Questa rassegna in http://pacs.unica.it/rassegna Indicizzata in http://pacs.unica.it/htdig/search.html Mailing list: medicina@pacs.unica.it RICERCATORI, CORTE CONTI BOCCIA LE NUOVE REGOLE, VENTI ATENEI STANNO PER DICHIARARE BANCAROTTA LO STRAPPO DI 13 UNIVERSITÀ: SIAMO SERIE A L'UNIVERSITÀ ITALIANA NON ATTRAE GLI STRANIERI LA RICERCA SCIENTIFICA NELLE MANI DEI SOLITI NOTI L'UNIVERSITÀ? PARCHEGGIO PER RICCHI LIBERA CONDIVISIONE DELLA CONOSCENZA UNIVERSITÀ APERTA:ESEMPI VIRTUOSI PER UNA CONOSCENZA COMPETITIVA SCIENZIATI:RICERCA IN ITALIA, UN METODO NUOVO CHE PREMI LA QUALITÀ» II LATO OSCURO DELLA RICERCA DOPO DODICI MESI UN LAUREATO SU TRE È ANCORA DISOCCUPATO ESAMI RUBATI: STOP AGLI STUDENTI CHE BARANO IL PROF VA ASSUNTO DAL 2007 LAUREE, SPERIMENTAZIONE SENZA FINE FINANZIAMENTI ALL’OSSO. ERASMUS:ITALIA COSTOSA E INEFFICIENTE RICERCA, IL DUBBIO DI CONFINDUSTRIA CAGLIARI: UNIVERSITARI ALLERGICI AL DIBATTITO VIA E-MAIL E INTANTO NELLA SCUOLA SI SMANTELLA IL SAPERE AMBIENTE A NEW YORK IL CONGRESSO DEGLI SCIENZIATI REVISIONISTI. CAGLIARI È LA CITTÀ PIÙ VERDE D’ITALIA STATO DIGITALE, RIVOLUZIONE A METÀ COME FACCIO A NON FAR VINCERE IL MIO FIGLIOCCIO? ======================================================= I MEDICI DAVANTI AI GIUDICI IN BASILICATA LA CARTELLA CLINICA CORRE SUL WEB II LIBRO NERO DELLA MALASANITÀ NELLA SANITÀ NON CI SONO MIRACOLI CONTRO LA “MALASANITÀ” FUTURI MEDICI PIÙ INFORMATI UNA MACCHINA PER «LEGGERE» I PENSIERI ITALIA SEMPRE PIU’ DIVISA NELLA GESTIONE DELLA SALUTE ITALIA SEMPRE PIU’ DIVISA NELLA GESTIONE DELLA SALUTE SPERIMENTAZIONI CLINICHE: LA DOPPIA FACCIA DELLA TRASPARENZA RIFORMARE LA GESTIONE DEGLI OSPEDALI LE LASTRE DIVENTANO MOBILI LA RADIOATTIVITÀ DELL'OCCHIO RIVELA L'ETÀ TUMORE AL SENO, SCOPERTO GENE CHE DIFFONDE LE METASTASI UN LAVORO DA GENI SE IL MERCATO FINANZIA I VACCINI IL GRANDE AFFARE DELLA DIALISI NEL MONDO 500 MILIONI DI MALATI RETE DELLE EMERGENZE CARDIACHE,PRIMO VIA LIBERA ASL IN REGOLA SOLO IN NOVE REGIONI BUROCRAZIA PRIMA CAUSA PER I MALANNI DEL SSN QUANDO L'OBIEZIONE DIVENTA UN LAVORO LE LINEE DI PENSIERO ALL'ESAME DELL'OFFICINA PDL IL CAPITOLO SANITÀ NEL PROGRAMMA DEL PD ======================================================= _____________________________________________ Il Sole24Ore 14 mar. ’08 RICERCATORI, CORTE CONTI BOCCIA LE NUOVE REGOLE, Secondo stop al decreto varato da Mussi Sotto accusa le valutazioni di revisori anonimi Alessia Tripodi ROMA La Corte dei conti blocca i nuovi concorsi per i ricercatori. I magistrati contabili hanno negato il via libera alla registrazione del regolamento firmato dal ministro dell'Università, Fabio Mussi. I giudici puntano il dito soprattutto sulla previsione di una prima fase di valutazione dei candidati affidata a revisori anonimi: una condizione che, secondo la Corte, compromette la trasparenza dei giudizi e mette in discussione la funzione di organi tecnici del concorso attribuita alle commissioni interne agli atenei. Lo stop al regolamento apre un vuoto normativo: in attesa del varo delle disposizioni targate Mussi, il decreto legge milleproroghe ha esteso la validità delle vecchie norme di reclutamento (stabilite dalla legge 3 luglio 1998, fino al 15 marzo. Da quella data in poi, dunque, le università non avranno una normativa di riferimento per bandire i concorsi. «Il sistema è nel caos più completo - accusa Giuseppe Valditara, responsabile università di An - e si rischia in questo modo di perdere 2mila posti da ricercatore». La questione dei referee anonimi era già stata oggetto di un primo rilievo da parte dei giudici contabili, che nelle osservazioni pubblicate a gennaio avevano messo in discussione anche l’iter normativo seguito da Mussi, sottolineando l'impossibilità di riformare con un regolamento una materia stabilita da una legge: Il rilièvo sulla natura dell'atto, secondo quanto si apprende dalla Corte - che sta ancora lavorando alla stesura della decisione - sarebbe stato superato proprio dalla previsione contenuta nel Dl milleproroghe: Il testo firmato da Mussi prevedeva due livelli di valutazione dei candidati, uno esterno, affidato a revisori italiani e stranieri, l'altro interno, di competenza delle commissioni giudicatrici interne all'ateneo che bandisce il concorso. Secondo il regolamento, la compilazione delle liste dalle quali sorteggiare i revisori esterni spettava all'Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione prevista da Mussi. Ma anche il sistema di valutazione disegnato dal ministero dell'Università sembra vacillare. «Il decreto istitutivo dell’Anvur-fa notare Valditara - sarebbe stato inviato solo ora per la registrazione alla Corte dei conti; con il rischio che> scadendo gli attuali comitati Civr e Cnvsu, non sarà possibile la valutazione del sistema universitario». A ciò si aggiunge «il fatto che il fondo di Sso milioni di euro contenuto in Finanziaria - continua il senatore-non sarebbe disponibile a breve per questioni burocratiche, mentre nulla si intravede relativamente ai bandi Prin aoo8 per il rifinanziamento dei progetti di ricerca». Dal Governo replica il sottosegretario all’Università, Luciano Modica, sottolineando che «l’anonymous peer review, cioè il giudizio dei revisori anonimi, è il sistema usato in tutto il mondo per valutare i candidati ai posti nelle università e negli enti di ricerca» e che «una visione così ristretta delle regole amministrative rallenta il Paese. I più delusi- conclude Modica- saranno i ricercatori precari in Italia e dall'estero, che si aspettavano un sistema basato sul merito». _____________________________________________ IL FOGLIO 3 mar. ’08 VENTI ATENEI STANNO PER DICHIARARE BANCAROTTA Bancarotta anche culturale: il 90% dei finanziamenti serve salo a pagare gli stipendi Il Messaggero, giovedì 21 febbraio 5 è chi rischia «sanzioni» e perfino il «commissariamento» se non farà pia ni di rientro per risanare i conti. Venti atenei sono sull'orlo del «dissesto finanziario» con bilanci ballerini e sempre più in rosso. Non sono i soli. Qualche altro è sulla stessa strada con «conseguenze devastanti per la ricerca». «E’ proprio sulla ricerca che tagliamo, le altre spese, tra stipendi e costi di funzionamento, sono ineomprimibili». A parlare è Alessandra Finazzi Agrò, rettore di Tor Vergata, una delle università in buona salute. «La follia - continua il rettore - è che il 90% per cento dei Finanziamenti ordinari serve a coprire gli stipendi, con il 10% che resta dovremmo fare tutto, dagli appalti per le pulizie al riscaldamento, alle manutenzioni degli edifici, alla ricerca. Stretti tra l'incudine e il martello molti atenei "ammorbidiscono" i bilanci per raggiungere il pareggio imposto dalla legge. Un'imposizione che è una vera istigazione a delinquere. Il risanamento va fatto in altro modo. È amaro dirlo, ma tra ritardi storici e esiguità dei fondi, se non avessimo i soldi americani e europei, e se non ci fossero gli introiti delle commesse dei privati, la ricerca sarebbe già morta». Siena per gli stipendi ha speso il 101,1% del Finanziamento ordinario (Ffo); Firenze il99,4%; Napoli, seconda università, 98,8%; Pisa, 96,9%; Bari, 95,8%; Messina, 91°l0; sono alcuni degli atenei con la maglia nera per avere superato il tetto di spesa. Di contro ci sono una ventina di atenei virtuosi che per la prima volta avrebbero meritato gli «incentivi» promessi dal Patto per l'università dello scorso agosto, siglato tra i vertici accademici e il Governo. Ma le risorse sono state annullate e il Patto è stato tradito (i fondi sono stati usati per tamponare la vertenza dei trasportatori). Ora i «creditori» fanno parte di una lista pubblicata dal Ministero dell'Economia ma non sanno se e quando vedranno i sospirati stanziamenti aggiuntivi. «Si tratta di università meritevoli - spiega ancora Finazzi Agrò - sotfofinanziati in rapporto a strutture e servizi». L'Università degli Studi di Torino guida la classifica del merito, dovrebbe incassare 39,88 milioni di euro. Segue il Politecnico di Milano, che vanta 38,55 milioni di euro; al terzo posto Tor Vergata (unica tra le università romane), che dovrebbe avere 32,76 milioni di euro. C'è anche Bologna, con 26,08 milioni di euro. Ma la lista ne comprende altre, come riporta il grafico in pagina. Intanto per i consigli di amministrazione delle 77 università italiane è sempre più difficile chiudere in pareggio. «La Sapienza negli ultimi 5 anni ha perso 200 milioni di euro - sostiene il rettore Renato Guarini - Per colpa dei tagli e per i criteri di suddivisione dei fondi, gli stessi che valgono per le piccole università. Come chiuderemo il bilancio? Abbiamo un disavanzo di 30 milioni di euro ma ricorreremo a un "pareggio tecnico" essendo creditori di 137 milioni di euro che l'Umberto I, della vecchia gestione, ancora ci deve». Per rimettere in sesto le casse universitarie e colmare il "buco" che si è spalancato negli ultimi anni si calcola che occorra un miliardo di euro. La stima è di Guido Trombetti, presidente della Conferenza dei rettori. A grido di dolore tuttavia non servirà a ridare ossigeno, soprattutto per i piccoli atenei è quasi impossibile sostenere le spese crescenti a fronte di finanziamenti statali insufficienti. Il problema vero non sono le risorse - afferma Roberto Perotti della Bocconi di Milano - molte università sono dissestate non solo finanziariamente ma accademicamente, se venissero chiuse ne guadagneremmo tutti, perché il male non è curabile con una iniezione di fondi. tanti disastri sono avvenuti per colpa della colonizzazione di intere famiglie. Mussi si è speso con una valanga di parole ma non ha risolto niente. Ci vorrebbe un intervento drastico e non i brodini caldi degli ultimi cinquant'anni». Intanto sui Cda incombe la scadenza di marzo. Tra poco più di un mese gli atenei depositeranno i conti a consuntivo (in dicembre hanno presentato i bilanci previsionali). E sarà il momento della verità. La legge impone almeno il pareggio. Però il disavanzo aumenta. E non bastano più le ardite manovre per registrare introiti da vendite immobiliari (talvolta fittizie) altre vere. Secondo il Ministero di.Padoa Schioppa so no una ventina gli atenei a rischio. Nel libro sulla "Spesa pubblica" il Ministero individua le università "sprecone", che hanno sforato i tetti di spesa, e quelle "virtuose", che non solo hanno gestito con oculatezza le risorse, ma che presumibilmente hanno attirato fondi da sponsor esterni. Dice con un sorriso Ezio Pelizzetti, rettore della Statale di Torino: «Vero, siamo creditori di oltre 40 milioni di euro. Ma la distribuzione premiale è rimasta nel cassetto. Non speravamo di ricevere tanti soldi in un colpo solo, in ogni caso l'adeguamento lo aspettavamo in non più di tre anni. Il sistema aveva bisogno di un segnale così, invece... ancora una volta è tutto sfumato e se si lavora bene a male non fa differenza». Ma come ha fatta la Statale di Torino a raggiungere buoni risultati? «Gli incentivi, basati su criteri valutativi, potevano creare competizione, purtroppo si è bloccato tutto. Però noi, già dal 2002, abbiamo varato un piano che si concluderà nel 2012 per ottimizzare la gestione. Abbiamo inoltre svecchiato il corpo docente con quasi 7{10 concorsi per giovani ricercatori in sette anni; senza per questo disperdere le competenze degli anziani». Anche Giulio Ballio, rettore del Politecnico di Milano, ha il vanto di governare un ateneo al top. «È frustrante non ricevere il riconoscimento, siamo al servizio del Paese, con quei soldi avremmo potuto realizzare cose importanti, non dimentichiamo che la competizione internazionale è sempre più aggressiva. E poi ci lamentiamo della fuga di cervelli, un sistema sottofinanziato è pericoloso, rischiamo di perdere ancora terreno. II merito è calpestato, ai miei studenti consiglio di andare all'estera. In che modo abbiamo ottenuto buoni risultati? L'ho spiegata al rettore di Zurigo che ha finanziamenti otto volte superiori ai nostri. I "miracoli" li facciamo lavorando il doppio, anche se siamo pagati la metà». E gli atenei meno virtuosi? Il Ministero dell'Economia li mette ai raggi X: «Per anni le università hanno preferito spendere risorse per garantire la progressione di carriera dei docenti». Però il ministero ammette che «l’incidenza della spesa per l'università sul Pil è ai valori minimi rispetto ai Paesi Ocse, con l'aggravante di un tasso di crescita fra i più bassi in assoluto». Altro dato emblematico è il costo per studente, da noi largamente inferiore a quello dei Paesi con i quali siamo in competizione: a parità di potere di acquisto la nostra spesa è di soli 5.658 dollari contro la media LTe di 6.962 e una media Ocse di 8.093. A ciò si aggiunge la discontinuità dei finanziamenti pubblici e in «parte l'uso disinvolto - continua il Ministero - dell'autonomia universitaria». Sotto accusa stavolta finiscono i concorsi e la pletora delle lauree. Anna Maria Sersale __________________________________________________________ Corriere della sera 9 mar. ’08 LO STRAPPO DI 13 UNIVERSITÀ: SIAMO SERIE A «I finanziamenti vanno attribuiti per merito». Verso la «secessione» dalla Crui Il documento inviato a tutti i candidati premier. Su 77 atenei pubblici, una ventina rientrerebbero nella prima categoria MILANO — Il documento è stato inviato a tutti i candidati premier alle prossime Politiche. Porta la firma di undici università eccellenti, quelle di altri due atenei sono in arrivo. E, di fatto, ha la valenza di una dichiarazione d'indipendenza: «Siamo università di ricerca, controlliamo i costi, guardiamo oltre i confini nazionali, e siamo pronti a firmare un patto con il futuro governo. Ma basta finanziamenti a pioggia: i fondi devono essere assegnati in base a criteri di meritocrazia». Una dichiarazione d'indipendenza degli atenei di «serie A», a tutti gli effetti. Innanzitutto dal sistema di ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario alle università: «Più soldi devono essere assegnati agli atenei di eccellenza sulla base dei progetti di sviluppo presentati. Niente rispetto degli obiettivi, niente soldi». Ma anche dalla stessa Conferenza dei rettori (Crui): la frattura si è consumata, per vedere se sia ricomponibile o definita bisognerà aspettare qualche giorno. Già sabato — in occasione del forum organizzato dai rettori firmatari a Bologna, in cui verrà illustrato un progetto aperto all'adesione dei migliori atenei pubblici del Paese— potrebbe essere infatti ufficializzato il divorzio tra «atenei di ricerca» e «atenei di istruzione », giusto per utilizzare la distinzione introdotta con successo nei Paesi anglosassoni. Sono una ventina, su 77 pubbliche, le università che rientrerebbero nella prima categoria: a loro fa riferimento il 40 per cento della popolazione studentesca. Undici quelle che hanno firmato l'appello: Politecnica delle Marche, Bologna, Calabria, Milano- Bicocca, Politecnico di Mi-lano, Modena e Reggio Emilia, Padova, Roma Tor Vergata, Politecnico di Torino, Trento, Verona. Due, Ferrara e Parma, hanno dato la loro adesione. «Si tratta — si legge in una nota — di alcuni degli atenei statali che si distinguono per produttività, sostenibilità finanziaria e competitività internazionale». La classificazione degli atenei passa infatti dal riconoscimento di alcuni requisiti base. Il primo, indispensabile: le università d'eccellenza devono vantare una produttività superiore a quella media e avere una spiccata politica di internazionalizzazione. Devono inoltre possedere almeno due di altri tre punti fermi: avere una sostenibilità finanziaria che vede i costi fissi del personale incidere per meno del 90 per cento sul finanziamento statale; vantare una massa critica di almeno 15 mila studenti tra lauree triennali, magistrali e dottorati; figurare in almeno una delle più autorevoli classifiche accademiche internazionali (come quella del quotidiano The Times di Londra o dell'Università Jao Tong di Shanghai). Di fatto, a poter vantare tali requisiti di eccellenza, sono le stesse università «virtuose » che lo scorso autunno avrebbero meritato gli «incentivi » promessi dal patto per l'università siglato ad agosto tra governo e vertici degli atenei. I fondi sono stati però bloccati, utilizzati in parte per tamponare la vertenza con gli autotrasportatori. E in parte, dicono gli stessi rettori firmatari, proprio per garantire la sopravvivenza delle altre università. Alessandra Mangiarotti _____________________________________________ Il Sole24Ore 3 mar. ’08 L'UNIVERSITÀ ITALIANA NON ATTRAE GLI STRANIERI Saldo negativo di cervelli dalla ricerca «Vision&value» Solo il 2% di iscritti contro il 12,5% della Germania Carlo Giorgi Se la capacità di attrarre studenti stranieri è un indicatore di buona salute, l'università italiana se la passa male. L'Italia infatti è l'unico Paese sviluppato in cui il numero degli studenti che emigra verso università straniere è superiore al numero di "cervelli" stranieri accolto: meno 4.251 studenti secondo l'ultima rilevazione comparativa disponibile; contro un saldo positivo di 198.469 della Germania, di 180.356 della Francia e anche della concorrenziale Spagna, che segna un più 14.127. Per considerare solo i Paesi non anglofoni. E nell'anno accademico 2006-2007, dei 41.351 posti resi disponibili per studenti stranieri dalle università italiane solo 10.778 hanno trovato un pretendente. Insomma, gli studenti stranieri, punta di diamante dei flussi migratori globali, non scelgono l'Italia. «Attrarre studenti è un indicatore di performance fondamentale per ogni singolo ateneo e per il sistema nel suo complesso spiega Francesco Grillo, ad di Vision&value che ha appena pubblicato la ricerca dal titolo «Le università italiane nel mercato globale dell'innovazione» ; e purtroppo il confronto con gli altri Paesi Ocse parla da solo». Secondo la ricerca, l'Italia conta 7 studenti stranieri ogni 10mila abitanti, mentre sono 11 in Spagna; 20 in Germania e 39 in Francia; abbiamo il 2% di studenti stranieri sul totale degli iscritti all'università, contro il 2,5% della Spagna, l'u, della Francia e il 12,5 della Germania. «II nostro Paese sembra vittima di una specie di adverse selection - commenta Grillo - attraverso cui riduciamo l'immigrazione, privandoci proprio della sua parte migliore. Abbiamo una legislazione tutta concepita pensando al caso del rumeno che uccide la signora romana. Così inaspriamo regolamenti e burocrazia in modo indiscriminato. Senza capire che code negli uffici e lunghe attese non sono un deterrente per chi emigra per necessità; lo sono invece per l’elite degli studenti stranieri, che si può permettere di scegliere il Paese in cui specializzarsi. In Italia gli studenti albanesi sono il doppio di tutti gli studenti provenienti da Stati Uniti, Germania, Francia, Inghilterra, Spagna e dei tre grandi Paesi emergenti, Cina, India e Brasile, messi insieme: Ricevere studenti immigrati significa sviluppare rapporti economici futuri con i loro Paesi. L'Italia dovrebbe puntare di più a precise politiche migratorie». In parte questo si sta facendo. Nel 2004 infatti è partito il progetto Marco Polo,,promosso da ministero dell'Università, Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) e Confindustria. Obiettivo, attrarre in Italia un numero crescente di studenti cinesi. «I pre-iscritti dell'anno accademico 2008- 2009, dovrebbero arrivare in Italia proprio tra pochi giorni - racconta Marina Cavallini, responsabile relazioni internazionali del Crui -. I risultati del nostro lavoro si iniziano a vedere: se prima del Marco Polo, nel 2003-2004, le matricole cinesi in Italia erano 95, l'ambasciata italiana di Pechino ci segnala ben 1.200 pre-iscrizioni per il prossimo anno accademico». Il progetto Marco Polo prevede per gli studenti cinesi una procedura diversa da quella di tutti gli altri studenti extracomunitari. Lo studente sceglie online tra le proposte formative di una quarantina di università italiane. Senza sostenere prima un esame di lingua, si pre-iscrive presso la nostra ambasciata e, con il documento di pre-iscrizione può venire qui a imparare l'italiano, con un corso della durata minima di sei mesi. «Ci siamo resi conto che è la lingua lo scoglio più grande per gli studenti cinesi - spiega Cavallini - e fino a quando non ci saranno corsi di italiano adeguati in Cina, la procedura resterà facilitata». Al di là del panorama generale, alcune università italiane dimostrano però che è possibile richiamare studenti stranieri: «Abbiamo incentivato il processo di internazionalizzazione dell'ateneo -spiega Marco Gilli, pro-rettore del Politecnico di Torino -; puntando su studenti di Cina, India ed Est-europeo. La chiave di volta è stata proporre corsi in lingua inglese. Tutti gli esami del primo anno di ,ingegneria e architettura oggi sono in lingua inglese, come i tre anni del corso di ingegneria dell'autoveicolo». Così gli iscritti stranieri sono passati in quattro anni dal 4 al9%: «Seguire i primi anni in inglese permette allo studente di imparare con calma l'italiano - spiega Gilli -. Abbiamo anche proposto l'esenzione delle tasse scolastiche agli studenti italiani che avessero frequentato i corsi in inglese. Ottenendo il risultato di una buona omogeneità e di evitare ghetti linguistici». __________________________________________________________ Sardegna 11 mar. ’08 LA RICERCA SCIENTIFICA NELLE MANI DEI SOLITI NOTI I contributi per lo studio dati senza criterio. Ci rivolgiamo a Napolitano” Torna d’attualità il tema dei finanziamenti per la ricerca. A sollevare nuovamente la polemica è la stessa comunità scientifica. Che chiede fondi per la ricerca stanziati con metodo trasparente. E lo fa bussando alla porta principale - quella del Capo dello Stato - con una lettera aperta nella quale viene illustrato un decalogo di proposte per correggere le modalità del finanziamento. Tra i principali promotori di questa forte recriminazione, il professor Giovanni Romeo, Presidente del Consorzio del Progetto Genoma, da molti anni impegnato nel dibattito mai risolto tra Stato-fondi-scienza. Professore cos’è che non va e non riuscite a risolvere? Purtroppo siamo in presenza di un sistema che non garantisce, o lo fa in minima parte, alcun riconoscimento al merito. In Italia sono ammesse procedure di finanziamento alla ricerca che permettono il negoziato diretto, al di fuori di ogni controllo, tra pubblica amministrazione, istituzioni scientifiche e ricercatori. Questo modo di operare è totalmente contrario al principio di «peer-review», da noi troppo spesso invocato, e alle forme che regolano la promozione della scienza ad altissimi livelli. I finanziamenti a pioggia, volti ad accontentare tutti, non sono sufficienti e alla fine creano il medesimo malcontento. Non ci si rende conto che una politica poco attenta all’effettiva qualità della ricerca non fa che minare l’intera evoluzione scientifica del Paese. Quindi il problema non consiste solo in una gestione “maldestra” del denaro pubblico? È inutile far finta di niente. Quando il ministero indice una gara per finanziare dei progetti è fin troppo facile capire a chi verranno assegnati i fondi. Basta leggere i nomi dei componenti della commissione di valutazione. Il conflitto d’interesse e i giochi di potere stanno paralizzando la competitività dell’Italia, è ora di dare una svolta. Lei pensa che la peer-review o revisione paritaria sia la soluzione migliore per imboccare la via della trasparenza? Come si dice, «anche la democrazia ha dei difetti o delle imperfezioni, ma nessuno finora ha inventato un sistema migliore». La peer-review, ovvero una valutazione scientifica del merito, regolamentata, anonima, competente, terza e indipendente, rappresenta l’unico modo razionale per l’assegnazione dei fondi pubblici. O quanto meno per cercare di spenderli meglio. È una forma di controllo che sottopone le proposte di ricerca all’attenzione di commissioni formate da altri specialisti, preferibilmente per due terzi stranieri. Per questo si dissocia da qualsiasi influenza politica o clientelare. Oltretutto, se affidata a un coordinamento efficiente, consente costi limitati al 6-7% della spesa totale ed una tempistica di sei mesi circa per l’acquisizione dei risultati. Non vedo come un politico possa giudicare il lavoro di un ricercatore meglio di un altro esperto della materia. Il nostro Paese si trova di fronte a un bivio: restare nel Medioevo o lanciarsi nel Rinascimento come hanno fatto molti altri stati. Ai nostri politici, attuali e futuri, la decisione. Com’era lecito immaginarsi negli altri Paesi le cose funzionano in modo differente. Dovremmo guardare in casa d’altri per non rischiare di rimanere indietro? Basterebbe prendere come esempio la Spagna per capire che questa proposta è del tutto valida e non procastinabile. I nostri vicini spagnoli già da qualche anno si sono affidati a Commissioni Internazionali di controllo, ottenendo un rilancio invidiabile dal punto di vista qualitativo e della modernizzazione. In Italia soltanto Telethon e l’Airc si distinguono per l’adozione del peer-review system, ma rappresentano due eccezioni, se pur di notevoli dimensioni. Ritenete di avere qualche possibilità di essere ascoltati? Non è un caso che il nostro appello sia stato lanciato proprio alla vigilia delle prossime elezioni. L’intera comunità scientifica è convinta che sia assolutamente necessario un impegno concreto, da parte del nuovo Governo, per lo sviluppo di un regolamento che tuteli il patrimonio scientifico del Paese. È urgente che questo diventi norma dello Stato, perché è inammissibile che le regole per l’amministrazione dell’apparato scientifico siano incerte, politicamente opinabili o modulabili in ambito accademico. Fabrizio Tanzilli __________________________________________________________ Unione Sarda 10 mar. ’08 L'UNIVERSITÀ? PARCHEGGIO PER RICCHI L'altra faccia del diritto allo studio, tra tasse e libri di testo Uno studente fuori sede fa i conti col diritto allo studio. E scopre che l'università non è per tutti. Dall’inviato Paolo Paolini SASSARI Andata e ritorno da Castiadas fanno cinquanta euro, sei ore e mezza di viaggio e più di uno sbadiglio. Angelo Sardo, studente fuori sede, per vedere i genitori affronta il tour de force con parsimonia, «una volta ogni due mesi e mezzo-tre». Ventidue anni, iscritto in Scienze agrarie, vive a Sassari da quarantadue mesi, nella residenza universitaria di via Padre Manzella. Figlio di un operaio di Abbanoa che manda avanti una famiglia di cinque persone con milleduecento euro al mese, ha scolpito nella memoria l'articolo 34 della Costituzione e ogni volta che ci riflette non può fare a meno di notare una certa discrasia tra Carta e realtà. Beneficia degli aiuti Ersu, ha una stanza nella casa dello studente più i pasti e la borsa di studio, «e sono fortunato, perché ci sono ragazzi che devono lavorare per tirare avanti». Non che lui abbia rifiutato a priori la possibilità di farlo: «Ho provato col volantinaggio, ma era una perdita di tempo, pochissimi soldi per tante ore rubate allo studio. Alcuni colleghi però devono darsi da fare nei call center oppure, nei fine settimana, camerieri, lavapiatti». Ha un fratello che studia all'università di Cagliari e grazie al cielo «si mantiene da solo facendo piccoli lavori, mia madre invece è una casalinga che fa marciare splendidamente la casa». Ammette che lo Stato non è sparagnino, almeno con lui, che ha un letto gratis per undici mesi, però: «Superata la soglia dei 240 pasti, gli altri li devo pagare». E siccome non è un asceta, ha davanti a sé quattro fasce di prezzo, legate al reddito: «Un euro e ottanta, due euro e qualcosa, tre e tre euro e mezzo». La borsa di studio è di 1700 euro all'anno, garantita l'esenzione dalle tasse: «Se disgraziatamente non hai la casa sono dolori, anche se la borsa di studio in quel caso arriva a 2800 euro». Se invece hai la certezza delle quattro mura, ma devi cucinare i costi sono presto fatti: «Quattrocento euro al mese facendo economia domestica, pasta a volontà, a meno che non sia così stoico da tagliare anche quella». Le sue irruzioni nella casa paterna sono come le stagioni, hanno cadenza trimestrale: «Devi mettere nel conto quattro ore di treno per andare da Sassari a Cagliari, lì aspettì quaranta minuti la coincidenza del bus per Muravera-San Vito, arrivo a San Priamo dopo un'altra ora e mezza e deve venire qualcuno a prendermi per arrivare a Castiadas. Andare e tornare sono grosso modo cinquanta euro. Puoi scaricare i biglietti dalla dichiarazione dei redditi, mia madre mi dice di conservarli, ma questo non significa niente per la vita dello studente. Ho sentito dire che può essere più conveniente affittare in gruppo un pulmino privato con autista che viene a prenderti e ti riporta a casa». I testi? «Quelli che posso fotocopiare li fotocopio, ma un manuale di anatomia lo devi comprare, spendi più di cento euro e allora addio borsa di studio». Siccome non si vive di soli libri, Angelo Sardo ha cercato una soluzione economica per sciogliere la tensione nello sport: «Sfrutto una convenzione con i centri sportivi e pago 25 euro al mese per andare in piscina due volte alla settimana. Però il bus lo devo pagare di tasca. Tutte le palestre che sono intorno alle residenze universitarie non sono convenzionate, non capisco perché. Ho anche l'abbonamento al Teatro Verdi, trenta euro per nove spettacoli contro i centoquaranta del carnet a prezzo pieno». Il caffè con gli amici è un lusso, una volta alla settimana, le serate di svago contemplano l'acquisto in prevendita del biglietto per un free-drink: «Al massimo dieci euro». Può capitare di non avere una salute di ferro, in quel caso devi metterti in fila davanti alla porta del medico convenzionato che, dopo una visita, ti spedisce da uno specialista. Angelo Sardo spera un giorno di lavorare a Castiadas e dintorni, «dopo un'esperienza all'estero. L'Italia mi sta deludendo, basta vedere com'è finito il governo». Si è fatto un'idea dell'università: «Una scelta per ricchi, ma perché la vita sta diventando per ricchi. Se mio padre deve mantenere cinque persone con mille euro al mese o poco più, allora sì, siamo in un mondo fatto su misura per chi ha tanti soldi. Penso che l'università non ti prepari come un tempo, è un parcheggio che rallenta la tua corsa, prende i soldi alle famiglie e se non sei così ben introdotto da trovare un posto di lavoro, allora sei fregato». _____________________________________________ Il Sole24Ore 6 mar. ’08 LIBERA CONDIVISIONE DELLA CONOSCENZA DI ENRICA GARZILLI, D ato il prezzo enorme delle pubblicazioni scientifiche online, anche per un singolo articolo, l'abbiamo voluta tutti». Questa è stata la prima reazione di Michael Witzel, Wales Professor of Sanskrit and Indian Studies all'Università di Harvard e fondatore delle prime riviste accademiche online, alla decisione presa a febbraio dalla Faculty of Arts and Sciences di mettere online gli articoli dei professori di facoltà gratuitamente, eccetto quelli scritti per profitto. «La politica dei prezzi delle grandi case editrici è particolarmente irritante quando la vediamo applicata al nostro lavoro, sul quale loro rivendicano il copyright esclusivo. Ora il copyright sarà sia nostro sia dell'università e possiamo ripubblicare dove vogliamo. Fino a ora dovevamo non solo produrre il lavoro ma comporlo, rivederlo nella forma, leggere le bozze, ma se volevamo stamparlo o fare delle fotocopie non potevamo farlo». Per produrre un articolo scientifico uno studioso consulta centinaia Tutti d'accordo di mettere online gratuitamente gli articoli dei docenti di pubblicazioni, anche a spese proprie, va alle conferenze per aggiornarsi e dare vita a nuovi progetti con altri studiosi, individua il problema, lo analizza, elabora, sintetizza, trova il punto debole e lo corregge, verifica, controlla e riporta i risultati, aggiunge apparati e note, pubblica l’articolo senza essere pagato, la casa editrice vende a caro prezzo, dai a5 o dollari in su, gli abbonamenti a stampa o ordine e fautore non può neanche leggere online il suo lavoro senza fare lui stesso l'abbonamento, né può ripubblicarlo. La decisione di Harvard di collezionare, archiviare e distribuire gratuitamente online gli articoli dei professori universitari è quindi una svolta epocale, che rivoluzionerà non solo il modo in cui si trasmette il sapere, ma i contenuti stessi della scienza, un po' come è accaduto su internet con la licenza Creative commons. Il compito primario di un'università è la creazione, la diffusione e la preservazione della conoscenza e l'accesso totale ai frutti della ricerca è un passo essenziale per raggiungere questo obiettivo e per avere il feedback di studiosi che altrimenti non avrebbero accesso alle risorse, per esempio quelli dei Paesi in via di sviluppo o quelli dei Paesi occidentali senza larghi mezzi, visti i tagli dei governi ai fondi di ricerca, specie per quella "inutile" come la filosofia, l'arte, le scienze orientali. Le riviste cartacee e online si possono consultare in biblioteca, in America anche i paesi più piccoli ne hanno almeno una in grado di fornire le pubblicazioni con il prestito internazionale. Ma questo non è vero nel resto del mondo, Italia inclusa, dove chiedere dei libri in prestito è già una mezza impresa e farli venire dall'estero è un processo molto macchinoso e burocratico, L'accesso alle pubblicazioni online, inoltre, talvolta non è nemmeno contemplato: l'Italia è fra i paesi al mondo con il numero più basso di abbonamenti pubblici alle riviste specializzate. L'iniziativa di Harvard, oltre a scardinare la posizione di monopolio delle grandi case editrici, risolve in modo concreto il problema dell'accesso alla scienza da parte dei paesi poveri, favorendo la libera circolazione dei dati. «Specie nella ricerca multidisciplinare - continua Witzel – il libero accesso agli articoli accademici è di enorme aiuto alla comunità degli studiosi. Infatti, altre università stanno seguendo questa iniziativa». Ma che conseguenze avrà sul lettore ordinario che consulta internet? «Data l'enorme massa di cattiva informazione che circola su internet, ora qualsiasi utente avrà accesso a un'informazione scientifica affidabile. Mi aspetto che il movimento di libero accesso online ai risultati scientifici cresca sostanzialmente in futuro. La stampa continuerà a esistere, ma le grandi case editrici dovranno cambiare strategia di vendita. Il risultato sarà probabilmente un mix di pubblicazioni online e a stampa, offerte a prezzi più abbordabili». Insomma, ci sarà molta più libera circolazione di conoscenze, studiosi più realizzati e più stimolati intellettualmente, paesi poveri che avranno libero accesso ai dati scientifici dell'occidente: questo porterà a una nuova creazione e circolazione di idee e di progetti. L'era della libera condivisione del sapere è già cominciata. _____________________________________________ Il Sole24Ore 3 mar. ’08 UNIVERSITÀ APERTA:ESEMPI VIRTUOSI PER UNA CONOSCENZA COMPETITIVA I sistema universitario italiano si trova, ormai da lungo tempo, in uno stato di crisi acuta. La scarsa efficienza dimostrata nell'utilizzo delle poche risorse disponibili e una gestione della autonomia troppe volte separata W) concetto di responsabilità, hanno portato il sistema ritolto vicino al punto di collasso. A ciò si aggiungono i frequenti scandali legati a metodi di gestione "familistiei" che allarmano l'opinione pubblica e: contribuiscono a fornire un quadro negativo dell'università italiana. Dobbiamo tuttavia evitare di recedere con il pessimismo e pensare che tatto sia perduto. Per fortuna non c: così, anche se da più parti viene segnalata l'estrema urgenza di una profonda azione di rinnovamento che dia speranza agli atenei italiani e, soprattutto, ai tanti giovani, capaci e appassionati, che ogni anno si formano nelle nostre università. Malgrado le difficoltà, in Italia ci sono ancora numerosi gruppi di ricerca di assoluto valore internazionale e molti atenei riescono a competere più che dignitosamente almeno a livello europeo. Non c'è dubbio che il sistema sia complessivamente in crisi, ma è anche caratterizzato da una situazione estremamente variegata dove momenti di grande qualità si alternano a realtà che sono largamente al di sotto degli standard internazionali. Una seria azione di riforma del sistema non può che partire da una attenta analisi dello stato attuale e dovrebbe attuare una politica rigorosa e coraggiosa che, oltre a valorizzare le esperienze migliori, favorisca lo sviluppo delle competenze di cui il Paese ha urgente bisogno e, soprattutto, intervenga con tagli drastici dove si verificano situazioni di degrado. Se la parola "merito", oltre ad essere di moda, fosse trasformata finalmente in azioni concrete, le università italiane potrebbero uscire dall'attuale stato di crisi endemica, producendo un effetto positivo per tutta la Nazione. Partendo dalla considerazione che le università italiane non sono tutte uguali, può essere utile approfondire la conoscenza delle singole realtà per valutare la trasferibilità su scala nazionale delle migliori esperienze locali. Nel contesto italiano, l'Università degli Studi di Trento si caratterizza come un ateneo relativamente giovane e di dimensioni medio-piccole, fortemente legato alla realtà locale, ma anche molto aperto a livello nazionale ed internazionale. Se analizziamo le diverse classifiche che vengono pubblicate annualmente in Italia, l'Università di Trento e le sue facoltà si collocano sistematicamente nelle posizioni di vertice. L'edizione 2007 della classifica degli atenei mondiali elaborata dal Times, colloca Trento alla 411ima posizione, un dato di tutto rispetto se si considera che i criteri adottati favoriscono gli atenei di maggiori dimensioni e se si confronta il risultato di Trento con quello di altri atenei italiani molto più grandi e blasonati AL di là delle classifiche che hanno sempre un certo margine di arbitrarietà, è importante _____________________________________________ Il Sole24Ore 7 mar. ’08 SCIENZIATI:RICERCA IN ITALIA, UN METODO NUOVO CHE PREMI LA QUALITÀ Pubblichiamo l'appello che, attraverso «Il Sole 24 Ore», alcuni scienziati rivolgono al presidente della Repubblica sulla ricerca in Italia. Ieri Confindustria ha chiesto di rivedere i criteri di sostegno agli investimenti. Signor Presidente della Repubblica, ci rivolgiamo a Lei per l'interesse ché ha mostrato al ruolo fondamentale della ricerca scientifica nel nostro Paese e per la necessità non procrastinabile di correggere le modalità del suo finanziamento. In questo momento le forze politiche che si candidano a dirigere il nostro Paese stanno presentando i loro programmi elettorali nei quali la ricerca, fino ad oggi, non ha trovato alcuno spazio. Rischiamo quindi, ancora una volta, che l'interesse si concentri su problemi a breve e brevissimo termine, tralasciando le prospettive strategiche di sviluppo di cui la ricerca costituisce strumento indispensabile. Rivolgiamo a Lei questo appello affinché le forze politiche si impegnino fin d'ora a sviluppare strumenti adeguati al rilancio della scienza in Italia, concretizzando poi questi impegni non appena sarà formato il nuovo Governo. Una obiezione che viene assai spesso sollevata a giustificare il mancato sviluppo della scienza in Italia è la insufficiente disponibilità dei finanziamenti. Questo appello non ne richiede necessariamente un aumento ma si concentra soprattutto sulle modalità. In particolare, in Italia fino ad oggi solo una quota marginale dei finanziamenti per la ricerca è assegnata secondo procedure di peer-review, ovvero in base a valutazione scientifica nel merito, regolamentata, anonima, competente, terza e indipendente. In ambito pubblico, questo inficia gli interessi della pubblica amministrazione, introducendo nella decisione considerazioni di ordine, extra-scientifico;' quali, pregiudizi ideologici, pressioni personali, contiguità, appartenenza e conflitti di interesse. Inficia inoltre la qualità della scienza, che della competizione intellettuale libera da pregiudizi si alimenta. Inficia infine il contributo della scienza alla soluzione dei problemi di interesse sociale, che solo un sistema di valutazione trasparente e competitiV0 Permette. In Italia sono ammesse procedure di finanziamento che permettono il negoziato diretto, al di fuori di ogni controllo, tra pubblica amministrazione e ricercatori, gruppi di ricercatori, o istituzioni scientifiche. Queste procedure sono contrarie ai principi e alle forme che ispirano e regolano il finanziamento nei Paesi in cui la promozione della scienza è considerata interesse pubblico, e nei Paesi in cui la scienza attinge i massimi livelli qualitativi. E’ urgente che le forme di valutazione che assicurano il successo della scienza, e dunque il miglior uso del denaro pubblico,_ siano tradotte in norme é regolamenti dello Stato, uniformi e comuni a ogni singolo finanziamento, qualunque sia l'organo della pubblica amministrazione che lo gestisce, e qualunque sia la rappresentanza della comunità scientifica chiamata alla valutazione per peer review. Se la scienza è patrimonio comune del Paese, le regole di fondo per la sua amministrazione non possono essere materia incerta, politicamente opinabile, o modulabile in ambito accademico. È urgente che diventi norma dello Stato; da realizzare senza ritardi, che nessun finanziamento pubblico per la ricerca scientifica possa mai essere erogato senza un formale e regolamentato processo di peer-review. Inoltre, al fine di facilitare la definizione e l'applicazione di regole, è necessario procedere al più presto all'istituzione di una singola agenzia di finanziamento, che prenda origine dalla comunità scientifica di più alto profilo, nazionale ed internazionale, con la funzione di provvedere ai processi di valutazione e selezione delle proposte scientifiche per tutti gli organi dello Stato e gli enti pubblici che amministrano risorse perla ricerca. II modo in cui la si finanzia. pesa sulla qualità della scienza più del volume di risorse che alla scienza sono destinate. La qualità della scienza, come la buona amministrazione pubblica, sono fini generali della comunità civile e dello Stato. È urgente iscrivere la questione tra le priorità della politica. La comunità scientifica italiana custodisce un patrimonio prezioso di esperienza nazionale ed internazionale,garanzia insostituibile di efficacia e di correttezza. Il contributo intellettuale e civile della comunità scientifica alla regolamentazione dell'amministrazione della scienza è per ', questo imprescindibile. Primi firmatari dell’appello: Paolo Bianco (Università di Roma La Sapienza) Ranieri Cancedda (Istituto naz. ricerca sul cancro - Università di Genova) Elena Cattaneo (Università degli studi di Milano) Stefano Di Donato (Istituto Neurologico Besta, Milano) Pier Mannuccio Mannucci (Università di Milano, Gruppo 2003) Jacopo Meldolesi (Univ. Vita-Salute San Raffaele; Milano) Gianni Romeo (Euroqene, Università di Bologna) SISTEMA «PEER-REVIEW» Tutti i programmi (non solo una piccola parte come oggi) vanno valutati secondo criteri scientifici di,merito e con garanzie di autonomia IL METODO Bisogna istituire subito un'unica Agenzia che si occupi dei processi di selezione delle proposte _____________________________________________ Panorama 20 mar. ’08 II LATO OSCURO DELLA RICERCA Retroscena Interessi, rivalità, passioni, compromessi, ambiguità: è il mondo scientifico messo a nudo nel romanzo di un grande oncologo. di GIANNA MILANO Se il test avesse dato un risultato negativo, lei lo avrebbe preso per buono e avrebbe concluso che era una prova dell'innocuità del composto dimenticando i dati sull'uomo, non è così E questo non è avere due pesi e due misure?». Per un attimo l'oratore cui l'esperto di cancerogenesi chimica si era rivolto parve in difficoltà, ma si riprese trincerandosi dietro la dichiarazione: «I dati sono quelli che sono». È un brano del libro L'ombra del drrGloio (in uscita dalla Sironi) di Renzo Tomatis, già direttore dello Iarc, il Centro internazionale per la ricerca sul cancro a Lione, scomparso di recente. Il protagonista del primo dei quattro racconti che lo compongono sa come i dati scientifici possano essere selezionati ad hoc, quando si vogliono affondare evidenze di cancerogenicità. Sa che i dati, in contrasto con i suoi, esibiti e pubblicizzati dalle industrie interessate, si avvalgono di ricercatori che collaborano «apertamente e più spesso surrettiziamente con esse, con lo scopo di soffocare qualsiasi informazione che metta in evidenza danni alla salute o indichi l'urgenza di adottare misure di precauzione». Con rigore scientifico, tensione etica, misura e freschezza. Tomatis fonde, nei quattro racconti, la sua passione per le «due culture»: la letteratura e la ricerca scientifica. «Per esprimere quanto non si riesce a dire nel linguaggio scientifico e per trasmettere una convinzione con la forza di un racconto» confessò in un'intervista di Claudio Magris, sul Carriere della sera. Muovendosi lungo questa frontiera avanzata tra letteratura e scienza, scrive Magris nella prefazione del libro, Tomatis ci aiuta, attraverso una narrazione limpida e intensa, a capire la realtà, la vita, il mondo, l'uomo. L'establishment scientifico visto dall'interno, nella sua quotidianità, è un affresco di contraddizioni, sospetti, passioni, ambiguità, compromessi, condizionamenti (di lobby politiche o industriali), interessi personali. Da giovane Tomatis aveva abbandonato la pratica della medicina per la ricerca, con l'idea di riuscire a fare di più e di meglio contro il cancro. Allo larc, anno dopo anno, con puntualità e rigore, ha classificato, basandosi su studi sperimentali ed epidemiologici, una serie di sostanze cancerogene per l'uomo: cromo, amianto, nichel, benzene, cadmio, amine aromatiche. Elenco via via aggiornato. «Se causavano tumori nei lavoratori che ne erano esposti, non restavano circoscritte nel perimetro delle fabbriche, si diffondevano anche nell'ambiente» scriveva Tomatis in fim riuscita (Sironi). Fin dall'inizio questo lavoro di ricerca gli fece intravedere una continuità tra l'attività di laboratorio e ciò che lui sentiva come il suo fine ultimo: la possibilità di prevenire la crescita iniziale del rumore. Spesso accadeva che se i dati disponibili (fu così per l'amianto di cui narra nel primo racconto) erano sufficienti a classificare una sostanza come cancerogena, si cominciava a dire che occorrevano ulteriori indagini. La tattica, scrive, era elevare il rumore di fondo, ossia creare confusione. pubblicando «risultati contrastanti e contraddittori, in modo da iniettare dubbi sulla validità di dati scomodamente positivi». Trincerandosi dietro la difesa del rigore scientifico si mettevano in discussione i dati sperimentali di rumori indotti nei topi: come trasferirli all'uomo. Una condivisione che finiva per ritardare un accordo sulle decisioni da prendere per mettere in atto una prevenzione efficace». AL generico, ma sempre attuale, concetro di etica della scienza si affianca per tutto il libro l'ethos del ricercatore. Arduo esercizio quotidiano di equilibrio e coscienza, perché scienza e potere hanno storie parallele ed è difficile sottrarsi alla spirale soffocante dei profitti. Nessuno sembra essere del tutto puro. Come emerge nel primo racconto sull'amianto. Una storia di colpi di mano e dubbie alleanze tra le aziende che lo producevano, con un giro colossale di affari, e quelle chimiche, complici nella difesa di interessi comuni, e pure che sottobanco sostenevano la campagna contro il tabacco, dando a intendere che fosse quello il vero nemico. «Una selva oscura di manovre, manipolazioni, menzogne nel più assoluto disinteresse per la salute umana. secondo Tomatis. Chi ricordava che i tedeschi per primi tra il 1930 e il 1945 avevano provato il nesso tra fumo e cancro al polmone, e riconosciuto come malattia professionale l'asbestosi e il tu more al polmone da amianto, veniva screditato nel mondo scientifico come «filonazista». Così, per almeno due decenni dalla fine della guerra, «si è continuato a produrre amianto, in assenza di misure protettive e di indennizzo nei paesi del mondo libero». Ancora oggi, nonostante le prove inoppugnabili del suo effetto cancerogeno, se ne producono 2 milioni di tonnellate. «Le corporation potranno mai essere persuase a cambiare le loro priorità?». Talora emerge un senso di impotenza, ma quando si riesce «a spezzare la crosta del pessimismo che indurisce molte delle nostre giornate, si scopre che esistono ancora ragioni per non disperare. Le forze, allora, ritornano e ci si può rimettere in cammino di buona lena» scriveva Tomatis in La rielriarre. Lui non ha mai smesso di farlo, con coerenza e costanza. Anche il suo ricomporre, nei racconti, storie sospese di vita e rapporti umani, rimorsi, rimpianti e ricordi rimasti chimi nei cassetti ha un po' questo sapore. La voglia di rimettere assieme i tasselli di un puzzle senza lasciare dietro di sé zone d'ombra. __________________________________________________________ Unione Sarda 5 mar. ’08 DOPO DODICI MESI UN LAUREATO SU TRE È ANCORA DISOCCUPATO L’indagine di AlmaLaurea A un anno dalla fine degli studi universitari il 44 per cento dei laureati nelle facoltà cagliaritane ha trovato un lavoro, il 21 prosegue la formazione e il 34 per cento è ancora alla ricerca di un’occupazione. È lo spaccato del dopo Università di Cagliari secondo il decimo rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati italiani, che ha coinvolto oltre 92mila laureati di 45 Atenei. Un’indagine curata da AlmaLaurea e che vede per la prima volta la partecipazione dell’Università di Cagliari con 1.111 laureati intervistati (568 nel vecchio ordinamento e 543 nei corsi triennali). Dunque il 44 per cento dei laureati cagliaritani, a dodici mesi dalla laurea, lavora. Una percentuale nettamente inferiore al dato nazionale che si attesta al 53,5 per cento. Dando uno sguardo alle facoltà si scopre che chi ha finito gli studi in Ingegneria trova un’occupazione facilmente (il 60%). Sopra il 50 per cento anche Economia (58,3%), Scienze della formazione (52,3%) e Farmacia (50%). La facoltà che sembra offrire meno opportunità lavorative è Scienze Politiche: il 61,3 per cento dei laureati è infatti a spasso e solo il 9,7 per cento ha deciso di continuare il percorso formativo. Male anche Lingue e letterature straniere (il 47 per cento è disoccupato). In alcuni casi è praticamente obbligatorio proseguire gli studi come capita per i laureati in Medicina (73%), ma anche in Farmacia e Giurisprudenza (33%). Più complicata l’analisi per chi ha finito il corso di laurea triennale. Il 72 per cento dei ragazzi infatti si è iscritto alla specialistica. Ma il dato sugli occupati (che a Cagliari è del 15,8 per cento) è comunque notevolmente sotto la media nazionale del 27 per cento. C’è anche chi (si tratta di una percentuale del 14,5) ha abbinato la formazione al lavoro: quattro punti percentuali in meno rispetto al dato italiano. Il 9 per cento dei neolaureati cagliaritani è invece disoccupato: non ha trovato un posto e ha deciso di non proseguire il percorso formativo. La media nazionale è del 6%. La documentazione completa (nel sito web www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione06 sono disponibili i primi risultati), con i dati sulla stabilità del lavoro, il guadagno, l’efficacia della laurea, sarà diffusa a giugno. (m. v.) _____________________________________________ La Stampa 5 mar. ’08 ESAMI RUBATI: STOP AGLI STUDENTI CHE BARANO GIOVANNA FAVRO Esami rubati nell'occhio del ciclone IL caso più clamoroso è quello del laureato che, promosso a suo tempo all'esame di Economia Pubblica, s'è ripresentato tre volte allo scritto. Alla fine l'hanno beccato. «Volevo aiutare mia sorella, malata grave». Non era vero, ed è un mistero a chi passasse i compiti, e se l'abbia fatto addirittura per denaro. Per essere promossi agli esami universitari, certi studenti sono pronti a tutto, meno che a studiare. Ma il preside della facoltà di Economia, Sergio Bortolani, ha dichiarato guerra a truffe, inghippi e sostituzioni di persona: nei casi più gravi, minaccia di denunciare gli studenti alla magistratura. Nel prossimo Consiglio di facoltà sottoporrà ai colleghi il caso di 6 ragazzi. I prof decideranno se punirli «soltanto» impedendo loro le prossime sessioni d'esame o se meritano mano più pesante, fino alla denuncia penale e all'espulsione dall'Università. Nella facoltà-regina dell'ateneo per numero di studenti - oltre 10 mila -, c'è anche il record di esami scritti: 60 mila fanno. E il preside Bortolazv, che da sempre insiste sulla serietà degli studi e si batte per la qualità dei laureati, ha deciso di dire basta a chi copia «con metodi che vanno ben al di là del bigliettino, o della soffiata dal compagno». Coadiuvato dal vicario Gabriella Racca e dal manager didattico Odilia Brunatti, ha ricostruito 5 casi. Il primo riguarda una scopiazzatura banale, che meriterà probabilmente «il minimo della pena»: è un ragazzo che usava il cellulare allo scritto di Economia degli intermediari finanziari. Le altre situazioni sono più spinose. Una studentessa ha portato con sé allo scritto di spagnolo una vicina di casa, studentessa a Lettere, che ha un genitore madrelingua. Ha scoperto l’inganno un docente insospettito dal via vai di fogli intorno a questa ragazza». Che, presa da una botta di generosità, «ha passato il compito a 10 studenti». Nell'ufficio del preside, le due hanno ammesso tutto. «Davvero rischiamo una denuncia per frode? Non credevamo di fare una cosa grave. I ragazzi hanno sempre copiato!». Un altro studente è stato diabolico. «S'è presentato all’orale di francese esibendo due finte e-mail, datate 6 mesi prima». Nella prima scriveva alla docente: «Ho dato lo scritto, ma non compaio per errore negli elenchi dei promossi. Quanto ho preso?». E la docente: «Il suo voto è 24. Presenti questo testo all'orale, e mi ricorderò di lei». Lettere mai spedite, inventate per saltare lo scritto. Lo stesso studente «tre mesi dopo s'è presentato a inglese con il fratello, per farsi fare il compito da lui». Beccato sul fatto, ha chiesto perdono: «Ho trovato lavoro, devo laurearmi». Più faccia tosta ha mostrato il dottore che s'è presentato tre volte a Economia Pubblica, e ha raccontato la bugia sulla sorella malata. «La sorella ce l'ha, ma non ha quell'esame nei piano di studi». Per Bortolani, «nei casi più gravi la denuncia penale ci sta tutta. E' triste che ragazzi di vent'anni pensino di conquistare risultati con questi metodi. Gli studenti cercano di copiare da sempre, ma qui siamo di fronte a qualcosa di più pesante». Per scoraggiare casi simili, e per equità rispetto a chi studia sul serio, tappezzerà la facoltà di avvisi, spiegando che chi bara rischia la denuncia. Che nei casi più gravi serva una lezione, lo pensano pure i rappresentanti degli studenti. «E' giusto far saltare gli appelli - dice Marta Campagnolo -, anche se per me arrivare addirittura alla denuncia sarebbe troppo». L'ESAME MULTIPLO Si rischiano sanzioni che vanno dalla denuncia penale sino all'espulsione dall'Ateneo Sergio Bortolani _____________________________________________ L’Unità 11 mar. ’08 RICERCA, IL DUBBIO DI CONFINDUSTRIA PIETRO GRECO C’è un nodo che Confindustria deve sciogliere: quale innovazione vuole? Quella hi-tech proposta la scorsa settimana a Roma nel corso della Giornata dedicata alla ricerca e, appunto, all'innovazione da Pasquale Pistorio e fondata sulla produzione di beni, materiali e immateriali, ad alta tecnologia o 1`innovazione combinatoria" ribadita da altri suoi autorevoli dirigenti, per esempio Gianfelice Rocca, che punta sulla produzione di beni di media e bassa tecnologia, confezionato con qualche elemento di "italianità"? Non è una scelta da poco, anche se poco se ne discute. È una scelta che riguarda il modello di sviluppo e il futuro stesso del nostro paese nell'ambito dell'economia globalizzata. La prima interpretazione della parola "innovazione", quella proposta da Pasquale Pistorio e considerata trainante dagli industriali in ogni parte del mondo nell'era della conoscenza, presuppone un'uscita in mare aperto e un cambiamento radicale della specializzazione produttiva del sistema Paese. Ancora fondata, certo, sull'industria manifatturiera. Ma su un'industria che innova in primo luogo il prodotto - che crea, in altri termini, "cose nuove" - e accetta di misurarsi con tutte le al tre economie, mature ed emergenti, nel settore dei beni ad alta tecnologia. L`altra innovazione", quella proposta con diverse modulazioni da almeno quarant'anni in Viale Astronomia, presuppone di andare avanti tutto sommato alla vecchia maniera e di puntare ancora sulla "diversità italiana": con un'industria manifatturiera che sceglie nicchie isolate di mercato e fa leva sul basso costo del lavoro. Innovando non il prodotto, ma il processo, il marketing, le tecniche di management, l'organizzazione del lavoro. Che dunque porta avanti, magari con l'innegabile creatività e originalità italiana, la ricomposizione di prodotti già esistenti e, mediante l'acquisto di brevetti, di conoscenze generate fuori dai confini d'Italia. Ma evitando di misura con le altre economie nel settore delle tecnologie di punta, ma cerca di continuare a ritagliarsi nicchie esclusive in settori di mercato non battuti dagli altri. I due modelli non sono conciliabili. Il primo, quello alla Pistorio, è un modello di sviluppo fondato sulla ricerca scientifica. Presuppone almeno tre passaggi. Un lucido intervento pubblico, con maggiori investimenti dello stato sia in ricerca scientifica che in alta formazione (Pistorio chiede una crescita degli investimenti per la ricerca pubblica del 5% annuo). Un netto incremento della spesa diretta delle imprese in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico che oggi, unica in tutto il mondo a economia matura o emergente non supera l0 0,2% del Pil (Pistorio chiede che il paese investa raddoppi gli investimenti in ricerca entro il 2011 e li triplichi entro il 2015; il che significa un'industria che aumenta gli investimenti in sviluppo tecnologico di almeno 5 volte). Richiede aiuti altamente selettivi alle imprese. Ma, soprattutto, una nuova imprenditorialità, con una nuova cultura industriale, che accetta la competizione sui mercati internazionali e non cerca di evitarla. Il secondo modello, quello del1`altra innovazione" o del1`innovazione combinatoria" chiede altro. Chiede all'industria di modificarsi, continuamente, ma non chiede "un'altra industria". Chiede basso costo del lavoro, attraverso un incremento (ancora?) della flessibilità. Non chiede sostegni particolarmente selettivi alle imprese. Non chiede una scuola e un'università capaci di creare un ambiente adatto all'innovazione (compreso nuove tipologie di imprenditori). Chiede piuttosto alla scuola e all'università di porsi direttamente al servizio dell'industria attuale, formando i tecnici e gli operai necessari di cui hanno bisogno oggi le imprese. Noi pensiamo che il primo modello sia di gran lunga preferibile. Essenzialmente per tre motivi. Primo: consentirebbe al Paese di crescere di più. Il settore hi tech cresce più velocemente degli altri e ciò spiega perché Italia, con la sua specializzazione produttiva fondata sulle medie e basse tecnologie, dall'inizio degli anni `90 ha visto la sua ricchezza totale e procapite crescere meno della media europea. Secondo: consente ai lavoratori di guadagnare di più. Le industrie hi-tech hanno bisogno di lavoro più qualificato e, quindi, pagano stipendi maggiori. Un'espansione dell'industria ad alta tecnologia, consentirebbe un aumento del salario medio dei lavoratori che in Italia è, non a caso, inferiore a quello della gran paite dei Paesi del resto d'Europa. Terzo: un'economia fondata sulla conoscenza consentirebbe di qualificare meglio lo sviluppo, sia in termini sociali (più ricchezza, migliori salari), sia in termini ecologici. Potrebbe essere caratterizzata, per esempio, sia dall'uso di energie rinnovabili e "carbon free" sia da processi di de-materializzazione (meno materia per produrre un'unità di reddito e/o di funzione) e di de- energizzazione (meno energia per produrre un'unità di reddito e/o di funzione), con un minore impatto sull'ambiente. Per il bene del Paese, Confindustria deve dunque uscire dalla sua ambiguità. Deve dire quale innovazione vuole, l'innovazione "hi-tech" o "l’altra innovazione"? Ma la domanda non riguarda solo gli industriali. Riguarda anche i sindacati. E riguarda soprattutto la politica. Riguarda anche e soprattutto il centrosinistra. Sia il Partito democratico che la Sinistra arcobaleno devono indicare se e come l'Italia deve entrare nell'economia della conoscenza. Se e quale innovazione vogliono. Come qualificare, socialmente ed ecologicamente, l'innovazione. Sono questi i nodi decisivi per il futuro del nostro Paese. Qual è l'innovazione di cui parla Confindustria: quella h!-tech di Pistorio basata sulla ricerca o quella «combinatoria» di cui parlano in troppi, con poca tecnologia e niente investimenti? I due modelli non sono conciliabili. E i responsabili di Viale dell'Astronomia dovrebbero uscire quanto prima da questa ambiguità: ne va del futuro del Paese __________________________________________________________ L’Altra Voce 7 mar. ’08 CAGLIARI: UNIVERSITARI ALLERGICI AL DIBATTITO VIA E-MAIL ma in casella arriva anche l'invito per aggiornarsi a pagamento (al mare) di Cristina Lavinio In questo periodo gli utenti del server dell'Università di Cagliari sono coinvolti, ma timidamente o a singhiozzo, in mini-dibattiti su problemi abbastanza seri come, per esempio, la tutela di Tuvixeddu o le carriere dei docenti e il precariato. Il dibattito è timido perché, dopo le prime battute, c'è sempre chi protesta sostenendo di non voler essere disturbato da email collettive, sospette di essere spam, pubblicitarie o - peggio - “politiche”, che dunque non gli interessano (con buona pace di chi pensi che tutti i docenti universitari siano/debbano essere i rappresentanti più autorevoli dell'impegno intellettuale e della consapevolezza civile). E c'è chi propone, in nome di una migliore nétiquette, l'adozione di regole macchinose o l'organizzazione di forum tematici in cui incanalare i messaggi di chi voglia discutere con i colleghi. Mentre la maggioranza tace e legge, abbastanza interessata e anche, spesso, divertita. In questo quadro di comunicazioni collettive, siamo comunque più di quanti non si pensi coloro che ritengono siano da evitare cavillose restrizioni e regolamentazioni nel sistema di posta elettronica: devono avere un tranquillo diritto di cittadinanza sulla posta indirizzata agli utenti di “unica.it” tutte le informazioni, anche quelle apparentemente più di parte, relative a dibattiti, iniziative politico-culturali e/o scientifiche, oltre che a questioni amministrative che coinvolgano personale docente e non docente. Se c'è chi non è interessato, basta del resto un clic per cancellarle: solo qualche clic in più rispetto ai tanti messaggi veramente di spam, oltre che collegati a siti sospetti, portatori di virus e altro, che inondano quotidianamente le nostre caselle di posta. Eppure, qualche giorno fa mi sono trovata a qualificare ironicamente come spam il messaggio di un funzionario che pubblicizzava un convegno sulla Università del futuro e sui metodi per gestire il cambiamento, previsto per maggio in un albergo della Marina di Orosei. Prezzo di iscrizione: 380 euro, non comprensivi delle spese di vitto e alloggio, ma solo del kit del convegno, di tre coffee break e di una cena sociale. La modica cifra di 380 euro può poi diventare di 430 euro per chi si iscriva successivamente alla data indicata. Organizzato da “Sardinia2008”, che sembra tanto una associazione appositamente costituita (ma con indirizzo presso la Facoltà di Scienze della formazione), il convegno si rivolge a personale amministrativo (delle segreterie di Dipartimento, biblioteche ecc.) e prevede come relatori una decina di docenti e funzionari, quasi tutti dell'Università di Cagliari. Viene da chiedersi: c'è proprio bisogno di pensare a un convegno in una località balneare per discutere (e aggiornarsi) su questioni rispetto alle quali c'è, per tutti coloro che nell'Università lavorano, il diritto-dovere di essere informati e aggiornarsi? Non sarebbe meglio pensare a iniziative facilmente accessibili a tutti gli interessati, compresi anche gli studenti? Perché chi lavora a Cagliari dovrebbe spendere almeno mille euro (calcolando anche le spese alberghiere, da sommare a quelle di iscrizione) per sentire relazioni di docenti che lavorano nella sua stessa sede universitaria? Certo, qualcuno potrà partecipare a tale interessante convegno facendosi rimborsare la missione e l'aggiornamento dalla struttura di appartenenza: spenderà soldi dell'Università per sentire quanto potrebbe sentire in sede, e gratis. Non dimentichiamo che siamo in tempi in cui, nell'Università di Cagliari, aspettiamo ancora, per finanziare le nostre ricerche del 2007, cioé dell'anno già trascorso, la somma astronomica di circa 500 euro a testa sui fondi “ex- 60%”. Che tristezza, dunque, lasciare spazio a questi che sembrano sprechi inutili, anche se fatti sotto l'egida (e il logo) del nostro Ateneo, che campeggia sul sito “Sardinia2008”… O è un modo come un altro per consentire che chi ha costituito tale associazione si autofinanzi, sperando che personale proveniente da tutta Italia - e magari anche dall'estero - trovi allettante venire a discutere di questioni universitarie nella notoriamente splendida Marina di Orosei? Ne risulterà meritoriamente incrementato, in fondo, anche il turismo; e saranno drenate risorse per le agenzie turistiche e gli alberghi con cui la scheda di presentazione del convegno risulta linkata… __________________________________________________________ Unione Sarda 12 mar. ’08 CAGLIARI È LA CITTÀ PIÙ VERDE D’ITALIA Secondo il ministero, il 53% del territorio ospita parchi L’inquinamento provocato soprattutto dal porto, specializzato nel settore petrolifero. Primo posto anche per il consumo di energia elettrica per uso domestico; cagliaritani ultimi nel metano. È la città più verde d’Italia: con il 52,9% del territorio comunale adibito a verde pubblico, Cagliari si piazza al primo posto nel IV rapporto dell’Apat, l’Agenzia per la protezione dell’Ambiente e per i servizi tecnici, sulla qualità dell’ambiente urbano. Uno studio che fornisce uno strumento agli amministratori. E che permette anche ai singoli cittadini di capire la realtà nella quale vivono. Dunque, Cagliari è la città più verde davanti a Verona (45,6%), Palermo (33,9%), Napoli (23,9%) e Torino (16.2%). Deve, però, accontentarsi del secondo posto per quanto riguarda la disponibilità di verde per abitante: a Verona ogni cittadino dispone di 363,1 metri quadri mentre a Cagliari la media di 282 metri quadri ad abitante. Dati incoraggianti che vengono confermati anche da un altro numero: dal 2000 al 2006 il capoluogo regionale ha avuto un incremento di verde pubblico dell’8% (meglio ha fatto soltanto Napoli con una crescita del 19,5%). L’INQUINAMENTO. Dati estremamente positivi. Ma, raffreddare gli entusiasmi, arrivano numeri preoccupanti. Quelli relativi alla raccolta differenziata: con una percentuale al di sotto del 10% nel 2007, Cagliari supera soltanto Messina, Catania, Taranto, Foggia, Reggio Calabria e Napoli. E, se non bastassero i rifiuti, a rendere meno gradevole la vita in città ci sono i numeri relativi alla presenza di automobili in città: solo Roma e Catania hanno più auto per abitante. Eppure, l’inquinamento in città, a leggere lo studio dell’Apat, è dovuto soprattutto al porto: quello cagliaritano occupa il primo posto in Italia nel petrolifero (la vicinanza della raffineria di Sarroch si fa sentire). Questo provoca un traffico di automezzi per il trasporto di questo materiale. La conseguenza? I mezzi che fanno la tratta tra il porto e Sarroch contribuiscono al 41% delle emissioni di azoto e, addirittura, al 77% di quelle di ossidi di zolfo. A provocare ulteriore inquinamento anche un altro dato: nonostante un calo dopo il picco del 2005, Cagliari, con 1.559,5 chilowatt ora per abitante, è al primo posto nel consumo di energia elettrica per uso domestico; se Roma è subito dietro con 1503,2 chilowatt ora per abitante, tutte le altre città si attestano molto più in basso, intorno ai 1.00, 1.100 chilowatt ora. Il rovescio della medaglia è dato dal penultimo posto nell’uso del gas metano per riscaldamento a uso domestico: Cagliari, con 14 metri cubi per abitante, precede soltanto Reggio Calabria, ferma a 1,7 metri cubi. IL LAVORO. Il quadro fornito dall’Apat parla di una città specializzata nei servizi: Cagliari occupa il quarto posto, dietro Roma, Palermo e Messina, negli occupati in questo settore: a leggere le generalizzazioni fornite da queste cifre, in città è particolarmente sviluppato il commercio all’ingrosso e dettaglio, la riparazione di autoveicoli, motocicli e di beni personali e per la casa. Lavori che, comunque, sembrano consentire ai cagliaritani di comprare casa: serve un reddito annuale di circa 30 mila euro per acquistare, in 25 anni, un appartamento di 60 metri quadri. È sufficiente un reddito più basso soltanto a Taranto, Catania, Palermo e Messina. LE LACUNE. Un quadro in chiaroscuro della città. Anche perché mancano alcune figure in grado di incidere: solo a Cagliari e a Taranto manca il mobility management anche se, dall’anno scorso, esiste un piano urbano del traffico. Mancano anche la classificazione acustica (aspetto sul quale la Provincia sta lavorando), la relazione sullo stato acustico comunale e il controllo sugli impianti che producono onde elettromagnetiche (in particolare, quelle relative alla telefonia mobile). IL TURISMO. Nonostante tutto, comunque, a Cagliari i turisti arrivano: tra il 2006 e il 2007 c’è stato un incremento del 2,7%. Ancora più sensibile il dato relativo agli stranieri: l’aumento è stato del 22,1%. Persone che, ovviamente, sono state attratte dai litorali cittadini. Che, a dire il vero, non sono promossi al cento per cento. Secondo il servizio difesa del mare del ministero per l’Ambiente, l’IQAM (indice di qualità dell’ambiente marino) costiero ha registrato una qualità alta alla fine dell’estate del 2006, seguita da un deciso peggioramento in ottobre. Forse a rassicurare i turisti c’è anche il fatto che la zona non è pericolosa: nel comune c’è solo un’industria a rischio di incidente rilevante; diventano due se si considerano i due chilometri dai confini comunali. Una situazione, tutto sommato, accettabile. MARCELLO COCCO __________________________________________________________ Corriere della sera 5 mar. ’08 E INTANTO NELLA SCUOLA SI SMANTELLA IL SAPERE Nel suo libro Giorgio Israel esamina anche, preliminarmente, il «disastro educativo» che gli pare caratterizzi ormai la scuola italiana di ogni ordine e grado, per delle responsabilità che sono sostanzialmente bipartisan. Il ministro Luigi Berlinguer può essere definito, a suo avviso, l' «Attila» della nostra scuola per avere proseguito nel sistema dei debiti formativi, con il connesso corredo di «sei rossi» e della possibilità di promuovere con insufficienze «non gravi». Ma prima di lui era stato un ministro di centrodestra, Francesco D' Onofrio, ad assestare un colpo decisivo alla serietà degli studi con l' abolizione degli esami di riparazione; un colpo durissimo anche perché la scomparsa del potere di deterrenza rappresentato da quegli esami faceva venir meno un pilastro della disciplina scolastica. Ma al di là delle decisioni di questo o quel ministro, a terremotare la scuola italiana, osserva Israel, è stato il prevalere di una casta di pedagogisti-consiglieri ministeriali, portati a considerare la pedagogia stessa come una sorta di metadisciplina superiore alle altre e a smantellare su questa base programmi di insegnamento che avevano una loro coerenza e un loro contenuto organico. Nella denuncia dei mali del nostro sistema educativo contenuta nel libro non è assente l' università. Qui la situazione si è enormemente aggravata con l' introduzione delle lauree triennali che ha prodotto «un frazionamento in corsi e corsucci sempre più brevi e sempre più focalizzati su temi ultraspecifici o ridotti a fornire un' insignificante spolverata di nozioni generali». Il giudizio è certo da condividere; semmai è dubbio che un quadro tanto serio da configurarsi, per l' intero ciclo dell' istruzione pubblica, come un «disastro educativo» possa essere modificato con la sola abolizione del valore legale del titolo di studio, cui Israel si mostra favorevole. Una tale abolizione, scrive, costringerebbe a valutare l' istruzione sulla base della qualità effettiva dell' insegnamento. Ma non è chiaro fino a che punto si tratti di una previsione e fino a che punto soltanto di una speranza. __________________________________________________________ Corriere della sera 5 mar. ’08 AMBIENTE A NEW YORK IL CONGRESSO DEGLI SCIENZIATI REVISIONISTI. L' ATTACCO A AL GORE: «MENZOGNE NEL SUO DOCUMENTARIO, VA RITIRATO» Dov' è finito il riscaldamento globale? Bufere di neve dalla Cina al Sudafrica, in Italia torna il maltempo. E il dibattito sul clima si riapre ROMA - Bufere di neve in Cina e nell' America Settentrionale, violente tempeste in Nord Europa, nevicate a Bagdad e a Johannesburg, il maltempo che torna in Italia. Ma dov' è finito il riscaldamento globale, si chiede il mondo che batte i denti per le ondate di freddo eccezionale? E se lo sono chiesti, per due giorni consecutivi, anche gli skeptical scientist che si sono dati convegno a New York per contestare le tesi sul cambiamento climatico provocato dall' uomo. Riuniti sotto la bandiera dell' Heartland Institute, un' associazione di studi in politica economica, i ricercatori negazionisti hanno colto la palla al balzo, affermando che i termometri sottozero dimostrano l' inconsistenza delle tesi sulle responsabilità dell' uomo sostenute dall' Ipcc (il gruppo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite). «I propositi di mitigare il cambiamento climatico attraverso la riduzione dei gas serra emessi dall' uomo sono prematuri e fuorvianti: ogni tentativo sarebbe futile, oltre che costoso», non gli è parso vero di dichiarare all' ingegnere Fred Singer, organizzatore del meeting, noto per avere negato, negli anni passati, l' esistenza del buco dell' ozono e la connessione fra fumo e cancro; e per aver affermato che il satellite di Marte Phobos potrebbe essere una stazione spaziale costruita da civiltà marziane. A parte le intemperanze di Singer, discusso anche perché, essendo stato autore di ricerche per le multinazionali del petrolio, non offre garanzie di indipendenza, il convegno di New York ha sollevato uno degli argomenti più discussi fra gli scienziati del clima. «Distinguere l' influenza dell' uomo dalle naturali oscillazioni climatiche è come cogliere una voce in mezzo a un rumore di fondo assordante - ha fatto notare Michael Schlesinger, fisico dell' atmosfera all' università dell' Illinois -. L' unico modo per essere certi che stiamo modificando il clima è osservare il sistema per un periodo molto più lungo, in modo che possa meglio emergere il segnale antropico dalla variabilità naturale». Insomma, forse è troppo presto per attribuire all' uomo l' intera responsabilità di quanto sta succedendo. E non è mancato un attacco al premio Nobel Al Gore, accusato di diffondere menzogne con il suo documentario «Una scomoda verità» di cui alcuni fra i più accesi clima-scettici hanno addirittura chiesto il ritiro dai circuiti cinematografici. Quanto al freddo, non è il caso di lasciarsi impressionare dalle intemperanze di qualche inverno più rigido, fanno notare altri più prudenti ricercatori. «Negli ultimi venti anni, pure con un trend di temperature in netta ascesa, abbiamo avuto inverni molto rigidi nel 1988, 1991, 1992 e 1998 - elenca Ignatius Rigor, climatologo del Polar Science Center della Washington University -. Non bisogna guardare ai singoli frammenti del puzzle, ma all' intera composizione». E il quadro d' insieme dice che nell' ultimo secolo la temperatura media del pianeta è aumentata di quasi un grado, con un tasso di crescita ormai raddoppiato (0,26 gradi nell' ultimo decennio). Tutto ciò mentre i vari gas riscaldanti prodotti dall' uomo, non solo l' anidride carbonica, ma anche metano, protossido d' azoto, alocarburi, eccetera, sono in netta ascesa. Di qui la conclusione dell' Ipcc che l' uomo, al 90%, è la causa del cambiamento climatico. Secondo alcuni esperti il freddo anomalo in alcune parti del pianeta potrebbe essere causato dalla recente conclusione della corrente calda del Nino, nel Pacifico occidentale, e dal subentrare della più fredda corrente La Nina. In passato si è constato che entrambi i fenomeni possono scatenare estremi climatici su scala globale, anche a grandi distanze. Ma le correlazioni sono ancora poco chiare e pochi si sentono di avallare questa ipotesi. Ma che ne pensano i climatologi di casa nostra della montante ondata di scetticismo climatico? «Io non sto né con un partito né con l' altro: mi piace attenermi alla verità del dato - è il giudizio salomonico del professor Franco Prodi, direttore dell' Istituto di scienze dell' atmosfera e del clima del Cnr a Bologna -. La costante crescita delle temperature medie dal 1980 a oggi, per esempio, è un dato inconfutabile. Non basta un inverno rigido in qualche parte del pianeta a smentirlo». «Bisogna sgombrare il campo da una falsa opinione: cambiamento climatico non vuol dire che il pianeta si riscaldi sempre e dappertutto - esorta un altro esperto, il professor Gianpiero Maracchi, direttore dell' Istituto di Biometeorologia del Cnr a Firenze -. Ma piuttosto significa che, a causa dell' aumento delle temperature medie, si è modificata la circolazione su scala globale e sono aumentate le anomalie: addirittura triplicate rispetto al periodo di riferimento 1960-90». Ci si può giurare, arriveranno altri estremi di caldo e di freddo, di piogge e di siccità. Cercare di ridurre l' avvelenamento dell' atmosfera sarebbe un' assicurazione per vivere più tranquilli. Emergenze *** Cicloni Gli scienziati dell' Onu, dopo un' analisi dello stato di salute della Terra, hanno individuato le emergenze più critiche. Fra queste, l' attività ciclonica nel bacino dell' Atlantico, che nell' ultimo decennio è stata di intensità eccezionale. Conseguenza, dicono, del clima che cambia *** Allarme Polo I ghiacciai in Groenlandia si riducono a velocità maggiore di quella stimata. Gli orsi sono fra le vittime dello scioglimento dei ghiacci. Sul fronte opposto, variazioni climatiche e attività umane determinano anche la degradazione del suolo: è l' effetto desertificazione *** In Italia *** In picchiata Temperature in picchiata, ieri, con punte di -30 sul Monte Rosa. Una perturbazione arrivata dall' Atlantico settentrionale ha riportato l' inverno in Italia. In Emilia-Romagna neve a partire dagli 800 metri. Neve anche nell' entroterra Pesarese e in Umbria. Trieste è spazzata dalla bora, con raffiche che hanno toccato i 106 chilometri orari determinando una «sensazione termica» di -12 gradi, a fronte di una temperatura di 4,5. In Veneto rischio valanghe marcato (livello 3) Le previsioni Temperature in calo. Maltempo al Sud, dove ci saranno precipitazioni sparse, anche sotto forma di temporale, su Campania, Basilicata e Puglia; nevicate oltre i 700-900 metri sull' Appennino campano-molisano e oltre i 1.000-1.200 metri sul resto dell' Appennino. Ma da domani sera migliora *** +6,4 *** gradi entro il 2100 secondo le Nazioni Unite Foresta Martin Franco ______________________________________________________ ItaliaOggi 11 Mar. ‘08 IL PROF VA ASSUNTO DAL 2007 LAZIO SUI CORSI ABILITA’ I ritardi delle università non li scontano i docenti docenti che quest'anno scolastico si sono visti sfumare una cattedra di insegnamento, a causa di improvvidi interventi del ministero della pubblica istruzione sull'organizzazione dei corsi abilitanti, hanno vinto un ricorso al Tar del Lazio, la cui decisione, la n. 758/2008 presa nella camera di consiglio del 10 gennaio scorso, costringerà l'amministrazione, se non si appella al Consiglio di stato, a riconoscere loro il diritto ad ottenere posti di lavoro già a decorrere da quest'anno. La vicenda nasce con i corsi abilitanti, istituiti, ai sensi della 1.143/2004, con decreto del ministero n. 85 del 18 novembre 2005, ai quali avevano potuto partecipare docenti aspiranti ad insegnare nelle scuole materne, elementari e secondarie di primo e secondo grado, in possesso del requisito di servizio;di 360 giorni prestati nel periodo 1° settembre 1999 - 6 giugno 2004, e che avevano potuto nel frattempo iscriversi con riserva nelle graduatorie permanenti, o.•a ad esaurimento, per l'immissione in ruolo 0l’otteni.mento di una supplenza annuale. I corsi, organizzati dalle università e dalle accademie, si sarebbero dovuti concludere entro il 2005/2006 (con esami nella primavera 2007), per dare la possibilità ai docenti di entrare nelle graduatorie permanenti a pieno titolo (e non con riserva) già a partire dall'anno scolastico 2007/2008. I corsi, con l'eccezione di poche università, hanno subito ritardi, per l’elevato numero di corsisti e per altre difficoltà pratiche. Con disposizioni di valore giuridico inidoneo a modificare i decreti da esso stesso emanati, il ministero della pubblica istruzione è intervenuto affinché i corsi avessero su tutto il territorio nazionale una durata omogenea ed una contestuale conclusione (primavera 2008 anziché 2007). Nel maggio scorso i corsisti delle università più tempestive hanno però ottenuto dal Tar un'ordinanza che ha loro consentito di sostenere l'esame finale, conseguire l'abilitazione e far sciogliere la riserva di iscrizione nelle graduatorie. Il ministero, appellatosi al Consiglio di stato ed incassato a sua volta l'annullamento dell'ordinanza, ha quindi impedito che i docenti potessero far valere l'abilitazione nella tornata di nomine di quest'anno scolastico. Nuovo ricorso e nuova decisione del Tar del Lazio, che questa volta, decidendo sul merito della questione, ha giudicato illegittimo dilazionare dappertutto l'ultimazione delle procedure e lo svolgimento degli esami. Mario D'Adamo _______________________________________________________ ItaliaOggi 03 mar. ’08 LAUREE, SPERIMENTAZIONE SENZA FINE FINANZIAMENTI ALL’OSSO. Università chiamate ad attuare le nuove, classi di laurea, ma senza fondi E gli atenei svendono gli immobili PAGINA A CURA DI BENEDETTA P PACELLI e chi vende immobili, chi ha messo da parte piani di investimenti edili zi, chi taglia sulla ricerca o sui cosiddetti "consumi intermedi. È il momento della verità per le università italiane che, per fine aprile, dovranno depositare i conti a consuntivo che dimostreranno la cattiva o la buona gestione finanziaria dell'anno precedente. La legge impone almeno il pareggio e in più per gli atenei c'è l'obbligo di non superare il90% del Fondo del finanziamento universitario per le spese del personale. Una richiesta da molti rettori considerata assurda data la perenne scarsità dei fondi. Tanto che, per rimettere in sesto le casse di un sistema da anni sottofinanziato, ci vorrebbe come denunciato dal presidente della Crui Guido lrombetti oltre 1 miliardo di euro. In ogni caso, anche raschiando il fondo del barile, le università partiranno con la sperimentazione della nuova offerta didattica già dal prossimo anno accademico. Del resto tra riforme e controriforme, la Berlinguer Zecchino (il primo 3+2) è del'99, come ironizza il magnifico dell'università degli studi di Padova Vincenzo Milanesi, «siamo abituati: sono anni che ci viene chiesto di cambiare continuamente». L'Ateneo ha ridotto le lauree triennali e rinforzato quelle di specializzazione andando verso una struttura ad albero delle possibilità formative. E Padova è inoltre una delle poche ad uscire fuori dal coro in tema di bilanci e a non avere buchi. Come?, «non certo grazie ai contributi statali, ma con una politica di risparmi: riducendo i consumi intermedi, rallentando la programmazione edilizia e controllando le spese di personale». I conti fanno fatica a quadrare per l'Orientale di Napoli, tra i quattro atenei che, secondo i dati ministeriali, ha sforato il tetto del 90% dell’Ffo, ma che però», precisa il rettore Pasquale Ciriello, «ha fatto di tutto per chiudere il bilancio in pareggio senza ricorrere ad acrobazie finanziarie». Ma il problema è a monte per il magnifico, nel momento in cui si considerano le università tutte uguali: «Non si può valutare un corso, magari di nicchia e di una piccola università, solo per numero di studenti. C'è una contraddizione evidente proprio nel rapporto studenti e docenti e le conseguenze sono che chi investe di più per il personale è il cattivo di turno. Anche per il rettore dell'università di Roma la Sapienza Renato Guarini è una follia considerare tutti gli atenei con gli stessi criteri: «La Sapienza negli ultimi anni ha perso 200 milioni di euro, per colpa di quei tagli e suddivisioni che valgono anche per gli atenei più piccoli. Noi abbiamo un disavanzo di 30 milioni ma, pareggeremo grazie al credito con il policlinico Umberto I». Per far quadrare i conti dell'ateneo fiorentino che, al secondo posto tra quelli con i bilanci più in rosso e con uno sforamento del 99,4% dell'Ffo, il magnifico Augusto Marinelli ha predisposto invece un piano pluriennale: «abbiamo fatto ricorso a misure di controllo della spesa e rinunciato ad investimenti edilizi». E per non frenare lo sviluppo dell'ateneo confessa anche di aver venduto alcuni immobili non funzionali alle attività. «Siamo comunque pronti a partire con la sperimentazione già dal 2008-2009: abbiamo interpretato in modo rigoroso i requisiti richiesti per i corsi, fissando al70% la quota dei crediti formativi che dovrà essere coperta da docenza di ruolo». Per non sforare i bilanci c'è poi chi, come il rettore dell'università di Roma Tor Vergata Alessandro Finazzi Agrò, è costretto a tagliare sulla ricerca libera. Anche perché spiega «altre spese tra finanziamento e stipendi sono già ridotte all'osso. È incredibile per Finazzi Agrò, «riconoscere che il 90% dell'Ffo serva a coprire gli stipendi e il restante 10% per,tutto il resto». Anche per Corrado Petrocelli magnifico di Bari c'è il problema di far quadrare i conti di una gestione che ha sforato per il 95,8% il tetto di spesa. Petrocelli snocciola i risultati di una gestione economica che è costretta a fare del risanamento l'asso nella manica: dall'incremento dal 20 al 30% delle risorse liberate col turnover all'aumento del 22% per gli stanziamenti destinati alla ricerca scientifica. ________________________________________________ LA STAMPA 12 mar. ’08 ERASMUS:ITALIA COSTOSA E INEFFICIENTE Sondaggio tra gli studenti stranieri Bocciatura dai ragazzi Erasmus L'Italia? Bella e accogliente, ma anche costosissima, incapace di garantire un alloggio a prezzi contenuti, can università male organizzate, in cui le strutture sono pessime e l'inglese non lo parla nessuno 0 non è indispensabile. Insomma: è meglio visitare il Belpaese da turisti che da studenti. È un ritratto a tinte fosche quello che scaturisce dal giudizio dei quasi 1500 studenti di 28 Paesi che, dopo aver soggiornato con un programma universitario Erasmus in 28 città italiane, hanno risposto al questionario on-line dell'ESN, la più grande associazione di studenti d'Europa. Le difficoltà maggiori che uno straniero incontra in Italia sono infatti la confusione all'università (31,3%) e i prezzi elevati (31,3%). Seguono il problema di trovare un alloggio (27%) e quello della lingua (10,4%). Per il 71% degli intervistati l'università è organizzata peggio di quella del loro Paese: il 39,6% dice che le strutture sono pessime, il 24,4% ritiene che i servizi Web siano organizzati male, il 19,5% se la prende can le informazioni e il 16,5% boccia i professori. Addirittura I'82% è convinto che da noi si spenda di più rispetto al proprio Paese. Unica consolazione: il 60% confermerebbe la scelta, ritenendo l'Italia ancora «un Paese meraviglioso». tenei. no alla secessione"« _____________________________________________ Corriere della Sera 10 mar. ’08 STATO DIGITALE, RIVOLUZIONE A METÀ Con la campagna elettorale si riparla di e-government, cioè di informatizzare la pubblica amministrazione per spendere meno, semplificare la burocrazia e dare servizi migliori ai cittadini. In particolare il leader del Pdl Silvio Berlusconi, quando gli viene chiesto con quali tagli di spesa pubblica finanzierà la riduzione fiscale, risponde: con iniezioni di Stato digitale. Ovvero il rimedio meno impopolare tra quelli possibili. In realtà l’e-government non sembra dare benefici percepibili (e neppure risparmi) quando si limita a spalmare computer su strutture vecchie. Anzi: se usato male può far spendere di più. Mentre funziona, e molto bene, quando si accompagna alla riorganizzazione: ma proprio qui incontra gli ostacoli maggiori. Il registro digitale delle imprese, introdotto dall' allora ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini negli anni Novanta, è considerato una delle migliori applicazioni di e-government. Prima, aprire una società per azioni era un calvario burocratico: Uno dei freni era la cosiddetta omologa del Tribunale, documento che veniva richiesto solo da 4 Paesi nel mondo. Quando ci si ripropose di semplificare l'operazione, si incontrò l'opposizione dei magistrati che si vedevano sottrarre un pezzo di potere. Tuttavia il ministro proseguì; e il risultato è che oggi per costituire una spa ci vogliono 24 ore. Al sistema delle imprese l'innovazione ha fatto risparmiare 26o milioni di euro. Altri risparmi per lo Stato (go milioni di euro ranno) li ha generati l'operazione Fisco online. Ma anche a livello locale i casi positivi non mancano: la telemedicina da quattro anni sta facendo spendere qoo mila euro in meno ranno all'Asl di Treviso. «Gli esempi di servizi innovativi non mancano - dice il numero uno di Microsoft Italia Mario Derba -: dal sito Internet dei carabinieri, che stabilisce un nuovo tipo di dialogo coi cittadini, all'Intranet della Regione Veneto; dalla gestione sanitaria in Sardegna al progetto eDemocracy della Provincia di Genova». Tuttavia sono casi isolati, che disegnano un' Italia a macchia di leopardo. E le riforme importanti, come la firma digitale, restano incompiute. «In tutti i Paesi avanzati - dice Marco Mena di Between - si sta ragionando su come rendere più efficace l'azione dello Stato informatizzato. Quanto a noi, l'Italia con Bassanini è partita bene, ha mantenuto un certo impulso con Stanca ma poi ha rallentato. Il risultato è che l'e-government non ha ancora avuto un impatto forte, generalizzato e percepibile sulla qualità dei servizi al cittadino, sulla semplificazione della burocrazia e sui risparmi di spesa pubblica». Una rivoluzione a metà. «Per completarla - sintetizza lo stesso Bassanini - la strada è quella di mettere insieme i vari pezzi di un sistema ancora frazionato attraverso una profonda riorganizzazione gestionale. Smaterializzando le operazioni, facendo comunicare sistemi che ancora non si parlano e soprattutto abbattendo i muri che separano le amministrazioni». L'altro obiettivo è estendere le singole innovazioni positive. Una strada è quella seguita da Lucio Stanca, l'ex manager Ibm poi ministro dell'Innovazione con Berlusconi, con il finanziamento dei progetti di aggregazione multi- comunale. I risultati sono stati modesti, perché pochi Comuni creano innovazione e pochi imitano, o meglio «riusano», come si dice in gergo. «Aggregare Stanca», ha ironizzato qualcuno. Anche se all'ex ministro viene riconosciuto il merito di aver indirizzato verso l’hi-tech parte dei finanziamenti prima destinati solo a ponti e strade. In epoca Prodi il ministro Luigi Nicolais ha incentivato i Comuni a «riusare». Mentre il ministro per gli Affari regionali Linda Lanzillotta ha concentrato le risorse su pochi progetti innovativi come l’infomobilità e la misurazione della customer satisfaction. Se l’e-government non decolla, insomma, non è soltanto per inadeguatezza di fondi: il piano del Cnipa prevede la ragguardevole spesa di 6 miliardi in g anni, 2 nel solo 2008. Un ostacolo è la frammentazione delle competenze, a partire dal governo. Solo Bassanini ebbe la responsabilità complessiva di Funzione pubblica, e-government e Regioni. Berlusconi l'ha spezzata in 3, e non sempre scegliendo uomini pro-innovazione (il suo ex ministro della Funzione pubblica Luigi Mazzella si fece togliere il computer dalla scrivania perché «più adatto alle segretarie»). E anche nel governo Prodi non di rado si sono confrontate visioni contrastanti tra Nicolais e Lanzillotta. Un altro problema è il ruolo del Cnipa, aspirante regista dello Stato digitale, alla cui testa c'è il fisico nucleare Fabio Pistella. «Stiamo creando una struttura che lavora per obiettivi - dice l'ex direttore dell'Enea - ma facciamo i conti con due limiti: la mancanza di un sistema di premi al merito e l'equilibrio delle competenze al nostro interno: tanti ingegneri e giuristi, pochi esperti di organizzazione». Per i suoi critici invece il Cnipa è un organismo «costoso e difficilmente riformabile», i cui compiti andrebbero affidati a una cabina di regia molto più leggera all'interno del ministero della Funzione pubblica. Alla formazione di manager statali di alto livello avrebbe dovuto contribuire la creazione di un «Ena italiano» sul modello dell'Ecole Nationale d'Administration francese, unificando i 4 istituti esistenti. Ma l’Ena italiano, che faceva parte del programma Prodi, non è mai nato. Anche - si spiega - per l'opposizione del ministro Nicolais (collegio elettorale Napoli) che ha difeso l’«autonomia» del Formez, uno dei 4 istituti da unificare. Edoardo Segantini Semplificazioni Oggi per costituire una società per azioni bastano 24 ore e un computer L'innovazione ha fatto risparmiare 260 milioni di euro al sistema delle imprese L'e-government è in sofferenza non per mancanza di fondi (sono stati stanziati 6 miliardi in 3 anni), il vero problema è la frammentazione delle competenze _____________________________________________ IL FOGLIO 3 mar. ’08 COME FACCIO A NON FAR VINCERE IL MIO FIGLIOCCIO? I concorsi onesti, quelli cioè ve i candidati sono valutati solo secondo il merito, sono impossibili La Stampa, venerdì 22 febbraio Che i concorsi universitari siano truccati lo sanno tutti. Ci sono tuttavia casi diversi, come nelle partite di calcio. Se si gioca fuori casa, è onorevole anche solo il pari. Ma se si gioca in casa, non vincere è assolutamente disonorevole. Se l'Università di Torino bandisce un concorso, deve assolutamente vincere il candidato torinese. Se non ci sono candidati torinesi, non si fa il concorso. Trovare i soldi per bandire un concorso costa un sacco di fatica; è normale che debba vincere il candidato della Università che bandisce. Per i figli si possono spendere soldi, ma non si spendono, se non sono figli (legittimi, o almeno naturali). Mentalità familista, si dice, tipicamente italiana. Si amministra la cosa pubblica (l’Università) come se fosse la propria famiglia, con gli stessi criteri. C'è anche il piacere (legittimo) di avere una propria scuola, e dunque il desiderio di mandare in cattedra i propri allievi. In scrivo delle cose di valore, e i miei allievi scrivono anch'essi delle cose di valore. Perché non dovrebbero vincere? Si, ci sono anche gli altri, ma è molto difficile riconoscere che gli altri sono meglio di me, e che gli allievi degli altri sono meglio dei miei. Ovviamente ci sono delle eccezioni, ma valgono quello che valgono, cioè nulla. Ad esempio, a Torino, nel settore Teatro, 7 docenti su 17 non sono torinesi, cioè ben il41% (con qualche eccellenza di grande valore: Franco Perrelli, scandinavista di rilevanza internazionale: Alessandro Pontremoli, il maggior studioso italiano di danza). Ma si tratta, per altro, di una virtù che nasce da un vi zio, dalla incapacità della sede torinese a creare dei propri allievi. Cosa assolutamente anomala, nella storia dell'università italiana, dove anche il più stupido crede di aver prodotto una scuola e degli allievi. Dunque, normalmente, quando ci sono degli allievi, si spingono gli allievi, per i motivi che ho detto, che sono prima di tutto psicologici. Come può un maestro spiegare al proprio allievo, che il concorso a ricercatore l’ha vinto un altro, che viene da fuori, perché è più bravo di lui? È una umiliazione senza fine: per il maestro prima ancora che per l'allievo. Conosco un barone torinese, che non riuscì a far diventare associato il proprio ricercatore, in un concorso bandito da Torino: ci mise due giorni, prima di telefonare all'allievo, e dirgli che aveva perso. Sono situazioni dolorosissime. Un po' come quando i figli scoprono che il padre socialmente non vale nulla: niente di più doloroso e avvilente, per i figli e per il padre. Poi ci sono le miserie umane, le fragilità della carne: un maestro che sfrutta per anni un allievo, che gli fa fare il portaborse, gratis, senza un euro di rimborso (non per cattiveria, ma perché non ci sono soldi in Università): che gli fa fare esami, che gli fa seguire delle tesi di laurea, che si fa sostituire da lui a lezione, quando sta male, oppure quando va a sciare o va al mare in barca a vela. Quando, dopo anni. di sfruttamento, arriva un concorso a ricercatore, può questo maestro non far vincere il proprio allievo, anche se riconosce che ai concorso si è presentato un altro più bravo del suo? A quel punto, il posto di ricercatore è quasi un diritto acquisito, come una cambiale pagata in ritardo. Ma il bello (o il brutto, decidete voi) è quello che accade quando, per accidente, c'è una situazione del tutto pulita. In un concorso di ricercatore cui ho partecipato recentemente, stranamente, ha vinto il migliore. I tre commissari si sono trovati d'accordo a elaborare una sorta di griglia valutativa di 100 punti (da 1 a 35 punti per le pubblicazioni dei candidati. 8 punti per il titolo di dottore di ricerca, massimo di 15 punti per ciascuna delle due prove scritte, IO per l'orale, ecc.). S'intende che l'impianto puzza lontano un miglio di ingegneria sindacalese (o sindacalista), utilizzata a piene mani per i concorsi degli statali. Ma, comunque, il marchingegno ha una sua oggettività, attenua il rischio di una discrezionalità che diventa facilmente arbitrio. Soprattutto se si ha l'onestà di evitare trucchi, ricorrendo opportunamente a qualche sapiente accorgimento (decidere i temi degli scritti solo un quarto d'ora prima delle prove, così da evitare fughe di notizie; correggere gli scritti, e valutarli, a busta chiusa, cioè senza guardare chi è l'autore dei medesimi). L'Università che bandiva il concorso non ha voluto però che mettessimo a verbale questa griglia: avremmo dovuto inserirla nel verbale della prima seduta (quella in cui appunto si indicano i criteri). Insomma, che la griglia restasse un nostro ragionamento interno, in qualche modo segreto. Vista tuttavia la bontà dei risultati, alcuni colleghi di Teatro (impegnati successivamente in nuovi concorsi di ricercatore) hanno cercato di riprodurre il meccanismo, inserendo la griglia sin dal verbale della prima seduta. Colpo di scena! A parere inconfutabile dell'Università in questione (una Università seria, non cialtrona) la griglia non va bene: Ho provato a chiedere all'ufficio concorsi dell'Università di Torino. Stessa risposta: la legge istitutiva degli attuali concorsi, inventata da Berlinguer, prevede procedure di valutazioni comparative fra i candidati, e non, dunque, assegnazione di punti, che implica una sorta di oggettività .matematica, che è l'esatto contrario di quanto richiesto dalla legge. Come dire che è la legge stessa a invocare e pretendere la discrezionalità (che poi diventa arbitrio), al posto di un minimo di rispetto oggettivo dei dati. Naturalmente non sono un ingenuo. Non voglio veramente dire che il difetto sta nel manico, che la corruzione dei concorsi sta nella legge, e non già nei commissari. Diciamo che il manico non è stato fatto dall'accidente, cioè che la legge stessa si è costituita a difesa dell'arbitrio. Ovviamente, non succede solo in campo universitario. È tutta l'Italia che funziona in questo modo. È come quando si arrestano piccoli delinquenti (ma qualche volta anche grandi delinquenti) che vengono immediatamente rilasciati, senza nemmeno un giorno di galera: perché, a fronte di reati di quel certo tipo; la legge non prevede la galera. Roberto Alonge _____________________________________________ Il Sole24Ore 12 mar. ’08 I MEDICI DAVANTI AI GIUDICI Lo Stato non ha pagato tutti i corrispettivi agli specializzandi Medici davant~ Alessia Piovesan Negli Stati Uniti si chiamerebbe "Medici specializzandi vs Stato italiano" e soprattutto sarebbe una class action. In Italia, dove la legge sulla class actian attende i regolamenti attuativi, quello dei medici già specializzati o ancora in specialità è un ricorso collettivo contro l0 Stato. Chiedono un risarcimento per non avere ricevuto, durante la specialità, uno stipendio adeguato agli standard europei, oltre al versamento dei contributi. In Emilia-Romagna sono già circa 80o i medici che aderiscono (100 a Bologna, 200 a Modena e altri ioo tra Reggio Emilia, Parma e Ferrara). In Umbria si registrano circa 100 domande, tra Terni e Perugia, mentre nelle Marche, ad Ancona, sono circa un centinaio. Stessa cifra anche in Toscana. I dati crescono di giorno in giorno (dalle 10 alle 20 adesioni quotidiane per studio legale). Per ora in tutt'Italia hanno deciso di fare causa allo Stato più di 3mila medici, ma si stima che gli interessati potrebbero essere circa asmila. «Sono coinvolti in particolare i medici che hanno conseguito il diploma o hanno iniziato la specialità negli ultimi cinque anni, per non incorrere nei termini di prescrizione, ma anche gli altri si tengano informati», spiega l'avvocato Giuseppe Pinelli dello studio legale Pinelli Schifani, alla guida del pool di avvocati di qo studi legali che coordina il ricorso a livello nazionale. Ricorso promosso inizialmente dal Sims, il Segretariato italiano medici specializzandi. Il fascicolo verrà presentato al giudice del lavoro, perché di lavoro si tratta, quello dei medici che durante la specialità esercitano la loro professione nelle strutture ospedaliere regionali abilitate. La richiesta di risarcimento allo Stato parte da quello che medici e avvocati definiscono un diritto leso, almeno in base alla normativa vigente. Nel 1993 una direttiva europea (93/16/CEE) aveva stabilito che lo stipendio degli specializzandi italiani dovesse essere lo stesso dei colleghi europei e che dovessero essere versati loro i contributi previsti. Nel '99 un decreto legislativo (blgs 517/ 99) recepì la direttiva: ogni specializzando firmava con l'Università un normale contratto di formazione lavoro. Una rivoluzione per i giovani medici: da borsisti a 930 euro mensili (al lordo delle trattenute assicurative) a lavoratori subordinati. In realtà, il diritto venne attribuito ma di fatto disapplicato. A ribadirlo nel 2005 arrivò un'altra legge (la 2GG/os), che imponeva l'obbligo di applicare la norma a partire dall'anno accademico 2pob°zoo7. Tutto rimase però solo sulla carta e si continuò a lavorare in ospedale senza beneficio di ferie, pensione maternità e malattie, con il divieto di accettare qualsiasi altro impiego. 501o nel 2007 la svolta, grazie a un decreto del presidente del Consiglio dei ministri: il contratto di assunzione doveva essere stipulato con l'Università e la Regione. Erano previsti anche uno stipendio "europeo" (1.700 euro mensili) e il versamento dei contributi. «Secondo le nostre stime questo ritardo avrebbe fatto risparmiare allo Stato una cifra notevole, intorno ai .2 miliardi e 80o milioni di euro», puntualizza l'avvocato Francesco Caronia dello studio legale Piielli Schifani _____________________________________________ Il Sole24Ore 12 mar. ’08 IN BASILICATA LA CARTELLA CLINICA CORRE SUL WEB di Marco Montrone Partirà sabato prossimo, dall'Asl 5 di Montalbano Jonico (Matera), il protocollo sperimentale del Fascicolo sanitario elettronico (Fse). La Basilicata è cosi la prima regione italiana a organizzare un tale sistema, che permette di elaborare e consultare tutti i dati clinici del paziente, grazie alla costruzione diuna cartella clinica virtuale. «Tutti i dati -Giovanni De Costanzo, dirigente dell'ufficio Pianificazione sanitaria della Regione-, dalla degenza ospedaliera alla cartella clinica fatta dal medico di base, saranno racchiusi in una scheda elettronica che può essere consultata in qualsiasi momento da qualsiasi medico, anche in ambulanza». «Altre regioni hanno avviato sistemi analoghi - aggiunge Fabrizio Ricci, responsabile tecnico del progetto -, ma sviluppati su modelli molto localistici e a macchia di leopardo». Orala Basilicata aprirà un periodo di "prova" (finanziato con quasi un milione dal Cipe e circa 500mila euro dalla Regione), per arrivare alla costruzione di un modello definitivo entro fine anno. Il sistema si avvale della partnership dell’Itb (Istituto di tecnologie biomediche) del Cnr. Il Fse mira principalmente a rendere disponibili ai soggetti autorizzati, quando e dove necessario, le informazioni cliniche di ogni singolo cittadino. Paziente che però può anche negare il consenso alla condivisione di informazioni su una prestazione medica da lui ottenuta. Il Fse, uno dei cardini per la costruzione di un sistema compiuto di Sanità elettronica, é un elemento imprescindibile per qualsiasi esperienza di telemedicina. Di «vera e propria rivoluzione» parla l'assessore regionale alla Sanità, Antonio Potenza «Sono particolarmente soddisfatto,perché si apre una fase straordinaria per i nostri cittadini. l" un segnale sulla qualità e l'organizzazione della sanità lucana che lanciamo al Sud e all'intero Paese. Con questa progetto qualsiasi medico sarà in grado di conoscere, in qualsiasi momento la vita sanitaria di ciascuno di noi, fin dalla nostra nascita». _____________________________________________ Panorama 23 mar. ’08 II LIBRO NERO DELLA MALASANITÀ DONATELLA MARINO e ANTONELLA PIPERNO L'anno scorso «bastavano» 240 giorni. Adesso per una colonscopia in un ospedale pubblico se ne possono aspettare anche 300. Ma c'è la scorciatoia, spesso nella stessa struttura: in intramoenia: pagando di tasca propria quell'esame si fa in 15 giorni. Idem per la risonanza magnetica: 270 giorni (lo scorso anno 180) contro 10. Sono numeri del rapporto Pit salute 2007, che Panorama ha letto in anteprima: Cittadinanzattiva li presenta il 18 marzo, per i 10 anni del suo Tribunale dei malato. Tanti quanti quelli del Servizio sanitario nazionale, introdotto il23 dicembre 1978. Sarà l'occasione per fare il punto sullo stato di salute della sanità pubblica. Parecchio acciaccata a giudicare dalle notizie di cronaca. Come la donna che al Policlinico di Bari lo scorso novembre, dopo l'asportazione del colon, diceva ai medici di sentirsi malissimo: «Lei ha una forma di depressione acuta, se ne torni a casa». Il giorno dopo è entrata in coma ed è morta. «Qui non c'è il Dottor House, non siamo mica in tv, statevene al vostro posto» si sono sentiti invece apostrofare dai paramedici dell'ospedale Galliera di Genova i figli della signora che a dicembre, dopo una endoscopia, vomitava bile. È morta in due giorni. Storie di malasanità che si sommano agli otto morti di Castellaneta del maggio scorso (l’anestetico era finito per errore nei tubi dell'ossigeno), a quelli di Vibo Valentia, al degrado dell'ospedale calabrese di Melito, appena sequestrato dai Nas. Eppure, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, l'Italia figura al secondo posto, dopo la Francia, per capacità e qualità di assistenza in rapporto alle risorse investite. Malati e cronache si confrontano con una realtà e I'Oms ne fotografa un'altra? Il fatto è che l’Oms tiene conto di parametri quali la lunga aspettativa di vita degli italiani e l'accessibilità per tutti del sistema sanitario italiano, che garantisce dai farmaci per l'influenza al trapianto di rene. Però sorvola su altri fattori. Gli errori. C'è chi, come l'associazione Aiuto (Associazione italiana per l'umanità e la trasparenza negli ospedali), propone stime da brivido: in Italia ogni anno morirebbero 54 mila ricoverati, «come se ogni giorno precipitasse un aereo con 150 passeggeri». L'Ania, associazione nazionale imprese assicuratrici, accusa: 16 mila sarebbero le denunce che riguardano le strutture sanitarie (+41 per cento in 10 anni) e 12 mila quelle relative ai singoli medici (+ 134 per cento). Va precisato che non sempre queste denunce hanno fondamento. Dice la sua anche il Cineas, consorzio del Politecnico di Milano per la gestione globale dei rischi in sanità: su un totale di 8 milioni di ricoveri l'anno, 320 mila persone subirebbero danni causati dalle cure. Un problema tale che a Roma è attiva da sei anni un'associazione, Periplo familiare, che cerca di risolvere le controversie fra medici e pazienti senza passare dal tribunale: le mediazioni andate a buon fine sono già 1.200. Maurizio Maggiorotti, presidente di Amami (associazione nata sei anni fa per difendere i medici accusati di malpractice) puntualizza: in molti casi si tratta solo di un'operazione di demolizione della classe medica. «Siamo l'anello debole della catena» lamenta. «Le assicurazioni ci hanno aumentato le polizze dei 400 per cento». In Italia, sebbene la si invochi da anni, manca un'autorità super partes (come il Nice inglese e lo Jcaho degli Usa) e così ognuno fornisce le sue stime. «Sicuramente gli errori ci sono» conferma a Pan-ama Ignazio Marino, trapiantolologo di fama e presidente dalla commissione Igiene e sanità del Senato. «Ma in assenza di una raccolta dati trasparente dare numeri è sbagliano». Negli Stati Uniti, informa, gli errori vengono esaminati nella riunione «mottaliry and morbiliry». «l’autorità» conclude «potrebbe vigilare sul funzionamento degli ospedali, chiudendo quelli fuorilegge». Molti italiani, in ogni caso, non si sentono in buone mani. Secondo un sondaggio del Cineas, su 1.000 intervistati il 40,9 per cento ha paura di rivolgersi al pronto soccorso, il 29,1 di entrare in sala operatoria, il23,7 considera ad alto residuo la fase diagnostica, seguita dalla degenza postoperatoria (4,2 per cento) e da quella preoperatoria (3,7 per cento). «I pazienti sono preoccupati» ribadisce Teresa Petrangolini, presidente di Cittadinanzattiva: il Pit salute, basato sulle segnalazioni dei ricoverati, rileva che le aree più a rischio sono ortopedia, oncologia e ginecologia. Per prevenire l'errore e tenersi alla larga da sofferenze e tribunali (solo a Roma per la grande mole di cause c'è un, gruppo specializzato di sei pm) fioriscono i manuali di autodifesa: da Salute e diritti dei cittadini (Baldini Castoldi Dalai) della stessa Petrangolini, a Errrnr. Rapporto su una realtà allucinante di Massimo Di Paola, primario all'ospedale di Bracciano, convinto che l'errore umano sia la conseguenza di una tendenza al risparmio: «Cattiva organizzazione, turni massacranti, scarso personale». la malasanità rimbalza in tv: Canale 5 sta preparando la fiction Crinzini bianchi, prodotta da Pietro Valsecchi, anche lui vittima in passato di un errore medico. Già nel mirino dei dottori, che hanno lanciato una petizione online «per boicottare la Mediaset» si ispira a storie vere: dalle ruberie di «Lady Asl» a Roma al caso Castellaneta. Nella vita reale si cercano soluzioni. Cittadinanzattiva con il Cnr punta a più trasparenza nelle cartelle cliniche, indispensabili davanti al giudice: i primi risultati di uno studio in corso rilevano che molti passaggi vengono omessi, difendersi diventa quindi più complicato. Sempre che la cartella arrivi in tempo utile in tribunale: la legge prescrive 30 giorni dalla richiesta, talvolta si aspetta anche due anni. Alcune regioni, a cominciare dalla Lombardia, hanno reso obbligatoria la presenza nelle strutture sanitarie del «risk manager», professionista con il compito di gestire ed evitare i rischi in corsia. «Ma la situazione è ancora a macchia di leopardo» lamenta Carlo Ortolano, direttore del Cineas. Intanto il ministero della Salute ha attivato un monitoraggio sperimentale degli «eventi sentinella», inadempienze gravi che nel 68 per cento dei casi hanno condotto alla morte del paziente e nel 32 per cento hanno causato grave danno, disabilità permanente o nuovi ricoveri, anche in terapia intensiva. Errori chirurgici: la parte sana operata invece di quella malata, complicanze postanestesia, garze dimenticate nella pancia. Un'indagine (ancora parziale) che ha dato vita a 15 linee guida per evitare errori. Otto sono state già diffuse. Il ministero sta elaborando le altre sette, a partire dalla «gestione dei dispositivi medici», compresi i gas che si usano in anestesia. Se applicata avrebbe scongiurato l'errore di Castellaneta. Reparti a rischio. A Padova, nell'ultimo anno, tre persone sono morte per un'epatite C che avrebbero contratto in ospedale. Un'eccezione? No, te infezioni ospedaliere colpiscono da uno a sette pazienti ogni 100 mila, con un'incidenza tra il4,5 e il7 per cento dei ricoveri e la mortalità dell' 1 per cento. È vero che in Svizzera l'incidenza si attesta al 13 per cento, ma la Germania è al 3,6. Per ridurre il fenomeno basterebbe seguire procedure standard, dalla più banale, lavarsi le mani (abbatterebbe il 30% per cento di infezioni), al non andare al bar in camice, al non far passare per la stessa via lo sporco (dai rifiuti alle lenzuola) e il pulito, pazienti inclusi. Aggiunge Maria Grazia Pompa, direttore dell'Ufficio malattie infettive del ministero. «Le infezioni danneggiano i pazienti ma sono anche un costo aggiuntivo». E in regioni già in deficit peggiorano i conti. Anche la certificazione di qualità non decolla. Non è obbligatoria, come richiesto da molti. Nel reparto gastroenterologia ed endoscopia digestiva dell'ospedale di Borgomanero (Novara), in assenza d'investimenti pubblici, se la sono fatta finanziare da privati. Costo: 25 mila euro. «Ora dobbiamo seguire procedure precise e documentarle» spiega Pietro Occhipinti, direttore del reparto. «Così usiamo strumenti monouso che garantiscono sterilità e sicurezza per il paziente». Quanti sono reparti e strutture certificate ? II ministero ha avviato una prima rilevazione che si chiude il31 marzo. Delle 380 aziende sanitarie locali, con un totale di circa 1000 ospedali, 214 dichiarano di avere un sistema di certificazione della qualità esterno. Laboratori e reparti doc sarebbero solo 1.891 (e con un C per cento di certificazioni scadute). Gli addetti ai lavori dicono che con la sola verifica delle certificazioni anticendio (questa si obbligatoria) non mancherebbero sorprese. Politica in corsia. «La salute di un cittadino rischia spesso di finire nelle mani di un medico che tra i suoi meriti vanta soprattutto quello di appartenere a un partito» sostiene Marino. «Non è spoils system, ma assoluto dominio della politica. Siamo di fronte a una piaga» incalza Petrangolini. Il perché di tanto interesse lo spiegano i 100 miliardi di euro spesi ogni anno che fanno della sanità la terza impresa italiana, dopo quella manifatturiera e prima di banche e assicurazioni. E poi ci sono appalti, consulenze, affari. Non sempre trasparenti. Ecco il perché di frasi (intercettate) come quella di Domenico Crea, consigliere regionale calabrese con mire sull'assessorato alla Salute: «ha sanità ha 3 miliardi e 360 milioni di euro ogni anno, con me sono diventati rutti miliardari». Crea a gennaio è stato arrestato nell'operazione Onorata sanità che ha smascherato un patto tra 'ndrangheta e politici. Liste d'attesa. Nell'Italia dei Cup, centri unici di prenotazione regionale che con una semplice telefonata dovrebbero assicurare una visita nel minor tempo possibile, succede che per una mammografia si possa aspettare fino a 540 giorni (l'anno scorso erano 400) e per un intervento di cataratta 240 giorni (180 nel 2006). Cittadinanzattiva è convinta che il rispetto dei tempi sia uno dei più violati in Italia. E che oggi l'intramoenia (soprattutto per i controlli dopo gli interventi chirurgici e per i malati cronici) sia presentata come opzione per aggirare le liste d'attesa anziché come possibilità di scegliere un medico specifico. Secondo il Censis la lunghezza delle liste d'attesa è un problema per il 78,7 per cento del campione in Piemonte, dal 77,7 degli umbri, dal 77,9 dei pugliesi e dall'83,5 per cento dei sardi. Intanto quelli del Sud vanno a farsi visitare al Nord, oppure privatamente, rischiando di andare a far parte di quei 400 mila italiani che, secondo l'Oms, ogni anno vanno incontro alla bancarotta per sostenere di tasca propria i costi delle cure. Eppure ci sarebbe una legge, la 12() del 2007 che riordina il lavoro dei medici dipendenti negli ospedali pubblici equiparando il volume dell'attività nel pubblico e nel privato: «Le due liste d'attesa, la pubblica e l’intramoenia (a pagamento), non dovrebbero essere una più lunga e una snella, ma livellarsi» auspica Marino. Ma c'è anche un altro dettaglio: i Cup non sono ancora decollati, per ora funzionano a pieno ritmo solo in Emilia Romagna, nel Lazio, in Lombardia, in Basilicata, Molise. «E poi puoi anche avere i migliori Cup della terra, ma se gli ambulatori sono aperti solo al mattino, allora è tutto inutile» fa notare Petrangolini. Dopo l'intesa Stato-Regioni del marzo 2006, i governatori hanno adottato il piano di contenimento delle liste. Tra due mesi, quando il ministero divulgherà i dati del primo monitoraggio, si saprà se l’hanno messo in pratica. Sanità a due velocità. Ci sono problemi organizzativi, ma anche di professionalità. All'ospedale di Forlì, per esempio, i farmaci vengono tenuti in sacchetti con il codice a barre, per evitare scambi, mentre «a Vibo Valentia i medici non avevano mai eseguito una tracheostomia, intervento semplice e salvavita» segnala Marino. Rincara Cesare Cursi, della commissione parlamentare d'inchiesta sull'efficacia del sistema nazionale sanitario: «l’attività della commissione ha evidenziato un'Italia divisa in due. Nel Centro-Sud esistono situazioni, soprattutto gestionali, aberranti. Oltre a Vibo, Castellaneta e al Policlinico Umberto I di Roma, Giaccone e Villa Sofia a Palermo hanno carenze organizzative preoccupanti. A Villa Sofia è stato rimosso il direttore sanitario». È al Sud-Isole che, secondo il Censis, si registra la quota più alta di cittadini (8,6 per cento) che ha subito danni durante il ricovero. «La legge 120 del 2007 ha stabilito che se un amministratore non utilizza i soldi per ammodernare le strutture, e in Finanziaria sono stati stanziati 3 miliardi di euro, può essere rimosso» ricorda Marino. «Non è ammissibile che 1 milione di cittadini si spostino dal Sud al Nord per curarsi». Intanto però, nell'Italia del federalismo sanitario, succede. Con la Lombardia che da sola calamita il20 per cento dei pazienti in trasferta: anche l'ex governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, quando il padre è stato male l'ha portato a Verona. Ia Sicilia insieme a Lazio, Abruzzo, Campania, Liguria e Molise è fra le regioni che hanno ricevuto il richiamo del ministro Tommaso Padoa-Schioppa per i bilanci in rosso. Per il servizio sanitario l'Italia spende 100 miliardi di euro (il 47 per cento della spesa pubblica) paria 1.688 euro pro capite. Ma come vengono investiti? Il dossier Osservasalute dell'Università Cattolica di Roma parla di «rapporto ampiamente variabile a livello regionale». E non è detto che a maggiore spesa corrisponda un miglior servizio: la Lombardia, secondo il rapporto, investe il 4,66 per cento del pii (contro una media nazionale del 6,9), la Basilicata e la Campania rispettivamente l’8,77 e il9,89 per cento. Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia sono classificate «con bassi livelli di spesa e scarsi risultati nella funzionalità dei servizi e per la salute della popolazione». Lazio, Campania e Calabria sono anche le regioni con le percentuali più alte di posti letto privati. Non mancano le preoccupazioni sui piani di rientro dal deficit: «Il rischio» si legge nel rapporto «è che per alcune regioni questo percorso stia avvenendo a discapito della quantità e della qualità dei servizi». Solo per il Lazio i tagli nel 2008 ammonteranno a 585 milioni. A farne )e spese sono spesso posti letto e servizi piuttosto che appalti e consulenze d'oro. Sprechi, questi si trasversali, che spesso finiscono in procura, come nel caso del San Giovanni di Roma, l'ospedale che per un presunto errore di un computer ha gonfiato i numeri dei ricoveri moltiplicando i costi per pasci e lavanderia. Un regalo di 5,7 milioni di euro. «Prima della caduta del governo la commissione parlamentare d'inchiesta aveva iniziato a occuparsi delle truffe al sistema sanitario e dei controlli sui bilanci» racconta Erminia Emprin (Rifondazione comunista). «Adesso si sta accertando che quello del San Giovanni fosse davvero un errore informatico». e Confronto fra Uste d'attesa: i tempi del pubblico e dell’intramoenia (a pagamento) secondo il rapporto Pit salute 2007 preparato da Cittadinanzattiva- Tribunale del malato. __________________________________________________________ Unione Sarda 6 mar. ’08 NELLA SANITÀ NON CI SONO MIRACOLI DI FRANCO MELONI Tra i miracoli previsti in occasio- ne del 150° anniversario dell’apparizione della Madonna di Lourdes c’è, a quanto pare, l’eliminazione del deficit della sanità sarda e in effetti le AASSLL non presentano più quei terribili "buchi" nei bilanci che avevano invece caratterizzato le gestioni dei direttori generali precedenti che, arrivando dal vivaio del centrodestra, potevano produrre soltanto debiti. In una recente intervista l’assessore dichiara che ha ereditato un buco di 274 milioni nel 2004 e che l’ha progressivamente ridotto a 210 (2005), 87 (2006) e quasi a zero nel 2007: glissa elegantemente sul fatto che avendo governato per sei mesi anche nel 2004 un minimo di responsabilità sul buco dovrebbe averlo anche lei, ma lasciamo perdere. Però è tutto vero, i buchi non ci sono più e i bilanci del 2007 saranno chiusi in ordine praticamente in tutte le aziende, cosa di cui i direttori generali e lo stesso assessore vanno fieri perché questo è l’unico campo in cui i paragoni con i predecessori sembrano credibilmente vincenti. D’altra parte mettere la spesa sanitaria sotto controllo è una cosa da far tremare i polsi alle migliori menti che nel mondo si esercitano nella difficile scienza dell’economia e qui in Sardegna, a quanto pare, ci siamo riusciti: un miracolo da esportare, non è vero? Ma in Sardegna siamo stati davvero così bravi? Vediamo. Esaminiamo il quadriennio 2000- 2003, interamente governato dal centrodestra, e quello 2004-2007 in cui a governare è stato il centrosinistra, precisando che il 2004 è stato diviso a metà tra le due coalizioni e che per il 2007 ci basiamo su proiezioni tratte dai modelli CE relativi ai primi tre trimestri dell’anno. Nel 2000 la spesa è stata di 1892 milioni, cresciuti a 2150 nel 2001, a 2183 nel 2002 e a 2196 nel 2003 con un incremento complessivo pari, nel quadriennio, al 16 per cento. Nel 2004, anno le cui impostazioni finanziarie si devono al centrodestra ma la cui spesa è stata governata al 50 per cento tra le due coalizioni, la spesa lievita fino a 2442 milioni facendo segnare il record del buco, circa 274 milioni di euro. Successivamente governa la Giunta Soru e, come l’assessore ricorda con orgoglio, il buco scompare in tre anni: come avviene il miracolo? Semplice, finanziando preventivamente l’intera spesa sin dall’inizio dell’anno. Infatti il centrodestra - per ragioni legate alla sua precaria maggioranza in Consiglio - non è mai stato in grado di mettere in bilancio i soldi necessari per coprire i costi (pur prevedibilissimi) e quindi a fine anno quasi tutte le AASSLL finivano in rosso. Il centrosinistra, invece, dotato di una maggioranza dove è difficile che uno o due consiglieri possano fare ricatti, mette regolarmente in bilancio i fondi necessari a coprire le spese, per cui i conti chiudono in pareggio. Tra il 2004 e il 2007 si è passati da 2442 a circa 2700 milioni di spesa con un aumento dell’11 per cento o del 23 per cento se si prende in considerazione l’ultimo anno interamente governato dal centrodestra. Vale a dire che non vi è stata una diminuzione della spesa ma anzi un aumento non molto diverso da quello degli anni precedenti e basta guardarne l’andamento per rendersene conto. Insomma c’è stato solo un modesto rallentamento della crescita della spesa ma nessun miracolo può essere accreditato all’attuale Giunta che, anzi, ha trovato le coperture della spesa sanitaria solo attingendo ai famosi 500 milioni di euro all’anno anticipati dai bilanci futuri, cosa sulla cui regolarità vi sono molti dubbi e sulla quale è attesa entro pochi giorni una temutissima (dalla Giunta) pronuncia della Corte Costituzionale. Se quest’ultima dovesse sancire che si tratta solo di entrate fittizie che coprono buchi reali, la Regione si troverebbe costretta a far emergere un buco di bilancio enorme, altro che pareggio. Considerata la diffusa insoddisfazione di medici, infermieri e, soprattutto, dei pazienti, l’allungamento delle liste d’attesa, la sostanziale mancanza di iniziative importanti che ha caratterizzato questi tre anni e mezzo, e al netto delle promesse dei molto futuri nuovi ospedali finanziati con risorse di cui ancora non si sa niente di preciso, davvero era necessario distogliere dalle sue funzioni universitarie la professoressa Dirindin? Qualunque modestissimo politico sardo avrebbe potuto fare lo stesso, aumentare le poste di bilancio e poi dire che aveva eliminato il buco, dimenticando però di dire che la spesa continua a salire più o meno alla stessa velocità di prima. __________________________________________________________ Unione Sarda 5 mar. ’08 CONTRO LA “MALASANITÀ” FUTURI MEDICI PIÙ INFORMATI All’Università di Cagliari un corso per studenti: al centro il tema delle corrette comunicazioni DI GIANCARLO GHIRRA cronaca di tutti i giorni la notizia di medici incriminati o sospesi dal lavoro per episodi di malasanità. Talvolta i processi si concludono con condanne, spesso con assoluzioni, ma di fatto il rapporto medico paziente è sempre più condizionato da possibili risvolti giudiziari, al punto che si parla ormai di medicina difensiva, con i sanitari non più liberi nelle scelte diagnostiche e terapeutiche ma sempre più condizionati dalla volontà di evitare comportamenti che possano metterli a rischio di denunce giudiziarie. La questione è talmente scottante che la facoltà di Medicina dell’Università di Cagliari ha deciso di organizzare, insieme alla facoltà di Giurisprudenza, un corso destinato agli studenti (dotato di crediti formativi pari a quelli dei vecchi esami complementari) dedicato esplicitamente al rapporto fra medico e sistema giudiziario. Organizzato da docenti di Medicina legale e Diritto civile e penale (Ernesto D’Aloia, Carlo Pilia, Leonardo Filippi) il corso vedrà la partecipazione di ottanta studenti (40 di Medicina, altrettanti di Giurisprudenza) e prevede, anche la partecipazione di attori. Centrale nell’operazione è il coinvolgimento diretto degli studenti nella simulazione di due processi penali per casi di malasanità: ad esempio pazienti morti per diagnosi sbagliate o pinze dimenticate nel loro stomaco. Inutile dire che le domande di partecipazione sono state assai numerose, perché cresce di giorno in giorno la preoccupazione fra i futuri medici per i rischi giudiziari. Gli errori, soprattutto in chirurgia e nell’emergenza, sono piuttosto numerosi, e gli organizzatori ( i presidi delle due facoltà Gavino Faa e Massimo Deiana) lanciano l’allarme. «Considerando il numero di medici coinvolti in vicende giudiziarie e la durata media dei processi - affermano - si può affermare che oggi un chirurgo ha ottanta probabilità su cento di trascorrere un terzo della propria vita lavorativa sotto processo. Oggi sono ben ventimila in Italia i medici coinvolti in cause civili e penali, e le nostre facoltà intendono aiutare i futuri operatori a capire come funzionano i meccanismi del sistema ». Grande rilievo verrà dato agli aspetti psicologici del rapporto medico-paziente «anche perché - sostiene il professor Faa - il 90 per cento dei processi nasce da comunicazioni sbagliate. Siamo convinti che un rapporto corretto con il paziente e i suoi parenti possa evitare gran parte della conflittualità». Da qui l’esigenza di curare l’aspetto del consenso informato e della verità da comunicare al paziente, per eviÈ tare disguidi e incomprensioni. Il corso rientra nella serie di iniziative che la facoltà di Medicina ha assunto negli ultimi anni con l’obiettivo di una crescente umanizzazione del rapporto fra sistema sanitario e malati. Negli uffici della presidenza di facoltà uno staff attivissimo (Antonia Serreli, Giuseppe Manca, Laura Di Pietro) organizza una nutrita serie di seminari e convegni sui linguaggi della Medicina e sul corso di Bioetica realizzato insieme alla Facoltà di Filosofia, mentre sta decollando (partirà il 12 marzo) un seminario sull’organizzazione e il management sanitario, che vedrà professionisti del settore spiegare agli studenti degli ultimi anni di medicina come gestire le strutture sanitarie. La facoltà di Cagliari è capofila di un progetto nazionale sull’umanizzazione del rapporto medico-paziente, ma anche infermiere- paziente ritenuto decisivo per una buona sanità. «Nella maggior parte dei casi - spiega il preside Gavino Faa - i pazienti e i loro familiari non hanno le competenze tecnico professionali per valutare le capacità professionali di medici e tecnici. Ecco dunque la centralità del rapporto umano». Un tema sul quale i professori di medicina (fra loro Vassilios Fanos) si sono incontrati con docenti di Filosofia e Psicologia (fra gli altri Antonio Cadeddu, Pietro Rutelli, Giancarlo Nonnoi, Alberto Granese) dando vita già in passato a un corso di Bioetica e Filosofia in Medicina di tale rilievo da meritare la pubblicazione in un volume edito dalla casa editrice Franco Angeli. La scelta di un anno fa è ora in corso di ripetizione per il secondo anno consecutivo, con un corso rivolto agli studenti di Medicina del quarto anno costruito in collaborazione con la facoltà di Psicologia e quella di Filosofia. E va detto che il ministero dell’Università ha investito 400 mila euro nel progetto affidato alla facoltà cagliaritana, al quale partecipano anche atenei dle calibro della Cattolica di Roma, Palermo, Napoli e Padova. Il corso non si limita a lezioni teoriche, ma prevede ad esempio una serie di questionari (distribuiti al Policlinico di Monserrato ma anche nelle altre Cliniche universitarie e nelle facoltà umanistiche coinvolte) che hanno lo scopo di scoprire e indagare nelle esigenze dei pazienti: esperienze, immaginario, pregiudizi, paure e aspettative dei malati nei confronti del sistema sanitario vengono così allo scoperto. E non soltanto sulla carta, ma nella realtà della vita quotidiana in corsia.«L’umanizzazione - dice ancora il professor Faa - ha molte facce e anche molte necessità e oggi non può non far parte del bagaglio professionale di un medico del Duemila. Un medico al quale tentiamo di fornire, oltre l’indispensabile bagaglio tecnico linguaggi che gli ocnsentano di cogliere la persona umana nella sua interezza di corpo e psiche, sentimenti ed emozioni, paure ed entusiasmi. Ecco perché i linguaggi filosofico, giuridico, psicologico, sociologico entrano a far parte di un cucciculum formativo di prim’ordine». Basta dunque con gli sbarramenti e le barriere fra le diverse discipline e le diverse facoltà, ma al contrario vengono promosse sinergie fra mondi a torto ritenuti nel passato recente lontani, quali Medicina e Psicologia, e, ancor di più, Medicina e Filosofia, al contrario vicinissime nel momento in cui nacquero i loro fondatori. All’origine le due discipline erano vicinissime, ma nei millenni le strade si sono divise, con la Filosofia interessata a studiare la persona nella sua complessità e la Medicina limitata a occuparsi di malattia. Con la conseguenza che spessi i malati sono stati dimenticati, o, almeno, trascurati. Ora si tenta di colmare questo divario. A Cagliari l’operazione- umanizzazione è scattata nell’autunno del 2007, quando gli studenti assistettero al dibattito tra un medico legale e un filosofo nel ciclo di film con discussione dedicati a bioetica e filosofia in medicina. E quest’anno si replica. A giorni, intanto, per l’esattezza di 12 marzo, decolla il corso “Vivere meglio con più e meno”, nel quale studenti degli ultimi tre anni e specializzandi verranno iniziati ai segreti del management sanitario. In tempi di costi crescenti e risorse pubbliche calanti, la questione è di grande attualità. In fondo la Sanità è garantita a tutti da chi paga le tasse, e in cambio chiede livelli elevati di qualità. _____________________________________________ Il Sole24Ore 7 mar. ’08 UNA MACCHINA PER «LEGGERE» I PENSIERI Studio Usa sull'uso della risonanza magnetica funzionale di Francesca Cerati L’interpretazione dei sogni-così come la conosciamo - ha fatto il suo tempo. A mandare in pensione Freud & C. è, neanche a dirlo; la tecnologia nella sua versione più moderna: la risonanza magnetica funzionale (Rmf) e un particolare software capaci, insieme, di leggere con impressionante precisione cosa un individuo sta immaginando. Così, "farsi un film" sui pazienti sarà per gli psicanalisti di domani un gioco da ragazzi. Il progresso decisivo nella lettura della mente è opera del team californiano dell'Università di Berkeley guidato da Jack Gallant, che ha pubblicato lo studio sull'ultimo numero di Nature. In pratica, gli scienziati americani sono riusciti, con uno scanner diagnostico e un pc, a indovinare 9 volte su io l'immagine che i volontari stavano guardando. Potenzialmente, il sistema potrebbe far luce su come il cervello rielabora le informazioni visive, è un giorno, chissà, leggere i sogni o recuperare quei frammenti di memoria archiviati da qualche parte del cervello. L'approccio inaugura un trend emergente nel campo della diagnostica per immagini, ovvero sfruttare la Rmfper analizzare l’elaborazione delle informazioni neurali. Dopodiché, attraverso modelli computazionali, gli scienziati potranno Valutare in che modo i segnali vengono trasformati nelle aree cerebrali, determinando alla fine una sola percezione. Metodi simili potrebbero essere utili anche per determinare deficit cognitivi. O capire fenomeni cerebrali complessi come l'attenzione. Perché... attenzione, una questione ancora aperta -e che danna i neuroscienziati - è quella di comprendere su cosa una persona convoglia il suo interesse. Un esempio: di fronte a un quadro che raffigura una nave in un mare in burrasca, quale elemento figurativo, cattura l'attenzione dello spettatore? La barca o i marosi? Le attività neurali e le informazioni acquisite dalla Rmf potrebbero infatti cambiare a seconda di dove sì concentralo sguardo di chi osserva. E poi c'è la spinosa applicazione in campo investigativo, come macchina della verità. AL momento, la quasi totalità degli scienziati pensa che non ci siano sufficienti dati per stabilire quanto il "rivelatore di bugie" sia affidabile. Gallant stesso lo esclude: «Qualsiasi macchina che mira a decodificare pensieri memorizzati avrà inevitabilmente due limiti: il grado di risoluzione della tecnologia e la qualità delle informazioni archiviate». Una risonanza magnetica funzionale del cervello Prenota l'hotel e dormi tranquillo ______________________________________________ Agenzia sanitaria italia 3 mar. 08 ITALIA SEMPRE PIU’ DIVISA NELLA GESTIONE DELLA SALUTE RAPPORTO OSSERVASALUTE 2007 Progressiva divaricazione e assenza di specifici percorsi di convergenza: è così che appare la sanità italiana con un sistema sempre più eterogeneo nelle performance economico-finanziarie, come testimoniato da spesa sanitaria, avanzi disavanzi, modalità di allocazione delle risorse, equilibri/squilibri economici delle aziende, nelle varie Re;ioni. Le differenze che allontanano sempre di più le Regioni seguono talvolta un chiaro gradiente NordSud (come per la spesa sanitaria rispetto al Pii, col valore massimo registrato in Campania - dati 2004 - pari al 9,89% più che doppio del valore minimo, registrato in Lombardia, pari a 4,4(%), altre volte (come per la spesa procapite) il confine tra Regioni a Statuto speciale e quelle a Statuto ordinario. E l'Italia è divisa anche sul fronte dell'assetto istituzionale e organizzativo del Ssn, situazione che indica una progressiva perdita di quell'unitarietà di approccio che ha rappresentato uno dei fondamenti essenziali nella costituzione del Ssn. E quanto emerge dal V Rapporto Osservasalute 2007 presentato il 26 febbraio scorso all'Università Cattolica. Il Rapporto è pubblicato dall'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane che ha sede presso l'Università Cattolica di Roma e coordinato dai professor Walter Ricciardi, direttore dell'Istituto di Igiene della Facoltà di Medicina e Chirurgia. L'assetto istituzionale e organizzativo del Servizio Sanitario Nazionale, afferma il Rapporto, si presenta sempre più articolato ed eterogeneo tra Regione e Regione. Seppure in parte ciò sia il risultato di diverse esigenze regionali/territoriali, questa situazione in realtà indica una progressiva perdita di quell'unitarietà di approccio che ha rappresentato uno dei fondamenti essenziali nella costituzione del Ssn. Ad esempio la distribuzione del personale amministrativo nelle aziende, che è indicativa della capacità delle Aziende Sanitarie di raggiungere l'equilibrio economico fra le risorse acquisite e i costi sostenuti per assolvere alla loro funzione di tutela e di erogatori di prestazioni, risente Ma numerosità e della efficienza con cui operano i dipendenti amministrativi nello svolgimento delle loro attività. Pur con le difficoltà che possono riscontrarsi nel fornire un giudizio sul merito della questione, sottolinea il Rapporto, emerge certamente una forte eterogeneità nell'incidenza di questa tipologia di personale tra Regione e Regione: infatti se in media circa l’11,82% dei dipendenti delle Asl e Aziende Ospedaliere italiane ricopre il ruolo amministrativo, si registra una variabilità elevata che oscilla da un minimo di 9,22% in Molise a un massimo di 15,5I°io in Valle d'Aosta, con una differenza di 6,29 punti percentuali. Per questo dato non esiste un gradiente Nord-Sud, il Nord-Ovest ha valori più elevati con 13,01% seguito dal Sud con 12,15%, dal Centro con 11,20%, dalle Isole con 11,05% e infine dal Nord-Est con 10,98%. I DISAVANZI REGIONALI Ma le differenze si manifestano anche sui risultati che si riflettono sui disavanzi prodotti dalla gestione regionale. Il Servizio sanitario nazionale mostra ancora un disavanzo strutturale in senso complessivo. II disavanzo sanitario pubblico è infatti di 43 euro per persona (ovvero quasi 2,5 miliardi di euro in aggregato). I disavanzi tra il 2003 e il 2006 si sono incrementati anche se il tasso di crescita rallenta. Questi disavanzi però noti sono equamente distribuiti, Regioni del Sud, come la Calabria sono in avanzo, ma confrontando il dato con la spesa pro-capite questo avanzo, come accade per la Basilicata e in parte per le Marche, sembrerebbe testimoniare una "sottospesa". Alcune Regioni in difficoltà si sono rimboccate le maniche, producendo buoni risultati in termini di rientro da situazioni spesso disastrose. Tra queste spiccano la Provincia Autonoma di Bolzano e la Regione Molise. Non possiamo dire la stessa cosa per Lazio e Sicilia dove gli incrementi del disavanzo tra il 2003 e il 2006 sono rispettivamente di 159 e 141 euro. L'analisi mette in evidenza che lo squilibrio macroeconomico dipende chiaramente da squilibri "strutturali" ancora presenti sia nelle Asl che nelle Ao. Anche se la perdita media delle Ao è inferiore rispetto a quella delle Asl, questa situazione di squilibrio a livello aggregato, continua a persistere negli anni presi in considerazione (2001-2005). Solo nelle Regioni a Statuto speciale (tutte tranne la Sardegna) il dato medio è stato positivo nel 2005 e in alcuni anni precedenti. Solo la Lombardia, tra le Regioni a Statuto ordinario, mostra una situazione di pareggio sia per le Asl che per le Ao. Nel Lazio nel 2005 la perdita delle Asl è stata in media di oltre 160 milioni di euro, il risultato peggiore a livello nazionale. Questi dati ha commentato Atnerico Cicchetti, ordinario di Organizzazione aziendale alla Facoltà di Economia dell'Università Cattolica - dimostrano ancora una volta la presenza di differenze estremamente marcare tra Regioni Italiane. Almeno sotto il profilo della performance economica, misurata con il parametro del disavanzo (avanzo) non sembra più esistere un gradiente Nord Sud marcato. La differenza si avverte tra le Regioni che negli anni hanno accumulato competenze tecniche per il governo del sistema unitamente a lungimiranza politica (vedi Emilia Romagna e Lombardia), quelle che invece pur partendo tardi si sono rimboccate le maniche, portando avanti coraggiosi piani di riequilibrio strutturale del sistema (come al Sud la Regione Puglia) e quelle che invece non hanno mai affrontato seriamente le questioni essenziali del controllo della domanda e della ristrutturazione dei sistema d'offerta. La Regione Lazio e la Regione Sicilia sono un esempio dell'incapacità di avviare politiche di riequilibrio strutturale. Nel Lazio l'azione è stata tardiva e da quanto appare è stata caratterizzata da un deficit di analisi dei fenomeni (soprattutto quelli economici) e dall'incapacità di distinguere - coraggiosamente e senza pregiudizi ideologici - la componenti 'sane' dei sistema (pubbliche o private che siano) da quelle palesemente inefficienti e inefficaci". ASSISTENZA TERRITORIALE Anche in questo ambito esistono forti disparità tra Regioni - ha dichiarato Gianfranco Damiani, docente dell'Istituto di Igiene dell'Università Cattolica - cosicché la visione della media nazionale effettivamente presenta dei limiti interpretativi. Le maggiori differenze si notano tra le Regioni del Centro Nord e quelle del Sud. Tuttavia - ha aggiunto Damiani - non è sempre possibile evidenziare un gradiente e spesso il fenomeno oggetto d'analisi ha una distribuzione a macchia di leopardo, o con realtà, anche locali che possono spiccare indipendentemente dalla localizzazione regionale. "Ciò è probabilmente attribuibile a una diversa velocità di sviluppo e modifica dei servizi sanitari territoriali in una logica di integrazione ospedale territorio. "È altresì importante segnalare un miglioramento sul fronte dell'assistenza territoriale: un trend in crescita a livello nazionale del numero dei pazienti trattati in Adi, nonostante comunque permangano notevoli disomogeneità". ASSISTENZA FARMACEUTICA Un'ampia variabilità di utilizzo e consunto tra le Regioni si conferma anche nell'ambito dell'assistenza farmaceutica, fermo restando però, ha sottolineato Simona Montilla dell'Ufficio Centro Studi Aifa, che "il Sistema Sanitario Nazionale attraverso l'assistenza farmaceutica territoriale, ma non solo, assicura a tutti i cittadini italiani la copertura farmaco-logica completa e gratuita delle patologie rilevanti, garantendo al tempo stesso l'erogazione di farmaci innovativi e di farmaci orfani per la cura di patologie rare nonché medicinali per uso compassionevole". Dal Rapporto emerge che in Italia nel 2006 il consumo totale di farmaci rimborsati dal Ssn è stato di 857 dosi definite giornaliere (Ddd) ogni 1.000 abitanti al giorno, con un aumento del 6,2% rispetto al 2005 e del 27,2% rispetto al 2002. Similmente agli anni precedenti, il Lazio e le Regioni meridionali, in particolare Sicilia, Calabria e Campania, confermano consumi maggiori rispetto alla media nazionale. Anche nel 2006 i consumi farmaceutici più elevati si registrano nel Lazio. Le Province Autonome di Trento e Bolzano mostrano i consumi più bassi, seguite da Piemonte e Lombardia. La spesa farmaceutica territoriale pro capite Ssn nel 2006 i stata di 228,80 euro con un aumento del 9,0% rispetto al 2001 ed una riduzione del 1,2% rispetto al 2005. Il Lazio e le regioni meridionali, in particolare Sicilia, Calabria, Puglia e Campania, tendono ad avere una spesa pro capite nettamente superiore al valore medio nazionale. Sicilia e Lazio sono state le regioni con la spesa più elevata. Le Province Autonome di Bolzano e Trento, la Toscana, la Valle d'Aosta e l'Emilia-Romagna hanno presentato la spesa più bassa. "Però - ha tenuto a sottolineare Montilla - questi incrementi di consumi c spesa si accompagnano a un aumento anche del consumo e della spesa di farmaci a brevetto scaduto che offrono il vantaggio di erogare terapie consolidate a prezzi competitivi, rendendo disponibili risorse utilizzabili per l'accesso dei cittadini a terapie innovative. In Italia, infatti, nel 2006 il consumo per farmaci a brevetto scaduto è aumentato dal 14% al 25,3% rispetto al 2002 e analogamente la spesa è passata dal 7% al 13,7%: Toscana, Lombardia e Piemonte presentano nel 2000 i valori più elevati in termini di percentuale di utilizzo sul totale delle Ddd prescritte, pari a 28,2%, 27,4% o e 27,2%. "Quanto alla variabilità regionale in termini di consumo e di spesa pubblica - ha concluso Montilla - si tratta della risultante di fenomeni legati all'appropriatezza della prescrizione c/o all'efficienza nella gestione delle risorse disponibili da parte delle Regioni stesse, restando in ogni caso garantito per ciascun cittadino il diritto alla salute e all'erogazione gratuita di farmaci eleggibili per la rimborsabilità, senza distinzioni legate al territorio", ASSISTENZA OSPEDALIERA Passando ad analizzare l'assistenza ospedaliera emerge invece un quadro italiano, seppur con dei distinguo, più unitario: i tassi di ospedalizzazione complessivi tendenzialmente sono in lieve diminuzione, questo sia con il servizio sanitario nazionale la diminuzione dei ricoveri in regime ordinario che con un lieve aumento di quelli in regime day hospital. Nel 2005 il tasso di ospedalizzazione standardizzato a livello nazionale è 141 per 1.000 abitanti in modalità ordinaria e 66,78 per 1.000 in day hospital. L'analisi dei valori temporali conferma nel 2005 una riduzione del ricovero in regime ordinario di - 2,G% rispetto al2004 e di -3,8 % rispetto al 2003. L'analisi delle distribuzioni regionali mostra che, nel 2005> la riduzione dell'ospedalizzazione in regime ordinario si manifesta in tutte le Regioni. In particolare, i tassi standardizzati risultano maggiori in Abruzzo (192,32 per 1.000), Molise (175,39), Puglia (167,82) e Calabria (163,22), mentre i valori più contenuti appartengono a Toscana (109,46 per 1.000), Piemonte (110,G8), Friuli-Venezia Giulia (115,51) e Umbria (120,11). Il valore nazionale del tasso standardizzato di ricoveri ordinari si attesta a 141 ricoveri per 1.000 abitanti. Per contro, si rileva un incremento dell'ospedalizzazione in regime diurno minore rispetto a quello avvenuto dal 2003 al 2004, con variazioni percentuali pari a +1,5% tra 2005 e 2004 e +6,8 % tra il 2004 e il 2003. Per questo regime di ricovero non è evidenziabile un particolare gradiente geografico. I tassi oscillano da 37,29 per 1.000 abitanti (Friuli-Venezia Giulia) fino a 107,17 (Sicilia). "Queste dinamiche - ha spiegato Lucia Lispi della Direzione Generale della Programmazione Sanitaria, dei Livelli di assistenza e dei Principi etici di sistema, del Ministero della Salute - che presumibilmente continueranno a essere osservabili nei prossimi anni anche per effetto delle azioni conseguenti ai piani di rientro, stanno a significare che, soprattutto negli ultimi due anni, è iniziato un progressivo trasferimento di alcune prestazioni a livello di assistenza territoriale. Tale tendenza è confermata anche dall'analisi delle dimissioni per tipologia di attività che segna la diminuzione dei tassi per acuti e un aumento dei tassi dei ricoveri in riabilitazione, mentre è stazionaria l'attività di lungodegenza. Restano però ancora molto diversificati a livello regionale e piuttosto alti i tassi di ricovero nelle fasce di età "estreme" (<1 anno e >75 anni), segno di difficoltà nella progettazione delle reti ospedaliere e dei servizi territoriali. Si evidenziano cambiamenti nella degenza media complessiva: la degenza media standardizzata per case mix varia tra il minimo di 6,1 giorni di Umbria e Sicilia e il massimo di 7,8 del Lazio. La distribuzione dei valori regionali evidenzia un gradiente Nord-Sud, con la tendenza per le Regioni del Nord alla diminuzione, rispetto alla degenza media, dei valori assunti dalla degenza media standardizzata per case mix, indicativi di una maggiore efficienza operativa a parità di casistica trattata; nelle Regioni del Sud, invece, incluso il Lazio, si osserva una tendenza all'aumento della degenza media standardizzata per case mix, che mette in evidenza una minore efficienza operativa, in termini di consumo di giornate di degenza, per il trattamento e la cura di una casistica con la stessa composizione per Drg (Diagnosis Related group) di quella nazionale. Mentre le giornate di Degenze Medie Pre operatorie (Dmpo) per le patologie più frequenti dimostrano, sebbene tra 2002 e 2005 sia evidente una progressiva, seppure lieve una riduzione in quasi tutte le Regioni, ci sono ancora preoccupanti differenze tra Regioni (soprattutto tra Nord e Sud Italia); inoltre la Dmpo media nazionale registra una riduzione di entità assolutamente modesta in rapporto ai potenziali margini di miglioramento, da 2,13 giorni nel 2002 a 2,04 nel 2005. Meglio invece - ha affermato Lispi - sul fronte dei ricoveri in degenza ordinaria di alcuni Drg, ricoveri definiti "a rischio di inappropriatezza": il confronto dei dati 2004-2005 dimostra che tali ricoveri continuano a diminuire in coerenza con le indicazioni poste dal Dpcm 29/11/2001, seppure con risultati non uniformi in tutto il Paese LA POPOLAZIONE Andando a osservare la popolazione, emerge innanzitutto che la sua crescita si è ridotta rispetto al triennio 2002-2004 (quando segnava un +8,5 per mille per anno, soprattutto per gli effetti sia dei recuperi post-censuari, sia delle iscrizioni in anagrafe degli immigrati regolarizzati a seguito della legge "Bossi-Fini"). Oggi il saldo medio annuo totale è di +5,7 per mille residenti. Tra le Regioni, però, solo il Molise si è aggiunto alla Basilicata e alla Calabria con una popolazione in calo numerico. Il saldo naturale medio del biennio 2005-2006 si è accresciuto rispetto al triennio precedente, ma le Regioni hanno mantenuto il segno positivo o negativo che già avevano. A livello nazionale, dopo il valore positivo segnato nel 2004, il saldo naturale è tornato negativo nel 2005 e poi debolmente positivo nel 2006. L'aumento del saldo rispetto al triennio precedente è dovuto a un certo aumento nel numero medio di nascite (+14.000 circa +3%), mentre il numero medio dei decessi è rimasto praticamente invariato (+2.000); la ripresa della natalità non ha trovato ulteriori rafforzamenti nel biennio 2005-2006 rispetto a quanto già sottolineato nel triennio precedente. LA FECONDITÀ Andando a vedere i singoli fenomeni più da vicino emerge che la geografia della fecondità è cambiata nel Paese, e cambiamenti importanti sono avvenuti anche nel breve intervallo tra i due periodi a confronto (2003 vs 2006), peraltro parzialmente sovrapposti. La fecondità ha guadagnato più di 2 punti per mille in Emilia-Romagna, in Toscana e nel Lazio e 1,9 in Lombardia; nel contempo, in quasi tutte le Regioni meridionali il livello della fecondità si è ridotto tra 0,7 e 1,4 punti per 1.000, e anche le Province Autonome del Trentino-Alto Adige hanno visto ridursi la loro fecondità. In altri termini, è proseguito il processo di convergenza della fecondità regionale verso il valore medio nazionale: il coefficiente di variazione si è infarti ridotto, tra i due periodi, da 0,34 10,27. I Fattori di tali cambiamenti sono diversi, ma, semplificandoli sulla base dei dati qui disponibili, si possono ricondurre a: 1) le variazioni della fecondità delle donne italiane, molto forti, in positivo, in Emilia-Romagna (+4,4 punti per 1.000) e superiori a +2 punti per 1.000 anche nel Lazio e in Toscana, mentre le variazioni intervenute tra i due periodi a confronto sono state negative in quasi tutte le Regioni e province autonome a più elevata fecondità; 2) le variazioni della fecondità delle donne straniere quasi ovunque negative, seppur debolmente, in plausibile conseguenza delle recenti regolarizzazioni anagrafiche delle immigrate dai Paesi balcanici e dell'Est europeo, più anziane e meno feconde delle precedenti immigrate dai Paesi del "Terzo ,ondo"; 3) l'aumento della quota di immigrare, verificatosi in misura molto ampia in tutte le Regioni, ma che solo al Nord e al Centro può aver contribuito all'aumento della fecondità regionale. Infitti, in tutte le Regioni dal Lazio in giù !a fecondità misurata sulle straniere risulta simile o addirittura inferiore a quello delle native: se per il Lazio la numerosa presenza di personale religioso, e quindi nubile, pub giustificare questo fatto, per le altre Regioni esso è indice di un'immigrazione meno famigliare e radicata rispetto a quella che ormai caratterizza le Regioni del Nord-Centro. L’ETÀ DEGLI ITALIANI La Liguria si conferma Regione più vecchia: la metà di essa ha più di 47 anni e un altro quarto ha tra i 30 c i 46 anni, lasciando solo un quarto di popolazione con meno di 30 anni, e ciò nonostante una presenza non trascurabile di residenti stranieri nelle età giovanili e centrali. La Campania ha invece la popolazione più giovane, ha riferito Giuseppe Gesano, dell'Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma: dal Rapporto emerge che più della metà della popolazione ha meno di 37 anni e solo liti quarto ne ha più di 55". L’ITALIA CONTINUA A INVECCHIARE Invecchiano di più le Regioni più vecchie: le Regioni che già presentavano alti livelli di invecchiamento della popolazione residente sono andate incontro tra inizio 2003 e fine 2005 a processi di ulteriore invecchiamento più ridotti di quelli subiti dalle Regioni dalla popolazione meno invecchiata. Ma si assiste, anche per l'invecchiamento della popolazione, a un processo (li convergenza delle Regioni: per quanto riguarda nello specifico la popolazione anziana, O5-?4 anni, c'è una maggiore uniformità tra le Regioni. SPERANZA DI VITA Osservasalute 2007 conferma quanto osservato nel precedente Rapporto: nel 2003 si è verificato un vero e proprio rallentamento della speranza di vita. Inoltre nel 2006 alla nascita gli uomini italiani possono aspettarsi di vivere mediamente 78,3 anni; le donne 83,9 anni. Sia per gli uomini (con 79,2 anni) che per le donne (84,8), le Marche si confermano la Regione con la speranza di vita più elevata, quella più svantaggiata invece è la Campania, 76,9 anni per lui, 82,7 per lei. MORTALITÀ Anche per quanto riguarda la mortalità, i dati definitivi degli anni 2003 e 2004 confermano l'andamento generale dei dati provvisori della precedente edizione: sì osserva una consistente diminuzione della mortalità nel 2004 come conseguenza del l'anticipazione dei decessi verificatasi nel 2003. Nel 2004 i differenziali territoriali si restringono ulteriormente e il valore nazionale subisce una diminuzione dell'8,1% per gli uomini e de! 10,2% per le donne (il tasso è pari a 93,26 per 10.000 uomini e 54,22 per 10.000 donne). Inoltre nel 2004 è la Campania ad avere in assoluto i livelli di mortalità più alti (102,25 per 10.000 uomini; 62,62 per 10.000 donne), avendo negli ultimi due anni peggiorato la propria posizione relativa anche tra gli uomini, superando la Valle d'Aosta che per questi deteneva il primato negativo. Le Marche ritorna a essere invece la Regione che presenta in generale i tassi di mortalità più bassi del Paese (uomini e donne presentano tassi rispettivamente pari a 84,80 e 48,32 per 10.000), seguono Calabria e Puglia per gli uomini e Veneto, Umbria e Trentino-Alto Adige per le donne. STILI DI VITA Le abitudini degli italiani non sono ancora lodevoli sul fronte dei comportamenti che possono aiutarli a prevenire i "hig killer" dei nostri tempi, malattie cardiovascolari e tumori, anche se si registrano delle tendenze in miglioramento. Sul fronte del fumo, sembra crescere la consapevolezza che questo vizio nuoce alla salute; pur con differenze regionali si assiste infatti da] 2003 (Rapporto Osservasalute 2006) al 2005 a una riduzione del 3% dei fumatori, anche se i valori riguardanti i non fumatori e gli ex-fumatori sono rimasti pressoché invariati. Si registrano alcune differenze territoriali per la presenza di fumatori: nell'area dei Nord-Est si evidenziano percentuali più contenute rispetto al Sud (17,2% in Friuli-Venezia Giulia e 17.4% nella Provincia Autonoma di Trento vs 25,2% in Campania). La percentuale degli ex-fumatori risulta globalmente più elevata al Nord con valori superiori al 22% rispetto alle Regioni del Sud (Puglia 17,3°% e Campania 17,6%); a eccezione della Sardegna in cui si osserva il valore (23,4%) più elevato tra le Regioni del Sud. L'abitudine al fumo resta più diffusa fra gli uomini (28,3%) rispetto alle donne (16,2%) e con un maggior interessamento delle fasce di età comprese tra i 20 e i 54 anni, mentre i dati riguardanti i non fumatori mostrano una netta prevalenza tra le donne (66,4%) rispetto agli uomini (39%). CRESCE LA PANCIA DEGLI ITALIANI Dal confronto dei dati raccolti nelle precedenti indagini (anni 2002, 2003 e 2005, Rapporto Osservasalute 2007 e Rapporto Osservasalute 2006) il dato relativo all'obesità mostra un trend in aumento dall'8,5% al 9,9%. Si riscontra un gradiente NordSud di persone sovrappeso (valori superiori al 38% in Campania, Puglia, Basilicata e Calabria) e obesi (12,01% in Basilicata e 12,9% in Puglia), con la Sardegna (31,8% e 10,5%) che si avvicina, invece, ai dati rilevati nelle Regioni settentrionali, dove si registrano i valori più bassi (Piemonte 31,4% di persone in sovrappeso, 8,3% di adulti obesi, Valle d'Aosta, con 30,8% e G,6°ió, e Lombardia, 29,8% e 8,5%). La prevalenza di sovrappeso e obesità aumenta progressivamente all'avanzare dell'età, con tiri interessamento soprattutto delle fasce dai 45 ai 74 anni per gli uomini e dai 55 ai 74 anni per le donne. Inoltre, mentre i valori che riguardano la popolazione obesa sono sovrapponibili ira i sessi, a eccezione della classe di età compresa fra i 35 e i 44 anni (9,2%r uomini e 5,3% donne), la percentuale di uomini in sovrappeso (43,9%) è quasi il doppio di quella del sesso femminile (26,2%), con valori significativamente differenti in tutte le classi di età. SPORT, QUESTO SCONOSCIUTO Ancora troppo sedentari gli italiani: nel 2005 solo il 20,9%i della popolazione ha dichiarato di praticare in modo continuativo uno o più sport nel tempo libero e il 10,3% di praticarlo in modo saltuario. Le persone che hanno dichiarato di svolgere qualche attività fisica (come fare passeggiate per almeno due km, nuotare, andare in bicicletta o altro) sono il 28,2% mentre i sedentari (coloro che non praticano né uno sport né attività Fisica nel tempo libero) sono il 39,8%. Risultano più attivi gli abitanti del Nord rispetto a quelli del Sud, dove la sedentarietà è più frequente in Sicilia (58,6%). Si pratica maggiormente sport in modo continuativo nella Provincia Autonoma di Bolzano (38,5%), in Lombardia (25,6%) e in Veneto (25,3%), pochissimo in Molise (14%) e Campania (14,7%). Sono soprattutto i giovanissimi fra i 6 e i 19 anni a svolgere in modo continuativo la pratica sportiva, mentre lo sport svolto in modo saltuario coinvolge soprattutto i giovani appartenenti alle fasce di età 18-34; con l'aumentare dell'età aumenta, inoltre, la prevalenza di coloro che non praticano alcuna attività fisica. CONSUMI DI ALCOL IN AUMENTO Tra il 2003 ed il 2005 i "non consumatori" di alcol sono diminuiti in media a livello nazionale (29,2% vs 27,9%), fenomeno solo in parte ascrivibile all'invecchiamento della popolazione. II maggior numero di non consumatori nel 2005 si riscontra in Sicilia, pari al 37,21% della popolazione regionale, il minimo (20,91%) in Trentino Alto Adige. Il consumo a rischio in Italia presenta un trend in crescita con l'età per entrambi i sessi. Nella fascia di età superiore a 65 anni i valori di prevalenza più elevati si riscontrano per entrambi i sessi in Umbria, Molise, Marche, Friuli-Venezia Giulia e Veneto. Nella classe di età 19-64 anni il fenomeno appare molto diffuso in tutte le regioni e per entrambe i sessi ad eccezione di Sicilia e Trentino-Alto Adige. Tra i giovani (11-18 anni) le prevalenze al di sopra della media nazionale si registrano in alcune regioni del Centro-Sud (Puglia, Molise, Basilicata e Calabria) per entrambi i sessi, oltre che nelle Marche, in Toscana e in Campania tra le ragazze; in alcune regioni del Nord-Ovest (Piemonte e Lombardia) in Liguria e Sardegna tra i ragazzi. II fenomeno del binge drinking appare molto diffuso tra gli uomini nella fascia di età 19-G4 anni (I7%)> mentre tra le donne sia nella fascia di età 11 -18 (3,9%) che in quella 19-64 (3,5rVo). Tra i giovanissimi, i valori più elevati si registrano per entrambi i sessi nelle regioni del Nord. Nella fascia 19-64 per entrambi i sessi la regione più a rischio risulta essere il Trentino-Alto Adige. Tra gli ultra ó5enni le concentrazioni regionali di binge drinker appaiono consistenti per entrambi i sessi in Molise e Basilicata. Tra gli uomini, inoltre, elevate prevalenze si registrano anche in Abruzzo, Sardegna, Calabria e Trentino-Alto Adige e tra le donne in Toscana e Sicilia. LIEVE MIGLIORAMENTO DELLE ABITUDINI ALIMENTARI Nonostante gli indiscutibili e sempre maggiori problemi coi chili di troppo, in gran parte legati a cattiva ed eccessiva alimentazione, si deve però rilevare che nel 2005 in Italia la proporzione di persone che assume almeno 5 porzioni al giorno di ortaggi, verdura e frutta (indicatore obiettivo) è uguale a 5,3% ed è in leggera crescita rispetto al 2003 (4,5%). Si conferma il maggiore consumo di frutta e ortaggi 5+ volte al dì nelle regioni settentrionali e particolarmente del Nord-Est. Il Centro presenta in generale un andamento intermedio, insieme al Nord-Ovest, mentre tre regioni del Sud (Puglia, Basilicata e Calabria), sembrano consumare quantità inferiori. COPERTURA VACCINALE MIGLIORABILE Le coperture per Poliomielite anti-Difterite e Tetano (DT), o Difterite Tetano e Pertosse (DTP) DTDTP ed epatite B (HBV) sono uniformemente distribuite su tutto il territorio italiano, con una media nazionale superiore al 90%, che si allinea ai dati raccolti negli anni precedenti (Rapporto Osservasalute 2006); ci sono, però, regioni i cui valori sono ancora al di sotto degli obiettivi previsti (Provincia Autonoma di Bolzano, Calabria, Campania e Sicilia). Per quanto riguarda la vaccinazione morbillo-parotite-rosolia (MPR) i dati non sono ancora ottimali (Inedia nazionale 87,3%) e in confronto ai dati del 2003 si osserva una leggera riduzione della copertura (Rapporto Osserva salute 2006); nessuna regione ha raggiunto il 95%, obiettivo indicato nel Piano Nazionale per l'eliminazione del Morbillo e della Rosolia Congenita. Per quanto concerne L'Hib, negli ultimi anni si è osservato un aumento progressivo della copertura (anche se il valore risulta ancora sub-ottimale, con una media nazionale del 94,7%), probabilmente legato come già osservato per la Pertosse, all'effetto trascinamento che si è verificato con l’utilizzo di preparati vaccinali combinati con gli altri previsti nel primo anno di vita. INCIDENTI Resta elevato il contributo alla mortalità da incidente stradale nella fascia d'età fra 15 e 29 anni, dove questa specifica causa rappresenta la prima causa di morte. II controllo dei comportamenti a rischio (uso di sostanze psicotrope, alcolici e droghe comprese) e il controllo sulle strade da parte di organi di polizia stradale appaiono lungi dall'aver raggiunto diffusione e risultati ottimali su tutto il territorio nazionale. Pur tuttavia, occorre sottolineare l'incremento della diffusione di campagne di promozione di comportamenti corretti che, per poter essere maggiormente efficaci, necessitano di essere supportati da azioni di vigilanza sui comportamenti sulla strada, che abbiano caratteristiche di costanza e continuità. MALATTIE INFETTIVE AIDS Nel 2006 in Italia, sono stati notificati 996 casi di Aids, coli una progressiva riduzione delle notifiche che è stata registrata a partire dall'anno 1995. A livello geografico, le regioni che presentano I'incidenza più elevata di casi di Aids sono la Liguria, la Lombardia, l'Emilia Romagna e il Lazio; è comunque evidente la persistenza di un gradiente NordSud nella diffusione della malattia nel nostro paese, come risulta dai tassi di incidenza che continuano ad essere mediamente più bassi nelle regioni meridionali, in linea con quanto osservato negli anni 2004 e 2005. Per quanto riguarda la modalità di trasmissione, la distribuzione dei casi evidenzia corre il 57,7% del totale (riferito alla media degli anni) sia attribuibile alle pratiche associate all'uso di sostanze stupefacenti per via endovenosa. AUMENTANO SIFILIDE E GONORREA In base ai dati ricavati dalle verifiche obbligatorie per l'anno 2005, la sifilide è risultata più frequente rispetto alle infezioni gonococciche delle vie genitali sia nella classe di età 15-24 anni (2,9 casi per 100.000 rispetto a 1,1 casi per 100.000) che 25-64 anni (3,4 casi per 100.000 rispetto a 1,1 casi per 100.000). Per quanto concerne l'andamento nel periodo 2000-2005, globalmente si è osservato un notevole aumento dell'incidenza della sifilide (+320,3% su base nazionale nella classe di età 1524 anni e +329,1% nella classe di età 25-G4 anni) meno marcato per la gonorrea (+33,3% su base nazionale nella classe di età 15-24 anni e +52,2% nella classe di età 25-64 anni). Le regioni a maggiore incidenza sia nella classe di età 15-24 che 25-64 anni sono la Provincia Autonoma di Trento e il Lazio per la sifilide (rispettivamente 12,4 e 10,2 casi per 100.000 nella classe di età 15-24; 10,0 e 10,1 casi per 100.000 nella classe di età 25-64), la Provincia Autonoma di Trento per la gonorrea nella classe di età 15-24 (6,2 casi per 100.000) e la Provincia Autonoma di Bolzano nella classe di età 25-64 (3,4 casi per 100.000 nella classe di età 25-G4). Si riscontra, comunque, una generalizzata sottonotifica nelle regioni meridionali per entrambe le infezioni, sia nel 2000 che nel 2005. I TUMORI Il rischio oncologico complessivo del Sud, storicamente più basso, si sta avvicinando a quello del Nord. Esistono ancora delle differenze nei tassi d'incidenza tra regioni settentrionali e meridionali, ma sono sensibilmente ridotte rispetto al passato. Per quanto riguarda gli uomini si nota nell'ultimo decennio una riduzione di incidenza nel Nord (la diminuzione maggiore si riscontra in Veneto e Lombardia), contrastato da un aumento in alcune regioni del Sud (principalmente Basilicata e Canlpania). I tassi di incidenza nelle donne, invece, sono stimati in aumento in tutte le regioni, con una crescita più accentuata in alcune regioni del Sud (Campania, Puglia, Basilicata, Sardegna). ! trend temporali osservati negli uomini sono in larga parte riconducibili alla riduzione di incidenza del tumore del polmone, accompagnata da una parallela riduzione della prevalenza di fumatori nella popolazione maschile dagli anni '70 in poi. MIGLIORA LA PREVENZIONE ONCOLOGICA Grazie al sostegno normativo della L. 138/2004 e sotto l'impulso del Centro di Controllo delle Malattie e dell'Osservatorio Nazionale Screening la diffusione degli screening oncologici in Italia va aumentando. Dai dati disponibili si rileva, però, la persistenza dì una diffusione non uniforme con evidenti differenze tra il Nord ed il Sud, peraltro già evidenziate in precedenza. Tre quarti delle donne italiane di 50-69 anni risiedono in zone in cui è attivo lo screening mammografico, tuttavia al Centro-Nord si supera il 90%, mentre al Sud ci si attesta intorno al 40%. DISABILI LASCIATI ANCORA TROPPO SOLI In Italia sono circa il 10% le famiglie che hanno al loro interno almeno una persona con disabilità, di cui il 42% delle quali sono composte interamente da persone con disabilita, in prevalenza persone anziane che vivono sole. Il numero di persone con disabilità grave aumenta a 2 milioni 609 mila, pari al 4,8% della popolazione. Se a queste si aggiungono i disabili meno gravi, in grado di svolgere, ma con molta difficoltà, le abituali funzioni quotidiane, il numero sale a 6 milioni 606 mila persone, pari al 12% della popolazione di 6 anni e più che vive in famiglia. Si registra una maggiore frequenza di disabili in Sicilia e in Puglia (rispettivamente 6,6% e 6,2%)> mentre i tassi più bassi, intorno al 3,0%, si osservano nelle Province Autonome di Trento e Bolzano. La presenza di persone con disabilità ha un impatto rilevante sui bilanci familiari: circa un quinto dei consumi privati delle famiglie viene assorbito da esigenze direttamente ascrivibili alle persone con disabilità o agli anziani non autosufficienti presenti nel nucleo familiare. II sistema di welfare spesso non riesce a fornire un sostegno adeguato a queste famiglie: si pensi che solo il 21% riceve un servizio di assistenza domiciliare, a questo si aggiunga che l'isolamento di alcune famiglie, circa il 9%, è tale da non poter contare, in caso di bisogno, sull'aiuto da parte di persone non conviventi. II dato drammatico è che l’80% delle famiglie con persone disabili non risulta assistita dai servizi pubblici a domicilio ed oltre il 70%, soprattutto al Sud, non si avvale di alcuna assistenza, né pubblica né privata. Questo si traduce in un ulteriore aggravio economico per la famiglia, visto che l'assistenza va a gravare in toto sui suoi componenti. II quadro presentato testimonia come un numero rilevante di famiglie siano costrette a far fronte con risorse proprie alle difficoltà che la presenza di una persona disabile in famiglia comporta. SALUTE MENTALE E DIPENDENZA L'ospedalizzazione per disturbi psichiatrici è caratterizzata da un trend in diminuzione nella quasi totalità del territorio italiano. La variazione percentuale dei tassi standardizzati di ricovero tra il 2001 e il 2004 dimostra, per entrambi i sessi, l'andamento in diminuzione dei ricoveri con poche eccezioni (Lazio, Abruzzo, Sardegna). II tasso grezzo di dimissione ospedaliera per disturbi psichici sull'intero territorio nazionale è risultato pari a 52,4 per 10.000 abitanti nell'anno 2004 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati). Rispetto al 2001, si registra quindi una riduzione di ricoveri pari al 4,1 punti percentuali. II consumo di farmaci antidepressivi e antipsicotici rappresenta un ottimo tracciante del disagio legato alla patologia psichiatrica, ma ci segnala anche importanti differenze interregionali, da non sottovalutarsi in quanto non completamente attribuibili a differenti prevalenze di patologia ma, anche, ad una variabilità relativa all'accesso .ù servizi ed alla risposta fornita dagli stessi. Per quanto riguarda il tasso di utenza dei servizi per le tossicodipendenze, suddivisi per sostanza primaria il confronto 2003-2005 mostra una sostanziale stabilità del dato riassuntivo nazionale: il tasso di utenza per tutte le sostanze si mantiene infatti intorno al 25 per 10.000 abitanti. Si assiste, tuttavia, per il 2005, ad una notevole variabilità interregionale laddove i tassi presentano un range tra il 13 della Provincia Autonoma di Bolzano al 35 dell'Umbria. Tale difformità interregionale è comunque in calo soprattutto per un aumento progressivo dei soggetti in carico in quelle regioni i cui servizi risultavano carenti nel passato più recente. Quanto alla mortalità per abuso di stupefacenti si registra un decremento del tasso di mortalità dal 1996 al 2002. SALUTE MATERNO-INFANTILE Si registra un aumento dei tagli cesarei per tutte le classi di età, in particolare per le donne sopra i 44 anni, con grandi variabilità regionali e anche per tipo di struttura (più cesarei nelle strutture private). I dati dell'interruzione volontaria di gravidanza confermano, invece, una stabilizzazione generale del fenomeno; tuttavia> se si scompone il Fenomeno per cittadinanza, si osserva ancora una diminuzione tra le italiane ed un aumento tra le straniere. Per quanto riguarda i principali indicatori di salute del bambino (mortalità infantile e mortalità neonatale), si osservano delle diminuzioni nel tempo sebbene permanga il divario tra Nord-Centro e Sud che continua a registrare valori più elevati. Piemonte: LA REGIONE CON UN'OTTIMA ASSISTENZA OSPEDALIERA Fiore all'occhiello della Regione Piemonte l'assistenza ospedaliera e il filtro territoriale. Infatti il Piemonte si distingue nettamente in positivo rispetto al resto d'Italia: presenta un basso tasso standardizzato di dimissioni ospedaliere in regime ordinario - Anno 2005 pari a 110,68 per 1.000 (quasi a pari merito con la prima classificata Toscana), contro una media italiana di 141,00. Anche il tasso standardizzato di dimissioni ospedaliere per tutti ì Drg medici a rischio di inappropriatezza è inferiore alla media italiana. L'aspettativa di vita alla nascita non è invece una caratteristica che vede il Piemonte tra le Regioni migliori, essendo per i maschi pari a 77,9 anni, per le donne a 83,6 anni. Relativamente agli stili di vita in Piemonte si registra nel 2005 un numero discretamente basso di fumatori, sono il 20,9% della popolazione regionale over-14 contro una media nazionale del 22%; il 53,5% della popolazione è costituito da non fumatori, più della media nazionale che si assesta sul 53,2. Sul fronte del "girovita" i piemontesi si difendono bene, essendo in Italia tra quelli con meno chili di troppo: infatti, la percentuale di individui in soprappeso è pari a 31,4, una delle più basse del paese. Molto inferiore alla media italiana anche la quota di individui obesi, I'8,3% dei piemontesi, contro il valore medio italiano di 9,9%. Valle d’aosta: LA REGIONE CON LA PIÙ BASSA PERCENTUALE Di OBESI Con solo il 6,6% di adulti obesi, a fronte del 9,9% nazionale e il 30,8% di adulti in soprappeso, contro una media nazionale di 34,7, la Valle d'Aosta si classifica come la regione "più in linea" d'Italia, con il valore minimo nazionale di obesi e, dopo la Lombardia, !a regione con la minore percentuale di adulti in sovrappeso tra la popolazione residente. Registra una popolazione in costante aumento, sia per effetto dell'aumentata sopravvivenza, sia per l'inclusione di popolazione straniera immigrata. il saldo medio annuo nel biennio 2005-2006 è stato infatti di +7,8 perso ne per 1.000 residenti e nel 2006 l'indice dl fecondità della regione è superiore a quello medio nazionale con 40,3 nati vivi per 1.000 donne residenti contro 39,5 della media nazionale. Benissimo anche per la bassa percentuale di fumatori presente in regione: il 19,9% della popolazione over-14 contro una media nazionale del 22,0% e ben il 55,9% della popolazione è costituita da non fumatori (contro il 53,2 della media nazionale) facendo registrare il miglior valore dell'Italia centro settentrionale. LOMBARDIA: LA REGIONE CON LA MINORE PERCENTUALE DI INDIVIDUI IN SOVRAPPE50 Con solo il 29,8% dl adulti in soprappeso, contro la media nazionale di 34,7, la Lombardia si classifica come la regione col minor numero di individui in soprappeso. Bassa anche la quota di individui obesi, l’8,5% dei lombardi, contro il valore medio italiano di 9,9%. Bene anche sul fronte della popolazione, che in Lombardia risulta in crescita: il saldo medio annuo nel biennio 2005-2006 è stato infatti di +8 persone per 1.000 residenti per anno. Non a caso l'indice di fecondità della regione è a sua volta in crescita e tra i più elevati d'Italia: 40,8 nati vivi per 1.000 donne residenti nel 2006. Altro dato positivo per la Lombardia è l'aspettativa di vita alla nascita, per i maschi pari a 78,3 anni, per le donne a 84,2 anni. Per gli uomini la Lombardia è la regione che ha visto un maggior incremento della speranza di vita. Inoltre la Lombardia presenta una mortalità in progressiva riduzione: il tasso di mortalità oltre il primo anno di vita è pari a 94,58 per 10 mila abitanti nel 2004 tra i maschi, contro una media italiana di 93,26; 51,78 per 10 mila tra le donne, contro una media italiana di 54,22. E i "primati" lombardi non sono finiti: la Lombardia è l'unica tra le Regioni a statuto ordinario, ad avere una situazione di pareggio sia per le Asl che per le A0. Per quanto riguarda l'indicatore spesa/Pil, la Lombardia registra il valore minimo in Italia (4,66%), contro il valore medio italiano è del 6,40% del 2004. P.A. Bolzano: PRIMA IN CLASSIFICA PER PRATICA DI SPORT Con ben il 38,5% di abitanti che praticano sport in modo continuativo e solo il 15,6% di loro che non ne pratica affatto (dati anno Z005), la Provincia Autonoma di Bolzano si classifica come la più sportiva d'Italia. Altro primato positivo spetta a Bolzano per l'assistenza ai disabili la cui presenza è la minore in Italia; infatti, il tasso standardizzato di persone con disabilità di 6 anni e più che vivono in famiglia (anni 2004-2005), è pari al 2,9% (4,8% valore medio italiano) di questi il 54,4% sono donne: ben il 30,9% delle famiglie con almeno una persona disabile a Bolzano è ricorso all'assistenza domiciliare sanitaria (l'insieme di interventi a carattere sanitario, infermieristico e riabilitativo offerti a domicilio a favore di persone temporaneamente o permanente mente non autosufficienti a causa di patologie croniche stabilizzate che non richiedono ricovero in strutture ospedaliere) negli stessi anni, il valore più alto in Italia. Inoltre, la percentuale di famiglie con almeno una persona con disabilità che non ha potuto usufruire di questa assistenza, pur avendone bisogno, a Bolzano è la più bassa in assoluto, pari al 18,7%, contro una media nazionale del 32,8%. P.A. Trento:LA MINORE CRESCITA DELLA SPESA SANITARIA PRO CAPITE NEL PERIODO 2001-2006 Con un valore del 19,83% la Provincia Autonoma di Trento risulta in Italia quella con il minore aumento di spesa sanitaria pro capite nel periodo 2001- 2006, grazie, da un lato, all'azione di indirizzo dell'Amministrazione Provinciale, tesa alla razionalizzazione della spesa ed alla riqualificazione dei servizi, dall'altro all'azione di governo clinico dell'Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari che ha realizzato sul campo, pur a fronte di un ampliamento nell'offerta di servizi, le indicazioni strategiche. La disponibilità dei fondi per la sanità, per la provincia di Trento, risulta maggiore rispetto alla media nazionale, per cui il minor incremento della spesa va calibrato, nel raffronto con le altre regioni, sulla base dei valori di partenza. Inoltre Trento risulta avere al 2006 un discreto avanzo procapite pari a 56 euro. Trento, al 2006, vanta ancora un'aspettativa dl vita alla nascita per le donne tra le più elevate in Italia pari a 84,7 anni. Inoltre, presenta una mortalità in riduzione: il tasso di mortalità oltre il primo anno di vita è pari a 93,08 per 10mila abitanti nel 2004 tra i maschi, contro una media italiana di 93,26; 48,79 per 10 mila tra le donne, contro una media italiana di 54,22. Veneto LA REGIONE CON MENO RICOVERI ORDINARI CON DEGENZA DI UN SOLO GIORNO Con solo il 6,4% dei ricoveri il Veneto si classifica come regione col minor numero di ricoveri ordinari per Drg medici con degenza di un solo giorno, che rappresentano un importante aspetto dell'inappropriato uso dell'ospedale. Nella maggioranza dei casi i ricoveri che si concludono entro le 24 ore sono espressione, spesso, di imperfette valutazioni cliniche, di anomalie organizzative o di modelli assistenziali ancora troppo centrati sulla rete dei servizi ospedalieri piuttosto che su quella dei servizi territoriali alternativi al ricovero. II Veneto è tra le regioni più feconde, (40,7%° il suo indice di fecondità, ovvero 40,7 nati vivi per 1.000 donne residenti nel 2006), e l'indice di fecondità della regione è in crescita rispetto al 2003. Un dato positivo per il Veneto è anche l'aspettativa di vita alla nascita, per í maschi pari a 78,6 anni, ed il Veneto è una delle regioni in cui il tale dato è cresciuto di più negli ultimi cinque anni; per le donne a 84,7 anni. Inoltre, se andiamo ad osservare le malattie psichiatriche, in Veneto si riscontrano tassi di ospedalizzazione in forte diminuzione e più bassi rispetto alla media nazionale, il tasso grezzo di ospedalizzazione per disturbi psichici (includendo in questa definizione un'ampia gamma di disturbi tra cui le psicosi, le nevrosi, i disturbi della personalità ed altre patologie, anche correlate all'abuso di sostanze), è infatti di 48,7 casi per 10.000 nel 2004, contro il 52,4 medio in Italia ed è diminuito di quasi dieci punti percentuali dal 2001. _____________________________________________ Il Sole24Ore 9 mar. ’08 CHE MACHO QUEL DATO Secondo Ian Ayres, grazie alla diffusione di calcolatori potentissimi; oggi le analisi statistiche sono più affidabili degli esperti e dei riscontri fattuali di Roberto Casati A metà dell'Ottocento il dottor Semmelweis, macinando numeri, scopri come la mortalità delle puerpere nell'ospedale di Vienna era collegata al fatto che gli studenti che le visitavano passavano dalla sala delle autopsie alla sala parto senza essersi lavati le mani. I colleghi rifiutarono questo tipo di prova puramente statistica, Semmelweis perse il posto, ebbe un esaurimento nervoso e morì giovane, ma la medicina basata sulle evidenze statistiche era nata. Se anche oggi stenta a imporsi, ciò dipende da vari fattori. Semmelweis non sapeva quale fosse l'agente patogeno, e i suoi colleghi rifiutarono cartesianamente la validità di "fatti" che altro non sono che serie di numeri preferendo loro delle spiegazioni che presentano un meccanismo causale. C'è forse anche la difficoltà, per i medici, di delegare il proprio ruolo di esperto che sulla base dell'esperienza personale giunge alla diagnosi affidandosi all'intuizione. Il tema del libro di Ayres non è nuovo. La novità, e qui Ayres vede nel giusto, risiede nella combinazione esplosiva di due fattori: l'esistenza di calcolatori veloci e la possibilità di accedere a corpus vastissimi di dati. Gli algoritmi di Google e Amazonleggono la vostra posta, i vostri acquisti, quelli di "persone come voi", evi "suggeriscono" link e letture sorprendentemente accurati. Ayres, economista e avvocato, presenta una impressionante sequenza di casi in cui l'analisi statistica fornisce soluzioni ampiamente superiori alle intuizioni degli esperti, dalla valutazione dei programmi educativi e di assistenza sociale al rilevamento di coincidenze sospette nelle vittorie sportive e nelle gare di appalto che fanno pensare ad "aggiustamenti" illegali: Se analizzando i risultati delle aste per gli appalti vedete che l'offerta dei vincitori si discosta sistematicamente di poco da quella di chi arriva secondo, è molto probabile che il giudice abbia rivelato al vincitore l'entità dell'offerta da battere. Super Crunchers, titolo curiosamente lasciato in inglese che significa «super macinatori» (di numeri), è un libro ricco di storie interessanti e convincenti ma ha parecchi punti deboli. Vuole dimostrare che le analisi numeriche sono superiori all'intuizione degli esperti, ma gioca ambiguamente con le nozioni di "intuizione" e di "esperto", per cui non si capisce mai bene se il tema sia numeri contro esperti, numeri contro intuizioni, o esperti (di statistica) contro esperti di altre discipline. Inoltre pecca ampiamente della «maledizione della conoscenza» tipica degli esperti: non spiega granché delle tecniche statistiche i cui risultati vanta (la regressione lineare, vedi l'esempio inutile di pag. 31, il teorema di Bayes, eccetera; andiamo un po' meglio sui test con gruppi di controllo). L'equivoco della divulgazione scientifica che consisterebbe nel raccontare senza numeri e grafici naviga qui a gonfie vele, e tanto più fastidiosamente per un libro di cui numeri e grafici sono il soggetto. Particolarmente superficiale - e questo è un punto più importante, la vera occasione persa del libro - è l'analisi delle implicazioni sociali e politiche della diffusione capillare dei macinatori di numeri. Invero Ayres nota dei fatti interessanti, ma non li lega in un'analisi di ampio respiro. Uno dei suoi esempi è Google news, che mentre vi crea un quotidiano online ad hoc basato sulle vostre preferenze di lettura, filtra implicitamente anche le informazioni che potenzialmente trovereste "scomode". Non che Google voglia farvi del male, ma di fatto vi culla nell'illusione di un'informazione che altro non è che lo specchio dei vostri preconcetti. Altri esempi sono la ricerca su basi statistiche del «punto di sofferenza» fino al quale potete spingere un cliente, o la sperimentazione in vivo su vasta scala di «tecniche di vendita» al limite dell'eticamente accettabile. Più in generale, alcuni punti meriterebbero una vasta discussione in sede istituzionale, che declino qui al caso italiano. i) Non c'è politica senza statistica, e la statistica è oggi il sesto potere. Anni fa l'allora direttore dell'Istat aveva suggerito che la Costituzione dovrebbe prevedere una clausola sull'indipendenza dell'organismo che raccoglie i dati e li analizza. Non se ne è fatto nulla. 2) Le mille esperienze citate da Ayres insegnano ormai in modo incontrovertibile che prima di introdurre misure dal prevedibile vasto impatto si dovrebbe procedere a un test con gruppi di controllo randomizzati; e anche questo aspetto andrebbe normato dopo opportune riflessioni. 3) I consumatori sono carne da cannone per i macinanumeri; degli organismi indipendenti dovrebbero verificare (con dei test randomizzati, magari: una simpatica nemesi!) che le politiche dei prezzi praticate su internet e affidate ad algoritmi statistici non siano discriminatorie o non tendano a conferire un vantaggio troppo grande ai venditori, o che i venditori non stiano testando invivo i loro clienti senza adeguate tutele. 4) Infine, si dovrebbe ripensare a fondo anche il percorso educativo. Concetti come quello di deviazione standard, di regressione lineare, di significatività di un test statistico dovrebbero far parte dell'alfabetizzazione numerica fin dalle scuole medie (e magari alle superiori prendere il posto che la trigonometria ha oggi nell'insegnamento della matematica: non siamo più un popolo di agrimensori, ma di sondaggisti e di sondati). Ci sono poche probabilità che una discussione su questi punti abbia luogo. I macina numeri intendono vendere delle tecniche la cui efficacia è l'unico aspetto importante, al di là di noiose sfumature etiche. Gli intellettuali vivono in un'illusione umanistica di un mondo senza numeri, e in questo modo da un lato si privano degli strumenti di base per comprendere la società in cui vivono, e dall'altro abbandonano il gioco alle forze del mercato che tanto criticano. 0 Ian Ayres, «Super crunchers», Sperling & Kupfer, Milano, pagg. 236,49 22,00. in da Internet War _____________________________________________ L’Unità 10 mar. ’08 SPERIMENTAZIONI CLINICHE: LA DOPPIA FACCIA DELLA TRASPARENZA IL DIBATTITO Le riviste scientifiche chiedono che tutti i dati dei trials siano pubblici. Solo così si può scoprire se un farmaco non funziona; come è avvenuto col Prozac di Pietro Greco Più trasparenza, nella ricerca biomedica e, in particolare, nelle indagini cliniche (trials) che servono per sperimentare l'efficacia e la sicurezza dei farmaci. Lo hanno chiesto nei giorni scorsi le due più importanti riviste scientifiche del mondo, l'americana Science e l'inglese Nature. Ma lo ha chiesto di recente anche il Congresso degli Stati Uniti, con una legge - la FDA Amendments Act del 27 settembre 2007 - che impone la costituzione di un archivio pubblico e completo di tutti i risultati ottenuti da tutti i trials clinici. Che il problema sia attuale, lo dimostra la recente pubblicazione su P1osMedicine di un'indagine - una metaanalisi, come si dice in gergo - sull'efficacia di alcuni farmaci antidepressivi. La notizia non consiste solo nel fatto, rilevante, che Irvmg Kirsch, dell'università di HuTl, e il suo team, studiando i risultati di 35 diversi trials clinici hanno trovato che questi farmaci mostrano spesso un'efficacia non molto superiore a quella di un placebo. Ma anche nel fatto che per realizzare quest'indagine e accedere a tutte le informazioni in possesso della Food and Drug Administration degli Stati Uniti, Kirsch e i suoi colleghi hanno dovuto fare appello al Freedom of Information Act, che negli Usa impone, appunto, la trasparenza degli atti pubblici. Grazie a questa legge Kirsch e i suoi colleghi hanno potuto studiare anche i risultati di trials clinici che avevano dimostrato l'inefficacia di alcuni antidepressivi e che, per questo, non erano mai stati pubblicati. Una prassi tutt'altro che rara. Secondo un recente studio - «Selective Publication of Antidepressant Trials and Its Influence on Apparent Efficacy» pubblicato il 17 gennaio scorso sul New England joumai of Medicine da un gruppo guidato dal Erick H. Turner della Orgenon University - il 30% degli studi clinici effettuati su 12 antidepressivi sono stati di fatto secretati e i risultati mai resi pubblici. Ciò è possibile anche perché molti trials effettuari non sono pubblicamente registrati. Il problema non riguarda solo gli antidepressivi. È molto più generale. Se è vero che è bastata una semplice regola imposta a partire dal settembre 2005 dalle riviste scientifiche agli autori - puoi pubblicare solo se il trials da cui hai ricavato i dati è pubblicamente registrato - per far aumentare del 73% il numero di indagini cliniche registrate in tutto il mondo. In un solo mese nei soli Stati Uniti i trials clinici registrati sono passati da 13.153 a 22.714. E oggi in 153 diversi paesi del mondo ne sono registrati 53.000. Molti - dall'Organizzazione Mondiale di sanità agli Nih degli Stati Uniti - stanno organizzando database completi sui trials clinici. Ma, naturalmente, non basta registrare che una sperimentazione è in corso e rendere pubblico il dato. Occorre che tutto il processo dei trials sia trasparente, in ogni e ciascuna sua fase, dal protocollo dell'indagine fino, appunto, ai risultati. Non tutti sono d'accordo. A iniziare, naturalmente, dalle aziende farmaceutiche che nella trasparenza assoluta vedono minato il diritto alla proprietà intellettuale e alla loro capacità competitiva. Tuttavia, come rilevano Deborah A. Zarin and Tony Tse in un articolo su Science, in questo caso il legittimo interesse commerciale confligge con un interesse superiore, l'interesse alla salute. Sia la salute dei volontari che partecipano ai trials clinici, che mettono in gioco la propria salute e hanno, quindi, diritto a conoscere tutto intorno al rischio che corrono. Sia, più in generale, la salute di noi tutti, pazienti attuali o potenziali. Che può essere minacciata dalla mancata pubblicazione sull'efficacia e la sicurezza di un farmaco. In conclusione: non c'è dubbio alcuno, occorre la massima trasparenza nella ricerca biomedica e, in particolare, nella sperimentazione dei farmaci. Ma massima trasparenza significa trasparenza assoluta? Non affrettatevi a rispondere. Prendiamo in esame il caso, attuale, della Pfizer - la più grande azienda farmaceutica del mando - che ha trascinato in tribunale proprio il New England joournal of Medicine perché, nell'ambito di una strategia a tutela di alcuni suoi prodotti, vuole conoscere il nome di tutti i peer reviewers (gli esperti volontari e anonimi che sottopongono un articolo scientifico ad analisi critica prima della sua pubblicazione), di tutte le procedure editoriali interne della rivista e tutti i manoscritti ricevuti relativi a due suoi farmaci, il Bextra e il Vioxx, piuttosto criticati ultimamente. A parte la situazione bizzarra - per cui in questo caso è un'azienda farmaceutica a chiedere la massima trasparenza - se il magistrato dovesse accogliere la richiesta, l'intero sistema della peer review - ovvero della comunicazione scientifica - verrebbe minato. II che dimostra che la trasparenza deve essere un mezzo ma non il fine. Il fine, in medicina, è uno solo: la migliore tutela possibile della salute dei cittadini Garantita, anche, dall'autonomia della scienza (autonomia dalla politica, dalla religione e dall'economia) e dalle sue prassi sociali. __________________________________________________________ Corriere della sera 10 mar. ’08 RIFORMARE LA GESTIONE DEGLI OSPEDALI di SERGIO HARARI Uno dei limiti dell' attuale organizzazione dei nostri ospedali, sia pubblici che privati accreditati, è la scarsa partecipazione dei medici e degli infermieri ai processi decisionali ed organizzativi. Da ciò derivano demotivazione e frustrazione degli operatori sanitari, ridotti a meri «prestatori d' opera», passivi spettatori di scelte organizzative a loro estranee. Possono poi verificarsi anomalie che si ripercuotono negativamente sulla qualità dell' assistenza ai cittadini; tanti potrebbero essere gli esempi, basti ricordare il recente caso di una importante istituzione milanese che aveva riservato a delicate visite specialistiche solamente otto minuti. Con quali riflessi negativi, anche psicologici, sui pazienti che si rivolgono alle cure degli ospedali, è facilmente intuibile. È possibile invertire la rotta e trovare soluzioni che mettano a lavorare fianco a fianco medici e tecnici amministrativi nel rispetto delle reciproche competenze professionali, per migliorare l' assistenza ai pazienti? Forse sì. La proposta è di Giorgio Fiorentini, docente di management delle imprese sociali all' Università Bocconi, che l' ha lanciata in occasione di un recente convegno sulla sanità lombarda. La Regione Lombardia ha appena approvato, dopo un lungo e travagliato iter, la nuova legge di riordino dei servizi sociali alla persona, che riforma l' organizzazione dell' assistenza socio-sanitaria, datata ormai di oltre 10 anni. Nella neo-approvata legge 81 «La Regione promuove forme di collaborazione tra soggetti pubblici e soggetti privati, in particolare appartenenti al terzo settore», e ancora «La Giunta regionale promuove la sperimentazione di nuovi modelli gestionali e di unità d' offerta innovative, comportanti forme di collaborazione tra soggetti pubblici e soggetti privati». Fiorentini suggerisce che si promuovano imprese sociali come società per azioni o nuovi modelli organizzativi senza scopo di lucro, che prevedano la partecipazione azionaria dei medici (e, perché no?, aggiungo io, degli infermieri). Una organizzazione che consentirebbe di valorizzare attivamente le competenze di tutti in una logica di reale compartecipazione dei diversi «portatori di interesse». Un sogno che sarebbe ancor più bello realizzare immaginando di coinvolgere anche le associazioni dei pazienti. Una sperimentazione sulla quale lavorare nel prossimo futuro e per la quale oggi la Lombardia rappresenta un laboratorio ideale. sharari@hotmail.it Harari Sergio ______________________________________________________ ItaliaOggi 11 Mar. ‘08 LE LASTRE DIVENTANO MOBILI Salute Nei reparti di radiologia i sistemi di archiviazione di Carestream velocizzano i processi e migliorano la diagnostica Controllo dei dati, creazione di lettere personalizzate per i pazienti, gestione degli appuntamenti e dei risultati clinici da un lato, catalogazione, archiviazione e condivisione di immagini dall'altro. I sistemi Ris (Radiological information system) e Pacs (Picture archiving and communication system) sono piattaforme realizzate per gestire il flusso di informazioni che converge nei reparti di radiologia di un ospedale, ma non solo. Sono sistemi creati per migliorare e velocizzare l'erogazione delle prestazioni e automatizzare tutte le fasi del percorso del paziente: «L'evoluzione di questi sistemi prevede una condivisione a livello regionale e nazionale», ha commentato Michele Ferrarese, presidente e amministratore delegato di Carestream Health Italia, tra le maggiori aziende fornitrici di soluzioni It, che ha realizzato a Genova il Technology Centre, una struttura di 3 mila metri quadrati con aule attrezzate con apparecchiature multimediali, sale di radiologia funzionanti e laboratori dove è possibile sperimentare il funzionamento di tutte le soluzioni medicali proposte. «II concetto basilare è ovviamente il passaggio dalla radiologia tradizionale, basata su strumenti analogici, prima di tutto le pellicole, a un ambiente digitale dove sistemi integrati permettono di realizzare refertazioni a distanza, richiamo e confronto immediato con esami precedenti e di conservare una tracciabilità di tutti i processi in un database centrale». Carestream è presente con i propri sistemi su tutto il territorio nazionale, principalmente in Liguria, Piemonte, Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna. Una delle strutture dove l'implementazione è stata realizzata in modo più evoluto è l'Arcispedale S. Maria Nuova di Reggio Emilia, che in un secondo momento ha coinvolto l'azienda Usi formata da cinque strutture. Il progetto dà la possibilità di condividere immagini e dati in tempo reale da un qualsiasi punto della rete, recuperare dati e visionare gli esami precedenti ancor prima di effettuare quelli nuovi. «L'investimento effettuato è stato di circa 6 milioni di euro in sei anni, ma in questo bilancio era incluso il risparmio ! in pellicole», ha spiegato Franco Nicoli, direttore del dipartimento di diagnostica per immagini dell'ospedale, «la prospettiva digitale non ha comportato complessivamente un incremento dei costi di gestione. I risparmi dovuti al non utilizzo di materiali fotografici non compensano il costo di un sistema cosi complesso, ma se si aggiungono i costi per la gestione degli archivi e altre voci connesse le differenze si assottigliano». Dopo l'esperimento del S. Maria, la collaborazione e l'impegno dell'Usl hanno permesso la comunicazione di tutte le strutture sanitarie pubbliche di Reggio Emilia e ora in tutti i reparti da qualsiasi pc è possibile visionare referti e immagini con la stessa facilità con cui il processo avviene nel reparto di radiologia. «Abbiamo potuto verificare una sostanziale riduzione dei tempi», ha spiegato Nicoli, «il tempo di ciclo complessivo tra la richiesta e la disponibilità del referto è stata ridotta, così come la degenza. Sulla rivista americana Journal of Digital Imaging sono stati riportati i risultati di questa ricerca condotta presso il network che ha quantificato i vantaggi della gestione digitale. II processo ha già subito aggiornamenti e ora il gruppo di strutture ha anche a disposizione le immagini di tutti i pazienti ambulatoriali. Anche presso il Policlinico Gemelli di Roma è stato di recente concluso un complesso processo di digitalizzazione. «Le due finalità principali sono state quella di raccogliere i dati, conservarli e di condividere le immagini anche all'esterno della,radiologia e in secondo luogo di poter fare una diagnosi più precisa. e dettagliata. Attraverso questi software, infatti, l'immagine può essere trasmessa, analizzata e anche ricostruita», ha commentato Biagio Merlino, professore associato di Radiologia - dipartimento di bioimmagini e scienze radiologiche dell'università Cattolica del Sacro Cuore, «i benefici diretti sono la rimozione di alcune spese e l'abolizione di passaggi legati al cartaceo; quelli indotti riguardano invece un diverso utilizzo del personale altrimenti impiegato per muovere documenti e archiviarli e un numero decisamente superiore di immagini da poter archiviare e valutare». Ora l'obiettivo al Policlinico è quello di rendere completa la digitalizzazione in filmless e paperless e di estendere il Ris e il Pacs verso l'esterno, quindi alle Asl e ai medici di base. «La potenziale integrazione può avvenire anche grazie alle reti wireless, che permettono un altro miglioramento», ha aggiunto Merlino, «ossia quello di realizzare integrazione senza reti cablate fisicamente». È in fase di implementazione all'Ausl di Ravenna un sistema Ris e Pacs che consentirà di avere collegamenti a tutte le sedi e a livello interospedaliero. «Saranno collegate sei sedi in tutto e le aspettative sono alte, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di gestione in remoto delle immagini», ha spiegato Tiziano Carradori, direttore generale dell'Ausl di Ravenna e dell'Area Vasta Romagna, «gli unici ostacoli sono relativi alla sicurezza correlata al mal utilizzo del sistema e ai rischi che una piattaforma complessa porta con sé, ossia archiviazioni sbagliate e informazioni manipolate». Per ridurre al minimo i disagi per le strutture, i centri di assistenza di Care stream monitorano tutti i sistemi da remoto e offrono un'assistenza proattiva per prevenire eventuali problematiche e far si che i sistemi bloccati siano solo un ricordo. Michele Ferrarese, _____________________________________________ Repubblica 6 mar. ’08 LA RADIOATTIVITÀ DELL'OCCHIO RIVELA L'ETÀ Un'anagrafe basata su un semplice test oculare potrebbe essere realizzato entro breve tempo. Infatti, un nuovo metodo per decifrare l'età di una persona attraverso gli occhi è stato messo a punto da scienziati dell'università di Copenhagen, in Danimarca, e potrà presto venire in aiuto degli investigatori nell'identificazione di vittime prive di identità. Su Plos One, i ricercatori dell’università danese spiegano di aver utilizzato un sistema di datazione al radiocarbonio per misurare i livelli di alcune proteine del cristallino dell'occhio che si fissano alla nascita e rimangono invariate per tutta la vita, un po' come accade per i denti. Grazie a questo metodo, si sono potute identificare le età di 13 persone in un anno e mezzo, analizzando il tasso di un isotopo del carbonio radioattivo, chiamato "carbonio 14 ", presente le stesse proteine sin dal momento in cui sono state sintetizzate. Considerando che il carbonio 14 entra in circolo attraverso l'alimentazione e che, dal 195o fino al i96o, durante la Guerra fredda, a causa degli esperimenti nucleari di Stati Uniti e Unione sovietica, la quantità di questo elemento nell'aria e nei abi era raddoppiata per poi diminuire progressivamente, analizzandone la concentrazione all'interno del cristallino, si è potuti risalire all'anno di nascita. Si tratta del sistema già utilizzato dagli archeologi per datare i fossili o i resti ossei. Ora potrà essere applicato anche per fissare fanno di nascita di persone trovate morte, a patto che siano decedute da non molto tempo: le proteine in questione scompaiono infatti pochi giorni dopo la morte. Ma a confronto con le tecniche utilizzate finora dagli investigatori, come l'analisi dei denti dei cadaveri, questa offre tempi più brevi, oltre a maggiori facilità d'impiego e precisione. Inoltre, secondo il ricercatore che ha guidato la sperimentazione, Niels Lynnerup, potrà in futuro essere utile anche in altri settori. Si potrà determinare, ad esempio, il momento in cui iniziano a svilupparsi cellule cancerogene nel corpo. _____________________________________________ L’Unità 14 mar. ’08 TUMORE AL SENO, SCOPERTO GENE CHE DIFFONDE LE METASTASI Studio pubblicato sulla rivista Nature: successo nella sperimentazione sui topi. Si pensa a farmaci che possano bloccarlo Catturare il «boss» delle metastasi del cancro al seno, a capo di una «gang» di 1000 geni che comanda a suo piacimento per indurre la formazione di metastasi del tumore. Sarebbe possibile, secondo la ricerca riferita sulla rivista Nature questa settimana. Il gene in questione si chiama SATB1, se inattivato nel cancro al seno, lascia il tumore indebolito, incapace di formare metastasi, ossia di proliferare e assediare altre parti del corpo. Così almeno si è verificato nelle prove su cavie di laboratorio . La scoperta del ruolo principe di SATB1 nelle metastasi del carcinoma alla mammella si deve all'equipe di Terumi Kohwi-Shigematsu del Lawrence Berkeley Laboratory, presso l'Università della California con sede a Berkeley. Quando il cancro forma metastasi, ovvero si sposta andando a colonizzare e conquistare altri distretti corporei, le chance di sopravvivenza del paziente si riducono bruscamente. A quel punto infatti le cellule malate si diffondono ovunque e contro di loro i farmaci e le altre terapie possono poco 0 nulla. Non a caso anche per il cancro al seno le metastasi restano oggi la causa principale di morte. Gli esperti già conoscevano SAT131 e lo sospettavano di un ruolo nel cancro al seno in quanto il gene, che rientra nella famiglia dei geni «direttori d'orchestra» o «organizer», cioè quelli che controllano il funzionamento di moltissimi altri geni, si trova alterato e attivo in modo anomalo in questa forma di tumore. Ma adesso gli esperti Usa gli hanno tolto la maschera per mettere a nudo il suo vero volto: SATB1 infatti, controllando 1000 altri geni al suo servizio nelle cellule tumorali, è stato riconosciuto come un fattore chiave per il processo di formazione delle metastasi. Non a caso eliminandolo nelle cellule tumorali in topolini, i tumori degli animali diventano meno aggressivi. E viceversa, accendendolo in cellule tumorali, si creano tumori super-killer che danno metastasi molto facilmente. Questi esperimenti rappresentano due prove schiaccianti della sua colpevolezza. Ma adesso che è stato messa sotto accusa, SATB2 potrebbe divenire bersaglio di nuovi farmaci anti-metastasi. Una buona notizia è anche l'arrivo in Italia del test genomico che consente di calcolare la percentuale di probabilità di recidiva di un tumore al seno. II test, Mammaprint, già utilizzato negli Stati Uniti, si potrà fare nel Centro di genomica funzionale istituito nell'ospedale Vittorio Emanuele di Catania, in collaborazione con il Centro nazionale delle ricerche. L'esame, eseguito durante l'intervento chirurgico su un pezzo di tessuto tumorale, permette, secondo i ricercatori, di stabilire con una precisione del 99% il realizzarsi di una recidiva e quindi renderà possibili cure su misura. Lo studio è compiuto su 70 geni diversi che vengono «mappati» e analizzati. IL test è il primo del genere autorizzato dalla Food and drug administration degli Stati Uniti. _____________________________________________ Corriere della Sera 13 mar. ’08 UN LAVORO DA GENI SCUola. I libri di scienze? Fermi agli esperimenti dell'Ottocento. Ma per appassionare i ragazzi, bisogna avvicinarli alle nuove frontiere. Paolo Plevani, docente di Biologia molecolare alla Statale di Milano, ci sta provando con il Cus-NE-Bio, Centro di formazione alle bioscicnze dell'ateneo. L'anno scorso una quarantina di studenti delle superiori, selezionati tra le migliaia che avevano visitato il Centro, hanno partecipato a una ricerca sul genoma: collegati con il loro computer alle banche dati internazionali, hanno identificato nuovi geni che verranno studiati in laboratorio (i risultati sono stati appena pubblicati sulla prestigiosa rivista Embo Reports). Ora si continua. ha reperito 5 miliardi di dollari per curare malattie infantili e scoprire nuovi farmaci di Vittorio Grilli* e Alberto Mantovani** Più di 194 milioni di bambini in 32 Paesi in via di sviluppo vaccinati contro il morbillo, e oltre 100 milioni contro la poliomielite. Stroncata sul nascere in Camerun un'epidemia di febbre gialla, malattia per la quale sono state raddoppiate le quantità di vaccino stoccate su scala mondiale. Sono alcuni fra i più importanti risultati ottenuti nel solo 2007 da Gavi (Global alliance for vaccines and immunization), una partnership che riunisce i principali attori pubblici e privati nel campo delle vaccinazioni. Tra i suoi membri figurano Paesi in via di sviluppo, governi donatori, l'Organizzazione mondiale della Sanità, l'Unicef, la Banca mondiale, i produttori di vaccini dei paesi industrializzati e di quelli in via di sviluppo, istituzioni tecniche e di ricerca, alcune Ong e la Fondazione Gates. Il sostegno di Gavi è determinante per il raggiungimento dell'Obiettivo di sviluppo del millennio relativo alla salute infantile, che prevede la riduzione di due terzi della mortalità infantile entro il 2015. Dei io milioni di bambini al di sotto dei cinque anni che muoiono ogni anno, 2,5 milioni periscono per malattie prevenibili con i vaccini. Per trasformare in un obiettivo raggiungibile il sogno di vaccinare tutti i bambini dei Paesi in via di sviluppo, recentemente Gavi ha rafforzato la sua struttura organizzativa dotandosi di un nuovo Board. Caratteristica - vincente - di Gavi, la scelta di utilizzare meccanismi di mercato per finanziare la propria attività: l'International finance facility l’Italia - con un ruolo forse poco noto di leader internazionale - ha contribuito a promuovere attraverso l'impegno del Dipartimento del Tesoro del ministero dell'Economia e delle Finanze, con il sostegno politico di governi di colore diverso, in schietto spirito bipartisan. Nel 2004 l’Iffim è stato il primo meccanismo innovativo a vedere la luce su proposta del Regno Unito e con l’immediato sostegno dell'Italia. L'iniziativa, che consente di aumentare le risorse immediatamente disponibili per l'acquisto di vaccini, è basata sul ricorso ai mercati finanziari internazionali attraverso l'emissione di titoli garantiti dall'impegno dei paesi donatori di rimborsare le obbligazioni - le prime emesse nel novembre 2006, per un miliardo di dollari. I circa s miliardi di dollari (di cui 60o milioni dall'Italia) dei donatori consentiranno di mobilitare risorse per l'acquisto di vaccini nel periodo 20o6- 2o15, salvando da malattie quali il morbillo e la poliomielite oltre 5 milioni di bambini, assieme ad altrettanti adulti. Mentre l’Iffim diffonde vaccini già esistenti, l’Amc si focalizza su quelli ancora da scoprire per malattie che colpiscono principalmente i paesi in via di sviluppo. L'idea alla base di Amc, proposto dall'Italia nel febbraio 2005 ai ministri finanziari del G8, è semplice. L'industria farmaceutica investe relativamente poco per la ricerca e lo sviluppo di vaccini contro le malattie "dimenticate"; perché alle difficoltà di natura scientifica se ne aggiunge una economica: non c'è garanzia che i Paesi potenzialmente beneficiari di questi vaccini dispongano delle risorse per acquistarli. Amc affronta direttamente questo "fallimento del mercato" con la créazione di mercati "futuri" da parte dei donatori, che si impegnano all'acquisto di vaccini, una volta scoperti, certificati come efficaci e domandati dai Paesi in via di sviluppo. Si crea così un mercato profittevole che motiva le imprese a compiere investimenti. L'idea di Amc era già stata avanzata in ambito accademico, ma solo grazie all'azione italiana ha potuto tradursi in un progetto concreto. Alla proposta iniziale è seguito un complesso lavoro preparatorio, sotto la guida del Dipartimento del Tesoro, di Gavi e della Banca mondiale, che ha portato all'identificazione dello pneumococco - che rappresenta la principale causa di mortalità infantile, con un milione di vittime sotto i S anni ogni anno - quale malattia per il progetto pilota, con un impegno di i,s miliardi di dollari. Gavi stima che l'introduzione del vaccino permessa da Amc possa salvare oltre 5 milioni di vite entro il 2030 A febbraio l'iniziativa è stata lanciata alla presenza dei Paesi donatori (Italia -il più generoso con 635 milioni di dollari - Regno Unito, Canada, Norvegia e Russia) che hanno annunciato il loro impegno finanziario. Ora l'obiettivo è giungere alla firma degli accordi con le case farmaceutiche entro l'anno. Questi meccanismi di finanziamento utilizzati da Gavi, che salveranno milioni di vite umane, sono significativi dal punto di vista non solo umanitario, ma anche economico. Il capitale umano che preservano aumenta la produttività e diviene fattore trainante di sviluppo economico, strumento ultimo nella lotta alla povertà. In campo sanitario, insomma, "cuore e testa" si alleano per aiutare i più deboli del mondo. E l'Italia è in prima fila. * Direttore generale ministero del Tesoro **Direttore scientifico Istituto clinico Humanitas di Rozzano __________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 14 mar. ’08 SANITÀ E AFFARI SOCIALI : IL GRANDE AFFARE DELLA DIALISI Più centri privati, meno trapianti I n un’Italia economicamente in crisi e con i conti della spesa pubblica che non quadrano, una delle voci «in attivo » e in costante aumento in quanto a redditività è quella dei malati di rene che per vivere hanno bisogno di un filtraggio artificiale del sangue due o tre volte alla settimana per l’intera vita. Salvo trapianto di rene o di reni. Dai 45 ai 50 mila italiani sono in queste condizioni per un costo totale a carico del servizio sanitario nazionale che va da un minimo di un miliardo e 800 mila euro a 2 miliardi e mezzo di euro. Ogni paziente dializzato costa al Servizio sanitario nazionale minimo 40.000 euro l’anno. Soldi obbligati perché di salute si tratta. E cifre in aumento perché per prevenire le malattie renali poco si fa e perché poco più si sta facendo per incrementare i trapianti di rene proprio nelle Regioni dove più alta è la spesa per la dialisi. Dove da vent’anni a questa parte è questo il settore della sanità in cui il privato, convenzionato o no, trova sempre più spazio operativo e di guadagno. E il privato spesso coincide con le multinazionali che producono materiale di consumo per i cosiddetti «reni artificiali». Perfino la più economica dialisi peritoneale, che il malato può fare da solo e dovunque, trova poca promozione in un Paese che sembra prediligere la via più costosa e vincolante soprattutto per quei malati impegnati in attività che prevedono continui spostamenti e che non possono vivere ancorati a quei due, tre appuntamenti salvavita alla settimana. Malati che prima o poi trovano liberatorio il trapianto dopo un’attesa in lista che mediamente può superare i tre anni. Il problema è che i conti non sembrano tornare tra i nuovi malati che finiscono in dialisi e quelli trapiantati: più che raddoppiati i primi negli ultimi 10 anni. Da 20 mila a 45-50 mila. E allora? Il futuro è da bancarotta. A meno che… Due le strategie finora disattese, o attivate più a parole che nei fatti. Prevenzione delle malattie renali e aumento dei trapianti di rene. E ricerca in campo nefrologico. I numeri: almeno il 10% della popolazione dei Paesi industrializzati soffre di deficit della funzione renale. Soltanto in Italia, si contano 5 milioni di malati. Altri 5 milioni sono a rischio deficit renale e non lo sanno, anche perché la degenerazione è silente e fino a quando parte dei due reni funziona nessuno vuole certo immaginare il peggio. E' anche scaramantico. Il caso Campania La Campania è maglia nera in tutte le voci che riguardano i reni. Un campano su cinque non li considera organi vitali, e uno su due non conosce l’insufficienza renale, che però in questa Regione colpisce oltre 600 mila abitanti. Un milione in Lombardia, dove però i trapianti si fanno e i posti dialisi pubblici sono predominanti (solo il 15 per cento i privati) per gli oltre 7.000 dializzati. In Campania invece i dializzati sono oltre 5.000 assistiti nell’82 per cento dei casi in centri privati (la Sicilia segue con il 76 per cento, poi il Lazio con il 53). Con costi che vanno da 155 a 350-400 euro a seduta. Ogni Regione ha le sue tariffe ambulatoriali. E le multinazionali scendono in campo: i produttori di filtri, aghi, materiali di consumo, offrono dialisi a prezzi stracciati in loro centri. Alcune ne hanno 100-150 in Italia. Comprano quote dialisi e guadagnano su questa voce della sanità. Lo studio Usa In altri Paesi industrializzati a volte la logica del profitto fa risparmiare su materiali e qualità del personale, con una mortalità più alta che nel pubblico (lavoro pubblicato sulla rivista americana Jama). Uno studio fatto su un numero enorme di ammalati in dialisi negli Stati Uniti. Tutti in centri privati: un po’ non-profit , la maggior parte for-profit . Ne è venuto un dato allarmante. Nei centri for-profit si muore di più, al punto che se da domani tutti quelli che fanno dialisi negli Stati Uniti si rivolgessero solo a strutture non-profit ci sarebbero ogni anno, fra i dializzati, 2.500 morti in meno. «Forse perché — spiega Giuseppe Remuzzi, nefrologo e trapiantologo degli Ospedali Riuniti di Bergamo — nelle strutture for-profit si risparmia sui farmaci oppure si riduce il tempo di dialisi. Ma tutti i medici sanno benissimo che se si riduce il numero di ore di dialisi si muore di più. Chi si affida a centri dialisi for- profit ha anche meno probabilità di avere un trapianto di rene. Dato che la dialisi rende, i centri non hanno grande interesse ad avviare i pazienti a una lista di trapianto». Eppure il privato for-profit per la dialisi si sta diffondendo in tutto il mondo: America Latina, Europa e Asia. Ma farsi curare in un ospedale di Milano o in un centro privato del Sud è la stessa cosa? Forse sì, forse non si rischia quanto negli Stati Uniti. Colpisce però che il pubblico sia scarsamente presente in un settore da investimento. E il «povero» Sud forse non risparmia: meno trapianti, meno donatori, meno informazione ai fini di prevenzione, più malati che ogni anno finiscono in dialisi, più guadagni per chi ha posti dialisi, più costi per il Servizio sanitario che comunque paga. Sì perché in Italia, a fine 2007, erano stati trapiantati 1.588 reni e 6.804 malati erano in lista d’attesa. Ma mentre in Toscana i donatori sono oltre 40 per milione di abitanti (35 la Spagna, 21 il totale dell’Italia), in Campania sono circa 10. E chi si oppone supera i 40. Come mai? I donatori da vivente poi sono così pochi che la media italiana è di 5,7 contro i 44 della capofila Svezia. La ricerca Nel campo della ricerca i medici italiani sono all’avanguardia. L’ultima scoperta, dai risvolti interessanti, è quella condotta dalla Fondazione D’Amico per la Ricerca sulle malattie renali. Dopo cinque anni di studio sui podociti (le cellule renali che svolgono un ruolo chiave nel meccanismo di filtraggio) i ricercatori hanno rilevato che queste cellule utilizzano per comunicare una serie di meccanismi simili a quelli dei neuroni. E che il sistema di comunicazione dei podociti è coinvolto nella perdita delle proteine nelle urine, fenomeno comune nella maggior parte delle malattie renali a cominciare dalla nefropatia diabetica. In vitro si è visto che fattori di crescita dei neuroni a contatto con i podociti renali danno a questi ultimi «ordini» rigenerativi. Nei topi stesso risultato. La milanese Fondazione D’Amico va avanti: dal cervello potrebbe arrivare la cura per evitare il finale in dialisi. Mario Pappagallo __________________________________________________________ CORRIERE DELLA SERA 14 mar. ’08 NEL MONDO 500 MILIONI DI MALATI. MA ORA È PIÙ FACILE PREVENIRE Nel mondo 500 milioni di malati Ma ora è più facile prevenire Giovanni ha 32 anni, è sempre stato bene (alla visita di leva c’erano tracce di sangue nelle urine, ma nessuno ci ha fatto caso). Da qualche tempo urina molto, anche di notte e da qualche giorno ha mal di testa tanto che fatica perfino a prendere sonno. Va in farmacia a cercare un analgesico. Gli provano la pressione: 200/110. «Com’è possibile? Ho sempre avuto la pressione normale». Gli fanno gli esami. C’è insufficienza renale, grave. Giovanni due settimane dopo è in dialisi: quattro ore, tre volte la settimana per tutte le settimane del mese, per tutti i mesi dell’anno. E sarà così finché non si potrà fare un trapianto di rene. Una storia come tante. Sì, perché pressione alta e diabete alla lunga danneggiano il rene. Al mondo forse 500 milioni di persone hanno qualche forma di danno renale. Sono persone con l’albumina nelle urine e adesso sappiamo che chi ha l’albumina nelle urine avrà presto o tardi una malattia del cuore. La malattia renale oltre a danneggiare il cuore può progredire verso l’insufficienza renale. Servirà la dialisi e un giorno o l’altro il trapianto. Quanti vivono con la dialisi? Quasi cinquantamila in Italia, due milioni in tutto il mondo e costeranno mille miliardi di euro in dieci anni. Così, per chi vive nei Paesi poveri di dialisi e trapianto non si parla proprio, costa troppo. E un milione di persone che si potrebbero salvare, muoiono. Quello che è successo a Giovanni oggi si può evitare. Ci sono farmaci che fermano la progressione di tante malattie renali e proteggono il rene (e nel diabete si può cominciare a farlo anche prima che il rene si ammali). Perché è così importante proteggere il rene? E’ il rene che ci consente di vivere su questa terra a dispetto dell’ambiente. A noi vivere qui sembra normale ma la terra è ostile alla vita. Siamo fatti per i tre quarti di acqua, e il fluido che bagna tutte le nostre cellule deve avere una composizione precisa, basta un po’ di potassio in più perché il cuore si fermi. Se non succede è grazie al rene, che ci consente di eliminare acqua e sale in eccesso e ci dà la libertà di eccedere. Beviamo e mangiamo quello che vogliamo perché il rene elimina quello che non serve, minuto per minuto con una precisione che nessuna bilancia di precisione sarà mai capace di raggiungere. Se il rene smette di funzionare acqua e sali si accumulano e si muore in pochi giorni. E poi, se non fosse per i reni vivremmo ancora negli oceani. Nel mare è tutto più facile, ma perché i pesci potessero passare all’acqua dolce bisognava saper prima conservare il sodio. Serviva un rene capace di farlo, e poi perché gli anfibi potessero vivere anche sulla terra serviva che il rene si evolvesse al punto da saper conservare il sodio, eliminare il potassio, le sostanze tossiche e l’acqua in eccesso. E’ quello che è successo e così i pesci sono evoluti fino ad essere uomini. Senza rene scriveva Homer Smith a metà degli anni cinquanta qui sulla terra non ci sarebbero filosofi. di GIUSEPPE REMUZZI __________________________________________________________ Unione Sarda 13 mar. ’08 RETE DELLE EMERGENZE CARDIACHE,PRIMO VIA LIBERA Via libera all’unanimità (con alcune osservazioni) dalla commissione Sanità del Consiglio regionale per il documento della Giunta sull’attuazione sperimentale della Rete regionale per le emergenze cardiologiche. Col sì dell’organismo consiliare si attua una delle linee guida del piano sanitario regionale che, rispetto all’assistenza per le sindromi coronariche acute, prevede la realizzazione di una rete per le emergenze cardiologiche integrata, in base a protocolli condivisi, con il servizio 118, le Utic (unità di terapia intensiva coronaria), i laboratori di emodinamica interventistica, le cardiochirurgie e i reparti di cardiologia o medicina. La rete dovrà concentrare i servizi di maggiore complessità e più elevata tecnologia e assicurare la tempestività di accesso ai servizi. È articolata in due centri maggiori (Hub capofila) uno per il centronord dell’Isola (circa 600mila abitanti) e uno per il centro-sud (circa 1 milione di abitanti). Inoltre sono previsti tre Hub minori dotati di Utic con emodinamica. Nelle osservazioni la commissione ha chiesto alla Giunta che gli Hub minori siano quattro e che uno sia ubicato in Gallura, zona ad alta vocazione turistica dove in alcuni mesi dell’anno la popolazione arriva anche a 400-500 mila persone. Soddisfazione è stata espressa dal presidente Nazareno Pacifico (Pd): con questa approvazione, ha dichiarato, si realizza uno dei cinque obiettivi del Piano sanitario. In cardiologia è essenziale agire con tempestività. In Sardegna si registrano 1.000 casi di infarto ogni anno ed è importantissimo intervenire entro 90 minuti dal manifestarsi dei sintomi. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 mar. ’08 ASL IN REGOLA SOLO IN NOVE REGIONI Inutilizzato il 30% dei fondi intramoenia ESEMPI NEGATIVI Sicilia e Calabria non hanno presentato un piano per predisporre gli spazi destinati alla libera professione Sara Todaro ROMA A sette mesi dall'approvazione della legge 120/07, che ha imposto alle strutture sanitarie pubbliche di dotarsi di adeguati spazi per la libera professione dei medici entro dicembre 2009, quello dell'intramoenia resta un cantiere a metà. Asl e Aziende ospedaliere sono in regola con la presentazione dei previsti piani solo in 9 Regioni (Basilicata, Emilia, Friuli, Liguria, Lombardia, Marche, Toscana, Umbria e Marche), ma già 12 Governi locali hanno avviato accordi con i sindacati medici, mentre solo 4 (Trento, Veneto, Toscana e Basilicata) hanno utilizzato interamente i fondi stanziati per la realizzazione di spazi idonei: il 30% dei finanziamenti resta inutilizato. Nel panorama delle occasioni perdute spiccano Sicilia e Calabria: non hanno chiesto fondi e neanche presentato un piano. Mentre scattano i primi commissariamenti previsti dalla legge per i Dg gravemente inadempienti, come è appena accaduto in quattro Asl della Puglia. A tracciare il bilancio dell'operazione avviata in extremis ad agosto per dire basta a un regime decennale di proroghe, è stato Aldo Ancona, presidente dell'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, intervenendo ieri alla presentazione degli atti dell'indagine conoscitiva in materia condotta dalla Commissione Sanità di Palazzo Madama. Soddisfatto il ministro della Salute, Livia Turco: «l'intramoenia non sarà più la scorciatoia obbligata per avere subito una prestazione, ma solo una possibilità in più offerta dal Ssn». Sulla stessa linea il presidente della commissione Sanità, Ignazio Marino: «Ora è sempre più necessario assicurare il rispetto dei tempi d'attesa fissati dalle Asl, in particolare per le urgenze differibili». E proprio sulle liste d'attesa si prepara a presentare il conto il Tribunale per i diritti del malato: «L'intramoenia - dice la coordinatrice nazionale, Francesca Moccia - è il più delle volte una proposta indecente che i cittadini accettano per superare i ritardi: serve una sanzione per le aziende che non si adegueranno nei tempi previsti». ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 13 mar. ’08 BUROCRAZIA PRIMA CAUSA PER I MALANNI DEL SSN Sanità. Depositata la relazione finale della commissione d'inchiesta Confermato il ritardo di strutture e servizi del Sud Roberto Turno ROMA A complicare tutto ci pensa sua maestà la burocrazia. Ma anche quel pasticciato federalismo in salsa italiana che meriterebbe qualche dose (per una volta non letale) di sano centralismo. E che dire degli ospedali vecchi, inefficienti e mal gestiti? E ancora: quando mai si riparerà la frattura Nord-Sud, quell'Italia della salute a due (e più) velocità che fa degli italiani dei separati in casa e assistiti con diritti diversi? È un giudizio per una volta bipartisan. Ma soprattutto è un atto d'accusa con tanto di ricetta per l'uso: «Salviamo il soldato Ssn». Poco più di 16 mesi di lavoro effettivo, una relazione di 145 pagine, diverse inchieste lasciate a metà per l'interruzione della legislatura. La commissione d'inchiesta del Senato «sull'efficacia e l'efficienza del Servizio sanitario nazionale», presieduta da Antonio Tomassini (Pdl), non ha lasciato niente al caso. E nella relazione finale depositata ieri, a buona memoria, ha scritto tutto ciò che in fondo sapevamo. Ma che vale ripetere. Quel che di bipartisan emerge, è la voglia di un Ssn universalistico. Ma non così com'è. Sud in «allarmante degrado» «Uno dei problemi che maggiormente attanaglia il Ssn - afferma la relazione - è l'eccessiva complicazione burocratica, che trova la sua origine negli uffici del governo centrale e nella conseguente sovrapposizione di competenze, funzioni e ruoli che inevitabilmente finisce per degenerare in concorrenza e, in non pochi casi, in un vero e proprio antagonismo». Un caso: il sistema di educazione continua in medicina (Ecm), con «contraddizioni che scaturiscono da un sistema di accreditamenti a livello nazionale e regionale alquanto farraginoso». Ma non mancano altri giudizi: sull'Aifa, promossa ma alla quale si chiede più «trasparenza e indipendenza nelle nomine». E al Ccm, il Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie, al posto del quale sarebbe preferibile «un ente terzo». Ed ecco poi l'affondo Nord-Sud: siamo «di fronte a un'Italia a due velocità». Al Nord il Ssn tiene per efficienza ed efficacia, in linea con gli indicatori Oms. Al Sud si precipita in «situazioni di allarmante degrado». La commissione l'ha verificato in Calabria, ma non solo. E mette in guardia: «Le difficoltà organizzative, la bassa qualità assistenziale, gli inadeguati standard per le diverse prestazioni sembrano talvolta imporre interventi di natura esterna, dal momento che il sistema non sembra nelle condizioni di autoriformarsi e correggersi». La condizione degli ospedali è l'altra (o la stessa) faccia della medaglia. La commissione ne ha visitati solo 13, certamente quelli segnalati dalle emergenze e dalla cronaca nera. Ma il giudizio è secco: «Il quadro generale è quello di una generale vetustà, con un evidente gradiente Nord-Sud, e anche quello di una difformità gestionale con ancora non sufficiente livello di managerialità. Di più: l'efficienza non è sempre la «stella polare» E ancora: «Quasi ovunque mancano sistemi oggettivi di valutazione dei risultati», indispensabili per verificare tutto e tutti, dai medici agli infermieri. Servono dunque robuste «iniezioni di efficienza», soprattutto al Sud. Ma serve anche rivedere quel che s'è fatto con la riforma del titolo V della Costituzione. «Non si può nascondere che alcune difficoltà e criticità nascono anche da una distorta interpretazione del quadro costituzionale delineato in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione». Ma che fare? Semplice (forse): è il caso di pensare a «una necessaria rivalutazione del ruolo dello Stato, soprattutto per quanto riguarda i compiti di controllo e di intervento che si rende indispensabile azionare nei casi di cattivo funzionamento e di spreco delle risorse finanziarie». ______________________________________________________________ Manifesto 8 mar. ’08 QUANDO L'OBIEZIONE DIVENTA UN LAVORO Per medici e sanitari garantire gli aborti è scomodo e poco gratificante. Perciò diventano in massa obiettori di coscienza. E se nelle Marche la legalità è garantita dall'Aied, in Lombardia piovono fondi sui militanti pro life dei Centri di aiuto alla vita Eleonora Martini Ancona, gennaio 2008. Una donna al secondo mese di gravidanza si rivolge all'ospedale della città perché intende abortire. Mala lista d'attesa è troppo lunga, perciò ottiene in cambio un elenco di ospedali della regione a cui chiedere assistenza. Armata di santa pazienza e di telefono comincia la sua ricerca, ma quando incappa nel centralinista dell'ospedale di Iesi, per tutta risposta ottiene solo un sermone inarrestabile che ha lo scopo di dissuaderla dal suo «terribile intento». San Bendetto del Tronto, anno 2005. Nella città marchigiana la legge 194, da quando è in vigore, non può essere applicata per mancanza di ginecologi non obiettori. Per questo un gruppo di dirigenti dell'Aied di Ascoli Piceno decide di andare a trovare il direttore generale dell'Asl, di centrosinistra, per proporre per le Ivg almeno una convenzione con la loro associazione, così come avviene nella loro città. La risposta lascia attonita la delegazione: «Ci disse che doveva sentire prima il parere del vescovo, perché non voleva nemici intorno», racconta l'assistente sociale Tiziana Antonucci. Antonucci ha seguito recentemente un'inchiesta tra le donne che si rivolgono al consultorio Aied ascolano per richiedere l'Ivg: su 513 richieste, il 60% proviene da donne cattoliche praticanti. Donne che teoricamente sono contrarie all'aborto ma considerano il proprio caso personale «un caso eccezionale ». La regione Marche registra, secondo l'ultima relazione al parlamento del ministero della salute, quella relativa all'anno 2005, la più alta percentuale di medici obiettori d'Italia. Il 78,4% dei ginecologi contro una media nazionale del 58,7%, il 70,7% degli anestesisti obiettori a fronte del 45,7%, e il 52,9% dei paramedici contro il 38,6%. In realtà i dati forniti all'Iss sono fermi al 2002 e quindi non facilmente comparabili con la media nazionale, segno che nemmeno vengono aggiornati come dovrebbero dalla regione. E come a San Benedetto del Tronto anche in molte altre città marchigiane non esistono medici non obiettori. In questo contesto non ci si può stupire dell'assurdo comportamento del centralinista di Iesi, ovviamente subito segnalato alla direzione sanitaria. Milano, febbraio 2008. La signora Paola Bonzi, attivista del Centro aiuto per la vita (Cav) dell'ospedale Mangiagalli racconta su La Stampa: «Una volta mi sono precipitata alle sei del mattino da una ragazza che si trovava già nell'anticamera della sala operatoria per abortire». Sul caso le senatrici della Sinistra arcobaleno hanno presentato un'interrogazione parlamentare, per verificare se sia stato violato il diritto alla privacy e il rapporto di segretezza tra medico e paziente e se vi siano state interferenze del Cav nell'attività sanitaria ospedaliera. Ma quello della clinica Mangiagalli è un centro molto particolare, ricco soprattutto: come denunciano i radicali milanesi, il 20 dicembre 2007 il governatore della Lombardia Roberto Formigoni firmò la delibera che stanzia 500 mila euro in suo favore mentre poco prima il comune di Milano aveva finanziato il Cav con 200 mila euro. «Non c'è stato alcun bando di concorso - spiega Valerio Federico, segretario dell'associazione Enzo Tortora - mentre centinaia di associazioni che lavorano con i carcerati, iminori, gli anziani o con le donne non riescono ad ottenere nemmeno un euro». Anche la regione Lombardia si aggiudica, dopo Marche, Lazio, Puglia e Molise, il primato del maggior numero di medici obiettori. «Ma soprattutto sono almeno 15 le strutture dove non si effettuano le Igv, emen che meno gli aborti terapeutici, tra cui tre grandi nosocomimilanesi: il San Raffaele, il San Giuseppe-Fatebenefratelli e il San Pio X - aggiunge Federico - e a Milano i medici disponibili e capaci di fare un aborto terapeutico sono 6 o 7, non di più». D'altra parte una legge regionale del 2000 prevede che i consultori privati accreditati, quasi tutti cattolici, possano escludere le prestazioni previste dalla legge 194 «in deroga a quanto stabilito dalle norme». Per ultimo, nel decreto lombardo del gennaio scorso che abbassò a 22 settimane e 6 giorni il limite per le Ivg, «la Regione promuove e auspica l'accoglienza negli ospedali dove sono presenti i centri di diagnosi prenatale delle associazioni dei genitori» delle persone portatrici di handicap. Volontari che dovrebbero convincere le donne a non praticare la diagnosi ed accettare un eventuale feto malato. Quando nel 1978 la legge 194 venne varata, il numero di medici obiettori era solo leggermente più alto di quello attuale. Nel 1982, il primo dato completo raccolto dalla dottoressa Angela Spinelli, dell'Iss, parla del 59,3% di ginecologi obiettori e del 54,3% di anestesisti. Dieci anni dopo i ginecologi erano il 62,2%, gli anestesisti il 52,3% e i paramedici il 45,7%. Un numero in realtà troppo alto per raccontare il quadro vero dell' obiezione di coscienza. La maggior parte, dicono quasi tutti gli esperti in materia, sono obiezioni di comodo o di difesa dovute alla scelta di massa dei medici di rinunciare ad un lavoro scomodo e poco gratificante. Sei mesi dopo l'entrata in vigore della 194, un'inchiesta di Norma Rangeri pubblicata sul Manifesto raccontava di medici cattolici che, senza mezzi tecnici e spazi adeguati, non si sottraevano al loro dovere di cura della donna e continuavano a fare «tutto, comprese le Ivg». Ma oggi, con l'introduzione della pillola abortiva Ru486 che permette di evitare l'intervento chirurgico tanto mortificante per le carriere dei medici, potrebbe cambiare qualcosa? Potrebbe diminuire il numero di obiettori? «Non credo proprio - risponde la ginecologa Laura Maria Olimpi dell'Aied di Ascoli Piceno -: per come si sta organizzando l'uso della Ru486, con la donna ricoverata per tre giorni in ospedale e quindi con grandi costi, credo proprio che la situazione possa perfino peggiorare ». ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 mar. ’08 LE LINEE DI PENSIERO ALL'ESAME DELL'OFFICINA PDL Dare governance all'universalità Le azioni proposte, sviluppate in 10 punti principali, hanno come obiettivi d'azione prioritari: a) rendere concreto l'accesso al Servizio sanitario nazionale per i cittadini omogeneizzando le prestazioni fornite nelle varie Regioni e abbattendo ogni barriera riguardo a tempi di attesa, protocolli restrittivi, cure non disponibili; b) favorire risposte per necessità non garantite dal Servizio sanitario nazionale introducendo progressivamente forme di mutualità integrativa e sostitutiva per le prestazioni non incluse nei Lea con l'obiettivo di ottenere la piena sostenibilità del sistema; c) introdurre meccanismi che valorizzino la professionalità degli operatori e introducano sistemi di controllo sulla efficacia e sicurezza delle prestazioni erogate ai cittadini. 1. Risolvere il caos istituzionale in materia sanitaria delineando senza la possibilità di interpretazioni fuorvianti i compiti di ciascun livello (centrale, regionale, locale) e di ciascun Organismo attraverso norme che recepiscano i termini della sussidiarietà e fissino, ex art. 117 Cost., i princìpi fondamentali in materia sanitaria dello Stato e che guidino modernamente il sistema per il prossimo decennio. Tutti gli altri compiti saranno "devoluti" alle Regioni. 2. Garantire l'accesso universale ai servizi. Oggi sono ancora troppi gli ostacoli per un libero e rapido accesso di tutti i cittadini alle cure necessarie e fondamentali. Bisogna intervenire rendendo la revisione dei Lea un processo dinamico, abbattendo le liste di attesa, migliorando il sistema delle visite specialistiche e degli esami diagnostici, sfruttando al meglio l'informatizzazione, investendo nella long term care e rendendo disponibili i farmaci e gli altri trattamenti per la cura di tutte le malattie. 3. Mutualità integrativa. I Fondi sanitari pubblici non sono oggi in grado di garantire tutte le prestazioni sanitarie ai cittadini, come i dati economici fanno rilevare. Diventa quindi indilazionabile la concreta attuazione di una proposta in discussione da molti anni e cioè quella dell'introduzione progressiva di un sistema di mutualità integrativa per le prestazioni non finanziabili dal Ssn con regole certe ed eque. A riguardo dovranno essere incentivate sperimentazioni gestionali e partecipazione del privato. 4. Governance clinica e formazione che rivaluti il ruolo del medico come professionista, che migliori il rapporto con i pazienti da considerare al centro del sistema, che riveda il meccanismo di nomina dei dirigenti sottraendoli alle logiche politiche, premiando la meritocrazia e che non ostacoli le possibilità di esercitare la libera professione come accade oggi. In questo ambito assume rilevanza anche la riforma del sistema Ecm che - dopo l'introduzione durante il Ministero Sirchia - necessita oggi di un miglior coordinamento tra le attività accreditate a livello nazionale e regionale, garantendo la qualità degli eventi e permettendo al personale sanitario di detrarre le spese sostenute per la loro formazione continua. Dovrà essere inoltre chiarito il ruolo dei diversi soggetti coinvolti nelle attività formative (ordini professionali, aziende sanitarie, università ecc). 5. Risk management e malpractice sono problemi attuali e fondamentali che incidono sulla funzionalità complessiva del sistema Sanità e che richiedono l'intervento tempestivo del legislatore nazionale con provvedimenti tendenti a: ridurre i rischi per pazienti e operatori; attenuare ed abbreviare i contenziosi medico-legali; identificare responsabili e sistemi di monitoraggio continuo del rischio sanitario e tecnologico, anche attraverso l'istituzione di idonee strutture centrali e periferiche. 6. Le professioni sanitarie non mediche devono essere valorizzate mediante l'auspicata istituzione degli Ordini professionali, la rivisitazione e modernizzazione dei percorsi formativi e l'introduzione dell'attività libero-professionale per tutte le professioni sanitarie. 7. Nuova politica del farmaco che premi l'innovazione e la ricerca dell'industria soprattutto svolta in Italia, favorisca il libero accesso a tutte le terapie e promuova la diffusione dei farmaci equivalenti; il tutto garantendo il rispetto dei previsti tetti di spesa in tutte le Regioni e riducendo gli sprechi ancora esistenti. Particolare impulso dovrà essere dato allo sviluppo delle biotecnologie e di ogni altro sistema innovativo di diagnosi e cura. 8. Cure odontoiatriche gratis ai bambini. Il nuovo quadro epidemiologico delle patologie odontoiatriche nei bambini e le varie iniziative di prevenzione consentirebbe oggi la sostenibilità di un'assistenza odontoiatrica universale e gratuita almeno per tutti i nuovi nati. Da questo ne deriverebbero uno sgravio per le famiglie e una riduzione in futuro della patologia odontoiatrica dell'adulto. 9. Territorio e prevenzione devono essere al centro del sistema in un'ottica di efficienza organizzativa che riduca la spesa, alleggerisca il sistema delle emergenze e migliori la salute della popolazione. L'istituzione sistematica delle unità di cure primarie tra i Mmg così come una stabilizzazione dei loro iter formativi appare prioritaria, assieme a una diffusione su larga scala delle iniziative di informazione ed educazione sanitaria, della telemedicina e del telesoccorso. Ma gli interventi del legislatore dovranno anche tenere conto e valorizzare le attività mediche e veterinarie dei dipartimenti di prevenzione e dei distretti. 10. Le fasce deboli devono essere protette grazie anche a una rinnovata interazione tra servizi sanitari e sociali per i quali si attendono i livelli minimi di prestazioni garantite. Oltre a bambini e anziani iniziative specifiche dovranno essere indirizzate ai disabili, agli immigrati, ai pazienti con patologie invalidanti e ai malati psichiatrici per i quali è necessaria una revisione della legge 180 con rafforzamento dei servizi territoriali ed eventuale creazione di fondi ad hoc per assistenza socio-sanitaria. Un'efficace long term care dovrà essere tenuta in grande considerazione in un contesto di sostenibilità economica del sistema. ______________________________________________________________ Il Sole24Ore 9 mar. ’08 IL CAPITOLO SANITÀ NEL PROGRAMMA DEL PD L'imprenditorialità che fa gioco al Ssn Sanità: più imprenditorialità, meno intrusioni della politica. La Sanità italiana è al secondo posto nella graduatoria dell'Organizzazione mondiale della Sanità: ciò è il frutto dell'impianto universalistico del nostro Servizio sanitario nazionale (Ssn) che garantisce ai cittadini standard generalizzati di assistenza e presenta centri di eccellenza di livello internazionale. Il Ssn è dunque un patrimonio che va valorizzato e rafforzato, correggendo gli squilibri territoriali che limitano il diritto alla salute in alcune Regioni del Paese, specie nel Mezzogiorno, nonché le rigidità organizzative e le lentezze burocratiche che provocano file di attesa e disagi ai cittadini. 1. Modificare - rendendole più trasparenti - le relazioni contrattuali tra Regione e aziende ospedaliere, combinando le soluzioni positivamente adottate in alcune Regioni - finanziamento ex ante di un'offerta equilibrata di servizi sul territorio - e quelle fondate sullo sviluppo di un certo grado di concorrenza tra le strutture, tramite la capacità di attirare pazienti. Questo metodo segnalerebbe alla Regione le strutture migliori e quelle con performances peggiori e aiuterebbe a sciogliere il nodo del corretto rapporto tra management ospedaliero e direzione politica. È necessario poi attuare - in cooperazione con le Regioni - un piano di ammodernamento strutturale e tecnologico della rete ospedaliera, per migliorare i livelli di sicurezza e la qualità delle cure. 2. Il Governo del Pd si impegna a ridurre le liste di attesa, che creano intollerabili differenze tra i cittadini. La legge n. 120 del 2007 ha introdotto il concetto di "urgenza differibile", sulla cui base un cittadino ha il diritto di essere assistito dal Ssn entro 72 ore dalla richiesta, per tutte le patologie che, pur essendo urgenti, non necessitano di pronto soccorso o ricovero immediato. I tempi medi di attesa per una prestazione devono equivalersi nell'attività pubblica istituzionale e in quella libero professionale. 3. Il caso delle nomine clientelari e partitiche nella Sanità è quello sotto il mirino dei media, anche se non è certamente l'unico. Per questo il Pd sosterrà il Ddl predisposto dal Governo Prodi sulla "Qualità e sicurezza del Ssn", che contiene due importanti innovazioni: l'istituzione di un sistema nazionale e regionale di valutazione dei risultati del Ssn, nonché procedure di selezione e nomina del personale amministrativo e medico volte a valorizzare le competenze tecniche e a neutralizzare le interferenze dirette della politica. La politica sceglie il ministro, il sottosegretario, l'assessore alla Sanità, ma non deve scegliere i primari. Attraverso le opportune intese con le Regioni, si deve giungere a modifiche legislative e regolamentari tali da consentire che la nomina dei direttori generali delle Asl sia effettuata attraverso la designazione da parte di una Commissione regionale di tre tecnicisaggi, che procedono alla selezione dei candidati attraverso pubbliche audizioni. Alla fine di questa procedura - e solo allora - interviene la decisione del Presidente regionale. In alternativa, può essere perseguita la strada di un albo nazionale garantito da rigorose procedure concorsuali pubbliche, dal quale le singole Regioni potranno scegliere le persone più adatte in base a un rapporto fiduciario. 4. Gli italiani spendono di tasca propria almeno 25-30 miliardi di euro per servizi e prestazioni sanitarie che acquistano sul mercato, specie in aree come l'odontoiatria. È quindi necessario operare per lo sviluppo di un pilastro realizzato su basi complementari, anche attraverso un patto con sindacati e imprese per favorirne l'inserimento nella libera contrattazione. In particolare, è opportuna la creazione di un Fondo odontoiatrico promosso dal pubblico e contribuito volontariamente dai cittadini. Due gli effetti positivi: il Fondo avrebbe maggior potere di acquisto delle prestazioni odontoiatriche, facendone abbassare il costo di mercato; e i contributi godrebbero di sgravi fiscali, rapidamente coperti dalla emersione. Gli enti locali che lo volessero potrebbero finanziare la contribuzione al Fondo per le categorie "deboli 5. È indispensabile una forte iniezione di innovazione nel sistema. A esempio, con la telemedicina: un grande programma di diffusione di tecnologie, in grado di far dialogare il cittadino con le strutture e con i professionisti, per quanto possibile, da casa, facendo muovere le informazioni invece dei pazienti. Si devono far dialogare i professionisti per raggiungere efficacia ed efficienza nelle prestazioni fornite, valorizzando la medicina di base come serio e reale filtro verso le prestazioni ospedaliere. È necessario, per le persone affette da "malattie rare", accrescere l'impegno per la ricerca e per iniziative specifiche, quali: best practices cliniche in materia di riabilitazione, riconosciute a livello internazionale; intervento multidisciplinare a favore del singolo paziente; promozione di centri di eccellenza nazionali di riferimento per le singole patologie; valorizzazione delle associazioni di pazienti come interlocutori istituzionali.