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Calma, pigra. Dove però vivono più scrittori che in ogni altra città italiana. Autori di gialli e noir. Ambientati qui Facciamo una scommessa: può una piccola facciata sul mare, in un'isola distante da tutto, diventare capitale del Mediterraneo, farsi ponte, punto d'incontro fra il Maghreb e l'Europa? Per tre giorni Cagliari, capitale sarda al centro del Mare Nostrum occidentale, lo è stata e ha avuto i riflettori di tutto il mondo puntati addosso. Tra le sue mura si è svolto da poco il DIO, la conferenza dei ministri della Difesa dei Paesi affacciati sul Mediterraneo. Certo, Cagliari sa di essere periferia, provincia. Ma è una strana città. Quando arrivi ti accoglie calma, solare, avvolta da una luce bianca. Un clima dolce che non conosce la neve. Poco traffico, tanta acqua. Se si sale sul Bastione di Saint Remy che dalla città bassa porta a Castello, l'antico quartiere murato, di pietra calcarea, che per secoli è stato quello del potere e del comando, si vede azzurro da tutte le parti: il mare del Golfo degli Angeli, lo stagno di Santa Gilla. E nella città bianca le ore sembrano non avere fretta di passare. Tanto che qualcuno la taccia di essere immobile. Ma immobile non è. All'improvviso, Infatti, Cagliari ti sorprende. Non solo perché sa ospitare un evento internazionale importante come il D10. La più grande città sarda nasconde un'anima sperimentale e contemporanea insospettata. Grandi progetti urbanistici che, guarda caso, prevedono anche un nuovo museo con un'impronta mediterranea. E un'inusitata vivacità creativa e letteraria. Se si entra in una delle tante librerie, ad esempio, si scoprono libri su libri di un autentico sciame di scrittori che qui sono nati o qui vivono. Così tanti non ce ne sono da nessuna altra parte, in Italia. E molti scrivono noir ambientati proprio nella tranquilla, mediterranea Cagliari, che con i suoi 160mila abitanti non è certo una metropoli e negli ultimi due anni ha registrato in cronaca solo due omicidi. Niente a che vedere con la Barcellona di Montalbàn, la malavitosa Marsiglia di Jean Claude Izzo. E neppure con la Bari di Gianrico Carofiglio. Ma basta stare per un po' in città per capirne la reale effervescenza. Quando ci sono stata io, vi si svolgeva il Festival Tuttestorie, dedicato a giovanissimi lettori con ospiti-star come Abraham B. Yehoshua. E che dire della Festa dei Lettori, organizzata per la prima volta a Cagliari? Non solo. La Provincia stava lavorando alla creazione di un itinerario turistico -letterario da Cagliari alla Barbagia sulle orme di D.H. Lawrence, che abitò qui con la moglie, nel palazzo della Scala di Ferro, e vi scrisse anche Mare e Sardegna. E la Marina, antica ridda di vicoli di pescatori oggi abitata da giovani professionisti, studenti ed extracomunitari, è rinata da qualche anno anche grazie alla passione per i libri. Racconta Italo Pau, patron di Ampurias, ristorante dell'animata piazza Savoia, uno dei punti d'incontro dei cagliaritani: «Quando abbiamo aperto, e siamo stati i primi, il quartiere alle dieci e mezzo di sera era deserto e l’illuminazione così poca che dovevo accompagnare i clienti alle auto: avevano paura». Poi nel locale di Italo Pau nasce "Natale acido", reading di racconti natalizi "pulp" scritti da Francesco Abate, giornalista e scrittore. Aprono altri due locali nella piazza. RICERCA: CAGLIARI CHIAMA IL MONDO Cagliari è anche terra di eccellenza scientifica per l'università e la ricerca. E di scienziati illustri, come Gian Luigi Gessa (nella foto), che da oltre trent'anni rappresenta nel mondo la ricerca neurofarmacologica italiana più avanzata. Sotto la sua direzione, il Dipartimento di Neuroscienze dell'Università di Cagliari si è classificato tra gli istituti di ricerca farmacoloqica più prestigiosi su scala mondiale e la sezione dell'Istituto Cnr di Neuroscienze di Cagliari è stata valutata tra i 5 centri più produttivi del settore in Italia. II suo gruppo di ricerca ha cercato di scoprire perché alcol e droghe piacciono tanto all'uomo fin dai tempi antichi (sono state trovate tracce di cannabis nei capelli degli egizi), indagando i processi cerebrali coinvolti nelle dipendenze da alcolici, cocaina, eroina, cannabis e nicotina. Antonio Cao, invece, direttore dell'Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacoloqia del Cnr di Cagliari, pediatra e punta di diamante della lotta alla talassemia nell'isola, sta ora lavorando a uno studio sulla popolazione dell'Ogliastra, una regione sarda di particolare omogeneità genetica. II progetto consiste in approfondite analisi mediche su più di 6mila persone e nel controllo di parametri importanti per l'invecchiamento. II tutto per identificare geni coinvolti in malattie complesse (come il diabete 1 e 2 e l'artrite reumatoide) e nel processo di invecchiamento. A Pula, in provincia di Cagliari, è poi presente il CR54, fondato nel 1990 dal premio Nobel Carlo Rubbia, centro di ricerca informatica, telematica, biomedica che fa parte del Parco Scientifico e Tecnologico regionale, sede anche di Sardegna Ricerche. Al Festival d'Architettura, l'estate scorsa, un pool mondiale di esperti è stato che insieme ad Ampurias ospitano romanzieri e concerti. Ciliegina sulla torta, l'affollatissimo Festival Marina Café Noir, che si svolge nel quartiere da 5 anni. «È un festival di letterature applicate alla vita, alla strada, ai linguaggi», spiega Giacomo Casti, uno dei 6 soci fondatori dell'Associazione Chourmo che organizza la kermesse di eventi con scrittori, attori, musicisti, filmaker sardi e non. «Una via di mezzo tra una fiesta catalana e un laboratorio all'aria aperta, nato dal nostro amore per le storie "nere"». Del resto, come ci hanno detto Massimo Carlotto e Francesco Abate, i romanzi noir servono a decodificare la realtà, a denunciare gli affari sporchi, a smuovere le acque di una città che spesso fatica ad affrontare i problemi. E che per anni, prima del ciclone Tiscali, si è mossa intorno alle tre "M": Mattoni, Medicina (privata), Massoneria. Un esempio di questa difficoltà? La vicenda del Poetto. La grande spiaggia cittadina aveva sabbia fine, bianchissima e un'acqua caraibica (chi scrive può testimoniarlo), ma si stava erodendo. Così è stata "rimpolpata" con sabbia scavata al largo, molto più scura. Risultato, anche l'acqua ha cambiato colore: che delusione... «C'è una Cagliari che resta ferma e pensa solo ai soldi e una che alza la testa e va verso il nuovo. Ma nel segno della continuità con la sua antichissima storia», spiega Giuseppe Marci, docente di Filologia italiana all'Università di Cagliari. «E se negli anni Sessanta esportavamo colf e manovali, oggi esportiamo intelligenze. E creatività». Scienziati. E artisti. Che sempre più scelgono la città bianca come location per le loro opere. Come Enrico Pau, regista che a Cagliari e dintorni ha girato Pesi leggeri, da un romanzo di boxe e malavita di Aldo Tanchis, e Jimmv della Collina, da un libro di Massimo Carlotto. E Gianfranco Cabiddu, altro regista sardo che invece ha diretto per la Rai Disegno di sangue, storia noir di Marcello Fois che ruota intorno a un omicidio avvenuto nella parte antica e nobile della città, Castello. A Cagliari vive anche Elena Ledda, voce di punta della nuova musica popolare sarda che ha spesso collaborato con importanti jazzisti. Del resto, la vocazione sperimentale e anti classista, l'attenzione per tutte le forme della contemporaneità fanno parte della storia di questa città. Non è un caso che la rivoluzione telematica di Tiscali sia nata proprio qui, non "sul continente", e che il jazz conosca in Sardegna una fortuna che ha prodotto talenti e festival. E che dire della trasformazione urbanistica che muterà profondamente il profilo di Cagliari? Lo scorso giugno nel Lazzaretto di Sant'Elia e nella ex Manifattura dei Tabacchi (che sta per diventare la Fabbrica della Creatività e ospiterà atelier, workshop, eventi, spettacoli) si è svolto il FestArch, il primo Festival di Architettura in Sardegna. Tre giorni di seminario per ripensare la città che hanno registrato circa 30mila presenze e ospitato 4 premi Pritzker - il Nobel dell'Architettura - nel nutrito p00l degli esperti (per approfondire: www.festarch.it): Jacques Herzog, Rem K00lhaas, Paulo Mendes da Rocha, Zaha Hadid. Ben tre di queste star stanno lavorando per Cagliari. Su volontà della Regione, in accordo con il Comune. AL brasiliano Paulo Mendes da Rocha è infatti stata affidata la progettazione di un nuovo campus universitario per circa mille studenti, che dovrebbe nascere entro il 2009. Mentre l'olandese Rem K00lhaas, con 1a Facoltà di Architettura di Cagliari e il Politecnico di Milano, sta lavorando a una profonda riqualificazione del quartiere Sant'Elia, oggi degradato, lo stesso dove in riva al mare sorgerà anche Betile, il nuovo Museo Regionale dell'Arte Nuragica e dell'Arte Contemporanea del Mediterraneo, firmato dall'anglo-irachena Zaha Hadid. Si tratta di uno stupefacente progetto concepito come una formazione corallina (vedi pag. 82), che non si distacca dalla costa e lancia un braccio verso il Sant'Elia e uno verso la costa. Una struttura che modificherà lo skyline di Cagliari (su questo, come sempre, non tutti sono d'accordo), la percezione visiva di chi arriverà in città nei prossimi anni. E che rappresenta un grande sforzo per una città tutto sommato piccola e lontana dai centri del mercato e dell'arte. Se poi si pensa che sinora il museo sardo più visitato è stato quello di Garibaldi a Caprera... «Betile nelle nostre intenzioni sarà la porta d'accesso da Cagliari alla Sardegna, un'agorà, un luogo aperto verso il mare», racconta Maria Antonietta Mongiu, archeologa e assessore a Pubblica istruzione e Beni culturali della Regione Sardegna. «Un volano verso decine di altri luoghi straordinari della cultura nuragica. Perché conterrà alcune opere-simbolo di quella che è stata la nostra età classica, come le grandi statue di Monti Prama, presso Oristano (in corso di restauro), e molte postazioni multimediali che consentiranno di vedere e conoscere altre importanti opere di siti archeologici sparsi per la Sardegna. E poiché già allora eravamo aperti al confronto, allo scambio con gli altri popoli del Mediterraneo e concepivamo architetture ardite, nel museo si troveranno anche opere contemporanee sarde e si svolgeranno sperimentazioni con artisti di tutto il mondo». Con un occhio particolare alle attività di ricerca del Mediterraneo. Per trasformare il bacino del Mare Nostrum, come ha dichiarato il Presidente della Regione Renato Soru, «da frontiera calda in uno spazio di circolazione e di comunicazione [...]». Parola d'ordine, quindi, innovare. Ma a partire da solide basi identitarie, da quel respiro antichissimo che ogni sardo sente dentro di sé. Intorno al museo partirà inoltre il progetto di valorizzazione del quartiere Sant'Elia, oggi avvilito da una triste edilizia anni Settanta, che nelle intenzioni del Comune prevede la riqualificazione delle case, nuovi impianti per cultura, spettacolo e sport e il rifacimento del porticciolo dei pescatori. E se ci facciamo caso, come per la colonia degli scrittori, ci troviamo di nuovo davanti a uno slittamento dal centro alla periferia. Dai luoghi tradizionali della cultura italiana a una città che sta su un'isola del Sud. Dal centro storico di Cagliari alla sua periferia (il Sant'Elia). Che comunque si trova in una zona panoramica bellissima, benché oggi degradata: quasi in riva al mare, alle spalle della Sella del Diavolo, la collina che domina la spiaggia del Poetto. Se poi si pensa che è in progetto anche la trasformazione di via Roma (il viale a mare della città) in una grande piazza pedonale che sarà collegata a nuove strutture del porto per la pesca, per le navi da crociera e la cantieristica da diporto, si capisce che il tentativo è quello di ridisegnare l'intero "waterfront” di Cagliari. Come del resto sta avvenendo anche a Genova, a Marsiglia, a Lisbona. E che il futuro potrebbe portare la città a protendersi molto di più sul mare. Su quel Golfo degli Angeli che rende unica la posizione di Cagliari. Un golfo di cui si erano innamorati D.H. Lawrence e anche il generale Alberto La Marmora. «sardo per affetti e cagliaritano per cittadinanza», come è scritto su un suo busto eretto nel 1858 ed esposto nella Pinacoteca Nazionale. «È una questione di sguardo, un problema generale di visione della città», spiega Massimo Faiferri, architetto e membro del comitato scientifico del Festarch. «A Cagliari come altrove, le periferie sono il futuro, un nuovo centro. Perché le altre zone, quelle storiche, non hanno più possibilità di espansione. E pensiamo a cosa accadrà se verranno attuati tutti i progetti: si potrà camminare, correre, andare in bicicletta su un unico lungomare da Sani al portocanale. Un bel cambiamento di abitudini». È previsto anche un ponte che collegherà lo stagno di Santa Gilla alla borgata marinara di Giorgino, con zone verdi fino alla chiesetta di Sant'Efisio, dove al santo viene cambiato l'abito durante la festa cittadina. Certo, ci vorranno soldi. Circa 40 milioni per il museo Betile, 40 per il campus universitario, 40 anche per la riqualificazione del Sant'Elia. Ci vorrà anche tempo. E l'accordo tra Comune e Regione, che talvolta ha avuto dei punti di crisi. Come nella vicenda della necropoli fenicia di Tuvixeddu (per inciso, la più importante del Mediterraneo), in cui la Regione ha bloccato i progetti del Comune che prevedevano una strada e insediamenti abitativi a ridosso dell'area archeologica, situata su un colle della città. Sulla questione c'è anche un esposto alla Procura presentato da Legambiente. Insomma, Cagliari ha davanti a sé il più grande progetto urbanistico della sua storia recente. Una sfida che la candida a capitale del Mediterraneo: staremo a vedere. DANIELE DAINELLI, fotografo, 40 anni, è autore dei progetto Metropolis, una serie di reportage sulle più importanti metropoli del mondo e di city portrait in città d'Europa, Asia e Usa. IRENE MERLI, giornalista di Geo, 45 anni, si occupa di cultura e di inchieste dl attualità italiana. __________________________________________________________ La Repubblica 23 gen. ’08 UNIVERSITÀ, IL CREPUSCOLO DEI BARONI rivolta web nell'ateneo dei privilegi Parte da Internet il movimento contro "la scuola del nepotismo e dei favoritismi" Siti e blog di studenti e professori per provare a voltare pagina di DAVIDE CARLUCCI Docenti all'inaugurazione dell'anno accademeico NON riesce proprio a farsene una ragione, l'oncologo Massimo Federico. "E' come se un calciatore avesse vinto la coppa Davis", dice. A Modena è accaduto di recente un fatto assai curioso: un professore associato in dermatologia è diventato ordinario in una prova bandita dal corso di laurea in odontoiatria. L'idoneo ha 36 anni e si chiama Giovanni Pellacani. E' il figlio del rettore, Giancarlo Pellacani (che ha anche un altro figlio docente a Giurisprudenza). Durante la seduta per la chiamata, tre professori hanno votato contro. Uno di questi è l'ex preside della facoltà di Medicina, Maurizio Ponz de Leon: "Non si è mai verificato, almeno negli ultimi trent'anni di storia della nostra facoltà, che un ricercatore riuscisse a diventare ordinario in soli 6 anni e 4 mesi dalla nomina a ricercatore. Certo, potrebbe avvenire per meriti eccezionali. Ma, come visto dall'esame del curriculum, questi meriti non esistono". Il docente insegna da sei anni, ha un'esperienza all'estero di soli due mesi e i suoi punti di Impact factor (il riscontro dell'attività di ricerca nelle pubblicazioni scientifiche), riguardano solo la dermatologia: non il Med50, il settore, cioè, per il quale ha vinto il concorso. Altra stranezza: "Il concorso non ha visto la partecipazione di nessuno degli associati e dei ricercatori della nostra facoltà". Federico dal canto suo fa osservare che "in Italia esistono 26 professori associati" di quel settore ma nessuno ha fatto domanda. E aggiunge: "Data la delicatezza della decisione, trattandosi di un procedimento che riguarda il rettore, chiedo che la votazione avvenga dopo che la facoltà sia stata edotta delle conseguenze di una chiamata che potrebbe rientrare nel campo della presunzione di nepotismo". Federico chiede informazioni su dodici punti e qualche settimana dopo, non ottenendo risposte, denuncia tutto alla Procura. Da allora sta perdendo ogni incarico: dalla presidenza della commissione contratti e contenzioso alla direzione della scuola di oncologia. Una convenzione con l'Istituto superiore di sanità, che ha promesso 148mila euro all'università per le ricerche da lui c00rdinate, è bloccata. E persino nel giornalino dell'università si evita accuratamente di parlare della pur prolifica attività di Federico e dei suoi collaboratori. Il professore, però, non molla. E pochi giorni fa è tornato a chiedere le dimissioni del rettore. Il magnifico, dal canto suo, reagisce: ha querelato il professore ribelle, che aveva illustrato, in un incontro pubblico, le analogie tra le sue ricerche sulle sindromi familiari e "l'albero genealogico della famiglia Pellacani". Quello di Modena è solo uno dei tanti fronti caldi della protesta contro i presunti casi di nepotismo nelle università. L'altro è la Sapienza di Roma, dove le polemiche per il mancato incontro con papa Benedetto XVI sono riuscite a far passare in secondo piano la bufera che s'era addensata sul rettore, Renato Guarini. Pochi giorni prima dell'invito del pontefice, Guarini è stato iscritto nel registro degli indagati per abuso d'ufficio: la procura di Roma indaga su un possibile scambio di favori con l'architetto Leonardo di Paola, docente di Estimo ma anche presidente della Cpc, la società che si è aggiudicata i lavori (8,8 milioni di euro) per la realizzazione del parcheggio della città universitaria. Di Paola è anche il presidente della commissione che ha promosso Maria Rosaria Guarini, figlia del rettore, a ricercatrice in Estimo. Anche in questo caso la denuncia è partita da un docente universitario, Antonio Sili Scavalli, già autore di un'altra denuncia sull'intreccio tra cattedre e appalti. Alla Sapienza insegna anche Tommaso Gastaldi, ricercatore di Statistica. Mesi fa previde: una rivoluzione sta per scuotere l'università italiana. "Si sta creando un incredibile fronte compatto di persone di buona volontà che va da Napoli a Siena... Possiamo veramente creare un'onda sismica... - scrisse nel suo blog, Concorsopoli". I casi di Modena e Roma mostrano che il terremoto è già in atto: è la rivolta contro il sistema di c00ptazione dei professori universitari, spesso assimilato all'affiliazione mafiosa. Dopo i primi scandali di Bari, Bologna, Firenze, Siena, Macerata, Messina e le inchieste che sono seguite, la parola d'ordine è attaccare la "razza barona", la casta che manda in cattedra figli, nipoti, cugini e amanti - ma anche amici e compagni di partito, frammassoni, colleghi di cordata. Siti come quello di Gastaldi (che ha creato un osservatorio per segnalare in anticipo i concorsi sospetti) si moltiplicano. Si chiamano Ateneo pulito, Malauniversitas, Università degli orrori, Ateneo palermitano. Diari dell'indignazione accademica curati da chi non regge più lo strapotere degli ermellini. Il pretesto può essere anche un convegno, come quello che si terrà sabato a Pisa, organizzato dalla massoneria toscana. Su Il Senso della misura, il blog curato dal docente Giovanni Grasso, si fa notare che "a Roma e a Pisa l'università si apre al mondo in modo diverso. Credete che la libertà di parola dei massoni sarà messa in discussione a Pisa? Credete che frange estremistiche si ricorderanno che la Toscana è stato il cuore territoriale, quanto meno, della P2?". Nel suo Universitopoli, Marco Lanzetta, primo chirurgo italiano ad aver effettuato un trapianto di mano, ha pubblicato invece la sentenza del consiglio di Stato che lo proclama finalmente vincitore contro l'università di Varese. "I giudici riportano la legalità nei concorsi universitari", scrive. La sua, alla vigilia della riforma del sistema concorsuale - annunciata dal ministro Fabio Mussi per le prossime settimane - è una convinzione diffusa. E così il Tar di Palermo ha restituito a Maria Rita Gismondo, microbiologa della clinica Sacco di Milano, il posto da ordinario che le era stato soffiato da docenti che, è risultato poi, avevano spacciato per pubblicazioni scientifiche dei semplici atti congressuali. Lo stesso è successo a Bari, dove alcuni docenti di Diritto si sono presentati a un concorso, vincendolo, con fotocopie "edite" da un'anonima stamperia di Benevento. Sempre a Bari è stato necessario l'intervento del Tar perché un professore di biochimica ottenesse il laboratorio che gli spettava, negatogli dall'endocrinologo Francesco Giorgino, peraltro indagato dalla procura, insieme al padre, per il suo concorso da ordinario, grazie al quale ha ereditato la direzione del reparto. Molti docenti "arrabbiati", ora, cercano di organizzarsi in un network. Fanno il tifo per i magistrati e trovano alleati anche oltre gli atenei. Come Paolo Padoin, prefetto di Padova, che alle nefandezze universitarie dedica una sezione del suo sito Rinnovare le istituzioni, scrivendo: "Manteniamo fiducia nell'azione della magistratura che, anche se in tempi biblici, dovrebbe arrivare alla definizione delle tante azioni penali pendenti in diverse sedi universitarie. Soprattutto la vicenda di Trieste, nella quale sono coinvolti quasi tutti i big di agraria, denunciati dal professor Quirino Paris... ". Paris, docente della University of California: è emigrato lì dopo un feroce scontro con i suoi colleghi italiani proprio sulle procedure di selezione. Ha inventato un modello matematico delle parentopoli italiane e lo ha fatto pubblicare su una rivista on line americana. Ovunque si grida alla prova truccata. I professori scrivono ai magistrati, avvertono carabinieri e finanzieri: la vita accademica procede per via giudiziaria. Chiami un docente e ti risponde: "Non posso parlare, sono in procura". Un ricercatore romano segnala in continuazione al ministero - che le gira ai pm - le sue previsioni sui vincitori dei concorsi. "In questo momento - anticipa - ce ne sono in corso due a Roma. In uno è stato richiesto, addirittura, che i candidati presentassero solo tre pubblicazioni. Una follia: significa tagliar fuori chi vanta decine di pubblicazioni internazionali". Il Tar di Palermo, del resto, ha già sentenziato che non si può scendere, per decenza, sotto una soglia minima di dieci pubblicazioni. A Messina, l'università dove si sono laureati molti figli della 'ndrangheta, non si riesce invece a concludere un concorso di audiologia, in gestazione dal 2002. Tra i candidati, quattro nomi eccellenti: i due fratelli Motta, figli dell'otorinolaringoiatra napoletano Giovanni, e i due fratelli Galletti, figli dell'otorino messinese Cosimo. Due di loro (uno per famiglia) sono vincitori del famigerato concorso del 1988 annullato dalla Cassazione perché sfacciatamente truccato. A giudicarli, in commissione, saranno tre professori universitari messi in cattedra dai loro genitori. Intanto, nel capoluogo siciliano s'indaga su un altro concorso, quello di Veterinaria, per il quale un gip ha deciso di sospendere il rettore Tomasello. A Siena, invece, una docente, assistita dall'avvocato Massimo Rossi, ha fatto aprire una nuova inchiesta: le è bastato allegare alla denuncia una mail, da lei intercettata, scambiata tra i commissari di un concorso. "Non mi sono sentita in imbarazzo nell'avanzare la proposta di scorrimento della professoressa T. a professore di prima fascia. La candidata ha un curriculum serio". In effetti, otto mesi dopo la professoressa ottiene lo "scorrimento" a professore ordinario. Ma in Italia divinare il nome del vincitore è quasi la norma: il nome dell'idoneo è deciso in anticipo dalla facoltà nel momento in cui "chiede" il posto. Tutto il resto (pubblicazione del bando in gazzetta ufficiale, elezione dei commissari, loro convocazione nella sede con relativa ospitalità in albergo, prove scritte e orali) è un'inutile messa in scena che per ogni "valutazione comparativa" costa, in media, 20mila euro alle casse dello Stato. Mentre l'università vive la sua "Mani pulite", i concorsi languono. I posti da associati e ordinari non si bandiscono da maggio del 2006, quelli per ricercatore sono stati, nel 2007, 1188 contro i 1618 del 2006 e contro i 2514 del 2005. Ora, però, stanno per ripartire: Mussi ha stanziato 40 milioni di euro e ha varato un nuovo regolamento che dovrebbe limitare la sfera d'influenza dei commissari, sottoponendo in prima battuta tutti i candidati al giudizio di revisori anonimi. E si torneranno anche ad assumere associati e ordinari. Ma non con il vecchio sistema di concorsi, considerato "un atto di ostilità che ha devastato qualità e bilanci": la riflessione è di Pier Ugo Calzolari, rettore di Bologna, e apre un altro sito di "controinformazione" sugli scandali accademici, Scienze medicolegali. L'ateneo bolognese è stato il primo a tentare di reagire agli scandali con un codice etico per prevenire le assunzioni di parenti negli stessi dipartimenti, molto frequenti durante il rettorato precedente del potentissimo Fabio Roversi Monaco. In Paesi come la Nuova Zelanda o il Canada norme di questo tipo già da anni correggono i conflitti d'interesse non solo tra parenti ma anche tra amici o tra colleghi di studi professionali privati che insegnano nell'università. Lo rivendicano anche molti docenti che vogliono il cambiamento. A Bari, per esempio, è la battaglia del magistrato (e docente di diritto canonico) Nicola Colaianni e dell'associato Carlo Sabbà, che ha fatto aprire, con le sue denunce, l'inchiesta sui concorsi pilotati a Medicina interna nella quale figurano, tra gli indagati - oltre all'ordinario di Medicina interna Giuseppe Palasciano - anche nomi eccellenti, come il milanese Pier Mannuccio Mannucci. Nel capoluogo pugliese, però, dove famiglie come i Massari o i Girone hanno fatto il pieno di cattedre e dove i baroni avevano, fino a poco tempo fa, persino i posti barca gratuiti sul lungomare, le resistenze sono ancora fortissime. Una prima bozza, però, è stata approvata a dicembre e vieta esplicitamente l'assunzione di parenti e altri docenti all'interno delle facoltà. Forse qualcosa cambierà. __________________________________________________________ Europa 25 gen. ’08 CONCORSI UNIVERSITARI, LE PROMESSE TRADITE Secondo John Nlaynard Keynes il rischio dell'adottare la scelta più audace è molto inferiore al rischio dell’inazione; le persone eccessivamente caute, poste in posizione di responsabilità, costituiscono pericolose passività per la nazione. Vittorio Emanuele Orlando, peraltro, sottolineava, agli inizi del Novecento, come il sistema italiano di istruzione rappresenti « un organismo quanto mai delicato cui il medico può fare assai più il male che il bene, sì che qualche volta, l’astenersi è prudenza ». E’ probabile che la verità stia nel mezzo, nel senso che, nell'attività di governo (in particolare, per le politiche di istruzione), occorrerebbe rinvenire il giusto punto di equilibrio tra azione ed inazione, agire in modo coerente rispetto alle linee programmatiche e, soprattutto, scegliere il giusto tempo per l’azione e per l’attesa. Se si agisce quando sarebbe meglio astenersi, se si agisce in modo incoerente o ci si astiene per poi agire tardivamente gli effetti conseguenti non possono che essere negativi. Ne costituiscono un esempio i recenti interventi in materia di concorsi universitari da professore e da ricercatore. Si consideri, anzitutto l'articolo 15 del d.l. n. 248/2007 cd, decreto legge "milleproroghe", che prevede il ripristino, per una sola tornata, nel corso del 2008, dei concorsi locali per professore universitario, ad una idoneità. Per un amo e mezzo si è costantemente ribadito, in sede ministeriale che il bilancio dei sette, anni di concorsi locali fosse da considerare in modo negativo e che occorresse tornare, giustamente ai concorsi nazionali. Nulla, tuttavia, è stato concretamente fatto in proposito. All’inazione è seguita l’azione, ma in senso contrario a quanto sin ad allora sostenuto. attraverso il ripristino, sia pur temporaneo, dei concorsi locali. E è detto che il meccanismo dell’idoneità unica dovrebbe costituire una garanzia rispetto al malcostume passato e, cioè, far sì che, anziché un candidato debole indigeno ed un bravo studioso esogeno, superi il concorso soltanto il migliore tra essi. Peraltro, stando alle risultanze dei concorsi locali degli ultimi anni, il rischio è che l’unico vincitore risulti essere il debole candidato locale. Fatto sta che, in materia di concorsi per professore associato ed ordinario, sono state fatte enunciazioni in un senso, per poi operare concretamente nel senso inverso. Si consideri, poi, il recente decreto ministeriale recante modalità di svolgimento dei concorsi per ricercatore universitario. Si tratta di un classico caso in cui, per dirla con Orlando, astenersi sarebbe stato segno di prudenza. Innanzitutto, esso è stato emanato senza aver compiuto una riflessione accurata sulla fascia dei ricercatori. Agendosi, invece, attraverso il decreto ministeriali esclusivamente sulle modalità di selezione degli stessi. Sia chiaro, il contenuto del decreto non è da considerare in senso totalmente negativo. Positivo pare essere il ricorso al meccanismo dei revisori (rewferee) anonimi. Parzialmente positive può essere anche il giudizio sul sistema dei macro-settori, che consente di aggirare le pulsioni corporative dei settori disciplinari. Tuttavia, in entrambi i casi il rischio è quello di far valutare l’attività scientifica di un giovane studioso da soggetti privi delle competenze specifiche per poterlo fare (ad esempio. può uno studioso di diritto penale valutare il grado di originalità e di innovazione di saggi di diritto amministrativo e viceversa? I profili negativi del barocco meccanismo di selezioni peraltro, superano certamente quelli positivi. 1) L’articolo 2, comma 6, fissa il limite di cinque domande di partecipazione per ciascuna delle due sessioni concorsuali annuali, con il risultato della artificiosa diminuzione del campo dei partecipanti. 2) Il giudizio dei revisori anonimi (con il caveat di cui si è. detto, circa le modalità di scelta degli stessi) conta soltanto al fine di una prima scrematura dei candidati , dal momento elle sono ammessi alla fase successiva tutti coloro che abbiano ottenuto, su un, punteggio totale di 4, una media superiore a 2 (dunque coloro che abbiano conseguito un giudizio di sufficienza scientifica). 3) Tra Coloro che hanno ottenuto la media superiore a 2 nel giudizio dei revisori, sono ammessi alla prova seminariale i candidati classificati nel quarto superiore della graduatoria. Peraltro, deve necessariamente passare alla prova orale un numero doppio di candidati rispetto alla totalità dei posti a concorso, aumentato di due unità. Dunque, se il concorso è ad un posto, dovranno essere ammessi almeno quattro candidati. Dal momento che il limite delle cinque domande per sessione non favorisce un ampio campo di concorrenti, qualora l’eventuale candidato locale riesca a superare lo scoglio dei referees, il più è fatto. 4) La composizione della commissione di concorso suscita notevoli perplessità. Ne fanno Parte: a) tre professori di ruolo dell’ateneo senza riferimento alcuno né al macro-settore, né, tanto meno, al settore disciplinari designati dal senato accademico: b) tre professori di ruolo del micro-settore interessato (non prevedendo l'esclusione dei professori in servizio presso l'università che ha bandito) designati dalle. strutture didattiche e scientifiche (Facoltà e dipartimenti) dell'ateneo, secondo le modalità stabilite da quest'ultimo. Dunque, da un lato vi potrebbe essere l’ipotesi per cui almeno la metà della commissione non abbia alcuna competenza scientifica per giudicare i candidati e, dall'altro, potrebbe accadere che. Tutti i membri della commissione siano professori di ruolo dell'ateneo che ha bandito. 5) Il compito scritto e la prova orale sono sostituiti da un seminarlo pubblico sui. risultati delle proprie ricerche. Tutto si risolve, dunque, in una sorta di discussione sui titoli senza che si possa entrare nel merito delle conoscenze generali della materia da parte del candidato, né valutare le capacità di elaborazione organica e sistematica attraverso la prova scritta. Si sottrae, inoltre, all'eventuale vaglio del sindacato giurisdizionale un possibile elemento di valutazione: la prova scritta concorsuale. 6) Le lettere di presentazione entrano a far parte degli elementi di giudizio di cui una commissione di concorso universitario per posti di ruolo è chiamata a tener conto. Peraltro, neri è dato comprendere quali siano le novità attraverso cui la commissione possa prendere in considerazione tali missive in sede di valutazione dei candidati, Il tentativo evidente è quello di imitare le esperienze anglosassoni. Tuttavia, occorre tener conto chi nel caso in esame, il meccanismo si inserisce in una tipica procedura concorsuale italica. In conclusione, si mira ad indebolire l’influenza delle cosiddette corporazioni accademiche, rafforzando notevolmente il peso degli atenei ed il potere dei titolari degli organi di vertice degli stessi. Ciò potrebbe funzionare al limite in un sistema fortemente concorrenziale e ad alto tasso di mebilità. Negli Usa, dalla capacità di attrazione degli studenti possono dipendere le sorti di uno facoltà o di un ateneo: per questo motivo le migliori università si contendono i docenti e gli scienziati. Più apprezzati, peraltro in un sistema bloccato qual'è attualmente quello italiano, in cui sono assenti (e lo saranno ancora per qualche anno) meccanismi virtuosi di emulazioni le università non pagano eventuali scelte sbagliate in sede di selezione di professori e ricercatori. In un ordinamento in cui i finanziamenti incentivanti per gli atenei virtuosi vengono dirottati, con un colpo di mano, agli autotrasportatori, conm’è avvenuto nell’ultima Finanziaria; un meccanismo siffatto non può che dar vita ad effetti patologici. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 gen. ’08 LO SPAZIO DEL TALENTO DI LAURA AQUILI ED ERGIAN ALBERG I luoghi della conoscenza sono oggi I sempre più luoghi visibili della conoscenza, oltre che suoi depositari. Sempre più in espansione e spesso in maniera contraddittoria, sono a volte in linea con la definizione dei non-luoghi dell'antropologo Marc Augé. Le persone transitano nei non-luoghi ma nessuno si relaziona o vi abita. L'individuo nel non-luogo perde il suo ruolo, per continuare a esistere solo ed esclusivamente come cliente o fruitore. Il che implica anche una forte chiusura verso la città stessa. A, intuire il rischio tra i primi furono Renzo Piano e Richard Rogers con il Beaubourg del 1977: il museo rinunciava alla chiusura per aprirsi verso Parigi. Nell'interazione tra luogo della conoscenza e città, il primo può cambiare il futuro della città stessa; come nella grande rivoluzione operata dall'effetto Bilbao con il Guggènheim di Frank Gehry, ormai divenuto archetipo di una nuova strategia commerciale che ha permesso l'accumulo di risorse, investite poi nella riqualificazione della città basca. II connubio architettura-luogo della conoscenza, porta anche alla rivitalizzazione di aree poco vissute. È il caso di Londra dove nel 200o la Tate Modern è divenuta ben presto museo tra i più visitati, tanto da richiederne oggi una considerevole espansione. I progettisti, gli svizzeri Herzog&De Meuròn, autori anche del centro culturale di Madrid e del Miami Art Museum, sostengono che «la creatività contribuisce allo sviluppo della società anche in senso etico. Un'architettura spettacolare ha una responsabilità morale più forte di un'architettura moderata». E la responsabilità è forse anche quella di portare l'arte dove nessuno andrebbe: Come a Denver, dove l'estensione del museo di arte moderna e contemporanea è affidata allo studio newyorkese di Daniel Libeskind. Evitando di separare interno ed esterno, il progetto assicura, dietro l'intrigante esteriorità, anche un'esperienza altrettanto emozionante e sensuale al suo interno. La città contemporanea può essere definita come un sistema complesso formato da numerosi elementi in competizione e in collaborazione tra di loro che subiscono continue modifiche. E per poter sostenere la competizione internazionale devono creare costantemente nuovi poli di attrazione, nuove occasioni e nuovi stimoli per rendere abitabile e viva la città. Come la struttura che entro il 2010 assicurèrà alla Hong Kong Polytechnic University nuovi spazi per la ricerca e la formazione: l’Innovation Tower di Zaha Hadid. Dell'architetto anglo-iracheno anche uno degli ingressi più scenografici dell'Expo di Saragozza 2008 un ponte- padiglione espositivo dalla fluida forma organica, un luogo di passaggio che diventa un percorso di conoscenza. Conoscenza e innovazione vanno di pari passo: il contenitore deve essere oggi più che mai espressione d'innovazione. Edifici informatici dunque, che, trasmettono informazioni, come la Kunsthaus di Graz, di Peter Cook e Colin Fournier. Traduce lo spazio virtuale in nuove forme fluide la cui pelle si separa dalla struttura per diventare interfaccia tra l'ambiente esternò e lo spazio interno. Uno schermo multimediale in simbiosi con le forme della Kuristhaus, animato da infinite immagini in movimento. In altri casi la pelle opera una scissione tra esterno e interno, come accade nel New Museum of Contemporary Art di New York, progettato dallo studio giapponese Sanaa. Le infinite gallerie espositive sono avvolte da una maglia metallica che facilita la regolazione della luce interna. Contenitori semplici al servizio delle opere. Aperto ininterrottamente in occasione della recente inaugurazione, ha registrato flussi di visitatori record durante tutto l'arco delle 24 ore. Sempre a New York ma destinato a ospitare spazi per le facoltà d'Ingegneria, Architettura e dell'Accademia delle belle arti della C00per Union, verrà progettato dai californiani Morphosis. L'edificio universitario è concepito come una piazza verticale contenuta in un involucro semitrasparente. La permeabilità visiva della struttura rende più facile l'integrazione del campus nel quartiere urbano. Uno spazio architettonico ibrido aperto verso la città e dal grande impatto-e seduzione visiva,è il Musée Des Confluences che sarà completato ;a Lione entro il 2010. Progettato dai viennesi Coop Himmèlbau (letteralmente costruttori del cielo) e definito dagli stessi nuvola cristallina della conoscenza, sarà uno spazio pubblico aperto alla confluenza di molteplici discipline, in continua interazione e scambiò reciproco. L'evoluzione dei luoghi della conoscenza sembra non avere frenò, alimentando ampi spazi sperimentativi e d'innovazione sensibili al cambiamento della nuova era informatica. E come dice Aaron Betsky, curatore della prossima Biennale di Architettura, parlando della sostanza che alimenta la trasformazione «...dobbiamo assorbire dall'arte, dall'architettura del paesaggio, dall'interior design, dai media emergenti e dalla letteratura... dobbiamo capire e organizzare un inondo che è in costante mutamento». aquilialberg.novai00.ilsolez¢ome.com __________________________________________________________ La Repubblica 25 gen. ’08 I DOCENTI «CRETINI» E IL METODO TARGATO CEPPALONI _ DI CURZIO MALTESE Cretini. Violenti. Così sono stati definiti da tutti, perfino da Massimo Cacciari, i professori di Fisica della Sapienza che avevano firmato un documento contro l'inaugurazione dell'anno accademico da parte di Benedetto XVI. Premetto che non avrei mai firmato quel documento. Detto questo, un conto è dissentire, altro è coprire d'insulti un gruppo di scienziati la cui colpa è fondamentalmente non aver capito che l'Italia è un Paese strano. Davvero, dove credono di vivere il professor Marcello Cini e gli altri? Già dovrebbero scontare la colpa di mandare avanti, con pochi mezzi, una delle tre o quattro facoltà italiane di assoluta eccellenza europea. Invece di adeguarsi all'andazzo dell'aurea mediocrità del mondo accademico, alle parentopoli nostrane, ai raccomandati di partito. E questo li qualifica subito come «cretini». In più, si pongono la più oziosa delle domande. In quale altra nazione una facoltà scientifica chiamerebbe all'inaugurazione dell'anno accademico, invece del solito Nobel, un signore che considera Darwin un delinquente e il processo a Galileo sacrosanto? Tipico scrupolo da cretini perché si sa che l'Italia non è un Paese normale. Qui chi osa criticare la Chiesa è un reietto. Naturalmente, nel caso specifico, i nuovi farisei sedicenti liberali non sono insorti per la critica al Papa in sé, ci mancherebbe altro, ma in difesa della libertà d'opinione. Ora, non per buttarla sul piano personale, tuttavia un mese fa, quando non un gruppo di docenti di teologia ma il segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, ha intimato a Repubblica di «finirla» con un'inchiesta sulla Chiesa, non c'è stata mezza parola di solidarietà da parte dei furbetti del quartierino liberale. Ormai è diffuso in Italia un fastidio, meglio un sarcastico disprezzo, verso le minoranze civili. Non c'entrano neppure le divisioni politiche. II 95 per cento che ha espresso condanna per gli scienziati della Sapienza, il giorno dopo si è schierato con identico monolitismo a difesa di Mastella e signora. Anche qui non si tratta di prendere le difese dei magistrati campani. L'inchiesta non sembra destinata a passare alla storia del diritto. Ma il malcostume, quello è provato. Si può sorridere, da uomini di mondo, sul fatto che l’Udeur della famiglia Mastella si occupasse di piazzare primari di fiducia negli ospedali. Si pub commentare che così fan tutti, non soltanto a Ceppaloni e dintorni. Ma chi conosce tanti giovani e capaci medici meridionali costretti a emigrare per non sottostare a questa spazzatura, potrà almeno non trovare divertente la vicenda? Si potrà ancora dire in Italia che questi metodi ci fanno schifo? `k,...°# __________________________________________________________________ Corriere della Sera 23 gen. ’08 MONTALCINI: AVREI FIRMATO CONTRO IL PAPA MILANO - «Sono membro del Vaticano: non potevo firmare quello che invece approvo completamente». Rita Levi Montalcini avrebbe voluto sottoscrivere la lettera anti-Ratzinger scritta dai 67 docenti della Sapienza. Avrebbe aggiunto il suo nome al documento firmato dai professori contrari all' intervento di papa Benedetto XVI nell' ateneo romano. Non l' ha fatto. «Non potevo», ribadisce il premio Nobel, prima donna ammessa alla Pontificia Accademia delle Scienze. Lo dice sicura, con il tono pacato che ha usato per tutta la sua mattinata milanese, durante la quale ha ricevuto la laurea honoris causa in Biotecnologie industriali dall' Università Bicocca. Poi taglia corto: «Ma non devo parlare di questo». Nell' aula magna gremita - mentre fuori un gruppo di studenti di Azione Universitaria (An) le grida «Con la laurea e una stampella tieni in piedi il Mortadella» - la scienziata e senatrice a vita preferisce discutere di ottimismo: «È stato il mio unico merito: ho un' intelligenza mediocre». (A. Sac.) Sacchi Annachiara __________________________________________________________________ Corriere della Sera 23 gen. ’08 TOTTI FA IL DIFENSORE. DEL PAPA «DOVEVA PARLARE ALLA SAPIENZA» Francesco Totti diventa difensore per un giorno. Il «miracolo» avviene in un luogo appropriato: il sito Petrus, autonominatosi il quotidiano online sul pontificato di Benedetto XVI. Ed è un miracolo doppio, perché Totti appare sulla stessa pagina web dove c' è il commento al campionato di Luciano Moggi, uno dei nemici storici della Roma e, perciò, del suo capitano. Quella di Francesco Totti, però, è un' intervista, che spazia dal calcio alla fede: «Non ho ancora conosciuto di persona Benedetto XVI, ma mi infonde fiducia, tranquillità e pace. La mancata visita all' Università La Sapienza? Una faccenda grave. Penso che avesse il diritto di svolgere la sua relazione, ma qualche testa calda l' ha pensata diversamente. Onestamente non ho capito le contestazioni di docenti e studenti». C' è il ricordo d' infanzia: «Da piccolo i miei genitori mi portavano a messa, poi iniziai i corsi di catechismo e molte volte ho aiutato il sacerdote come chierichetto». Valori che il calcio, a volte, annega nella violenza. Come nel caso degli accoltellamenti fuori dall' Olimpico: «Chi si comporta in quel modo non è degno di chiamarsi tifoso: la partita è un evento pacifico. Gli sfottò e le battute ci stanno, io per primo amo lo scherzo e la barzelletta, ma la violenza è un' altra cosa, è un fenomeno grave e assurdo». Valdiserri Luca __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 24 gen. ’08 E IL DEFICIT DELLE UNIVERSITÀ CONTINUA... I decreti mille-proroghe di Mussi di Sandro Maxia* Finita bene o male la turbolenza indotta dalla questione delle tasse, l’Università è scomparsa dalle cronache, tornando all’abituale tran-tran burocratico-sindacale, nella generale indifferenza. Eppure, sono questi per gli Atenei italiani, o meglio, per i consigli di Facoltà, giorni di intenso lavoro, provocati dal piccolo tsunami dei "decreti Mussi", coi quali l’attuale ministro dell’Università intende porre rimedio all’irresponsabile moltiplicazione dei corsi di laurea, nati in gran parte privi delle risorse, umane e strumentali (per intenderci: professori e attrezzature) perché siano gestiti almeno al minimo della decenza. Esemplare il caso della Facoltà di Scienze politiche dell’Università cagliaritana che con mirabolanti "offerte didattiche" si era portata in testa alla classifica per numero di nuovi iscritti e pochi mesi dopo, usciti i nuovi parametri ministeriali, risultava ancora in testa, sì, ma alla classifica negativa delle Facoltà con maggiore deficit di risorse da colmare. Purtroppo, però, la necessità di rientrare nei ranghi appartiene a tutta l’Università italiana, le cui patologie sono ben note. Tra queste, una delle più gravi è l’alto numero dei fuoricorso, fenomeno tutto italiano, che la riforma del 3+2, promossa dall’allora ministro Luigi Berlinguer e, dopo la sua cacciata dal governo, attuata dal suo sostituto, un certo Zecchino, intendeva appunto sconfiggere, mentre è più vivo che mai, come i pochi grilli parlanti contrari alla sedicente riforma avevano esattamente previsto. I decreti Mussi sono, da una parte, risibili pannicelli caldi, perché non toccano la sostanza della riforma del 3+2, anzi, ne prorogano senza limiti di tempo gli aspetti più negativi, compreso il sistema dei concorsi per i docenti, uno tra i peggiori possibili (non a caso i decreti sono stati spiritosamente definiti "milleproroghe"); dall’altra, però, sono necessari come misura di pronto intervento per bloccare uno dei più deleteri effetti della "riforma", indotto dal sistema dei crediti, e cioè la frammentazione delle discipline e il conseguente aumento del numero degli esami necessario per conseguire la laurea (nelle Facoltà di Lettere e Filosofia, dove chi scrive ha insegnato per quarant’anni, dai venti esami di un tempo si è passati ai trenta/quaranta attuali). Le cause di questa aberrazione sono numerose, ma tutte riconducibili a un malinteso uso della cosiddetta autonomia, che ha affidato a una corporazione da sempre abituata a erigere steccati intorno alle singole discipline l’attuazione di una "riforma" già di per sé pessima. Ma le responsabilità del ministero e del suo braccio "armato", la Conferenza dei Rettori (la famigerata CRUI) sono altrettanto gravi: immaginate per assurdo un Comune che promulgasse un piano regolatore privo delle volumetrie consentite per le varie aree della città, e che poi corresse ai ripari ordinando ai costruttori, a cose fatte, di rientrare nei parametri finalmente stabiliti, demolendo le eccedenze. Bene, è proprio ciò che è accaduto all’Università italiana, e ora costringe gli allegri progettisti di corsi a go-go a rinsavire, sotto l’occhio, finalmente fattosi vigile, del baffuto ministro in veste di castigamatti. Dal rinsavimento forzato dei professori non possono che venire buone notizie per gli studenti, che vedranno riportato a più miti consigli l’insensato esamificio. Guardiamo pertanto con indulgente simpatia all’abilità con cui le Facoltà (mi riferisco in particolare a quelle di Lettere, compresa la nostra di Cagliari) hanno cercato di contrastare la freddezza burocratica della "griglia" ministeriale, allegando un fantasioso elenco di sbocchi professionali, tale da arricchire l’ appeal degli studi umanistici. Mi permetto però di dare ai miei ex-colleghi un consiglio non richiesto, come è consentito ai vecchi: tolgano dall’elenco delle professioni la ridicola dicitura "poeti e scrittori"; si ricordino che lo spirito soffia dove vuole, e che nessuna laurea, per quanto brillantemente conseguita, potrà trasformare il povero untorello in un artista. Due dei più grandi scrittori europei del secolo scorso, Carlo Emilio Gadda e Albert Musil, avevano una laurea, ma entrambi in ingegneria. Cechov era un medico. Si rammentino i colleghi dei versi di Montale: "Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade….". E poi naturalmente facciano quello che vogliono. *Università di Cagliari __________________________________________________________________ La Voce 23 gen. ’08 LARGO AI GIOVANI O RISPARMIO AD OGNI COSTO? Sparisce per i docenti universitari il diritto al fuori ruolo prima della pensione di Cristina Lavinio Non sarà partito democraticamente corretto, ma lo dico lo stesso: ho l’impressione che la cultura costituzionale dei nostri politici - tutti, o quasi - sia molto, molto scadente. Tutti a scandalizzarsi e deplorare per il presunto sgarbo al papa, senza considerare le ragioni di chi manifestava perplessità sull’opportunità di chiamarlo a fare gli onori di casa in una sede universitaria, istituzionalmente e costituzionalmente autonoma. E si mettono alla gogna quei professori che, non in questi giorni, ma a fine novembre, scrissero al riguardo al loro rettore. Ma non di questo voglio parlare, quanto piuttosto di qualcosa di cui sono venuta a conoscenza solo qualche giorno fa. È arrivata a tutti i docenti dell’Università di Cagliari una circolare degli uffici in cui veniamo informati dell’avvenuta abolizione, nei meandri della finanziaria 2008, del diritto dei professori universitari di stare, raggiunta l’età della pensione, ancora qualche anno fuori ruolo a svolgere il proprio servizio, pur potendo essere esonerati da compiti didattici. È prevista una certa gradualità dell’abolizione (scalini o scaloni? scivoli velocissimi?), ma sicuramente dopo il 2010 nessun docente potrà andare fuori ruolo. Dietro questa scelta sembra ci sia il desiderio di ringiovanire all’improvviso l’Università, ma ancora non c’è aria dei promessi concorsi per ricercatore, né - se si aspetta troppo - si capisce bene chi potrà gestirli, dati i previsti pensionamenti di massa dei docenti più anziani…. O non c’è piuttosto il desiderio di risparmiare, dato che i professori mandati in pensione d’ufficio potranno comunque insegnare a contratto, consentendo, in questo modo, un notevole taglio dei costi agli Atenei? Ci si illude, in questo modo, di poter fare a meno di risorse intellettuali importanti anche per la gestione delle complesse strutture universitarie, mettendole all’improvviso in mano ai pochi giovani di ruolo che resteranno in servizio? E come si concilierà la tendenza al risparmio, privilegiando i contratti, con la norma (sacrosanta) che prevede che comunque solo e non più di una certa percentuale di insegnamenti debba essere affidata a professori a contratto, cioè a figure esterne ai ruoli universitari? Ma, soprattutto, è possibile che una norma inserita surrettiziamente nella finanziaria modifichi retroattivamente gli stati giuridici e dunque i diritti acquisiti? Finora, proprio per i professori universitari, la modifica retroattiva di diritti acquisiti (e anche poter andare fuori ruolo è un diritto) non si era mai data. Tanto che a lungo sono state diverse le età in cui andare fuori ruolo. Gli ordinari diventati tali prima della legge 382 del 1980 hanno mantenuto il diritto di andare fuori ruolo a 70 anni, quelli vincitori di concorso dopo la 382 ci dovrebbero andare a 65. O forse a 70, come dice una legge approvata sotto il ministero Moratti, ma priva dei decreti attuativi che consentirebbero di passare allo stato giuridico relativo, abbandonando quello precedente. E adesso, tutti fuori all’improvviso? A quale età? Ai costituzionalisti e agli esperti la risposta…. Ma ho l’impressione che non sarà molto difficile vincere i tanti ricorsi che si profilano all’orizzonte. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 25 gen. ’08 DAI DICO ALLA SAPIENZA, IL GELO DEL VATICANO Di Larto marroni La questione sembrava chiusa. Ma la ferita è tutt'ora /aperta, se anche ieri da oltre Tevere si è tornati sull'annullamento della visita di Benedetto XVI alla Sapienza che ha visto in coda anche un battibecco con Palazzo Chigi. «Il Papa ha deciso che la sua presenza era inopportuna pensando al fatto che la sua visita non si sarebbe svolta in un clima di serenità», ha raccontato ieri Angelo Scelzo, navigato sottosegretario del Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali. Che tra il Palazzo Apostolico e Palazzo Chigi i rapporti non fossero stati mai idilliaci nonostante il premier Romano Prodi sia un buon cattolico (uno dei pochi leader non divorziato, si nota) - era cosa nota, specie dopo il referendum sulle staminali, sostenuto dal centro sinistra e dallo stesso Prodi, che si definì "cattolico adulto". Ma nei rapporti tra i governi poco c'entra la fede, e quando vien tirata fuori è quasi sempre con obiettivi strumentali. Da quando si è insediato nel maggio 2006, il Governo ha affrontato duri confronti con il Vaticano, a partire da quello sulle unioni di fatto. Il cardinale Vicario nel maggio 2007 sponsorizzò il Family Day, dopo che il Governo aveva varato il Ddl sui Dico (ex Pacs, ora Cus). Parole pesanti e chiarimenti in corso d'opera, come avvenne il 19 febbraio 2007 a Villa Borromeo per l'anniversario dei Patti Lateranensi. Lì fu chiaro che ognuno restava sulle proprie posizioni e che la legge non sarebbe mai passata per il blocco dei cattolici dell'Unione. Eppure Prodi- che ha avuto con il Papa un incontro ufficiale il 13 ottobre 2006 - il dossier-Chiesa non l'hai mai preso alla leggera, sia per i suoi ottimi rapporti con il mondo cattolico di base - come dimostrò ad esempio la partecipazione alla convention dei focolarini a Stoccarda sia per il dialogo continuativo con le gerarchie. Ma Prodi sconta il suo rapporto tutt'altro che facile con Ruini che, nonostante in quel di Reggio Emilia abbia celebrato decenni fa il suo matrimonio, dal 1995 (quando cioè si mise alla guida dell'Ulivo in un progetto tutt'altro che centrista)lo ha sempre osteggiato. Da allora il Vicario ed ex presidente della Cei, che sotto Wojtyla ha diretto i rapporti con il Palazzo, è considerato molto più attento a quanto si agita nel centro destra. Con l'avvento di Tarcisio Bertone alla Segreteria di Stato i giochi sono cambiati: al neo presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ha scritto che la titolarità della politica interna spetta al Vaticano. Per mesi nei palazzi Bertone è stato visto come l'interlocutore naturale di Prodi e poi anche di Walter Veltroni, leader del Partito Democratico, che da sindaco di Roma ha silenziosamente fatto cadere il registro sulle unioni. Ma le palline non stano mai ferme, e Bertone a fine anno ha di nuovo sparigliato: il vecchio Pci di Togliatti e Berlinguer, ha detto il porporato, non avrebbe mai approvato le derive laiciste che si manifestano nel Pd. Insomma, i cattolici erano tutelati di più in passato. Bordata che ha preceduto di pochi giorni quella del Papa su Roma e di Bagnasco sul Paese "sfilacciato", e che ha fatto da cornice alla grande offensiva sull'aborto e la famiglia. Un quadro a geometria variabile in cui i temi etici, i cosiddetti non negoziabili, si intrecciano con quelli politici, non ultimo la riforma della legge elettorale, di cui si parlò alla fine del pranzo in dicembre sempre a Villa 13orromeo, sede dell'ambasciata italiana presso la Santa Sede, quando tutti i pesi massimi del Governo incontrano quelli vaticani per salutare i nuovi cardinali italiani. Allora Prodi disse riservatamente a Bertone che si sarebbe fatto garante, attraverso il sistema tedesco, della rappresentanza cattolica. Ora, chi andrà a Palazzo Chigi sa già che un appuntamento con le più alte gerarchie della Chiesa , è già fissato: a Villa Borromeo il prossimo 19 febbraio. __________________________________________________________ La Repubblica 23 gen. ’08 CERVELLI IN LIBERA USCITA NADIA URBINATI La "fuga dei cervelli" dai nostri istituti universitari e di ricerca è un tema che fa discutere e preoccupa, con più di una buona ragione. Scriveva Salvatore Settis su la Repubblica di qualche giorno fa che gli studenti italiani sono tra i migliori candidati nei concorsi banditi da università straniere e, soprattutto, tra i più numerosi. "Abbiamo formato ottimi studiosi, mali spingiamo ad andarsene", scrive Settis. La mia esperienza di accademica emigrata mi porta a vedere le cose da un punto di vista leggermente diverso e che potrebbe essere utile considerare per una più completa conoscenza (e soluzione) del fenomeno. Il problema che vorrei sollevare è quello relativo agli effetti perversi che il timore dell'emigrazione può creare, e crea, nelle nuove generazioni, ovvero in chi prende oggi la decisione di completare la propria formazione all'estero. Non vi è dubbio che chi ama la ricerca non può né deve ragionevolmente temere di uscire e temporaneamente emigrare perché il nomadismo intellettuale è una condizione sotto molti punti di vista necessaria e ideale, soprattutto nella fase formativa, ma non solo. I confini nazionali sono un criterio arbitrario per chi ha vocazione al1a ricerca. Tuttavia, questa condizione ideale si concretizza più facilmente laddove e quando la libertà di movimento è effettiva, ovvero quando non è solo libertà di uscita ma anche di entrata. Ma quando c'è asimmetria tra libertà di uscita e possibilità di rientro, quella che è un'utilissima, stimolante e anche piacevole esperienza intellettuale può essere vissuta come ragione di esclusione e sradicamento. Quando e se l'opportunità di ritorno manca o è gravemente compromessa, allora la passione per la ricerca si mescola con il timore per le possibili conseguenze che il desiderio e la decisione di uscita possono avere nelle proprie scelte di vita. Questo timore, spesso fortissimo, mette in evidenza un vizio o un ostacolo nel sistema accademico e di ricerca italiano che è molto marcato e sarebbe nell'interesse del sistema educativo stesso, oltre che dei singoli studiosi, che venisse rimosso. Nel corso di questi ultimi anni, la mobilità verso gli atenei stranieri è cresciuta anche in ragione del processo di integrazione europea e per gli effetti virtuosi dei programmi Erasmus. L'abitudine a lasciare il paesello sta finalmente attecchendo anche da noi. Dal mio osservatorio di Columbia University posso constatare che è da qualche anno cominciata una nuova forma di presenza italiana: quella di studenti che, completata l'università in Italia, concorrono a posti di dottorato nelle università straniere, tuttavia non con l'intenzione di trasferirsi all'estero. Sono le proposte formative che li interessano non il mercato del lavoro americano. Tuttavia le implicazioni psicologiche che una possibile ammissione al dottorato può produrre sui nostri giovani candidati mi hanno fatto conoscere una realtà che è inquietante, e che non è la fuga dall'Italia, ma invece il timore di non poter rientrare; un timore che può avere un effetto deterrente notevole. Non è difficile da comprendere il sentimento di esclusione che la condizione di emigrazione, o il solo suo pensiero, può provocare. Non è difficile da credere che i giovani che si apprestano ad andare a perfezionarsi all'estero siano messi di fronte a un problema esistenziale e psicologico grande e difficile, un problema che non dovrebbero avere. Nell'ateneo dove insegno giungono studenti e ricercatori da tutti i paesi del mondo e la notizia dell’ammissione ad un corso di dottorato è per loro motivo di reale di meritata soddisfazione e gioia. Ma gli studenti italiani sono insieme felici e preoccupati perché sanno che rientrare potrà per loro essere un problema, per l'ovvia e perenne scarsità di risorse e quindi di opportunità di reclutamento degli atenei italiani; ma soprattutto e in primo luogo perché è noto che nell'accademia italiana vige il pessimo costume (che è anche regola) di considerare l'immobilità come un bene da premiare e la mobilità come un male da scoraggiare. Se poi si tratta di mobilità in università americane, allora la mobilità diventa un "lusso" da punire. I nostri ragazzi lo sanno e lo temono. Questa è una situazione riprovevole e profondamente ingiusta che, mentre produce sofferenza in chi la subisce, non fa del bene al nostro paese. Se paesi come l'India o la Cina sono di tanto riconosciuto successo economico è anche perché non hanno emigrazione intellettuale: i loro studenti vengono a perfezionarsi nelle università occidentali ma per tornare nei loro paesi, non per emigrare. In questi paesi, la risorsa cultura non è vista solo come un bene personale di chi la coltiva, ma anche come un bene per la società, nella quale tra l’altro la formazione culturale è cominciata nella maggioranza dei casi con soldi pubblici ed è giustamente considerata un investimento che il paese fa per il proprio futuro. Dare 1a possibilità del ritorno risponde a un calcolo di convenienza che un paese previdente e oculato dovrebbe saper fare. E anche nell'interesse dell'Italia che "il ritorno dei cervelli" non sia un problema. E' per questa ragione che mi sembra improprio parlare di "fuga dei cervelli"perché la questione vera non è uscita. I cervelli non scappano, vanno a nutrirsi. Sono le università italiane e i loro perversi meccanismi di reclutamento che troppo spesso chiudono le porte a chi esce, trasformando l'andata all'estero in una fuga. (l'autrice è docente alla Columbia University) ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 20 gen. ’08 SPRECHI: B00M DI UNIVERSITÀ LOCALI MA GLI ISCRITTI CALANO Gli sprechi del decentramento MENO INGEGNERI Il frazionamento accademico non ha incentivato nemmeno una maggiore formazione nelle materie scientifiche Crescono anche i fuori corso Gli atenei sono 94 (60 nel 1990), quasi uno per provincia Marco Alfieri costi del decentramento. Quando il federalismo diventa frazionismo anarchico, disordinato, spesso clientelare, dunque inefficiente e contrario agli interessi del sistema paese. Si può leggere anche così la vicenda Alitalia - Malpensa al centro delle cronache, o la competizione deteriore dentro lo strategico sistema fieristico italiano, oppure ancora il campanilismo che ammorba le università italiane incapaci di competere con quelle dei grandi paesi industriali. Si tratta di un autonomismo funzionale scomposto, legato allo sviluppo locale, esploso sull'onda della mistica federalista che ha spirato forte nell'ultimo quindicennio. Prendiamo a campione università, fiere e aeroporti perché sono forse tre dei settori decisivi per il sistema Italia in cui il processo di anarchismo federalista è stato più accentuato. Partiamo dalla proliferazione degli atenei di campanile (tratteremo negli altri articoli il capitolo fiere e aeroporti). Agli inizi del '900 le università italiane erano 26, attualmente il ministero ne riconosce 94 su un territorio nazionale di 103 province: quasi un rapporto di 1 a 1. Ma il frazionismo più spettacolare: lo si è avuto nell'ultimo quindicennio: tra il 1990 e il 2005 gli atenei sono cresciuti da 60 a 83 (94 se ci aggiungiamo gli undici telematici) spalmati in più di 350 sedi locali, molte delle quali meri esamifici, con i risultati che sappiamo. Per esempio il numero degli iscritti, cresciuto in coincidenza con l’avvio della riforma universitaria (2001/2002),mostra nell'ultimo biennio un'inversione di tendenza rispetto al picco 2004/2005 (1.820.221 iscritti totali), stabilizzandosi intorno a 1,7 milioni. Lo stesso forte incremento di studenti laureati(sommando vecchio ordinamento, corsi triennali, specialistici e corsi speciali) passati dai 20l.118 del 2002 ai 301.298 del 2005, è da attribuirsi in gran parte a coloro che sono riusciti a concludere un percorso formativo avviato in precedenza. «L'incremento registrato nel periodo post riforma va legato più alla diversa articolazione dei percorsi formativi che non alla maggior offerta di sedi», spiegano esperti come Donatella Marsiglia. Ma soprattutto il decentramento non ha migliorato la capacità attrattiva dei nostri atenei: l'Italia continua ad avere una percentuale di ricercatori stranieri nei propri dipartimenti pari ad appena l’1% del totale. Complessivamente, solo il 3,2% degli studenti iscritti a nostri dottorati proviene dall'estero, e solo otto atenei su 71 (54 statali e 17 non statali) hanno una percentuale di stranieri iscritti a dottorati superiore al 10 per cento. Negli Usa ,è pari al 25%, in Gran Bretagna al 33%, in Spagna al 11%. L'attrattività media dei nostri atenei è dunque disincentivante (fatte le debite eccezioni), in un sistema di autonomie così esasperate. Se si guarda al resto d'Europa il confronto è impietoso (si veda il paper 2006 della Fondazione Rodolfo Debenedetti sullo «Splendido isolamento dell'università italiana»). Un ateneo è tanto più competitivo, produttivo ed efficiente quanto più ha nel suo corpo docente e nei suoi laboratori travaso di ricercatori, studenti e professori stranieri. Inoltre,l’eccessiva offerta formativa non sembra aver inciso sulla scarsa mobilità studentesca. I giovani che studiano in una regione diversa da quella di residenza sono "solo" 350mila, pari al 19,2%. All'estero la percentuale è quasi invertita. Gli atenei di campanile inchiodano a casa i giovani italiani. Legando la possibilità di spostarsi eventualmente al reddito dei genitori. Non basta. Il frazionismo accademico non ha incentivato nemmeno una maggiore formazione nelle materie scientifico ingegneristiche, dove più siamo carenti, costringendo le nostre imprese a rivolgersi all'estero per il fabbisogno di profili specializzati. Le iscrizione a ingegneria sono addirittura lievemente diminuite dalle 210mila del 2001-2002 alle 204mila del 2005-2006 (quelle in materie scientifiche sono passate invece da 49.367 a 54.662). Mentre il numero dei fuori corso, dopo un'iniziale assorbimento (dal 60% del 1997 al 40% del 2004), nell'ultimo biennio sarebbe risalito al46%. Morale: abbiamo duplicato sedi e corsi in un bizzarro risiko tra atenei. Il bilancio di questo malcelato federalismo, per ora, è di segno opposto: anziché favorire lo sviluppo di pochi centri d'eccellenza, ha di fatto sfornato una miriade d'istituzioni scadenti, spesso per mere logiche di consenso politico. marco.aljieri@ilsole24ore.com __________________________________________________________ Avvenire 25 gen. ’08 OCSE SPARA A ZERO SULLE «PRIVATE» intervento «Ma il giudizio impietoso dell'indagine del 2006 è il risultato di dati esigui e poco attendibili» Di LuisA RIBOLZI Ha destato clamore nelle settimane scorse la pubblicazione, su alcuni organi di stampa, dei dati Ocse Pisa 2006. Secondo la presentazione che ne è gaia fatta, in Italia avremmo le scuole "private" peggiori d'Europa. I giornali che hanno riportato la notizia con enfasi si sono totalmente astenuti dall'intervenire sulla metodologia usata. Invece un'attenzione all'attendibilità scientifica dei dati avrebbe condotto a conclusioni diverse e il confronto tra scuola statale e scuola non statale non sarebbe sicuramente risultato cosi impietoso. E necessario partire dal fatto che quella dell'Ocse un' indagine campionari è a e una elaborazione statistica di dati riguardanti l'intera popolazione scolastica. Occorre Moltre segnalare che nell'indagine Pisa la classificazione per tipo di gestione della scuola non è fissata a priori nel campione di scuole (lo erano solo gli indirizzi e le aree geografiche), e quindi non è rappresentativa, anche pe~l'estrema esiguità dei numeri. Il campione esaminato di studenti delle scuole non statali ha una consistenza numerica assai ridotta: nell'insieme, gli studenti delle scuole statali sono quasi 22.000, e quelli delle scuole non statali 686. Ad esempio, su 21.733 studenti che hanno risposto alle domande sulle scienze, il confronto tra i licei nel Sud e Isole si basa solo su 29 studenti di scuola "privata", e quello degli istituti tecnici su 41! Il confronto dei risultati è significativo a favore della scuola statale solo a parità di provenienza socioeconomica degli studenti, e questo accade anche nel resto dei paesi Ocse, e non solo in Italia (paesi come il Giappone e la Svizzera hanno anzi valori molto superiori). Secondo le tabelle dell'indagine H 91496 degli studenti italiani è risultato iscritto alle scuole statali, l'1,2 alle "scuole private dipendenti dallo Stato ",che ricevono dallo stato più del 50% delle risorse essenziali) e il 2,4% alle "scuole private non dipendenti dallo Stato", che ricevono dallo stato meno del 50 per cento delle proprie risorse. C'è da chiedersi chi abbia potuto dare questa risposta, perché chiunque ha un minimo di conoscenza della scuola non statale in Italia sa benissimo che non esiste alcuna scuola privata secondaria che riceva dallo Stato più del 50% delle proprie risorse. La sola spiegazione, probabilmente stiracchiata, è che si tratti di scuole gestite da enti locali, ma l'ipotesi è da verificare. Resta l'amarezza: la diffusione incontrollata e non adeguatamente valutata dei dati è stata ancora una volta usata come una scure contro la scuola non statale e per contrastare ogni progetto che tenda a realizzare migliori condizioni di libertà educativa in Italia. Dovrebbe far riflette il fatto che i paesi in cui l'istruzione dà risultati migliori, quelli in cima alla classifica Ocse, sono proprio quelli che hanno attuato politiche di destatalizzazione dell'istruzione, di sostegno economico alle scuole non statali, di riconoscimento reale della libertà di educazione: in più di una ricerca, la presenza di un sistema di offerta scolastica diversificato costituisce infatti un elemento di miglioramento della qualità del sistema. Ma purtroppo in Italia l'opzione ideologica opera senza tenere alcun conto dei dati, facendo di ogni erba un fascio, identificando le scuole paritarie (che sono controllate più rigorosamente di quelle statali), con i cosiddetti diplomifici, che sono una minoranza, ed eludendo coá il tema del diritto delle famiglie a scegliere per i proprie figli, e nel loro interesse, il tipo di educazione che preferiscono. docente Università diGenova e rappresentante dell'Italia presso il Governing Boapd ckIPOcse ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 22 gen. ’08 RICERCATORI: DALLA CORTE DEI CONTI NO AI NUOVI CONCORSI Alessia Tripodi ROMA. Stop della Corte dei Conti ai nuovi concorsi per i ricercatori universitari targati Mussi. «La magistratura contabile ha dichiarato pienamente illegittimo il regolamento firmato dal ministro» ha dichiarato Giuseppe Valditara, responsabile università di An, secondo ,il quale «si tratta di uria clamorosa bocciatura per il governo Prodi e la sua politica sul reclutamento universitario». Il riferimento è alle osservazioni dell'Ufficio di controllo della Corte dei conti pubblicate nei giorni scorsi. Per i giudici il percorso normativo segui to dal ministro dell'Università, Fabio Mussi, è improprio, in quanto il regolamento non è uno strumento che può «ridisegnare in toto la materia del reclutamento» stabilita da una legge. Non solo: secondo la Corte, la prima fase di valutazione dei candidati - prevista dal testo e realizzata da esperti revisori anonimi - «espropria la commissione giudicatrice» interna all'ateneo «delle proprie funzioni di organo tecnico del concorso» e «risulta priva della trasparenza richiesta dalla procedura». La replica del ministero non si è fatta attendere: «Si tratta di normali procedure di verifica ha minimizzato Mussi e il regolamento è attualmente alla verifica della Corte dei conti, che ha formulato alcune osservazioni nell'ambito dei propri ordinari poteri di controllo». Mussi ha ricordato, poi, chic il testo sui nuovi concorsi <«ha già ricevuto, sul piano della legittimità> il parere favorevole del Consiglio di Stato»: Ma Vaiditara ribatte che «a luglio i giudici di Palazzo Spada avevano già enunciato una serie di pesanti rilievi sulla bozza del provvedimento». Intanto ieri da Vercelli il ministro dell'Università ha puntato l'indice contro «gli stipendi bassi dei ricercatori» e «l'eccessiva proliferazione di a,tenei» nel nostro Paese. Auspicando, infine, che «ci sia tempo per completare il progetto di cambiamento dell'università». ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 gen. ’08 LARGO AI GIOVANI DOTTORANDI Il modello snellisce le procedure e premia l'eccellenza Il programma europeo Ideas è una nuova forma di finanziamento europeo che premia progetti di ricerca individuali, con somme che possono arrivare sino a 2,5 milioni di euro in cinque anni. La novità più rilevante è la scelta di assegnare un terzo dei progetti a ricercatori considerati "starting grant, ovvero con una carriera universitaria inferiore ai nove anni di dottorato. La rimanente quota viene destinata a professori universitari con almeno io anni di ricerca condotta ai massimi livelli (advanced grant). «Siamo di fronte a una svolta - spiega Andrea Cappelli, ricercatore dell'Istituto nazionale di fisica nucleare e delegato italiano del comitato di programma di Ideas - perché la somma stanziata viene gestita direttamente dal capo ricercatore; che è libero di comprare apparecchiature, pagare i collaboratori, e di gestire il budget come crede. Questo modello di finanziamento si usa molto negli Stati Uniti e nei Paesi anglosassoni, perché snellisce le procedure e in genere premia l’eccellenza». Ogni anno i 22 membri dell'European Research Council (organismo da cui dipende Ideas) distribuiscono mille milioni di euro per finanziare progetti di tutte le facoltà scientifiche e umanistiche. La selezione è realizzata attraverso 25 panel di scienziati di tutte le discipline. Per questa prima edizione sono stati presentati complessivamente 9mila progetti, di cui 1.800 provenienti da università italiane. Il numero così elevato può essere interpretato come un eccessivo entusiasmo, dei ricercatori, ma anche come una carenza di fonti istituzionali. Alla fine i progetti considerati vincitori sono stati 300, di cui 30 italiani. Di questi solo 21 verranno eseguiti nei nostri laboratori, gli altri sono firmati da giovani ricercatori che risiedono in altri Stati, mentre 3 giovani stranieri lavoreranno presso nostre università. «Se le proporzioni saranno rispettate - prosegue Cappelli - anche per la categoria dei ricercatori "advanced grant" dovremmo riuscire a finanziare 70 progetti». Considerando che i contributi dello Stato italiano ammontano al 14% del totale, alla fine solo l'8% di questi soldi rientreranno attraverso i finanziamenti. Questa percentuale si avvicina a quella del 6 Programma Quadro, che ha distribuito in Italia il 9% dei fondi stanziati. «Il bilancio può sembrare negativo, ma non è così - conclude Cappelli -, l'Italia dispone di un numero di ricercatori pari alla metà rispettò ad altri Paesi, e se riusciamo a portare a casa queste somme vuol dire che da noi esistono diversi centri di eccellenza». ROBERTO LA PIRA ______________________________________________________________ ItaliaOggi 22 gen. ’08 RECLUTAMENTO: ECCO LA RIFORMA Tre anni di università, due di specializzazione e uno di praticantato da svolgere direttamente. nelle scuole, dopo aver superato un concorso pubblico bandito a livello regionale sulle cattedre disponibili. E questo l'iter, complessivamente sei anni, uno in meno rispetto all’attuale che dovranno seguire gli aspiranti insegnanti. Probabilmente già dal prossimo anno. Se le intenzioni dei ministro della pubblica istruzione, Beppe Fioroni, saranno confermate il regolamento attuativo dovrebbe infatti aversi nel gira massimo di sei mesi. Un regolamento che dovrà essere concordato con il ministro dell'università, Fabio Mussi, per gli evidenti risvolti che la disciplina della nuova professione ha in termini di gestione delle classi di laurea. Ne parliamo con ì1 vice ministro all'istruzione, Mariangela Bastico, che sta seguendo da vicina la trattativa con l’università e il mondo delle associazioni di categoria. ______________________________________________________________ La Repubblica 23 gen. ’08 FIRMÒ LA LETTERA ANTI-PAPA, BLOCCATA LA NOMINA Il fisico era stata designato alla direzione del Cnr, ma il Parlamento non ratifica la scelta di Mussi Appelli per Maiani. La Montalcini: anche io a fianco dei docenti ribelli ELENA UUSI ROMA - L'affaire Sapienza rischia di avere la sua vittima sacrificale: la nomina di Luciano Maiani alla direzione del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Proposto da una commissione di scienziati italiani e stranieri super partes e prescelto dal ministro dell'Università Fabio Mussi, Maiani si è visto ora congelare la nomina. Il nome dell'ex direttore del Cern di Ginevra (Organizzazione europea di ricerche nucleari) e dell'Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) compare infatti fra i 67 firmatari della lettera inviata al rettore. Una parte del Parlamento (Udc, An, Forza Italia e Lega in testa) vorrebbe ora far saltare l'incarico di Maiani. Nessuna delle commissioni parlamentari competenti ha messo in calendario la ratifica della nomina del fisico della Sapienza, atto necessario perché l'incarico diventi effettivo. La settimana scorsa era stato il Senato a dare il primo stop, con il segretario della commissione Istruzione pubblica Giuseppe Valditara (Am che aveva chiesto una pausa di riflessione sfilando la ratifica della nomina dall'ordine del giorno. Silenzio completo anche dalla Camera, mentre a favore del fisico la rivista americana Science aveva dedicato un articolo entusiasta VI 1 gennaio: «Il merito ha trionfato sulla politica in Italia». È dalla scorsa estate (con le dimissioni del presidente Fabio Pistella) che il Cnr - principale organo della ricerca italiana con un budget annuale di oltre un miliardo di euro -è senza presidente. E mentre continua le sue lezioni di fisica teorica delle particelle elementari alla Sapienza, Maiani fa sapere: «L'importante è che non si cancelli il nuovo metodo di selezione, con una commissione al di sopra di ogni sospetta incaricata di scegliere una terna di nomi. Il ministro Mussi è stata coraggioso a introdurre questa innovazione e, al di là del mio futuro, spero che nessuno voglia tornare indietro». Per raccogliere la solidarietà nei confronti dei 67 della Sapienza stanno circolando due appelli principali: uno rivolto ai docenti universitari d'Europa (www.appellouniversita.net) e un altro aperto a tutti «a difesa della laicità del sapere» (www.petitiononline.com). Le adesioni raccolte sono oltre 13mila. «Non ho potuto firmare, ma approvo completamente 1a lettera dei docenti» ha fatto sapere anche Rita Levi Montalcini, Nobel per la medicina e senatrice a vita, mentre riceveva una laurea honoris causa ieri all'ateneo milanese della Bicocca. La voce dei sostenitori di Benedetto XVI invece si affida stamattina all'Angelus di piazza San Pietro, dove si sono dati appuntamento i Papaboys. Alle 17 i giovani cattolici si trasferiranno di fronte a palazzo Chigi per protestare contro la mancata visita del pontefice alla Sapienza. «Chiediamo alla politica italiana più rispetto per i nostri valori» è il loro slogan. Alla protesta ieri ha dato il suo autorevole appoggio il cardinale Angelo Bagnasco, che in un'intervista all'Osservatore Romano ha criticato «l'episodio di intolleranza antidemocratica da parte di un piccolo numero di studenti e docenti rispetto alla stragrande maggioranza che avrebbe desiderato un incontro con il Santo Padre». ______________________________________________________________ Corriere Della Sera 19 gen. ’08 COMPUTER, LA GRAFITE SOSTITUIRÀ IL SILICIO La grafite, il materiale di cui sono composte le punte delle matite, può sostituire il silicio nei transistor dei computer, secondo due ricercatori della State University of Campinas in Brasile. La sostanza che ha le proprietà elettriche da poter rimpiazzare il silicio è il grafene: un foglio di atomi di carbonio disposti a esagoni dello spessore di un atomo. Ma dato che il grafene è difficile da maneggiare, al suo posto si può usare la grafite, più stabile, formata da fogli di grafene impilati come una risma. (P. Car.) ______________________________________________________________ Libero 20 gen. ’08 LA STUPIDITÀ UMANA, MALATTIA INCURABILE E così diffusa che Einstein la definì infinita come l'Universo. Può colpire tutti, il genio e il tonto, Napoleone e Custer. Da Adamo ed Eva fino a Homer Simpson e Mister Bean FABIO FLORINDI È antica quanto l'uomo ed è la forza più pericolosa del cosmo. Di cosa stiamo parlando? Ma della stupidità ovviamente. Tanti sono gli aforismi redatti su questa prerogativa umana di cui anche recentemente si è occupato un team di studiosi dell'Università di Foxeter (Gran Bretagna). Scienziati che hanno perfino identificato l'area del cervello che si attiva quando l'essere umano sta per ripetere un errore già commesso in passato, innescando un segnale dì allarme che dovrebbe impedire di ricadere stupidamente negli sbagli già compiuti più volte. Persino uno scienziato del calibro di Einstein si scomodò per sentenziare: «Due cose sono infinite l'universo e la stupidità umana, ma riguardo all'universo ho ancora dei dubbi. Sull'universo sappiamo che Einstein si sbagliava, visto che la sua finitezza è stata misurata, mentre sulla stupidità nessuno è riuscito a smentirlo. MITOLOGIA E BIBBIA Che il problema non fosse da poco lo si era capito già nel 250 a.C., quando il libro biblico dell'Ecclesiaste avvertiva: «Infinito è il numero degli stolti». Del resto primo uomo e primo stupido della storia coincidono, cosa c'è di più sciocco, infatti, che perdere il paradiso per assaggiare il frutto proibito?Adamo docet... E che dire della stupidità nel mito greco, rappresentata da Epimeteo? Il suo nome significa "colui che riflette dopo". È lui, infatti, ad aprire il vaso di Pandora, liberando così tutti i mali del mondo che vi erano rinchiusi. Un'altra stupidaggine la compì quando gli venne assegnato l'incarico di distribuire le facoltà naturali a tutti gli esseri viventi. Cominciò a distribuirle a caso e quando arrivò all'uomo si rese conto che non gli restava più nulla. Dovette rimediare il fratello, Prometeo, rubando il fuoco agli dèi e regalandolo agli uomini assieme al sapere tecnico, all'intelligenza e alla cultura La tv di oggi è piena di personaggi stupidi e divertenti come Homer Simpson, Mister Bean e Forrest Gump, per fare qualche esempio. E prima ancora lo erano alcune figure della letteratura come Calandrino del Decamerone di Boccaccio e Zanni, servo sciocco della commedia dell'arte. PROBLEMA BASILARE Persino i grandi statisti hanno sempre avuto ben presente il ruolo fondamentale della stupidità nella vita dei loro Paesi. Charles De Gaulle, ad esempio, ad un ammiratore che gli aveva gridato «Morte ai cretini, mio generale», rispose: «Caro amico, il suo programma è troppo ambizioso». Alla stupidità è stato dedicato anche un premio, il Danvin Awards, riservato a chi "ha aiutato a migliorare il patrimonio genetico umano eliminandosi dalla faccia della Terra in modo spettacolarmente stupido". La geniale idea venne nel 1993 a Wendy Northcutt, una studentessa dell'Università di Stanford, negli Usa, che cominciò a collezionare storie di morti stupide. Per vincere il Darwin Awards bisogna comportarsi in modo spettacolarmente idiota, tipo usare un accendino per illuminare un serbatoio di benzina onde verificare che non contenga materiale infiammabile (è successo a San Paolo in Brasile nel 2002), oppure infliggersi una ferita mortale per verificare se il proprio giubbotto è "a prova di coltellata" (è accaduto l'anno scorso in Inghilterra). Ma come si può definire la stupidità? Esistono delle regole per individuarla? Il primo luogo comune da sfatare è che la stupidità sia il contrario dell'intelligenza. Ci sono persone intelligenti, infatti, che a volte fanno cose stupide. Carlo Cipolla, storico ed economista italiano, ha definito stupide «le persone che causano danno agli altri senza realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo un danno». Stupido può essere gettare sassi dal cavalcavia o allagare la propria scuola. Le persone intelligenti tendono a sottovalutare i rischi connessi alla stupidità. Secondo Cipolla, infatti, «ognuno di noi sottovaluta sempre il numero di stupidi in circolazione e le persone non stupide tendono a sminuire il potenziale nocivo delle persone stupide». A queste "regole generali", Giancarlo Livraghi, studioso della comunicazione, aggiunge: «In realtà in ognuno di noi c'è un fattore di stupidità che è sempre maggiore di quello che pensiamo. E se ci si trova assieme ad altre persone l'effetto cresce in modo geometrico». D'altra parte che le folle fossero più stupide delle singole persone che le compongono la psicologia l'aveva già capito più di un secolo fa. Ma c'è un altro fattore che amplifica la stupidità: trovarsi in una posizione di comando. «Le persone al potere - spiega Livraghi - sono spesso. indotte a pensare che sono migliori, più capaci, più intelligenti, più sagge del resto dell'umanità E sono circondate da cortigiani e profittatori che rinforzano questa illusione». Per questi motivi chi comanda arriva a compiere le più grosse sciocchezze nell'accondiscendenza generale. La storia è piena di esempi. Luigi XVI, il 14 luglio 1789 (giorno della presa della Bastiglia), annotò sul suo diario: «Oggi niente di nuovo». Il generale Custer nel 1876, con poche centinaia di uomini, decise di attaccare un grande accampamento Sioux Inutile dire che i soldati americani vennero massacrati. Persino il più grande stratega della storia, Napoleone, nel 1812 decise di attaccare la Russia in pieno inverno. La sua armata venne decimata dal freddo ancora prima di poter affrontare il nemico in battaglia. Insomma, nessuno è immune dalla stupidità, una piccola dose ce la portiamo dietro tutti. Manon sempre, però, è un guaio. La stupidità ha, infatti, una funzione evolutiva: ci permette di sbagliare e nell'esperienza dell'errore c'è sempre un progresso della conoscenza. II punto chiave diventa riconoscere i propri errori e correggersi. Un ampio servizio del mensile "Focus" tratta l'argomento con ricchezza di particolari. Non ci resta quindi che concludere facendoci un augurio. Che alla base della stupidità ci sia veramente una lesione in quell'area del cervello identificata dai neurologi di Exetere che questa lesione in qualche modo possiamo riuscire a suturarla sconfiggendo così, definitivamente, la stupidità. ______________________________________________________________ La Stampa 21 gen. ’08 LA NOTTE È INSONNE? COLPA DEL CELLULARE UNA RICERCAAMERICANA E SVEDESE Le radiazioni alterano il nostro riposo" GABRIELE BECCARIA Insonnia da cellulare: è la nuova sindrome, la prima del 2008. Bambini e adolescenti sono i più esposti «Rischiano depressione e iperattivismo» Non possiamo fare a meno di usarli, ma per loro il momento è pessimo. Dopo le ricerche che aumentano i sospetti di un legame tra telefonini e tumori cerebrali e gli allarmi per le pericolose interferenze con gli strumenti di navigazione dei jet, adesso uno studio li mette sotto accusa per una serie di effetti a catena sulla salute, la psiche e l'umore, soprattutto nei bambini e negli adolescenti, il «target» più appetitoso dei produttori. Dice una ricerca del Karolinska Tnstitute e dell'università di Uppsala, in Svezia, insieme con la Wayne State University in Michigan, Usa, che le radiazioni dalle querule scatolette di cui siamo schiavi ritardano e riducono il sonno profondo, causando emicranie e stress. Non soltanto: possono generare anche stati di confusione e di depressione, oltre ai tanti sintomi dell'ADHD, la malattia che continua a diffondersi tra le nuove generazioni e che comprende un mix di iperattivismo, incapacità di concentrazione e mediocrissime prestazioni cognitive. Lo studio - sembra incredibile - è stato finanziato dal «Mobile Manufacturers Forum», l'associazione internazionale che raccoglie alcuni dei maggiori marchi di cellulari, che ora minimizza le clamorose scoperte. «I risultati - ha fatto sapere dopo la pubblicazione sulla rivista del Mit di Boston "Progress in Electromagnetics Research Symposium" - sono in realtà non conclusivi». Gli scienziati, però, la pensano diversamente. Per loro i dati sono chiari e le conclusioni nette. «Ci sono prove più che sufficienti per mostrare che viene influenzato il sonno profondo», ha dichiarato il team svedese-americano. Le «cavie» sono stati 35 uomini e 36 donne, di età tra i 18 e i 45 anni: alcuni sono stati esposti a radiazioni simili a quelle emanate da un telefonino e altri, invece, a «false» emissioni. Second Bengt Arnetz, che ha c00rdinato le analisi, «le evidenze raccolte in laboratorio sono realistiche: suggeriscono che hanno effetti misurabili sul cervello». In particolare - ha scritto - le radiazioni possono attivare (o iperattivare) i circuiti legati allo stress, «rendendo le persone più nervose e sveglie, e quindi diminuendo la capacità di rilassarsi e addormentarsi». E' anche significativo che metà degli individui coinvolti nei test si sia dichiarato «elettrosensitivo»: quando usa il cellulare, si sente fisicamente male, con attacchi di mal di testa e livelli di attenzione in caduta. Le lamentele hanno bisogno di approfondimenti adeguati, ma è probabile che anche l’elettrosensitività entrerà presto nella lista delle grandi sindromi del XXI secolo. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 21 gen. ’08 ESPERIENZE SUL WEB IN ITALIA E ALL'ESTERO: GLI EX ALLIEVI FANNO NETWORK Luigi Dell'Olio Ritrovare i compagni dell'università, stabilire occasioni di contatto per aprirsi nuovi orizzonti professionali e individuare talenti con cui sviluppare idee di business. Il social networking e il mondo dell'università sono legati a doppio filo: non è un caso se la community più in voga del momento, Faceb00k, sia nata proprio con l'intento di mettere in rete studenti ed ex. In Italia, la prima a cogliere la potenzialità del social networking è stata l'Associazione laureati del Politecnico di Milano, che ha firmato un accordo con Viadeo, per offrire ai laureati dell'ateneo uno spazio virtuale riservato in cui incontrare vecchi amici e discutere del tempo passato insieme, oltre che per cercare possibili forme di collaborazione lavorativa. Viadeo è una community con circa 1,8 milioni di iscritti, tra manager, quadri, fornitori e uomini di business. L'iniziativa del Politecnico di Milano potrebbe aprire la strada a progetti simili da parte degli altri atenei italiani, per superare lo storico ritardo della Penisola nelle strategie di networking universitario. Esempi come quelli degli atenei americani, dove i laureati si incontrano mensilmente per discutere di affari e lavoro non sono mai decollati da noi; frenati dallo spirito volontaristico e dalla scarsità di fondi che caratterizza tutte le associazioni di ex-studenti. Limiti che potrebbero essere superati grazie alle opportunità offerte da internet in quanto a target,raggiungibile e costi contenuti. Esempi in questa direzione arrivano dalle business school anglosassoni. Nei giorni scorsi la Cass City of London ha lanciato un «Careers Network Online». Gli ex-allievi inseriscono il proprio profilo ed entrano in contatto con colleghi che hanno interessi comuni: quindi possono scambiarsi informazioni sulle aziende in cui lavorano o hanno lavorato, raccontarsi esperienze e individuare occasioni di business. Rispetto al classico servizio di career consulting offerto dagli atenei, sì tratta di un canale più democratico (non esistono ruoli prestabiliti) e diretto (senza intermediazione dei funzionari). Ormai a regime è, invece, il sistema della Tuck School of Business di Dartmouth. L'ateneo americano ha lanciato nel 1997 un'applicazione Web chiamata «Tuckstreams» per consentire agli allievi ed ex tali di cercare profili compatibili per età, luogo e tipologia di lavoro, specializzazione e mansioni. «11 64% dei nostri studenti afferma di aver tratto giovamento da questa applicazione nella ricerca di lavoro» spiega David J. Celone, direttore dell'Annual Giving and Alumni Services. Dallo scorso anno il sistema si è arricchito con una nuova applicazione, «Tuck Connections», rivolta ai candidati per l’Mba. Il sistema chiede agli utenti di inserire delle informazioni di carattere generale su se stessi e più dettagliate sulle società, o sulle attività, a cui sono interessati. Nell'arco di qualche giorno, il programma elabora i dati inseriti dal candidato, un profilo "gemello", abbinato ad uno studente in corso - o ad un ex-allievo - che diviene così la risorsa personale da cui attingere informazioni sulla scuola. Il sistema di contatti virtuali prosegue a fine corso, per creare occasioni di impiego ai neodiplomati al master. www.viadeo.com/join/aipoli_polimi Spazio del Politecnico di Milano su Viadeo https://bunhill.city.ac.uk/crc/cno. nsf/httpWekome?openform La communityonline della cass City of London http://intranet.tuck.dartmouth.edu/ Tucksfreams2.0:Tucksch00lof Business at Dartmouth College ======================================================= __________________________________________________________ La Repubblica 25 gen. ’08 VERONESI: GLI ANNI DELLA SPERANZA DARIO CRESTO-DINA MILANO Quasi sessant'anni fa Umberto Veronesi cominciava il suo lavoro di oncologo all'Istituto tumori di Milano. Fra qualche mese, a aprile, si ritroverà un'altra volta con i colleghi di tutto il mondo per scrivere la strategia dei prossimi cinque anni di battaglia contro il cancro. Saranno tutti disincantati e autocritici, un po' come gli illusionisti che però restano convinti che dietro all'illusione si nasconda spesso la verità. «Abbiamo garantito troppo, ma in buona fede. Questa volta però vediamo delle promesse, dobbiamo investire i nostri sforzi nella ricerca virologica, immunologia e genetica». La scienza medica, grazie al supporto della tecnologia, sta facendo progressi straordinari anche se su piccola scala e soprattutto in laboratorio, ma si presume che i prossimi dieci anni potranno essere decisivi nella lotta ai tumori, anche se nemmeno i più ottimisti hanno il coraggio di annunciare il traguardo di una vittoria finale. Il cancro resta la nostra più grande paura, lo spettro numero uno per l’84 per cento degli italiani. Esattamente come 50 anni fa, prima del b00m tecnologico, prima dell'era dell'iper-informazione sul web, prima che, con lo svelamento del Dna,l’uomo si sentisse un poco più padrone del proprio destino. Chiedo a Veronesi se siamo di fronte a un grande equivoco o a una sfida impossibile. Il cancro vive anche dei suoi fantasmi. Io posso togliere un tumore dal seno di una donna, ma non riuscire a strapparlo dalla sua mente. L'immagine del cancro va oltre la dimensione delle cellule, è come un altro se stesso che si sviluppa subdolamente dentro di noi, mentre il nostro corpo rimane spettatore indifferente. Filosoficamente possiamo dire che la cellula del cancro ha perso il bisogno di morire e poiché morire è una necessità biologica, la sua immortalità va contro la natura. Crea una serie di squilibri nell'armonica programmazione del nostro organismo». Ora il compito dei medici e della ricerca è ripartire da una sorta di paradosso difficile da fare accettare ai malati. Che l'origine di questa cellula "supervitale" non è un evento malefico, ma un semplice danno del Dna che i nostri geni non riescono a riparare. I problema in questo momento è che non conosciamo tutti i nostri geni riparatori e tutti i meccanismi in base ai quali essi si attivano o restano si potrebbe dire con le mani in mano. E' un processo complesso da decodificare, riguarda varie strutture cellulari e le loro interazioni, ma non ha nulla di arcano. Purtroppo la maggior parte di noi confonde la non conoscenza con 1a maledizione e 1a colpa è soprattutto dei medici. Lo straordinario progresso dell'oncologia non è andato di pari passo con l'attenzione alla percezione e agli aspetti psicologici della malattia. Ci siamo dimenticati di curare l'anima. Il rapporto tra medico e paziente è inchiodata al tecnicismo e al paternalismo, mentre il malato ha bisogno di ricevere spiegazioni, di essere ascoltato, di capire e di essere capito». La verità è che si continuano a contare i morti, ma sul fronte degli oncologi, parrà cinico dirlo, soprattutto i successi e le speranze. È un successo l'informatica applicata alla medicina, in particolare la diagnostica per immagini che permette di esplorare virtualmente tutto il nostro corpo per trovare lesioni microscopiche, che neppure si immaginava potessero esistere solo pochi ani fa. «Intervenire su queste forme iniziali, o addirittura precancerose, equivale a guarire la malattia nella maggioranza dei casi. È un successo 1a chirurgia radioguidata e robotizzata, che ha aperto le porte a interventi chirurgici che rispettano il corpo e la qualità di vita della persona. E' una speranza la ricerca virologica: già conosciamo il legame fra virus e tumori e disponiamo del primo vaccino anticancro per proteggere 1e nuove generazioni dal tumore del collo dell'utero. È un successo la ricerca immunologica: stiamo studiando come stimolare il sistema immunitario perché riconosca e combatta le cellule tumorali, appunto come non self, proprio come già fa con i virus, i batteri e le infezioni da cui siamo sistematicamente attaccati». Tra le promesse disattese ci sono sicuramente quelle sui farmaci. I nuovi farmaci molecolari (i cosiddetti intelligenti perché mirati selettivamente sulle cellule tumorali) sono ancora pochi e le novità tardano a arrivare, più di quanto si pensasse cinque anni fa, quando è cominciata l'autentica era della genomica, dai laboratori alletto del malato. «Con la chemioterapia tradizionale- dice Veronesi - oggi curiamo le leucemie, i linfomi, molti tumori infantili e tipici dei più giovani, come quello del testicolo Funzionano le cure ormonali per tumori della mammella e della prostata. Ma per la maggioranza dei tumori solidi, la chemioterapia ha un'efficacia limitata e in molti casi è troppo tossica rispetto ai benefici che garantisce al paziente. Capita che per offrire comunque un chance di cura, il medico scivola nell'accanimento terapeutico senza tenere conto della situazione e della storia personale del malato» Gli ultimi dati sulla ricerca perla lotta al cancro, noti per ora soltanto agli addetti ai lavori, sulla situazione italiana sono contraddittori Ogni cittadino italiano investe due euro ogni anno, contro i quattordici della Gran Bretagna, i quasi sette della Svezia e i 18 degli Stati Uniti. Il governo investe 54 milioni di euro (contro i 387 dell'Inghilterra e i 184 della Germania), ma le nostre chariry fanno di più, donando alla speranza 6l milioni di euro l'anno, generosità che ci colloca al quarto posto europeo, anche se ancora molto lontani dalla vetta inglese (396 milioni). Dice Veronesi: «Siamo fra i paesi in cui la ricerca ha le sovvenzioni più scarse, in cui la cultura scientifica è latitante, ma allo stesso tempo la produttività scientifica è molto elevata. Questo significa che ogni centesimo in Italia è speso bene e soprattutto che se avessimo, accanto ad un volontariato forte, anche un investimento pubblico adeguato, potremmo davvero conquistare un ruolo trainante in Europa». Nell'ottimismo c'è una statistica che pesa come una pietra tombale. Il numero dei malati è in crescita in tutto il monda. «Prima di tutto va detto che l'incidenza della malattia aumenta, mala mortalità diminuisce. Fino al 1990 le curve di incidenza e mortalità erano sovrapposte e in crescita costante, oggi sono incrociate. Poi cambia la mappa del cancro nel mondo. Oggi diagnostichiamo tumori occulti che forse non si sarebbero neppure manifestati. Questo avanzamento diagnostico ha trascinato con sé un tipo diverso di malattia. Peri il seno, per esempio oggi le donne che si presentano al medico con un tumore piccolo (Tl lo chiamiamo noi) sono l'80%, mentre nel 75 erano tra il 15 e il 20 per cento. Questo vuol dire che è aumentata esponenzialmente l’operabilità e con essa le possibilità di guarigione. Certo la mappa è cambiata anche per i nostri nuovi stili di vita. Rei stando nel mondo femminile, un tempo le donne morivano per cancro dell'utero e dello stomaco. Oggi grazie al pap test la mortalità per il tumore del collo dell'utero è i crollata drasticamente e, con il miglioramento dell'alimentazione, il cancro dello stomaco è quasi scomparso. Sono aumentati però, i tumori del seno, perché il seno è diventato un organo in disarmo. Ancora non sappiamo esattamente perché, ma siamo certi che il fatto che la ghiandola mammaria lavori di meno (le donne hanno meno figli, li fanno in età più avanzata e tendono a non allattare) aumenta le probabilità di ammalarsi. Vil prezzo che le donne pagano - per l'evoluzione del loro ruolo. i Tutti noi, del resto, paghiamo al cancro il prezzo della civiltà industriale. Il tumore è una malattia ambientale». «I cancerogeni che respiriamo sono una percentuale minima: si stima che non più del quattro per cento dei tumori sia dovuto all'inquinamento dell'aria. Più consistente è invece il rischio legato a ciò che mangiamo: il 30 per cento dei casi è direttamente legato all'alimentazione. Il rischio è duplice. Alcuni elementi, come i grassi di origine animale, sono dannosi in sé e inoltre sono un veicolo dei cancerogeni presenti nell'ambiente, per cui funzionano da deposito. Fra gli animali domestici il gatto è quello che più di frequente si ammala di cancro, non certo perché respira, ma perché si pulisce leccandosi il pelo e così facendo ingerisce nel corpo il fall out dei cancerogeni ambientali». Come possiamo proteggerci? «Stiamo attenti a ciò che mangiamo. Evitiamo l'iperalimentazione, limitiamo i grassi di origine animale e gli eccessi di alcol. Teniamo presente che accanto ai cibi pericolosi, ci sono anche alimenti protettivi come 1a frutta e la verdura, in particolare 1e crucifere (cavoli, broccoli) e le arance. Evitiamo di fumare, 1a sigaretta contiene otto tipi di cancerogeni letali. Facciamo esercizio fisico che migliora il metabolismo, e soprattutto non dimentichiamo i controlli di diagnosi precoce. Per le donne: pap test a partire dai 25 anni, ecografia al seno dopo i trenta, mammografia e eventualmente ecografia dopo i quaranta. Per l'uomo: dosaggio del Psa dopo i 50 anni. Peri fumatori: tac spirale dopo i 50 anni. Per tutti: colonscopia ogni anno dopo i cinquanta e esame dermatologico della pelle almeno una volta nella vita». __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 19 gen. ’08 SALUTE, L'INDUSTRIA DEI RECORD Made in Italy. Sulle potenzialità di sviluppo pesano le misure di contenimento della spesa sanitaria Oltre 1,5 milioni di addetti, vale il 6,5% del Prodotto interno lordo TRAINO PER L'ECONOMIA Su mille euro di produzione l'industria ne investe oltre 30 in ricerca contro una media del manifatturiero che sfiora appena i 6 euro Roberto Turno ROMA C'è una stella di prima grandezza che pochi conoscono nel firmamento dell'economia italiana: è la filiera della salute, e ha numeri da vera star. Realizza il 6,5% dell'intera produzione nazionale e vanta un "prodotto per occupato" che supera del 6,4% la media nazionale. Con un milione e 513mila addetti è la quarta forza per occupazione. Ha un valore aggiunto a prezzi base che vale il 6,7% del totale nel Paese e un valore aggiunto a prezzi costanti che dal 2004 al 2006 è cresciuto del 6,4% contro la media italiana dell'1,9. Il valore aggiunto per addetto è del 10% sopra il dato medio nazionale. E se non bastasse, tra valore aggiunto diretto e indotto produce una ricchezza pari al 12,5% del totale Italia, contro l'11,1% del 2004. Una potenza in espansione e al top: è tra il terzo e il quarto posto nella graduatoria delle imprese. La Sanità d'Italia la giudichiamo, a torto o a ragione, per i suoi servizi, quando ci sono, per i ritardi nelle prestazioni, per i suoi costi e per i deficit di un pugno di sei Regioni soprattutto, in questi giorni anche per la lottizzazione dei partiti. Ma, dietro il muro della diffidenza e prima dei disservizi, c'è una realtà produttiva vitale e di primaria importanza. Un universo in crescita che in altri Paesi, dove si investe senza sprechi, dà alti profitti e diventa un business da export. E, prima di tutto, crea salute. Dalla produzione al commercio di farmaci e dispositivi medici, dalla ricerca scientifica alle prestazioni ospedaliere e ambulatoriali, dagli apparecchi ortopedici ai servizi termali, dai laboratori alle protesi dentarie. Una realtà spesso qualificata e hi tech, con professionalità ed eccellenze anche diffuse e di tutto rispetto. È questa la "filiera della Salute" che emerge dal secondo rapporto (2004-2006) di Confindustria, curato dal professor Nicola Quirino, docente di finanza pubblica alla Luiss di Roma. Un universo, la filiera della salute italiana, che a dispetto del l'estrema povertà degli investimenti in ricerca, presenta un altro invidiabile primato: nel rapporto R&S-produzione ha il valore più elevato tra tutti i settori della nostra economia. Tanto che, si stima, su mille euro di produzione l'industria della salute spende (investe) per la ricerca oltre 30 euro. La media dell'industria manifatturiera sfiora appena i 6 euro. Ma sempre in tema di raffronti, lo studio di Confindustria elenca altri primati, che poi spiegano quanto, e come, le imprese della salute rappresentino un potenziale volano di sviluppo per la nostra economia. Hanno più occupati dei trasporti e delle comunicazioni, di alberghi e ristoranti e dell'agricoltura, del l'industria metallurgica e di banche e assicurazioni, precedute soltanto da attività immobiliari e servizi alle imprese, commercio, costruzioni e istruzione. Occupati, per di più, che all'86% sono lavoratori dipendenti. Lo stesso valore aggiunto a prezzi costanti realizzato dalla filiera dal 2004 al 2006 è cresciuto del 4,5%, contro l'1,9% della media nazionale: nell'industria in senso stretto è aumentato dello 0,6%, nelle costruzioni del 2,4%, nel commercio del 4,4%, per credito e assicurazioni del 3,4% e negli altri servizi del 2,5. Grandi numeri e un potenziale formidabile sviluppo per il futuro. Che però, è l'altra faccia della medaglia della ricerca, deve misurarsi con le condizioni strutturali e di sistema del nostro Servizio sanitario nazionale. In Italia si spende più per le prestazioni dirette (la spesa privata rallenta, cresce quella pubblica) che per quelle accreditate, segno ulteriore delle difficoltà delle famiglie. Mentre i consumi intermedi (acquisto di beni e servizi) in tre anni sono cresciuti del 30% e sono aumentate le spese per il personale fino a raggiungere ormai un terzo della spesa totale. La spesa sanitaria in sei anni è cresciuta del 5% in più dell'inflazione programmata. E i costi, sempre i a consuntivo, «irrealistiche». Gli ultimi sei anni: come dire che il federalismo fin qui ha prodotto molti costi ma scarsi risultati. __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 19 gen. ’08 SANITA’: REGOLE CHIARE CONTRO GLI SPRECHI INTERVISTAGuido RivaComitato tecnico Sanità di Confindustria «I fondamentali della filiera dimostrano che il settore è un volano decisivo per la crescita» ROMA «I fondamentali della filiera della salute dimostrano una volta di più che la Sanità è un volano decisivo per lo sviluppo economico e soprattutto sociale». Guido Riva, 64 anni, presidente del "Comitato tecnico Sanità" di Confindustria, mostra con orgoglio i dati del settore. Ma aggiunge: «Servono regole chiare e serie. Evitando gli sprechi e, come dicono le cronache di questi giorni, le ruberie». Dottor Riva, le cronache di questi giorni ci parlano anche di lottizzazioni sfrenate dei partiti nel Ssn. Cosa hanno a che fare i partiti con il cosiddetto "aziendalismo"? È una domanda che ci facciamo da sempre. La politica, quella con la maiuscola, deve saper tenere il volante, gestire, controllare, dare gli obiettivi. È questo che le si chiede e che si pretende. Ma i partiti e le clientele, quando ci sono, sono altra cosa dall'alto ruolo della politica. Intanto la filiera della salute, come la chiamate, chiede certezze di regole e di comportamenti. Ma anche di investimenti... Lo stimolo della ricerca di Confindustria è chiaro: la tutela della salute può essere una grande occasione di crescita economica e di benessere sociale. Ma non senza la volontà di usare al meglio le risorse umane, fisiche e finanziarie. E questo non significa imporre ciechi vincoli di bilancio. Vuol dire, più semplicemente, saper gestire in maniera sana i fattori produttivi, proprio come avviene in una azienda industriale che sia competitiva sul mercato. Cosa teme, in particolare? I conti pubblici non vanno certo a gonfie vele, e la spesa sanitaria è sempre una delle grandi incognite. Il rischio da evitare è quello degli "interventi spot" per cercare di fermare il trend di crescita della spesa, fatti con la sola logica del taglio a danno degli investimenti e delle tecnologie senza invece intervenire - vale la pena ripeterlo ancora, mi permetta - su inefficienze e sprechi che sono la vera sfida da affrontare e l'ostacolo da rimuovere senza indugi. L'Italia invecchia, la spesa sanitaria aumenta: i finanziamenti rischiano di non bastare mai senza cambiare passo. L'invecchiamento della popolazione deve invitarci a rivedere le strategie complessive, sia di politiche sociali che di modalità di investimento e di finanziamento. Ma ricordiamo che la centralità nell'economia delle attività di tutela della salute sono destinate ad acquisire sempre più peso per i Paesi che puntano all'eccellenza. E noi dobbiamo puntare all'eccellenza. Altri Paesi lo hanno già fatto con risultati assai profittevoli proprio puntando sulla qualità del "prodotto sanità". Ora tocca a noi. Ma il treno va preso subito. Perderlo, sarebbe fatale. R.Tu. __________________________________________________________________ Corriere della Sera 22 gen. ’08 COME POSSIAMO ARGINARE LA PARTITOCRAZIA DELLA SALUTE di MAURIZIO FERRERA N egli anni settanta si chiamava «lottizzazione». Era il sistema di capillare spartizione delle cariche pubbliche attraverso cui i partiti collocavano persone di loro fiducia nei posti chiave dell'amministrazione, soprattutto nel settore della sanità. La lottizzazione serviva a organizzare il cosiddetto «voto di scambio» (io ti faccio un favore, tu mi dai il voto) ma anche ad alimentare le casseforti dei partiti grazie a finanziamenti occulti. Dopo Tangentopoli e la transizione al bipolarismo ci eravamo illusi che queste pratiche perverse si sarebbero ridimensionate, assumendo forme e proporzioni da paese «normale». E invece no. Come ci ha spiegato senza imbarazzi Clemente Mastella, la politica in Italia è ancora largamente basata su lottizzazione e scambi di favori. I partiti non hanno affatto mollato la presa diretta sugli apparati amministrativi: e il settore della sanità è ancora la spoglia più ambita, l'arena privilegiata di infiltrazioni e transazioni clientelari. Il governo spartitorio della sanità ha una storia lunga. Nei primi tre decenni della Repubblica l'Inam era il più importante feudo partitocratrico della Democrazia Cristiana. Nel 1978 l'istituzione del Servizio sanitario nazionale creò d'un colpo undicimila nuove poltrone: ognuna delle 650 Usl era infatti amministrata da un comitato di gestione composto da una quindicina di membri. Tutti i partiti si lanciarono all'assalto: la Dc conquistò il 40% delle cariche, il Pci il 25%, il Psi il 19% e così via. Fu la più grande abbuffata spartitoria della politica europea del dopoguerra: nei convegni internazionali si citava spesso l'Italia come un caso inaudito di «partitocrazia della salute». Il numero di poltrone da occupare nel giro di poche settimane fu così elevato che i partiti finirono per piazzare nei comitati anche persone senza alcuna competenza: il 20% dei componenti faceva il maestro o l'insegnante di scuola media, un buon 10% aveva solo la licenza elementare. Nel corso degli anni Ottanta la lottizzazione divenne pratica istituzionalizzata: alcune normative regionali precisavano i dosaggi da rispettare fra partiti di maggioranza e di opposizione a livello comunale. Il malgoverno dei comitati di gestione diede così un significativo contributo all'escalation del debito pubblico italiano: il disavanzo annuo del settore sanitario raggiunse il 20% alla fine del decennio. Nel 1990 la situazione era degenerata al punto tale che le Usl vennero addirittura «commissariate». Sulla scia di Tangentopoli, la «riforma della riforma» approvata nel 1992 trasformò le Usl in aziende sanitarie, rette da Direttori Generali. Dopo quel provvedimento le cose sono andate gradatamente migliorando: soprattutto nelle regioni del Centro-Nord il governo della sanità è diventato più efficiente. Ma il legame con il mondo della politica non si è spezzato. I dati pubblicati dai giornali in questi ultimi giorni dimostrano che i vertici delle Asl sono ancora fortemente lottizzati. Inoltre dagli scandali che periodicamente esplodono in questo tormentato settore (le pratiche del clan Udeur in merito a nomine ospedaliere e scambi di favori sono solo l'ultima puntata di una lunga serie) emerge un quadro di desolante continuità con il passato. Al posto di comitati di gestione presieduti da maestri elementari abbiamo direttori generali che devono soddisfare requisiti di professionalità fissati dalla legge (e questo è sicuramente un passo avanti). Nella stragrande maggioranza dei casi però le procedure di selezione e di nomina rispondono a logiche di natura squisitamente politica: le affiliazioni partitiche (dirette o indirette) dei direttori generali sono cosa nota a tutti. Proprio come vent'anni fa, i giornali possono pubblicare tranquillamente mappe regionali con le bandierine dei vari partiti e nessuno smentisce, nessuno si stupisce. I politici hanno ovviamente il diritto di orientare, nelle sedi e con le forme appropriate, le grandi scelte di politica sanitaria. Ma la spartizione delle poltrone, l'interferenza continua e sistematica nei concorsi, nelle assunzioni, negli appalti non fanno parte degli strumenti legittimi di «politica sanitaria»: sono e restano le manifestazioni perverse di una anomala «partitocrazia della salute». Che fare? L'intreccio negativo fra politica e amministrazione nella sanità è stato più volte denunciato negli ultimi anni dalla Corte Costituzionale (da ultimo con la sentenza 104/2007). Proprio ispirandosi alla giurisprudenza della Corte, la ministra della Salute Livia Turco ha recentemente predisposto un articolato disegno di legge sulla «qualità e la sicurezza del Ssn», che è stato approvato lo scorso novembre dal Consiglio dei Ministri come collegato alla finanziaria. Il provvedimento contiene almeno due importanti innovazioni: l'istituzione di un sistema nazionale e regionale di valutazione dei risultati del Ssn; procedure di selezione e di nomina del personale dirigente (amministrativo e medico) volte a garantire maggiore trasparenza, a valorizzare le competenze tecniche e a neutralizzare il più possibile le interferenze dirette della politica. Il segnale è senz'altro positivo e, se arriverà al traguardo dell'approvazione parlamentare, questa nuova riforma consentirà un altro piccolo passo in avanti. Non facciamoci però troppe illusioni. In un paese nel quale (alcuni) partiti trovano del tutto legittimo occuparsi di primariati, prezzi dei farmaci e forniture ospedaliere, la strada verso una compiuta professionalizzazione della sanità pubblica appare ancora lunga e irta di ostacoli. __________________________________________________________________ Corriere della Sera 20 gen. ’08 DOBBIAMO IMPARARE DAGLI ERRORI I fatti gravi accaduti negli ospedali italiani nell'ultimo anno - come lo scambio dei tubi a Castellaneta in Puglia, le morti di Vibo Valentia in Calabria, i casi di trapianto di organi infetti al Careggi di Firenze o lo scambio di tac al Sant'Orsola Malpigli a Bologna, per citare solo gli episodi più eclatanti - dimostrano, al di là dei doverosi distinguo sulle cause che li hanno determinati, che in Italia ancora non abbiamo imparato molto dagli errori in corsia, nonostante se ne parli da diversi anni. E non si può certo dire che nell'ultimo anno istituzioni, operatori sanitari e cittadini non si siano messi all'opera per affrontare il tema. Da una parte, il Ministero della salute, con un programma che prevede governo del rischio clinico, monitoraggio e analisi degli eventi avversi, raccomandazioni e formazione degli operatori. Dall'altra, alcune Regioni, che in parte stanno adottando strategie specifiche per ridurre i rischi nelle strutture sanitarie. Sono stati previsti Centri regionali, Gruppi di studio, Commissioni tecniche; si stanno diffondendo strumenti come l'incident reporting - ossia la segnalazione volontaria di eventi avversi da parte degli operatori -, nuove cartelle cliniche, la mappatura dei rischi, la creazione di risk manager. Alcune Campagne per diffondere l'abitudine a lavarsi le mani, per la corretta identificazione del paziente o la prevenzione delle cadute, completano il panorama. La stessa Agenzia sanitaria per i Servizi Regionali avrà sempre di più un ruolo di collegamento tra Ministero della salute e Regioni e di supporto decisionale nella gestione del rischio clinico e della sicurezza del paziente. Evidentemente tutto questo non è ancora sufficiente per riuscire a modificare i comportamenti che determinano gli «eventi avversi». A quanto pare, la sottovalutazione del rischio è ancora troppo diffusa e agire sui comportamenti richiede un lavoro duro e duraturo. Non bisogna abbassare la guardia ed è necessario investire sulla reale valorizzazione del ruolo delle organizzazioni di cittadini, come la nostra. Proviamo, allora, ad adottare la nuova «Carta della qualità in chirurgia» (disponibile su http://www.cittadinanzattiva.it), che Cittadinanzattiva, insieme all'Associazione chirurghi ospedalieri italiani e alla Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere, sta promuovendo in questi giorni su tutto il territorio italiano. Ci daremo tutti - cittadini, medici, infermieri e dirigenti - una nuova occasione per lavorare insieme all'accoglienza nei reparti, al consenso informato, alla sicurezza in sala operatoria, fino alle dimissioni dall'ospedale. Ma soprattutto daremo alle persone ricoverate nelle strutture che stanno adottando la Carta uno strumento in più per verificare contestualmente e immediatamente che si faccia tutto il possibile per tutelarle da ogni rischio. *Coordinatrice nazionale del Tribunale per i diritti del malato- Cittadinanzattiva __________________________________________________________________ Italia Oggi 22 gen. ’08 PRONTO IL DLGS CHE ISTITUISCE TRE ORDINI SANITARI La riforma ora si sdoppia Domani parte il confronto alla camera sul testo base Mantini-Chicchi Benedetta P. Pacelli e Ignazio Marino Altra modifica in vista per la versione base del Mantini-Chicchi. Anche la questione degli ordini sanitari, infatti, è destinata a pesare sul riordino della disciplina delle professioni ideata dai due relatori di maggioranza, Pierluigi Mantini e Giuseppe Chicchi. Il ministero della salute ha pronto il suo schema di decreto legislativo per l'istituzione di tre ordini dell'area sanitaria, uno dei quali è per gli infermieri già trattato nel testo base in discussione domani presso le commissioni riunite Giustizia e attività produttive della camera. E che quindi è destinato ad essere stralciato dal ddl. La questione degli albi sanitari, promessi nella passata legislatura con la legge 43/2006, era destinata a riproporsi. Visto che la delega è stata via via aggiornata con la speranza da parte del legislatore di sistemare tutto insieme il comparto delle professioni. Del resto era stato proprio l'esecutivo, nel corso del consiglio dei ministri del 31 agosto 2006 (si veda Io del 1/9/06), a bloccare l'esercizio della delega in un momento in cui le liberalizzazioni di Bersani andavano verso l'accorpamento degli ordini e non verso la creazione di nuovi. La riforma quindi si sdoppia, e mentre Mantini si confronterà con l'opposizione il ministro Livia Turco fra lo stesso con le parti interessate alla sua legge. La riforma per i sanitari. Modificata la legge 43/2006 (si veda ItaliaOggi del 27/9/2007) il termine ultimo per la presentazione da parte del ministero della salute di un provvedimento legislativo è stato fissato per il 4 marzo 2008. Scadenza alla quale il ministero non si è fatto trovare impreparato. Lo schema di dlgs è composto di 20 articoli e prevede una grossa novità per questa categoria professionale: gli attuali collegi saranno trasformati in tre distinti ordini. Tre ordini, quindi e ventidue albi per gli oltre 500 mila operatori nel settore della sanità a poco meno di due mesi dalla scadenza della delega prevista dalla legge 43/2006 fissata per il 4 marzo 2008. Il risultato finale sarebbe: un ordine degli infermieri, uno delle ostetriche e delle professioni della riabilitazione e uno per tecnici di radiologia medica, professioni tecniche e della prevenzione. Questi accorpamenti nascono dalla scarsa percorribilità della ipotesi iniziale che vedeva la creazione di cinque nuovi ordini. Ipotesi di fatto già bocciata dal governo nell'estate scorsa, ma molto gradita dalle varie categorie e dai sindacati confederali. Ma lo schema lascia comunque lo spazio alla costituzione di un eventuale quarto ordine prevedendo che si può costituire un organismo autonomo se la professione che chiede di costituirsi ordine ha almeno 20 mila iscritti ai propri albi ed è presente con un minimo di 500 operatori in almeno 18 regioni. Lo schema affronta anche il nodo delle attività riservate che aveva suscitato però le critiche della maggior parte degli operatori secondo i quali le attività riservate sono riportate in modo troppo generico e potrebbero creare sovrapposizione di competenze e prestare il fianco a confusioni anche nella gestione degli albi interni agli ordini. Anche i sindacati confederali si sono schierati contro la bozza di dlgs La riforma per gli altri professionisti. Quella di domani non si annuncia una passeggiata di salute per i due relatori di maggioranza. E probabilmente non lo sarà per diversi motivi. Perché gli ordini del Cup, per esempio, non hanno visto prendere nemmeno in considerazione la loro proposta di legge di iniziativa popolare sul quale il Cup ha raccolto oltre 80 mila firme. Perché la prima versione di testo base Mantini-Chicchi non contiene nessuna delle modifiche annunciate a dicembre (si veda ItaliaOggi del 12/12/2007), a cominciare dalla sistemazione della denominazione del futuro ordine dei tecnici per l'ingegneria (periti industriali, periti agrari e geometri) per il quale il Consiglio nazionale degli ingegneri ha già lamentato lo scippo del titolo di studio. Perché l'opposizione da mesi aspetta di poter esaltare tutte le contraddizioni che nel tempo si sono create intorno al testo della maggioranza. __________________________________________________________________ L’Unione Sarda 23 gen. ’08 PSICHIATRIA: RICETTE TRIESTINE SULLA SANITÀ SARDA Il treno dei desideri all'incontrario va di Gian Paolo Turri* La Società Italiana di Psichiatria (SIP) - sezione Sardegna ritiene doverose alcune precisazioni sulla situazione dell'assistenza psichiatrica nell'Isola, anche alla luce dell'intervista al dottor Pier Paolo Pani del 6 gennaio scorso. Diamo atto all'assessorato regionale dell'assegnazione di cospicui finanziamenti per la Salute Mentale. Non è però la prima volta che passa un treno come questo : altri assessori avevano finanziato case-famiglia, comunità protette etc.. Nessun disaccordo su ciò. Le divergenze - da parte non solo di alcuni psichiatri cagliaritani , ma della Società Italiana di Psichiatria - emergono sulla direzione che deve prendere quel treno. Il modello interpretativo e di intervento più accreditato nel campo della Salute Mentale è quello "Bio- Psico-Sociale Integrato", che prevede interventi di tipo biologico (ad esempio farmaci), psicologico (psicoterapie individuali, di gruppo, familiari) e socio-riabilitativo (sostegno al lavoro, al diritto all'abitazione etc.). È questa la direzione che gli Operatori sardi della Salute Mentale vogliono dare al succitato "treno". Nella ricetta che arriva da Trieste tutta l'enfasi viene posta sui pur importantissimi interventi "sociali" mentre si guarda con malcelata ostilità a quelli biologici e psicoterapeutici. Questo è il vero nodo del disaccordo, ed è su un piano squisitamente scientifico. Non poggia su presunte basi "etniche" (i sardi che guarderebbero con sospetto i colonizzatori triestini), come qualcuno scioccamente adombra, o di rifiuto provinciale del confronto; né è motivato esclusivamente dall'arrogante imposizione di un modello in sé valido, ma calato maldestramente sugli operatori , senza la concertazione che la delicatezza dell'operazione avrebbe richiesto. Questo ha aggiunto malumore e fastidio, ma il motivo del dissenso consiste piuttosto nel fatto che il "modello triestino", ai tempi di Basaglia veramente "rivoluzionario" (rispetto all'assistenza psichiatrica manicomiale), oggi, se non si integra in una visione multidimensionale, appunto bio-psico-sociale, e non tiene conto dei progressi che la psichiatria ha fatto negli ultimi 40 anni, rischia di essere non il nuovo che avanza ma "il vecchio che regredisce". Basaglia probabilmente, davanti alla "linea di Trieste in Sardegna", si rivolterebbe nella tomba. I manicomi sono stati chiusi ormai da molto tempo; gli psichiatri e gli operatori che oggi lavorano nei DSM (Dipartimento Salute Mentale) spesso non li hanno mai conosciuti e, per loro fortuna, guardano il sofferente mentale in modo molto più scientifico di chi "il manicomio" sembra averlo stampato nel cervello e filtra ogni realtà psichiatrica attraverso uno schema ormai datato e fuorviante. Pertanto gli inviti agli psichiatri sardi ad aprirsi alla cosiddetta psichiatria sociale e di comunità , e asserzioni quali la differenza tra ieri e oggi è che noi vogliamo dare al paziente una prospettiva di cura sono ovvii e falsi allo stesso tempo. Ovvii perché nessun operatore della Salute Mentale oserebbe disconoscere la grande importanza degli interventi di sostegno sociale, familiare, lavorativo; falsi perché sconfina nella "disinformazione" accreditare l'immagine di psichiatri contrari alla apertura al sociale : come se per loro non fosse prassi ultradecennale e la dovessero scoprire solo adesso... come l'ha scoperta per recentissima folgorazione il dottor Pani! Gli psichiatri sardi sanno da tempo che l'intervento non si esaurisce in una ricetta . Sanno però che il farmaco è spesso necessario e non lo demonizzano per colpevole ideologia: uno schizofrenico o un grave depresso non possono essere curati soltanto con l'offerta di una borsa-lavoro o di una pacca sulla spalla. Su tali basi la SIP Sardegna ha presentato all'assessore sia rilievi che proposte; tra gli altri punti chiede che l'SPDC di Cagliari, dotato di 27 posti letto e perciò in situazione di doppia illegalità (per numero eccessivo a fronte dei 16 previsti come massimo dalle leggi vigenti e per "carenza relativa" rispetto a bacino d'utenza che ne richiederebbe 54), venga sdoppiato al più presto. Un'ultima considerazione sul tema spinoso e impopolare della "contenzione": se è vero che è barbarie utilizzarla come antidoto alla mancanza di personale , bisogna avere l'onestà intellettuale di riconoscere che essa, fuori da ogni ideologia, nei casi estremi in cui viene effettuata, deve mirare primariamente alla tutela del paziente rispetto ai danni che può arrecare a sé stesso o agli altri. In tal caso non è barbarie , ma "atto medico" consapevole e deontologicamente corretto. *Psichiatra Direttivo SIP-Sardegna __________________________________________________________________ Corriere della Sera 24 gen. ’08 IL TAR BOCCIA LA LEGGE 40 La sentenza Il Tribunale: incostituzionale il divieto di congelarli Embrioni, sì alle analisi Il comitato di bioetica: no ai limiti per rianimare i neonati I giudici hanno annullato una parte delle linee guida e chiesto alla Consulta di valutarne la legittimità ROMA - Per stabilirlo in via definitiva manca solo il decreto del ministero. Ma nella pratica il divieto di selezionare gli embrioni in Italia non esiste più. Cancellato con un colpo di spugna dalla sentenza del Tar del Lazio che ha accolto i ricorsi di alcune associazioni. I giudici hanno deciso di disapplicare, in quanto frutto di «eccesso di potere», una parte delle linee guida di accompagnamento alla legge sulla fecondazione artificiale. Quella dove si vieta alle coppie sterili e con malattie genetiche ereditarie di sapere, grazie ad un'analisi del Dna, se gli embrioni creati in provetta sono portatori della stessa anomalia. Nel complesso le linee guida vengono dichiarate «illegittime», bocciate. E alla Consulta il Tar pone il quesito sia sul limite di tre ovociti da fecondare (e tutti da impiantare) sia sul congelamento degli embrioni in più. Da oggi la diagnosi è di nuovo possibile nei centri italiani, come è successo fino a tre anni fa. Il comitato Scienza e Vita però non condivide: «Nessuna apertura - nega il presidente, Bruno Dallapiccola -. Non c'è nessuna traccia nella sentenza ad un via libera. E comunque parliamo di un'indagine diagnostica che danneggia l'integrità dell'embrione». D'accordo Luca Volontè, Udc. Si attende, per fare chiarezza, il decreto del ministro Livia Turco. La sentenza sulla fecondazione artificiale è l'ultima e decisiva spallata ad uno dei divieti più contestati, già messo in discussione dai tribunali di Cagliari e Firenze che avevano autorizzato due coppie alla diagnosi preimpianto. Ora lo stesso diritto viene esteso a tutti gli aspiranti genitori. Il ricorso al Tar è stato presentato da un gruppo di associazioni di pazienti e centri per la cura dell'infertilità. «Viene riconosciuta anche l'incostituzionalità del divieto di congelamento degli embrioni, previsto dalla legge 40 - spiega Gianluigi Pellegrino, legale di Warm -. L'ultima parola spetta però alla Consulta». Le attuali linee guida di accompagnamento alla legge (che non proibisce la diagnosi sugli embrioni, ed è questo uno dei punti contestati) portano la firma dell'ex ministro Girolamo Sirchia. Si attende a giorni il decreto di modifica della Turco. Secondo indiscrezioni la parte sulla diagnosi rispecchia il contenuto delle sentenze. In più, le tecniche di selezione vengono rese accessibili anche alle coppie sieropositive, con Hiv. La sentenza divide il mondo politico. Favorevoli Pd, Verdi e Rifondazione. Da Forza Italia esprimono soddisfazione Margherita Boniver e Stefania Prestigiacomo, mentre Isabella Bertolini, vicepresidente dei deputati di FI, dice che «le leggi si cambiano in Parlamento e non in tribunale». Giulia Bongiorno, An: «Bene la sentenza ma è indispensabile una legge a tutela dell'embrione». Il ginecologo Carlo Flamigni: «I magistrati hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare i politici spaventati e incompetenti». Sul fronte delle cure ai neonati prematuri con peso molto basso, altro tema eticamente sensibile, domani verrà presentato un documento del Comitato nazionale di bioetica, in contrasto con quello appena elaborato da una commissione ministeriale. I saggi dichiarano «inaccettabile, oltre che scientificamente opinabile, la pretesa di individuare una soglia astratta a partire dalla quale rifiutare a priori ogni tentativo di rianimazione del bambino». Quindi niente termini e paletti per nascere, secondo il Comitato che però chiarisce: le cure non devono mai «assumere carattere di accanimento terapeutico». Il gruppo di lavoro del ministero aveva indicato come soglia di riferimento le 22 settimane. Secondo gli esperti, dalla 23 settimana in poi il neonato può avere vita autonoma. Margherita De Bac Giugno 2005: manifesti elettorali alla vigilia del referendum per l'abrogazione della legge 40 Gli stop alla Legge 40 Le altre sentenze L'illegittimità Dicembre 2007 Settembre 2007 Le linee guida bocciate Il divieto della crioconservazione degli embrioni esporrebbe la donna al rischio di iperstimolazione ovarica violando il principio di minore invasività La predeterminazione del numero degli embrioni che si possono produrre e quindi impiantare sarebbe in contrasto con il diritto alla salute Annullate le linee guida nella parte in cui si dice che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro deve essere solo di tipo osservazionale Il Tar del Lazio ha bocciato il divieto di diagnosi preimpianto e la predeterminazione del numero degli embrioni da impiantare in utero Il tribunale di Firenze ha stabilito che non solo la legge sulla procreazione assistita non prevede il divieto di diagnosi ma addirittura la sottintende. Ha ordinato al centro Demetra di fare selezione di embrioni La sentenza solleva la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 14 (commi 2 e 3) della legge 40 per contrasto con gli articoli 3 e 32 della Costituzione Il tribunale di Cagliari ha riconosciuto a una coppia sarda, portatrice di talassemia, il diritto di fare esaminare il loro embrione congelato __________________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 gen. ’08 I MANAGER ASL CHIEDONO IL VISTO DI PROFESSIONALITÀ Sanità. Le reazioni all'inchiesta sulla lottizzazione ORGOGLIO DI CATEGORIA I dg sollecitano un Albo o un'Authority per essere valutati in base alla capacità di realizzare gli obiettivi (fissati dalla politica) Roberto Turno «Siamo manager, non caporali». I direttori generali di Asl e ospedali si ribellano: non siamo il cordone ombelicale dei partiti, non siamo figli della lottizzazione delle segreterie o di interessi particolari. E intanto rilanciano: serve massima trasparenza. Ma si spaccano: chi vuole l'Albo (o Registro che dir si voglia) nazionale, chi chiede un «garante terzo». Il 54% delle aziende sanitarie in quota al Pd? Il 22% sotto Forza Italia? Mentre le Regioni rigettano le accuse e contestano i dati dell'inchiesta del Sole 24 Ore (si veda il numero di martedì 22 gennaio), i direttori generali-manager del Ssn vanno al contrattacco. Governatori e assessori dove il Ssn va meglio - al Centro-Nord - negano qualsiasi logica spartitoria. Lo ha fatto ieri Giancarlo Galan (Veneto) in un aspro confronto con il ministro Alfonso Pecoraro Scanio che aveva mostrato i dati dell'inchiesta alla trasmissione «Ballarò» su Rai 3. E lo aveva già dichiarato l'assessore toscano Enrico Rossi, capofila di tutti gli assessori regionali: «Non guardo che tessera hanno in tasca i direttori generali». I manager Ssn sono dei tecnici. Non vanno demonizzati. Manager tra l'incudine e il martello, insomma. Tra regole che cambiano, dovere di tenere in linea i bilanci, richieste del datore di lavoro (politico) che in Sanità spende il 75% dei propri conti. Mentre le categorie spingono, senza però che i manager possano incidere sulle decisioni della politica: è il caso dei contratti del personale. Cosicché ieri, in stretta coincidenza di tempi, le due opposte anime associative dei manager di Asl e ospedali-azienda - Fiaso e FederSanità Anci - si sono ribellate. La Fiaso ieri era riunita in assemblea. Il suo presidente Francesco Ripa di Meana - neo Dg a Bologna, che prima stava a Piacenza e prima ancora a Viterbo, nel Lazio, dove è stato fatto fuori dalla Giunta di centrodestra di Storace - non ha dubbi: «Sappiamo di essere nominati da un organismo politico e che siamo chiamati a implementare le politiche sanitarie scelte dalle Regioni. È giusto che sia così. Ma rifiutiamo assolutamente l'idea che le aziende sanitarie siano politicizzate-partitizzate». Tuttavia, aggiunge, «è positivo un dibattito sulla qualità del management». Ma che fare per spazzar via dubbi e partiti, quando invadono? «Credo che servirebbe un Registro nazionale e che si cominci a ragionare dappertutto sulla valutazione e sulla selezione del management. E di farlo con la massima trasparenza possibile. La buona politica, che c'è, deve vincere. Soltanto così può garantirci a essere più forti nella nostra azione di governo». E sempre ieri è scesa in campo Federsanità Anci. Il suo presidente Pier Natale Mengozzi - toscano doc, del Pd - precisa: «I direttori generali sono di nomina politica, non ci scandalizziamo». Ma attenzione: «Nessuna confusione tra il rapporto di fiducia e il legame partitico. I dg sono scelti per le loro capacità, non perché uomini di partito. La politica programmi e fissi gli obiettivi». Serve cioè una scelta politica sempre più trasparente in nome della qualità professionale, aggiunge Mengozzi. Serve un "garante terzo": «Non crediamo agli albi o ordini professionali. Pensiamo piuttosto a un Garante terzo non legato a nessuno, chiamato a tutelare e garantire la qualità professionale dei direttori generali, ma anche di quelli sanitari e amministrativi». L'anticipazione Sul Sole 24 Ore del 22 gennaio sono apparsi i risultati dell'inchiesta sui legami tra i partiti politici e le nomine dei direttori generali di 276 Asl. Secondo i dati raccolti dal settimanale «Il Sole 24 Ore Sanità», il Partito democratico è al primo posto con 148 dirigenti "segnalati" e il 54% delle poltrone (con la ex Margherita che ha piazzato 69 manager contro i 79 degli ex Ds). Al terzo posto c'è Forza Italia con 61 indicazioni (22% del totale), "forte" soprattutto in Lombardia, Sicilia e Veneto. Al quarto posto si piazza Alleanza nazionale, con il 5,1% di nomine d'area, seguita dalla Lega Nord con il 4,1 per cento. Pochissimi i tecnici puri e non solo "d'area": solo 3, tutti in Piemonte. ______________________________________________________________ Corriere Della Sera 22 gen. ’08 LA CARTELLA CLINICA SI LEGGE CON GLI SMS Benessere Nuovo servizio di SalusBank di Galeazzo Santini ttraverso un sms si può accedere con facilità d alcune informazioni contenute nella propria. cartella clinica virtuale. SatusBank ha aggiunto per tutti gli abbonamenti il servizio di alert tramite messaggio sul cellulare. l.,'utentE: che si abbona può scegliere quali informazioni far arrivare tramite sms. II numero di telefono, così come username e password, sono contenuti in una carta stampabile al momento dell'iscrizione tramite il proprio pc. In caso di emergenza, medici e soccorritori possono così avere un quadro clinico immediata del paziente. Gli utenti che scelgono Plus, l'abbonamento più completo (il costo annuale di 50 euro, 35 per gli over 60 e 28 per i bambini da zero a 12 anni), possono accedere anche al servizio di notifica dell'emergenza ai propri familiari. Anche qui il testo, e con esso i numeri cui inviare L'alert, vengono predefiniti dall'abbonato. __________________________________________________ Libero 23 gen. ’08 LA DIETA DEL SANGUE Gli A sono vegetariani, i B onnivori Carni per il gruppo 0, uova per l’AB DANIELA MASTROMATTEI Perché c'è chi può mangiare tutti i dolci che vuole, mentre altri ingrassano solo a guardarli? Perché c'è chi prende sempre l'influenza e altri ne sembrano immuni? Perché una cosa che fa bene a qualcuno può dar fastidio a un altro? Un enigma, fino a qualche tempo fa. Ma ora medici scienziati e ricercatori hanno trovato la chiave che schiude la porta sui misteri della salute, della malattia, della longevità, della vitalità fisica ed emozionale. Quella chiave si chiama gruppo sanguigno e racchiude in sé tutto il processo che porta al benessere psicofisico. NELLA STORIA II sangue, elemento magico, mistico, alchemico, accompagna il corso della storia dell'uomo come simbolo culturale e spirituale. I nostri antenati mischiavano il loro sangue e lo bevevano in segno di unità e fratellanza. Fin dalla loro prima comparsa sulla terra, i cacciatori praticavano rituali per placare lo spirito delle loro prede, offrendone il sangue e spalmandoselo sul volto e sul corpo. È stato il sangue di un agnello che ha salvato gli ebrei schiavi in Egitto dalla vendetta dell'Angelo della Morte. Ed è sempre sangue quello che invade le acque del Nilo toccate da Mosè per indurre il Faraone a liberare il popolo ebraico. Così come il sangue di Gesù Cristo è, da quasi duemila anni, al centro del più sacro rito della liturgia cristiana. Il sangue è la vita È la forza primordiale che alimenta la potenza e il mistero della nascita e della malattia, ma è anche un codice personale, un'impronta genetica che caratterizza il nostro organismo. Un'impronta genetica che attraverso la lettura del gruppo sanguigno è in grado di stabilire lo stile di vita consono alle nostre esigenze e inclinazioni; i cibi che consentono al meglio di acquisire forza e resistenza, come vivere più a lungo rallentando il processo di invecchiamento; come eliminare molti malesseri cronici, come trovare il giusto equilibrio emotivo, combattendo ansia e depressione. Insomma basta scoprire il proprio gruppo sanguigno e avere qualche accortezza per sentirsi a posto nel corpo e nella mente, come si legge nel libro "L'alimentazione su misura, scegli gli alimenti e la dieta personalizzata in base al tuo gruppo sanguigno", di Peter J. D'Adamo con la collaborazione di Catherine Whitney (edito Sperling). IL CACCIATORE -GRUPPO 0 Il gruppo 0 è il più antico, risale a circa 40 mila anni fa, alla comparsa dell'uomo di Cro-Magnon, abile cacciatore che si nutriva solo di carne. I primi cacciatori appartenenti al gruppo sanguigno di tipo 0 migrarono dall'Africa verso l'Europa e l'Asia alla ricerca di nuovi territori di caccia. E il loro sistema digestivo conserva caratteristiche vecchie di millenni. Ecco perché chi ha il gruppo 0sinutre di proteine animali, ha un sistema digestivo robusto e un sistema immunitario iperattivo. Non tollera i prodotti caseari e i cereali. Per eliminare i chili di troppo deve limitare il consumo di cereali, pane e legumi. Per loro, infatti il maggiore responsabile dell'aumento dipeso è il glutine contenuto nel germe di grano e, più in generale, nei prodotti a base di frumento. Può mangiare a piacere manzo, agnello, tacchino, pollo, pesce e frutti di mare. Ma attenzione alle porzioni: i nostri antenati non banchettavano con bistecche di mezzo chilo: la carne era troppo scarsa per poterne abusare. Limitatevi a consumarne non più di 180 grammi a pasto. Le persone di gruppo 0, che reagiscono meglio allo stress praticando un'attività fisica intensa, hanno nella memoria genetica forza, resistenza, senso di autostima, temerarietà, intuizione e ottimismo. L'AGRICOLTORE -GRUPPO A Il gruppo A fece la sua comparsa in qualche zona dell'Asia o del Medio Oriente circa 20 mila anni fa L'agricoltura e l'addomesticamento degli animali furono le caratteristiche salienti della sua cultura. Non più costretti a vivere alla giornata, gli uomini iniziarono a sviluppare comunità stabili e a lavorare in gruppo. Ancora oggi i soggetti appartenenti al gruppo sanguigno di tipo A conservano tratti psicologici che li fanno eccellere nei lavori che richiedono pianificazione e collaborazione. E se allora, in pieno Neolitico, i primi contadini cominciarono a nutrirsi di cereali e di altri prodotti dell'agricoltura, oggi le persone di tipo A si sentono decisamente meglio seguendo una dieta vegetariana. E probabilmente si sentiranno un po' intorpiditi e stanchi dopo aver mangiato carne rossa. Il tipo 0 utilizza le proteine animali come un carburante di prima qualità, il tipo A, invece, le immagazzina sotto forma di grassi. Per raggiungere i maggiori benefici il tipo A deve eliminare tutti i tipi di carne dalla dieta, anche per ridurre il rischio di malattie cardiovascolari e di cancro. Vietati gli insaccati come prosciutto, salame e mortadella. Si ai cereali, ai legumi, agli alimenti a base di soia, agli ortaggi e al pesce in modiche quantità Ma alla larga dai cibi precotti: ha un apparato digerente molto sensibile. Il gruppo A combatte lo stress praticando attività rilassanti. IL NOMADE - GRUPPO B Fece la sua prima apparizione 15 mila anni fa nelle zone montagnose dell'Himalaya Lo stimolo che determinò la mutazione fu probabilmente di tipo climatico, cioè la necessità di adattarsi al passaggio dal clima torrido delle savane africane a quello freddo e rigido delle catene montuose himalayane. Il nuovo gruppo sanguigno (tipo B) divenne ben presto caratteristico delle grandi tribù nomadi della steppa che si diressero verso Nord e poi nel resto del mondo portando con sé una cultura fondata sulla pastorizia, come dimostra tra l'altro la loro dieta basata sul consumo di carne e di prodotti caseari. Perle sue origini questo gruppo ha caratteristiche camaleontiche. La sua dieta è molto bilanciata: comprende una grande varietà di alimenti «il meglio del regno animale e vegetale», sottolinea l'autore del libro. Hanno un sistema immunitario robusto capace di resistere all'aggressione da parte di molte malattie caratteristiche delle società economicamente sviluppate, come i disturbi cardiovascolari e i tumori; anche quando non riescono a evitarle sono in grado di combatterle bene. Si adattano bene ai cambiamenti dietetici. Per evitare di ingrassare devono astenersi dal consumare granoturco, grano saraceno, lenticchie, arachidi, alimenti che a loro provocano stanchezza, ritenzione di liquidi e un calo di zuccheri. Qui l'arma vincente contro lo stress è la creatività. L'ENIGMA -GRUPPO AR È il più raro e recente. Il gruppo AB si è sviluppato dalla mescolanza del sangue di tipo A, caucasico, con quello di tipo B, mongolico. Oggi è presente in meno del 5 per cento della popolazione. Come dire, quando le orde barbariche riuscirono ad avere la meglio sull'Impero romano, il sangue dei vincitori si mescolò con quello dei vinti e il gruppo AB fece la sua comparsa. Meno di mille armi fa. Pur continuando a essere un mistero dell'evoluzione questo gruppo è biologicamente complesso. La contemporanea presenza di caratteristiche di tipo A e B influenza notevolmente sia l'aumento di peso sia il dimagrimento e, a volte, può creare qualche problema la carne rossa, per esempio, viene digerita male, tende a favorire l’accumulo di grasso e intossica l'intestino. I fagioli di Spagna e il frumento rendono l'insulina meno efficiente, rallentano il metabolismo e favoriscono l'ipoglicemia. Deve evitare olive nere e peperoncino, peperoni gialli e rossi. Mentre il latte e i formaggi, gli ortaggi a foglia verde favoriscono la perdita di peso. Le uova sono un'ottima fonte di proteine. Il gruppo AB deve limitare la pasta a una o due volte la settimana, mentre il riso lo può consumare liberamente. Deve iniziare la giornata bevendo un bicchiere di acqua tiepida insaporita con il succo di mezzo limone, per eliminare l'eccesso di muco accumulato durante le ore notturne. Crede nell'analisi della personalità e dovrebbe praticare lo yoga. Sono comunque persone molto originali: l'ipersensibilità del tipo A si fonde con l'equilibrio del tipo B. __________________________________________________________ La Repubblica 24 gen. ’08 LA PROTEINA CHE "AVVIA" IL CANCRO AL SENO Una proteina, già nota per C essere presente nel cancro della mammella, ha la capacità di far "impazzire" le cellule sane. La scoperta di un gruppo di giovani ricercatori dell'Università di Bologna, pubblicata su Journ.al of Clinical Investigation, getta nuova luce sui primi passi della sviluppo tumorale e apre la strada a nuovi approcci nella prevenzione e nella cura della malattia che ogni anno, solo in Italia, uccide undicimila donne. La proteina è l’interleuchina 6 e la ricerca dimostra che non solo rende più aggressive le cellule tumorali, ma che in sua presenza quelle sane 'viziano a acquisire caratteri cancerosi. Lo studio dell'università di Bologna si intreccia inoltre con una delle nuove frontiere della ricerca medica oncologica, quella delle staminali tumorali. «Le staminali sane, esposte alla proteina, iniziano ad assumere atteggiamenti tipici di quelle maligne», spiega Massimiliano Bonafe, 38 anni> a capo del team di ricercatori, «cominciano a migrare, facendosi largo tra le altre cellule, sopravvivono in ambienti poveri d'ossigeno, e crescono anche prive di una base d'appoggio. Tutti segnali preoccupanti. Abbiamo inoltre osservato che, come le StarrliYiali del cancro, iniziano a produrre loro stesse altra interleuchina. Si questo spiega un mistero sinora irrisolto: da dove proviene l’interleuchina in eccesso nelle pazienti con cancro al seno». Ancora sconosciuto invece il modo in cui l’interleuchina (la cui concentrazione nei tumori cresce con la loro essività) interagisce con le celle cancerose. Conoscerla meglio, spiegano gli studiosi, è importante anche perché si tratta di una proteina che à accompagna per tutta la vita, centrale in molti processi dell'organismo, normalmente con funzioni benefiche. «La prova del suo ruolo sull'innesco del tumore al seno», spiega Bonafe, «apre la strada a nuove strategie preventive e terapeutiche. L'aumento d'interleuchina da solo potrebbe fungere da campanello d'allarme e suggerire strategie preventive. Inoltre si può verificare se ci sono benefici contrastando la proteina con farma specifici». ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 24 gen. ’08 RICOMINCIO DAI VACCINI IMMUNOTERAPIA LE RAGIONI Innovazione, tecnologia e filantropia spingono la cenerentola delle cure DI AGNESE CODIGNOLA E FRANCESCA CERATI Dopo molti anni di sonnacchiosa routine, la scienza che studia i vaccini vive una seconda giovinezza: non c'è quasi ambito della patologia nel quale non si stia cercando di trovare il prodotto in grado di suscitare una risposta anticorpale specifica. I motivi di questo risveglio sono molteplici: scientifici, tecnologici e commerciali. Spiega Alberto Mantovani, immunologo dell'Università di Milano di fama mondiale e direttore scientifico dell'Istituto Humanitas di Rozzano: «Negli ultimi decenni sono stati fatti passi in avanti molto importanti nella comprensione del funzionamento del sistema immunitario, e delle strategie per sfruttarlo. Questo ha dato il via a molte nuove applicazioni e indicata direzioni mai esplorate prima verso le quali procedere. Per esempio, si sa ancora poco della memoria immunologica alla base del funzionamento dei vaccini, così come dei diversi componenti che il sistema immunitario mette in campo per affrontare nemici diversi. Una grossa spinta è venuta poi dai miglioramenti tecnologici». Concorda con Mantovani Rino Rappuoli, scienziato cui si devono alcune delle più importanti scoperte degli ultimi anni, oggi a capo della ricerca mondiale dei vaccini di Novartis, settore che con un fatturato di 20o milioni contribuisce in Italia per il 75% al risultato complessivo della multinazionale, che tocca quota 1.354 milioni di euro. «I passaggi fondamentali che ci hanno portato alla situazione attuale sono sostanzialmente tre: negli anni '80 la scoperta della tecnica del Dna ricombinante, che ha permesso di abbandonare quasi del tutto i vaccini vivi, che in passato hanno causato non pochi problemi (in qualche caso potevano provocare la malattia contro cui erano diretti); negli anni 90 i vaccini glicoconiugati, cioè uniti a zuccheri che potenziavano il potere immuno stimolante anche nei bambini molto piccoli; inizio del 2000, la reverse vaccinology, nella quale si parte dal Dna della specie e poi si disegna il vaccino al computer, il primo di questo tipo, contro il meningococco B; dovrebbe arrivare tra poco in clinica. Accanto a ciò, c'è un altro avanzamento fondamentale: quello sugli adiuvanti, le sostanze aggiunte ai vaccini per aumentare la stimolazione del sistema immunitario. Si tratta di emulsioni più potenti, più stabili e più sicure». La vaccinologia raccoglie oggi, dunque, i frutti di ricerche durate decenni. Ma si avvantaggia anche di nuovi, imponenti flussi di denaro. Per rendersi conto del business basta citare poche cifre: nel 2007 Merck, che ha superato Sanofi Aventis come leader dei produttori di vaccini, ha fatturato 2,13 miliardi di euro, contro i 2,12 della stessa Sanofi e gli 1,9 miliardi di GlaxoSmithKline. Il mercato cresce del 10-15% all'anno e potrebbe raggiungere, entro il 2016, i 24 miliardi di euro, spinto anche dalle iniziative lanciate dalle charities planetarie come la Gavi Alliance (Global alliance for vaccines and immunization). Gavi è una partnership che riunisce Governi (donatori e riceventi), l’Oms,l’Unicef, la Banca Mondiale; i produttori, varie Ong e la Fondazione Bill & Melinda Gates; suo braccio finanziario è l’International finance facility for Immunisation (Ifilm), istituzione multilaterale nata per accelerare la disponibilità dei fondi che, dal novembre del a00G, ha raccolto più di un miliardo di dollari, impiegati tutti in campagne di immunizzazione infantile nei Paesi in via di sviluppo, rafforzamento dei sistemi sanitari, costituzione di scorte vaccinali e progetti di ricerca di base. Tra i Paesi emergenti, sono soprattutto Brasile, Cina e India, a mettere a punto programmi di vaccinazione, un mercato che si stima essere equivalente a quello statunitense. Ma la ricerca è anche "dopata" dai fondi che Europa e Usa hanno sbloccato per arginare i rischi della cosiddetta pandemia che verrà. «Tutti i grandi produttori di vaccini stanno lavorando per contrastare sia i possibili virus da bioterrorismo, come il vaiolo, sia il virus pandemico-spiega Daniel Cristelli, amministratore delegato di Sanofi Pasteur Msd, azienda che si dedica esclusivamente alla produzione di vaccini e che solo nell'ultimo anno ha quasi raddoppiato il fatturato: 44 milioni di euro nel 2006, 77 nel 2007, con una previsione per il prossimo triennio intorno ai 187 milioni di euro -. Anche se il candidato più probabile sembra essere H5Ni,l’agente virale dell'aviaria, nessuno può saperlo con certezza. Per questo nei laboratori si prepara un make up, cioè la prima parte del processo di produzione, a prescindere dal virus responsabile che sarà coltivato all'ultimo momento: E questo fa guadagnare tempo». Ed è sempre in questi laboratori (nati dalla joint venture tra Sanofi Pasteur e Merck) che è nato il Gardas il, il primo vaccino quadrivalente preventivo contro un tumore, quello del collo dell'utero, che ha come rivale il Cervarix (bivalente) della Gsk. «Entro quest'anno metteremo sul mercato anche il vaccino contro l'herpes zoster e le navralgie post-erpetiche», conclude Cristelli. Insomma, la "cenerentola" della ricerca farmaceutica ha avviato la sua riscossa. Wmincio (J ai vacc,„; __________________________________________________________ Libero 25 gen. ’08 LANCIATO IL PROGETTO "1000 GENOMI" Al via la mappa di tutte le patologie (r.m.) È partito il "1000 Genomes Project", un programma di ricerca internazionale che mira a sequenziare e comparare il Dna di 1000 volontari, sviluppando una mappa in grado di individuare qualunque variazione genetica che abbia una qualche rilevanza bio-medica. Il progetto - che coinvolge tra gli altri l’European Bioinformatic lnstitute, lo US National Institute of Biotechology Information e il cinese Beijing Genomics Institute - fornirà informazionî preziose per determinare i rischi individuali di sviluppare diverse patologie e per stabilire l'efficacia potenziale sulle singole persone di un certo farmaco o di una certa terapia. La mappa sarà messa gratuitamente a disposizione di tutti i ricercatori che ne faranno richiesta. __________________________________________________________________ La Nuova Sardegna 21 gen. ’08 NURAX, L’INTEGRATORE MADE IN SARDINIA Dall’intuizione di un neurologo alla commercializzazione in Europa Il polo scientifico Sardegna Ricerche coinvolto nello studio che ha aperto nuove prospettive per le erbe officinali Dagli scaffali e dalle vetrine di enoteche e profumerie ecco il mirto e il rosmarino sul bancone del farmacista. Non più mirto da bere e rosmarino da aroma, ma nei barattoli colorati di terracotta con foglie e bacche rinsecchite da alchimisti ed erboristi. Da un anno, tra i boschi della foresta nel Parco tecnologico di Pula ribattezzato Sardegna Ricerche, sono diventati medicinali o - per usare il termine più corretto in farmacologia - “integratori alimentari”, farmaci da banco. Li produce una società dal nome sardissimo, Nuraging Biotech, filiale italiana dell’omonima società con sede a Cardiff, Galles, nel Regno Unito. Pastiglie a base di mirto e rosmarino già in commercio in tutt’Italia e per ora in alcune città europee, cinquemila scatole distribuite e in fase di vendita. Si chiamano NuraxMemo (per aiutare la capacità di concentrazione e la memoria), NuraxFlex (favorisce l’elasticità muscolare) e NuraxEnergy (a supporto delle fatiche fisiche o mentali). Prodotti analoghi si trovano da tempo pensati e distribuiti da tante altre case farmaceutiche. Questi tre nuovi tipi di compresse a base di essenze botaniche sono prodotti (per adesso) nello stabilimento di Ferentino, Ciociaria, provincia di Frosinone. Amministratore delegato è un neurologo, Angèlico Carta, 48 anni, figlio di un medico (Pietro, di Paulilatino) e di un’insegnante (Maria Teresa Minotti). “Magari potessimo produrre qui, occorrono numeri alti. Stiamo valutando anche questo aspetto, sarebbe molto più logico veder uscire le scatole col prodotto finito nello stesso punto dove è stato pensato. Ma stabilimenti di questo genere hanno bisogno di requisiti internazionali. Si possono ottenere, la strada è tracciata”. Alla base di questi “integratori” ci sono dunque piante sarde. Il toccasana di tutti i mali? Possono essere utilizzati oltre che per i liquori e profumi? Certamente. Flavia Franconi, del Dipartimento di Scienze del farmaco dell’università di Sassari, professore ordinario di Farmacologia cellulare e molecolare e coordinatore del dottorato in Farmacologia di genere: Dice: “Il mirto è una pianta della flora mediterranea ricca in antiossidanti, i cosiddetti polifenoli”: E spiega. “L’utilizzo di una dieta ricca in polifenoli ha un effetto salubre riducendo il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari (infarto) e cancro. In particolare, i polifenoli del mirto riducono in maniera dose-dipendente l’ossidazione del lipoproteine a bassa densità (il cosiddetto colesterolo cattivo). Al di là di questa azione, il mirto ha importanti azioni anche a livello vasale in senso antiaterosclerotico”. Una Sardegna così ricca di flora mediterranea, di distese sconfinate di mirto, rosmarino, timo, erbe e fiori di molti tipi, non potrebbe sfruttare meglio questa sua miniera verde? Certo che potrebbe. Nel settore liquoristico e cosmetico avviene da alcuni anni (e con buon successo) soprattutto all’apripista Erbosar di Orosei di Giuseppe Lentinu che valorizza anche salvia e camedrio. Ma pastiglie, integratori vitamici. Tutto nasce in Sardegna una ventina di anni fa proprio durante una passeggiata nelle stupende campagne tra Paulilatino e Fordongianus, nell’alto Oristanese, dov’è nato il padre di Angèlico. Si chiedono che farne di queste essenze botaniche. Nel resto del mondo non vengono usati in farmacologia e in profumeria? Non sono eccezionali anche per creme di bellezza? Quanto potrebbe dare valore aggiunto il made in Sardinia, terra di ambiente pulito? Domanda che resta senza risposta fino a pochi anni fa quando nasce il Parco tecnologico che ora - dice il suo presidente Giuliano Murgia - punta ad “avere una Biomedicine & Technology Valley. In silenzio, senza clamore, abbiamo 65 imprese insediate, lavorano 498 ricercatori”. Certo. Occorrono competenze. Sarde o estere poco importa. Purché la Sardegna trasformi le sue materie prime, ne abbia i vantaggi, il ritorno. Le professionalità cominciano a esserci. È Carta che presenta i suoi collaboratori sardi: Mauro Manunta, laurea in Biologia, originario di Burcei, la farmacista Silvana Urru di Meana Sardo, parte amministrativa affidata a Paolo Porcu, cagliaritano. Quando c’è bisogno lavorano altri ricercatori prestati da Pharmaness: tra gli altri Angela Sanna, “cagliaritana di Seneghe”, Maria Antonietta Casu di Sorgono. Dice Carta: “Quando vengono colleghi americani o giapponesi, tedeschi o inglesi si sorprendono di quanto già esiste nel campo della biotecnologia e della biomedicina. Che possono svilupparsi davvero”. È questa la stessa zona dove si fanno gli studi sull’invecchiamento in Sardegna con i laboratori di Shardna radicatissimo in Ogliastra. Dietro queste pastiglie al mirto e al rosmarino c’è l’intuizione del dottor Carta e di altri biologi sardi che si ritrovano ogni giorno nel padiglione 5 di Sardegna Ricerche dove detta legge soprattutto la già citata Pharmaness, fondata nel 1996, capitale misto pubblico-privato, partecipata dall’Università di Cagliari e dal Consiglio nazionale delle ricerche e presieduta dallo psichiatra Luca Pani. È Pharmaness, con la sua struttura, a occuparsi di individuare le basi neurobiologiche delle psicosi, della depressione, del dolore, dei disturbi del sonno e dell’alimentazione. E offre assistenza e consulenza, quasi “in conto terzi”, a chi ne fa richiesta. Oppure “presta” le proprie strutture e laboratori. Naturalmente a pagamento. È qui che lavorano alcuni dei ricercatori di Nuraging in camice bianco fra pipette, microscopi a scansione elettronica, apparecchi per l’autoradiografia, la localizzazione dei recettori, amplificatori del Dna, centrifughe, grandi cilindri, soluzioni tampone per l’elettroforesi. Alle pareti manifesti di catene molecolari, grande descrizione delle proprietà del papavero sonnifero. Un lungo muro bianco racconta il percorso biochimico dalle piante officinali alle sostanze pure. La storia professionale di Angèlico Carta ha origine sarde ma è soprattutto scritta in giro per il mondo. A Roma il liceo classico “Massimo” e la laurea alla Sapienza in Medicina, tesi sul morbo di Parkinson. Specializzazione in neurologia al King’s College di Londra, tre anni di ricercatore tra Roma e Londra. Poi cerca un’industria privata e trova lavoro nell’italiana Sigma Tau, nello stabilimento del Maryland, a Gatethrsburg, ne coordina la ricerca chimica. Una multinazionale del farmaco. Pietro Pola, responsabile marketing, ne dà i numeri portanti: “Più di quattrocento ricercatori, fatturato di 600 milioni di euro, stabilimenti anche a Milano, Caserta e Washington”. Qui Carta lavora per sette anni. Dopo il Parkinson si occupa dell’Alzheimer e di neuropatie periferiche diabetiche. Torna a Londra a dirigere la sezione europea di Sigma Tau. Ha però un rovello fisso: l’uso delle piante officinali in Sardegna, dopo quelle passeggiate negli altopiani dell’Oristanese. Sa di quanto sta avvenendo nel Parco scientifico di Pula voluto da una felice intuizione della Regione (il padre putativo è l’ex presidente sardista Mario Melis). Carta vuol toccare con mano. “Notavo la presenza di strutture vere, di laboratori veri, di ricercatori preparati”. Il parto-nascita di Nuraging avviene durante una cena a Londra, ristorante Monte’s in Knightsbridge. “Un mio collega inglese mi dice chiaramente che ha disponibilità finanziarie e ha interesse a investire nella ricerca di nuovi prodotti naturali. Gli dico che la Sardegna è un deposito immenso di piante ed erbe officinali. Lui mi cita i centenari dell’Ogliastra, gli studi sull’invecchiamento, le pubblicazioni scientifiche di Neuroscienze, alcuni lavori dei botanici Mauro Ballero di Cagliari e Ignazio Camarda di Sassari. Gli propongo un viaggio a Pula, ci arriviamo in un weekend, il direttore generale Chicco Marcheschi ci accoglie di sabato, mattina e sera a parlare e trattare, resta entusiasta, andiamo insieme a Paulilatino, vede le distese di rosmarino e di mirto, distingue il profumo del timo e dell’elicriso, the business must go on, l’affare deve andare avanti, dice. A pranzo siamo a Is benas di Santulussurgiu con tagliatelle al sugo di bue rosso, di sera al pozzo sacro di Santa Cristina, sì, l’affare ormai è fatto”. Contatti formali con Sardegna Ricerche. Nasce Nuraging, sperimentazioni sui prototipi, la cosa più immediata è - aggiunge Carta - “usare al meglio le capacità antiossidanti sulle combinazioni degli estratti di mirto e rosmarino noti per le loro indiscutibili proprietà antinfiammatorie e antiossidanti, sì, contribuiscono a contrastare l’invecchiamento cellulare. Tale combinazione viene chiamata Nuragene”. Studi, prove, esperimenti con i biologi sardi, Manunta e Urru, Sanna e Casu. Ed ecco le capsule di NuraxMemo con Nuragene e altri ingredienti a base di magnesio e zinco, ecco il NuraxFlex sempre con Nuragene, curcuma e vitamina C, il NuraxEnergy con l’eterno Nuragene e vari tipi di vitamine B. Quante scatole? Già detto. “Per ora siamo a quota cinquemila”, conferma Pola. I primi distributori? “Sardi ovviamente con il consorzio dei farmacisti sardi CoSaFaCa”. Mirto e rosmarino davvero miracolosi? Non solo queste due piante. Ancora la professoressa Franconi dell’ateneo sassarese: “Il mirto condivide la sua azione salubre con quella di altre piante della flora mediterranea come l’olivo. Infatti, gli estratti dell’olio d’oliva, al di là degli effetti benefici dell’acido oleico, hanno un forte potere antiossidante sul “colesterolo cattivo”. Come abbiamo recentemente pubblicato, questi estratti esercitano importanti effetti anche sui macrofagi umani (cellule chiave nello sviluppo dell’aterosclerosi) inibendo l’attivazione di un fattore di trascrizione. Questi ultimi dati sono il frutto di una ricerca congiunta delle università di Sassari, Novara, Firenze e dell’Istituto superiore di Sanità”. Si potranno usare altre piante per gli stessi fini? “Molte altre piante della flora mediterranea - lentischio, rosmarino, origano per non dimenticare il vino - hanno un potere antiossidante che almeno in teoria, porta ad effetti benefici della dieta mediterranea. Naturalmente non ci deve illudere: perché il passaggio all’uso come farmaci delle molecole presenti in queste piante richiede una serie di ricerca ivi incluso studi clinici d’intervento. In tale attesa appare allora opportuno assumere un atteggiamento di prudenza”. Integratori alimentari naturali dunque, non con formule chimiche. Integratori validi perché - conferma Carta - “la nostra ricerca sull’eventuale esistenza di un effetto sinergico nella combinazione dei due estratti di mirto e rosmarino ha confermato, rispetto alle singole erbe, che contengono un potere antiossidante maggiore, sia come intensità che come durata”. Fermarsi qui? Evidentemente no. La grande miniera a cielo aperto della macchia mediterranea in Sardegna può garantire davvero fatturato e occupazione. Ma non basta disporre di distese d’incanto nelle nostre vallate, dal Sulcis alla Gallura, dal Sarrabus alla Nurra. Per il salto di qualità occorrono soprattutto competenze scientifiche accertate in campo internazionale. Prima in Sardegna c’era il deserto scientifico. Oggi a Pula (nel cagliaritano), a Tramariglio (campagne di Alghero) ci sono competenze ma anche le strutture, i laboratori della Sardegna diventata “Biomedicine & Technology Valley”. Con cervelli che sono anche rientrati. Con cervelli non sardi che scelgono la Sardegna per far sorgere industrie e aziende innovative. Dopo le brucianti scottature del passato gli entusiasmi vanno certo contenuti. Ma quei prodotti che da un po’ di tempo troviamo nel bancone della farmacia sotto casa anche con la scritta Piscinamanna sono un fatto inedito per la Sardegna. Sicuramente positivo. __________________________________________________________________ Corriere della Sera 21 gen. ’08 MA NESSUNO STUDIA CURE DEDICATE SOLO AI PICCOLI E l' Oms lancia l' allarme «Medicine appropriate per i bambini». Uno slogan, ma anche un allarme. Scelto dall' Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) per lanciare una campagna di sensibilizzazione affinché i medicinali per i bambini siano verificati sui bambini. Siamo nel dicembre 2007. Poco più di un mese fa. Tardi rispetto al mercato e ai rischi. Tardi rispetto al 1968, quando per la prima volta una rivista pediatrica definì i bambini «terapeuticamente orfani». Tradotto: privi di cure studiate per loro. I farmaci si sperimentano sugli adulti e si approvano anche per i piccoli consumatori, adeguando semplicemente i dosaggi. Troppo costoso e troppo rischioso testarli sui piccoli. Tanto tempo in più per l' approvazione. Ci sono voluti quasi 40 anni per muovere le acque. E ancora oggi, non solo in Italia, un baby paziente su tre, a casa o in ospedale, prende farmaci non sperimentati per lui. Funzionano lo stesso. Non senza rischi. Ogni giorno, a Milano, almeno otto ricoveri di bambini al Pronto Soccorso riguardano effetti avversi ai farmaci: per sovradosaggio o per inefficacia da sottodosaggio. Alcuni medicinali per malattie gravi non prevedono addirittura l' indicazione pediatrica e sono difficili da reperire anche in ospedale. Accade per diversi tumori o per l' Aids (l' 80-90 per cento dei farmaci per l' Hiv sono solo per adulti). E allora? Che cosa si fa? «Si fa come sempre: si adegua un farmaco per adulti al peso del bambino», risponde Ercole Concia, clinico infettivologo dell' università di Verona. E' l' Oms a dare le indicazioni. «Esatto - continua Concia -. Prendiamo per esempio la profilassi della malaria. Tanti italiani vanno per turismo nei Paesi dove è endemica e spesso portano con loro i figli piccoli. Ebbene i farmaci esistenti sono per adulti e noi ci adeguiamo. L' Oms dice: dividere in 8 parti le compresse e poi somministrarle in base al peso. Difficile poi sapere quanto sia preciso il dosaggio». Se basso la malaria incombe, se alto il fegato ne può soffrire. Tutto sbagliato, avverte Maurizio Bonati del «Mario Negri» di Milano: «Il bambino non è un adulto in formato ridotto. Il bambino ha organi in crescita, ha un metabolismo dei farmaci particolare». Rischi: effetti collaterali indesiderati (per esempio a livello di fegato e reni), inefficacia se il dosaggio non è giusto, aumento di virus e batteri resistenti. «Non solo in ospedale - dice Roberto Burgio, «padre» della Pediatria italiana e professore emerito a Pavia -. Da anni predico a genitori e medici di non prescrivere antibiotici quando la malattia è virale. Eppure si continua per il timore delle complicanze. Ma se si pensa ai dosaggi sbagliati, ancora di più si creano super resistenze tra virus e batteri». E poi negli ospedali si muore per infezioni non più controllabili. «Verissimo. Più vittime di quelle degli incidenti stradali», è duro Concia. «Sono per lo più adulti, ma il problema parte da lontano. E anche la qualità e la preparazione dei medicinali è fondamentale. Un dosaggio sbagliato crea danni, soprattutto in ospedale quando le malattie sono di una certa gravità. Sicurezza, efficacia, qualità vanno controllate sia a livello centrale per quanto riguarda la fase produttiva (il ministero con l' Agenzia del farmaco, l' Aifa) sia a livello periferico (le farmacie ospedaliere). Ed è giusta una particolare attenzione per quanto riguarda i bambini». Dal 29 al 30 gennaio, a Catania, un convegno sarà dedicato proprio alla «Qualità, sicurezza ed efficacia dei farmaci». Concia parteciperà con dati che riguardano le malattie infettive. «Oggi più di ieri la dose deve essere precisa, né maggiorata né diminuita. Stiamo entrando nell' epoca post-antibiotica con errori alle spalle che pesano, perché nuovi antibiotici non ci sono. E di fronte a batteri o virus resistenti a volte facciamo fatica. A volte siamo impotenti. In questi giorni abbiamo tolto un polmone a una giovane africana, 18 anni, per fermare una tubercolosi multi resistente. Un tentativo per salvarle la vita, ricorrendo a una tecnica che si usava quando le cure non esistevano. Perché la giovane è arrivata a questo? Perché da bambina la sua tubercolosi, per due anni, è stata curata con dosaggi non corretti. Ed ecco la super resistenza dei micobatteri. Un altro esempio: un ragazzo dell' Est con il morbo di Pott (la vecchia tubercolosi ossea). In Italia nessun medico la ricorda. Oggi dobbiamo fare i conti con il villaggio globale della malattia. E per virus e batteri super resistenti, ricchi e poveri contano poco». A cominciare dai bambini. «Terapeuticamente orfani». Così accade per malattie rare, o che colpiscono Stati molto poveri, e che non rappresentano un mercato allettante per chi investe in ricerca. Si parla di «farmaci orfani» o di «malattie orfane». Solo negli ultimi anni sono state date garanzie alle aziende impegnate nella ricerca di cure per malattie rare (10-20 bambini al massimo per Paese), come l' americana Genzyme, nate all' inizio quasi per scommessa. Oggi hanno esclusive di mercato più lunghe nel tempo rispetto a chi brevetta molecole per morbi più diffusi. Per il resto, cioè le sperimentazioni sui bambini per i bambini, le vere novità sono recenti. Slogan dell' Oms e direttive delle agenzie per l' approvazione dei farmaci (Fda negli Stati Uniti, Emea per l' Europa) sono ora al via. Un anno fa circa, un decreto europeo per i farmaci ad uso pediatrico ha imposto alle aziende farmaceutiche di fornire specifiche informazioni riguardanti l' uso dei loro prodotti sui bambini. Cosa analoga negli Stati Uniti. Una candelina dopo l' allarme di 40 anni. Perché tanta attesa? Perché sperimentare sui bambini, oltre a problemi etici e legali (ad esempio i vaccini: negli Stati Uniti non è facile sperimentarli sui bambini e spesso i test di massa avvengono altrove), costa di più. Così come costa di più sperimentare farmaci su giovani donne: test più lunghi a causa dell' interferenza dei cicli mestruali. Non parliamo poi delle donne in gravidanza (costa meno l' avvertenza: non utilizzare). Il caso talidomide insegna: un sonnifero che riempì il mondo di bimbi focomelici. Meglio non dimenticare. Pappagallo Mario __________________________________________________________________ Corriere della Sera 21 gen. ’08 FARMACI SBAGLIATI A UN BAMBINO SU TRE Errori nei dosaggi e nelle prescrizioni A uno su tre vengono date in modo sbagliato, spesso per disattenzione dei genitori oppure per disinformazione dei medici. A volte perché non c' è altra scelta. Così anche nei giorni scorsi all' Agenzia italiana del farmaco (Aifa) i ventidue esperti delle medicine per bambini hanno dovuto impugnare carta e penna per sconsigliare ai pediatri di prescrivere, per dire, gli spray nasali contro il raffreddore ai minori di 12 anni. Lo hanno fatto con una dear doctor letter, la comunicazione ufficiale con la quale l' Aifa dà indicazioni sull' uso dei medicinali. Identico avviso arriverà a febbraio sugli antivomito: «Sul domperidone e il metoclopramide ci sono pochi studi sugli effetti in età pediatrica». È allarme sulle pillole e sugli sciroppi fatti prendere ai bambini in maniera scorretta. Il più delle volte tra le mura domestiche. Le due note informative dell' Aifa sono la punta dell' iceberg di un fenomeno che solo a Milano fa finire al Pronto Soccorso otto bambini al giorno: «In troppi vengono curati con medicine sbagliate per dosaggio, indicazioni terapeutiche, età cui devono essere somministrate - denuncia Maurizio Bonati, coordinatore del Gruppo di lavoro multidisciplinare sui farmaci pediatrici, composto da rappresentanti dell' Aifa, clinici, specialisti e ricercatori -. Il 2% viene poi ricoverato in ospedale proprio per reazioni negative ai farmaci». Medicine a rischio Sotto accusa soprattutto le cure fai da te e le prescrizioni non mirate ai bambini. I medicinali coinvolti sono quelli di uso frequente: dagli antibiotici, agli antipiretici fino agli antivomito e agli antiallergici. «È uno sbaglio pensare che il problema coinvolga le medicine utilizzate raramente - insiste Bonati, a capo anche del Dipartimento materno-infantile dell' Istituto Mario Negri -. Gli effetti collaterali colpiscono soprattutto i più piccoli». Tra gli errori più diffusi, farmaci contro la febbre come il paracetamolo dati con dosi superiori al dovuto, antiasmatici usati per curare la tosse, pastiglie a base di cortisone somministrate per curare le infezioni alle vie respiratorie, antiulcera sconsigliati sotto i 2 anni ma prescritti lo stesso. «Non bisogna provocare allarmismi inutili, ma per limitare l' uso sbagliato dei farmaci, la cosiddetta malpractice, vanno chiamati in causa sia i medici sia i genitori - spiega Marcello Giovannini, docente di Pediatria all' Università Statale di Milano e direttore del Dipartimento materno-infantile dell' ospedale San Paolo -. I primi devono aggiornarsi continuamente per conoscere nei dettagli gli effetti negativi segnalati per i vari medicinali. I secondi non devono fare prendere nulla ai bambini senza prima consultare il medico di famiglia». Danni da farmaco Il farmacologo Michele Carruba ha avvertito più volte: «I danni da farmaci non vanno sottovalutati». In un caso su due la somministrazione errata di pillole e sciroppi comporta sfoghi sulla pelle (eritemi, dermatiti, orticaria) oppure problemi gastrointestinali (vomito, in primis). «Purtroppo, però, le reazioni negative possono essere anche più gravi - sottolinea Bonati -. Gli studi condotti dall' Aifa mostrano che i bambini possono avere effetti collaterali di tipo neurologico, psichiatrico e respiratorio. Tutte conseguenze che spesso comportano il ricovero in ospedale o, per lo meno, una richiesta d' aiuto al Pronto Soccorso. Non solo: un' indagine realizzata su un campione di 1.059 bambini mostra che il 39% ha avuto problemi seri. In particolare quelli sotto i due anni». L' Aifa adesso punta soprattutto sulla prevenzione. Il pool guidato da Bonati è nato nel 2006 proprio con lo scopo di monitorare l' uso dei farmaci in età pediatrica. «L' obiettivo è realizzare a breve un prontuario pediatrico per limitare l' utilizzo indiscriminato delle medicine nei bambini - anticipa Bonati -. Nel frattempo controlliamo i problemi legati alla loro somministrazione e insistiamo sull' informazione costante ai medici». Allarme internazionale Non solo a casa. I farmaci vengono utilizzati al di fuori delle indicazioni riportate sulla scheda tecnica o sul foglietto illustrativo anche in ospedale. Tecnicamente si parla di uso off label (fuori etichetta). «Ma qui non c' è altra scelta - dice Giovannini -. È una questione di sperimentazione, quasi inesistente in età pediatrica. Per le industrie farmaceutiche i bambini sono antieconomici. Sullo sfondo, poi, c' è un problema difficile da risolvere: i bambini non possono fare i volontari sani nelle sperimentazioni come gli adulti». E ora gli esperti chiedono ai colleghi medici e ai cittadini di segnalare i problemi legati all' uso di una medicina. «Per riuscire a prevenirli in modo sempre più efficace». Del resto, il fenomeno dei danni da farmaco supera i confini dell' Italia. Giovedì scorso, la Food and Drug Administration, l' agenzia Usa per il controllo sul mercato dei medicinali, ha diffuso un avviso «per il rischio di pericolosi effetti collaterali» per le pastiglie antiraffreddore, le gocce per il naso e gli sciroppi antitosse somministrati prima dei 12 anni. sravizza@corriere.it Ravizza Simona __________________________________________________________________ Corriere della Sera 20 gen. ’08 OSPEDALI: LA COMUNICAZIONE COME CURA Si comunica nei nostri ospedali? Vengono date correttamente le informazioni a parenti e famigliari? Esiste una preparazione degli operatori a dare informazioni? E ancora, vengono date diverse versioni dello stesso caso a seconda di chi viene interpellato? Si deve dire che, mediamente, la comunicazione nei nostri ospedali lascia spesso a desiderare e il problema non viene affrontato come si dovrebbe. Troviamo spesso nelle lettere ai giornali l' insoddisfazione per lo scarso tempo concesso, per il linguaggio troppo specialistico e incomprensibile, per il fatto che gli interlocutori sono sgarbati e poco disponibili. Certo, è indubbio che i ritmi di lavoro dei nostri ospedali non facilitano i rapporti tra operatori ed utenza, ma questo è spesso un alibi per giustificare un disimpegno inveterato a fronte di un problema che con buona volontà individuale e senso di responsabilità potrebbe essere superato. Il problema non riguarda solo il personale sanitario ma investe tutti gli operatori indistintamente, da chi sta al centralino o agli sportelli, ai portieri e ai vari funzionari amministrativi. Chi opera negli ospedali deve mettersi in testa che gli interlocutori sono, il più delle volte, persone in difficoltà e in una posizione di debolezza, che hanno dubbi per gli esami che devono fare o ritirare, che sono anziani, che devono esser guidati nei percorsi, che sono parenti in ansia per i loro cari. Tutti soggetti che hanno bisogno di gentilezza e di operatori che infondano fiducia e sicurezza. Che fare dunque? In primo luogo impegnarsi a livello personale, sforzandosi di cambiare, riflettendo che se fossimo noi al posto dei nostri interlocutori esigeremmo altri comportamenti. Secondariamente capire che la cura è una cosa importante ma che il rapporto umano, di cui la comunicazione è elemento preminente, è di per sé già una cura e che fa bene quanto una medicina. Terzo comprendere che dare tempo e ascolto non è perdere tempo ma migliorare il sistema assistenziale. Da ultimo l' università, le varie scuole di specializzazione, le aziende ospedaliere stesse devono inserire nei loro programmi corsi formativi per tutti i dipendenti sull' argomento. Molte Regioni si sono virtuosamente impegnate al riguardo, ma senza uno sforzo individuale, un cambio di mentalità e una adesione ai vari programmi le cose resteranno come prima. In tutto questo processo gli amministratori, i dirigenti dei reparti ospedalieri, i capi dei medici, dei dipendenti delle Asl, degli impiegati degli sportelli e così via devono metterci del loro per educare i collaboratori a un comportamento virtuoso, da verificarsi nel tempo, mantenendo alta la tensione su questo tema. Alla lunga ci troveremmo di fronte ad operatori capaci non solo nel dialogare tra loro, ma preparati a dare dati e notizie con un linguaggio semplice, privo di tecnicismi e di parole che alle orecchie del profano sono arabo. Scanni Alberto