LE UNIVERSITÀ CI POSSONO SALVARE - TAGLI: MONDO ACCADEMICO SUL PIEDE DI GUERRA - RICERCA: I DIFETTI E I RIMEDI - QUELL'INDISPENSABILE AUTONOMIA PER ROMPERE IL LEGAME SERVILE DEGLI ATENEI - IL MERITO? PUÒ VINCERE ANCHE QUI - OCSE: LA LINFA DELLA CONOSCENZA RISTAGNA - SARDEGNA: SCUOLA ELITARIA? NO, SPRECO DI SOLDI - PIÙ FIDUCIA ALL'ITALIA DEL MERITO - QUANDO LO SCIENZIATO CONFESSA: HO SBAGLIATO - LA FUGA DEI CERVELLI E UN GOVERNO IMPOTENTE - COSI’ LE UNIVERSITÀ TRUFFANO I CERVELLI ITALIANI - ======================================================= MANAGER: I SIGNORI DELLA SANITÀ - MANAGER: LA FORMAZIONE È CRUCIALE - MANAGER: SERVONO FIDUCIA E COMPETENZA - MANAGER: POLTRONE INSTABILI, RISULTATI SCARSI - MANAGER: IL MEDICO IN CARRIERA GUADAGNA DI PIÙ - MEDICINALI, LA SPESA RESTA SOTTO IL TETTO - ACQUISTI IN FARMACIA CON IL CODICE FISCALE - SICUREZZA, LE ASL AFFILANO LE ARMI - SANITÀ: L’ULTIMA TROVATA LIBERALIZZARE I VIRUS - CASE FARMACEUTICHE: IL BUSINESS DELLA SALUTE - INDUSTRIA FARMACEUTICA: LE MEDICINE A RISCHIO - CNR IN CAMPO PER MONITORARE LA SALUTE - SARÀ UN INGEGNERE IL NUOVO IPPOCRATE - MEDICINA: I TEST SBAGLIATI - TEST DI MEDICINA LA PROTESTA INVADE IL WEB - PREVENZIONE SLOGAN DELL'ANNO - LA SALUTE SI PROGRAMMA CON I CITTADINI - TIC NERVOSI, ARRIVA UN NUOVO FARMACO - BROTZU: OSPEDALE INFORMATIZZATO TRA I SOSPETTI - SASSARI: UN CROMOSOMA FERMA LA SCLEROSI - PER IL CANCRO AL SENO IL TEST SI FA DAL DENTISTA - LA FORMULA PER VIVERE 14 ANNI IN PIÙ - CELIACHIA, RECORD ITALIANO - ======================================================= ___________________________________________________________________ Repubblica 8 gen. ’08 LE UNIVERSITÀ CI POSSONO SALVARE Prende il via lunedì prossimo a Roma il Festival delle Scienze. Anticipiamo l’intervento di Richard Ernst, Nobel per la Chimica RICHARD ERNST La comunità globale si trova attualmente a un bivio e in vista di un prospero futuro occorre che prenda alcune decisioni. Quantunque nei Paesi occidentali il benessere sia giunto a livelli mai eguagliati in passato e i nostri lussi siano perfino eccessivi, pare improbabile che i trend che caratterizzano l’odierna economia globale e i rapporti tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo possano mantenersi allo status quo per un periodo indefinito di tempo senza incorrere in gravi problemi globali. L’economia del libero mercato, come concetto generale, è diventata la nostra direttiva di riferimento in quasi tutti gli aspetti della vita e delle interazioni umane. Il mito dell’uomo che si è fatto da solo attira la nostra ammirazione incondizionata. I veri vincitori saranno gli imprenditori più forti e più innovativi, così ci è naturale presumere. L’economia del libero mercato si basa sulla concorrenza, che in linea generale segue il principio della selezione naturale formulato da Charles Darwin, rivelatasi così determinante e importante per lo sviluppo della vita sulla Terra. Si ritiene che il sistema economico globale si regga in equilibrio con un network di feedback loop . Unità di misura generalmente accettata per l’ottimizzazione è il «shareholder- value: il buon prodotto è quello redditizio. Qualsiasi prodotto di qualità inferiore sarà naturalmente eliminato. Non è più necessario che sia l’etica a guidare le cose: il sistema è libero di correre e di seguire le sue stesse leggi di concorrenza senza limiti. Chiunque abbia lavorato con i feedback loop elettronici (circuiti di retroazione), che magari includevano qualche elemento meccanico o di corrente e comportavano intrinseci lunghi ritardi di reazione, sa quanto sia difficile ottenere la stabilità e quanto sia facile al contrario che un sistema inizi a vacillare, destabilizzarsi ed eventualmente a collassare. La stessa cosa può verificarsi anche con i sistemi economici che sono estremamente complessi e comportano tempi incredibilmente lunghi (...). E’ improbabile che le iniziative per un cambiamento, o anche per una semplice analisi critica degli attuali trend negativi, siano varate dai leader del settore industriale o della politica. Entrambi questi gruppi di persone, infatti, sono troppo coinvolti nelle quotidiane lotte per la loro stessa sopravvivenza e per la sopravvivenza delle loro istituzioni, per essere davvero liberi di impiegare l’energia sufficiente a prendere in considerazione anche misure anticonvenzionali e di grossa portata che non assicurino vantaggi immediati. Personalmente, sono del parere che spetti alla comunità accademica delle università analizzare criticamente gli attuali trend in economia, in politica e negli stili di vita in vista di un futuro prospero, duraturo e sereno per il nostro pianeta, come pure mettere in guardia l’opinione pubblica e dare consigli costruttivi. Soltanto le università e i docenti universitari hanno infatti la libertà e le risorse necessarie a condurre studi imparziali e obiettivi. Sono state infatti istituite e finanziate dalla società per risolvere problemi urgenti o per suggerire i rimedi necessari. Diversamente dai politici e dai leader delle industrie, infatti, i professori sono abbastanza tranquilli di poter comunicare verità impopolari senza mettere a repentaglio la propria posizione. Possono stabilire da soli le loro priorità e trovare il tempo necessario a riflettere su questioni di vitale importanza. Posso assicurare che le università torneranno a essere centri di ispirazione per il rinnovamento della società e think tank in grado di rispondere a domande di interesse globale e di enorme portata. E’ vero, la scienza e gli scienziati si sono estremamente specializzati, per necessità. Senza specializzazione e senza concentrarsi sui dettagli essenziali, non è più possibile andare avanti. Molte leggi di principi generali hanno un loro riflesso evidente soltanto nei dettagli più minuscoli. E’ in essi che la natura rivela i suoi segreti più intimi. Pertanto, è indispensabile analizzare i dettagli con la massima concentrazione e perseveranza. Tuttavia, gli scienziati che non sono capaci di apprezzare il contesto più ampio nel quale svolgono il loro lavoro quotidiano ben presto si imbattono in un vicolo cieco. Impegnarsi in questioni più generali riguardanti lo sviluppo della società potrebbe influenzare positivamente e stimolare il loro stesso lavoro nell’ambito dei loro piccoli mondi distaccati. Nessuno scienziato può da solo trovare soluzioni durature nel campo dei sistemi globali sociali ed economici. Dare consigli attendibili su una migliore organizzazione globale della società implica la collaborazione di molti scienziati, se non tutti addirittura, compresi i rappresentanti degli studi umanistici e delle arti liberali. Dobbiamo riformare una comunità creativa, unendo, quanto meno ai fini di questi dibattiti, i diversi campi dello scibile umano (...). Vorrei a questo proposito fornire lo spunto per alcune questioni pertinenti che si potrebbero dibattere nelle nostre università nell’ottica di un futuro sviluppo sostenibile della società: - Creare un nuovo sistema etico, che metta d’accordo il sapere scientifico con la compassione e i valori culturali. - Sviluppare concetti innovativi per strutture sovranazionali che regolino il commercio internazionale, le relazioni politiche e lo sfruttamento delle risorse. - Effettuare una transizione dall’«economia del libero mercato » a una «responsabile economia di mercato», che si basi su criteri e principi etici accettati e concordati da tutti. - Migliorare il destino dei Paesi del terzo mondo nell’ambito di un’economia responsabile di mercato. - Ristrutturare le università così che possano vincere le sfide future. - Indagare come «guidare» gli sforzi della ricerca per il miglior supporto possibile a lungo termine della società. - Indagare come fornire un’educazione ottimale all’opinione pubblica in genere sugli argomenti scientifici. Vorrei inoltre suggerire alcune misure finalizzate sul breve periodo a stimolare il dibattito trans-disciplinare proposto tra le varie università: - Nominare professori scientificamente eccezionali, che possiedano inoltre una grande visione e un senso critico di responsabilità globale. - Stimolare la formazione di gruppi di discussione trans-disciplinari ( think tanks ) su questioni globali. - Organizzare settimane di se- minari in un luogo fuori mano per indagare le prospettive etiche, sociali e a lungo termine dello sviluppo. - Discutere regolarmente in seminari di gruppo il contesto generale e l’importanza del lavoro svolto come pure altre questioni di ordine sociale. - Invitare «addetti ai lavori di grande esperienza», e «illustri intellettuali » a parlare nei seminari. - Organizzare conferenze in coppia con un rappresentante delle discipline umanistiche. - Invitare ai corsi e alle proprie conferenze un rappresentante delle discipline umanistiche perché partecipi con commenti di circostanza. - Invitare un rappresentante delle discipline umanistiche agli esami di dottorato per porre domande di ordine generale. - Presentare tutte le conferenze in modo tale che anche un profano della materia possa comprendere l’essenziale (ma non necessariamente tutti i dettagli). - Acquisire la capacità di affascinare anche i non esperti sugli argomenti scientifici. - I giornali più quotati dovrebbero autorizzare la pubblicazione di editoriali e di paper sui temi generali della scienza e della società. Sono convinto che l’attuale carenza di un numero adeguato di studenti nelle materie scientifiche almeno in parte dipenda dall’estrema e scoraggiante specializzazione scientifica e dall’incapacità degli scienziati di esprimersi in termini semplici e comprensibili su temi di importanza generale. (...) Saper parlare di argomenti scientifici al grande pubblico è una delle più grandi sfide che la comunità scientifica deve affrontare. (Traduzione di Anna Bissanti) ____________________________________________________ Italia Oggi 10 gen. ’08 TAGLI: MONDO ACCADEMICO SUL PIEDE DI GUERRA DI BENEDETTA P. PACELLI Rettori, docenti, ricercatori, dottorandi: è un coro unanime di protesta contro la situazione di stallo che si è venuta a creare nell'università, ma anche contro i tagli nella Finanziaria e il decreto mille proroghe. Ma sono soprattutto i tagli introdotti con il maxiemendamento alla manovra che proprio non vanno già alla Conferenza dei rettori e che «vanificano la possibilità di dar corso a qualsiasi patto per l'università». Tenuto conto, infatti, di questi tagli, della mancanza del finanziamento per l'edilizia, degli oneri per gli incrementi stipendiali, il Fondo incrementale di 550 ml di euro, al netto del riallineamento tra il2007 e 2008, si è secondo la Crui «letteralmente volatilizzato e il saldo finale diventa addirittura negativo». A fronte quindi dì grande sconcerto e preoccupazione i rettori chiedono al governo «se e in che misura si intendano ancora rispettare i tanti impegni e proclami nei confronti della ricerca e dello sviluppo manifestati nel corso di questi ultimi mesi». La protesta comprende anche le organizzazioni sindacali di categoria (Adu, Andu,Apu,Auri,Cisal- università, Cisl università Cnru, Cnu, Firu, Flc- Cgil,Snals-università, Sun e Uilpa-Ur) che chiedono a Mussi un incontro urgente per affrontare le questioni più critiche e annunciano assemblee negli atenei per discutere dei problemi del settore. Secondo le organizzazioni e le associazioni della docenza, alle dichiarazioni sul valore strategico per il paese dell'alta formazione e della ricerca «non c'è riscontro nelle scelte concrete operate con la Finanziarìa 2008. Non solo, per le sigle sindacali, erano stati previsti finanziamenti assolutamente insufficienti per la sopravvivenza stessa dell'università, ma addirittura si è proceduto a un ulteriore taglio di oltre 90 milioni di euro del Fondo di finanziamento ordinario». Quanto alla docenza, per le associazioni di categoria, sarebbe opportuno prevedere «un'unica figura pre ruolo che duri al massimo tre anni, adeguatamente retribuita, con i diritti lavorativi e con una autonomia di ricerca». ____________________________________________________ Panorama 17 gen. ’08 RICERCA: I DIFETTI E I RIMEDI Meno nepotismo, più selezione e più soldi, non solo dallo Stato ma pure dalle imprese. Incoraggiandole con sgravi fiscali. di LUCA SCIORTINO Divenire una colonia è per un paese la condizione più triste. Accade quando una nazione sceglie un modello di sviluppo senza ricerca, perde la capacità di produrre conoscenze e cede a imprese straniere settori industriali in cui occupava una posizione dominante. A quel punto, le decisioni più importanti sulle condizioni di lavoro, e dunque sulla vita dei cittadini, verranno prese altrove. È questo un timore crescente tra gli esperti di innovazione scientifica. E non è un caso che il Paese guardi alla politica attendendo decisioni rapide per ripristinare il rapporto virtuoso tra società e comunità scientifica. Le ultime notizie però non sono buone come sembrano. II Consiglio dei ministri del 28 dicembre ha deciso lo sblocco dei concorsi per i docenti universitari, l'assunzione di 1.050 ricercatori e il varo di un'agenzia di valutazione per l'eccellenza universitaria che non produrrà risultati prima del 2010. E qualche settimana prima, in seguito al blocco degli autotrasportatori, il governo aveva tagliato circa 92 milioni di euro alla ricerca: la preoccupazione è che nel 2008 il Prin, il fondo di finanziamento per le proposte libere, si fermi a 80 milioni già stanziati rispetto ai 140 dell'anno scorso. Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa, commenta: «Il governo fa il contrario di ciò che va fatto. Stabilisce che il reclutamento avvenga con vecchi criteri che favoriscono candidati locali e lobby universitarie. Positiva è invece la nuova agenzia di valutazione che il governo sta varando, anche se bisogna vedere come funzionerà. Rischiamo però di andare incontro a una ulteriore ondata di concorsi con criteri squalificati e poco trasparenti». Che sia un momento in cui occorrerebbe maggiore lucidità si capisce osservando come l'Italia non tenga il passo nei settori avanzati. Dal 1960 in poi il Paese ha iniziato a perdere peso in informatica, chimica e industria farmaceutica e ha abbandonato settori come elettronica di consumo, aeronautica civile ed elettromeccanica hi-tech. Questo è avvenuto, come scrive Luciano Gallino, perché «il criterio guida è consistito nel profondere in progetti industriali dissennati capitali immensi; per i salvataggi di aziende private da parte dello Stato; per eventi quali la nazionalizzazione dei produttori di energia elettrica». Oggi la produzione di nuova conoscenza è il fattore primario di crescita: i prodotti ad alta tecnologia hanno un valore aggiunto del 30 per cento rispetto a quelli a bassa tecnologia. Gli altri grandi paesi europei hanno cambiato specializzazione, l'Italia resta con una produzione a contenuto di conoscenza inferiore rispetto agli altri. Sergio Ferrari in L'Italia oltre il declino (Muzzio Editore) scrive che «in questa situazione gli incentivi alla spesa in ricerca contribuiscono al bilancio finanziario delle imprese, ma non possono cambiarne la specializzazione produttiva». Senza adeguati finanziamenti alla ricerca, senza una classe imprenditoriale che voglia rinnovarsi e una finanza che ami il rischio, condizioni indispensabili per l'innovazione, l'Italia vede calare dagli anni SO la curva del rapporto del suo pil rispetto alla media europea. Sembrerebbero buoni motivi per rilanciare i settori ad alta competenza che ancora possediamo, per esempio con forti defiscalizzazioni degli utili d'impresa investiti in ricerca. Ma ciò non avviene. A ben vedere, la spesa in ricerca nel settore pubblico non è tanto inferiore alla media Ckse: 91,2 per cento di quanto, a parità di pil, viene assegnato ai centri scientifici nel resto d'Europa. Però l'investimento in ricerca delle aziende è neanche metà della media Ue. La riprova: ì maggiori paesi europei hanno mediamente sette ricercatori ogni 100 addetti alle imprese, l'Italia due. Il numero totale dei ricercatori è inferiore a tutti i grandi paesi europei: nel 1992 ne avevamo 75 mila e la Spagna 50 mila; ora la Spagna è a l00mila e noi a 70.332. Tra il 2001 e il 2005 sono stati attivati 466 contratti per il rientro di scienziati, ma 300 sono già ritornati all'estero. Eppure, sulla base di questi numeri, i ricercatori italiani avevano prodotto, nel 2003 (ultimi dati verificati) 24.696 articoli di ricerca su riviste scientifiche prestigiose che ci hanno fatto guadagnare il sesto posto al mondo per numero di scoperte. Inoltre, la Sissa e la Scuola Normale figurano tra le prime 24 scuole d'eccellenza al mondo. Si può immaginare cosa l'Italia potrebbe ottenere con un sistema efficiente e meglio finanziato. Il problema maggiore per la ricerca e l'università è l'assenza di valutazioni costanti per la selezione degli specialisti e l'assegnazione dei fondi. Prevalgono le lobby interne alle università che favoriscono amici e parenti. Le scelte politiche di questi anni sembrano dettate da sfiducia nei confronti della scienza. Con il governo precedente erano stati tagliati fondi per la partecipazione a molti progetti internazionali di ricerca. Fino al 2006 era anche stata, per esempio, ostacolata una politica comune europea sulle staminali, anche per per motivi di ordine religioso. II governo attuale non ha puntato su ricerca e potenziamento dei settori ad alta tecnologia, né ha ottenuto risultati concreti per favorire valutazioni trasparenti. Come emerge dalla raccolta Ricerca in Italia (Edizioni Giuridiche Simone), nel fondo First dovevano confluire tutte le risorse, ma si sono visti solo tagli. Quando si telefona per un'intervista a Patrizio Dimitri, ricercatore all'Università La Sapienza di Roma, che ha aperto un blog sulla ricerca (www.salvarelaricerca.blospot.com) e guidato 500 ricercatori per sensibilizzare le istituzioni, lui riferisce di lavorare al freddo perché dalle 14 in poi nel suo laboratorio il riscaldamento è spento per i tagli della Finanziaria 2007. «II percorso legislativo dei fondi Prin è stato un dramma: un anno d'incertezza aspettando che fosse emanato il bando definitivo e ancora non si sa quale sarà il reale ammontare del budget. Forse i politici non sanno che la ricerca scientifica non s'improvvisa, soggetta com'è a competizione internazionale. E la sua interruzione per mancanza di fondi, anche per un anno, produce sprechi e danni». «La prima cosa da fare» raccomanda Settis «è frenare l'emorragia di studiosi ripristinando criteri di valutazione che avvantaggino i più capaci. Poi avviare una politica di ingenti defiscalizzazioni alle donazioni alla ricerca e aumentare i fondi pubblici per potenziare i settori di eccellenza e le aziende che si specializzano in prodotti dì alto valore di conoscenza aggiunta». O Ancora una volta il Paese si ritroverà con una massa di ricercatori assunti con vecchi criteri di scarsa trasparenza. _________________________________________________________ il Manifesto 30 Dic. ‘07 QUELL'INDISPENSABILE AUTONOMIA PER ROMPERE IL LEGAME SERVILE DEGLI ATENEI La lettera aperta di Giulio Palermo ai ricercatori precari dell'università italiana non poteva che suscitare polemiche (il manifesto, 12 dicembre). In molti hanno respinto al mittente le accuse verso la presunta complicità di borsisti, dottorandi, assegnisti nei confronti del potere baronale. Da lusef Hassoun a Marco Di Branco, da Gennaro Carotenuto a Iacopo Zetti, da Carlotta De Filippo a David Lognoli, tutti hanno contestato punto su punto le argomentazioni di Giulio Palermo. Il quale sosteneva una tesi volutamente provocatoria. Da un lato, contestava il fatto che la «qualifica» di ricercatore precario è sbagliata, visto che si è ricercatori solo dopo aver svolto un concorso. Dall'altro sottolineava come molti degli uomini e delle donne che svolgono attività di ricerca nelle università sono complici del regime di cooptazione vigente negli atenei italiani. Tutte le lettere inviate al manifesto ribadiscono, a ragione, il fatto che senza i ricercatori precari l'università italiana sarebbe al collasso. Non solo perché svolgono attività di ricerca in un «ambiente» dove la riduzione dei finanziamenti è una costante da oltre un ventennio, indipendentemente se chi siede a palazzo Chigi sia espressione di una colazione elettorale di centrosinistra o di centrodestra. Non solo perché fanno attività gratuita di tutor verso gli studenti. Non solo perché svolgono esami, anche se non è di loro competenza. Ma soprattutto perché, con passione, puntano a produrre e far circolare conoscenza, mentre gli «strutturati» - i docenti e i rettori.- hanno un atteggiamento proprietario nei confronti dei corsi di laurea o degli atenei che dirigono. In altri termini puntano a salvaguardare un «bene comune» (l'università pubblica) che il potere politico considera sempre più un costo da rimuovere dal bilancio statale al di là della ribadita, e sempre disattesa, fedeltà al pur timido programma di Lisbona, dove i paesi membri dell'Unione europea avevano solennemente preso l'impegno di aumentare i finanziamenti per la ricerca scientifica e per le formazione. . L'aspetto più controverso dell'intervento di Giulio Palermo non è tuttavia la definizione di ricercatore. Il nodo da sciogliere è il rapporto tra ricercatori e docenti. Storicamente, in Italia, è stato sempre un rapporto servile, che è stato messo sotto accusa dal Movimento studentesco del Sessantotto e dal movimento dei Settantasette, che vedeva come protagonisti sia gli studenti che i precari dell'università di quel periodo. Da allora ogni intervento legislativo è stato sempre burocraticamente presentato come una modernizzazione dell'università che puntava, tra le altre cose, a spezzare il perverso doppio legame tra ricercatori e docenti. Cosa che non è mai accaduta. Va però riconosciuto alle diverse organizzazione di lavoratori precari della conoscenza dell'università di aver messo, negli ultimi anni, l'accento sul carattere strutturale della precarietà nella vita degli atenei. E di come la precarietà funzioni come una costante arma di ricatto nelle mani del «potere baronale». Inoltre, va anche ricordato che le speranze che avevano accompagnato il cambio di governo sono state bruciate nell'arco di una finanziaria, quando si è capito che non c'era nessuna inversione di tendenza da parte dell'esecutivo. La contrazione dei fondi per la ricerca e l'università ha infatti continuato a orientare la scelta dell'attuale governo di centrosinistra. Mentre sulla regolarizzazione dei precari ci si è persi nel labirinto delle cifre dei precari da mettere in ruolo o nel più oscuro tecnicismo. Tutto questo quando accade che mancano i fondi non solo per acquistare macchinari o strumenti di ricerca, ma anche la carta igienica. Mentre l'accesso alle funzioni di docenza e di ricerca nell'università non segue solo logiche di classe o di ceto, ma segue i sentieri del nepotismo o del clan. Il vero nodo da sciogliere è dunque quello della precarietà e del suo superamento come condizione di subalternità. Ogni possibile soluzione deve quindi passare non solo sulla presa di parola dei ricercatori, ma sulla loro autonomia dai centri di potere dell'università, Uno dei lettori ha scritto, a ragione, che andrebbe sviluppata e salvaguardata una soggettività politica autonoma dei ricercatori. Una soggettività autonoma, si potrebbe aggiungere, che, punti a stabilire un'alleanza con gli studenti per aumentare i finanziamenti destinati alla ricerca. Perché da far saltare nell'università non è solo il rapporto servile tra ricercatori e potere baronale. Obiettivi dei ricercatori precari, e degli studenti, è anche l'accesso al sapere come diritto universale, la trasformazione e la riqualificazione dei piani di studio, anche autogestendo seminari, mettendo così in crisi quella tendenziale trasformazione dell'università in una fabbrica di forza-lavoro che ha introietta la precarietà come condizione permanente della sua presenza nel mercato del lavoro. E dato che da qui a pochi giorni cominceranno i de profundis del Sessantotto va pragmaticamente ribadito che essere realisti vuol dire chiedere l’impossibile. Oltre la precarietà Un intervento dopo la lettera aperta ai ricercatori precari accusati di essere complici del regime di cooptazione che domina l'università _________________________________________________________ Il Sole24Ore 3 gen. ’08 IL MERITO? PUÒ VINCERE ANCHE QUI di Alessandro Schiesaro Di fronte ai suoi colleghi riuniti a congresso, il presidente dei chirurghi liguri ha affrontato con molta durezza l'intreccio tra medicina e politica nella nomina dei primari ospedalieri, riproponendo quindi sotto diversa angolazione il problema del merito, cioè della sua scarsa popolarità in Italia anche (o soprattutto) nella sfera professionale e intellettuale. Il tema non è nuovo, ma sarebbe sbagliato cedere all'assuefazione: la facoltà di nominare primari da parte dell'autorità politica, la frequenza di concorsi con uno o al massimo due candidati, la possibilità di creare nuovi primariati quasi a piacere ritagliandone altri esistenti e, a monte, il fatto che la scelta dei direttori generali di Asl e ospedali sia compiuta Cencelli alla mano restano patologie che non sono meno gravi solo perché sono diffuse. Chiamato direttamente in causa; 'il ministro della Salute, Livia Turco, ha offerto risposte che soddisfano solo in parte; anche perché le sue scelte in materia hanno già attratto critiche in passato: è vero che d'ora in poi saranno studiosi indipendenti a vagliare i curricula di chi aspira a dirigere istituti specialistici, ma a questa decisione si è arrivati solo dopo le polemiche suscitate dalla rimozione dell'oncologo Francesco Cognetti dal vertice del Regina Elena; e quando si è trattato di nominare il direttore dell'Istituto centrale di Sanità, il ministro si è ben guardato dal chiedere lumi a un panel di esperti. Sostenere oggi che i primari stanno al direttore generale come i dirigenti all'amministratore delegato è indice di una pericolosa semplificazione: Nell'attuale struttura del sistema sanitario i primari devono offrire garanzie scientifiche e gestionali insieme, ma considerarli la "prima linea" del management ospedaliero apre la : strada alla scelta di medici che s'intendo' no più di bilanci che di medicina, e maga: ri anche più di politica che di bilanci. La proposta di riforma contenute nel ' disegno di legge su «Qualità e sicurezza nel Servizio sanitario nazionale» del 16 : novembre, poi, segna un passo avanti, ma : ancora limitato, perché da un lato rende : meno manipolabile la scelta dei direttori : generali, ma allo stesso tempo riproduce nella composizione delle commissioni di primariato i peggiori bizantinismi dei : concorsi universitari, riducendo tra l'altro la sfera dei possibili commissari ai primari di una sola regione. Per un Paese che dovrebbe aspirare a un ruolo di primo piano nella nuova Europa dei sapéri è curioso credere che il Garda o il Ticino rappresentino confini sensati quando si tratta di ~ scegliere professionisti ad altissima specializzazione. Naturalmente, solo a volerlo, cambia : re si può, e qualche segnale incoraggiante ` non manca. La recente riforma della magistratura privilegia la valutazione del merito rispetto all'anzianità, e le nuove regole per la selezione dei ricercatori universitari riducono gli spazi per decisioni : di fatto monocratiche, coinvolgendo un : ampio numero di esperti e commissari, : anche stranieri. Soprattutto, va apprezzato il metodo ' seguito per scegliere il nuovo presidente del Consiglio nazionale delle ricerche. Il ministro Mussi ha costituito un comitato di consulenza composto da eminenti personalità italiane e stranieri; il comitato ha preso in esame numerosi curricula, intervistato un'ampia rosa di finalisti, e infine varato una terna di nomi tra i quali l’autorità politica dovrà compiere la scelta finale. E il tutto in tempi assai rapidi. Il profilo scientifico di questi tre studio; si è impeccabile, come pure di prim'ordine, è la loro esperienza nella gestione di istituzioni scientifiche complesse. Rinunciando a decidere in splendida solitudine - cioè, com'è ovvio, con consultazioni informali e poco trasparenti - il ministro si è messo al riparo da ogni possibile polemica sui meriti scientifici del prescelto, e ha posto le basi per il rilancio di un Cnr sofferente. I però essenziale che l'esempio non resti isolato. Con piccole variazioni, questo è il metodo utilizzato in molti Paesi per ' scegliere non solo le massime autorità scientifiche, ma anche docenti, primari rettori presidi é molte altre figure di primo piano e non. L'esperienza insegna ché se si responsabilizzano nella scelta persone competenti e indipendenti, è possibile esaminare meriti e demeriti con serenità e, dettaglio fondamentale, attrarre un : buon numero di candidati competitivi. Non ci si può rassegnare con cinismo all'idea che ogni scelta sia sempre, inevitabilmente, condizionata o condizionabile da fattori spuri, ché ogni concorso smbra un copione già scritto. Piuttosto, si deve favorire la crescita di norme omogenee che accentuino l'assunzione diretta di responsabilità e incoraggino valutazioni spassionate. Spetta al Governo mettere a punto una politica integrata e coerente in materia: è giusto che l'esempio parta : dall'alto, da posizioni di grande visibilità, ma se si vogliono davvero liberare le energie e le potenzialità del Paese, l'eccezione deve diventare al più presto una regola. _________________________________________________________ Il Sole24Ore 12 Dic. ’07 OCSE: LA LINFA DELLA CONOSCENZA RISTAGNA Il 14 dicembre scorso sono finalmente stati resi noti i risultati del test Pisa (Programme for international students assessment) promosso dall'Ocse ogni tre anni. Il test, che misura le conoscenze scientifiche e matematiche e la capacità di lettura e comprensione dei testi dei quindicenni, è alla terza edizione: dopo le tornate 2000 e 2003, è ora la volta della tornata 2006, che ha richiesto, come sempre, un lungo periodo di analisi e di elaborazione vista l'ampiezza e la complessità dei dati rilevati. In questa tornata il focus principale, anche se non esclusivo, è stato sulle competenze scientifiche. Si tratta di un test molto importante perché fornisce di fatto una misura delle "infrastrutture cognitive", intangibili ma non per questo meno cruciali, della generazione che nel giro di pochi anni si affaccerà sul mercato del lavoro. E in un'economia che ormai fonda una quota non più soltanto crescente ma preponderante del proprio valore aggiunto sulla capacità di produrre e far circolare la conoscenza, è evidente che queste infrastrutture rischiano di essere importanti tanto quanto le strade e le linee telefoniche, se non di più. È lo stesso rapporto a mostrare, se pure ce ne fosse bisogno, come dal 1960 a oggi si sia assistito sui mercati del lavoro a un forte declino della domanda di competenze manuali e di competenze cognitive di routine, mentre la domanda di competenze cognitive non di routine e di competenze legate all'interazione è letteralmente esplosa. La relazione tra performance economica e competenze cognitive è, come prevedibile, forte. Il reddito pro capite di una determinata nazione è in media un buon predittore della performance dei suoi quindicenni relativamente, ad esempio, alle competenze scientifiche. Ma a parità di reddito, ci sono paesi che ottengono risultati molto migliori di altri. Ad esempio, molti paesi dell'Estremo oriente e del Nord Europa ottengono performance superiori a quanto sarebbe prevedibile sulla base del reddito, mentre altri, tra cui gli Stati Uniti e i Paesi mediterranei inclusa l'Italia, ottengono una performance inferiore a quella che sarebbe lecito aspettarsi. La performance italiana, già deludente nelle precedenti edizioni, subisce qui un ulteriore, drastico peggioramento relativo: al 36ésimo posto nelle competenze scientifiche, al 38esimo in quelle matematiche, al 33esimo nelle capacità di lettura. Un risultato preoccupante perché non soltanto nettamente inferiore a quello degli altri paesi leader europei, ma anche fortemente deficitario anche rispetto alla maggior parte degli stessi paesi della "nuova" Europa. E soprattutto preoccupa l'incidenza altissima dei nostri quindicenni che si collocano nelle classi di performance più basse. In particolare, la nostra performance nelle conoscenze scientifiche è statisticamente affine a quella del Portogallo e della Grecia e superiore a quella di Messico e Turchia. Per tutti gli altri paesi Ocse, compresi appunto quelli dell'Est europeo come Ungheria o Polonia o anche paesi non-Ocse come la Croazia o la Lettonia, la nostra performance è statisticamente nettamente inferiore. Da segnalare tra l'altro la performance di paesi piccoli, ma dinamici come la Slovenia e soprattutto l'Estonia che vantano risultati di eccellenza (l'Estonia in particolare arriva al quinto posto assoluto). II dato non è uniforme a livello territoriale: se gli studenti del campione relativo al Nord-est del nostro paese ottengono un buon risultato, in linea con la media europea, e migliore di quello relativo al Regno Unito, il risultato peggiora abbastanza sensibilmente al Nord-ovest e al Centro e crolla letteralmente al Sud, arrivando a livelli di poco più alti dei peggiori paesi Ocse, i già citati Messico e Turchia. A cosa si deve una performance tanto disastrosa? AL disamore dei nostri giovani nei confronti della conoscenza? Paradossalmente, no: ad esempio, se si considerano le opinioni dei nostri studenti circa il fatto che la scienza li possa aiutare a comprendere il mondo che li circonda, o si possa rivelare utile nella loro vita adulta, o sia semplicemente importante per loro, la per centuale che fornisce risposte positive o molto positive è notevolmente ;superiore alla media: l’87% dei nostri studenti pensa che la scienza li aiuti a capire il mondo che li circonda (za punti sopra la media Oese), contro il 67% dei giapponesi o il 76% dei finlandesi, che pure ottengono risultati molto migliori (si veda l'articolo a sinistra). Come si spiega un simile paradosso? Semplice: se si considera un altro aspetto, quello sociale, ovvero la valutazione di quanto la scienza possa aiutare a capire come relazionarsi con altre persone, la nostra percentuale di risposte positive crolla al54%, sette punti sotto la media Ocse. I nostri ragazzi, presi singolarmente, danno peso e valore alla conoscenza, ma credono che il contesto sociale non gli attribuisca lo stesso valore, e questo evidentemente li scoraggia dall'investire nello sviluppo delle competenze individuali. Ciò che ci penalizza non sono le motivazioni dei singoli, ma un clima sociale percepito (e come dare loro torto?) come sostanzialmente penalizzante nei confronti di chi mostra di avere competenze scientifiche. Questi dati descrivono un quadro eloquente, dalle implicazioni fin troppo chiare. In alcuni paesi i dati Pisa vengono attesi spasmodicamente e hanno un grande peso nel dibattito politico nazionale. Da noi, a più di una settimana dalla pubblicazione dei dati, persino il sito nazionale dedicato al Pisa è ancora aggiornato alla tornata 2003 (quello finlandese, tanto per fare un confronto, ha pubblicato i risultati 2006 in tempo reale). Ancora una volta, al di là delle recriminazioni contenute in qualche sintetico comunicato stampa ripreso da qualche testata nazionale, da noi tutto accade nell'indifferenza generale. E questa non è più nemmeno incoscienza: è pura, semplice stupidità. Forse è la nostra classe dirigente, tra le più anziane in Europa, che dovrebbe fare il test... Pier Luigi Sacco insegna Economia della cultura allo Iuav di Venezia Il focus fornisce la misura delle «infrastrutture cognitive» della prossima generazione. I risultati sono molto deludenti ___________________________________________________________________ La Voce 10 gen. ’08 SCUOLA ELITARIA? NO, SPRECO DI SOLDI La Regione e la lotta alla dispersione nei licei classici cagliaritani di Marco Pitzalis Un mio recente articolo pubblicato su www.insardegna.eu ha dato la stura ad un dibattito sulle politiche scolastiche in Sardegna che si è “spostato” su questo giornale. Colgo l’occasione dei rimproveri che Donatella Lissia mi muove da queste pagine per riprendere alcuni spunti e approfondire alcune tematiche che nell’articolo citato per brevità non ho trattato. Le politiche scolastiche in Sardegna, negli ultimi dieci anni, sono state sviluppate in maniera a dir poco dilettantesca, anche se caratterizzate da un professionalissimo spirito clientelare. In questo modo, anche le iniziative più importanti da un punto di vista culturale e di più ampio respiro - come i progetti Marte e Campus - non sono state capaci di imprimere i cambiamenti auspicati. Un altro esempio di spreco di risorse è costituito dal bando emanato sotto la giunta Pili che condusse a regalare al Censis 500.000 euro per una ricerca sulla dispersione scolastica che nessuno cita, perché perfettamente inutile. Ma cos’è successo negli ultimi tre anni? L’Assessorato alla pubblica istruzione ha conosciuto tre assessori: Elisabetta Pilia, l’interim di Mannoni e infine l’arrivo di Maria Antonietta Mongiu. Questo ultimo evento ha coinciso con la decapitazione della dirigenza dell’Assessorato e la nomina di due nuovi direttori generali. È evidente che si è voluto dare un segnale di discontinuità politica ed amministrativa. Per quanto mi riguarda, questa instabilità esprime ed è espressione di uno stato di confusione politica e amministrativa e della mancanza di una visione prospettica e sistemica dei problemi dell’istruzione e della formazione in Sardegna. A tre anni e mezzo dall’insediamento della Giunta ci si dovrebbe aspettare di raccogliere i frutti di un’azione politica coerente. E invece abbiamo assistito ad un nuovo inizio. L’assessore Mongiu (con il suo staff) ha agito come se prima del suo arrivo non ci fosse stato niente. Come se non ci fossero stati progetti, discussioni, ricerca e sperimentazioni. Donatella Lissia sostiene che se avessi letto la delibera non avrei dubbi sulla “svolta” rispetto alle politiche scolastiche precedenti. Mi dispiace deluderla: ma la delibera dei “29 milioni” non è capace di alcuna progettualità, è un semplice - e, per alcuni, consolatorio - ritorno a su connottu scolastico, non ha nessuna ambizione di sistema e brucia tutto ciò che di buono è stato fatto negli ultimi anni. Questa delibera è la più clamorosa delle distribuzioni a pioggia di finanziamenti pubblici nella scuola. Questi soldi vengono impegnati sostanzialmente per svolgere attività didattiche e per far fare ai docenti ciò che dovrebbero fare a lezione, ma che a lezione sembra non siano più capaci di fare. Tali docenti dovrebbero - nel corso delle attività didattiche finanziate - promuovere quegli approcci didattici innovativi che a lezione sembrerebbero non sperimentare. Poiché, inoltre, viene totalmente snobbata la rete informatica creata con i progetti Marte e Campus, ogni istituto rimane chiuso nei propri confini e non vengono incentivati lo scambio e la circolazione di prodotti di eccellenza. Ogni istituto gestirà e distribuirà al proprio interno queste insperate risorse che saranno distribuite in emolumenti di vario di tipo che “finalmente” risarciranno quei docenti esclusi dal banchetto dei progetti. Ogni istituto potrà combattere la propria battaglia contro la dispersione. Anche i due prestigiosi licei classici cagliaritani, il Dettori e il Siotto, avranno la loro parte. Al primo spetteranno - per l’anno scolastico in corso - circa 175 mila euro e al secondo circa 223 mila. Il Siotto riceverà una quota parte di finanziamenti superiore all’istituto professionale Meucci (183 mila euro). E sì, perché quello che conta non è l’origine sociale delle famiglie, il loro capitale culturale di partenza, le risorse economiche: si tiene conto solo del numero di studenti per istituto. E la distribuzione viene fatta in maniera burocratica, mirando a “raggiungere” il 25% degli studenti. Scandaloso, no? Basti pensare che gli studenti in difficoltà sono in maggioranza maschi, di classe popolare, di zona rurale o sub-urbana e hanno scelto in maggioranza le filiere tecniche e professionali. È questo il tipico studente del Dettori e del Siotto, n’est ce pas? Alcuni dati: nell’anno scolastico 2005-2006, nei licei classici sardi gli studenti promossi con debito erano il 31% degli studenti promossi, mentre negli istituti tecnici erano il 43%. Inutile dire che la percentuale dei ritirati e dei respinti sul totale degli studenti raggiunge il 21% negli istituti professionali e il 19% negli istituti tecnici, mentre si attesta all’11% nei licei classici. Il fenomeno del gap formativo - che va ben oltre il problema degli studenti ritirati, respinti o con debito formativo - ha un peso differente negli istituti tecnici e professionali o nei licei, per i ragazzi o per le ragazze, per gli studenti di classe popolare e per gli studenti delle classi medie e della borghesia. Non si tiene conto delle differenze territoriali e delle specificità delle diverse filiere di istituto: per Soru (che ha firmato la delibera) e la Mongiu, Cagliari è come il Sulcis, Sassari come la Barbagia. I dati dicono un’altra cosa. Chi non conosce la situazione politica regionale e le condizioni della scuola in Sardegna potrebbe pensare che questa delibera sia espressione di una visione elitista e classista della cultura e della scuola. Niente di tutto questo. Si tratta di pura e semplice mancanza di progetto politico e culturale. Mi si dice che “questa volta” ci sarà valutazione e monitoraggio. Non ci credo. Nella delibera si parla di autovalutazione di istituto e di fantomatici comitati che serviranno solo a offrire una breve stagione di notorietà a qualche vestale della politica scolastica e del sindacalismo. La situazione è peggiorata rispetto al passato, quando alcuni progetti ambiziosi e d’avanguadia sono stati messi in campo (Marte e Campus). Ora non c’è progetto, non c’è ambizione, non si prevede continuità, non c’è metodo né valutazione. Questa delibera rappresenta, inoltre, una smaccata svolta conservatrice che riduce il problema della dispersione ad una questione di un “ritorno allo studio”. È la rivincita - anzi il colpo di coda - del professore Magister sul professore “animatore”. È la sconfitta di una scuola che - in un caso e nell’altro - è incapace di essere sede di un progetto pedagogico coerente. Non si tiene conto della complessità del sistema dell’istruzione (solo in Sardegna ci si ostina a ragionare in termini di “sistema scolastico”) e dell’articolazione della domanda sociale di formazione. Gli ideologi che hanno animato le politiche scolastiche sarde degli ultimi tre anni hanno spinto ad un ritorno alla centralità della scuola e alla mortificazione del sistema di formazione professionale e ora impongono una svolta tradizionalista - ancorché illusoria e velleitaria - che non mette in questione i curricola, le forme didattiche (se non in maniera generica) e soprattutto la struttura dell’offerta formativa in Sardegna. Per fortuna, questa politica avrà breve durata, forse meno di un anno scolastico che volge a termine, e si esaurirà - e mi addolora - con il più clamoroso e inutile dispendio di risorse. Non si sarà fatta sperimentazione, non si sarà fatta ricerca, non si sarà prodotta conoscenza, non saranno implementati processi, non saranno migliorate le infrastrutture. Proposte e sperimentazioni ci sono, ma in Assessorato non lo sanno Donatella Lissia, che frequenta l’ufficio di gabinetto dell’assessorato, mi invita a fare proposte. Rimango basito. Fino a ad un mese fa l’assessore Mongiu non era a conoscenza del rapporto sulla scuola secondaria sarda che l’Assessorato ha a disposizione dal mese di luglio 2007 e che è stato considerato da chi ha preceduto l’attuale staff come capace di indirizzare le politiche scolastiche regionali. Ora mi sorge il sospetto che l’intero staff dell’Assessorato non abbia visionato i rapporti di ricerca prodotti nel corso del 2007. Li invito dunque a colmare la lacuna e suggerisco loro di prendere visione, inoltre, del video della conferenza svoltasi a Paulilatino il 16 giugno 2007. In quella occasione presentai i risultati di una sperimentazione concernente lo sviluppo dei Poli tecnico-professionali in Sardegna. Alla conferenza parteciparono l’assessore Mannoni, la dottoressa Farinelli (MPI), gli assessori di numerose province, molti docenti e dirigenti scolastici, rappresentanti delle imprese e delle parti sociali. Lo staff dell’assessorato potrà scaricare comodamente i documenti e il video della conferenza dal portale www.conoscere.it (anzi, li prego di volerli mettere a disposizione, insieme a tutta la documentazione esistente, di tutta la comunità scolastica e dei cittadini). Si potrà così scoprire che in Sardegna e nella scuola sarda hanno avuto luogo riflessioni e progettualità che hanno posto - nonostante la pochezza della Regione, l’evanescenza della Direzione scolastica regionale e la litigiosità di molti dirigenti scolastici - la nostra scuola all’avanguardia del dibattito nazionale. Sulla base del lavoro svolto finora ritengo che possano essere indicati alcuni elementi strategici: 1. Occorre investire in programmi di ricerca sulle politiche e i processi scolastici, culturali e formativi di lungo periodo. Occorre affiancare ad una seria ricerca quantitativa un approccio micro che analizzi i processi e le dinamiche sociali, professionali, organizzative nelle scuole, i processi culturali e il rapporto famiglia-scuola. Questi programmi di ricerca devono coinvolgere gli insegnanti al fine di diffondere le conoscenze e le competenze scientifiche tra gli operatori scolastici. 2. Occorre modificare profondamente la struttura dell’offerta di istruzione in Sardegna e la sua distribuzione territoriale. Occorre distribuire equamente nel territorio le opportunità formative in termini quantitativi e qualitativi. 3. A tal fine dovrebbe essere rilanciato il progetto Campus mettendolo nelle mani delle scuole e dei docenti e rovesciando la logica dirigista, centralista, burocratica che l’ha caratterizzato finora. Mi soffermo brevemente sul punto due. Ritengo che il punto di partenza debba essere costituito dagli indirizzi di politica scolastica che stanno emergendo a livello nazionale. In particolare, occorre investire proprio sul settore più debole del sistema: la formazione tecnica e quella professionale. A questo proposito, mi permetto di ricordare che il ministro Fioroni ha lanciato all’inizio del 2007 i Poli tecnico-professionali, che devono essere costituiti come consorzi di scuole, enti di formazione, imprese, che dovrebbero creare i presupposti sistemici per il rilancio di questo settore strategico dell’istruzione. Da questo punto di vista occorre ragionare ad un profondo rinnovamento curricolare, didattico e pedagogico delle filiere tecniche e professionali e alla realizzazione di un’offerta formativa plurale che copra tutte le esigenze di formazione provenienti dagli studenti e dalle imprese (dall’avviamento professionale all’istruzione tecnica superiore). Tali poli costituiscono - secondo la prospettiva che ho indicato in altra sede - il nerbo di un sistema di governance che trasformi lo sfilacciato rapporto tra scuole, enti locali, imprese ed università e faccia emergere delle comunità epistemiche locali collegate a reti epistemiche nazionali e transnazionali in cui si produca conoscenza, si trasmettano saperi, si creino expertise. In Sardegna, il dibattito e la sperimentazione su questo punto sono già avviati. Esistono già gli strumenti culturali e legislativi per darsi obiettivi di sistema, ma occorrono capacità di ascolto, di analisi e di sintesi che in Sardegna sono virtù rare. pitzalis@unica.it _________________________________________________________ Il Sole24Ore 10 gen. ’08 PIÙ FIDUCIA ALL'ITALIA DEL MERITO di Carlo Carboni Tutti noi riteniamo che i nostri talenti vadano valorizzati in patria, che il merito aiuti a emergere negli stu di e nella professione i soggetti socialmente più deboli e che esso sia un valore e un metodo prezioso per promuovere l'interesse comune del nostro Paese. Infatti, come cittadini, preferiamo, all'occorrenza, avere a che fare con medici, insegnanti, capi d'azienda, professionisti e politici capaci e competenti. Tuttavia, quando tocca a noi esserlo, e quindi essere sottoposti a una selezione di merito, non sempre siamo disponibili. Il merito è uno di quei concetti che a parole tutti accettano ma, quando ci riguarda direttamente, accusiamo qualche "mal di pancia" in più. Infatti, studiare bene o lavorare bene costa fatica, anche se sappiamo che, il più delle volte, rilascia sentimenti positivi di soddisfazione e autorealizzazione. Il merito è dunque uno di quei valori che appartiene alla cultura storico-sociale di un Paese: di conseguenza, affinché possa costituire un riferimento per gli habitus sociali, deve essere applicato, come metodo, innanzitutto nei circuiti formativi - educativi. .A1 contrario, il nostro sistema universitario è bersaglio, ormai da qualche anno, di critiche circostanziate per l'ambiguità con la quale funziona la selezione e la valutazione di professori e studenti, ma anche per l'assenza di premialità nella gestione e negli investimenti degli atenei. Non a caso l'autonomia universitaria è rimasta solo un principio e tra gli atenei manca una seria competizione, che non sia catturare iscritti delocalizzando corsi di laurea "sotto casa" degli studenti: ma, in questo caso, il localismo non paga di fronte all'internazionalizzazione dei propri studenti (e professori) promossa dai sistemi universitari di altri Paesi europei, come Gran Bretagna, Francia e Spagna. C'era, ad esempio, un impegno del ministro per una distribuzione premiale del Fondo ordinario ma, ad oggi, sembra tramontato non tanto nei principi (che restano nella Finanziaria recente) quanto nella disponibilità delle risorse dedicate per realizzarli. Le carenze del nostro sistema universitario hanno molte cause, tra le quali le principali appaiono la scarsa attenzione e manutenzione del sistema educativo da parte del potere politico, la mancanza del paradigma del merito come metodo, la liquidità e la vischiosità di un potere accademico invecchiato e refrattario al cambiamento. Lo stato insoddisfacente della nostra meritocrazia educativa, in particolare universitaria, comporta tre importanti distorsioni. La prima è che la nostra università di massa ha schiacciato verso "il basso" la preparazione media dei nostri studenti, che fino a oggi si sono in maggioranza orientati ai corsi di laurea più facili e meno faticosi. La seconda riguarda l'impossibilità che untale sistema universitario (salvo rare eccezioni) possa assolvere bene al compito di costruire una legittimazione della nostre classi dirigenti sulla base della meritocrazia educativa. La terza è che di fatto c'è una sottovalutazione da parte delle nostre classi dirigenti (soprattutto della nostra classe politica) del ruolo che l'università e la ricerca hanno nella nuova modernità sociale, tecnologica ed economica. L'università non è solo una palestra di opportunità di crescita dei cittadini, ma è anche un nuovo straordinario volano per lo sviluppo socioeconomico che, oggi più di ieri, si alimenta di conoscenze tecniche e cognitive. Secondo uno studio diHanusheke Woessmann (aoo7), un miglioramento deciso di tali conoscenze tra gli studenti, in ao anni, porterebbe un aumento del Pil del 36%, mentre senza riforma una tale crescita sarebbe realizzabile in 75 anni. Mettere l'istruzione superiore al centro delle politiche sociali e dello sviluppo, modificare la composizione della spesa sociale, significa aprirsi a una diversa concezione di capitalismo sociale, incamminarsi verso un welfare culturale e tecnologico adeguato ai cambiamenti delle aspettative sociali di sviluppo. Altre nazioni europee hanno già imboccato questo percorso (anche i nostri cugini spagnoli). Un welfare culturale-tecnologico comporta investimenti, ma soprattutto la ricostruzione di una meritocrazia che poggi su provvedimenti incentivanti qualità delle prestazioni e produttività. Va tuttavia aggiunto che la meritocrazia educativa è monca se non è accompagnata da una meritocrazia professionale, poiché le eccellenze educative sono una precondizione importante, ma non sufficiente per avere, eccellenze professionali: Nella vicina Francia, dove il sistema delle Alte scuole ha per anni legittimato la formazione delle classi dirigenti (in particolare amministrative e manageriali), molti osservatori lamentano la mancanza di una meritocrazia professionale e sottolineano i rischi d'implosione di una meritocrazia essenzialmente basata sulle credenziali educative: rischi di formazione di gerarchie di rango, spesso rigide e demotivate, di vere e proprie caste autoreferenziali legittimate dalla "tirannia" del diploma iniziale (Bauer e Bertin Mourot-su L'Esprit). Nel migliore dei casi si hanno brillanti pensatori, incapaci però di prendere parte a quella battaglia che si scatena quando idee e cognizioni vanno realizzate. Può quindi essere ulteriormente distorsivo avere un sistema educativo basato sul merito, se poi nell'esperienza professionale, ad esempio, si adottano retribuzioni impermeabili alla prestazione, alla produttività e al risultato, come avviene tra i nostri dirigenti e dipendenti pubblici ma anche; in parte, nel settore privato. I mortificanti risultati della produttività nel nostro sistema-Paese testimoniano la difficoltà della nostra meritocrazia educativa e di quella professionale. Un'iniezione di merito nelle lauree di "secondo livello", un aumento delle retribuzioni agganciate alla produttività e alla contrattazione aziendale sono provvedimenti di cui il Paese "triste e sfiduciato ha bisogno. La nostra fortuna è che, a questa sciagurata regola di deficit di merito, fa eccezione una parte rilevante del Paese: non solo alcuni nostri ateneí convisibilità internazionale, ma anche gran parte del nostro lavoro autonomo e delle nostre imprese che si muovono nel libero mercato e che di fatto sono motori importanti di mobilità e merito. Certo saremmo più "duemilaottimisti", se in questo anno il Governo, le parti sociali, gli atenei mettessero mano a pochi ma concreti provvedimenti premiali, nello studio e nel lavoro. DISTORSIONI L'università di massa ha schiacciato verso il basso la preparazione - La politica sottovaluta il ruolo dell'educazione per lo sviluppo _________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 2 gen. ’08 QUANDO LO SCIENZIATO CONFESSA: HO SBAGLIATO Il sito di un'associazione culturale ha chiesto a luminari e filosofi di raccontare i propri errori e pentimenti Dalle teorie sull'evoluzione alle differenze tra razze, in rete i mea culpa degli studiosi LONDRA - «Quando pensare modifica la tua opinione è filosofia, quando Dio ti fa cambiare idea è fede. Quando i fatti ti fanno vedere le cose in modo diverso è scienza». Questa l'introduzione al quesito per l'anno posto da un'associazione culturale cui aderiscono i principali pensatori del momento, da Richard Dawkins, lo zoologo britannico autore del libro culto Il gene egoista e più recentemente L'illusione di Dio, allo psicologo Steven Pinker passando per il musicista produttore Brian Eno. Se nel 2006 aveva domandato ai suoi iscritti quale fosse l'idea più pericolosa e nel 2007 su che cosa si sentissero ottimisti, per il 2008 Edge (il sito è www.edge.org) ha lanciato una provocazione: su cosa avete cambiato idea? E perché? L'obiettivo era spingere gli scienziati, gli scrittori e i ricercatori che utilizzano regolarmente il sito ad ammettere, in un certo senso, i propri errori. Centinaia di loro hanno raccolto l'invito (a tanta solerzia ha forse contribuito il fatto che le ultime edizioni delle risposte sono state pubblicate sotto forma di libro), rivelando una gamma di dietro front tra il clamoroso e il simpatico. Mark Pagel, biologo evoluzionista dell'università di Reading, sostiene ad esempio che parlare di differenze tra razze non debba essere tabù. «Gli ultimi studi sul genoma rilevano che c'è tra gli uomini grande diversità genetica. Ci accomuna il gg:5 per cento del patrimonio genetico, non il 99.9 per cento come invece si credeva in passato. Questa è una revisione notevole se pensiamo che con lo scimpanzé la somiglianza è del 98.5 per cento. Che ci piaccia o no, ci sono tra gli esseri umani differenze che possono corrispondere alle vecchie categorie di "razza". Questo non vuol dire assolutamente che un gruppo sia superiore all'altro, ma solo che sia lecito discutere di differenze genetiche tra la popolazione». Per Pinker, invece, che oggi insegna a Harvard, è arrivato il momento di ricredersi sull'evoluzione umana: sino a poco tempo fa sosteneva che l'uomo si fosse isolato dal processo di selezione naturale e che la sua evoluzione si fosse arrestata. Non ne è più sicuro. «Nuove ricerche indicano che migliaia di geni, forse addirittura il io per cento del genoma umano, è stato recentemente soggetto a cambiamenti, una forte selezione che potrebbe aver accelerato le mutazioni nelle ultime migliaia di anni». Per Helena Cronin, filosofa della London School of Economics e direttrice del centro sul darwinismo, se oggi il mondo sembra essere dominato dagli uomini, la colpa non è solo di una certa discriminazione e di differenze di gusti, temperamento e talento, ma anche di una superiore omologazione femminile: «Mentre le donne tendono ad essere a grandi linee dello stesso livello, gli uomini hanno come gruppo maggiore varietà. Il che vuol dire che ci sono tra i maschi più elementi meno intelligenti, ma anche più premi Nobel». Che lo scienziato possa cambiare idea e sia in grado di ammetterlo, secondo Dawkins, è un bene. Anzi, gli fa onore, ha scritto lo studioso sul sito dell'organizzazione creata e diretta da John Brockman, impresario culturale definito «il grande enzima intellettuale del presente»: «Come saremmo inflessibili, rigidi e dogmatici altrimenti». Paola De Carolis ___________________________________________________________________ Repubblica 9 gen. ’08 LA FUGA DEI CERVELLI E UN GOVERNO IMPOTENTE SALVATORE SETTIS L’assegnazione appena annunciata dei primi fondi di ricerca del Consiglio Europeo delle Ricerche (ERC) merita una seria riflessione. Quello di ERC è il più innovativo meccanismo per la ricerca in Europa, basato esclusivamente sul merito e garantito da una rigorosa peer review; e se quest’anno il bando (riservato ai giovani, entro nove anni dal dottorato) era di 300 milioni di euro, i bandi successivi cresceranno di anno in anno fino a coprire la cifra complessiva di sette miliardi e mezzo di euro. L’analisi dei risultati dei concorrenti italiani è la miglior cartina di tornasole per giudicare lo stato della ricerca e dell’università in Italia, la cui crisi (irreversibile?) è sotto gli occhi di tutti. Il confronto con l’Europa è vitale per capire di che morte sta morendo la nostra università. Per questo primo bando ERC si è avuto un numero altissimo di domande, oltre 9000, distribuite fra i vari Paesi in modo ineguale. Solo 300 i vincitori, appena uno su trenta (non si tratta di borse di studio, ma di fondi di ricerca che possono raggiungere i 2 milioni a testa). Nella lista dei concorrenti, l’Italia figurava al primo posto (1600 domande contro le 1000 della Germania, le 800 della Gran Bretagna, le 600 della Francia). Buon segno? No. Se tanti ricercatori italiani si sono rivolti all’Europa, è perché possono contare in Italia su risorse misere, a confronto di quelle dei loro colleghi tedeschi, olandesi, francesi. Ma alla prova dei fatti quale è la percentuale di successo degli italiani? Su 300 vincitori, gli italiani sono 35, contro 40 tedeschi, 32 francesi, 30 inglesi. Risultato comunque notevole: l’Italia, prima per numero di domande, è seconda in Europa per numero di vincitori. Anzi, se si guarda alla “pattuglia di testa” (i 53 ricercatori che hanno avuto il punteggio massimo, 10 su 10), l’Italia è prima con 9 vincitori contro i 7 di Regno Unito e Germania, i 6 di Francia e Spagna. Dunque: l’Italia ha offerto a questi studiosi (età media: 35 anni) un adeguato ambiente di ricerca. Ma questa immagine positiva si capovolge se si guarda al futuro. Proprio perché così altamente selezionati, le scelte che i vincitori stanno facendo sono molto significative. La più importante di queste scelte è dove essi intendono svolgere la propria ricerca, portandosi dietro in “dote” i fondi ERC (mediamente, un milione di euro a testa). Ed è qui che l’Italia subisce una pesante sconfitta. Dei 35 vincitori italiani, solo 22 resteranno in Italia, gli altri 13 se ne vanno in Paesi con migliori strutture di ricerca, e dall’estero ne arrivano solo 3 (due polacchi e un norvegese). Il confronto con la Gran Bretagna è devastante: dei 30 vincitori inglesi, 24 restano nel Regno Unito; ma ad essi si aggiungono ben 34 ricercatori di altri Paesi (tra cui 6 italiani) che hanno scelto di trasferirsi in Gran Bretagna. Per citare solo un altro caso, in Francia restano 27 vincitori francesi su 32, ma ne arrivano altri 12 da altri Paesi (tra cui 2 italiani). Insomma l’Italia, prima per numero di domande e seconda per numero di vincitori, precipita al settimo posto fra i Paesi che ospiteranno queste ricerche, sorpassata non solo da Gran Bretagna, Francia e Germania, ma anche dall’Olanda, ed eguagliata da Spagna e Israele (Paese associato all’Unione Europea per la ricerca). Peggio ancora se guardiamo alla “pattuglia di testa” dei vincitori col massimo punteggio: dei 9 italiani, ben 4 lasciano l’Italia per Inghilterra, Francia e Olanda. Questi numeri sono eloquenti. Per una volta, data la severa selezione che ha portato da 9167 domande a 300 vincitori, i numeri parlano in termini di qualità, non solo di quantità. Ci dicono un’amara verità: l’Italia non attrae come ambiente di ricerca, i nostri giovani migliori non hanno fiducia nel proprio Paese, gli stranieri non considerano l’Italia fra le proprie opzioni. Abbiamo formato ottimi studiosi, ma li spingiamo ad andarsene. In questo saldo negativo, non è solo l’immagine del Paese che si annebbia, ma è il suo futuro, l’indirizzo delle sue politiche, dei suoi investimenti, dello sviluppo (o mancanza di sviluppo) che ci attende. Di una situazione tanto drammatica, il Governo non si mostra consapevole. La Finanziaria 2008 comporta un ulteriore calo dello stanziamento per le università, che si estende anche al 2009 e al 2010: una débacle che ci lascia drammaticamente lontani dall’Europa, salvando a stento la spesa corrente e marginalizzando la ricerca. Ecco perché, dei 35 progetti vincitori italiani, ben 30 vengono da centri di ricerca o da Atenei particolari (Normale, Bocconi), solo 5 da dipartimenti universitari (Padova, Parma, Roma 1, Firenze, Napoli 1). Ma c’è di peggio: dopo due anni di incomprensibile blocco dei concorsi per professore universitario, tutto quello che il Consiglio dei Ministri ha saputo fare (il 28 dicembre) è riesumare gli squalificati concorsi secondo la legge Berlinguer del 1998, pilotati in sede locale onde garantire (nel 90% dei casi) la vittoria del candidato locale, senza alcun rispetto per il merito. Secondo il decreto “milleproroghe”, la mesta riesumazione di questa legge- cadavere varrebbe per un solo anno, ma è difficile crederlo. Se ci son voluti venti mesi di governo Prodi per rispolverare una normativa pessima senza cambiarne una virgola, quanti anni ci vorranno per inventarne una nuova? Intanto si aggirano fra Camera e Senato alcuni disegni di legge che gareggiano fra loro negli sciatti garantismi della promozione sul campo, dell’ope legis, delle terze e quarte fasce, del trionfo dell’anzianità sul merito (ne ho scritto in questo giornale il 5 settembre e il 30 ottobre). In queste condizioni, l’emorragia dei migliori non solo continuerà, ma è destinata ad accentuarsi. Intanto da oltre un anno, nonostante le assicurazioni in contrario, non si è riaperto il bando per il “rientro dei cervelli”, che richiede qualche aggiustamento ma è indispensabile per correggere, sia pure marginalmente, il saldo negativo, la fuga dei cervelli dall’Italia. E’ indicativo che in risposta al bando ERC tornino in Europa dall’America vincitori tedeschi, inglesi, francesi, spagnoli, finlandesi, svedesi, ma nemmeno un italiano: tanta è la perdita di credibilità del Paese sul fronte del “rientro dei cervelli”. Il ministro Mussi è capace di grande lungimiranza, come ha mostrato con la nomina di Luciano Maiani a presidente del CNR dopo una preselezione secondo i migliori standard internazionali. Si stenta a credere che egli possa accontentarsi, dopo due anni di paralisi dei concorsi, della miserevole soluzione che il Governo (stremato, si può supporre, dalla maratona della Finanziaria) ha varato fra Natale e Capodanno. E’ di moda accusare gli accademici di autoreferenzialità: ma non c’è nulla di più auto-referenziale di questo ritorno al passato, quasi che esistano al mondo due soli modelli di università, targati rispettivamente Berlinguer e Moratti. Viceversa, era ed è ancora possibile agire sulla legge Moratti (che quanto meno de-localizza i concorsi) a livello regolamentare, correggendone le storture mediante una prima applicazione sperimentale che, tenendo conto delle esperienze europee, includa commissari anche non italiani (secondo le intenzioni dichiarate dallo stesso Mussi). Se così non sarà, i concorsi localistici che mortificano il merito scacceranno dall’Italia i giovani migliori, saranno una barriera impenetrabile per gli studiosi stranieri, renderanno irreversibile il processo di marginalizzazione e provincializzazione della nostra università. La politica dello struzzo a cui assistiamo con sgomento può solo condurre la ricerca e l’università italiana alla rovina. E’ troppo sperare che il Governo risponda a questo drammatico problema non con ulteriori placebo, ma con un incisivo progetto culturale e politico _________________________________________________________ Il Giornale 8 gen. ’08 COSI’ LE UNIVERSITÀ TRUFFANO I CERVELLI ITALIANI Decreto ministeriale del 2001 e la legge Moratti avevano richiamato decine di geni espatriati. Ma gli atenei li snobbano e ora in molti sono già ripartiti Cinquecento scienziati in fuga erano tornati con la prospettiva di una regolarizzazione. Ma solo 25 hanno trovato un posto Gaia Cesare L'Italia li fa, all'estero li prendono e li premiano. Il BelPaese li forma, li fa crescere nelle sue scuole e nelle sue università, li alleva pieni di sogni, ma i loro sogni si materializzano quando preso il coraggio a due mani, si presentano al check-in e partono per un volo lontano. Nel mondo sono geni, in Italia li trattano da stagisti. Sono i «cervelli» e dietro a questo nome si nascondono le storie e gli studi d'eccellenza di Marco Bruni, astrofisico, vincitore di postdottorati al Queen Mary College di Londra e all'università di Cardiff e tra i fondatori del britannico Institute of Cosmology and Gravitation; Laura Bonesi, 40 anni, biologa> dottore di ricerca all'Università di Oxford è associato all'Università di Newcastle; e poi ingegneri elettronici premiati negli Stati Uniti _per «oustanding research achievements», «straordinari risultati di ricerca» e ancora archeologi, psicologi, cardiologi. Insomma un piccolo esercito i cui curricula sono contesi nel mondo globalizzato dove innovazione, ricerca, tecnologia> sperimentazione fanno la differenza. Fuori dallo stivale un tappeto rosso è pronto ad accogliere queste menti d'eccellenza. In Italia, invece, si materializza la fuga. Così l'hanno chiamata, la «fuga dei cervelli». E non è bastata al nostro Paese per capire quali risorse umane e professionali sta perdendo. Perché dopo 1a fuga, oggi è la volta della «seconda fuga». Sì, le menti erano tornate, ma ora migrano di nuovo. Illusi dal progetto «Rientro dei Cervelli», in molti avevano sperato in un futuro professionale in Italia. Glie lo consentiva il decreto ministeriale n. 13 del 21 gennaio 2001, che prevedeva uno stanziamento iniziale di tre milioni di euro coi quali lo Stato. si faceva carico del 95 per cento dello stipendio degli scienziati sparsi per il mondo che avessero accettato di venire in Italia per inserirsi nelle università di casa nostra. Insomma per un .po' i «cervelli» hanno accarezzato il sogno di tornare a casa, di lavorare per il proprio Paese e perché no - ci dice uno di loro - «siamo italiani, anche per avvicinarci alle nostre famiglie». Speranza vana. In Italia sono tornati si, ma ora in molti sono costretti a ripresentarsi al checkin. Perché di regolarizzazione non se ne parla. Su 499 che hanno usufruito del programma, circa venticinque sono stati stabilizzati, hanno ottenuto il nullaosta alla nomina e sono diventati professori «ordinari» o «associati». Quindici sono in attesa. Tutti gli altri, invece, tra laboratori e studi di rilevanza internazionale, tirano a campare. Di stabilizzazione non se ne parla. Nonostante la legge 230 del 4 novembre 2005, la cosiddetta «legge Moratti», nel suo articolo 1, comma 9, preveda la possibilità di «chiamata diretta» per chi ha aderito al programma «rientro dei cervelli», nato proprio con l'obiettivo di regolarizzare i ricercatori brillanti migrati all'estero. Invece le «menti» italiane aspettano il loro turno, ma il turno non arriva. E in molti hanno già deciso di fare le valigie e ripartire. La ragione della sconfitta? Da una parte l'ostruzionismo degli atenei che dovevano assorbirli, gli ostacoli posti dai «baroni» delle nostre facoltà, il fastidio per queste menti che non hanno fatto «l'italica trafila» e il rischio che i loro curricula insidiassero quelli di chi - anche con tutti i meriti - a quella trafila si è sottoposto. Dall'altra un secondo ostacolo, quello posto dal Cun, il Consiglio Universitario nazionale, che ha deciso di interpretare restrittivamente la legge Moratti. Invece che badare al «livello scientifico» di questi giovani, il Cun si è aggrappato alla formula dei «titoli» equipollenti, sostenendo che per avere l'incarico fosse necessario avere rivestito il medesimo ruolo all'estero. Così ha ritenuto che molti di loro non fossero all'altezza di mettere piede nelle università italiane a pieno titolo. Come dire che se sei arrivato secondo in Formula Uno, non puoi partecipare al Rally di Poggibonsi. I baroni insistono, i cervelli ripartono. E in Italia la ricerca aspetta. ======================================================= ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 gen. ’08 MANAGER: I SIGNORI DELLA SANITÀ. Dai governatori richieste di modifica al Ddl Turco Regioni al contrattacco sui manager delle Asl Confronto al Senato sul collegato alla Finanziaria Roberto Turno ROMA Le Regioni si preparano alla fronda. I senatori aspettano al varco. Il Ddl di Livia Turco collegato alla Finanziaria 2008 che, tra l'altro, cambia le carte in tavola per le nomine dei direttori generali-manager del Ssn con la speranza di mandare gambe all'aria partitocrazia e malapolitica dalla gestione di una torta che supera i 100 miliardi l'anno e occupa il 70% dei bilanci locali, comincerà ad affrontare entro fine mese le forche caudine del Parlamento. E non si escludono novità. Ma tutte da derubricare alla voce "vogliamo trasparenza". Sui destini dei trecento "signori della sanità", insomma, si avvicina il giorno del giudizio. Il provvedimento della Turco (atto Senato 1920), in quanto collegato alla manovra, godrà di una corsia preferenziale. Situazione politica permettendo. Per mercoledì 15 gennaio il presidente della commissione Igiene e sanità, Ignazio Marino (Pd), ha convocato un ufficio di presidenza anche per deciderne l'iter. «Ci vorrà un rigorosissimo approfondimento», anticipa Marino riferendosi al complesso dell'articolato. Per fine mese si potrà partire, a cominciare da un vasto ciclo di audizioni. E d'altra parte le Regioni vogliono far sentire la loro voce. Ai governatori quel testo non piace granché, almeno non a tutti, e non solo di centrodestra. In un prossimo incontro con la Turco, subito dopo metà mese, chiederanno ampi cambiamenti. Sperando di fare breccia in Parlamento. Ecco intanto i paletti che si preparano al Senato. Nessuno vuole spezzare il «rapporto fiduciario» tra i Dg e il governo regionale che li nomina. Ma, a tutto c'è un "ma". La scrematura dev'essere quella della qualità delle scelte e della trasparenza. «Non è vero che la politica deve fare un passo indietro: deve farne uno avanti, scegliendo tecnici all'altezza, dando programmi e indirizzi, con obiettivi precisi e strumenti funzionali all'obiettivo», afferma Marino: «L'ospedale di Vibo Valentia non è come il Niguarda. E la valutazione va fatta sugli obiettivi dati. Chi sbaglia, paga. E così i Dg, e non i partiti, devono scegliere i professionisti migliori. Non dimentichiamo che un fallimento può costare la vita ai pazienti». La meritocrazia al potere, dunque, non la partitocrazia. Enzo Ghigo (Fi), già governatore del Piemonte, ben conosce le dinamiche della sanità pubblica. E sul Ddl del Governo nutre parecchie perplessità. «Si complicano le procedure, si rischiano valanghe di ricorsi al Tar, si segue un percorso che è quasi una foglia di fico, come la commissione che deve valutare i Dg, di derivazione politica». E allora, che fare? «Quel che conta è che la politica sia "buona politica". E che le scelte siano oggettive, non soggettive, e tanto meno partitiche. Ma la vera trasparenza è dire che quella dei Dg è una scelta fiduciaria, di alta amministrazione. Dire, cioé, che la trasparenza sta nella responsabilità della presidenza della giunta. Che deve pagare, se le cose non funzionano». Fiorenza Bassoli (Pd) indica quattro priorità, che in buona parte coincidono con le proposte del ministro: «La verifica delle competenza, da affidare solo ai tecnici. La massima chiarezza sui criteri di selezione e sui posti vacanti, senza fare tutto al buio tra Natale e Capodanno come avvenuto in Lombardia. La necessità di una preparazione adeguata e lunga, senza scordarci che un manager che viene dall'Eni non è per forza adeguato al Ssn. E non dimenticherei il criterio della collegialità: i Dg oggi sono organi monocratici, non va bene». «Ben venga la revisione di queste regole - concorda Cesare Cursi (An), già sottosegretario alla Salute -. Servono trasparenza e competenze manageriali, "fatte" non solo in sanità. Non deve stupire il rapporto fiduciario con la Regione, purché avvenga con criteri oggettivi e precisi di selezione: poi, chi sgarra paga». Piuttosto, aggiunge Cursi, «nel Ddl va inserita una norma che chiarisca il ruolo del ministero rispetto a un federalismo esasperato. Siamo in 21 repubbliche sanitarie, ognuna va dalla sua parte: voglio dire, la Calabria non è la Lombardia...». L'inchiesta Sul Sole 24 Ore di ieri sono stati pubblicati nomi e numeri dei top manager della sanità regionale: due terzi sono stati nominati da giunte di centro-sinistra ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 gen. ’08 MANAGER: LA FORMAZIONE È CRUCIALE Le associazioni dei manager. Federsanità-Anci e Fiaso Barbara Gobbi I manager delle aziende sanitarie, usciti dal guado che ne ha contraddistinto i primi, difficili anni di esistenza, sono pronti per un'assunzione piena di responsabilità e a partecipare al processo di formazione delle nuove leve. Sotto l'ombrello, benedetto dai diretti interessati, del rapporto fiduciario con l'amministrazione che li ha nominati. E, oggi, del Ddl Turco sull'ammodernamento del Servizio sanitario nazionale. A promuovere il provvedimento nel suo complesso sono le associazioni rappresentative degli stessi manager delle Asl e delle aziende ospedaliere, riuniti nelle sigle Federsanità-Anci e Fiaso. «La nostra posizione sul legame che deve sussistere tra il Dg e la politica è molto precisa», spiega Pier Natale Mengozzi, presidente dell'associazione tra Ausl, Ao e Comuni Federsanità-Anci. «Ma - continua - a quindici anni dalla nascita dei primi Dg questo vincolo andava riconfermato sulla base di una riscrittura dei criteri di nomina, dell'evoluzione dei professionisti e del nuovo ruolo assegnato al territorio nella gestione della sanità». In soldoni, per Mengozzi va ora valorizzata appieno una figura che ha superato una zona grigia minata di difficoltà: dall'inevitabile impreparazione culturale dei primi manager fino alle sfide poste dall'esigenza di impiantare criteri di gestione manageriali in aziende connotate dalle logiche del pubblico impiego. «Oggi però - afferma Mengozzi - il sistema ha cominciato a "girare". Il Ssn dispone di una rosa di almeno 50 manager, forti di dieci anni d'esperienza e con le idee chiare. Manager che alla politica chiedono obiettivi chiari e mani libere per realizzarli. Mentre agli enti locali, espressione del territorio, promettono un vero rapporto di fiducia». «Il livello di maturità del sistema - precisa Francesco Ripa di Meana, presidente della Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere (Fiaso) - è ormai tale da sgomberare il campo dalle logiche manichee che bollavano il Dg come asservito alla politica. La nomina politica è un dato di fatto: è inevitabile il legame con gli indirizzi fissati e perseguiti da una Giunta. E l'unica ricetta per evitare storture e lottizzazioni è garantire la qualità del management». Un processo consolidato dalle norme introdotte dal Ddl- Turco, secondo Ripa di Meana. Ma frutto anche del superamento della storica contrapposizione, all'interno dell'azienda sanitaria, tra competenze mediche e manageriali. Nuove sinergie intra-aziendali che dovrebbero consentire al manager di interpretare al meglio le politiche programmate dalla Regione e di riavviare il dialogo in azienda. In quest'ottica la formazione dei manager assume un ruolo cruciale. Fiaso ne è consapevole: «A breve - spiega Ripa di Meana - in collaborazione con dieci centri di formazione avvieremo un'indagine su gap ed esigenze formative percepiti in 30 aziende dalle figure apicali della dirigenza, i probabili manager di domani. Gli esiti di questo "sondaggio" contribuiranno al dibattito sui contenuti della nuova formazione introdotta dal Ddl. Quanto all'addestramento di chi manager è già, la scommessa è promuovere il confronto concreto tra le esperienze, preziose, di quanti da dieci anni svolgono questa professione». ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 gen. ’08 MANAGER: SERVONO FIDUCIA E COMPETENZA Il dibattito e le polemiche che regolarmente si scatenano a ogni fine di nomina dei Direttori generali delle aziende sanitarie e ospedaliere non mi appassiona. Né mi scandalizza il fatto che essi appartengano o vengano di volta in volta attribuiti all'area politica delle diverse componenti (partiti) delle Giunte regionali che li nominano. Sicuramente questo tema è rilevante e determina molto spesso conseguenze negative sulla gestione delle aziende sanitarie, poiché i responsabili delle stesse rischiano di essere più attenti alle esigenze di chi li nomina che non alle esigenze dei pazienti e di chi contribuisce al finanziamento di un diritto fondamentale della persona. Inoltre anche l'esercizio dell'"attribuzione dei Direttori generali a questa o quella componente" diventa sempre più difficile per due ordini di motivi: 1) alcuni manager della sanità sono molto abili ad anticipare i tempi e a "cambiare parrocchia" in tempo utile per le nuove nomine; 2) a sua volta il mondo politico appare molto frammentato anche all'interno degli stessi poli e delle diverse componenti dei poli. Mi sorprende e mi lascia più perplesso il fatto che quasi mai si approfondiscano gli aspetti della professionalità, dell'esperienza, del potenziale delle persone cui sono attribuiti incarichi e responsabilità così delicati. Certamente, quando le nomine sono rese note, sui media appaiono brevi commenti sui candidati, in generale prevalentemente concentrati sulle loro presunte debolezze, ma siamo ben lontani da ciò che capita in altri Paesi nei quali si discutono molto più approfonditamente le caratteristiche dei candidati (prima delle decisioni) e delle persone nominate (dopo le decisioni). A me sembra del tutto naturale che una Giunta che ha un certo orientamento nomini persone che per storia, modo di vedere la società e il ruolo della tutela della salute, siano considerati affini a questo orientamento. Infatti le scelte di politica della salute e sull'organizzazione dell'offerta possono essere efficaci solo se interpretate e tradotte in scelte gestionali da persone nelle quali si ha fiducia e che, almeno, non "remano contro". In questi anni ho provato varie volte a pensare a un sistema capace di tenere lontana la politica dai criteri di nomina dei Direttori generali delle aziende sanitarie, ma l'unico che mi pare veramente efficace è quello di avere politici consapevoli del fatto che, nominando persone di fiducia ma al tempo stesso professionalmente valide, ne possono trarre un beneficio anche sul piano del consenso politico. D'altra parte ciò è quanto accade anche nelle aziende sanitarie private "accreditate" che hanno dirigenti graditi alla proprietà anche se in gran parte utilizzano denaro pubblico, dato l'attuale sistema di finanziamento. La differenza che dovrebbe interessare veramente la popolazione è tra Dg "di fiducia" che però siano dotati anche di un soddisfacente o buon livello di professionalità per ricoprire quella funzione e Dg che siano solo "fedeli", cioè siano nominati solo perché garantiscono l'esecuzione delle direttive e delle richieste dei politici, senza esercitare alcuna autonomia professionale. Anche sul piano dell'informazione dei media, preferirei che ogni settimana, nelle regioni più piccole, o ogni 2-3 giorni, nelle regioni più grandi, si presentasse il "profilo" dei Direttori nominati (esperienza, tipo di formazione e non solo titolo di studio, risultati positivi o negativi ottenuti in precedenti incarichi eccetera), distinguendo così i fatti (chi sono le persone) dai commenti (sono in quel posto solo perché fedeli o perché meritano "fiducia"?). Sarebbe ancor meglio se la società si impegnasse a formare persone con più elevati livelli di professionalità. Se il livello medio degli aspiranti manager della sanità migliorasse in generale, la scelta di persone di fiducia e competenti sarebbe più probabile rispetto alla scelta di persone solo fedeli. di Elio Borgonovi ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 gen. ’08 MANAGER: POLTRONE INSTABILI, RISULTATI SCARSI La «volatilità». Una ricerca del Cergas Bocconi Paolo Del Bufalo Un incarico instabile e troppo legato a dinamiche istituzionali e politiche più di quanto non lo sia a verifiche reali dell'operato professionale. Giudizio secco quello del Cergas Bocconi che nel Rapporto Oasi 2007 scatta una foto della durata degli incarichi dei direttori generali delle aziende sanitarie a dicembre nello scorso anno. Le caratteristiche sono riassumibili nel mantenimento effettivo del mandato troppo breve (nel periodo 1996-2007 la media nazionale è stata di 3,8 anni) e nell'occasionalità della nomina (il 41% dei direttori generali è rimasto in carica, in una o più aziende, al massimo 2 anni), anche se con qualche miglioramento rispetto al passato: nel 2003 i valori erano rispettivamente 3,2 anni e 45 per cento. L 'estrema difficoltà ad amministrare un'azienda sanitaria per i manager, secondo il rapporto, è dovuta a orizzonti limitati di gestione che non lasciano i tempi necessari a realizzare un «progetto» in strutture caratterizzate da numerose complessità come quelle sanitarie e quindi con un «blocco» continuo dei progetti e delle innovazioni e atteggiamenti difensivi per l'incertezza legata al mantenimento dell'incarico. E proprio le dinamiche politiche, secondo il Cergas Bocconi, sono la causa di questa situazione che incide sulle "scadenze naturali" del mandato: cambi di legislatura, modifica delle maggioranze, spostamenti degli equilibri interni alle maggioranze stesse. Rispetto alla durata media dei Dg, Oasi 2007 evidenzia una forte variabilità regionale con il massimo a Bolzano (quasi 8 anni e 6 mesi) e il minimo in Calabria (1 anno e 7 mesi). Confrontando i valori della durata media in base al tipo di azienda, quelle ospedaliere (Ao) hanno una maggiore stabilità rispetto alle Asl. Il manager di una Ao, infatti, rimane in carica mediamente 6 mesi in più di quello di un'Asl: poco più di 4 anni contro 3,6 anni nelle Asl. Questo è dovuto anche alla differenza delle attività svolte: alla relativa omogeneità dell'attività delle Ao (ricoveri ospedalieri) si contrappone la varietà di quella delle aziende territoriali (assistenza ospedaliera distrettuale e sanitaria collettiva in ambienti di vita e di lavoro). Per questo i compiti dei manager delle Ao rispetto a quelli delle Asl sono meglio definiti e la loro valutazione in base ai risultati ottenuti è meno influenzata da elementi di soggettività. Inoltre, il Dg di una Asl deve rispondere a un numero più elevato di interlocutori: i rappresentati della Regione (che impone loro obiettivi soprattutto economico-finanziari) e degli Enti locali (che cercano di indirizzarne le scelte verso uno sviluppo diffuso dei servizi nel territorio). Tra i Dg attualmente in carica , secondo il Rapporto, il 35% svolge questa funzione da meno di tre anni e di questi 20 sono alla prima esperienza. Chi ha lavorato per più di 5 anni come Dg (1,6%) lo ha fatto in più Regioni e di questi circa la metà è ancora in carica, così come chi ha svolto questo incarico tra 6 e 12 anni (6,7%). ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 7 gen. ’08 MANAGER: IL MEDICO IN CARRIERA GUADAGNA DI PIÙ Stipendi. Buste congelate al 2001 e senza aumento Istat Marzio Bartoloni Guadagnano al massimo 150mila euro, bonus esclusi. E dal 2001 i loro stipendi sono praticamente fermi senza beneficiare neppure dell'aumento Istat. Tanto che in più di qualche ospedale il manager vive la beffa di portare a casa una busta paga più bassa di molti medici in carriera suoi dipendenti. Due sole le eccezioni: a Bolzano e Trento, dove i fortunati "paperoni" alla guida dell'Asl, incassano rispettivamente 235mila e 215mila euro l'anno. Per il resto d'Italia i numeri parlano chiaro: le cifre per i direttori generali a malapena raggiungono i 150mila euro e i "colleghi", i direttori sanitari e amministrativi, a fine anno portano a casa tra 90mila e 120mila euro. Praticamente le stesse somme di un direttore di struttura complessa, una delle figure apicali dei camici bianchi e meno del capo dipartimento, una specie di super-primario, che guadagna molto di più. Senza contare i corposi "extra" dei dottori, come la libera professione. A decidere gli stipendi di chi gestisce un potere che vale 100 miliardi all'anno (tanto pesa il Fondo sanitario nazionale) è la Regione. Che può scegliere liberamente come pagare i propri manager delle Asl, ma rispettando il tetto massimo stabilito da un decreto (il Dpcm 319/2001). Un tetto allora calcolato in lire - 300 milioni (155mila euro scarsi) - aumentabili fino a un massimo del 20% se si raggiungono obiettivi e risultati prefissati dalla stessa Regione (dai bilanci in ordine fino alle performance sanitarie). Secondo i dati di una recente inchiesta de «Il Sole-24 Ore Sanità» (aggiornata a inizio 2006) le Regioni più generose sono Piemonte, Lazio, Sicilia e Sardegna con stipendi che per i direttori generali oscillano tra i 155 e i 150mila euro, mentre per i direttori sanitari e amministrativi variano tra i 115mila e i 124mila euro. La più "tirchia" è, invece, la Toscana seguita da Valle d'Aosta, Umbria, Basilicata e Calabria (con guadagni tra i 100mila e i 139mila). «La situazione non è quasi per nulla cambiata - spiega Marino Nicolai, segretario dell'Adsas (la nuova sigla sindacale dei direttori di aziende sanitarie) - e la nostra richiesta, giunta anche ai ministeri della Salute e dell'Economia, è quella almeno di aggiornare i nostri stipendi agli aumenti incassati dai medici con i recenti rinnovi dei contratti». O in alternativa alla crescita registrata dagli altri dirigenti statali non contrattualizzati (dai magistrati ai prefetti) che «dal 2002 hanno beneficiato di aumenti di oltre il 20 per cento». Per Angelo Lino Del Favero, presidente del Forum dei direttori generali di Federsanità-Anci, «bisogna esaltare la nostra dimensione manageriale, adeguando gli stipendi agli altri manager pubblici e privati, e pretendendo risultati sulla base di obiettivi chiari e precisi». ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 gen. ’08 MEDICINALI, LA SPESA RESTA SOTTO IL TETTO Bilanci & previsioni. Uscite in calo nel 2007: restano sotto il 13% previsto Sara Todaro ROMA Dopo anni di stress e tagli, il bilancio delle "pillole" a carico del Ssn si tinge di rosa: i conti 2007 potrebbero tornare, mantenendosi entro il tetto del 13% della spesa complessiva di settore. Per il 2008 invece, il budget complessivo per la spesa territoriale (farmaci ritirati in farmacia, ndr) a disposizione delle Regioni sale di 1 miliardo, ricomprendendo però anche l'onere per i farmaci acquistati con lo sconto di legge e distribuiti - direttamente o tramite le farmacie - da Asl e ospedali. A fissare i paletti delle disponibilità per il 2008 è il decreto della Salute datato 20 dicembre (Gazzetta n. 2 del 3 gennaio) che fissa a 13,79 miliardi i fondi a disposizione delle Regioni, pari al 14% della spesa sanitaria complessiva come previsto dal collegato fiscale alla Finanziaria 2008 (si veda la tabella qui accanto). Buone notizie arrivano anche dall'osservatorio Federfarma (farmacie private) sui conti 2007: la spesa netta Ssn 2007 dovrebbe attestarsi a circa 11.570 milioni (ben al di sotto del tetto del 13%, pari a 12.229, previsto dalla Finanziaria 2007), con una diminuzione del 6% rispetto alla spesa 2006. Il dato - secondo quanto riferito da Federfarma a «Il Sole 24 Ore» - si basa sulla stima di un incremento di spesa del 2% nell'ultimo bimestre del 2007, che conferma del resto il bilancio diffuso dalle farmacie nella pausa natalizia, segnalando in ottobre il primo aumento della spesa netta Ssn in un anno (+2,4% su ottobre 2006) a fronte di un trend gennaio-ottobre comunque positivo (-7,7%). I risparmi - spiega Federfarma - derivano soprattutto dalla prescrizione di farmaci a prezzo più basso - fenomeno determinato principalmente dai tagli imposti dall'Agenzia italiana dei farmaci (Aifa) - e dal maggior impatto dei generici (+24,1% nei primi nove mesi, stima Osmed) che hanno ridotto il valore medio della ricetta dell'11,5 per cento. A pesare sui conti 2008 - ricorda infine Federfarma - sarà però anche la scadenza brevettuale su farmaci ad alto consumo: il risparmio atteso è di 411 milioni. ___________________________________________________________________ Il Sole24Ore 8 gen. ’08 ACQUISTI IN FARMACIA CON IL CODICE FISCALE Sostegno alle cure. Debutta lo scontrino «parlante» ai fini della detrazione fiscale Alessandro Galimberti MILANO In farmacia con il codice fiscale, o in alternativa con la tessera sanitaria digitale. Dal 1° gennaio la documentazione delle spese sanitarie ai fini di detrazione e deduzione fiscale deve essere corredata dallo scontrino "parlante", vale a dire contenente l'indicazione precisa ed estesa dei prodotti acquistati. Il decreto legge del 1° ottobre scorso, convertito dalla legge 222/07, ha infatti messo fine al regime transitorio che, di fatto, derogava alle disposizioni della Finanziaria 2007, consentendo di allegare scontrini fiscali generici nella dichiarazione dei redditi. Dalla scorsa settimana la detraibilità delle spese sanitarie eccedenti la franchigia di 129,11 euro è subordinata alla prova dell'acquisto effettivo di un farmaco. Le farmacie, dal canto loro, hanno l'obbligo di informare con mezzi adeguati la clientela, in sostanza esponendo avvisi all'interno dei punti vendita. Tutto chiaro quindi? Sì e no. Se lo scopo della norma è quello di imputare senza margini di dubbio l'acquisto, e cioè l'utilizzo, di un medicinale a chi intende detrarlo nella dichiarazione dei redditi, si aprono scenari non ancora affrontati. A cominciare dall'acquisto cumulativo per parenti e amici, che uno scontrino pur intelligente e magari anche "parlante" non può risolvere. Quando si porrà il problema della ripartizione delle spese plurime, converrà avere ancora a disposizione le prescrizioni del medico che, secondo i più, riemergeranno puntualmente nelle istruzioni per Unico e 730. I dati per lo sconto in Unico Lo scontrino «parlante» Per poter fruire delle detrazioni fiscali, gli acquisti di medicinali dal 1° gennaio devono essere comprovati dallo scontrino "parlante". Qui sopra è riprodotto il contenuto obbligatorio del documento: l'indicazione della farmacia, dei prodotti acquistati e del relativo prezzo e - a pena di indeducibilità - il codice fiscale dell'acquirente, che peraltro è memorizzato sulla tessera sanitaria. Ma conviene conservare anche le ricette ___________________________________________________________________ ItaliaOggi 8 gen. ’08 SICUREZZA, LE ASL AFFILANO LE ARMI Standard omogenei per raggiungere i 250 mila controlli Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il patto per la salute sottoscritto da governo e regioni Daniele Cirioli La sicurezza riorganizza le forze. È entrato in vigore il 5 gennaio il «patto per la tutela della salute e la prevenzione nei luoghi di lavoro» che ha lo scopo di razionalizzare gli interventi previsti in base alle norme vigenti, al fine di utilizzare più efficacemente le risorse umane, strumentali e finanziarie già impegnate a tutela della sicurezza sul lavoro. L'accordo tra stato e regioni, sottoscritto il 1° agosto 2007 e ora reso esecutivo dal dpcm 17 dicembre 2007 pubblicato sulla G.U. n. 3/2008, fissa tra l'altro il traguardo di almeno 250 mila ispezioni all'anno proporzionate, per ciascuna regione e provincia autonoma, sulla consistenza numerica nelle unità locali delle imprese attive nei rispettivi territori. Nuove norme in pista. Si tratta, dunque, di un'operazione di riorganizzazione delle risorse già impegnate nel campo della sicurezza, al fine di migliorare i risultanti in termini di maggiore tutela per i lavoratori. In premessa dell'accordo, sottoscritto da governo, regioni e province autonome, si stabilisce che la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori è una specifica competenza dell'Ssn e che il «cittadino che lavora» costituisce il riferimento centrale delle azioni previste dal patto. Azioni che sono misurate al particolare scenario produttivo italiano che, come dice sempre l'accordo, è caratterizzato dall'essere costituito per più del 95% da aziende di piccole e piccolissime dimensioni (cioè da 0 a cinque addetti), molte delle quali artigiane e fortemente frammentate sul territorio. Le nuove misure. Numerosi gli obiettivi strategici concordati nell'accordo dei quali, in primo luogo, quelli del Ssn per il consolidamento e lo sviluppo del vigente sistema. Tra cui migliorare l'omogeneità degli interventi di prevenzione (informazione, formazione, assistenza, vigilanza) sia come copertura quantitativa del territorio nazionale sia come metodologia di intervento; rafforzare la capacità di programmare e realizzare le attività di prevenzione secondo criteri di efficacia; disciplinare il coordinamento delle attività di prevenzione e vigilanza svolto attraverso i Comitati regionali di coordinamento (di cui all'articolo 27 del dlgs n. 626/1994). Il raggiungimento degli obiettivi strategici dovrà rispettare criteri e vincoli di carattere generale, omogenei su tutto il territorio nazionale e riguardanti principalmente i livelli essenziali di assistenza (Lea). Sono livelli che rappresentano l'interfaccia di riferimento riguardo le prestazioni erogabili dalle Asl (piani mirati di prevenzione, attività di tutela in generale ecc.). Le regioni si impegnano a operare una razionalizzazione degli interventi che consenta una copertura di almeno il 5% delle unità locali ( Asl) oggetto di intervento ispettivo in un anno; le regioni che già sono in linea con tale obiettivo devono garantire almeno il mantenimento dei livelli di attività erogati. Altro tema importante è quello della vigilanza. L'attività di controllo, secondo l'accordo, necessita di una maggiore omogeneità di copertura in tutto il territorio nazionale; le regioni e le province autonome garantiscono il raggiungimento di standard minimi definiti nei piani nazionali. Obiettivo della razionalizzazione a legislazione vigente è pervenire a un livello di 250 mila interventi ispettivi all'anno, proporzionali, per ciascuna regione e provincia autonoma, alla consistenza numerica nelle unità locali delle imprese attive nei rispettivi territori. Infine, per quanto di stretta attinenza al Ssn, l'accordo fissa, quali obiettivi principali, la costruzione del sistema informativo nazionale integrato per la prevenzione nei luoghi di lavoro e la promozione della partecipazione dei vari soggetti del sistema, per realizzare un adeguato sostegno alle imprese. ___________________________________________________________________ Repubblica 8 gen. ’08 SANITÀ: L’ULTIMA TROVATA LIBERALIZZARE I VIRUS Quando si biasimano gli eccessi ideologici ci si riferisce in genere all’estrema sinistra, eppur tuttavia di questi tempi prolifera impunemente anche un estremismo pseudo liberale che in nome della sovranità dell’individuo provoca non lievi danni. Tra l’altro non sempre avvertiti in tempo dall’opinione pubblica, poiché il riferimento al «pensiero unico» dominante fa sì che i mass- media si adeguino e plaudano a certe iniziative in realtà aberranti. L’ultimo esempio ci viene da quei titoli che sbandierano il via alla devolution dei vaccini (quasi si trattasse dei taxi), aperta dalla decisione della Regione Veneto, cui dovrebbero seguire le altre Regioni, di togliere l’obbligo della vaccinazione di massa dei fanciulli contro le più gravi malattie infettive. In questo quadro va dato atto a Repubblica di aver accompagnato la notizia con la severa critica del Prof. Ignazio Marino, presidente della Commissione Sanità al Senato, confortata il giorno seguente dalla lettera del prof. Guglielmo Gargani, noto cattedratico di microbiologia a Firenze. Ambedue hanno confutato la follia di abolire, in nome della libertà individuale, la protezione certa e garantita dallo Stato nei confronti di morbi terribili, primo fra tutti la poliomielite, debellati negli anni recenti proprio grazie al vaccino, ma che potrebbero riprendere qualora fosse «liberalizzata » la prevenzione. Tanto più in un paese come l’Italia a forte immigrazione e, dunque, soggetta a continui contagi potenziali diretti dalle aree più arretrate del mondo. Ma non mi soffermo sulle critiche scientifiche già esposte dai professori Marino e Gargani, quanto sugli aspetti politici e ideologici, della sciagurata innovazione che, secondo quanto ho letto sui giornali, rappresenterebbe, in base a una presunta direttiva Ue, «un provvedimento da nazione civile che allinea l’Italia agli altri paesi europei», dato che solo in Portogallo e Grecia sussisterebbe la vaccinazione obbligatoria. Non convinto da queste «informazioni» ho fatto di persona due verifiche: una presso una scuola pubblica di Parigi dove mi è stato cortesemente chiarito che non ci si può iscrivere senza il certificato di vaccinazione obbligatoria per polio, difterite e tetano; l’altra presso gli uffici della Commissione europea dove ho avuto una risposta ampia e dettagliata. Orbene a Bruxelles i ministri dell’Unione hanno più volte affrontato i problemi della salute, sempre però nel quadro dei Trattati che lasciano ai singoli Stati la competenza della prevenzione e delle cure delle malattie trasmissibili, fra cui rientrano anche i vaccini. Per contro, a parte alcune raccomandazioni non vincolanti di carattere più o meno generale, normative straordinarie sono state imposte in situazioni di particolare pericolo epidemico (mucca pazza, aviaria, salmonellosi), collegate a decisioni imperative di carattere zooprofilattico, anche in base alla Pac (Politica agricola comune). La collaborazione fra Stati si è, peraltro, estesa a comuni sistemi di allerta, banche dati, coordinamenti informatici di carattere sanitario. Gli interlocutori di Bruxelles hanno voluto specificare che, mentre per quanto riguarda la salute il potere dell’Unione è raramente vincolante, non così nella difesa ambientale: l’Italia in base a due direttive, l’una del 1975, l’altra del 1996, avrebbe dovuto, quindi, dotarsi di un efficace sistema di incenerimento, smaltimento e riciclaggio dei rifiuti. L’ignominia di Napoli, malgrado le ripetute scadenze ultimative, si perpetua senza sensibili variazioni. E’, dunque, probabile che l’Italia il 9 gennaio, quando si riunirà la Commissione, venga deferita all’Alta Corte di Giustizia. Aggiungo – dopo questo inciso informativo – ancora due parole sulla abolizione dell’obbligo della vaccinazione, una decisione – leggo sempre sui giornali – che ci permetterebbe di uscire da «un contesto storico ormai superato, in cui lo Stato doveva decidere della salute dei cittadini». In questa affermazione sta, a mio avviso, il fulcro dell’estremismo ideologico pseudo (insisto sul pseudo) liberale: perché allora non abolire il Servizio sanitario nazionale, diminuire le imposte che ci costa e lasciare i cittadini liberi di curarsi o meno, secondo le loro singole possibilità e desideri? Analogo discorso può farsi per la scuola. Perché mantenere quella che, appunto, si chiama scuola dell’obbligo, una invenzione otto-novecentesca, quando per secoli chi aveva un precettore imparava e chi non lo aveva si dava a più consone attività lavorative? Non è un caso che oggi molti attacchino la sanità pubblica e rivendichino sovvenzioni pubbliche per la scuola privata. Tutto si tiene, a partire dalle vaccinazioni liberalizzate. MARIO PIRANI ____________________________________________________ La Repubblica 8 gen. ’08 CASE FARMACEUTICHE: IL BUSINESS DELLA SALUTE Per promuovere i loro prodotti le case farmaceutiche Usa spendono il doppio rispetto alla ricerca. Così il marketing persuade i medici ELENA DUSI associazione americana degli studenti di medicina ha proposto di integrare il giuramento di Ippocrate: «Prenderò le mie decisioni libero dal l'influenza della pubblicità. Non accetterò denaro, regali od ospitalità che mi mettano in conflitto di interessi con la professione». Negli Usa, che da soli ingoiano la metà delle pillole del mondo, le industrie farmaceutiche spendono per ogni camice bianco l'equivalente di 40mila euro in marketing. Fra i mezzi di pressione più usati: visite dei rappresentanti farmaceutici, campioni omaggio di farmaci, regali, inviti ai congressi. Ma nel bouquet del dirigente di marketing non mancano i finanziamenti alle società scientifiche (che raccolgono tutti gli specialisti di una disciplina), l'accordo con i medici affinché conducano nuovi esperimenti su un farmaco per allargarne il raggio di prescrizione o l'acquisto di pubblicità sulle riviste di settore. Si arriva casi all'assurdo: per pubblicizzare un farmaco si spende il doppio di quanta non costi produrlo e testarlo. Il dato arriva da una studio di due docenti dell'università del Québec di Montreal, Marc-André Gagnon e Joel Lexchin. «Le industrie farmaceutiche statunitensi nel 2004 hanno speso 57,5 miliardi di dollari per la promozione dei loro medicinali, contro i 31,5 miliardi spesi per ricerca e sviluppo di nuovi prodotti» scrivono sulla rivista Public Library of Science Medicine. n euro la cifra si traduce in 39 miliardi contro 21,4 ed è indice di cattiva salute per due ragioni: da un lato il piatto della bilancia della pubblicità è sempre più pesante (la spesa secondo Gagnon e Lexchin cresce di un miliardo di dollari all'anno); dall'altro la ricerca di nuovi medicinali gira a vuoto o quasi. Il 90% dei profitti delle case farmaceutiche arrivano da prodotti vecchi, in commercia da più di 5 anni. Quasi la metà delle pillole "blockbuster" (campioni di vendite) entro il 2009 non darà più profitto perché i brevetti sana in scadenza. E il mancato guadagno per le aziende toccherà i 106 miliardi di euro l'anno. «In psichiatria è dai tempi del Prozac che non abbiamo novità di rilievo. Si conducono sperimentazioni sempre più complesse e costo se per affinare la conoscenza dei farmaci tradizionali, ma di veri progressi neanche l'ombra» spiega Giovanni Battista Cassano dell'università di Pisa. Se una gamba zoppica (l'innovazione), la reazione delle case farmaceutiche sembra essere quella di rinforzare l'altra: la pubblicità. La maggioranza dei medici nega che il marketing delle case farmaceutiche influenzi le loro prescrizioni. Ma il procuratore capo di Verona, Guido Papalia, la pensa diversamente. «Una nostra inchiesta nel 2003 ha coinvolto 23rnila medici per comparaggio, ma la maggior parte dei casi è finita in prescrizione. Per altri professionisti accusati di corruzione e associazione per delinquere il dibattimento è ancora in corso. La casa farmaceutica Glaxo di fronte alle accuse ha finito con il patteggiare 2milionidieuroperreatosocietario». Fra i regali ricevuti dai medici: computer, impianti stereo,libri o nei casi di comparaggio una percentuale sulle vendite dei farmaci. «L'inchiesta scattò a febbraio - racconta Papalia - e il mese dopo la Guardia di Finanza ci fornì i nuovi dati di vendita dei farmaci. In ogni regione d'Italia a eccezione del Lazio le prescrizioni erano diminuite traf8 e il 10%». II conflitto di interessi travalica i confini della professione medica per toccare il giornalismo. A gennaio 2003, dopo un convegno a Santo Dorningo con una trentina di reporter invitati a spese della Schering, uscì la notizia di una nuova pillola anticoncezionale in grado di rendere la pelle più bella. La Medicines Control Agency (agenzia britannica per la regolamentazione dei farmaci) bollò quegli articoli come "pubblicità ingannevole". «Le case farmaceutiche -concludono Gagnon e Lexchin - amano farsi raffigurare come enti impegnati a promuovere la nostra salute. Ma i nostri dati dimo strano che è il marketing la vera benzina che fa marciare i loro motori». Nel numero di venerdì scorso la rivista fama Journal of the American Medical Association) ha analizzato i rapporti finanziari fra singoli medici e industrie negli Usa. Sfruttando una legge sulla trasparenza che è stata introdotta in sei stati, la rivista è riuscita a documentare compensi che in alcuni casi sfondavano il tetto dei 600mila euro per un singolo professionista. Ma se in Europa e Stati Uniti alcuni codici etici e nuove leggi per la trasparenza aiutano quantomeno a far uscire dal torbido i legami fra medici e case farmaceutiche, è nei paesi emergenti che si consuma una vera guerra senza esclusione di colpi. Secondo l'azienda americana specializzata in studi di settore ImsHealth, il futuro del mercato è nei 7 paesi "Pharmerging": Cina, Brasile, Messico, Corea del Sud, India, Turchia e Russia, che marciano con tassi di sviluppo del 12-13 per cento annuo. «Da noi-ha raccontato un medico indiano citato nell’ultimo rapporto "Farmaci, medici e cene" dell'associazione Consumers International - chi prescrive mille confezioni di un farmaco riceve un cellulare, 5mila danno diritto a un condizionatore, l0 mila a uno scooter». __________________________________________________ L’Espresso 4 gen. ’08 INDUSTRIA FARMACEUTICA / LE MEDICINE A RISCHIO FARMACI SOTTO ACCUSA Si acquistano liberamente in farmacia, ma possono avere effetti collaterali molto gravi. Soprattutto nei A bambini e negli anziani. Alcuni medicinali sono stati » ritirati dal mercato. Ma il pericolo è sempre in agguato ROBERTA VILLA L'onnipresente nimesulide, l'Aulin per intenderci, ritirato in Irlanda, Finlandia e Spagna perché può causare gravi danni al fegato. Gli sciroppi per la tosse e il raffreddore messi sotto accusa negli Usa perché pericolosi per i bambini, oltre che probabilmente inutili. Le gocce o gli spray per decongestionare il naso. Il diffusissimo rosiglitazone, antidiabetico, al centro di una bufera dai contorni inquietanti. E lo psicofarmaco olanzapina, che è tra i più venduti. Si allunga la lista dei farmaci che sembrano fare più male che bene. Cominciamo da quelli che ora, in tempo di influenza, sono tra i più venduti nelle farmacie italiane: prodotti da banco per tosse e raffreddore. Dal 2000 a oggi i centri antiveleni statunitensi hanno ricevuto più di 750 mila chiamate in relazione all'uso di questi prodotti, e tra il 2004 e il 2005 più di 120 bambini americani sotto i sei anni sono morti a causa di sciroppi contro i sintomi da raffreddamento. Perché? «È difficile fare un discorso unico su questi prodotti, costituiti da varie misture di antistaminici, decongestionanti, sedativi della tosse, espettoranti», spiega Maurizio Bonati del laboratorio per la Salute materno-infantile dell'Istituto Mario Negri di Milano: «Ognuna di queste componenti di per sé o insieme alle altre può dare effetti indesiderati, e non esistono prove che servano davvero». E di pochi giorni fa uno studio che non ha trovato differenze tra gli sciroppi per la tosse e il classico sistema del latte caldo col miele. Tra i sedativi della tosse è stata la stessa azienda produttrice a ritirare dal mercato mondiale il clobutinolo (Silomat), in commercio in Italia da più di trent'anni, ma per il quale studi su volontari sani hanno dimostrato un aumento del rischio di aritmie del cuore. Di decongestionanti nasali, in Italia, si è occupato un gruppo di lavoro costituito nel 2006 all'interno dell'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) guidato da Maurizio Bonati, che racconta: «Solo dal Centro antiveleni dell'Ospedale Niguarda di Milano abbiamo ricevuto una cinquantina di segnalazioni su questi prodotti. Per fortuna non risultano decessi, ma disturbi del respiro, della coscienza e reazioni cutanee anche importanti». Le autorità raccomandano, quindi, di non usarli sorto i 12 anni di età. Sotto i due, poi, sono assolutamente vietati, anche se, annota Bonati, «essendo prodotti che si possono acquistare liberamente in farmacia, è difficile controllare che questi limiti siano rispettati ». Ma non sono l'unico pericolo in agguato per i bambini raffreddati: «Attenzione c'è per i cortisonici per aerosol, come il beclometasone (Clenil) di cui in Italia siamo i più grandi consumatori al * mondo», aggiunge il farmacologo. A un bambino italiano su quattro, infatti, per ~ogni raffreddore vengono prescritti aerosol a base di farmaci che dovrebbero esse- 3 re usati soltanto negli asmatici. • Alro fenomeno che non ha pari negli altri paesi è la "passione" per la nimesulide, che fino all'ultimo allarme deteneva in Italia il primato assoluto nelle vendite degli antinfiammatori , con una fetta di mercato superiore al 50 per cento. Dai dati della Rete nazionale di farmacovigilanza risulta che i 25 milioni di confezioni di nimesulide vendute ogni anno in Italia, per lo più in bustine prese con leggerezza al primo starnuto o a un accenno di mal di testa, per i dolori mestruali o la lombalgia, hanno provocato anche nel nostro Paese non pochi effetti collaterali: dal 2001 a metà del 2007 le segnalazioni di possibili reazioni avverse sono state più di 700, la metà delle quali considerate gravi. Nello stesso periodo i decessi sarebbero stati solo sul territorio nazionale una ventina. Eppure per molti italiani, ignari che il provvedimento fosse già stato preso da tempo anche in Finlandia e Spagna, la notizia che la nimesulide era stata ritirata in Irlanda dopo alcuni casi letali è stata una doccia fredda. L'Aifa, dopo aver soppesato rischi e benefici, ha deciso di mantenerla sul mercato: può essere usata, ma solo su indicazione specifica del medico, che di volta in volta ne valuta la necessità e l'assenza di possibili altri fattori di rischio come l'abuso di alcol o la concomitante assunzione di farmaci che possono danneggiare il fegato. Gli stessi produttori raccomandano che non venga preso, come di solito accade, per il trattamento di febbre e sintomi influenzali e che non si superino i 100 mg. al giorno. «La scelta di non ritirarlo», spiega Mauro Venegoni, responsabile della farmacovigilanza per l'Agenzia italiana del farmaco, «è stata motivata da una valutazione degli effetti che questo provvedimento avrebbe provocato: sulla base di studi pubblicati in Italia abbiamo calcolato che se tutti i pazienti che usano nimesulide fossero passati ad altri medicinali più sicuri per il fegato, ma meno per lo stomaco, la riduzione di poche centinaia di casi di danni epatici sarebbe stata ampiamente superata da un maggior numero di ricoveri per sanguinamenti gastrici e perforazioni intestinali". Il provvedimento sembra sia stato sufficiente, visto che in poche settimane il consumo del medicinale si è quasi dimezzato, riportandosi ai livelli degli altri paesi europei, dove è solo uno dei tanti antinfiammatori a disposizione, non quello di prima scelta. «È chiaro che in questo campo non esiste il farmaco ideale, che toglie infiammazione e dolore senza nessun tipo di rischio», spiega Venegoni. Lo ha insegnato anche la storia dell'antinfiammatorio per l'artrite rofecoxib, il Vioxx (vedi box, a pag. 129), ritirato quando è emerso che raddoppiava il rischio di ictus e infarto. Eppure in Europa ci sono ancora sul mercato prodotti analoghi. «Sta al medico individualizzare la scelta: il coxib può essere utile nel caso di una persona che ha sofferto di ulcera ma non ha fattori di rischio cardiovascolare», afferma Venegoni. Certo è che la vicenda Vioxx ha mostrato macroscopicamente ciò che, in misura minore, emerge anche dagli allarmi più recenti: la medicina da ingoiare ai primi sintomi di qualcosa, senza pensarci su più di tanto, non esiste. Qualunque cosa abbia un effetto terapeutico rischia di avere anche un effetto collaterale, che in certi casi può essere molto dannoso. Questa verità, oggi sotto gli occhi di tutti, rischia di avere un impatto assai serio sui fatturati delle aziende se si pensa che il fallimento del Vioxx, da cui si prevedeva un ritorno di 3 miliardi di dollari l'anno, ha provocato per l'azienda (Merck) un crollo del valore del mercato di 25 miliardi. Non stupisce, allora, che stia prendendo le forme di un giallo industriale la faccenda del rosiglitazone, antidiabetico diffusissimo col nome di Avandia, oggetto negli ultimi mesi di una battaglia a colpi di lavori scientifici e dichiarazioni degli enti di regolamentazione statunitensi ed europei ( Fda ed Emea ). Premettiamo che entrambe le agenzie continuano a considerare positivo il rapporto tra rischi e benefici del farmaco e del "cugino" giapponese, il pioglitazone (Actos, di Takeda), accusati di provocare scompensi cardiaci e fratture ossee. La questione è cosi riassumibile: il diabete non preoccupa tanto di per sé, quanto per le conseguenze a lungo termine dell'eccesso di zuccheri nel sangue. Tra coloro in cui la malattia è comparsa in età adulta, spesso accompagnata da sovrappeso, colesterolo e pressione alta, i rischi maggiori sono quelli a danno delle coronarie e delle altre arterie. Il rosiglitazone è stato accolto con entusiasmo perché efficace nel ridurre la glicemia: «Peccato che aumenti il rischio di scompenso cardiaco, infarto e ictus», sostiene Steven Nissen, noto cardiologo della Cleveland Clinic dell'omonima città, nell'Ohio, il più fervente sostenitore di questa battaglia. La risposta di altri studiosi era stata che, dall'analisi dei dati, risulta che la mortalità non cambia. Ora, però, l'ultima ricerca pubblicata sul "Journal of thè American Medicai Association" sembra dare ragione ai nemici del rosiglitazone: nei diabetici che hanno più di 66 anni ai rischi noti si associa (come peraltro era prevedibile) anche un maggior rischio di lasciarci la pelle. La vicenda rosiglitazone, come prima quella del Vioxx, riporta in primo piano la necessità che sui tarmaci vengano condotti studi indipendenti, ovvero non finanziati dalle aziende produttrici. È stato il caso di una recente scoperta fatta a proposito di due sostanze, pergolide e cabergolina, usate contro il morbo diParkinson. «Ci siamo insospettiti per l'alta frequenza con cui i nostri malati venivano sottoposti a interventi chirurgici di sostituzione delle valvole cardiache», racconta Gianni Pezzoli, direttore del Centro Parkinson de- gli Istituti clinici di perfezionamento di Milano: « Così abbiamo controllato, con l'ecografia, il cuore di un centinaio di pazienti che prendevano pergolide o cabergolina, farmaci che per il loro meccanismo d'azione potevano essere chiamati in causa, e di una quarantina che invece si curavano con medicine di altro tipo». Mentre tra i primi più di un malato su quattro mostrava gravi danni alle valvole, tra gli altri nessuno presentava lesioni simili. Il lavoro italiano, pubblicato sul prestigioso "New England Journal of Medicine", è stato poi confermato da un'analisi retrospettiva condotta sul Registro nazionale britannico che ha esaminato più di 11 mila persone. Guai seri si prospettano anche per la multinazionale Eli Lilly che produce l'olanzapina, un diffusissimo psicofarmaco venduto col nome di Zyprexa, prodotto di punta da 4 miliardi di dollari di entrate l'anno. Ma, nell'ultimo biennio, 26 mila pazienti hanno chiesto e ottenuto di essere risarciti, per un totale di 1,2 miliardi di dollari. Ma non è rutto: oltre alle richieste di risarcimento, l'azienda deve fronteggiare l'accusa di aver tenuto nascosti i dati che dimostravano per il farmaco un alto rischio di gravi effetti collaterali, tra cui il diabete, e di aver incoraggiato i medici a prescriverlo al di fuori delle indicazioni autorizzate. Il nino complicato dal fatto che la società rivendica il diritto a tenere riservate le proprie informazioni, importanti ai fini industriali. Diversa è stata invece la politica della Pfizer, che con una decisione a sorpresa ha interrotto improvvisamente la sperimentazione di quello che doveva essere il suo blockbuster: torcetrapib, una molecola che facendo alzare il colesterolo hdl, quello "buono", si pensava potesse proteggere il cuore e i vasi. Invece sul campo si è verificato il contrario. E 24 ore soltanto dopo l'annuncio dello stop alla sperimentazione, il valore di mercato dell'azienda è crollato di 21 miliardi di dollari. Ma è probabile che questo sia stato il prezzo da pagare per risparmiare decine di migliaia di vite umane e altrettanti risarcimenti milionari. • Foto: A sinistra: camera sterile di un'industria farmaceutica. Al centro: una confezione di Vioxx. In basso, da sinistra: l'ecografia di un feto; il virus della mucca pazza Foto: Laboratorio di ricerca di una azienda farmaceutica. Sotto: macchina per bottigliette medicinali. In basso, da sinistra: tessuto di un rene; raggi X al cuore; raggi X allo stomaco QUANDO IL RIMEDIO UCCIDE In Italia, nel 2 0 0 7 , le segnalazioni di effetti collaterali seri di farmaci sono già state circa 7 mila, oltre il 50 per cento in più rispetto all'anno scorso, ma ancora molte meno rispetto a Gran Bretagna e Francia, dove se ne raccolgono circa 2 0 mila l'anno. Negli Usa, invece, secondo uno studio appena pubblicato sugli "Archives of Internai Medicine", nel corso del solo 2 0 0 5 e soltanto negli Stati Uniti l'uso di farmaci ha messo seriamente in pericolo la vita di 9 0 mila persone e ne ha uccise più di 15 mila. Mentre in sette anni sono aumentate del 5 0 per cento le prescrizioni dei farmaci, sono più che raddoppiate le reazioni avverse classificate come gravi e quasi triplicate le morti. L'incremento delle segnalazioni è un dato positivo: non significa che i farmaci siano diventati tutto a un tratto più pericolosi, ma piuttosto che si sta lentamente diffondendo tra medici e infermieri l'abitudine a segnalare i casi sospetti. «E comunque le cifre ufficiali non rispecchiano fedelmente il numero di reazioni che effettivamente si verificano», aggiunge dall'Alfa Mauro Venegoni: «Si calcola che in media a essere segnalato sia soltanto il 5-10 per cento dei casi. Quel che conta è, però, che si stia diffondendo tra i medici la consapevolezza dell'importanza di questa rete». ____________________________________________________ Avvenire 12 gen. ’08 CNR IN CAMPO PER MONITORARE LA SALUTE FRANCESCA PALOMBI Saranno sangue e latte materno a rivelare il tipo di relazione che sussiste tra inquinamento ambientale e stato di salute. Eepidemiologo Fabrizio Bianchi, dell'istituto di fisiologia clinica del Cnr, ha infatti annunciato l'avvio di una nuova ricerca per «capire meglio la connessione tra ambiente, contatto con materie inquinanti e danni alla salute». Un primo dossier, relativo alla situazione di alcuni siti - legali e illegali - delle province di Napoli e Caserta nel periodo 1995-2002, era stato pubblicato lo scorso giugno dal rapporto, i ricercatori avevano evidenziato numerose e significative associazioni tra salute e rifiuti, rivelando un’impennata di malattie, come tumori ai polmoni o al fegato, linfomi e malformazioni congenite, cresciuti dell'84 per cento. In particolare, gli otto comuni maggiormente esposti allo smaltimento abusivo presentavano un aumento dei tassi di mortalità del 12 per cento tra le donne e del 9 per cento tra gli uomini, rispetto a centri delle some province nei quali il fenomeno ha una minore incidenza. Stessa situazione per le malformazioni congenite, il cui rischio ha superato l'80 per cento. Per quanto riguarda l'emergenza di questi giorni, Fabrizio Bianchi sottolinea che «anche se la situazione è preoccupante e varino adottate urgenti misure di riduzione del rischio, non sono stati rilevati eccessi per molte cause di mortalità e malformazioni». La situazione, secondo l'epidemiologo, resta comunque molto seria. «Non esiste un " triangolo della morte": la geometria dell'emergenza rifiuti è ben più complessa e non si ferma ad Acerra, Nola e Merigliano». Comprendere la relazione tra ambiente e salute potrebbe essere il primo passo per avviare politiche corrette e adeguate in tutta la regione: proprio questo è il fine del nuovo studio che coinvolgerà oltre 100 scienziati e ricercatori del Cnr e dell'Istituto superiore della sanità, in collaborazione con cinque Asl locali. E mentre gli studiosi si preparano ad analizzare latte materno e sangue alla ricerca di metalli e diossine e di possibili danni alla salute, l'emergenza rifiuti di questi giorni miete le sue prime vittime. Si tratta di formaggi, latte, frutta e ortaggi. Secondo la Confederazione italiana agricoltori, infatti, il settore dei prodotti tipici ha subito un «forte calo delle vendite, conseguenza dell'immagine negativa che sta offrendo la regione e dei blocchi stradali che non hanno permesso il trasporto della merce». Accanto a questi danni, vi sono poi quelli relativi al «possibile inquinamento causato dai rifiuti bruciati che possono sprigionare diossina e contaminare terreni e falde acquifere». __________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 13-12-2007 SARÀ UN INGEGNERE IL NUOVO IPPOCRATE Scenari Le ultime conquiste microtecnologiche, accanto alla biogenetica, cambieranno il modo di pensare a patologie e vecchiaia Nanorobot in viaggio per il nostro corpo sostituiranno le cure del medico tradizionale di EDOARDO BONCINELLI La vita media dell'uomo sta aumentando a un ritmo costante di circa un trimestre l'anno e questo andamento continuerà almeno per altri venti-trent'anni. La vita media delle donne si porterà così a novant'anni e quella dei maschi a ottantatrè-ottantaquattro. Senza fare praticamente nulla di nuovo, se non continuare a lavarsi, a disinfettare gli ambienti, a nutrirsi e a curarsi come abbiamo fatto negli ultimi vent'anni. Questa è già di per sé una prospettiva non irrilevante e non 'priva di conseguenze, anche per quanto riguarda l'organizzazione della compagine sociale. Non ha senso, d'altra parte, prolungare la vita se non si cerca concomitantemente di viverla mantenendosi il più a lungo possibile in forma, almeno in forma fisica. L'argomento che viene subito in mente a questo proposito è quello dei trapianti e, più in genere, della medicina rigenerativa. Fondamentale per affrontare la maturità e la vecchiaia, stando in una forma accettabile; é la possibilità di sostituire senza eccessivi problemi tessuti e organi danneggiati. Questi possono essere di volta in volta danneggiati per un incidente, per un tumore, per un evento circolatorio avverso, per una malattia degenerativa o semplicemente per l'operato degli anni. 11 ricorso a uno o più trapianti dovrebbe divenire insomma domani una pratica ordinaria, piuttosto che un intervento straordinario come è oggi. Per fare questo occorre poter disporre di tessuti e organi in quantità e varietà sufficienti. Ciò non può essere ottenuto che attraverso l'uso delle cellule staminali. Occorre cioè disporre di cellule stamina} li in abbondanza e di metodiche adatte e affidabili per indirizzare le stesse verso il destino biologico a noi desiderato. Ciò non è ancora alla nostra portata, per tutti i problemi ben noti riguardanti la maniera di procurarsi cellule staminali efficienti in abbondanza e per il fatto,, ben più grave, che non si conoscono ancora che pochi trattamenti ai quali assoggettare le cellule stesse per ottenere quei tessuti e quegli organi che ci saranno necessari. Per quanto riguarda in particolare le cellule staminali cosiddette adulte, ci sono laboratori che ci giocano da trent'anni senza risultati apprezzabili. Tutti sono convinti però che nel giro di un paio di decenni la maggior parte di questi problemi saranno superati e si potrà contare così su veri e propri «pezzi di ricambio» biologici ogniqualvolta questo si rivelerà necessario, anche allo scopo cioè di un puro e semplice «ringiovanimento» di qualche parte rilevante del nostro corpo. È proprio a questo proposito che non è chiaro se i maggiori avanzamenti verranno dalla medicina o dall'ingegneria e dalle cosiddette nanotecnologie. Se è vero che organi come il fegato o come il pancreas non potranno essere tanto facilmente sostituiti con una protesi ingegneristica, molte funzioni degli organi di senso e, entro certi limiti, nervose, potranno essere espletate da protesi più o meno miniaturizzate e quindi invisibili (...). Recentemente è stato compiuto poi un passo avanti gigantesco anche per quanto riguarda le funzioni esecutive del cervello. Se si impianta un microchip in una data regione della corteccia motoria, si può ottenere che questo amplifichi di molto il debole segnale elettrico che quella produce allorché si mette in atto, o si pensa di mettere in atto, una specifica azione. II segnale amplificato può essere raccolto e ulteriormente amplificato da un apparecchio esterno che mette poi in moto un congegno a motore. Si può così. pensare di aprire la finestra e aprirla effettivamente senza toccarla. Un sistema del genere può avere un'importanza pratica immediata per persone paralizzate (...). Oltre a mantenersi in forma, occorre anche non essere gravati da troppe malattie serie. Appena si pensa a una grave. malattia nel mondo di oggi si pensa ai tumori. Su questo versante nei prossimi decenni ne vedremo delle belle, anche se non è proprio il caso di cedere a eccessivi entusiasmi. I tumori sono un complesso di patologie, piuttosto che una patologia singola, e si ripresenteranno sempre finché ci saranno esseri viventi. Soprattutto esseri che vivono a lungo. Si possono prevedere e curare, ma non estirpare. Occorre quindi prepararsi a una lunga battaglia. In questa battaglia potrebbero entrare a pieno titolo alcune delle ultime conquiste delle cosiddette nanotecnologie. A tal proposito si parla sempre più spesso di nanovettori e nanosonde da inviare all'interno del nostro corpo. Si possono oggi costruire nanoveicoli delle dimensioni di qualche decina di nanometri - miliardesimi di metro o milionesimi di millimetro - che possono entrare nella nostra circolazione sanguigna e addirittura dentro le cellule. Questa impresa può avere due finalità: portare un farmaco fino nel cuore della cellula, e in questo caso si parla di nanovettori, oppure inviare una nanosonda a «dare un'occhiata» a quello che sta succedendo dentro una cellula, per poi farcelo «raccontare». Uno degli obiettivi principali dell'uso delle nanosonde è proprio quello della diagnosi precoce dei tumori. Per nostra fortuna, questi ultimi nascono per lo più assai piccoli: un gruppetto minuscolo di cellule perde il controllo della propria moltiplicazione e comincia a espandersi in maniera sregolata, a danno delle cellule normali circostanti. Per secoli ci siamo accorti dell'esistenza di un tumore soltanto quando questo aveva raggiunto una massa considerevole. La moderna biologia molecolare ci mette invece in condizione di rilevare l'insorgenza di un tumore quando questo è ancora piccolo o piccolissimo. Se riuscissimo in questo intento, nessun tumore rappresenterebbe più un pericolo. Gli strumenti biologici per far questo esistono, perché sappiamo con una certa precisione che cosa caratterizza la cellula divenuta tumorale rispetto a tutte le altre. II problema è piuttosto quello di rilevare un segnale cellulare straordinariamente debole sullo sfondo di un organismo vivente composto di decine di migliaia di miliardi di cellule. Non sappiamo, al momento, se questo problema sarà risolto con strumentazioni globali sempre più sensibili e selettive o se sì ricorrerà proprio alle nanosonde, strumento impensabile fino a qualche anno fa. La prospettiva è affascinante e, secondo, qualcuno inquietante. Oltre a mandare satelliti e shuttle nello spazio extraterrestre, l'uomo si accinge a inviare «navicelle» miniaturizzate all'interno delle singole cellule del proprio corpo. Tali nanosonde potrebbero viaggiare nel torrente sanguigno, uscire da questo e penetrare agevolmente in una nostra cellula, se non nel suo nucleo, per rilevare con opportuni nanosensori la presenza di sostanze dotate di significato diagnostico. La navicella microscopica in questione potrebbe anche portare farmaci in loco, oltre che spiare che cosa sta succedendo in questa o quella cellula. Data la loro potenziale versatilità, qualcuno ha già battezzato nanorobot queste navicelle attrezzate per compiere diverse funzioni in maniera semiautomatica (...). _________________________________________________________ Il Manifesto 3 gen. ’08 MEDICINA: I TEST SBAGLIATI Scrivo a nome di- oltre 3000 studenti, accomunati dal desiderio di diventare medici, desiderio infranto quest'anno da un test di ammissione formulato erroneamente: di 80 domande, siamo stati valutati solo su 78, perché due sono state annullate. Inoltre, alcuni giorni prima i test sono stati trafugati all'Università di Catanzaro. Mussi ha dichiarato l'annullamento delle prove in quella sede, convalidandole però nel resto d'Italia. Intanto a Bari, Ancona, Bologna e altre città vengono scoperte vere e proprie società truffaldine per aiutare alcuni studenti a superare il test previo pagamento di alte cifre. Il ministro Mussi dichiarava su Il Messaggero di essere pronto ad adeguarsi ai ricorsi ai Tar, di voler punire i truffatori di Bari e la commissione che ha formulato i quesiti. Intanto il rettore dell'ateneo barese li annulla. A ottobre viene presentato il mega ricorso dell'Udu e centinaia di altri ricorsi in tutta Italia. Vengono rifatte le prove a Catanzaro ma non a Bari. II Codacons ha incitato gli studenti a presentare ricorso ipotizzando l'annullamento del test a livello nazionale, cosa che avviene presso il Tar di Napoli, dove oltre 300 ragazzi ottengono la sospensiva che consente l'immatricolazione con riserva. Due giorni dopo il ministro Mussi, superando la sentenza dei giudici amministrativi, emana un decreto di conferma degli atti di correzione del test, cosa a mio parere inaccettabile in un paese, che annullando ogni sospensiva. Alla Camera dei deputati il 19 dicembre scorso, il ministra Mussi risponde all'interrogazione parlamenta dell'on. Pellegrino affermando la piena regolarità del processo correttivo. Invece per questo errore migliaia di ragazzi sono stati esclusi. Come se non bastasse, i ministri Mussi e Fioroni hanno preparato una legge che attribuisce 25 punti al 20% degli studenti migliori delle superiori (con un punteggio maggiore di 80/100) che vogliano accedere alle facoltà disciplinate dalla legge 264/99. Secondo loro questa sarebbe la soluzione per dare serietà ai test e per facilitare la scelta degli studenti, in realtà impedisce l'accesso alle facoltà disciplinate dalla legge 264 per quei studenti che non eccellevano alle superiori o che hanno scelto di frequentare un istituto tecnico e quindi, non studiando talune materie, non si vedrebbero attribuiti dei voti che altri, in base alla scelta effettuata (dai propri genitori) all'età di 14 anni, avrebbero di diritto. Viene inoltre premiata la lode, evidentemente scordandosi che prima dei 2007 questa non veniva attribuita e creando così la seria possibilità di discriminare quei diplomati che finora non si sono potuti iscrivere. Noi studenti chiediamo di poter studiare ciò che preferiamo, ma chiediamo soprattutto giustizia, perché per questi errori migliaia di studenti sono stati esclusi. futmedici@gmail.com _________________________________________________________ Il Sole24Ore 4 gen. ’08 TEST DI MEDICINA LA PROTESTA INVADE IL WEB NON SI PLACA la rabbia dei ragazzi che lo scorso settembre si sono cimentati col test d'ingresso alla facoltà di Medicina. «Scrivo questa lettera a nome di 3mila studenti. Ci accomuna il profondo desiderio di diventare medici. Desiderio infranto quest'anno da un test di ammissione formulato erroneamente». Inizia così la lettera inviata da una studentessa e replicata in centinaia di copie via mail. «Noi aspiranti matricole - ricorda la ragazza, - ci siamo trovati davanti un questionario con 80 domande, ma siamo stati valutati solo su 78 quesiti. E questo perché due sono stati annullati: il primo perché presentava due risposte esatte e l'altro perché le risposte esatte non c'erano proprio». Inoltre, continua la ragazza, «i test sono stati trafugati all'Università di Catanzaro alcuni giorni prima della prova. In questo modo, si è violato il principio di segretezza che è alla base del test». Quindi, la giovane ripercorre le varie vicende che si sono susseguite dopo l'esplosione dello scandalo. «Il Ministro Mussi - accusa la ragazza, - reputa del tutto legale l'annullamento di due quesiti in un concorso pubblico, ignorando così del tutto il tempo che alcuni ragazzi hanno perso per cercare di risolvere due domande impossibili». «E' inaccettabile - continua la studentessa, - che prima il Ministro ci abbia consegnato un test sbagliato, e che poi con un colpo di penna abbia cancellato tutti i nostri sogni di diventare medici, superando addirittura la sentenza del Tar. Noi studenti chiediamo solamente giustizia e di poter realizzare le nostre aspirazioni. Non accettiamo di essere presi sempre in giro da un Ministro incompetente, che pensa solamente alla sua poltrona. E soprattutto ci chiediamo come può un Ministro dell’Università essere così potente da superare i giudici amministrativi italiani con un decreto che, emanato due mesi dopo il test, dopo un mese non è ancora stato ufficializzato». E.G. ___________________________________________________________________ La Repubblica 10 gen. ’08 PREVENZIONE SLOGAN DELL'ANNO Vaccini, screening e diagnosi precoci Sarà un anno di transizione, di attesa su temi forti e spinosi quali il futuro della ricerca e dei ricercatori. Perché se in rutta la medicina è tangibile un lento seppur costante divenire è indubbia la limitatezza di investimenti e la drammatica scarsezza di competitivita. «In alcuni settori la ricerca è avanzata, certo, ma si tratta di piccola e media industria soprattutto biotecnologica», dice Claudio Bordignon. membro dell'European Researche Counsil, «bisogna far aumentare i finanziamenti del privato, poco incentivato, eliisogna investire di più sul pubblico ma in modo qualitativo». L'Ere ha stanziato 7,5 miliardi di euro per la ricerca informatica e biologica, sono arrivate 9 mila domande da tutta Europi!. 1.600 dalla sola Italia. «Questo significa che la situazione è disperata, i nostri ricercatori non hanno alternative, bisogna creare regole certe, incentivare chi investe, far posto alla meritocrazia», commenti Bordignon. Il cambiamento deve partire dalle università. «Il problema non è modificare i concorsi», afferma Franco Cuccurullo, rettore dell'Università di Chieti-Pescara e presidente del Consiglio superiore della sanità, «le università devono trovare standard qualitativi interni, creare l'abito scientifico dei ricercatori e attribuire risorse a quei ricercatori in grado di assicurare quegli standard». Reclutamento per merito, guadagno del ricercatore e produzione sono i punti che consentiranno il salto culturale della nostra ricerca. Malgrado le inevitabili contraddizioni legate alla cronica carenza di soldi e ai nuovi tagli, le novità non mancheranno anche con qualche chiaro-scuro. Si presterà attenzione sempre maggiore alla prevenzione primaria grazie agli screening e alla diagnostica non invasiva. La chinirgia robotica avanzerà a grandi passi tanto che la rivoluzione annunciata potrebbe modificare profondamente la cardiochirurgia, la chinirgia oculistica, cerebrale e vascolare. L'introduzione della profilassi vaccinale contro il papillomavirus porterà a cambiamenti importanti i cui risultati si potrà iniziare a valutare, in termini di salute femminile, nell'ultima parte del 2008. Proseguiranno le sperimentazioni e le applicazioni con le staminali, migliorerà la terapia dei tumori per i quali si avrà a che tare con tannaci e tecniche sempre meno tossiche e sempre più individuali. ___________________________________________________________________ La Repubblica 10 gen. ’08 LA SALUTE SI PROGRAMMA CON I CITTADINI La nostra sanità ha bisogno di programmare, organizzare e pianificare interventi e risorse, sia economiche che umane. Serve una road map, ma è sbagliato procedere in un processo di modemizzazione senza il coinvolgimento diretto dei cittadini nelle scelte che riguardano il loro bene più prezioso, ovvero la salute. I plani sanitari regionali e nazionali elaborati dalle amministrazioni, sono documenti tecnici in cui non viene preso in considerazione il parere dei cittadini e delle società scientifiche. Credo che il nostro paese sia maturo per un Piano nazionale di sanità pubblica, che preveda il coinvolgimento attivo della popolazione. Esperienze simili sono state sperimentate con successo all'estero. Il Regno Unito ha elaborato un piano nazionale di sanità pubblica e io ha sottoposto al giudizio di 150 mila cittadini. Negli Stati Uniti, ogni volta che si introducono nuove regole per la sanità, viene organizzata una commissione ministeriale itinerante che, viaggiando nelle principali città americane, ascotta le osservazioni dei cittadini e delle società scientifiche. In Svezia, gli obiettivi di salute sono fissali dopo aver ascottato le priorità espresse dalla popolazione e le verifiche vengono eseguite regolarmente, con il coinvolgimento di ben 50 dipartimenti governativi che si occupano di sanità. Un esperimento interessante è state realizzato in Emilia Romagna, a Imola. I cittadini sono stati coinvolti In un progetto di empowerment, che significa "acquisire consapevolezza e imparare ad esercitare il potere". Prima gli abitanti sono stati coinvolti in iniziative di formazione su stili di vita e prevenzione, poi sono stati diffusi 20mila questionar! in cui indicare i temi ritenuti più importanti. Le prime tre preoccupazioni? Inquinamento, incidenti stradali, droga. E l'amministrazione, nelle sue scelte, ha dato priorità a questi settori. L'elaborazione di piani per la salute partecipati è dunque auspicabile per avvicinare l'Italia agli altri paesi UÈ, ma la costruzione deve avvenire attraverso un processo aperto, innovativo, capace di garantire la condivlsione delle strategie con continuità e sul lungo periodo. *Pres. comm. Sanità del Senato ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 8 gen. ’08 TIC NERVOSI, ARRIVA UN NUOVO FARMACO Meno caro e invasivo: nuovi orizzonti per la cura del male Medicinale usato per il carcinoma della prostata. Ora manca l'ok del Comitato etico. È una malattia della vergogna . Di quelle che vengono tenute segrete, terribili dal punto di vista medico, che solo il pudore riesce a nascondere, offuscare, rinchiudere tra le mura di un appartamento. La Sindrome di Tourette è un disturbo ricollegabile a un disordine neurologico che si manifesta con movimenti incontrollati della faccia e del corpo e qualche volta anche con tic di tipo verbale che sconfinano in urla e volgarità. Grazie alla scoperta di due studiosi cagliaritani, si aprono nuovo orizzonti per la cura del male. LA RIVOLUZIONE Un professore universitario cagliaritano, Francesco Marrosu, e un suo allievo, Marco Bortolato, che si sta perfezionando negli Stati Uniti, da tre anni stanno lavorando sui topi, affetti da questa sindrome, impiegando il Finasteride, normalmente usato per il carcinoma della prostata. Un accostamento che ha dato risultati sorprendenti, in grado di limitare le controindicazioni degli altri medicinali, di abbattere di un terzo i costi della cura e di ridurre del 35 per cento i sintomi. Ora manca solo l'approvazione del comitato etico dell'Azienda mista (Università e Regione) che in questi giorni esaminerà i risultati della ricerca. LA SCOPERTA Francesco Marrosu è il direttore della clinica di Neurologia al Policlinico. Il suo quartier generale è al pian terreno della struttura di Monserrato. Lì ha coordinato l'équipe (completata da Antonella Muroni), responsabile della scoperta. «Un risultato ottenuto grazie all'intuito di Marco Bortolato, un 32enne cagliaritano laureato in medicina che si sta specializzando negli Usa in Neurofisiopatologia. Sarà il primo in Sardegna ad avere questa qualifica: accertare a termine di legge la morte celebrale (compito eseguito sino a oggi dai neurologi». Come siete arrivati alla scoperta sul duplice uso del Finasteride? «Bortolato è giovane, ma è tra i più importanti esperti in Europa di comportamenti animali. Nei laboratori voluti da Gianluigi Gessa abbiamo iniziato la sperimentazione del farmaco sui topi e ratti con comportamenti compulsivi». Sintomi riconducibili a pazienti affetti da sindrome di Tourette. «Il Finasteride ha dato ottimi risultati e ha un valore aggiunto rispetto ad altri medicinali: lo impieghiamo da anni e conosciamo tutte le sue sfaccettature». IL GIOCO D'AZZARDO Nella fase degenerativa gli effetti del male sfociano nella sfida, nel gioco d'azzardo. Così, tra i pazienti in cura nel Policlinico, il caso di un giovane cagliaritano che negli ultimi sei mesi ha rotto circa venti parabrezza dell'auto: tentava con i pugni di sfiorare il cristallo, sempre più vicino sino a quando non li colpiva, mandandoli in frantumi. Situazione imbarazzante per un avvocato vittima della sindrome che a intervalli di pochi secondi non riusciva a trattenersi dallo sputare o dal dire parole sconvenienti. Atteggiamenti scomodi soprattutto in un aula di tribunale o di fronte a clienti. Per non parlare degli impulsi sessuali superiori alla media caratteristici dei tourettiani. E proprio partendo da questo particolare che gli studiosi cagliaritani sono riusciti a collegare il farmaco con la sindrome. Una scoperta rivoluzionaria, appunto, anche perché curarla per il momento è impossibile, si possono solo limitare gli effetti e i relativi disagi. Sino a oggi gli psichiatri hanno cercato di arginare la malattia con farmaci neurolettici, antidepressivi e ansiolitici con gravi effetti collaterali. COMITATO ETICO La strada che consacra il farmaco è lunga. Prima di venire iscritto nella farmacopea ufficiale, deve passare sotto la lente del Comitato etico della struttura, presieduto da Grazia Maria De Matteis, che dovrà valutare la parte giuridica, scientifica, etica di questa che viene definita malattia orfana (senza terapia valida). ___________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 10 gen. ’08 BROTZU: OSPEDALE INFORMATIZZATO TRA I SOSPETTI Mozione dell'Udc in Regione: «Al Brotzu violate le regole» - Il direttore generale Mario Selis in passato era l'amministratore del centro di ricerca che ha ottenuto l'incarico ANDREA MASSIDDA CAGLIARI. Finirà in Consiglio regionale la questione dell'azienda ospedaliera Brotzu, che nel 2006 affidò al «Crs4», senza una gara d'appalto, l'incarico di gestire il sistema informativo. Per l'Udc si tratta dell'ennesimo scandalo, per il management sotto accusa, invece, tutto si è svolto in maniera cristallina. Intanto, però, Roberto Capelli e i suoi colleghi di partito ieri mattina hanno presentato una mozione nella quale si chiedono lumi (e conti) al presidente della giunta Renato Soru e all'assessore alla sanità Nerina Dirindin. Tutto era iniziato nel 2006, quando l'azienda ospedaliera cagliaritana, avendo necessità di tecnici che organizzassero e gestissero il sistema informatico, avevano affidato l'incarico per via diretta al «Crs4», il centro di ricerca privato ma controllato totalmente dall'ente regionale «Sardegna Ricerche». Sta di fatto che a partire dal primo luglio di quello stesso anno alcuni tecnici del Crs4 hanno effettivamente cominciato a lavorare per il Brotzu. E che quel rapporto sulla fiducia sarebbe stato «sanato» soltanto il 5 novembre 2007 (un anno e mezzo più tardi, dunque) grazie a una delibera del direttore generale dell'Asl cagliaritana, Mario Selis. Un provvedimento che stabiliva la stipula di una convenzione della durata di 24 mesi con decorrenza retrattiva per un costo di 500mila euro. Abbastanza per lasciare basiti i consiglieri regionali dell'Udc. Che infatti ora chiedono alla Giunta come sia stato possibile assegnare un incarico del genere senza una gara di evidenza pubblica. Ma non è tutto. Nella mozione presentata ieri da Capelli non si accusa la direzione generale del Brotzu di aver «soltanto» violato le norme sugli appalti pubblici, ma anche sprecato i soldi dei cittadini ignorando che nel settembre del 2007 l'assessorato regionale alla Sanità aveva affidato ad altri soggetti, attraverso una gara, i medesimi servizi. Il riferimento è al raggruppamento tra la società Engeneering e la Telecom, che proprio quattro mesi fa si è aggiudicato l'appalto «per la progettazione del sistema informatico sanitario intergrato regionale». Una torta di 20 milioni di euro. «Il Brotzu ha dunque buttato denaro pubblico», dicono dall'Udc, chiedendo al presidente della Regione per quale motivo l'ospedale abbia richiesto la collaborazione del Crs4 per un lavoro già pagato profumatamente a un altro soggetto. «Lavoro che - continua Capelli - avrebbe potuto svolgere gratuitamente anche la società in house «Sardegna IT», costituita il 5 dicembre del 2006 con lo scopo dichiarato di realizzare, organizzare e gestire il sistema informativo della Regione Sardegna e per i propri enti sanitari, tra i quali naturalmente il Brotzu». Uno sperpero, secondo l'Udc, aggravato da un particolare: «Mario Selis è stato sino a qualche anno fa amministratore delegato del Crs4». Ma in attesa di una risposta istituzionale, il Crs4 che dice? «Non trovo niente di strano che il Brotzu ci abbia affidato un incarico di quel tipo, visto che siamo la struttura più indicata per portarlo a termine», risponde da Londra Franco Meloni, vicepresidente del centro di ricerca -. Normale anche aver cominciato a lavorare senza un contratto o una delibera d'incarico: chi fa ricerca è abituato a ricevere i soldi a metà dell'opera. E se non ci si muovesse così il mondo sarebbe ancora all'età della pietra». Ma Meloni ha anche una risposta per quanto riguarda la questione «Sardegna IT»: «Questa società è una costola del Crs4, che infatti la controlla per il 10 per cento - spiega il vicepresidente del centro - ma presto la quota potrebbe essere molto maggiore». L'Udc comunque pretende una risposta da parte del presidente della Giunta e dall'assessore della Sanità, ai quali chiede di verificare e di censurare l'operato della dirigenza del Brotzu. «In realtà - aggiunge il consigliere Nello Cappai - noi la risposta la attendiamo, ma immaginiamo che non arriverà. Perché così è avvenuto per 81 mozioni, 244 interpellanze e 251 interrogazioni presentate dall'opposizione e per altre 270 richieste di chiarimento fatte dalla maggioranza». Fuori mozione, le critiche alla giunta si estendono anche alla gestione complessiva della Sanità, perchè «si sbandiera il pareggio di bilancio con una spesa aumentata del 23 per cento» nella legislatura in corso. Parole alle quali l'assessore Nerina Dirindin risponde laconicamente così: «Non vale la pena seguire nella polemica chi dà evidentemente i numeri: quando, e se, l'onorevole Capelli vorrà, siamo pronti a confrontarci su dati reali e con bilanci alla mano». ___________________________________________________________________ L’Unione Sarda 5 gen. ’08 SASSARI: UN CROMOSOMA FERMA LA SCLEROSI Sassari. La collaborazione tra due genetisti della Clinica Neurologica e il Dipartimento inglese La scoperta dell’Ateneo sassarese e di Oxford Nei laboratori della cittadina britannica sono stati esaminati 500 campioni di sangue di pazienti affetti da sclerosi multipla. Le cui conclusioni sono state pubblicate a dicembre sulla prestigiosa rivista americana «Proceedings National Academy of Science». Si chiama «cromosoma 6 » e ha al suo interno dei geni protettivi sui quali è possibile agire con terapie adeguate rallentando gli effetti disabilitanti della sclerosi multipla. Soprattutto nei casi in cui la malattia si manifesta nelle forme meno aggressive. La scoperta è frutto della collaborazione fra due ricercatori della Clinica Neurologica di Sassari, Stefano Sotgiu e Maura Pugliatti, e il Dipartimento di Neurologia dell’Università di Oxford, guidato dal genetista George Ebers. Nei laboratori della cittadina britannica sono stati esaminati 500 campioni di sangue di pazienti affetti da sclerosi multipla: 200 sardi e 300 canadesi. Dopo un lungo studio, le cui conclusioni sono state pubblicate a dicembre sulla prestigiosa rivista americana «Proceedings National Academy of Science», i ricercatori hanno osservato che i pazienti affetti da una forma «benigna» della malattia possiedono dei «geni protettivi» nel «cromosoma 6» chiamati Hla-Drb1. Questi geni sono invece pressoché assenti nei pazienti affetti dalla forma più aggressiva e invalidante di sclerosi. «Ciò significa - ha spiegato Stefano Sotgiu - che saremo in grado di conoscere già dall’insorgenza della malattia quale decorso avrà e applicare le terapie più indicate. Un esempio: se un paziente fosse affetto da una forma di sclerosi particolarmente aggressiva e quindi rapidamente invalidante potremo trattarlo da subito con dosaggi di farmaci adatti ad attenuare e rallentare gli effetti più gravi, controllando l’evoluzione della malattia». Nel giro di alcuni anni, stando allo sviluppo della ricerca in questo campo, si ritiene sarà possibile intervenire sul sistema genetico dei pazienti conferendogli protezione rispetto alla malattia. Il problema è particolarmente urgente nella nostra isola che, in Europa, occupa il secondo posto dopo la Scozia per numero di casi insieme ai paesi scandinavi. «Gli studi a disposizione fino a questo momento - ha precisato il professor Giulio Rosati che studia da anni la sclerosi e la sua evoluzione clinica - non hanno consentito di scoprire ancora le cause della malattia. Sulla sua insorgenza certamente influiscono fattori genetici ed esogeni, come quelli ambientali. E le donne ne sono colpite con una prevalenza due volte maggiore rispetto alla popolazione maschile». Occorre fare di più. In tutto il mondo si lavora alla ricerca del gene responsabile della sclerosi multipla. «Abbiamo molta fiducia anche su quello che si fa in casa nostra - tiene a precisare Giulio Rosati. In questo momento uno dei genetisti più importanti in campo internazionale nello studio del diabete, Francesco Cucca, lavora ad uno studio sul genoma dei sardi. Lo fa utilizzando il sangue prelevato da duemila pazienti affetti da sclerosi, diabete o altre patologie autoimmuni. Ci aiuterà a capire ancora meglio la malattia, e forse a diagnosticarla con maggiore tempestività, visto che ha un’incubazione talvolta di alcuni anni, e di combatterla con più efficacia». GIBI PUGGIONI ___________________________________________________________________ La Repubblica 10 gen. ’08 PER IL CANCRO AL SENO IL TEST SI FA DAL DENTISTA Il lavoro è descritto su Cancer Investigation. Già in corso test clinici ROMA - Un semplice test dal dentista potrebbe in futuro predire con l'analisi della saliva la possibilità di ammalarsi di cancro al seno. L'esame, non invasivo, migliorerebbe la possibilità di diagnosticare la malattia con facilità, col vantaggio di poter essere fatto più frequentemente e con minori difficoltà anche psicologiche rispetto ai normali test come la mammografia e l'ecografia. Il dispositivo è stato messo a punto dalla University of Texas Health Science Center at Houston dall'équipe guidata dal dottor Charles Streckfus. Su Cancer Investigation, i ricercatori texani spiegano che l'insorgenza di un tumore alla seno produce cambiamenti nella normale quantità e nel tipo di proteine presenti nella saliva. Proprio quest'ultima nasconde i 'codici segreti' di molte malattie, perché le proteine prodotte dalle ghiandole salivari risentono delle condizioni di salute di tutto l'organismo: il profilo proteico in una persona sana viene infatti alterato dalla presenza della malattia. Analizzando campioni di saliva appartenenti a 30 volontarie, gli scienziati hanno individuato 49 proteine che risultano diverse a seconda che la donna sia sana o se abbia un cancro benigno o maligno. Ricercando determinati marker proteici nei campioni biologici di ciascuna, si potrà dunque avere una diagnosi sicura e precoce: secondo gli scienziati che hanno messo a punto il test, la nuova metodologia eviterà anche falsi positivi e potrà essere facilmente utilizzata negli studi medici e dentistici, con risultati immediati senza bisogno di ricorrere ad un laboratorio. I vantaggi rispetto alle analisi più tradizionali sono molti: il nuovo test è rapido, economico e in grado di dare una diagnosi precoce: riesce infatti a rilevare la presenza del cancro prima che si sviluppi il tumore. E potrebbe rendere lo screening meno pauroso: andare dal dentista è una pratica molto più comune che non sottoporsi a esami complessi e non sempre ben accetti come ad esempio le mammografie. Il test verrà ora sperimentato in una serie di trial clinici per valutarne l'accuratezza e la sensibilità diagnostica: se gli esiti delle sperimentazioni saranno positivi - come si attendono i ricercatori - potrebbe divenire un nuovo, prezioso alleato nella prevenzione oncologica. _____________________________________________ Corriere della Sera 9 gen. ’08 LA FORMULA PER VIVERE 14 ANNI IN PIÙ Lo studio: dalle verdure al fumo, le quattro regole che allungano la vita. Esaminato per la prima volta l' «effetto d' insieme» di semplici comportamenti applicabili ogni giorno MILANO - La ricetta per vivere almeno quattordici anni in più? Quattro semplicissime regole: non fumare, fare esercizio fisico, bere un po' di alcol e mangiare cinque porzioni di frutta e verdura al giorno. Non è una novità che una vita sana allunghi l' esistenza, potrebbe pensare qualcuno. Soltanto poche settimane fa studiosi dell' Università di Atene ci avevano svelato il segreto dei monaci del Monte Athos: vita attiva e dieta mediterranea (ma niente sesso) per arrivare tranquillamente a novant' anni. È vero, rispondono adesso alcuni ricercatori inglesi, ma questa volta abbiamo calcolato l' «effetto insieme» di quattro semplicissimi comportamenti, facili da seguire nelle vita quotidiana di un qualsiasi Paese occidentale (senza particolari rinunce in fatto di vita sessuale). Sotto osservazione sono finiti, infatti, 20.000 abitanti della contea di Norfolk in Gran Bretagna, tutti sani e tutti fra i 45 e i 79 anni: Kay-Tee Khaw, ricercatore alla Università di Cambridge, ne ha studiato il comportamento attraverso un questionario e ha pubblicato i risultati dell' indagine sull' ultimo numero della rivista online PloS. In sintesi: tutti coloro che adottavano comportamenti sani, appunto non fumare, bere moderatamente (il che significa concedersi al massimo un bicchiere di vino al giorno o mezzo litro di birra), mangiare frutta e verdura e soprattutto praticare attività fisica (se si svolge un lavoro sedentario) avevano una probabilità molto maggiore, rispetto a tutti coloro che non seguivano queste regole, di sopravvivere a lungo, a prescindere dal fatto che fossero o meno in sovrappeso o che fossero più o meno ricche. «Le aspettative di vita - spiega Claudio Cricelli, Presidente della Società Italiana di Medicina Generale - aumentano per due motivi. Primo perché la vita si allunga davvero e secondo perché si riduce il rischio di malattia. E siccome una delle maggiori cause di mortalità sono le malattie cardiovascolari, va da sé che questi comportamenti incidono soprattutto sulla comparsa di queste ultime, ma anche sul rischio- cancro». Si è già dimostrato infatti che il vino, in quantità moderate, protegge le arterie e frutta e verdura (per esempio broccoli, mirtilli, fragole, ricchi di anti-ossidanti) riducono il rischio cardiovascolare e oncologico. Piccole modifiche del comportamento di tutti i giorni, dunque, possono avere un grande impatto sulla salute. «Una larga fetta di popolazione - ha commentato Kay-Tee Khaw - ne può trarre reali benefici, ma la cosa più importante ancora è che questo vale anche per le persone di mezza età e per gli anziani». Come dire che non è mai troppo tardi per cambiare. Adriana Bazzi 1 *** Non fumare Non ci sono scappatoie: se si vuole vivere più a lungo, il fumo va eliminato totalmente. Fra le salutiste no-smoking l' attrice Gwyneth Paltrow *** 2 *** Bere con moderazione Sull' alcol, invece, si può trattare: un bicchiere di vino al giorno, o mezzo litro di birra, fa bene. Fra i bevitori con moderazione, George Clooney *** 3 *** Frutta e verdura È da sempre la battaglia dell' oncologo Umberto Veronesi (che è vegetariano): almeno cinque porzioni di frutta e verdura al giorno *** 4 *** Esercizio fisico Muoversi, soprattutto se si fa un lavoro sedentario. Forse è anche merito dell' esercizio fisico se Jane Fonda, a 70 anni, è ancora così bella Bazzi Adriana _____________________________________________ Corriere della Sera 9 gen. ’08 CELIACHIA, RECORD ITALIANO Più malati, ora sono mezzo milione Allo studio vaccino e pillola-tampone Chi non ha presente l' immagine di un bambino malnutrito, la pancia globosa, le costole sporgenti, gambe e braccia sottilissime. Stessa immagine di chi convive con l' anoressia. E pensare che c' è una patologia in aumento in Italia e che offre le stesse immagini, con la differenza che chi ne soffre mangia. È l' intolleranza al glutine (complesso proteico presente nei derivati di grano, segale e orzo), meglio nota come celiachia. La predisposizione è genetica, ma non è una malattia genetica. Dieci, trenta per cento di possibilità di avere un figlio celiaco quando uno dei genitori è ammalato. La cura esiste: è la dieta. Ma soltanto un intollerante su sette sa di esserlo: anche perché l' espressione della malattia può avere più sfumature, da totale intolleranza a parziale. «Se oggi in Italia vivono 500 mila celiaci - spiega Maria Teresa Bardella, gastroenterologa, responsabile del Centro per la prevenzione e la diagnosi della malattia celiaca della Fondazione Policlinico di Milano - soltanto 70 mila sanno di esserlo». Tra questi molti nomi noti, che vivono controllando i cibi che comprano e frequentano ristoranti e pizzerie accessibili per loro. Qualche esempio: l' avvocato Giulia Bongiorno, il conduttore Daniele Bossari, l' attrice Claudia Koll, la conduttrice e attrice Gaia De Laurentis madre di un bimbo celiaco. Importante sapere che volti noti siano intolleranti al glutine, perché il vero risvolto negativo per un giovane celiaco è avere limitazioni che gli altri non hanno. La merendina a scuola, la pizza con la classe, perfino il panino con il salame (il glutine è spesso usato nei salumi come addensante) vietato può far sentire diverso. La gioia di una mamma dopo l' aver scoperto che Bossari è «uguale» a suo figlio: «Mentre era in onda Furore l' ho indicato a Giovanni, che ha due anni e mezzo: "Guarda anche lui non può mangiare il pane come te" e lui lo ha subito detto al padre qualche giorno dopo. Ho avvertito che, così, non si sentiva più "strano"». È nel 1964 che si scopre nel glutine la causa di tante malnutrizioni o morti nei primi anni di vita (difficile sopravvivere senza assimilare e colpiti continuamente da gastroenteriti, considerando poi che soprattutto per i poveri italiani pane, pasta e pizza sono sempre stati l' unica dieta). Un paradosso nel Paese delle tre P cardine dell' alimentazione scoprire che siamo anche i più intolleranti al mondo, e in continua crescita, al glutine. I numeri aiutano a capire: un malato ogni 2-3 mila negli Anni 80, uno ogni mille negli Anni 90, uno ogni 150 oggi. Escalation continua. Mentre la ricerca medico-scientifica è stata per anni asfittica fino a quando non sono entrati in campo gli Stati Uniti. Dagli Anni 90, anche loro hanno scoperto la celiachia e subito è partita la macchina scientifica. Risultato: è in sperimentazione un vaccino (prevenzione) e una pillola tampone che annulla gli effetti deleteri della reazione delle cellule intestinali al transito del glutine. Una spiegazione è d' obbligo: quando nell' intestino di un intollerante arrivano le molecole del glutine la reazione di difesa che ne consegue, oltre a un' infiammazione che porta a coliti o a enteriti, è quella di un appiattimento totale o semitotale delle cellule (villi) deputate ad assorbire i principi nutritivi del cibo. In conclusione, il celiaco mangia e non assorbe. Spiega Silvio Danese, ricercatore della gastroenterologia dell' Humanitas di Rozzano: «L' ingestione di tutti gli alimenti che contengono glutine, come pane, pasta ecc., porta alla produzione di una serie di auto-anticorpi, come gli anti- tranglutaminasi e gli anti-endomisio, che "aggrediscono" la mucosa del piccolo intestino (cioè il tenue), determinando una reazione infiammatoria a livello dei villi, le strutture implicate nell' assorbimento dei cibi digeriti. L' atrofia villare porta clinicamente a una sindrome che si chiama malassorbimento». Predisposizione genetica come concausa, un' enterite virale nei primi mesi di vita forse la causa (quella più accreditata) o comunque le nostre stesse molecole che per difesa danno vita a un' infiammazione. Il Gaslini di Genova, l' università di Verona (che peraltro sta studiando anche il ruolo protettore dei probiotici della Yakult) lavorano sul vaccino dopo aver individuato la causa virale (Rotavirus). Sul meccanismo di difesa dell' intestino che contrasta l' azione infiammatoria autoimmune determinata dal glutine stanno invece lavorando Telethon del San Raffaele di Milano, l' ospedale Moscati di Avellino e la Pediatria del Federico II di Napoli. Ricerche che fanno capo all' Istituto di Scienze dell' alimentazione del Cnr. L' interleuchina-10 potrebbe essere la soluzione. Tra qualche anno si saprà. Sempre interleuchina, ma 12, protegge dalle allergie secondo i ricercatori dell' Istituto di Norwich (Gran Bretagna), e quindi, perché no, anche dalle intolleranze. All' università di Padova, invece, sono in corso osservazioni sul ruolo di una chitinasi scoperta nel 2001. Insomma, si lavora. Nel frattempo, unica cura la dieta. E la diagnosi: al momento delle continue corse in bagno, della magrezza ingiustificata, di una stanchezza anormale in un giovane, è il pediatra che deve dirigere verso la giusta diagnosi. Come si fa? Una biopsia in gastroscopia. E' la vera certezza. Insieme a un test del sangue in ospedale. C' è anche un test da fare a casa: su una goccia di sangue, risultato in 5 minuti. Se è positivo, però, meglio effettuare indagini più approfondite. A proposito di test: quali i sintomi? «Diarrea, mal di pancia, stanchezza, perdita di peso, anemia, dolori alle ossa e dermatiti», sintetizza Maria Teresa Bardella. Tutto scompare rinunciando a pane, pasta, merendine e croissant. Anzi, oggi, senza rinunciare a nulla perché ormai esiste una vera e propria industria alimentare che lavora senza glutine. Ma non ci sono carenze vitaminiche? «Assolutamente no - risponde la Bardella - praticamente le proteine del glutine non servono a nulla». Pappagallo Mario __________________________________________________ Italia Oggi 3 gen. ’08 ENTRO APRILE LA SANITÀ IN CARCERE PASSA AL SSN di Patrizio Gonnella Con la Finanziaria 2008 le funzioni di assistenza sanitaria in carcere passano dal ministero della giustizia al Servizio sanitario nazionale. L'emendamento, presentato dal governo, dispone finalmente quel trasferimento di competenze relative alla sanità penitenziaria dal ministero della giustizia a quello della salute previsto dal decreto legislativo n. 230 del 22 giugno 1999, la cosiddetta riforma Bindi rimasta fino a oggi lettera morta. Il decreto, in nome del principio dell'universalità dell'accesso alle cure mediche, regolamentava il passaggio di competenze prevedendo appositi progetti obiettivo triennali all'interno del piano sanitario nazionale. Una prima fase sperimentale avrebbe dovuto vedere il trasferimento dei soli due settori della prevenzione e dell'assistenza ai detenuti e agli internati tossicodipendenti. Il successivo decreto del 20 aprile 2000 aveva poi individuato nelle tre regioni della Toscana, del Lazio e della Puglia, cui Campania, Emilia Romagna e Molise si erano spontaneamente aggiunte, le destinatarie della sperimentazione del passaggio completo. Terminata la fase sperimentale, era previsto che il governo emanasse i decreti attuativi della riforma senza ulteriori passaggi in parlamento. La sperimentazione, tuttavia, è rimasta quasi del tutto incompiuta, se si eccettua l'ambito relativo alle tossicodipendenze. Due regioni, la Toscana e il Lazio, si sono dotate di apposite leggi regionali per provvedere autonomamente a trasferire alle Asl le competenze relative alla medicina penitenziaria. La giunta della regione Marche ha presentato di recente un'analoga proposta di legge. Il sottosegretario alla giustizia con delega alle carceri Luigi Manconi, fin dall'inizio del proprio mandato, ha lavorato alacremente all'attuazione della riforma sanitaria penitenziaria, di concerto con il suo omologo alla salute Antonio Gaglione. «Finalmente si va verso il rispetto di una legge importantissima rimasta inattuata per oltre sette anni», afferma. «La salute in carcere è un problema delicato, e la sua tutela deve fondarsi su parametri di qualità certi e definiti. Bisogna inoltre evitare ruoli ambigui quali quelli del medico-custode, che non giovano a una seria possibilità di curarsi dei detenuti e degli internati». L'art. 61-bis alla Finanziaria, aggiunto dall'emendamento approvato, definisce, con decreto del presidente del consiglio dei ministri, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della Finanziaria su proposta del ministro della salute e del ministro della giustizia di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze e il ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, di intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, il trasferimento al Servizio sanitario nazionale di tutte le funzioni sanitarie svolte dall'amministrazione penitenziaria e dalla giustizia minorile. Non è di poco conto che esso riguarderà anche gli ospedali psichiatrici giudiziari. Lo stesso decreto disporrà il trasferimento di attrezzature, arredi e beni strumentali nonché le procedure di trasferimento dei rapporti lavorativi, da concordarsi con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Questo è il passaggio più delicato. In ogni caso, a differenza di quanto avveniva nel recente passato, le organizzazioni che riuniscono il personale sanitario penitenziario hanno abbandonato i loro propositi bellicosi e si sono rese disponibili al dialogo per favorire un passaggio di competenze sereno. Prima che il trasferimento di competenze sia definitivamente attuato, il ministero della giustizia (dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e dipartimento della giustizia minorile) resterà il punto di riferimento dei rapporti lavorativi interessati. Verrà disposto inoltre il trasferimento delle risorse finanziarie valutate complessivamente in 157,8 milioni di euro per l'anno 2008, in 162,8 milioni di euro per l'anno 2009 e in 167,8 milioni di euro a decorrere dall'anno 2010, di cui quanto a 147,8 milioni di euro a decorrere dal 2008 a valere sullo stato di previsione del ministero della giustizia e quanto a 10 milioni di euro per l'anno 2008, 15 milioni di euro per l'anno 2009 e 20 milioni a decorrere dall'anno 2010.