, anche se si zoppica un po' con l'inglese: solo la metà dei sardi dichiara di avere una conoscenza “almeno buona”, contro il 70% della media nazionale. Più che sufficiente, quasi in linea con i colleghi delle università italiane, la padronanza delle nozioni principali di informatica: campioni nella navigazione in Internet e nella comunicazione in rete, qualche problema in più con l'uso di Word ed Excel. Ecco invece i “voti” degli studenti alle proprie università. Buon giudizio sul corso appena concluso, più bassa la valutazione delle aule, “sempre e quasi sempre adeguate” solo per il 13,9% dei cagliaritani (in Italia 23%). Gli atenei sardi si rifanno con le biblioteche, promosse con lode. LA LAUREA E POI? A un anno dalla laurea trova un posto solo un ex studente sardo su tre – la media nazionale tocca quasi il 43% con uno stipendio netto che si aggira sui mille euro al mese, con punte più basse – esclusa Sassari – per i diplomi di primo livello. A tre anni dalla laurea invece, la quota di dottori al lavoro cresce: in Italia sono due su tre ma in Sardegna sono poco più di cinquanta su cento. Si gonfia anche la busta paga ma tra Cagliari e l'Italia ci sono quasi 150 euro netti di differenza. Da segnalare il divario, in tutto il Paese, tra gli uomini (più pagati) e le donne: il lavoro maschile vale oltre 200 euro in più per Cagliari, solo una sessantina di euro per Sassari. Dopo cinque anni dalla laurea, finalmente qualcosa si muove: ha trovato un posto il 74% per cento dei laureati italiani, il 70 di quelli di Cagliari ma appena il 58% degli ex studenti di Sassari. Cresce anche lo stipendio netto - in Italia 1.359 euro al mese – che tocca i 1.295 euro per Sassari e 1.270 per Cagliari, con uomini e donne divisi da oltre 300 euro. Alessandro Ledda _________________________________________________________________ Avvenire 07 Mag. ’16 MAMMA ERASMUS: ECCO CHI HA APERTO IL MONDO AGLI STUDENTI Enzo R. SPAGNOLO «Mamma Erasmus? È un soprannome coniato, anni fa, da studenti e colleghi, diventato un affettuoso attestato di stima, di cui vado fiera». Nel cortile della parrocchia romana di Santa Marcella, la professoressa Sofia Gonadi ripercorre con memoria di ferro e tono allegro la storia di una vita, la sua, dedicata al raggiungimento di un sogno, divenuto realtà per milioni di persone. Nel corso degli anni, dopo che il programma Erasmus era diventato un successo confermato dalle statistiche (e mitizzato da film come La professoressa, oggi 82enne, riceverà lunedì il premio Carlo V in Spagna. Tutto cominciò per un'ingiustizia, quando nel 1958 La Sapienza non le riconobbe degli «L appartamento spagnolo» di Cédric Klapisch), molti in Europa si sono vantati di esserne stati padri. Ma per la sua laboriosa genesi, vale il vecchio brocardo latino mater semper certa. Già, perché a innescare la scintilla iniziale, e ad alimentarla negli anni con tenacia, è stata la signora Sofia, capace di escogitare, sul finire degli anni Sessanta, il progetto di scambi di studio da cui ha preso vita l'odierno programma europeo. Anche adesso che ha 82 anni ed è una docente universitaria in pensione (ha insegnato fino al 2004 Educazione degli adulti all'università Roma Tre e continua a pubblicare articoli e saggi), diverse generazioni di ex studenti, oggi uomini politici, professionisti e manager in tutto il mondo, la ricordano come Mamma Erasmus. Lunedì sarà in Spagna, accompagnata dal ministro dell'Istruzione Stefania Giannini, per ricevere dalle mani di re Filippo VI e del presidente del Parlamento europeo Martin Schulz un prestigioso premio internazionale, assegnato in passato a personalità come Jacques Delors, Mikhail Gorbaciov, Helmut Kohl e Simone Veil. È intitolato a Carlo V, il sovrano spagnolo sul cui impero «non tramontava mai il sole», un po' come accade oggi per l'Erasmus, che ha valicato pure i confini europei, attivando scambi di studio e lavoro in decine di Paesi nel mondo: «L'Erasmus plus è un'iniziativa fantastica. E iosogno altre iniziative, che riguardino ad esempio lo scambio di esperienze fra lavoratori di Paesi agli antipodi, come Italia e Argentina, o Irlanda e Filippine...». Sessant'anni fa non era così. La burocrazia era un muro insuperabile. «Me ne accorsi nel 1958, con una solenne arrabbiatura. Stavo terminando il corso di laurea in giurisprudenza a Roma. Con una borsa di studio Fulbright, avevo frequentato per un anno la Columbia University di NewYork, conseguendo un master in diritto comparato. Munita di certificati, al mio ritorno pensai di chiedere all'università La Sapienza il riconoscimento degli studi come equivalenti dei tre esami che ancora mi mancavano, in modo da poter affrontare la tesi. Andai lì in buona fede e speranzosa, ma il capo della segreteria della Sapienza mi trattò malissimo: "Signorina, lei pensa di andare a spasso per il mondo e poi venir qui a chiedere la laurea? Vada a casa, piuttosto, a studiare. E, solo se supererà gli esami mancanti, torni qui per la tesi", strillò. Ero mortificata, avevo un libretto zeppo di 30 e lode e invece sembrava quasi che volessi rubacchiare qualche esame. Umiliata, andai a casa, mi misi a studiare e mi laureai». Quella scenata sprona la giovane Corradi: «Non volevo che altri studenti patissero un trattamento del genere. Negli Usa, in un pensionato, mi era capitato di cenare col celebre banchiere David Rockfeller, che mi spiegò come anche una sola persona, priva di potere ma preparatissima, potesse cambiare le cose». Per farlo davvero, occorre guadagnarsi il sostegno dei "decisori", nell'università e nella politica. Così Corradi, divenuta ricercatrice all'Onu sul diritto allo studio, consulta tomi e pandette: «Mi confortò un precedente: in Italia uno dei principi Borghese aveva ottenuto, in tribunale, il riconoscimento degli studi all'estero dei figli». Nel Trattato di Roma, che ha dato vita alle istituzioni europee, di istruzione non si parla. E nei ministeri competenti, lo studio all'estero viene visto come «un male necessario», riservato ai figli di italiani che vivono fuori dal Paese. La svolta arriva mentre gli universitari europei contestano sulle barricate del '68. La nascente autonomia» degli atenei offre un trampolino al progetto, sostituendo il concetto di «equivalenza» degli esami sostenuti all'estero, stabilita da accordi fra Stati, con quello di «riconoscimento», per il quale bastano gli accordi fra atenei. D'aiuto è anche la maggior libertà concessa agli universitari nel comporre il piano di studio. La professoressa elabora un appunto e insieme al rettore dell'Università di Pisa Alessandro Faedo, «matematico geniale, amico di Enrico Ferm.», lo consegna al ministro della Pubblica Istruzione dell'epoca, Mario Ferrari Aggradi: «Andammo nel suo studio, al Ministero, alle 7.30 del mattino, e lo convincemmo ad ascoltarci. In seguito, lo facemmo anche col ministro Riccardo Misasi». Ferrari Aggradi tramuta quell'appunto in uno schema di articolo da inserire nella riforma, che sarà approvata in seguito, in cui si stabilisce che ogni studente, seppur «non appartenente a famiglia residente all'estero, può chiedere di svolgere parte del suo piano di studio presso università straniere», presentandolo preventivamente all'approvazione del Consiglio di Facoltà» che potrà dichiarare l'equivalenza, effettiva solo «dopo che lo studente avrà prodotto la documentazione degli studi compiuti all'estero». 1110 ottobre 1969, quell'appunto si trasforma in un promemoria «chiaro, conciso e battuto a macchina» dalla Corradi, che poi lo ciclostila in migliaia di copie e lo invia «a tutti i rettori e a qualsiasi autorità, in Italia o all'estero, che speravamo di coinvolgere nell'iniziativa». Faedo, presidente della Conferenza dei rettori italiani, se ne fa alfiere e, dopo aver preparato il terreno in un incontro fra omologhi europei a Ginevra, ne discute coi colleghi delle università tedesche e francesi, in riunioni bilaterali a Karlsruhe e Pisa: «Fu un passaggio importante, ne scrissero diversi quotidiani, sottraendo per una volta spazio alla cronaca nera». Nel 1976, vengono riconosciuti i primi esami effettuati da studenti italiani in Francia. Il progetto pian piano avanza: «Io insegnavo all'università e tempestavo coi miei promemoria chiunque avesse un potere decisionale. Mi avvistavano da lontano, nei palazzi della politica: ecco la Corradi, quella rompiscatole. Ma io insistevo, l'ho fatto per 18 anni e non mi sono mai arresa». Dopo molte battaglie, «rallentamenti e qualche sconfitta», l'odissea burocratica partita da quel promemoria si conclude nel 1987, quando l'Unione europea decreta ufficialmente la nascita dell'Erasmus: «Nei tratti essenziali del progetto europeo, ricorrono quelli delineati anni prima nel mio appunto». Da allora, 4 milioni di studenti hanno colto l'opportunità, riservata adesso anche a lavoratori, professionisti e volontari. «Studiare all'estero, aprire la propria mente alla diversità culturale è un'esperienza straordinaria, ti consente di trovare impieghi migliori e più remunerati». Altro che correre dietro alle gonnelle: «Era ciò che dicevano i detrattori. Ma sarebbe ben strano che a quell'età i giovani non s'innamorassero. E chi non vuole studiare, non studierà neppure a casa sua». Ma non trova un controsenso un'Europa che fa viaggiare gli studenti e alza muri di fronte ai profughi di guerre e carestie? «Papa Francesco fa bene a sollecitare più accoglienza. Da parte mia, non posso credere che i giovani politici della generazione Erasmus alzino muri. Quando ce ne saranno di più nei governi europei, certe barriere ideologiche spariranno». Il momento della premiazione incombe: «Ci andrò con mia figlia e con le mie giovani nipoti». Hanno già fatto l'Erasmus? «No, ma in futuro potrebbero farlo». Così lei potrebbe diventare nonna Erasmus? «Non me lo aveva ancora detto nessuno, ma penso proprio di sì. Ovviamente, ne sarei felice...». 4 MILIONI DI STUDENTI ...E UN MILIONE DI BAMBINI Ritaglio stampa ad uso esclusivo del destinatario, non riproducibile. Sviluppato a partire da un'idea della professoressa Sofia Corradi, il programma Erasmus è nato ufficialmente nel 1987. Il suo nome è l'acronimo di "European region action scheme for the mobility of university students". Finora è stato utilizzato da circa 4 mlioni di giovani, che hanno usufruito di borse di studio (in media 270 euro al mese) per vivere ed svolgere esami all'estero per un periodo compreso fra 3 e 12 mesi, imparando una lingua straniera e spesso abbinando lo studio al lavoro. Fra le mete più ambite, ci sono Spagna, Germania e Francia, dalle quali parte inoltre il maggior numero di studenti erasmiani (i primi sono gli spagnoli, circa 37mila l'anno, gli italiani sono stati 26mila nel 2014). L'età media è di 23 anni e la maggioranza sono donne (fra loro, purtroppo, anche le 13 giovani, fra cui 7 italiane, decedute a marzo in un incidente stradale a Tarragona). Durante l'esperienza, secondo dati della Commissione europea, si formano anche famiglie "multiculturali": da coppie di studenti erasmiani sono nati, secondo dati della Commissione europea, circa un milione di bambini. Da due anni, il programma è diventato "Erasmus plus", allargandosi a lavoratori, insegnanti, tirocinanti, volontari, con un budget di quasi 15 miliardi di euro stanziato nel bilancio 20142020. Nel primo anno ha finanziato oltre 650mila borse di mobilità. Per il commissario europeo all'Istruzione, Tibor Navraciscs, si sta rivelando «un autentico successo». (V.R.S.) _________________________________________________________________ Corriere della Sera 04 Mag. ’16 BATTERIE E CELLE SOLARI: IL GRAFENE PROMETTE PRODIGI di Giovanni Caprara Quando nel 2010 i due fisici Andrej Gejm e Konstantin Novoselov dell’Università di Manchester (ma fuggiti dall’Unione Sovietica) conquistarono il Premio Nobel per la fisica in seguito alla scoperta del grafene, il suo nome era praticamente sconosciuto. Da quel momento, però, diventava quasi una parola magica perché nelle Università e nei centri di ricerca si capiva subito quali potenzialità nascondeva lo straordinario materiale. Il grafene è un impercettibile strato di atomi di carbonio 200 volte più sottile di un capello e disposti nella semplicissima geometria esagonale del nido d’ape. Ciò che più impressionava era la sua resistenza, cento volte più forte dell’acciaio, la sua superba capacità di condurre elettricità (ben oltre il rame) e calore, l’eccezionale flessibilità e impermeabilità a liquidi e gas. Come non bastasse anche una debole corrente elettrica lo rendeva magnetico. «Insomma appariva subito come un materiale straordinario con sviluppi possibili e vantaggiosi in una miriade di direzioni», commenta Vittorio Pellegrini, presidente del comitato esecutivo della «Flagship Graphene», il programma di ricerca dell’Unione Europea e a capo del Graphene Lab dell’Iit di Genova. Al quale facciamo qualche domanda. Dunque il grafene è veramente una nuova frontiera ? «Nel mondo c’è un’attività enorme per arrivare ad applicazioni utili. L’Europa dedica un miliardo di euro per sviluppare le tecnologie necessarie, comprendendo da batterie alle celle solari». Perché queste scelte e non altre? «Sono due campi strategici per il futuro. Nella produzione e distribuzione dell’energia elettrica il problema è oggi lo stoccaggio sia negli impianti dell’Enel che nelle nostre case. Ma lo è altrettanto per la mobilità riguardante dalle automobili, ai computer o ai cellulari. Utilizzando il grafene nelle attuali batterie a ioni di litio delle auto sostituendo la grafite possiamo aumentare la loro efficienza del 25 per cento. All’Iit abbiamo sviluppato dei prototipi nei primi due anni di ricerca condotti nell’ambito del piano europeo». I prossimi passi? «Combinare il grafene con il silicio accrescendo la capacità di assorbire gli ioni. Così si arriverà ad aumentare addirittura del mille per cento l’efficienza e la durabilità nel tempo. Di conseguenza si potrebbe passare da un’autonomia di 200 chilometri di un’auto elettrica di oggi a duemila chilometri cambiando le possibilità dell’industria automobilistica. Finora non si è andati oltre i modelli di laboratorio e il prossimo finanziamento biennale del piano europeo fino al 2018 di sei milioni di euro è proiettato a questo scopo». E i vantaggi sull’altro fronte delle celle solari? «Il silicio adesso impiegato nelle celle è rigido e non trasparente. Rimpiazzandolo con il grafene si disporrebbe di un materiale flessibile e trasparente oltre che più efficace nella resa aprendo un mondo nuovo soprattutto alle applicazioni in architettura. Le normali finestre o le grandi vetrate dei grattacieli diventerebbero tutte dei pannelli solari. Ciò, oltre ad eliminare i pannelli sui tetti, consentirà grazie alla flessibilità, svariate installazioni ampliando le facoltà di progettazione». Quando si arriverà a questi risultati ? «La Flagship europea mira a realizzare per il 2023 le tecnologie pre- industriali dei vari prodotti, dalle batterie alle celle solari, sviluppando metodi di produzione adeguati. Ciò favorirà la nascita di aziende in grado di inserirsi nel nuovo mercato creando posti di lavoro con un grande impatto sociale ed economico». I costi di sviluppo della tecnologia non rappresentano un ostacolo? «Il grafene è un materiale giovane nato appena una decina di anni fa ma già oggi il suo costo è intorno ad un euro per grammo compatibile col mercato. Ovviamente in una fabbricazione su ampia scala i costi dipendono dai metodi di produzione. Intanto con i brevetti dell’Iit abbiamo creato la startup BeDimensional focalizzata alla generazione di cristalli bidimensionali adatti alle nuove applicazioni». _________________________________________________________________ TST 04 Mag. ’16 I MIRACOLI DEL GRAFENE IN MEDICINA SILVIA BANDELLONI L’apparenza inganna! Durante le Olimpiadi di Roma nel 1960 nessuno avrebbe scommesso su Abebe Bikila, maratoneta apparentemente fragile. Eppure la sua forza nascosta lo portò a vincere medaglia d'oro. Così, fatte le debite differenze, accade con il grafene: una rete impalpabile di atomi di carbonio, il cui spessore è equivalente alle dimensioni di un atomo, con proprietà e prestazioni da record. Si tratta di un nuovo materiale veramente bidimensionale: flessibile come una ragnatela, ma resistente come il diamante. E, pure lui, ha meritato una medaglia d'oro: il Premio Nobel della Fisica nel 2010. E intanto gli studi sul tema si moltiplicano. Al congresso della Biophysical Society, a Los Angeles, Valentina Palmieri, dell'Università Cattolica di Roma, ha presentato uno studio sull'ossido di grafene: è una ricerca interdisciplinare, condotta presso la Facoltà di Medicina dell'Università in collaborazione con l'Istituto dei Sistemi Complessi del Cnr. Si è osservato che le scaglie ossidate del grafene possono assumere la funzione di un battericida, molto potente e più ecologico degli antibiotici. I ricercatori le hanno utilizzate in quanto agiscono sulle cellule batteriche, senza uccidere quelle umane. Ancora una volta, quando si parla di proprietà sorprendenti dei materiali, ecco che salta fuori il grafene. La sua singolarità nasce da un fatto apparentemente banale: è composto soltanto da atomi di carbonio. Sembra incredibile come questi semplici atomi diano origine a grandi opere. La loro piccola dimensione fa sì che possano legarsi saldamente gli uni con gli altri, creando legami chimici singoli, doppi e anche tripli. Sono quindi capaci di erigere strutture tridimensionali come il diamante, bidimensionali come la grafite e il grafene oppure unidimensionali come le catene polimeriche. Ma le virtù del grafene non sono soltanto di tipo meccanico o chimico: la sua elevata conducibilità elettrica - che viene meno quando lo ossidiamo - apre nuove opportunità anche nell'elettronica digitale. Nei comuni dispositivi elettronici - si sa - vengono usati semiconduttori come il silicio, che possiedono un intervallo di energia inaccessibile agli elettroni: perciò, solo quando gli elettroni hanno energia sufficiente per superare questa «banda proibita», e finiscono su energie più alte, il materiale diventa conduttore. In altre parole possiamo modulare il numero degli elettroni che sprigioniamo - dando loro energia - e portarli al «piano superiore», dove saranno liberi di muoversi e quindi di condurre elettricità. Il grafene, invece, pur essendo cugino del diamante, un grande isolante, non ha intervalli proibiti di energia e, quindi, conduce energia in modo incessante. Come un metallo e, anzi, molto più di un metallo. Non è necessario, cioè, sprigionare gli elettroni, in quanto sono già liberi di muoversi: il che è un bene per tutte le connessioni elettriche dei dispositivi elettronici. C'è tuttavia un problema. Se volessimo, invece, creare un dispositivo a interruttore, servendoci di foglietti di grafene, riscontreremmo dei problemi: se anche spegnessimo l'interruttore, infatti, gli elettroni continuerebbero a far fluire corrente. Per ovviare a questo inconveniente possiamo ricorrere ai nanotubi di carbonio, vale a dire fogli di grafene arrotolati. La loro conducibilità elettrica cambia a seconda della direzione in cui sono arrotolati: alcuni si comportano da veri conduttori, altri da semiconduttori. È evidente, perciò, che il grafene possiede un'incredibile versatilità chimica: la stessa che riscontriamo nei composti organici che, basati sul carbonio, sono il fondamento della vita biologica. Sono ancora molti i segreti da svelare di questo materiale: così si potranno individuare nuove applicazioni in svariati campi. Sforzi che non si saranno dimostrati vani, perché il grafene è speciale: al di là del suo splendido isolamento e della sua multiformità morfologica, infatti, custodisce lo stesso segreto che rende i materiali biologici così speciali rispetto a quelli inanimati. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 03 Mag. ’16 IL MIO CURRICULUM? CON I MIGLIORI FLOP di Paolo Di Stefano Enzensberger, Joyce e il prof di Princeton: quelli che pubblicano le proprie sconfitte «Da lì si progredisce» «Il successo è il solo metro di giudizio di ciò che è buono o cattivo». Potrebbe essere il motto di un dirigente marketing dei nostri giorni. Invece, sapete chi l’ha scritto? Ve lo dico dopo. Intanto, sappiate che l’idea opposta è di James Joyce, il grande scrittore irlandese che non si preoccupò certo di essere letto da un gran numero di persone, visto che scrisse uno dei romanzi più ostici della letteratura, Ulisse , per non parlare di Finnegans Wake , esempio massimo di libro intraducibile. Ebbene, Joyce fece dire a un suo personaggio, il professor McHugh, la seguente frase, che oggi suonerebbe fastidiosamente snob: «Fummo sempre fedeli alle cause perse: il successo per noi è la morte dell’intelletto e della fantasia». Senza dover sposare le posizioni estreme, si può affermare che anche il fallimento aiuta, anzi a volte aiuta più dell’obiettivo felicemente raggiunto. È il salutare messaggio che ci arriva da un professore dell’Università di Princeton, il quale ha deciso di pubblicare su Twitter il Curriculum Vitae dei suoi fallimenti. Non un professore qualunque, se è vero che Johannes Haushofer — già ricercatore a Oxford, a Harvard e a Zurigo — insegna psicologia e neurobiologia. Intanto, a onor del vero, va detto che questa trovata ha fatto guadagnare al giovane Haushofer una visibilità che neanche l’intero corpus delle sue pubblicazioni scientifiche gli ha mai regalato. «Fallisco nella gran parte delle iniziative in cui mi cimento — ha confessato Haushofer —, ma i fallimenti, a differenza dei successi, rimangono invisibili». Da qui l’intuizione di elencare i progetti mai realizzati, i premi non conseguiti, le promozioni accademiche mancate, gli articoli rifiutati da riviste scientifiche, i finanziamenti non ottenuti. È vero che la delusione, per lo più, viene elaborata nel silenzio (più o meno umiliato) del proprio foro interiore. E spesso resiste, come un cibo mal digerito che si ripropone di continuo. Lo spiega bene il grande scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger che ai suoi «flop preferiti» ha dedicato un intero libro autobiografico (uscito qualche anno fa in Italia da Einaudi). «Flop», con il suo evidente valore onomatopeico, significa alla lettera: «tonfo», ma diventa metafora di «fiasco», «insuccesso». Perché essere tanto restii a raccontare le piccole o grandi sconfitte, si chiede Enzensberger? Timore della brutta figura? Con la sua autorevole esperienza di ultraottantenne, lo scrittore invita i suoi (molti) lettori a rilassarsi: rivelare i propri flop è «non solo istruttivo e rinfrancante, ma anche divertente». Perché anche nei naufragi (metaforici), a ripensarci, c’è un’illuminazione di cui fare tesoro. Anzi, proprio quell’amarezza che emerge nel ricordo aiuta a mitigare il senso di onnipotenza e il narcisismo devastante che deriverebbero dall’abitudine al successo. Del resto, si sa, sbagliando si impara. E chi crede di non sbagliare mai o non vuole tornare sui propri errori, non farà progressi. Ovvietà. Tant’è vero che gli esperti insegnano che i successi duraturi iniziano sempre dai fallimenti. Purché la sconfitta non significhi inconcludenza, certo. Haushofer si lancia a parlare di «stocastica», di quella teoria cioè che si occupa della casualità, della probabilità, dell’aleatorietà. Ma esagera quando afferma che il successo di un’idea dipende spesso dalle condizioni del momento, dagli umori dei commissari d’esame e in definitiva dagli imponderabili capricci del caso, come in un gioco d’azzardo. Esagera, anche se la sua è una strategia psicologica utile ad attenuare il senso di colpa. E poi non ha torto Lucia Lorenzi che da un dipartimento universitario inglese avverte su Twitter: non tutti possono permettersi di esibire la propria vulnerabilità, poter elencare i propri fallimenti è un privilegio di chi non è precario. (A proposito, la frase iniziale è tratta da Mein Kampf di Adolf Hitler). _________________________________________________________________ TST 04 Mag. ’16 IMPRONTE DIGITALI ADDIO, L'IDENTITÀ È SCOLPITA NELLE REAZIONI DEL CERVELLO Le impronte digitali vanno «in soffitta»: l'identità di un individuo è infatti incisa nel suo cervello e riconoscibile in modo rapido e infallibile. Basta saperla leggere. Il team di Sarah Laszlo della Binghamton University, negli Usa, ha scoperto che la risposta del cervello alla lettura di parole o alla visione di foto è unica e diversa per ciascun individuo e potrebbe diventare la base per una nuova metodologia di verifica dell'identità. Il vantaggio rispetto a metodi classici come impronte digitali ed esame dell'iride è la possibilità di ripetere la verifica in continuo, per esempio consentendo a un individuo di interagire in contemporanea con vari sistemi di sicurezza, utilizzare più computer o accedere a banche dati senza dover ogni volta farsi riconoscere o inserire continuamente password, come avviene in ambito militare o sanitario (dove i dati sono accessibili solo al personale autorizzato). Questa possibilità è stata dimostrata in due studi, uno apparso su «Neurocomputing» e l'altro su «The lee Transactions on Information Forensics and Security». Con uno speciale elettroencefalogramma si è registrata l'attività neurale di un gruppo di volontari in risposta alla lettura di parole e sigle quali Fbi, dvd, cd, pc e alla vista di immagini come quelle di una pizza o di una barca. Si è così osservato che il cervello di ciascuno risponde in modo diverso e unico a questi stimoli e che le risposte neurali restano sempre uguali a se stesse, anche a distanza di mesi, perché basate sui ricordi personali. I ricercatori sono riusciti a tracciare l'identità di tutti i volontari e hanno potuto verificarla più e più volte. Il tutto senza errori. _________________________________________________________________ Sapere Apr. ’16 LE ISOLE DI PLASTICA: ALLA SCOPERTA DEL SETTIMO CONTINENTE L'allarme suscitato dallo presenza in tutti gli oceani di vaste chiazze di rifiuti le cosiddette isole di plastica, merita tutta la nostra attenzione. Vanno però confutate e bufale e le informazioni errate spesso riportate dai media L'oceano è diventato la fogna dell'intero pianeta». Così, nel 1978, l'oceanografo Jacques-Yves Cousteau descriveva senza tanti giri di parole la situazione degli oceani. Il suo appello, però, è rimasto a lungo inascoltato. Gli oceani sono diventati di fatto la maggiore discarica del pianeta, una sorta di gigantesco tappeto sotto cui nascondere decine di migliaia di tonnellate di rifiuti ogni anno. Peccato che ora la spazzatura abbia cominciato a tornare indietro. LE ISOLE CHE NON CI SONO Va subito chiarito che le definizioni isole di plastica, Grande Chiazza di Pattume (Garbage Pack) e Vortice di Spazzatura (Trash Vortex) portano un po' fuori strada, perché fanno pensare a qualcosa di solido e dai confini definiti, mentre abbiamo a che fare con una specie di brodaglia, più o meno densa, in cui si possono trovare di tanto in tanto zone più concentrate di detriti di dimensioni consistenti. Le foto inquietanti di barchette immerse in un mare di rifiuti non ritraggono quasi mai le vere isole di plastica, bensì discariche a filo di costa o tratti di mare antistanti a spiagge devastate da uno tsunami, Una delle foto più gettonate è addirittura la realizzazione grafica (Trashberg) di tre architetti olandesi ed esposta nel 2008 alla Biennale dí Venezia. Persino una famosa immagine della NASA, spacciata come foto satellitare delle isole, non mostra altro che una fioritura di fitoplancton, che i satelliti sanno riconoscere molto bene, mentre non riescono a vedere la plastica. Uno degli obiettivi della recente Expédition du Septieme Continent nel Mar dei Sargassi, in collaborazione con l'Agenzia Spaziale Europea (ESA), è stato proprio la ricerca di un sistema per "insegnare" ai satelliti a riconoscere la plastica che fluttua nei mari. Di fatto non si conosce con precisione la dimensione di queste isole, né sarà un'impresa facile calcolarla, perché si tratta di masse in continuo movimento e non c'è neppure uno standard specifico per stabilire il confine fra livelli normali ed elevati di inquinanti nelle acque pelagiche. Si stima che la loro superficie totale sia pari a quella delle terre emerse, cioè un terzo di quella del globo terrestre. Anche se offende la vista, quello che si vede è tuttavia solo la punta dell'iceberg, perché i 30-40 metri della colonna d'acqua sottostante sono costellati da particelle di dimensioni più piccole, per lo più microplastiche, dal diametro inferiore a 5 mm. Le nota soprattutto chi si immerge e guarda la colonna d'acqua controluce: l'effetto è simile a quello prodotto da una lama di luce che attraversa una stanza piena di polvere. Come si sono formate queste isole di plastica? Dove si trovano? Gli oceani sono in costante movimento. Le correnti marine sono prodotte soprattutto da differenze di temperatura, di salinità e dall'impulso dei venti, combinati con la cosiddetta "forza di Coriolis", dovuta alla rotazione della Terra attorno al suo asse. Le correnti superficiali e profonde mettono in moto enormi flussi d'acqua che attraversano come grandi fiumi tutto il pianeta e si comportano come un enorme nastro trasportatore (global conveyor belt) che porta alla formazione dei cosiddetti gyre (dal nome del piatto greco gyros), sistemi di correnti a movimento rotatorio. Per effetto delle correnti e dei gyre tutto ciò che finisce in mare, alla fine, andrà ad arenarsi sulle spiagge, finirà sui fondali marini o si concentrerà in alcune zone, dalla forma di ellissi schiacciate e di ampiezza variabile, situate in tutti gli oceani. Le più note e grandi sono cinque, due nell'oceano Pacifico (Nord e Sud), due nell'Atlantico (Nord e Sud) e una in quello Indiano, ma in realtà in tutto sono undici, perché ce ne sono altre sei molto più piccole situate in prossimità delle zone polari La flotta delle paperelle Gli incidenti marittimi apportano un contributo non voluto, ma significativo, allo studio delle correnti marine. Infatti, non è raro che gli improvvisi mutamenti delle correnti provochino la caduta di container dal ponte delle navi cargo. Ogni anno ne vengono persi ín questo modo almeno diecimila, anche se le compagnie di navigazione cercano di parlarne il meno possibile, perché questi incidenti minano la loro affidabilità come trasportatori. La maggior parte dei pesanti container finisce e resta in fondo al mare, a meno che i portelloni non si aprano nella caduta, liberando il carico che finirà per arenarsi sulle spiagge di mezzo mondo, oggetti ambiti dai beachcombers ("pettinatori di spiagge"), persone che per hobby setacciano gli arenili dopo ogni ondata di marea. Un'altra parte andrà ad alimentare le zone di convergenza dei rifiuti negli oceani. Alcuni di questi carichi sono diventati leggendari, come la famosa "flotta delle paperelle": si trattava di ben 28 800 animaletti galleggianti da vasca (Friendly Floatees), in realtà equamente distribuiti fra paperelle, castori, tartarughine e ranocchie. A partire dal 1992, sono andati a spasso per gli oceani e si sono arenati sulle spiagge di tutti i continenti per quindici anni. La mappatura delle correnti marine e delle zone di convergenza dei rifiuti è stata realizzata utilizzando il modello numerico OSCURS (Ocean Surface Currents Simulator), sviluppato in Alaska dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NORA) per tracciare le correnti superficiali dell'oceano Pacifico settentrionale. Con questo modello sono costantemente monitorati i movimenti del plancton, dei salmoni e dei mammiferi marini, ma anche i possibili percorsi dei detriti. OSCURS è stato perfezionato nel tempo anche grazie ai dati raccolti da un esercito di sconosciuti beachcombers che l'oceanografo Curtis Ebbesmeyer, lo scienziato che ha scoperto e mappato tutti gli undici gyre e coniato il termine Great Pacific Garbage Patch, ha messo in comunicazione fra loro e coordinato. Questa rete di volontari ha permesso negli anni una raccolta di dati e informazioni preziosissima per il lavoro degli oceanografi. Gli oggetti finiti fortunosamente in mare — flotta delle paperelle inclusa — si sono rivelati, infatti, decisamente più efficaci e resistenti delle costose e sofisticate boe disseminate dagli scienziati negli oceani per studiare le correnti. UNA DRAMMATICA SCOPERTA Come sono state scoperte le isole di plastica? Nel luglio del 1997 il velista Charles 1. Moore, più noto come il Capitano Moore, di ritorno dalla Transpac Sailing Race, seguendo una rotta alternativa si trovò improvvisamente in mezzo a un mare di rifiuti di plastica che si sviluppavano per chilometri e chilometri, un fatto inspiegabile poiché le coste più vicine si trovavano a migliaia di chilometri di distanza. Questa scoperta gli ha cambiato la vita, spingendolo a dedicarsi a tempo pieno allo studio di questo fenomeno con una serie di spedizioni organizzate dalla Algalita Marine Research Foun-aggira intorno alle 640000 tonnellate e rappresenta circa il 10% dei rifiuti presenti nei mari. E purtroppo si tratta di materiali durevoli (poliammidi) che si degradano molto lentamente in acqua e sono così economici che, quando si rompono, nessuno si preoccupa più di raccoglierli o ripararli. — INTRAPPOLAMENTO E INGESTIONE Oltre ai pericoli per la navigazione, le reti abbandonate costituiscono un grave pericolo per gli animali marini, che possono rimanervi intrappolati e morire o subire lesioni più o meno gravi nel tentativo di liberarsi. Nel mar Mediterraneo migliaia di metri quadrati di reti da pesca abbandonate sono disseminate in aree sempre più vaste dei fondali, provocando una crescente desertificazione degli ecosistemi marini. E questo non è l'unico pericolo per le specie marine, perché possono rimanere incastrate in qualsiasi tipo di oggetto, per esempio nei classici anelli delle confezioni da sei lattine. Oltre all'intrappolamento, la plastica può essere scambiata per cibo: una delle foto più riprodotte è quella della carcassa di un albatros che mostra l'incredibile contenuto del suo stomaco... e non si tratta di un caso isolato. L'ingestione di questi oggetti può provocare ostruzioni e perforazioni dell'apparato digerente, falso senso di sazietà, intossicazioni acute o croniche causate dagli additivi (plastificanti, antifiamma, cariche e rinforzanti, ecc.) presenti in alcuni tipi di plastiche o provocate da inquinanti nocivi e tossici assorbiti da polimeri come polietilene e polipropilene, che si comportano come spugne e concentratori di quanto si trova nelle acque circostanti. Il problema è che, una volta ingeriti e assorbiti, questi inquinanti potrebbero entrare nella catena alimentare perché, come è solito dire Marcus Eriksen, direttore della ricerca della Algalita Marine Research Foundation, «ciò che cade nell'oceano, prima o poi, finisce nel nostro piatto!». — Il problema delle microplastiche Le microplastiche, a lungo trascurate, non sono trattenute dagli impianti di depurazione e finiscono direttamente nei corsi d'acqua e, poi, nel mare o nei laghi. Le microplastiche possono arrivare in acqua già in quella forma: è il caso delle pel-let provenienti dall'industria dei polimeri, delle microsfere che entrano sempre più di frequente nella composizione di cosmetici (ad esempio esfolianti per la pelle), prodotti per la casa e per l'edilizia. Una quantità impressionante di microfibre proviene direttamente dal lavaggio in lavatrice dei capi di abbigliamento in fibra sintetica. Altre si formano per degradazione termica e fotochimica, sulle spiagge e in mare, di frammenti di dimensioni maggiori. Un fatto meno noto, ma non meno preoccupante per la vita del nostro pianeta, è che le microplastiche in sospensione filtrano la luce solare riducendo l'efficienza della fotosintesi realizzata dal fitoplancton e dalle alghe verdi. Non tutti sanno che metà dell'ossigeno prodotto sulla Terra per fotosintesi viene dagli oceani - il secondo polmone del pianeta - e contribuisce in modo significativo alla riduzione dei gas serra. Se si riduce la fotosintesi, aumenta la concentrazione di anidride carbonica nelle acque, che diventano più acide - e sta già succedendo con conseguente alterazione del delicato ecosistema marino ed erosione delle barriere coralline e delle conchiglie dei molluschi, il cui componente principale è il carbonato di calcio. Il lato oscuro della plastisfera Gli scienziati hanno coniato un nuovo termine, la plastisfera, per descrivere un ecosistema in cui si ha una commistione intima fra rifiuti di plastica e specie marine, ben rappresentata dalla celebre foto di un paguro bernardo che, al posto della canonica conchiglia, utilizza come casetta un tappo di dentifricio. La natura idrofoba della superficie della plastica favorisce la formazione rapida di biofilm, che promuove l'adesione di un grande numero di micro e macro-organismi marini. Fino a oggi sono già state individuate nei detriti di plastica oltre mille specie di alghe e batteri, compresi anche alcuni tipi di vibrione. I frammenti di plastica possono traghettare, in modo efficace e per lunghissime distanze, microbi e specie invasive in altri ecosistemi privi dei loro predatori naturali... possiamo immaginare con quali conseguenze. È stato anche scoperto che alcuni microrganismi mangiano la plastica e manifestano preferenze specifiche. Questa affinità dei batteri verso le plastiche ora viene studiata per il recupero di rifiuti plastici abbandonati in fondo al mare oppure destinati alle discariche. Ad esempio, in Italia, nel 2013 è stato avviato Bioclean, un progetto europeo di recupero della plastica, coordinato da gruppi di ricerca dell'Università di Bologna. La situazione è seria e non potrà essere risolta in tempi brevi. Quello che può fare fin da subito ciascuno di noi, senza eccezioni, è cercare di non peggiorarla adottando stili di vita più sobri, scelte di acquisto e consumo più sostenibili. Sono piccoli gesti che, sommati per milioni di persone, possono fare la differenza. Come consumatori, cittadini ed elettori abbiamo un potere enorme, largamente sottostimato. Riferimenti bibliografici 111 A.L. ANDRADY, Plastics and environmental sustainability, John Wiley & Sons, Hoboken 2015. [21 C. EI3BESMEYER, E. SCIGLIANO, Flotsametrics and the Floating World, Harper-Collins Publishers, London 2009. 131 N. CARNIMEO, Come è profondo il mare, Chiarelettere, Milano 2014. 141 A. GENTILE, La scienza sotto l'ombrellone, Codice, Torino 2014. 151 D. H0FIN, Moby-Duck, Viking, New York 2011. 161 G.J. MOORE, C. PHILLIPS, L'oceano di plastica, Feltrinelli, Milano 2013. 171 B. Ross, S. AMTER, The Polluters, Oxford University Press, Oxford 2010 _________________________________________________________________ Corriere della Sera 04 Mag. ’16 IL CERVELLO? CONTA CON LE DITA di Orsola Riva Smettila di contare con le dita, non sei più un bambino piccolo! Quante volte ci siamo sentiti dire così a scuola. Come se usare le dita fosse una cosa infantile, di cui vergognarsi. Un pregiudizio antico quanto quello sui mancini, che un tempo venivano costretti a usare la destra come se ci fosse qualcosa di sbagliato nella sinistra. Più persistente, però, perché ancora oggi ci sono maestre che vietano ai bambini di usare le dita costringendoli a sotterfugi umilianti come nascondere le mani sotto il banco. Un clamoroso errore pedagogico perché così si moltiplicano ansia e senso di inadeguatezza. Ma anche un «falso ideologico» visto che, come le moderne neuroscienze dimostrano, il nostro cervello anche quando diventiamo adulti continua a contare con le dita. In che senso? Nel senso che quando eseguiamo dei calcoli nella nostra testa si attiva proprio quell’area che corrisponde alla rappresentazione della mano. Quindi anche se non utilizziamo più fisicamente le dita, il cervello in un certo senso insiste a farlo. Non solo: come dimostrato da un recente studio pubblicato da due ricercatori della Northwestern University, migliore è la rappresentazione che abbiamo delle dita della mano, migliori saranno anche i risultati in matematica. Spiega Ilaria Berteletti, dottorato in Scienze cognitive a Padova, anche se poi «per continuare a far ricerca sono partita per gli Stati Uniti»: «Utilizzando la risonanza magnetica abbiamo registrato l’attivazione cerebrale di bambini fra gli 8 e i 13 anni mentre eseguivano sottrazioni e moltiplicazioni semplici. Al termine dell’esperimento abbiamo trovato una relazione tra i risultati dei bambini nelle sottrazioni — ma non nelle moltiplicazioni — e la quantità di attivazioni nella corteccia somatosensoriale, che è quell’area che appunto permette di identificare la provenienza di una sensazione tattile». In altre parole: i bambini che avevano una migliore percezione delle dita dal punto di vista funzionale erano anche i più bravi a fare 9-7 o 8-3. Senza naturalmente che muovessero un solo muscolo della mano. Mentre la stessa area somestesica resta fuori gioco quando devono calcolare 3x2 o 8x7, per il semplice fatto che le moltiplicazioni vengono imparate a memoria o in altri modi e non usando solo le mani come nel caso di addizioni e sottrazioni. Il nostro cervello, insomma, interiorizza le strategie usate nell’apprendimento e si fa plasmare da esse. Perciò di fronte a una sottrazione continuiamo a «vedere» le nostre dita, mentre di fronte a una moltiplicazione no. Se le dita sono importanti per imparare a contare, più un bambino è bravo a distinguerle meno avrà difficoltà a fare i suoi calcoli: non a caso i pianisti spesso sono molto portati per la matematica. Il padre di questa teoria è Brian Butterworth, professore di neuro-psicologia cognitiva a Londra. È stato lui il primo a ipotizzare che senza una buona rappresentazione delle proprie dita «i numeri non possono avere una rappresentazione normale nel cervello» (1999). Il suo assunto è stato confermato alcuni anni dopo dagli studi di Marie-Pascale Noël, che ha dimostrato come l’«agnosia digitale», intesa come una cattiva rappresentazione delle proprie dita, sia un buon predittore della discalculia. «Ci vorranno ancora diversi studi per confermarlo — dice Berteletti — ma in età prescolare potrebbe essere un buon esercizio propedeutico alla matematica quello di giocare a riconoscere le dita». L’università di Stanford ha già messo a punto una serie di esercizi pratici il cui scopo è proprio quello di migliorare la percezione delle singole dita nei bambini. Anche in Italia c’è un’avanguardia di studiosi che fa capo all’università di Modena e Reggio Emilia e a Maria Giuseppina Bartolini Bussi, docente di didattica della matematica. «Insieme alla collega Anna Baccaglini-Frank e ad alcuni psicologi clinici, siamo partite da un dato impressionante: in Italia il 20 per cento dei bambini ha significative difficoltà nell’apprendimento della matematica. Molti di loro, purtroppo etichettati come discalculici, sono però dei falsi positivi i cui problemi non dipendono da veri e propri disturbi cognitivi ma semmai da cattive pratiche didattiche». La sperimentazione del gruppo di ricerca italiano su un campione ampio di bambini di prima e seconda elementare fra Emilia Romagna e Piemonte ha permesso di dimostrare che il ricorso a buone pratiche didattiche, dall’abaco al righello con un’attenzione particolare al potenziamento dell’uso delle dita, diminuisce sensibilmente l’incidenza di bambini a rischio. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 08 Mag. ’16 IL GPS MANDA FUORI STRADA IL CERVELLO Dal nipote di Lady Diana che, preso un taxi a Londra per andare a Stamford Bridge, lo stadio del Chelsea, si ritrovò (complice una lettura profonda o una dormita) nella cittadina di Stamford Bridge, 150 miglia dalla capitale; al camionista siriano con un carico da consegnare a Gibilterra (Gibraltar) che, errore di appena 2.500 chilometri, finì a Gibraltar Point, amena località britannica affacciata sul Mare del Nord — la casistica degli errori commessi affidandosi ciecamente al Gps è infinita. E, in qualche caso, tragica: automobilisti in viaggio di notte su strade secondarie, precipitati in un dirupo o affogati in un bacino artificiale non segnalato da un navigatore dotato soltanto di vecchie mappe. In California, nel parco nazionale della Valle della Morte, i ranger hanno addirittura coniato l’espressione death by Gps per indicare gli escursionisti morti nel deserto dopo essersi persi per aver male interpretato le indicazioni del navigatore o aver esaurito le batterie. La tecnologia del Gps ha cambiato il mondo: non solo guida le nostre auto ma governa il traffico marittimo e quello degli aerei, consente di recuperare i veicoli rubati, guida i trattori nei campi e i bulldozer che scavano nei cantieri, serve ai militari per spostare le truppe sul campo di battaglia e alle organizzazioni sanitarie per combattere le epidemie in Africa. Davanti a progressi così rilevanti, sottolineare gli incidenti, che inevitabilmente si verificano quando viene introdotta una nuova tecnologia, rischia di essere il solito esercizio nostalgico. Sempre più spesso, però, sono gli stessi scienziati a sottolineare come, con la diffusione delle tecnologie digitali, l’uomo non stia solo rivoluzionando i meccanismi dell’apprendimento, ma perda anche capacità che consideravamo innate: da quella di memorizzare i numeri a quella di fare calcoli mentali, dalla scrittura a mano fino alla perdita del senso dell’orientamento legata alla scelta di affidarsi ciecamente al Gps. In qualche misura ciò è inevitabile e l’uomo, prima o poi, riesce a trovare un nuovo equilibrio. Gli allarmi per gli effetti delle tecnologie si susseguono (e, in genere, lasciano il tempo che trovano) da anni. Anzi da millenni, visto che già Socrate lamentava che con l’introduzione della scrittura il genere umano avrebbe visto compromessa la sua capacità di svolgere una conversazione approfondita basata su conoscenze tutte archiviate nella memoria di ognuno. Sicuramente con la crescente diffusione della scrittura e poi dei libri, la necessità per i saggi di memorizzare un enorme volume di nozioni s’è ridotta, cosa che ha condizionato ma non compromesso l’evoluzione delle culture. Il motore di ricerca di Google per molti è solo un altro passo in questa direzione, ma ci sono scienziati che lo vedono come un capolinea. Insieme al calcolatore, all’agenda digitale con nomi, indirizzi e numeri telefonici e al Gps, il search può portare a una sostanziale perdita della memoria di lungo termine: tutti gli studi più recenti dimostrano che gli studenti memorizzano molto meno quando sanno che quelle nozioni sono facilmente accessibili via pc o tablet o smartphone. Del resto quanti di noi ricordano ancora i 50 o 100 numeri telefonici che avevano imparato a memoria vent’anni fa? Problema non necessariamente grave, visto che la memoria, dicono gli stessi studi, è cosa diversa dall’intelligenza. La memoria di lungo termine è, però, indispensabile per la crescita del pensiero critico, essenziale per lo sviluppo umano e delle civiltà. Insomma, dando per scontato che il progresso tecnologico sia inarrestabile, si tratta di capire quali sono i danni che accompagnano i vantaggi per cercare il modo di eliminarli o per imparare a conviverci. Sapendo che in casi estremi può anche essere necessario uno stop. È successo con la proliferazione nucleare, con le armi chimiche e batteriologiche; potrebbe ripetersi in altri campi come l’uso della genetica per predeterminare le caratteristiche dei figli, le nanotecnologie che possono diventare micidiali in mano ai terroristi o la miniaturizzazione dei droni: ce ne sono già prototipi piccoli come insetti, che presto potranno infilarsi ovunque con sensori e microtelecamere. Ma, al di là delle mini-macchine da guerra, e dei problemi di privacy e sicurezza che nascono dall’uso delle nuove tecnologie (quasi tutto ciò che mettiamo in rete è indelebile, lo smartphone ci rende individuabili e intercettabili ovunque e spegnerlo può non bastare), a meritare attenzione sono soprattutto le conseguenze della perdita di capacità umane che deriva dalla diffusione di tecnologie digitali sostitutive . I casi si moltiplicano e costringono le autorità a correre affannosamente ai ripari: come le compagnie aeree che stanno cambiando i programmi d’addestramento dopo gli incidenti causati da errori di piloti che, disabituati all’uso dei comandi manuali, sbagliano un atterraggio dopo che l’autopilota è andato in avaria. Il Global positioning system , un sistema americano di origine militare come internet, ma ormai a disposizione di chiunque in tutto il mondo, è forse quello che sta cambiando più in profondità capacità e abitudini dell’uomo. Anche perché il Gps made in Usa sarà presto affiancato dal sistema europeo Galileo e dal cinese BeiDou. Pioniere di questo sistema, che consente di individuare la posizione esatta di un trasmettitore Gps grazie alla triangolazione tra quattro satelliti che gli inviano un segnale, è un settantenne californiano, cresciuto nel Minnesota, che studiò scienze ambientali e architettura del paesaggio. Figlio di un giardiniere e di una domestica immigrati dall’Olanda, Jack Dangermond dopo l’università approdò in un laboratorio di Harvard nel quale si cercavano di combinare grafica del computer e analisi degli spazi. Dangermond capì che si poteva arrivare a creare mappe digitali e ne intuì le enormi potenzialità. Costituì la sua società pionieristica, la Esri, già nel 1969, ma per anni visse solo di consulenze: un tentativo fallito dopo l’altro, il primo software sul mercato arrivò solo nel 1982. Un successo mondiale: il sistema ArcGIS è ancora oggi il cuore tecnologico della Esri. «Senza Dangermond non avremmo mai avuto Google Earth, Google Maps e Google Street View», ha detto a «Forbes» John Hanke, l’uomo che ha diretto per sei anni il progetto mappe digitali dell’azienda di Larry Page e Sergey Brin. Google, a dire la verità, ha anche cercato di mangiarsi il business della Esri, che, lasciando al gigante di Mountain View il mercato delle mappe digitali per il grande pubblico (quelle che consentono a chi usa Uber di seguire il percorso dell’auto che sta portando suo figlio a scuola), si è specializzata nei servizi professionali più sofisticati: per militari, polizia, servizi di emergenza e anche per le organizzazioni sanitarie. La capacità della Esri di inserire in una mappa digitale l’indicazione dei soldati sul terreno o i nuclei di protesta e le strade bloccate in caso di una manifestazione o, ancora, la diffusione di un virus sul territorio in caso di epidemie, non è stata raggiunta da nessuno. E, infatti, alla fine la stessa Google ha deciso di indirizzare, per certi servizi, i suoi clienti verso l’azienda di Dangermond. Entusiasta e giustamente orgoglioso della sua tecnologia usata perfino da Walgreens, gigante Usa delle farmacie, per decidere dove aprire nuovi negozi e dai ricercatori di Stanford per prevedere l’impatto del riscaldamento globale sulle farfalle del Madagascar, l’imprenditore californiano nelle sue convention parla addirittura di una nuova era di illuminismo geografico. Il prezzo è la perdita del senso dell’orientamento sul territorio: una dote basata sulla capacità di calcolare mentalmente le distanze (che è soprattutto maschile, dicono gli studi) e su quella di ricordare una serie di punti di riferimento lungo il percorso (pompa di benzina a sinistra, supermercato a destra), che è soprattutto femminile. Tutto spazzato via da anni di occhi fissi sullo schermo del Gps, con conseguente atrofia dell’ippocampo, la parte del cervello nella quale risiede la capacità di orientare il movimento. Anche questo dimostrato scientificamente: molto grande nei tassisti di Londra capaci di tenere a mente fino a 25 mila strade, secondo i ricercatori canadesi della McGill University, l’ippocampo si riduce fino ad atrofizzarsi in chi fa un uso eccessivo del Gps. ========================================================= _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 08 Mag. ’16 AOUCA: NEI SOTTERRANEI DELLA MEMORIA L'anno scorso, con la sua chiesa, l'antica farmacia e soprattutto il suo tunnel sotterraneo che durante i terribili bombardamenti del 1943 fu utilizzato come rifugio antiaereo, fu visitato da 15mila persone: quest'anno cercherà di replicare il successo. Il San Giovanni di Dio, l'ospedale civile di Cagliari progettato da Gaetano Cima, sarà visitabile sabato e domenica prossimi per la ventesima edizione di Monumenti aperti. A fare da guide saranno gli studenti di due scuole medie, la “Rosas” di Quartu e quella di via Piceno a Cagliari: toccherà a loro raccontare la storia di un edificio destinato, dopo 172 anni di onorato servizio, a trasformarsi in un monumento della salute, con interventi ambulatoriali e in day hospital ma senza più degenze. Per l'occasione, sarà proiettato un documentario, frutto di una collaborazione fra l'azienda ospedaliero-universitaria e il corso di laurea in Scienze della comunicazione dell'Università di Cagliari. Si intitola “Quello che c'era”, dura una decina di minuti e raccoglie le testimonianze di due sopravvissuti ai bombardamenti del 1943, Mario Seguro (88 anni) e Mariano Frongia (78), intervistati e filmati nello stesso sotterraneo dove 73 anni fa, a 15 e 5 anni, trovarono un rifugio dal terrore e dalla distruzione: traumi che hanno lasciato in loro un segno profondo. Ieri mattina il documentario, efficace ed emozionante, è stato presentato alla stampa nel corso di una conferenza convocata nell'aula Motzo, a Sa Duchessa. A realizzare il documentario, un gruppo di studenti del gruppo C-nema coordinato dal regista Marco Antonio Pani. Alla conferenza erano presenti la rettrice Maria Del Zompo, la preside della Facoltà Rossana Martorelli, la manager didattica Valentina Favrin, il docente di Discipline cinematografiche Antioco Floris, il commissario straordinario dell'azienda mista Giorgio Sorrentino e il presidente dell'associazione Imago mundi, che organizza Monumenti aperti, Fabrizio Frongia, molto emozionato dopo la visione del documentario: Mariano, uno dei due protagonisti, è suo padre. La rettrice ha lodato i ragazzi che hanno partecipato all'opera, sottolineando l'importanza della conservazione della memoria: «Non esiste una guerra giusta», ha aggiunto Del Zompo, ed è importante la «comprensione per tutti quelli che scappano dalla guerra», i migranti di oggi come i cagliaritani sfollati durante i tragici mesi del 1943. «Stiamo pensando a dei progetti per inserire all'università i migranti che abbiano una preparazione di base sufficiente», ha annunciato. In occasione di Monumenti aperti, al San Giovanni di Dio si terranno tre concerti: sabato alle 17 nella hall canterà il coro polifonico di Sinnai S'Addura, domenica alle 10 si esibirà il gruppo Cuncordia a launedda e alle 11,30, nella cappella, l'orchestra della scuola media “Rosas” di Quartu. Sarà inoltre allestita una mostra di acquerelli di Elisabetta Mura dedicati le piante officinali. Marco Noce _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 07 Mag. ’16 ASL, LA POLITICA NON DEVE INFLUENZARE LE NOMINE Consiglio di Stato. Il parere sul decreto delegato in materia di riorganizzazione della Pa Le nomine dei manager delle aziende sanitarie locali devono avvenire secondo «criteri di meritocrazia, pur nella riaffermata natura fiduciaria della nomina, ma mai ispirata a ragioni di convenienza politica». Così il Consiglio di Stato nel parere messo a punto dalla Commissione speciale, che ieri si è espressa sullo schema di decreto delegato in materia di riorganizzazione della Pubblica amministrazione. Un provvedimento che ha i tratti della rivoluzione, perché mette nero su bianco che nomine e politica devono viaggiare separati quando si parla di aziende sanitarie e ospedali. Il decreto fa parte del “pacchetto Madia” approvato a gennaio, e impone regole di trasparenza stringenti sui nomi dei manager con il risultato sperato di una riduzione del potere delle Regioni e, forse soprattutto, dei partiti nell’assegnazione delle poltrone. Il testo aveva fatto discutere soprattutto perché prevede la formazione di un albo degli aspiranti Dg, ma anche la possibilità di revoca dei direttori generali, ispirata al principio del giusto procedimento, per evitare ogni forma, anche surrettizia, di spoils system. Tutte misure elogiate dai giudici di Palazzo Spada, che però non hanno lesinato elementi di critica al testo. Il decreto soffrirebbe di una mancata condivisione dei princìpi con le associazioni degli utenti, ma anche di confronto con gli operatori. Altra nota dolente il «problematico rapporto tra l’elenco nazionale dei direttori generali, con assegnazione di un punteggio tra 75 e 100, e la valutazione da parte delle singole Commissioni regionali e la delicatezza della scelta del direttore generale, che pure resta di natura fiduciaria, affidata all’ampia discrezionalità dell’organo politico regionale». E questo contrasta con l’obiettivo di fondo di slegare le scelte dall’ingerenza della politica. Non va bene nemmeno l’obbligatoria frequenza dei corsi regionali quale requisito di ammissione all’albo dei Dg, perché limita l’ingresso del management privato alla dirigenza pubblica sanitaria, che pure la riforma ha inteso favorire. Critiche poi sulla genericità di criteri quali le «manifeste violazioni di legge o di regolamenti» per valutare l’operato dei Dg e per disporne la revoca e l’assenza di una disciplina relativa alla revoca delle altre figure dirigenziali, analoga a quella del direttore generale. E vi sono limiti anche nell’insufficiente valorizzazione dei livelli essenziali di assistenza che invece dovrebbero orientare scelte più avanzate di salute pubblica. Il Consiglio di Stato chiede una rapida e completa attuazione della riforma e raccomanda la creazione di uno strumento di monitoraggio, una “cabina di regia” (Stato, Regioni, soggetti pubblici indipendenti) per portare avanti quella rivoluzione del merito di cui la sanità pubblica ha urgente bisogno. © RIPRODUZIONE RISERVATA Lucilla Vazza _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 05 Mag. ’16 ASL UNICA: Arru: ci saranno resistenze politiche ma è una riforma fondamentale «L'Asl unica è strategica, stavolta ci giochiamo tutto» «Sull'Asl unica ci giochiamo tutto. Per la Giunta è una riforma strategica». Si era capito, ma l'assessore alla Sanità Luigi Arru rafforza la sensazione: il disegno di legge appena varato deve caratterizzare la legislatura. Almeno secondo il governatore Francesco Pigliaru, che l'ha voluto a tutti i costi ed è pronto a difenderlo dagli assalti non tanto dell'opposizione, quanto della sua stessa maggioranza. «Ci teniamo - prosegue Arru - non per calcoli ragionieristici, ma perché è il modo di riformare la sanità migliorando i servizi». Che livello di resistenza si aspetta di trovare, nel mondo politico? «Sincero? Piuttosto alto. Stiamo smontando un sistema consolidato. E capisco che ogni transizione possa disorientare. Capisco meno chi prefigura catastrofi». Quanto si può modificare la vostra proposta? «Come ha detto il presidente Pigliaru, siamo pronti ad ascoltare suggerimenti per migliorare la legge. Ma il messaggio complessivo della riforma non può essere trasformato nel suo opposto». Cosa cambierà per i cittadini? «Anzitutto non dovranno subire disagi dall'accentramento amministrativo. Anzi, avranno dei benefici. I nostri grandi obiettivi sono due: rendere omogenei i processi di presa in carico dei pazienti, ed evitare le duplicazioni e le frammentazioni dei processi stessi». Non è il risparmio, l'obiettivo? «No, no. Le economie di scala libereranno delle risorse, ma le useremo per aggiornare i macchinari e migliorare i servizi». Quanto si potrebbe risparmiare? «Dipende da molte variabili. A regime, dal 5 al 15% sui costi di produzione complessivi. Però, ripeto: noi dobbiamo puntare a migliorare la qualità». Come si fa a risparmiare e garantire più qualità? «Prendiamo le liste d'attesa: dobbiamo assolutamente ridurle. Finora non c'è un'agenda unica: creeremo una rete che consentirà di dare risposte più tempestive». Cioè dovremo rassegnarci alla mobilità all'interno della regione? «No. Ma bisogna avere anche il coraggio di specializzarci per alcune patologie. Per quelle più gravi e complesse è ragionevole che un paziente vada a Cagliari o Sassari: tutti gli studi confermano che c'è un rapporto tra il volume dei casi trattati e gli esiti positivi. Invece in Sardegna abbiamo diluito molto le casistiche, vogliamo fare tutto dappertutto. Ma secondo lei, se c'è un bravo chirurgo in un piccolo ospedale, non è meglio che vada a lavorare dove può seguire i casi più gravi e numerosi?» Quindi i piccoli ospedali sono condannati a morte certa. «Sbagliato: la riforma della rete ospedaliera non chiude neppure un ospedale. Pensiamo a un modello organizzativo basato su funzioni differenti: alcuni presìdi minori potrebbero specializzarsi su specifiche patologie. Ma non chiudiamo nessun ospedale». Sono comunque cambiamenti notevoli. «Me ne rendo conto. Certo servirà del rodaggio. Forse in Sardegna la sanità ha svolto in passato anche una funzione di tampone contro la disoccupazione. Ma il momento storico è differente». Significa che sono in discussione i posti di lavoro? «Assolutamente no. Intanto però stiamo facendo un grande censimento di tutte le professionalità del settore, reparto per reparto». Quanti sono i dipendenti della sanità regionale, oggi? «Più di 23mila». In questo censimento, quanti primariati inutili avete trovato? «Quello l'avevamo già calcolato, 64 vanno eliminati. Già 29 si risolveranno coi prepensionamenti». Parlare di Asl unica non è fuorviante, visto che resteranno altri quattro grandi poli, tra cui le due aziende miste e il Brotzu? «L'Asur prende il posto delle Aziende territoriali. Il fatto che ci siano altri centri è comunque utile a evitare quell'eccesso di poteri che qualcuno adesso teme». E poi c'è l'Areus, l'Azienda dell'emergenza-urgenza, già votata dal Consiglio e un po' subita dalla Giunta. «Perché subita? Io sono convintissimo che serva. Secondo me alcune riserve sulla riforma sanitaria nascono dal fatto che non si è colto il ruolo dell'Areus. Sarà una diversa filosofia dell'emergenza». Faccia un esempio. «Oggi, se le viene un ictus lungo la strada Alghero-Bosa, il 118 magari la porta a Bosa perché c'è il pronto soccorso, dove però non possono trattarla e la mandano a Oristano. Da lì finisce a Cagliari». Nel nuovo sistema mi porteranno direttamente a una stroke-unit? «La porteranno nel posto più adatto per la sua patologia». È vero che per l'Asur siete orientati a scegliere un manager non sardo, per sfuggire alle pressioni politiche? «No, potrà essere sardo o continentale, nessuna decisione già presa. È vero che riapriamo il bando per l'albo dei direttori generali». E la sede dell'Azienda? «La deciderà il Consiglio». Potrebbe essere Sassari, per placare le lamentele locali sulla rete ospedaliera? «Per noi prevale la centralità del cittadino e delle sue esigenze. Se poi si vuole fare una scelta simbolica, che aiuti ad accettare la riforma e a correggere gli eccessi di centralismo, ci può stare». Giuseppe Meloni _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 Mag. ’16 ASL UNICA: UN'ASL GRANDE COME UN'ISOLA Pronta la legge che cancella le otto Aziende: «Servizi migliori a costi inferiori» La Giunta accelera la riforma E oplà, una sola azienda sanitaria anziché otto. Possibile? Secondo Francesco Pigliaru sì, e anche giusto: «Nella situazione che abbiamo ereditato è la scelta migliore», dice il governatore descrivendo ai giornalisti il disegno di legge appena varato dalla sua Giunta. Quello che, se il Consiglio regionale sarà d'accordo, cancellerà le otto «repubbliche indipendenti» della sanità (sempre parole di Pigliaru) e le ricondurrà sotto un unico scettro. Si chiamerà Asur, che sta per Azienda sanitaria unica regionale. COME FUNZIONERÀ Un solo bilancio anziché otto, una sola organizzazione dei servizi. Gestione accentrata del personale, degli appalti, degli acquisti, delle reti informatiche. Un solo manager, potentissimo, che dovrà gestire qualche miliardata di euro. Troppo? «Questa operazione nasce da precise analisi», ragiona ancora Pigliaru, che da tempo meditava questa riforma: «Serve una regia forte dei servizi ai cittadini, un indirizzo comune. La sanità sarda non poteva andare avanti così, con difetti di coordinamento e di controllo che rendono inadeguata la struttura, e con costi crescenti e tendenzialmente insostenibili». Non insiste troppo sui risparmi il presidente («ma alcune voci si ridurranno del 30%», calcola), per non dare l'idea di tagliare sulla salute: «Non dobbiamo smettere di spendere, ma ridurre gli sprechi e usare i soldi dove servono». Senza parlare apertamente di clientelismo, fa presente che «non si poteva andare avanti con undici diversi bilanci, undici diverse politiche del personale che si esponevano al forte rischio di scambi localistici, a scapito dell'efficienza». IL NUOVO SISTEMA Pigliaru parla di undici bilanci perché, oltre alle otto Asl, l'attuale organizzazione contempla le aziende miste (ospedaliero-universitarie) di Cagliari e Sassari, e l'azienda ospedaliera Brotzu. Nel nuovo assetto immaginato dalla Giunta, queste ultime non scompaiono. E prenderà vita l'Areus (Azienda regionale dell'emergenza e urgenza della Sardegna), che il Consiglio regionale aveva istituito con legge, salvo poi rinviarne l'avvio reale - dopo i veti pigliareschi - alla semplificazione delle Asl. Si passa quindi da undici a cinque grandi poli. Ma ovviamente il più forte sarà l'Asur. Enorme e forse poco maneggevole, si articolerà inizialmente in otto Aree socio-sanitarie locali, corrispondenti alle attuali Asl. «Ma non dite che resta tutto come prima», avverte l'assessore alla Sanità Luigi Arru: «Avranno autonomia limitata, senza bilancio né personalità giuridica». Inoltre i direttori delle Aree non saranno equiparabili agli attuali manager (o commissari): sia per i poteri che per i compensi, non superiori al 70 per cento di quelli del sommo manager dell'Asur. I loro mandati, variabili tra tre e cinque anni, non saranno mai più di due consecutivi nella stessa Area. L'organizzazione delle Aree sarà però molto importante, perché passa da lì uno dei risultati a cui l'assessore tiene di più: «Vogliamo uniformare i servizi ai cittadini, rendere omogenee le buone pratiche, fare in modo che la qualità delle risposte ricevute dalle persone non dipenda dal luogo di residenza». «Come dicono gli americani», lo interrompe Pigliaru, «il mio destino non deve dipendere dal mio codice di avviamento postale». IL FUTURO Arru pensa a un sistema a raggiera, hub and spoke , cioè il mozzo e i raggi, come in una ruota: fuor di metafora, i centri territoriali per l'assistenza più semplice, i grandi ospedali o i centri d'eccellenza per i casi più gravi. «Finora si voleva fare tutto dappertutto», riflette l'assessore: e invece le risposte più accurate arrivano dai centri che fanno i grandi numeri, che accumulano le esperienze collettive e il confronto tra specialisti. «Lo confermano tutti gli studi», chiosa Arru. Ovviamente le pari opportunità di cura per tutti i sardi presuppongono un ottimo sistema dell'emergenza, da completare con l'elisoccorso per cui - fa sapere Arru - è quasi pronto il capitolato d'appalto: a regime ci saranno due basi, al nord e al sud della Sardegna, da cui si potrà raggiungere entro venti minuti tutta l'Isola. L'ITER Fin qui le idee della Giunta: ora il disegno di legge deve raccogliere l'approvazione del Consiglio, e si sa che nella maggioranza di centrosinistra non mancano i perplessi. Però non c'è molto tempo per litigare: i commissari delle Asl scadono il 30 giugno, per quella data - almeno secondo le previsioni di legge - la nuova era dev'essere pronta a partire. Pigliaru e Arru sono sicuri di poter nominare già il primo luglio il supermanager dell'Azienda unica, scegliendo tra le migliori professionalità «in Sardegna e in Italia». Sulla sanità non è mai semplice trovare intese, anzi in genere è un tema che scatena la guerra dentro i vari schieramenti. Stavolta, quantomeno, il calendario dice che dovrà essere una guerra lampo. Giuseppe Meloni _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 04 Mag. ’16 ASL UNICA: PIGLIARU AVVERTE GLI ALLEATI «NIENTE MARCE INDIETRO» Il governatore: reazioni durissime se si stravolge il testo Dell'ipotesi di fare una sola Azienda sanitaria in Sardegna aveva iniziato a parlare una decina d'anni fa Renato Soru, ma era troppo impegnato a far passare un rigido Piano paesaggistico per andare anche alla guerra delle Asl. Nella legislatura a guida Cappellacci la questione era riemersa, ma in realtà ci credevano davvero solo i Riformatori sardi. Il resto del centrodestra non li ha seguiti su quella strada e anzi, alla fine ha rinunciato a riformare la sanità. Pigliaru è il primo governatore che intende legare il suo nome a una rivoluzione apparsa finora impossibile: troppo ramificati gli interessi nella sanità, per consentire semplificazioni draconiane. Ma di fronte alla difficoltà di tappare il secchio bucato della spesa sanitaria (non ci sono riusciti neanche i commissari nominati dal centrosinistra), il presidente si è convinto che l'Asl unica sia l'unica via. Molti nella sua coalizione ne sono assai meno convinti: qualcuno lo dice apertamente, altri brontolano. Ma sul punto si gioca quasi una questione di fiducia. «Non temo che il disegno di legge venga stravolto in Consiglio, sono sicuro che lo voterà una maggioranza ampia», ha detto ieri Pigliaru ai giornalisti. Aggiungendo però: «Siamo pronti ad accettare correzioni in meglio, ma se il testo venisse stravolto per seguire piccoli interessi localistici, privilegi, furbizie per tornare a su connotu , la reazione sarebbe durissima». Fino alle dimissioni? Il governatore si guarda bene dal dirlo, ma chissà. «Ci confronteremo anche con l'opposizione, a partire da chi da tempo sostiene l'Asl unica», ha aggiunto alludendo ai Riformatori, il cui capogruppo Attilio Dedoni ha infatti apprezzato la svolta: «Sembra che finalmente sia la volta buona per mettere un freno agli sprechi nella sanità sarda. Avanti tutta sull'Asl unica contro il partito della conservazione». Ma Dedoni non si fida del centrosinistra, e così il coordinatore del suo partito, Michele Cossa: «Bene che Pigliaru adotti il progetto dei Riformatori, ma nonostante i proclami di questa Giunta trombona la riforma resterà nel cassetto per le divisioni nella maggioranza». Forza Italia invece boccia il progetto: «Mortifica le eccellenze sanitarie isolane», protesta Edoardo Tocco, «un inutile centro di potere che diventa unico luogo di decisioni verticistiche». (g. m.) _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 04 Mag. ’16 ASL UNICA GANAU: «OSPEDALI, RIFORMA DA BOCCIARE» di Vincenzo Garofalo SASSARI Sbagliata, incomprensibile, ingiusta e ingiustificabile. Da bloccare. Il presidente del Consiglio regionale, Gianfranco Ganau, ex sindaco di Sassari e responsabile del 118 del nord Sardegna, cala la mannaia sulla riforma sanitaria sarda licenziata dalla Giunta regionale. Lo fa dal pulpito del convegno "Per una sanità universale e solidale", che si è tenuto a Sassari lunedì sera, e lo fa scavando un solco anti Pigliaru all'interno del Partito democratico, proprio mentre l'esecutivo regionale si avvicina alla boa di metà mandato. Ganau interviene all’incontro come ospite, dopo le relazioni dei sindaci di Sassari e Alghero, Nicola Sanna e Mario Bruno, del delegato del rettore dell'Università di Sassari, Alberto Porcu, del responsabile del Pronto soccorso e medicina d'urgenza dell'Aou sassarese, Mario Oppes, e del responsabile Cardiologia pediatrica dell'Aou, Mario Pala. Gli scenari. Tutti snocciolano dati e numeri che dipingono un futuro spaventoso per il sistema sanitario del nord Sardegna, incredibilmente ridimensionato dalla riforma firmata Pigliaru e Arru, e surclassato dalle strutture cagliaritane pronte a fagocitare servizi e finanziamenti. Un danno incalcolabile per gli utenti e per l'intero territorio, che Ganau non si sente di condividere, e anzi, si dice pronto a bloccare con tutti i mezzi possibili, nel lungo iter che porterà all'approvazione in Consiglio regionale. L’attacco di Ganau. Il presidente della massima assemblea sarda parla a braccio, ma le parole sono scelte con precisione chirurgica: «Io non concordo assolutamente con questa riforma», attacca squarciando l'area già tesa nella sala convegni della sede della Polizia municipale, dove, più che un dibattito sulla sanità sembra sia in corso una mega convention del Pd. «È una riforma sbagliata, che è partita con la rimodulazione della rete ospedaliera, anziché con la riorganizzazione dei servizi sul territorio. Questo è stato un errore fatale, che ha riversato sugli ospedali l'intera richiesta di servizi. È ovvio che gli ospedali non possano reggere questa pressione, che i pronto soccorso siano presi d'assalto e che si creino i disservizi», spiega Ganau. «Un sistema sanitario che funzioni, deve prima di tutto garantire il servizio di emergenza e primo soccorso su tutto il territorio. Questo in Sardegna manca. Servono case salute e servizi di poliambulatorio e specialistica», continua il presidente del consiglio, che poi boccia la rete ospedaliera disegnata dalla Giunta Pigliaru: «È giusto riorganizzare la rete ospedaliera, ma non va bene la disparità con cui è stato fatto. È ingiustificabile che l'hub di Cagliari abbia dieci specialità su dieci, e che l'hub di Sassari ne abbia solo tre. È impensabile che mezza Sardegna, da Nuoro in su, debba essere costretta a spostarsi a Cagliari per le cure oncologiche», ribadisce Ganau, prima di sferrare l'attacco finale: «Questa riforma non è nemmeno perfettibile. È sbagliata e in Consiglio cercheremo le strade per cambiarla. Inizieremo la discussione con la Asl unica, che può essere una soluzione di emergenza per il caos che nemmeno i commissari sono riusciti a domare, e così prenderemo tempo per fare in modo che in aula possa arrivare una riforma corretta, che affianchi la rete ospedaliera a una efficiente rete territoriale». Numeri a confronto. Il discorso di Ganau condensa tutte le critiche sulla riforma sanitaria elencate dai precedenti relatori, coordinati dall'assessora alle politiche sociali del Comune di Sassari, Monica Spanedda. Critiche che poggiano su una vastità di numeri e confronti. Uno su tutti: «Il Nord- ovest, pur rappresentando il 20,1 per cento della popolazione regionale vede assegnati il 18,9 per cento dei posti letto ospedalieri, mentre il Sud-Est della Sardegna che rappresenta il 33,9 per cento della popolazione otterrebbe il 42,5 % dei posti letto». _________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 08 Mag. ’16 ASL UNICA: FRANCO MELONI – FARLA PRESTO E BENE La giunta ha presentato una legge incisiva e moderna È l'unico sistema per risparmiare in 4-5 anni alcune centinaia di milioni La giunta regionale ha finalmente presentato il suo disegno di legge sull'Asl unica, scatenando le immediate proteste del trasversale partito della conservazione che, con abili e sofisticati ragionamenti, in sostanza dice sempre la stessa cosa: non si fa niente. È la solita musica, non si tocca l'autonomia dei Comuni, non si toccano le Province, non si toccano i soldi per gli enti locali, non quelli per l'Università, non si toccano le Asl e via dicendo, però tutti fanno discorsi sulla necessità di risparmiare (a spese degli altri, ovviamente) perché non si possono certo aumentare le tasse a rischio di finire di strangolare un'economia boccheggiante. Non parliamo di provvedimenti volti allo sviluppo, questa maggioranza non ne ha messo in campo alcuno, anzi, hanno pure cancellato le pochissime iniziative fatte nella scorsa legislatura che potevano lasciar sperare in un minimo di sviluppo, il Piano casa e la legge sul golf: sì, hanno cancellato la legge che cercava di stimolare il turismo fuori stagione, non l'hanno corretta in meglio ma, l'hanno proprio abrogata. Sulla sanità, a parte sostituire i manager, la giunta ha presentato una legge davvero incisiva e moderna ma le reazioni sono scoraggianti, a dir poco. Eppure la Asl unica, che poi altro non è che un'agenzia di servizi amministrativi e gestionali per le strutture operative, è l'unico sistema che abbiamo per risparmiare in 4-5 anni alcune centinaia di milioni di costi overhead senza danneggiare l'erogazione dell'assistenza ai cittadini. Purtroppo anche una persona intelligente come il presidente Ganau interviene sul tema ma perde di vista il problema fondamentale, anzi sembra avallarne la spiegazione sbagliata, inseguendo un modello che in Sardegna non può funzionare, il modello Hub and Spoke. Nella nostra isola una parte importante dei costi è legata alla dispersione della popolazione e alla necessità di portare i servizi in territori periferici e poco abitati, con spese facilmente intuibili che spiegano buona parte dei 400 milioni supposti «più del dovuto». Dobbiamo fare la Asl unica da un lato e farla presto e bene, ed all'altro dobbiamo sviluppare un modello autoctono che lasci in vita i piccoli ospedali e con loro tutti i servizi che è possibile lasciarvi in condizione di sicurezza per i cittadini, ma basando queste scelte su dati concreti e non su sensazioni od opinioni non dimostrate. Per esempio, sfido chiunque a trovare nel “Piano nazionale esiti” dati definitivi sulla vantaggiosità dei grandi centri di ostetricia e ginecologia rispetto ai piccoli. Secondo me non sarebbe necessaria in Sardegna, ma la maggioranza vuol fare l'Azienda dell'emergenza, allora facciano anche questa presto e bene e che si risolva una volta per tutte il problema dei trasporti sanitari in condizioni di sicurezza. Questo, insieme alla Asl unica e ad un equilibrato piano di razionalizzazione (non chiusura!) e di integrazione ospedale-territorio è quello che è necessario per cambiare la sanità nella nostra isola, salvando le finanze regionali e garantendo in tutto il territorio l'erogazione dei servizi indispensabili. Poi bisognerebbe andare a Roma, battere i pugni sul tavolo e dimostrare che l'attribuzione dei soldi corretta in base all'anzianità della popolazione è sbagliata e danneggia il Sud, non solo la Sardegna, ma questo da una giunta così poco coraggiosa non ce lo possiamo davvero aspettare. *Direttore del Centro studi Riformatori sardi _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 07 Mag. ’16 ASL UNICA, ESAME AL VIA Il disegno di legge della Giunta sulla Asl unica è da ieri ufficialmente in carico al Consiglio regionale. Ora il presidente Ganau lo assegnerà alla commissione competente, presumibilmente la settimana prossima, poi verrà il bello. Perché, a sentire la parte non Pd della maggioranza, la riforma non piace proprio. La cosa più importante, premette il presidente della commissione Sanità Raimondo Perra (Psi), «è che dobbiamo guardare alla richiesta di salute dei sardi partendo dai dati epidemiologici, e dare risposte sempre più efficienti in termini di qualità della prestazione, a prescindere dal numero di aziende sanitarie». Cos'ha che non va questa legge? «Forse - azzarda - accentra un po' troppo il potere nelle mani di un solo uomo, il direttore generale che dovrà essere nominato entro il primo luglio». Un dg potentissimo che, tra l'altro, avrà il compito di nominare i direttori delle otto aree senza bilancio che andranno a sostituire le vecchie Asl. Ecco, continua Perra, «una delle proposte di modifica potrebbe proprio riguardare la possibilità che siano invece nominati dalla Giunta». Detto ciò, «il provvedimento che andiamo ad analizzare in commissione è di portata epocale, tanto che abbiamo deciso di interrompere i lavori sulla rete ospedaliera per esaminarlo». Con l'accordo che, una volta approvato, «ritorneremo immediatamente ad occuparci di rete ospedaliera, senza la quale l'Asur non potrebbe produrre effetti». Perplessità su «quest'unico mastodonte che dovrebbe governare la sanità sarda» anche da parte di Emilio Usula (Rossomori). La soluzione è da cercare nella «massima trasparenza sull'operato del direttore generale: la verifica prevista dalla legge ogni anno e mezzo non basta, introduciamo un reporting trimestrale». La garanzia richiesta da Daniele Cocco (Sel) riguarda la perequazione dei territori, per cui «tutti i cittadini di tutti i comuni devono avere pari dignità e identiche possibilità di essere curati al meglio». Dubbi anche da parte sua sul fatto che «un solo manager gestisca miliardi di euro», e un giudizio positivo sugli effetti del ddl in relazione alla «riduzione dei primariati». In area opposizione, Paolo Truzzu (Fratelli d'Italia) è critico: «L'Asl unica non riduce i costi ma rischia di creare solo problemi». Nelle Marche, dove è stata applicata, «non sta avendo successo». E infine: «A noi interessa soprattutto che venga garantita una struttura unica per l'assunzione del personale e la gestione degli acquisti». Roberto Murgia _________________________________________________________________ L’Unione Sarda 01 Mag. ’16 SANITÀ, UN PROBLEMA SPINOSO LA GESTIONE DELL’EMERGENZA Francesco Marrosu, Ordinario di Neurologia Direttore del Dipartimento Emergenze ed Urgenze AOU Cagliari Poniamo che ciascuno di noi avesse accesso alla quotidianità di un reparto di medicina di un qualsiasi ospedale. Poniamo che dopo un’osservazione sufficiente sia in grado di farsi un’idea di quel che sta succedendo. Con un livello base di minimo spirito critico noterebbe: la decrepitezza del personale medico, la preoccupazione di obliterare qualsiasi possibilità di essere denunciati per “malpractice”, la conseguente esagerata richiesta di esami , la difficoltà a dimettere i pazienti anziani per la scarsa recettività del territorio e delle sue strutture, la scarsità del personale medico e paramedico (già definito come decrepito), il malfunzionamento di servizi di primo supporto (es: fisioterapia e riabilitazione). Se poi si passa dallo zoom al grandangolo si potrebbe facilmente vedere che tutto questo è vero e drammatico dappertutto, al punto che in molti ospedali italiani si sta cominciando a morire nel Pronto Soccorso. Di chi è la colpa? Nella fiera delle “diluizioni anomiche delle responsabilità” diceva lo psichiatra Balint non esiste un colpevole. Ci hanno detto che non ci sono soldi per rimpiazzare i medici che vanno in quiescenza, quelli che restano quindi coprono al massimo i turni di guardia ma, spesso, non ce la fanno a coprire adeguatamente il reparto. Tali visite, in mancanza di numeri decenti di personale medico e spesso paramedico, vengono talmente procrastinate nel tempo da risultare impossibile prenotare una visita/esame in tempi decenti. Ecco spiegato il mistero delle liste d’attesa. Prima di elaborare dei rimedi, che a questo punto sono ovvii, è necessario che esista una presa d’atto da parte di chi deve destinare limitate risorse e disciplinare le necessità di un territorio che al momento appare fragile. Il riordino della Rete Ospedaliera, annunciato come imminente dalla Regione, dovrà essere coraggioso e responsabile, dovrà essere totalmente asettico nel giudicare i carichi di lavoro ed eliminare o ricondizionare quelle realtà sanitarie prive di requisiti. Mentre qualcuno legge queste righe l’Ospedale ed il Pronto Soccorso vengono usati impropriamente per supplire ai deficit assistenziali del territorio. Ultimo passaggio: il medico ospedaliero ha delle vigenti leggi, che possono sanzionare qualsiasi atto medico, un terrore sacrosanto (e fa bene!) ed avendo ben presente ciò visita/ricovera anche chi ha la voce grossa e l’urgenza piccola e che si rifiuta di capire le ragioni del non-ricovero. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 01 Mag. ’16 L’EHEALTH CRESCE IN FRETTA MA NON CONVINCE TUTTI La “salute elettronica”, l’ e-Health , comincia a fare breccia tra gli italiani. Il 2016 segna infatti un boom nella diffusione e nell’utilizzo dei servizi sanitari online da parte dei cittadini del nostro Paese, in particolare nella fascia d’età tra i 35 e i 54 anni, età in cui si inizia ad avere la necessità di accedere ai servizi sanitari e è si è abituati all’utilizzo di internet. Anche le app sulla salute raccolgono un certo apprezzamento da parte dei nostri connazionali, che le tengono tuttavia ancora, per così dire, “sotto osservazione”. A rivelarlo è un’indagine condotta dall’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano, in collaborazione con Doxapharma, su un campione di mille persone statisticamente rappresentativo della popolazione italiana (si veda il grafico), che sarà presentata in un convegno il 4 maggio prossimo (si veda scheda a lato) . La ricerca rivela come,rispetto allo scorso anno l’uso dei servizi web sia in crescita. «È un riscontro molto positivo in termini soprattutto di diffusione — sottolinea Mariano Corso responsabile scientifico dell’Osservatorio, che ha curato l’indagine assieme a Chiara Sgarbossa responsabile della ricerca dell’Osservatorio —. Gli incrementi registrati rispetto al 2015 sono elevatissimi. Inoltre il nostro è un campione di popolazione sana (dunque in generale meno bisognosa di terapie e assistenza, ndr) e ciò significa che il mercato dei servizi della sanità si sta spostando moltissimo sul digitale ». I servizi web più utilizzati sono quelli che permettono l’accesso a informazioni sulle strutture sanitarie e la prenotazione online di esami e visite. Un terzo degli italiani ricorre a internet per cercare informazioni su problemi di salute, un quarto su farmaci e terapie. «C’è una maggiore maturità nell’andare a informarsi e anche ad auto- monitorarsi — dice Corso —. Si fanno confronti tra le strutture mediche, si utilizzano servizi online per pagare ticket o scaricare referti». Le app più diffuse sono quelle per il monitoraggio dei battiti cardiaci, dei passi, degli allenamenti, e delle calorie. Ancora scarso, invece, l’interesse per le app sul controllo del sonno. «La salute è uno degli argomenti in assoluto più cliccati sul web — aggiunge Corso — . E per quanto riguarda le app siamo sicuri che di qui a poco i medici le prescriveranno, in particolare quelle con una validità scientifica». E qualche passo avanti stanno facendo anche i tre “pilastri” dell’ eHealth pubblica: la ricetta e il fascicolo sanitario elettronici e la telemedicina. La prima è la più nota e anche quella di cui i cittadini hanno maggiormente usufruito. Sul fascicolo sanitario raddoppia la percentuale di italiani che ne hanno sentito parlare rispetto al 2015 (da 16% a 32%). L’utilizzo dichiarato però è relegato a uno scarso 5%. La telemedicina, invece, resta sul gradino più basso sia come notorietà, sia per l’utilizzo. «Bisogna tenere presente — puntualizza Corso — che il nostro è un campione di popolazione sana. Tra i pazienti cronici, invece , la percentuale di quanti conoscono e utilizzano i servizi di telemedicina è aumentata quasi al 40%». Secondo l’indagine del Politecnico, i canali più utilizzati per informarsi sono le enciclopedie online e i siti istituzionali, accanto a blog e forum, sempre più diffusi. Ma i cittadini sono molto meno propensi a fornire il proprio contributo personale online: solo il 4% partecipa a discussioni su blog e forum relativamente a propri problemi di salute e malattie e un altro 4% sull’utilizzo di farmaci e terapie. Inoltre, soprattutto gli over 55 non si mostrano particolarmente fiduciosi nell’utilizzo di internet per prendere decisioni sul proprio stato di salute, per le quali preferiscono comunque rivolgersi al proprio medico. Insomma, va bene informarsi ma decidere poi sulla propria pelle è diverso. «A noi sembra un dato positivo — conclude Corso — . Un po’ di sano scetticismo e di senso critico non guastano. Anzi, occorre educare maggiormente i cittadini in tale direzione. Anche perché finora le Aziende sanitarie, le Regioni e il Servizio sanitario nazionale hanno investito poco per certificare e qualificare l’informazione sanitaria online». Ruggiero Corcella _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 05 Mag. ’16 GLI INVESTIMENTI NON CRESCONO: «SANITÀ 2.0» AVANTI PIANO Non è più un miraggio, ma sicuramente non è ancora realtà. Non è un sogno, ma resta una grande incompiuta. Mentre la tecnologia avanza e le imprese guardano e producono occasioni per il futuro, per la qualità della salute, e perché no, per far risparmiare soldi pubblici, la «sanità 2.0» in Italia avanza piano, non quanto potrebbe e dovrebbe. Tanto meno avanza ai livelli dei nostri partner europei di riferimento. Il racconto dello stato dell’arte nel 2015 della sanità digitale, è stato scritto dal Politecnico di Milano col suo «Osservatorio innovazione digitale in Sanità», nel rapporto presentato ieri nell’ateneo lombardo. Un rapporto a tutto tondo, che ha investigato tutte le realtà del pianeta e-health italiano che per tanti versi resta ancora sconosciuto ma che tra tante debolezze comincia a far emergere punti di forza e di crescita. E di coscienza di quel che serve per costruire un sistema sempre più avanzato. Intanto il valore dell’investimento nel Ssn, che è in un certo senso la stella polare del possibile e del realizzabile per dare davvero carne e ossa alla sanità che guarda alle chance offerte dalla tecnologia. E le mette in pratica. Ebbene, l’anno scorso l’investimento totale è stato di 1,34 miliardi, l’1,2% dell’intera spesa sanitaria pubblica: un valore di "mantenimento" rispetto all’anno prima, anzi addirittura leggermente inferiore per 30 milioni. Come dire: la spesa non è andata indietro, ed è già qualcosa, ma sicuramente non è cresciuta. Un indizio non esattamente positivo, sebbene non può essere trascurato lo stress in sede locale, ma anche nazionale, per effetto dei tagli al Ssn anche nel 2015. Eppure tutti - tecnici, osservatori, amministratori, medici - indicano proprio nel livello di finanziamento una delle chiavi decisive per far girare davvero la mitica «sanità 2.0». Anche se non basteranno solo dosi più o meno massicce di maggiori risorse. Mancano ancora un feeling diffuso da parte di medici e operatori, un’alfabetizzazione vera e propria, lo spirito d’iniziativa, una partecipazione più consapevole da parte dei cittadini. Sebbene, come sempre, la popolazione più anziana sia quella che difficilmente e con fatica dialoga e naviga in rete per la sua salute. E poi manca, come sempre in sanità, un cammino omogeneo per tutte le regioni, la capacità di dialogare anche tecnologicamente, una percezione uguale e pari attività tra Nord e Sud d’Italia. Con il Sud che spesso anche per la digitalizzazione della sanità resta una specie di anatra zoppa. «La velocità d’attuazione è ancora modesta e disomogenea, inadeguata rispetto alla portata e all’urgenza delle sfide in gioco. Serve una governance partecipata e responsabile a tutti i livelli», chiosa Mariano Corso, responsabile dell’Osservatorio del Politecnico. I risultati sul campo sono d’altra parte difformi a seconda anche delle aree specifiche della digitalizzazione. Sulla cartella clinica elettronica si investe di più (64 milioni, +10% sul 2014) e potrebbe crescere ancora quest’anno del 43% secondo le stime degli operatori. Per la telemedicina, altra possibile chiave di volta, la spesa è di 20 milioni, in crescita del 24%, con tele-consulto e tele-salute che figurano tra le soluzioni più diffuse nelle aziende sanitarie. Peccato che ancora non basta, che serve molto di più, considerata la vasta gamma di applicazioni che potrebbe riservare a benefici dei pazienti, in primis i cronici, ma non solo. Come non basta, anzi resta ancora per troppi nel vago, il fascicolo sanitario elettronico, quello che con un click fa conoscere a chi è abilitato lo stato di salute, il passato e il presente, anche dei consumi sanitari, di tutti noi. Peccato che appena il 5% degli italiani lo ha utilizzato, anche se il 23% sa cosa sia e l’8% ha chiesto informazioni. Intanto appena sei regioni (Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Sardegna, Valle d’Aosta e Trento) lo hanno attivato e in altre 11 è in via di sviluppo. Mentre tutto è fermo in Campania, Sicilia, Calabria e a Bolzano. Eppure il dialogo digitale tra medici di base e pazienti sembra crescere. Con il boom di WhatsApp da parte dei medici di famiglia e un crescere di scambi di sms e mail. Chissà se le code calano di conseguenza e la chiarezza migliora. Ma certo ancora non basta. Senza scordare che da due anni si attende il provvedimento sul «Patto per la salute digitale» tra ministero e regioni. Ancora tutto tace, non è dato sapere perché. © RIPRODUZIONE RISERVATA Roberto Turno _________________________________________________________________ Il Sole24Ore 01 Mag. ’16 SANITÀ DIGITALE AVANTI PIANO ECCO I NODI DA SCIOGLIERE Solo il 6% degli italiani prenota online le visite E sono ancora meno coloro che prenotano accertamenti diagnostici Ricetta elettronica, prenotazioni e referti online, fascicolo sanitario elettronico: la trasformazione della Sanità, che cambia per avvicinarsi al cittadino, ha fatto breccia nell'Italia del 2016. Anno di passaggio, delicatissimo, in cui comincia a vedersi una svolta nei servizi della Sanità digitale e nel loro utilizzo, come emergerà il 4 maggio alla presentazione del nuovo rapporto “Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità” del Politecnico di Milano. Ma ad emergere sono anche i segnali della fatica con cui la trasformazione si fa strada: il perdurare di prassi e mentalità analogiche; ritardi e in certi casi anche dubbi sull'effettiva utilità che queste novità al momento offrano al cittadino. Cominciando dalle luci, “nell'ultimo anno l'elemento di svolta più importante che abbiamo colto è la crescita notevole dei tassi di utilizzo dei servizi di sanità digitale in Italia”, dice Mariano Corso, responsabile dell'Osservatorio. Il numero di italiani che fanno prenotazioni online di esami e visite è aumentato dell'85 per cento tra il 2015 e il 2014. Ora lo fa il 24% dei cittadini. Boom anche per i cittadini che accedono online a documenti clinici (referti): più 88 per cento. “E' uno dei servizi che più dà vantaggi sia agli utenti sia alla pubblica amministrazione, in termini di comodità e taglio di costi”, aggiunge Corso. Notevole anche la svolta nei pagamenti online di servizi sanitari: ora riguardano il 14 per cento dei cittadini, con una crescita del 180 per cento sul 2014. “Quando la PA offre servizi facili da usare e li comunica bene, i cittadini li utilizzano e vi si abituano pure”, dice Corso. Aumentato moltissimo anche l'uso di canali digitali tra medico e paziente, in particolare di Whatsapp. Lo fa il 56 per cento dei medici, con una crescita del 33 percento. I dati mostrano sempre un ritardo rispetto alla media dell'Unione europea (come si legge nell'indice Desi 2015), ma una svolta c'è stata. Il tutto, “in un periodo di taglio di costi nell'Ict in Sanità”, dice Corso. Il punto però è che sono invece “aumentati gli investimenti sui servizi al cittadino”, aggiunge. Il fenomeno ha messo radici nel 2016, con i nuovi progetti come il Fascicolo sanitario elettronico e la ricetta dematerializzata. Ma sono questi gli ambiti dove è possibile già misurare i limiti del cambiamento. Le Regioni che hanno un Fascicolo sanitario attivo- novità che sulla carta sarebbe dovuta partire già nel 2015 ovunque- sono sei (Emilia- Romagna, Lombardia, Toscana, Sardegna, Valle d'Aosta e Provincia Autonoma di Trento), altre undici lo stanno per lanciare. Assenti, Campania, Calabria e Sicilia, oltre alla Provincia Autonoma di Bolzano. Ma anche laddove funziona, il Fse si è attirato critiche di scarsa funzionalità. Secondo Federsanità, il Fascicolo ancora non riesce a offrire al medico una vista unitaria della storia clinica del paziente (vive ancora di documenti spezzettati). Il motivo è che l'innovazione poggia ancora su una base di processi organizzativi vecchio stampo, nelle PA. La ricetta elettronica, partita a marzo, ora è in tutte le Regioni, ma non è sempre adottata dai medici, che lamentano difficoltà di utilizzo e costi di adeguamento software e hardware (a volte coperti dalle Regioni). Dubbio ancora il vantaggio per i cittadini, inoltre, dato che resta in vita un supporto cartaceo (un promemoria) che il paziente deve portare di persona dal medico alla farmacia. Il vantaggio già percepibile è che, con l'elettronico, è possibile ottenere i farmaci prescritti anche in regioni diverse dalla propria. Insomma, i servizi sanitari digitali stanno attecchendo in Italia, ma soprattutto quelli più innovativi devono affrontare una partenza faticosa. Nel frattempo, possono sfuggire i vantaggi per il cittadino e per il sistema, i quali però a tendere dovrebbero apparire evidenti. Non solo in termini di risparmi, ma anche di cure più efficaci (la ricetta elettronica assicura per esempio una migliore tracciabilità della spesa e un controllo sull'appropriatezza della prescrizione). Il successo finale è assicurato? No, perché l'Italia mostra una storica difficoltà a cambiare i processi organizzativi interni all'amministrazione pubblica. La novità è che il cammino è ormai cominciato e, soprattutto, i cittadini per la prima volta mostrano di gradire questo cambiamento. E così potranno iniziare a premere sulle PA perché la trasformazione continui senza freni. Alessandro Longo _________________________________________________________________ Repubblica 05 Mag. ’16 USA, PIÙ MORTI PER SVISTE DE MEDICI CHE PER INCIDENTI, AEREI E OVERDOSE Diagnosi approssimative, farmaci inappropriati e distrazioni dei chirurghi hanno ucciso 250 mila persone nel 2013 diventando la terza causa di decesso NEW YORK. Gli errori più vistosi sono quelli dei chirurghi: tra il 1990 e il 2010 hanno operato 2413 pazienti nella parte sbagliata del corpo, hanno dimenticato 4857 oggetti ( soprattutto spugnette) nelle pance dei malati e in 27 casi hanno infilato il bisturi nel corpo di un paziente che non aveva bisogno di quella operazione. Ma la maggioranza dei 251.454 americani morti nel 2013 per gli sbagli dei medici è stata vittima di circostanze molto più banali: sviste, farmaci non idonei o in quantità eccessive, analisi di laboratorio approssimative, piaghe di decubito sottovalutate. Quel che è sicuro, comunque, è che gli errori sanitari sono diventati la terza causa di mortalità negli Stati Uniti dopo le malattie cardiovascolari e il cancro. Nel complesso uccidono più persone dell'Aids, il cancro al seno, gli incidenti aerei e le overdose calcolati tutti insieme. «È un'emergenza che va affrontata e superata», dice Martin "Marty" Makary, il chirurgo dell'ospedale universitario John Hopkins di Baltimora che ha guidato il team di ricerca sugli errori medici. I cui risultati, pubblicati ora su The Bmj, il prestigioso ex British medica! journal, hanno inevitabilmente sollevato grandi polemiche al di là dell'Atlantico, anche perché i medici americani si considerano, con una certa presunzione, i migliori del mondo. Qualcuno ritiene che le cifre siano esagerate: sono più del doppio delle stime che circolavano prima dell'ultima ricerca. Ma Martin Makary e i suoi collaboratori sono convinti dell'accuratezza dello studio, anche se sottolineano per primi l'importanza di cambiare i sistemi di registrazione delle "morti per cause evitabili", come vengono chiamati gli errori medici. Adesso i certificati di morte compilati da medici e ospedali, i cui dati poi confluiscono nel Cdc (Centers for desease control ), l'istituto federale di Atlanta, devono riportare ( anche per fini assicurativi) il motivo per cui il paziente è stato ricoverato in clinica o ha chiesto l'intervento delle strutture sanitarie. Così, però, se per caso il paziente aveva una polmonite al momento del ricovero, sarà quest'ultima a figurare come la causa del decesso e non, ad esempio, l'eventuale piaga da decubito o un farmaco somministrato in modo sbagliato. Le autorità americane dicono che questo è l'approccio usato anche a livello internazionale. Il difetto? Che non permette un'attenta valutazione degli errori e quindi dei metodi per porvi rimedio. Di qui l'ipotesi di Makary e del suo collega Michael Daniel: i certificati dovrebbero specificare se la morte poteva essere evitata. Così i dati sarebbero più precisi e si farebbe di più per combattere il fenomeno della malasanità. In particolare, dicono ancora i ricercatori del John Hoplcins, alcune criticità verrebbero alla luce: a cominciare dalle piaghe da decubito che sono all'origine di mezzo milione di ricoveri all'anno, di cui circa 50mila sfociano nel decesso dei pazienti, per lo più anziani e malati di mente. Certo, il bilancio complessivo degli errori fa paura. Si sapeva che la prima e la seconda causa di morte negli Stati Uniti erano rispettivamente i problemi al cuore, che nel 2013 hanno portato a 611 mila i morti negli Usa per questa causa, e il cancro (585mila decessi). Ma è stata una sorpresa che il numero dei morti per un errore superasse le 250mila unità: cioè molto più dei suicidi (41mila ), delle malattie respiratorie come la polmonite (149mila), degli incidenti d'auto (34mila ) o delle morti per armi da fuoco ( 34mila ). Qualcuno insinua che sarebbero proprio i medici a fare resistenza, opponendosi a un nuovo sistema per registrare gli errori nel timore che possa danneggiare molte carriere. Ma secondo Makary dovrebbero essere i primi a rallegrarsi: perché responsabilità e problemi gestionali diventerebbero più chiari, a beneficio di tutti. Il team che ha condotto la ricerca: oltre 50 mila vittime soltanto dalle piaghe da decubito 2.413: OPERAZIONI SBAGLIATE Tra il l 990 e il 2010, gli interventi fatti nella parte sbagliata del corpo 1.857: OGGETTI DIMENTICATI Soprattutto spugnette, nelle pance dei malati dopo le operazioni 27 INTERVENTI INUTILI – I casi in cui sono stati operati pazienti che non ne avevano bisogno _________________________________________________________________ QS 06 Mag. ’16 PARTORIRE IN ACQUA È SICURO? DA UNA RICERCA INGLESE PERPLESSITÀ PER LA SALUTE DEL NASCITURO Dare alla luce un bambino in acqua è sempre più di moda, in particolare tra le donne in cerca di un’esperienza alternativa al parto medicalmente assistito. Una nuova ricerca, condotta sui dati dell’archivio nascite inglese, ha però fatto emergere alcune evidenze che metterebbero in dubbio la sicurezza di questa scelta, in particolare per la salute dei bambini. 06 MAG - (Reuters Health) - Da tutti gli studi, sebbene basati su campioni molto ristretti, non sono emersi vantaggi dal parto in acqua. “Con la nostra ricerca non vogliamo stabilire se partorire in acqua sia sicuro o meno – ha commentato l’autore Alastair Sutcliffe, pediatra presso l’University College di Londra. Il mio suggerimento è solo quello di aspettare che ci siano evidenze chiare in termini di sicurezza prima di scegliere per questa modalità”. Il parto in acqua Per una madre partorire in una piscina con acqua calda è una metodo che allevia il dolore, diminuisce in alcuni casi la necessità di ricorrere ad un’anestesia e anche che a volte velocizza la fase della dilatazione e della nascita. Tuttaviaal momento finale dell’espulsione del nascituro, i benefici non sono così evidenti. Dai dati raccolti negli archivi dell’anagrafe inglese il 9% circa dei bambini in Gran Bretagna nasce con parto in acqua. Oltreoceano, al contrario, l’American College di Ostetricia e Ginecologia, in accordo con l’American Academy di Pediatria, ha pubblicato delle raccomandazioni che vanno contro il parto in acqua, motivandolo con quelle che sono le possibili complicazioni per i neonati tra cui anche infezioni, difficoltà respiratorie e annegamento. Lo studio Per stabilire i rischi e i benefici, il team di ricercatori guidato da Sutcliffe ha analizzato i dati degli studi che, nel totale, riguardano 39mila nascite. Tutti gli studi sono stati condotti in ospedale o in centri privati. La maggior parte di questi studi era tuttavia basato su campioni molto piccoli e su donne con gravidanze a basso rischio e con assenza di complicanze al momento del parto. L’obiettivo era capire i possibili vantaggi legati al parto in acqua valutando il punteggio Apgar al momento della nascita. Con l’Apgar si misura il battito cardiaco, il respiro, il tono muscolare i riflessi e la carnagione. Tuttavia, poiché il campione di riferimento era casualmente diviso tra parti in acqua e parti medicalmente assistiti non è stato possibile concludere se il parto in acqua permetta al neonato di avere un Apgar più alto o meno. “Non ci sono evidenze sui benefici del parto in acqua – commenta Amos Grunebaum, Direttore del reparto di Ostetricia presso il New York Weill Cornell Medicine. Solo perchè qualcosa va di moda – aggiunge – non significa che sia sicuro. Sono molti i dati infatti – conclude il medico che non ha preso parte allo studio – mostrano la presenza di infezioni, convulsioni e polmoniti nei neonati”. Fonte: Archives of Disease in Childhood Lisa Rapaport _________________________________________________________________ Il giornale 04 Mag. ’16 LA DEPRESSIONE E ALTRE MALATTIE CEREBRALI SI CONTROLLERANNO A DISTANZA CON SENSORI Un nuovo programma di ricerca internazionale esplorerà il potenziale dei dispositivi portatili (come smartphone e braccialetti elettronici) nel prevenire e curare la depressione, la sclerosi multipla ed epilessia. L'IRCCS Fatebenefratelli di Brescia è tra le 24 istituzioni di ricerca impegnate in questo programma, finanziato con 11 milioni di euro e sostenuto dalla «Innovative Medicines Initiative (IMI)» della Commissione Europea. Il primo meeting degli scienziati impegnati nel programma Radar- Cbs (Valutazione a distanza delle malattie del sistema nervoso centrale e delle ricadute) si terrà a Brescia dal 15 al 17 giugno, nell'ambito delle celebrazioni del ventennale dell'IRCCS. Si tratta di un progetto volto a monitorare i sintomi e la qualità della vita dei pazienti, quindi anche a calibrare meglio i trattamenti, attraverso strumenti di valutazione continui che agiscono in remoto. Sarà così possibile ottenere un quadro completo, ed in tempo reale, delle condizioni del paziente. Inoltre, questo tipo di monitoraggio potrebbe far sì che il trattamento inizi prima che il quadro clinico del paziente si aggravi, prevenendo le ricadute o evitando che il paziente attenda un peggioramento delle proprie condizioni di salute prima di cercare un consulto medico. I disturbi interessati sono la depressione, l'epilessia e la sclerosi multipla: disturbi ben distinti, con cause e sintomi diversi ma accomunati dal fatto che i pazienti spesso sperimentano periodi in cui i sintomi sono gestibili, seguiti da periodi di peggioramento e le riacutizzazione. Le indagini condotte su questi pazienti tendono a prevedere il rischio di ricaduta ed a migliorare i trattamenti. _________________________________________________________________ TST 04 Mag. ’16 VUOI DIMAGRIRE DAVVERO? INIZIA EDUCANDO I TUOI BATTERI Nel best-seller di BrendaVatson le ricerche d'avanguardia sul ruolo della flora batterica e sugli errori delle diete MARCO PIVATO Se pensate che per mantenere la linea basti tenere sotto controllo le calorie e fare attività fisica? Sono senz'altro misure indispensabili, ma ora emergono nuovi fattori di rischio per l'obesità: i chili di troppo dipendono per gran parte dalla composizione della flora batterica intestinale. Possediamo 100 mila miliardi di batteri - che favoriscono l'assorbimento dei nutrienti - e tra questi vi sono alcuni molto abili a trasferire grassi e zuccheri, mentre altri meno. Ciascuno di noi possiede una concentrazione diversa degli uni e degli altri: insieme formano il «filtro» che dai villi determina quali molecole assimileremo più facilmente. Brenda Watson, nutrizionista statunitense, va oltre stereotipi e false credenze: «Il motivo per cui le diete falliscono non c'entra nulla con le calorie. Per dimagrire o mantenere un normopeso dobbiamo educare la microflora intestinale». Ma come fare per alimentare i batteri «buoni», che non assorbono grassi, e diminuire la concentrazione di quelli «cattivi», che ne favoriscono l'accumulo? Watson - con il gastroenterologo dell'Università di Miami Leonard Smith - lo spiega in «Dimagrisci per sempre aiutando il tuo intestino», appena tradotto in Italia da Newton Compton dall'originale che negli Usa, dove il problema dell'obesità è sempre più serio, è diventato un caso letterario, oltre che scientifico. Se è noto da tempo che il funzionamento della stessa flora batterica influisce su pressione arteriosa, malattie cardiache, diabete, allergie e malattie autoimmuni, nel caso specifico dell'obesità - spiegano Watson e Smith - la correlazione è dimostrata da un esperimento: già nel 2013 i ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis avevano coltivato i batteri della flora intestinale di un topo grasso nell'intestino di un topo molto magro. Risultato: ad assoluta parità di alimentazione il topo magro è sensibilmente ingrassato. L'esperimento, clamoroso, è stato poi pubblicato su «Science». Da allora i nutrizionisti americani hanno cominciato a verificare se quello che accadeva nella cavia valesse anche per l'uomo. «La platea dei miei pazienti - riporta Watson - è formata soprattutto da persone che, pur impegnandosi in rigorose diete, non riescono a perdere peso in modo definitivo. Agendo, però, sulla trasformazione della flora batterica intestinale siamo riusciti a risolvere i problemi di obesità e salute di centinaia di pazienti». Come? Partendo da quelli che si chiamano «firmicutes» e «bacteroidetes». Sono loro i microbi che possono fare la differenza nell'assorbimento intestinale: mentre i primi trasportano molto facilmente grassi e glucosio, i secondi sono molto meno capaci. Ma se questa è la teoria come si passa alla pratica? Come si implementano i «bacteroidetes» a scapito dei «firmicutes»? Con integratori, probiotici o farmaci? La risposta della nutrizionista è diretta: «Ovviamente è più facile intervenire con la dieta». E nel suo volume propone diverse soluzioni, a partire da menù ricchi di cibi che contengono già batteri «benefici» oppure i loro nutrimenti, che servono quindi ad alimentare e moltiplicarne la popolazione. Oltre all'assunzione di fermenti lattici la nutrizionista propone piatti a base di carboidrati ad alto contenuto di fibre e basso indice glicemico: pasta rigorosamente integrale, legumi, frutta e verdura, yogurt. Vietati, quindi, i cibi raffinati, vale a dire derivati da una lunga lavorazione industriale che ne impoverisce il contenuto di minerali e proteine presenti nelle materie prime di partenza. Lo zucchero bianco, per esempio, è uno di questi alimenti «off limits». Ma ci sono diverse alternative: dallo sciroppo di riso al succo concentrato di mela o di uva e, ancora, lo sciroppo d'acero o d'agave. Vietata anche la farina 00, tra i prodotti più raffinati, con i quali prepariamo di tutto, dalla pasta alle torte. Questo tipo di farina è privata del germe contenuto nel chicco di grano, ricco di aminoacidi, sali minerali e vitamine del gruppo B ed E. Dunque è meglio preferire la farina integrale. Spazio anche ai grassi, ma quelli «buoni»: gli omega-3 e gli acidi grassi insaturi, contenuti in avocado, olive, frutta secca, noci, burro di noci naturali, pesci come salmone e perfino il cocco. Di sicuro ci vuole pazienza per cambiare davvero regime alimentare, ma poi la forza di volontà diventa un'abitudine automatica. «Più ci alimentiamo meglio - spiega Watson - e meno avvertiamo il desiderio di cibi "sbagliati" ed evitiamo episodi di fame nervosa: sono infatti i prodotti raffinati, zucchero e grassi insaturi, di origine animale, ad alimentare i "firmicutes", i quali, a loro volta, moltiplicandosi, richiedono all'organismo gli stessi prodotti. E instaurano, così, un ciclo nocivo che porta all'obesità». Conclusione: «Se invece li affamiamo, alimentandoci con nutrienti di cui questi batteri non si cibano, l'intestino si arricchisce di "bacteroidetes"». E il peso comincia a calare. _________________________________________________________________ Avvenire 05 Mag. ’16 MALATTIE RARE OLTRE IL MURO DEL SILENZIO di Laura Angelnn Un richiamo forte. All'impegno, alla coerenza nella ricerca. A non lasciare soli i "malati rari". Il mondo delle IIMIF associazioni e della ricerca rilegge le parole del Papa pronunciate venerdì scorso in Vaticano al Congresso internazionale di medicina rigenerativa, rivolte espressamente alla promozione di una cultura che non consideri questo tipo di persone al pari di uno scarto. E trova una spinta per continuare l'impegno di ogni giorno. «Siamo chiamati - ha detto il Papa - a rendere noto il problema delle malattie rare su scala mondiale, a investire nella formazione più adeguata, a incrementare le risorse per la ricerca, a promuovere l'adeguamento legislativo e il cambio del paradigma economico, affinché sia privilegiata la persona umana». E ha richiamato all'azione comune: «Grazie all'impegno coordinato a vari livelli e in diversi settori - sono ancora parole di Francesco - diventa possibile trovare non solo le soluzioni alle sofferenze che affliggono i nostri fratelli ammalati, ma anche assicurare loro l'accesso alle cure». Il direttore generale di Telethon Francesca Pasinelli ha accolto il discorso come un spinta importante: «Papa Francesco - commenta - ha pronunciato parole illuminanti per chiunque svolga la propria opera nell'ambito della ricerca e della sanità e ha invitato tutti a una riflessione seria sull'equità e l'accesso alla cura, intesa nel senso più completo e profondo di questa parola, in particolare per quanto riguarda l'ambito delle malattie rare». Per Pasinelli «a questa esortazione si possono, e si debbono, ricondurre tutte le azioni intraprese dai soggetti governativi e non, profit e non pro- fit, che sono chiamati a una presa di responsabilità nei confronti del tema delle malattie rare, da affrontare a livello globale». Anche per Nicola Spinelli, presidente di Uniamo - la Federazione delle malattie rare -, la questione è da affrontare a livello mondiale: «Da una parte - dice - ci troviamo di fronte a un nuovo modello di welfare in Italia e in Europa per le persone che soffrono; dall'altra le nuove frontiere dello sviluppo tecnologico a livello farmaceutico stanno disegnando un futuro di aspettative per i malati rari che non possono essere disattese». La consapevolezza che traspare nelle parole del Papa è la stessa di chi sta lottando in prima persona per trovare una cura per le malattie rare: «Sappiamo che talvolta non è possibile trovare soluzioni rapide a patologie complesse - ha detto Francesco - ma sempre si può rispondere con sollecitudine a queste persone, che spesso si sentono abbandonate e trascurate». Daniela Lauro è presidente di Famiglie Sma, associazione che, dopo essersi distinta per una ferma opposizione al "metodo Stamina" (alcuni dei bambini trattati col discusso sistema soffrivano proprio di questa terribile malattia) oggi guarda al futuro con rinnovata speranza : «E importante che il Papa abbia illuminato le malattie rare - dice Lauro -, ha incontrato tanti nostri bambini alle udienze generali. Ed è importante che dentro e fuori la Chiesa si prenda coscienza dell'esistenza di malattie che la ricerca purtroppo trascura». Alcuni bambini di Famiglie Sma stanno partecipando ai trial internazionali condotti in Italia da Eugenio Mercuri, dell'Università Cattolica di Roma: «Noi da sempre finanziamo ricerca - dice ancora Lauro -. L'associazione, che è fatta di genitori, ha sempre cercato di raccogliere fondi da spendere per il miglioramento della qualità della vita dei nostri figli, perché possano avere una cura. Cosa che oggi ci sembra essere abbastanza vicina, grazie al lavoro dei ricercatori italiani che stanno partecipando a studi di respiro mondiale». Malati rari e famiglie devono però fare i conti con le lacune del sistema sanitario. È il punto su cui insiste Claudio Giustozzi, segretario dell'Associazione Dossetti: «L'intervento del Papa - dice - ha toccato un argomento su cui la politica sanitaria e il sistema sanitario nazionale sono particolarmente deboli e deficitari. Infatti, oltre agli abituali proclami ministeriali, hen poco si sta facendo affinché sia davvero garantito l'accesso alle cure di chi è colpito da patologie rare, nel rispetto dell'articolo 32 della Costituzione». Per Giustozzi occorre andare oltre una visione strettamente economi- cistica della sanità: «Tornando a considerare la salute un valore da perseguire strenuamente - dice -, invece che un costo o, peggio, la causa del rosso nel bilancio». Le parole di papa Francesco «devono indirizzare tutti coloro che possono da subito agire politicamente per abbattere le folli divisioni territoriali e regionali che fanno sì che esistano diversi sistemi e modelli di cura e assistenza in tutte le regioni italiane». _________________________________________________________________ Corriere della Sera 06 Mag. ’16 FINIRE IL CIBO È EDUCATO. MA È ANCHE SANO? Non lasciare avanzi si addice poco a chi vuole contrastare il sovrappeso. I tempi poi sono cambiai, specie per i bambini Il unisci quello che c'è nel piatto! Chi ha avuto una buona educazione si è sentito ripetere spesso questo "ordine" dai genitori quando era bambino. E: giustamente. Lo spreco del cibo rimane odioso e inammissibile. Ora, però, a questo tradizionale e sacrosanto "detto" si oppone (ma solo in un certo senso) un "contraddetto" segno dei tempi. La Comell University di New York, infatti, si è presa il disturbo di condurre una ricerca per capire quanto sia diffusa l'abitudine di lasciare il piatto intonso alla fine del pasto (in altre parole, di mangiarsi tutto fino all'ultima briciola). Lo studio ha censito ben 1.200 ristoranti distribuiti in 15 diversi Paesi di buona parte del pianeta, "misurando" ciò che avanzava nei piatti dei clienti. La scoperta è stata che gli adulti, senza distinzioni di cultura o sesso, lasciano nel piatto in media non più dell'8% del cibo presente al momento in cui è stato servito. Oltretutto, con un pizzico di sadismo, i ricercatori hanno anche messo a punto una speciale scodella, che veniva riempita continuamente attraverso una cannula ben celata mentre l'ignaro avventore sorbiva una zuppa. Ebbene, chi si è trovato a far parte inconsapevolmente del gruppo sperimentale "ciotola senza fondo" ha mangiato ben il 73% in più del contenuto iniziale rispetto ai commensali con scodella normale. Ora, tenendo conto che, stando ai dati raccolti dal National center for chronfic disease prevention and health promotion americano, negli ultimi decenni le porzioni medie sono cresciute talmente tanto da regalare un surplus calorico che può arrivare fino alle 150 calorie per porzione, è abbastanza facile ipotizzare che anche l'abitudine a spazzare proprio tutto quello che c'è nella fondina possa contribuire al sovrappeso. E, secondo lo stesso gruppo di studiosi, la tendenza a "pulire il piatto" sarebbe proprio una caratteristica più frequente in chi da bambino è stato con- tinuamente spronato a farlo, così da diventare il classico individuo di cui si dice che «piuttosto che invitarlo a cena è meglio comprargli un cappotto» (nel senso, per chi non conoscesse il proverbio, che così si spende meno). Dieta mediterranee.. E allora, che cosa si dovrebbe concludere? Che i' nostri saggi antenati ci hanno educato "per (il nostro) male"? Nient'affatto. È ovvio che la regola "di buona creanza" e di rispetto per il cibo rimane valida (ci mancherebbe altro). Oltretutto, la sollecitazione a mangiare fino all'ultima briciola era anche figlia della preoccupazione per bambini inappetenti in epoche in cui la disponibilità di alimenti poteva essere più limitata rispetto a oggi. Però, pur tenendo conto che l'aumento delle porzioni negli ultimi decenni è un dato riferito agli Stati Uniti, dove il problema dell'obesità è certo molto più grave che non in Italia, va tuttavia considerato che i dati epidemiologici più recenti danno il sovrappeso in aumento nel nostro Paese, anche e soprattutto fra i bambini. Ciò detto, non possiamo neppure più trincerarci dietro al fatto che comunque noi mangiamo "sano" perché la dieta mediterranea è nata qui. Sarà anche nata qui, ma la facciamo sempre meno, per cui se siamo consapevoli di essere "ben istruiti" a ripulire il piatto, forse potremmo cominciare a essere più attenti alle porzioni, chiedendoci quanto appetito abbiamo realmente. O magari potremmo "ingannarci" da soli, come consigliano diversi esperti, usando stoviglie piccole, oppure non riempiendole completamente. _________________________________________________________________ Il giornale 06 Mag. ’16 SE GLI UMANI AMANO TROPPO I LORO AMICI A QUATTRO ZAMPE Abbracciare cani e gatti è un gesto di affetto molto comune ma spesso non gradiscono affatto. Ecco tutti i segnali per cogliere il loro disagio Gli animali sono stressati dal nostro troppo amore Oscar Grazioli Amare gli animali è un gesto nobile ma è possibile che li amiamo troppo? noto che vi sono degli eccessi che rientrano nel campo dell'antropomorfismo, ovvero l'atteggiamento di chi umanizza eccessivamente l'animale pretendendo che abbia comportamenti molto simili a quelli delle persone. «Al mio cane manca la parola», «Oggi Tom mi ha fatto i dispetti perché non l'ho portato fuori», «Vi giuro che al mio gatto manca la parola». Sono tutte espressioni comuni ai proprietari di cani e gatti che tendono a umanizzarli, quasi fossero bambini. Un nuovo studio, pubblicato da Stanley Coren, psicologo della British Columbia University ha messo in mostra come abbracciare il proprio cane possa causargli fastidio e addirittura ripetuti stress. Coren non ha fatto altro che analizzare un campione casuale di 250 fotografie, prese dal web, in cui persone abbracciavano cani e ha individuato una serie di segni specifici che indicano lo stress nell'animale. Secondo Coren, autore di libri sul comportamento del cane, forse l'indicatore più comune di ansia è percepibile quando il cane gira la sua testa dall'altra parte, a volte con gli occhi parzialmente chiusi. Un altro segno di stress è chiaramente evidenziabile, per chi è esperto di comportamento canino, quando spalanca gli occhi, mostrando il bianco a forma di mezza luna. In realtà il fatto che abbracciare il cane sia più o meno fastidioso (per il cane) è in discussione da tempo e molti sostengono che i loro cani amano essere abbracciati. Questo nuovo studio però si basa, non più su aneddoti o illazioni, ma prende in considerazione segnali di stress inconfondibili. Su questa base, nella sua pubblicazione, Coren scrive: «Posso riassumere i dati del mio lavoro semplicemente dicendo che i risultati hanno indicato che internet contiene molte immagini di persone felici di abbracciare quelli che sembrano essere cani del tutto infelici». I segnali di stress nel cane variano molto. Si parte dal semplice girare la testa da un altro lato, fino allo scoprire i denti ed arricciare i muscoli masseteri (quelli di mandibola e mascella) e qui siamo a cavallo tra lo stress e la possibile imminente aggressione. Una via di mezzo, che indica fastidio o stress di modesta entità, è l'abbassare le orecchie verso la testa, leccarsi con insistenza una zampa o sbadigliare ripetutamente (atteggiamento comune all'uomo che incontra un rompiscatole). Le immagini esaminate dallo psicologo sul web mostrano 1'81,6% di soggetti con chiari segnali di sofferenza. Emotivo, afferma Coren, sta nella storia evolutiva del cane, animale progettato per scappare velocemente dal pericolo che quindi non tollera essere abbracciato perché si sente in trappola. L'abbraccio di un bambino che urla in una lingua ignota al cane può addirittura diventare pericoloso. «In caso di attacco, i morsi al viso dei bambini testimoniano di un abbraccio per nulla gradito» afferma Coren. A Coren risponde Corey Cohen, famoso addestratore cinofilo sulle colonne del New York Times. «I miei cani adorano essere abbracciati. Nelle immagini viste da Coren, i cani erano stressati perché erano costretti in posa per una fotografia». Mark Bekoff, professore di etologia e biologia in Colorado, se la cava salomonicamente: «Come le persone, ci sono cani cui piace essere abbracciati e altri no». A questo punto, fate voi. Magari una bella pacca sulla spalla... _________________________________________________________________ Corriere della Sera 07 Mag. ’16 L’EX GINNASTA SPEGNE L’ENZIMA CHE RENDE AGGRESSIVO IL TUMORE di Adriana Bazzi Delia Mezzanzanica, ricercatrice Airc: «Così cureremo il cancro all’ovaio» Qualche anno fa la sua platea era quella degli appassionati di sport: Delia Mezzanzanica era nazionale di ginnastica ritmica e ha partecipato, per dire, al Campionato del mondo di Londra nel ’79 e poi all’Europeo di Amsterdam nell’80, oltre che a numerosi tornei internazionali, anche in Russia e in Giappone. Oggi il pubblico che la segue è molto diverso: è quello dei congressi scientifici internazionali o dei lettori delle riviste mediche dove Delia Mezzanzanica parla delle sue ricerche nel campo dell’oncologia. Studi che riguardano, in particolare, uno dei tumori più temuti dalle donne, quello dell’ovaio. Dallo sport alla medicina. «Nell’Ottanta la specialità di ginnastica ritmica è diventata olimpica — spiega la ricercatrice milanese, attualmente responsabile della Struttura di terapie molecolari all’Istituto Tumori di Milano — e avrei dovuto allenarmi duramente per partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, sacrificando gli studi. Così rinunciai, anche se poi ho continuato a seguire, per qualche anno, le giovani leve: l’attuale allenatrice della squadra nazionale campione del mondo è stata una mia ginnasta e questo per me è un motivo di orgoglio incredibile». Delia Mezzanzanica si laurea in biologia all’Università di Milano nel 1985, ma già da studentessa arriva all’Istituto dei Tumori, chiamata da Silvana Canevari, e comincia a lavorare nel gruppo di Maria Ines Colnaghi, attuale direttore scientifico di Airc, l’Associazione per al ricerca sul cancro. «Mi sono trovata al posto giusto nel momento giusto — dice Mezzanzanica — . Nel 1987 sono diventata ricercatore associato grazie a una borsa di studio Airc e ho cominciato i miei studi sul tumore all’ovaio, che era già stato l’argomento della mia tesi». Il tumore all’ovaio è molto subdolo dal momento che dà segni di sé quando è già in fase avanzata, poi tende a recidivare perché diventa resistente ai chemioterapici che, ancora oggi, rappresentano la terapia standard. «Questo tumore non è molto diffuso — continua Mezzanzanica —, ma è difficile da curare e io cerco i suoi punti deboli da aggredire». Grazie al supporto dell’Airc, la ricercatrice milanese ha portato avanti una serie di studi innovativi. Con esperienze all’estero, prima ai National Institutes of Health di Bethesda, Washington, e poi in Israele («Quando avevo già un figlio di 2 anni — dice —. È stata un’esperienza breve, importante sul piano professionale, che ho potuto fare grazie al supporto di mio marito»). «Le cellule tumorali ovariche — spiega Mezzanzanica, entrando in qualche dettaglio tecnico — producono in eccesso un enzima chiamato colina- chinasi che ne favorisce l’aggressività e le rende insensibili ai chemioterapici». Ed ecco allora l’obiettivo della ricerca, anche questa finanziata dall’Airc: spegnere l’attività di questo enzima. Come? «Per ora — dice Mezzanzanica — lo abbiamo fatto disattivando il gene che lo produce con frammenti di materiale genetico, chiamati SiRna, nelle cellule tumorali coltivate in laboratorio. Così sono ridiventate sensibili ai chemioterapici». Per ora tutto questo succede in laboratorio, ma l’idea, per il futuro, è quella di collaborare con l’industria farmaceutica per trovare un inibitore farmacologico del gene, molto più facile da somministrare ai pazienti rispetto ai SiRna. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 01 Mag. ’16 LA PSICOLOGIA DEI MEDICI SOTTO LA LENTE DELL’AIFA di Riccardo Renzi Se si prendono troppi farmaci o si fanno troppi esami non è solo colpa della medicina difensiva, che induce i medici a coprirsi le spalle, di cattive abitudini dei pazienti o della corruzione. Gli eccessi possono derivare anche da un fenomeno psicologico, l’illusione terapeutica, che porta il medico a sovrastimare i primi risultati positivi (apparentemente) del proprio intervento anche in assenza di una diagnosi certa e di riscontri razionali. È la stessa illusione dei giocatori d’azzardo alle prime vincite. L’idea fu definita già nel 1978 dal medico inglese, K.B. Thomas, ma è stata rilanciata da un articolo del New England Journal of Medicine e ripresa in Italia da un’editoriale dell’Aifa, a firma del presidente Mario Melazzini e del direttore generale Luca Pani. Colpisce il richiamo di due organismi rigorosamente scientifici a un concetto psicologico, non misurabile. Ma lo scopo è mettere in guardia i medici a non giocare d’azzardo con i pazienti. Ricordando quel che diceva Thomas: che «less is more» e che la cura migliore è spesso non fare niente. Piani terapeutici da «snellire» C’è un progetto ma non decolla Riguardano farmaci a prescrizione limitata per quantità e periodo di tempo Per i pazienti ottenere medicinali innovativi e salvavita a prescrizione limitativa è una vera fatica, perché possono essere “scritti” solo da uno specialista, in base a un piano terapeutico che però è valido dai tre mesi a un anno. Alla scadenza si riparte e, se non si ha diritto all’esenzione per malattia, si paga da capo. Un percorso a ostacoli (si veda l’articolo sotto) che potrebbe essere evitato, secondo i medici di famiglia, se fosse consentito anche a loro di prescrivere questi farmaci. «Il problema dei piani terapeutici si era posto perché si temeva che il medico di famiglia non fosse in grado di gestire i farmaci innovativi dal punto di vista dell’appropriatezza, soprattutto economica — spiega Giacomo Milillo, segretario nazionale della Fimmg, Federazione italiana dei medici dimedicina generale —. Due anni fa avevamo dato la nostra disponibilità a prescrivere i medicinali con piani terapeutici “web based” (inseriti cioè sulla piattaforma web dei Registri dell’Agenzia italiana del farmaco ndr ) in modo che l’Aifa riuscisse a monitorare le prescrizioni». Tra questi medicinali, figurano, ad esempio, alcuni utilizzati per l’Alzheimer, antianemici che servono a velocizzare il recupero dopo la chemioterapia, preparati che stimolano la produzione di globuli bianchi per pazienti in chemioterapia, con Hiv o sottoposti a trapianto di midollo. L’Aifa ha dato il via libera a un progetto pilota, per consentire a 2.500 medici di famiglia di prescrivere alcuni farmaci rilevanti per le cure primarie. Ma la sperimentazione, di fatto, non è ancora partita. «Siamo in attesa di conoscere dalla Commissione tecnico-scientifica le aree terapeutiche da includere nel progetto», spiega Luca Pani, direttore generale di Aifa. Maria Giovanna Faiella LE DIFFICOLTÀ NEL RITIRO DEI MEDICINALI Racconta una signora di Roma: «Ho un piano terapeutico prescritto dal diabetologo per accedere ai farmaci che tengono sotto controllo la glicemia. Ogni sei mesi bisogna rinnovarlo e occorre ripetere la trafila: farsi prescrivere la visita dal medico di famiglia, fissare in anticipo l’appuntamento con lo specialista e organizzarsi per prendere il permesso al lavoro. Sarebbe meno complicato se a prescrivere il farmaco fosse il medico di famiglia: l’ambulatorio è aperto anche il pomeriggio e non bisogna, ogni volta, prendere l’appuntamento e aspettare». La figlia di una paziente che vive in Campania: «Mia mamma ha due piani terapeutici, uno, con scadenza ogni tre mesi, per avere il medicinale che serve a curare l’insufficienza renale, l’altro, annuale, per accedere a un farmaco oncologico. Le liste di attesa sono lunghissime, in particolare per la visita oncologica occorre prenotare almeno dieci mesi prima della scadenza del piano, altrimenti c’è il rischio che interrompa la cura. E poi: nonostante mia madre abbia diritto all’esenzione per malattia, ogni volta che fa la visita deve pagare cinque euro». Disagi di chi soffre di una o più malattie croniche confermati dai dottori. «Ci sono pazienti con gravi patologie, come tumori, diabete, broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco), esasperati dai passaggi burocratici che allungano i tempi e moltiplicano i ticket — riferisce Giacomo Milillo, segretario nazionale della Fimmg, Federazione italiana dei medici di medicina generale —. Lo sono soprattutto i malati cronici che necessitano di più di un piano terapeutico: ogni volta devono fare la spola tra il nostro ambulatorio e quello dello specialista». Non è finita: il più delle volte il farmaco prescritto con piano terapeutico può essere ritirato in farmacia, in altri casi, però, il medicinale viene erogato esclusivamente dalle farmacie ospedaliere. In alcune Regioni, poi, è richiesto il passaggio alla farmacia ospedaliera anche per il rilascio della prima dose di farmaci e il timbro sulla prescrizione per ottenere, in seguito, le successive confezioni nella farmacia sotto casa. M.G.F. _________________________________________________________________ Corriere della Sera 05 Mag. ’16 L’EMBRIONE CHE CRESCE IN AUTONOMIA In vitro per quasi due settimane: non ha ancora bisogno del dialogo col corpo materno di Anna Meldolesi Due ricerche, una americana e l’altra inglese. Stessa conclusione: è stato scoperto che fino a tredici giorni — ma probabilmente anche oltre, però la legge non consente la sperimentazione — gli ovuli fecondati e coltivati in vitro non hanno nessun dialogo con il corpo materno. Gli embrioni sono capaci di auto-organizzarsi, seguendo un piano di sviluppo ordinato anche in assenza di segnali esterni. All’inizio è un ovulo fecondato. Poi inizia a somigliare a una mora. Quindi diventa una sfera cava, che si impianta nell’utero una settimana dopo la fecondazione. È in questa fase, detta blastocisti, che le cellule si avviano ad assumere identità diverse. Ma proprio questo stadio cruciale dello sviluppo dell’embrione finora era rimasto come una scatola chiusa, inaccessibile allo sguardo degli scienziati. Il velo viene sollevato adesso da due lavori pubblicati sulle riviste Nature e Nature Cell Biology , che hanno riprodotto in vitro la fase dell’annidamento in utero, con un substrato artificiale al posto del grembo materno. Le sorprese non mancano, e nemmeno gli interrogativi bioetici. Innanzitutto siamo di fronte a un nuovo record. Nessuno era riuscito a coltivare degli embrioni per più di nove giorni, in genere anzi non si riusciva a superare la settimana. Ora due gruppi di ricerca, uno americano e l’altro inglese, hanno dimostrato che è possibile spingersi fino al tredicesimo giorno, e probabilmente oltre, fornendo agli embrioni il giusto ambiente chimico e una matrice adatta a cui attaccarsi. Gli esperimenti sono stati interrotti entro le due settimane dalla fecondazione, per rispettare le linee guida internazionali che fissano un limite temporale massimo alla possibilità di fare ricerca sugli embrioni umani. Ma è bastato per scoprire che il dialogo con il corpo materno non è ancora necessario in questa fase. Gli embrioni sono capaci di auto- organizzarsi, seguendo un piano di sviluppo ordinato anche in assenza di segnali esterni, più a lungo del previsto. Un po’ come succede alle molecole d’acqua che si dispongono simmetricamente per formare i fiocchi di neve. Gli embrioni cresciuti in provetta non sono delle riproduzioni tridimensionali perfette di quelli «naturali», ma mostrano una struttura simile con tanto di cavità amniotica e sacco vitellino. Iricercatori hanno notato anche alcune differenze inaspettate rispetto ai modelli animali, per quanto riguarda la diversificazione delle linee cellulari da cui poi dipende l’organizzazione dei tessuti. Probabilmente sono dovute al timing e alle modalità di accensione dei geni chiave. La ricerca sui topi, evidentemente, non basta per farsi un’idea precisa degli inizi della vita umana. I risultati ottenuti dal gruppo di Ali Brivanlou della Rockefeller University e da quello di Magdalena Zernicka- Goetz di Cambridge inaugurano dunque un nuovo filone di studi che potrebbe contribuire a migliorare le metodiche di riproduzione assistita, la comprensione delle cause degli aborti precoci e la coltivazione delle cellule staminali. Ma una volta rimosso l’ostacolo tecnico all’osservazione degli embrioni in fase post-impianto, ne restano altri bioetici e legali. In Italia la ricerca sugli embrioni umani è vietata per legge, ma la comunità scientifica internazionale finora ha rispettato il limite dei 14 giorni proposto nel 1979 negli Stati Uniti, abbracciato nel 1984 dalla commissione Warnock in Gran Bretagna e poi fatto proprio da altri Paesi oltre che da numerose società scientifiche. Perché proprio questo numero, quattordici? La spiegazione più accettata è che prima di questo momento l’embrione potrebbe ancora dividersi in due o fondersi, dopo acquisisce un’esistenza individuale grazie alla comparsa di una struttura detta stria primitiva. Questo però non significa che guadagni improvvisamente un diverso status morale, ha notato in un commento il bioeticista Insoo Hyun insieme con Amy Wilkerson e Josephine Johnston. Lo spartiacque ha funzionato come strumento regolatorio per delimitare lo spazio per la ricercascientifica all’insegna di un compromesso tra diverse sensibilità culturali e religiose. Ma è stato accettato e rispettato anche perché sembrava un limite tecnicamente invalicabile. Adesso, insomma, potrebbe essere arrivato il momento di metterlo in discussione, sostengono gli studiosi. Magari organizzando una conferenza internazionale che riunisca scienziati, giuristi e bioeticisti, propone Nature . _________________________________________________________________ Le Scienze 07 Mag. ’16 LIBERO ARBITRIO: COSA DICONO LE NEUROSCIENZE La teoria dei quanti e la realtà Siamo convinti che il libero arbitrio esista, ma una nuova ricerca suggerisce che sia solamente il frutto di un autoinganno del nostro cervellodi Adam Bear Lo facciamo centinaia di volte al giorno: spegniamo la sveglia, prendiamo una camicia dall'armadio, andiamo a prendere una birra in frigo. In tutti questi casi, concepiamo noi stessi come agenti liberi, che controllano consapevolmente il proprio corpo per raggiungere uno scopo. Ma che cosa può dire la scienza sulla vera fonte di questa esperienza? In un classico articolo pubblicato quasi vent'anni fa, gli psicologi Dan Wegner e Thalia Wheatley hanno avanzato un'ipotesi rivoluzionaria: l'esperienza di compiere intenzionalmente un'azione spesso non è altro che l'inferenza causale post hoc del fatto che i nostri pensieri abbiano causato alcuni comportamenti. La sensazione in sé, tuttavia, non ha alcun ruolo causale nella produzione di quel comportamento. Questo a volte può indurci a pensare di aver fatto una scelta quando in realtà non l'abbiamo fatta, o di aver fatto una scelta diversa da quella che abbiamo fattomin realtà. Ma qui c'è un mistero. Supponiamo, come propongono Wegner e Wheatley, di osservare (inconsciamente) noi stessi che effettuiamo qualche azione, come prendere una scatola di cereali al supermercato, e di arrivare solo dopo a dedurre che lo abbiamo fatto intenzionalmente. Se questa è la vera sequenza degli eventi, come potremmo essere ingannevolmente indotti a credere di aver voluto fare quella scelta prima di avere osservato le conseguenze di quell'azione? Questa spiegazione del modo in cui pensiamo il nostro agire sembrerebbe richiedere una sorta di soprannaturale causalità a ritroso, in cui la nostra esperienza di volontà cosciente sarebbe sia un prodotto sia una causa apparente del comportamento. In uno studio appena pubblicato su "Psychological Science", Paul Bloom e io abbiamo esplorato una soluzione radicale, ma non magica, a questo enigma. Forse, nel preciso momento in cui sperimentiamo una scelta, la nostra mente sta riscrivendo la storia, inducendoci a pensare che questa scelta - che è stata effettivamente completata dopo che le sue conseguenze sono state percepite inconsciamente - sia stata una scelta che avevamo fatto fin dall'inizio. Anche se il modo esatto in cui la mente potrebbe farlo non è ancora pienamente compreso, fenomeni simili sono già stati documentati. Per esempio, vediamo il moto apparente di un punto prima di vedere quel punto raggiungere la sua destinazione, e sentiamo un tocco fantasmache si sposta lungo il braccio prima di percepire un tocco reale in un punto più in là su di esso. Le illusioni "postdittive" di questo tipo in genere sono spiegate notando che c'è un ritardo nel tempo impiegato dalle informazioni per raggiungere la consapevolezza cosciente: essendo leggermente in ritardo rispetto alla realtà, la coscienza può "prevedere" eventi futuri che non sono ancora entrati nella nostra coscienza, ma che inconsciamente sono stati già codificati, creando così l'illusione che un evento futuro alteri un'esperienza passata. In uno dei nostri studi, ai partecipanti sono stati più volte mostrati sul monitor di un computer cinque cerchi bianchi in posizioni casuali e sono stati invitati a scegliere mentalmente, e in fretta, uno dei cerchi prima che uno di essi si illuminasse di rosso. Se il cerchio diventava rosso così velocemente che i soggetti avevano la sensazione di non essere stati in grado di completare la loro scelta, potevano segnalare di non aver finito in tempo. In caso contrario, indicavano se avevano scelto il cerchio rosso (prima che diventasse rosso) o un cerchio diverso. Abbiamo quindi analizzato la probabilità che le persone indicassero una previsione riuscita tra i casi in cui esse pensavano di aver avuto il tempo di compiere una scelta. All'insaputa dei partecipanti, il cerchio che si illuminava di rosso in ogni prova dell'esperimento era scelto in modo del tutto casuale dal computer. Quindi, se i partecipanti avessero veramente completato le loro scelte quando affermavano di averlo fatto prima che uno dei cerchi diventasse rosso, avrebbero dovuto indicare il cerchio rosso in media una volta su 5. Ma le prestazioni dei partecipanti deviavano di un irrealistico 20 per cento da questa probabilità, superando addirittura il 30 per cento quando un cerchio diventava rosso in modo particolarmente rapido. Questo modello di risposta suggerisce che la mente cosciente dei partecipanti a volte aveva scambiato l'ordine degli eventi, creando l'illusione che una scelta avesse preceduto il cambiamento di colore quando, in realtà, era stata distorta da quel cambiamento. È importante sottolineare che la scelta del cerchio rosso segnalata dai partecipanti scendeva a valori vicini al 20 per cento quando il ritardo del cerchio nell'illuminarsi di rosso era abbastanza a lungo da impedire alla mente subconscia di ingannare la coscienza e sussurrare il cambiamento di colore prima che venisse completata una scelta consapevole. Questo risultato ci ha garantito che i partecipanti non stavano semplicemente cercando di ingannarci (o di autoingannarsi) sulle loro capacità di previsione o semplicemente che gli piaceva farci sapere che erano stati corretti. Infatti, le persone che hanno manifestato l'illusione dipendente dal tempo erano spesso completamente inconsapevoli della loro prestazione superiore alle probabilità quando, nel breve colloquio che seguiva l'esperimento, si informavano su di essa. Inoltre, in un esperimento correlato abbiamo scoperto che il bias della scelta corretta non era stato indotto da confusione o incertezza su ciò che era stato scelto: anche quando i partecipanti erano molto fiduciosi nella loro scelta, hanno mostrato una tendenza a fare la "scelta" corretta un numero impossibile di volte. Complessivamente, questi risultati suggeriscono che possiamo ingannarci sistematicamente sul modo in cui operiamo una scelta, anche quando abbiamo una forte intuizione del contrario. Ma perché la nostra mente ci ingannerebbe in modo apparentemente così stupido? Questa illusione non dovrebbe essere devastante per la nostra vita mentale e il nostro comportamento? Forse no. Forse l'illusione può essere spiegata semplicemente con i limiti dell'elaborazione cerebrale delle percezioni, che inducono confusione solo alle scale temporali brevissime dei nostri esperimenti (o di esperimenti simili), ma che difficilmente riguardano il mondo reale. Una possibilità più speculativa è che le nostre menti siano progettate per distorcere la nostra percezione delle scelte e che questa distorsione sia una caratteristica importante (e non semplicemente un "baco") del nostro apparato cognitivo. Per esempio, se l'esperienza della scelta è un tipo di inferenza causale, come suggeriscono Wegner e Wheatley, scambiare l'ordine di scelta e azione nella coscienza può aiutarci a comprendere che siamo esseri fisici che possono produrre effetti nel mondo. Più in generale, questa illusione può essere fondamentale per lo sviluppo di una fede nel libero arbitrio che, a sua volta, giustifica la punizione. Eppure, che ci siano o meno dei vantaggi nel credere che abbiamo più controllo sulla nostra vita di quanto ne abbiamo, è chiaro che l'illusione può andare troppo oltre. Se una distorsione da un quarto di secondo nella nostra esperienza temporale può non essere un grosso problema, distorsioni su tempi più lunghi - come quelle che possono affliggere le persone con problemi mentali come la schizofrenia e disturbo bipolare - potrebbero deformare in modo sostanziale e negativo la prospettiva di fondo di una persona sul mondo. Le persone con queste malattie possono cominciare a credere di poter controllare il tempo o di avere una straordinaria capacità di prevedere il comportamento delle altre persone. In casi estremi, possono anche convincersi di avere poteri divini. Resta da vedere fino a che punto l'illusione postdittiva della scelta che osserviamo nei nostri esperimenti sia collegata a questi aspetti più preoccupanti della vita quotidiana e della malattia mentale. L'illusione può riguardare solo a un piccolo insieme delle nostre scelte, fatte in fretta e senza pensarci su troppo. O può essere pervasiva e onnipresente, così da governare tutti gli aspetti del nostro comportamento, dalla nostre decisioni più insignificanti a quelle più importanti. Molto probabilmente, la verità sta nel mezzo. Comunque stiano le cose, i nostri studi si aggiungono a un crescente corpo di ricerche che suggeriscono che anche le nostre convinzioni apparentemente più ferree relative al nostro operato e alla nostra esperienza cosciente possono essere del tutto sbagliate. (La versione originale di questo articolo è apparsa su www.scientificamerican.com il 28 aprile 2016. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati) _________________________________________________________________ Corriere della Sera 08 Mag. ’16 IL MEDICO SIA ANCHE MAESTRO DI ETICA di Alberto Scanni Medici che si fanno timbrare da altri la presenza in ospedale, colleghi conniventi che favoriscono queste situazioni, chirurghi che operano quando non è necessario, dottori che si fanno pagare per favorire i ricoveri, certificati di invalidità accondiscendenti, cartelle alterate per coprire gli errori in ospedale. La cronaca ne ha riferito non di rado. Certo non sono tutti così e non si può fare di ogni erba un fascio, ma il fenomeno esiste e non può essere ignorato. Giusto insorgere per difendere la categoria, ma bisogna cercare di capire il perché e insistere nell’attività di prevenzione. Quando ci si laurea le possibilità sono due: o si vive la professione come servizio nel rispetto dell’ altro e delle istituzioni o,visto che di fatto i malati sono soggetti dipendenti e bisognosi, si gioca una superiorità onnipotente e devastante che fa spallucce delle regole e delle persone. E allora non ci si sente in colpa se si bara sulle presenze in ospedale, se si fanno interventi non necessari, se si certifica il falso, se il denaro diventa l’obiettivo principale. Il denaro, il carrierismo, il nascondere gli errori, sono alla base di questo fenomeno fortunatamente ancora limitato. I medici devono onorare la loro professione con comportamenti etici, rispettosi dell’altro e delle istituzioni verso cui hanno il dovere di essere attenti, onesti e di rispettare le regole. Per evitare le derive della professione, oltre all’impegno individuale, la formazione universitaria deve “battere” sul tasto di un “etica di responsabilità” che è personale e risponde di fatti e omissioni. E, oltre al professore universitario, devono diventare maestri di moralità il medico di famiglia che ospita un praticante o l’ultimo assistente che si trova vicino uno studente del quinto anno, o un onesto sindacalista che difende i diritti degli operatori e dei malati, o un ricercatore che guida un’équipe, o il presidente di un Ordine di medici che insegna la deontologia, o il responsabile di una società scientifica che apre ai giovani per farli crescere. Essere maestro significa non avere il mito dell’arrivismo e del denaro, significa insegnare al medico a essere onesto, moralmente ineccepibile e la società ha il diritto di giudicarlo se si comporta male. Milan Kundera ne “ L’insostenibile leggerezza dell’essere” dice : «Un medico, diversamente da un politico o da un attore, viene giudicato solo dal suo paziente e dai suoi più prossimi colleghi, cioè a porte chiuse, da uomo a uomo». Oggi non basta: le porte devono essere aperte _________________________________________________________________ Il Sole24oRE 08 Mag. ’16 SENZA ANIMALI NON SI FA RICERCA La recente notizia che l’Europa ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, a causa di un’interpretazione troppo restrittiva della direttiva europea che regolamenta la cosiddetta «sperimentazione animale», non stupisce la comunità scientifica. Avevamo infatti già evidenziato le pesanti conseguenze che il decreto legislativo di recepimento (26/2014) avrebbe avuto sulla ricerca scientifica e sulla competitività dei nostri ricercatori, con evidente danno per i destinatari della ricerca stessa, cioè i cittadini del nostro Paese. Tutto ciò a causa di una sorta di compromesso politically correct all’italiana per mediare tra le esigenze oggettive della scienza e le richieste soggettive degli animalisti che pretendevano di abolire tout court la sperimentazione animale. Peccato che nessuno abbia considerato le implicazioni di tale compromesso, stigmatizzate dalla reazione dell’Europa. Emblematici in tal senso sono il divieto di trapianto di organi e tessuti umani in modelli animali, che penalizza importantissimi filoni della ricerca medica, il divieto di utilizzare gli animali per più di una procedura di test, che impone necessariamente un incremento del numero degli animali coinvolti, e il divieto di allevamento di alcune specie, aggirabile peraltro importando i medesimi animali dall’estero. Quest’ultima “perla” ricorda tanto il divieto di utilizzare per ricerca gli embrioni soprannumerari italiani, altrettanto aggirabile importando dall’estero cellule staminali di derivazione embrionale. Cui prodest tale macchinoso, se non ipocrita, approccio? Se ne facciano una ragione gli animalisti di questo Paese: la sperimentazione animale non può essere eliminata, è parte integrante dei percorsi di approvazione di tutti i farmaci (inclusi quelli innovativi a base di cellule staminali), è essenziale per il progresso della scienza ed è fondamentale per la tutela dei cittadini. L’Europa ci sta dicendo che con il recepimento restrittivo della direttiva il nostro legislatore ha perso di vista la tutela della salute, che è la ragione per cui la sperimentazione su modelli animali viene condotta. La smettano, una buona volta, gli animalisti di parlare in maniera strumentale e demagogica di vivisezione. La vivisezione è già vietata! Tanto che l’Europa ha rigettato l’iniziativa Stop vivisection firmata da oltre un milione e duecentomila europei, di cui 750.000 italiani (dimostrando tra l’altro, se ancora ce ne fosse bisogno, il nostro basso livello di cultura scientifica). Le sperimentazioni animali non sono quelle che i vari movimenti animalisti sventolano come bandiere delle loro campagne ideologiche, in cui immagini raccapriccianti di animali sottoposti alle peggiori torture vengono strumentalizzate per raccogliere denaro e consensi. Nessuno pretende di utilizzare animali in laboratorio indiscriminatamente e senza che ce ne sia strettamente bisogno, considerato che da molto tempo qualsiasi ricerca non può non tener conto del cosiddetto «principio delle 3R». Ovvero, ogni ricercatore deve cercare di: «Rimpiazzare» il modello animale con metodologie alternative (cioè per il momento in pochissimi casi e non certo per ricerche farmacologiche in cui si indaga il meccanismo di azione e di interazione dentro un sistema vivente complesso), “Ridurre” il numero di animali utilizzati e “Rifinire”, e quindi migliorare, le condizioni sperimentali a cui sono sottoposti gli animali (che vengono già allevati in stabulari certificati e accredidati da personale altamente specializzato e impiegati da ricercatori che hanno a cuore il loro benessere anche più dei comuni cittadini, se non altro perché più gli animali vengono rispettati più i dati che si ricavano dagli esperimenti risultano veritieri). Tutto questo era già previsto dalla direttiva europea. Bastava limitarsi a recepirla come hanno fatto gli altri Paesi. Non ci sono quindi evidenze scientifiche della possibilità di sostituire la sperimentazione animale con metodi alternativi. Le ragioni ideologiche basate sul rifiuto della vivisezione, che trova concordi anche i ricercatori, sono prive di fondamento. Rimangono aperte solo le questioni etiche, più variegate e soggettive. E su queste mi vorrei soffermare, in vista anche di una possibile e auspicata attività di revisione del decreto da parte dei nostri legislatori, che la stessa Europa ci chiede per non incorrere nella suddetta procedura di infrazione. Premesso che mi rifiuto di prendere in considerazione la possibilità di sperimentare direttamente sull’uomo farmaci che non abbiano già provati livelli di sicurezza, mi chiedo: a fronte di migliaia di roditori e altri piccoli animali che vengono soppressi dalle nostre amministrazioni comunali durante le campagne di disinfestazione e da noi cittadini stessi quando utilizziamo esche e altri accorgimenti per evitare di avere nelle nostre case sgraditi coinquilini, è più etico utilizzare animali per salvare migliaia di vite umane (come è stato fatto già prima del ’900 con i vaccini e nel secolo scorso con gli antibiotici e i farmaci salvavita che tutti noi oggi utilizziamo, animalisti compresi) o smettere di produrre farmaci e rinunciare a curare le malattie? Non vedo alternative, a meno che gli animalisti (e i loro parenti) non vogliano proporsi come cavie al posto degli amati quadrupedi. © RIPRODUZIONE RISERVATA Michele De Luca